La sintassi del regime

LA SINTASSI DEL REGIME

di Vincenzo Consolo

«L’ idea di questa gente era di distruggere tutto quanto di fine e di delicato vi era stato in una tradizione poetica di più di sei secoli, deridendo la democrazia, applicavano alla letteratura i metodi più violenti della demagogia. Se ci fossero stati degli usignoli a cantare nei boschetti immortali del Petrarca e del Leopardi, essi li avrebbero fatti tacere uccidendoli». «Questa gente», «essi», gli uccisori degli usignoli, chi sono? Sono i Futuristi, i seguaci di quel movimento letterario d’avanguardia «inventato» da Tommaso Filippo Marinetti. E il brano sopra riportato è tratto da Golia – Marcia del fascismo di Giuseppe Antonio Borgese. Autore di saggi e di romanzi, fra cui il celebre Rubè, Borgese nel 1931 va esule, per antifascismo, negli Stati Uniti, dove scrive appunto Golioath in inglese. In questo saggio, lo scrittore analizza la situazione sociale e il clima culturale degli anni Venti in Italia per cui è nato il Fascismo, per cui è assurto al potere, imponendo la sua dittatura, un omuncolo, un piccolo borghese di nome Mussolini. Con la crisi economica succeduta alla prima guerra mondiale, con i conflitti sociali, gli scontri tra capitale e lavoro, con la crisi delle ideologie, con l’insorgere di nuove metafisiche, misticismi di segno nero e bianco, si coniugava il decadentismo culturale, l’estetismo languido ed estenuato di Gabriele D’Annunzio. Ma il prezioso drappo bizantino del languore e dell’estenuazione nascondeva l’aggressività, la ferocia, la voluttà della guerra, del sangue e della morte. D’Annunzio forniva a Mussolini e alla piccola borghesia italiana la terminologia barbarica e guerresca del fascismo. «Ehia, ehia, alalà!» era l’urlo delle masse ottuse e ignoranti. Parallelamente e specularmente al dannunzianesimo sorgeva il Futurismo di Marinetti. Questo italiano avventuriero della cultura, da Alessandria d’Egitto approdava a Parigi, dove pubblicava sul Figaro, nel 1909, il primo Manifesto del Futurismo e quindi, l’anno dopo, il Manifesto della letteratura futurista. Nei due Manifesti, Marinetti teorizzava la distruzione della lingua logico-comunicativa, scardinava lessico, grammatica e sintassi riducendo la scrittura a fragoroso balbettio monosillabico, esaltava il dinamismo, i miti della violenza e della guerra (Guerra sola igiene del mondo scrisse), il mito del Fascismo e della dittatura. Questo nefasto personaggio finì i suoi giorni, insieme a Mussolini, nell’estremo rifugio della Repubblica nazi-fascista di Salò. Giuseppe Antonio Borgese, più degli storici, ha dimostrato che il primo sintomo – come la febbre nelle infezioni del corpo umano – dell’insorgere del fascismo, del totalitarismo, è la modificazione della lingua, lingua che, dal fascismo divenuto potere dittatoriale, viene ulteriormente modificata. Così è stato in Italia. Il Fascismo nacque sulle modificazioni linguistiche di D’Annunzio e di Marinetti e, divenuto regime dittatoriale, si preoccupò subito di modificare la lingua italiana interrompendo l’incontro tra lingua colta e lingua popolare o dialettale, reprimendo o prosciugando i due affluenti che avevano arricchito il fiume della lingua italiana fin dalla sua sorgente, dalla sua nascita. Il regime fascista creò così una lingua media piccolo borghese e burocratica da una parte, eroica e ridondante dall’altra. Mussolini impose, col nero di catrame e a caratteri cubitali, sui muri degli edifici pubblici e privati di tutto il Paese, una sua antologia di vuoti motti dannunziani, di slogan guerreschi e retorici. Questo è avvenuto in Italia con il Fascismo. E lo stesso in Germania con il Nazismo, come ci ha insegnato il filosofo ebreo tedesco Viktor Klemperer. Da professore a Dresda ridotto a manovale, continuò a scrivere il suo giornale di linguistica, stese il suo libro sulla Lingua Tertii Imperii, la trucida lingua delle iene naziste. Thomas Mann, che ebreo non era né filologo, abbandonando nel ’34 la Germania per esiliarsi negli Usa, forse per difendersi, oltre che dal Nazismo, dalla modificazione della lingua tedesca e quindi del romanzo, quindi della letteratura, si immergeva, nel viaggio in mare attraverso l’Atlantico, nella lettura del grande archetipo del romanzo europeo, nel Don Chisciotte di Cervantes. Nel libro Una traversata con Don Chisciotte , Mann ci fa scoprire i barbagli di gemme nascoste, i rimandi a testi di autori classici, di Apuleio, di Achilleus Tatios, nel capolavoro cervantino. Ed elogia la lingua del traduttore del Don Chisciotte, lingua che non è certo quella modificata dal Terzo Riech. «Non saprei esprimere fino a qual punto mi entusiasmi la versione di Ludwing Tieck col suo linguaggio sereno, ricco e prezioso dell’età classico-romantica, questo tedesco nel suo stadio più felice». Infelice doveva essere invece lo stadio della lingua spagnola, la lingua di Cervantes, quando nel ’36, all’inizio della Guerra Civile, i falangisti irrompevano all’università di Salamanca e ululavano al rettore, a don Miguel de Unamuno, in una feroce lingua, «Viva la muerte!» E lui don Miguel, rispondeva, «Sento un grido necroforo e insensato», lui, che aveva sciolto un inno alla sua lingua, «…lengua en que a Cervantes / Djòs le diò el evangelio del Quijote». E vorremmo ancora dire, se ne avessimo cognizione, delle modificazioni del russo di Puskin e di Tolstoj in Urss, dei linguisti sovietici, a cui Stalin, che era Stalin, oppose un suo breve saggio. Vorremmo ancora dire di altre modificazioni linguistiche che hanno preluso all’avvento dei totalitarismi, i quali poi continuano a modificare la lingua, modificazioni che hanno annunciato l’età delle catastrofi, il Novecento appena trascorso, il Secolo breve, come l’ha chiamato Eric Hobsbawm. Catastrofi. Sono sì quelle racchiuse tra le due Sarajevo, come scrive Adriano Sofri, l’intellettuale innocente recluso da sei anni in una prigione italiana, ma che vanno ancora oltre la seconda Sarajevo, oltrepassano il Novecento, arrivano a questo nostro terzo Millennio. In questo presente in cui ormai tutte le nostre lingue sono state modificate, in cui sono insorte nuove metafisiche, nuovi misticismi, come negli anni Venti, l’instaurarsi di nuovi totalitarismi. E, prima d’ogni altro, il totalitarismo dei mezzi di comunicazione di massa, che ha il potere di seppellire, nel nostro mondo globalizzato, le parole della verità, di imporci ogni giorno l’impostura, la menzogna. E nel fango della menzogna viene seppellita la libertà di pensiero, la libertà di espressione. Viene seppellita la poesia, viene seppellita la civiltà. Totalitarismo, quello dei media, che è feroce, aggressivo, bellicoso. E mette in campo, come simulacro, come ieri metteva in campo la diversità della razza, la categoria metafisica del Male: questo indica come Nemico, questo urla di voler distruggere con le armi. Ma dietro lo spirituale simulacro, sappiamo – riusciamo ancora a sapere -, che vi è la materialità delle fonti energetiche, l’oleosa, sporca concretezza dell’oro nero, del petrolio. Dietro o sotto le bombe vi sono invece le vite umane, vi sono i corpi fragili degli innocenti. «La guerra, la guerra!» urlata dagli uomini di voce dura, è stata da sempre una barbarie, uno scandalo. Scandalo è stata l’antica guerra narrata da Omero. Ed Efesto, narra il poeta, fabbrica le armi di Achille e scolpisce sullo scudo le scene di guerra, in cui «Lotta e Tumulto era fra loro e la Chera di morte, / che afferrava ora un vivo ferito, ora un illeso / o un morto tirava pei piedi in mezzo alla mischia, / veste vestiva sopra le spalle, rossa di sangue umano». E poi, nel secondo poema, ci fa capire che quello decennale del più umano degli eroi greci, di Odisseo, non è che un viaggio, un nòstos di espiazione della colpa, di rimorso per i morti e per la distruzione di Ilio. «Sei ancora quello della pietra e della fionda / uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, / con le ali maligne, le meridiane di morte, / l’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, / alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio…» Così scriveva Salvatore Quasimodo nel ’47, nel ricordo ancora vivo degli orrori, delle distruzioni, degli stermini della guerra, della notte più fitta d’Europa, del mondo. Dopo i campi di sterminio e Hiroshima, un’altra guerra esplodeva in Corea, ancora stermini si compivano. E Picasso, nel tratto e nella monocromia di Guernica, nella memoria de I disastri della guerra di Goya, dipingeva i grandi cartoni del Massacro in Corea e de La guerra e la pace . E dopo fu il Vietnam, la Bosnia, l’Iraq, la Serbia, la Palestina, l’Afgnanistan… E ancora le bombe sono state puntate contro Saddam Hussein, il raìs di Bagdad, contro il popolo iracheno. Ma bisognerebbe ricordare all’altro raìs, a Bush junior, al presidente monosillabico del paese più potente del mondo, che il tiranno è un uomo senza speranza, che nel suo futuro non ci sono che le Idi di marzo, sul suo cammino i pugnali di Cassio e Bruto e l’ignominia della storia. Bisognerebbe ricordare a Bush II che se qualcuno dall’esterno lo colpisce, il tiranno si rafforza, che l’assalto esterno fa riporre il pugnale ai congiurati, ricordare che, nella sua nera disperazione, nel buio della sua mente, il tiranno vuole soltanto che insieme a lui finisca, si dissolva il mondo intero. «Sono stanco che il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo…» fa dire a Macbeth Italo Calvino nel suo Il castello dei destini incrociati.

13 gennaio  2004 L’Unità  edizione Nazionale (pagina 23) nella sezione “Cultura

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“Storia del bellissimo Giuseppe e della sua sposa Aseneth” di Anonimo

 

Romanzo d’amore e d’avventura

di VINCENZO CONSOLO

Giuseppe, figlio prediletto di Giacobbe e di Rachele, odiato dai fratellastri, venduto a mercanti ismaeliti e finito schiavo in Egitto; oggetto di desiderio della moglie di Potifar, consigliere del faraone, calunniato e imprigionato; liberato e irresistibilmente asceso grazie alle sue facoltà oniromantiche, al potere e alla ricchezza; salvatore dell’Egitto e del suo popolo dalla fame durante i sette anni di carestia, questo Giuseppe, non solo occupa il suo posto importante e singolare nel libro dei libri, nella Bibbia, ma trasmigra in altri libri sacri, dal Talmud al Corano. E da sempre ha acceso fantasie, ha mosso il bisogno di sciogliere enigmi contenuti nel conciso testo biblico, di dipanare e arricchire il racconto originale, di togliere questa figura dalla sua intangibile e impenetrabile corazza di sacralità, di profezia, di missione, di bellezza e di virtù, e umanizzarla, laicizzarla: ha mosso insomma il bisogno di imbastire racconti sul racconto, di scrivere libri sul libro. Da tutta la letteratura orale e scritta mediorientale fino ai cosiddetti pseudepigrafi, fino ai moderni scrittori occidentali, da Goethe a Mann.

In Poesia e verità, Goethe ricorda che, da ragazzo, sulla storia di Giuseppe aveva costruito un’ampia narrazione, che poi aveva distrutto. Scrive: “Questa semplice e spontanea storia (…) si è tentati di completarla in tutti i suoi particolari “.  E Mann, coma ad accogliere l’invito del suo predecessore, dedicò sedici anni della sua vita a riscrivere la storia di Giuseppe, sedici anni a scrivere una tetralogia dal titolo Giuseppe e i suoi fratelli.

Ma c’è, nella biblica storia di Giuseppe, “bello di forma e avvenente di aspetto”, del “casto” Giuseppe, un episodio che più degli altri è conciso, sibillino; più degli altri ha posto problemi di ordine esegetico, religioso.

È l’episodio del suo matrimonio con l’egiziana Aseneth ( matrimonio misto, d’un figlio d’Israele con una straniera) .  Episodio che più degli altri ha acceso quelle fantasie narrative di cui dicevamo.

Così racconta la Bibbia: “E il faraone chiamò Giuseppe Zafnat – Panache e gli diede in moglie Aseneth, figlia di Potifera, sacerdote di On”; “Intanto nacquero a Giuseppe due figli, prima che venisse l’anno della carestia; glieli partorì Aseneth (…) Giuseppe chiamò il primogenito Manasse (…) E il secondo lo chiamò Efraim (Genesi, 41,43).  Su questo episodio s’imbastisce il bellissimo romanzo in lingua greca dei primi anni dell’era cristiana, di autore anonimo, presumibilmente della comunità ebraica di Alessandria.  Il romanzo s’intitola Storia del bellissimo Giuseppe e della sua sposa Aseneth.  Il quale ora, felicemente tradotto da Marina Cavalli e accompagnato da una dotta e appassionata nota di uno dei nostri maggiori grecisti, Dario Del Corno, è pubblicata dall’editore Sellerio.

La storia di Giuseppe in Egitto, il suo matrimonio con Aseneth, è senza dubbio la storia di un emigrato che si integra nel nuovo mondo, col suo potere, fino a impersonarlo anzi, dopo il faraone, fino a cambiare nome, fino a sposare una idolatra. Da questo punto “dubbio” della vita di Giuseppe, che ha gettato un’ombra sul popolo eletto, parte l’indagine di Del Corno, muovendosi tra l’ironia moderna di Mann, che fa bruciare a Giuseppe “incenso davanti a un’immagine del falco Horacte con il disco solare sulla testa” (Giuseppe in Egitto), e l’astuzia della teologia antica, che arriva a trasformare l’egiziana Aseneth nell’ebrea nipote di Giuseppe, figlia di Dina, per mettere in luce la terza via rappresentata da questo romanzo greco: di Aseneth convertita per amore.  Un’opera “al punto di incrocio tra l’apologetica e la fiaba, il romanzo e l’allegoria” scrive Del Corno. Per noi romanzo soprattutto d’amore e d’avventura, nettamente diviso in due parti.

Nella prima, campeggia la stupenda figura di Aseneth, “maestosa e fiorente”, chiusa nello splendore delle sue vesti, dei suoi gioielli, delle sue camere animate dalla virginale presenza delle sette ancelle, in cima alla inviolabile torre in mezzo a un giardino di delizie; di Aseneth che, folgorata d’amore, dopo sette giorni di espiazione con lacrime, cenere e digiuno, “convertita”, risorge a nuova vita e sposa Giuseppe. Nella seconda, tutta azione, intrighi, agguati, battaglie, ferimenti e uccisioni, è il trionfo del bene sul male, di Giuseppe sul figlio del faraone.

 

Romanzo carico di simboli, ora chiari ora indecifrabili; opera che, al di là delle sue ipoteche teologiche, religiose, vive di una sua autentica vita letteraria, di una sua vera poesia.

Da Il Messaggero 15/2/1984

Lingua originale: greco antico
Traduzione di Marina Cavalli
Titolo originale: Πράξεις του̃ παγκάλου ‘Ιωσήφ καί τής γυναικòς αυ̉του̃ Ασενὲθ θυγατρòς Πεντεφρη̃ ‘ιρέως ‛Ηλιoυπόλεως
Nota di Dario Del Corno
4 illustrazioni a colori
Una delle più poetiche storie, imperniate sulla figura di Giuseppe, proliferate dalla tradizione biblica.