PREFAZIONE
Voglio, subito, ricordare, rievocare un tempo, una stagione vicina, ma che appare ormai lontana, quasi remota. Rievocare un tempo in cui in Sicilia, giovani o non più giovani, come raggiunti da un messaggio, si muovevano da città o paesi e convenivano in un luogo per incontrarsi, conoscersi o meglio riconoscersi. Disegnavano o ridisegnavano, quei viaggiatori, nei loro movimenti da un luogo a un altro, in quegli itinerari, in quella convergenza vittoriniana, una nuova mappa della Sicilia, una nuova topografia dello spirito.
Cominciò quel movimento tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nella frattura che la guerra aveva creato, nel vuoto, nello smarrimento e nel vuoto anche per il biblico esodo in quegli anni delle masse contadine dall’Isola, quegli uomini volevano ricreare un’altra mappa, memori di quelle che passate generazioni, in stagioni straordinariamente luminose, erano riuscite a disegnare. Le mappe di Verga, De Roberto, Capuana e le altre di Pirandello, Rosso di San Secondo, Lanza, Savarese e ancora di Borgese, Brancati, Quasimodo, Vittorini…
E fu, il primo e il più attraente punto di convergenza una città nel cuore della Sicilia, Caltanissetta (con Racalmuto e la contrada Noce – un Cutusìu allora di radi alberi, d’aridume e di vento; un collinare Càusu, una Tebìdi girgentana). Il richiamo era Leonardo Sciascia. Attorno a lui – con lo sfondo della casa editrice del commendatore Sciascia, della rivista «Galleria», dei Quaderni di Galleria e della collana di poesia Un coup de dés – erano poeti come Stefano Vilardo e Alfonso Campanile, pittori, incisori. Letti e scelti da Sciascia, pubblicavano nei Quaderni Pasolini, Caproni, Bodini, Roversi, La Cava, Fortini, Cesare Vivaldi, Biagio Marin, Marniti, Volpini, Compagnone, Salvatore Comes, Fiore Torrisi, Antonino Uccello…
Da Racalmuto si andava poi in comitiva ad Agrigento, dove s’incontravano altri scrittori, poeti. E luoghi di richiamo, di convergenza furono ancora Palermo, Bagheria – all’Aspra dove imperava con la sua voce di ferro Ignazio Buttitta –, a Catania, a Siracusa, a Capo d’Orlando, in quella contrada Vina dove modulava i suoi versi Lucio Piccolo, a Lentini, a Enna, a Ragusa, a Mineo…
Anno dopo anno, si tessé allora una trama di consonanze, si stese un registro di appartenenza, un libro contabile dove crediti e debiti appartenevano a un bilancio non solo delle parole, ma soprattutto dei gesti, s’inscrivevano nella spirituale economia dell’insegnamento e dell’apprendimento. E noi, i catecumeni, gli apprendisti, il maggiore debito l’avevamo contratto con quel maestro, con quel grand’uomo e grande scrittore che è stato Leonardo Sciascia. Quest’Isola dei destini incrociati si trasformò poi nel giardino dei sentieri che si biforcano. Giunse per me, per altri, il tempo dell’andare, dell’abbandono dell’Isola, dell’emigrazione in altro luogo. Ma quella trama certo non cessava, s’infittiva anzi, s’arricchiva. S’arricchiva con Bufalino. Le crudeli scomparse, le lontananze, gli esìli, sembra che abbiano arrestato la navicella che scorreva sul telaio, abbiano tagliato quei fili, relegato la trama in altro tempo. Così non è, se ancora tesse e annoda oggi un poeta come Nino De Vita. Il più giovane di noi, egli ha raccolto il testimone di quella stagione, di quel tempo. Un autentico poeta, vero artefice di quel mistero, di quel miracolo che si chiama poesia. Appartato, pudico, da quel suo ònfalo, da quel luogo profondo che è Cutusìu egli ha saputo liberare suoni, parole, ricreare un mondo.
La prima sua raccolta in lingua, Fosse Chiti (Lunarionuovo – Società di Poesia, 1984 e quindi Amadeus, 1989), attirava l’attenzione di lettori avveduti: Raboni, Onofri, Di Grado, Delìa… «Nutrita di buone letture novecentesche (da Sbarbaro, direi, a Sereni), estranea a qualsiasi inquietante proposito di oltranzismo o palingenesi formale, la sua poesia vive di una sommessa, incantevole, ‘inspiegabile’ precisione. Erbe, fiori, insetti sono osservati e salvati con un’impassibilità che nasconde e protegge il battito, il tremore di una sottile febbre amorosa»,1 scriveva Raboni.
Quell’inspiegabile avanzato da Raboni, conoscendo De Vita, il suo teatro, quell’angolo del mondo che si chiama Cutusìu, quella campagna marsalese tra lo Stagnone e il monte, tra Mozia ed Erice, le saline e le crete, e alla luce poi della sua svolta linguistica, del suo primo libretto in dialetto Bbinirittèdda, diventa spiegabilissimo. L’asciuttezza, la scabrosità della parola, la perfetta adesione della parola alla cosa, la precisione non potevano che scaturire dalla conoscenza, e dalla conoscenza l’amore. Poesia, quella, del trasalimento di fronte allo spettacolo del mondo, dello stupore di fronte alla natura, al cosmo. Fra zolle, piante, fiori, insetti, uccelli, cieli e acque, volgere di giorni, di stagioni, l’uomo non compare mai, lo si immagina in quest’universo, nella dura fatica dell’esistere. E qui solo l’occhio del poeta che guarda, nomina e crea. Crea un paesaggio ora edenico ora infernale, rigoglioso e arido, sereno e drammatico. Ci sono echi e temi della grande poesia, dall’antica alla moderna, modulazioni piccoliane come questa: «Scirocco piega il giunco/ a ciuffi sulla spiaggia/ – porta gocce/ salate sui germogli…». E c’è ancora, nella cristallina lingua di Fosse Chiti, nella sua scabra sostantivazione montaliana, quel che Montale stesso dice della lingua catalana del poeta Maravall, di scoppiettare di pigna verde sopra il fuoco. «S’aprono per il caldo/ sull’albero le pigne/ che sono ancora verdi:/ è crepitìo/ come legna che il fuoco/ arde.» La pura lingua di Fosse Chiti sta per aprirsi come la pigna: ha già del resto in sé delle crepe, dei varchi verso un’altra lingua, verso un più profondo suono: giummo, cianciane, graste sono quei varchi.
Del 1991 è il primo libretto che ho ricordato, Bbinirittèdda, e quindi, uno dopo l’altro, puntuali fino al 1998, fino a L’arànci, altri libretti. Libretti che sono in parte confluiti nella raccolta Cutusìu del 1994. Puntuali m’arrivavano a Milano questi libretti e quindi le raccolte, belli, eleganti, preziosi, pubblicati a proprie spese e quasi sempre stampati nelle stesse tipografie Corrao o Campo, rispettivamente di Trapani e di Alcamo, m’arrivavano con su sempre la stessa dedica: «A Vincenzo e Caterina, con affetto, Nino». Messaggi d’affetto m’arrivavano, d’amicizia, luminosi doni di poesia che venivano da quel Cutusio lontano, da quella riva moziese di ricordo e nostalgia.
Quel passaggio dalla lingua al dialetto che era stato un bisogno e una scelta, metteva De Vita accanto a confrères, ad altri poeti in dialetto che per rigore, per ripudio d’una lingua dominata, saccheggiata, s’era fatta impraticabile, metteva De Vita accanto a Zanzotto, Loi, Bandini…
Ci sembrano, questi poeti in dialetto, i veri poeti della fine. Ci fanno pensare a quei poeti e scrittori che presentendo la caduta di Bisanzio, la fine di un mondo, di una cultura – Michele Psello, Anna Comnena, Teodoro Prodromo, Eustazio di Tessalonica… – si misero a scrivere in greco classico, in lingua attica.
«Il dialetto non finirà mai di richiamarci, anche in questo momento in cui molti segni sembrano parlarci della sua morte, alla sua forza di presenza, alla sua insospettata capacità di rinnovarsi, alla sua ricchezza e profondità di parola, al suo riportarci al corpo di noi e delle cose»,2 scrive Franco Loi a proposito della lingua di De Vita. E Siciliano: «I poeti in dialetto, oggi in Italia, sono di una specie singolare. Sono una setta di rivoltati in lotta silenziosa, e pertinace, contro la lingua oleata, vasellinacea, non più colta, che si parla, su sollecitazione di impulsi che passano via etere, dalla Vetta d’Italia a Capo Pachino (…) Voltata la schiena al parlato consueto (…) questi poeti attingono alla sorgiva naturalezza delle lingue materne, e non l’accolgono trascrivendone ingenuamente la nativa purezza: ne fanno oggetto di un culto del tutto espressivo, ne potenziano le squisitezze, le possibilità ritmiche, percussive, come con l’italiano medio a nessuno scrittore riuscirebbe. I dialetti acquistano così una rara, e nuova, elezione d’arte».3
La scelta del dialetto, da parte degli attuali poeti, come lingua altra, come lingua alta, è dovuta al saccheggio e alla consunzione dell’italiano. Essi sì, i poeti, hanno potuto farlo, perché la poesia è lo spazio del monologo, è l’assòlo del coreuta. Il narratore invece no, egli è costretto a usare, oltre quello espressivo, anche il registro comunicativo. Da qui, nella schiera degli sperimentatori espressivi, quella ricerca costante, attraverso commistioni, innesti, digressioni o quant’altro, di una lingua possibile per poter narrare. Un movimento questo dal basso verso l’alto, dai giacimenti di parole altre, che abbiano dignità filologica, plausibilità di significato e di significante, verso la superficie della comunicazione. Impera e imperversa oggi invece una prosa letteraria in quella lingua tecnologico-aziendale o mediatica di cui Pasolini già nel 1961 aveva annunciato la nascita come lingua nazionale. Ancora peggio, si assiste al ritorno di un mistilinguismo di maniera i cui innesti o le cui digressioni appartengono a un dialetto corrotto, osceno, che i media hanno ricreato con intenti comico-grotteschi, e infine oltraggiosi, regressivi. Il neo-dialettalismo dei poeti d’oggi, oggi in cui i contesti dialettali sono pressoché estinti, non è riproposta sentimentale o revanscistica, non è chiusura nel mito: è sprofondamento necessario nella verità seppellita nella lingua originaria, di primo grado, materna, classica, come opposizione alla koiné paterna e sociale, espressione di una società degradata, di violenza e di menzogna. Chiusura, regressione era stata invece in altri tempi la visione pandialettale ed etnomitica di un poeta e scrittore come Alessio Di Giovanni, a cui s’era unito Francesco Lanza. Due scrittori siciliani che poi ingenuamente e fatalmente avevano aderito a quel movimento linguistico-estetico e politico che si chiamò Felibrisme, promosso in Provenza da Federico Mistral. Altra consapevolezza linguistica, e avvertenza dei rischi insiti nei vagheggiamenti dialettali, aveva invece il filologo Pirandello, che a Bonn stendeva quella sua tesi Fonetica e sviluppo fonico del dialetto di Girgenti (ripubblicata ancora nel 1984 dalle Edizioni della Cometa e prefata da Giovanni Nencioni). Per quella consapevolezza, Pirandello poteva mettere tra virgolette le sue opere dialettali, filologicamente perfette, prendere le distanze da quel dialettalismo allora imperante dei Martoglio e dei teatranti catanesi, Angelo Musco in testa, e scrivere poi la sua sterminata opera in quell’italiano controllatissimo, espressivo e insieme fortemente comunicativo.
Noi ci auguriamo che ora uno studente, un filologo di Bonn o di Palermo, si appresti a stendere la sua tesi su Fonetica e sviluppo fonico del dialetto di Cutusìu, della magnifica lingua cutusiese di Nino De Vita.
E a lui ora torniamo, a quel capolavoro di poesia narrativa che è appunto la seconda raccolta Cutusìu. Il musicale attacco proemiale ci dà subito il clima, il tono del suo mondo reale e poetico. «Timpùni assulazzàtu Cutusìu» è il tema musicale che in variazione ritorna, come in Béla Bartók, in altra composizione, nel secondo tempo di Paricchiati.
Inizia, il poema narrativo, con 8 giugno 1950, con il racconto della nascita del poeta. E ricorda certo, questa composizione, Leopardi. «Nasce l’uomo a fatica/ ed è rischio di morte il nascimento./ Prova pena e tormento/ per prima cosa; e in sul principio stesso/ la madre e il genitore/ il prende a consolar dell’esser nato». Per concludere terribilmente: «Se la vita è sventura,/ perché da noi si dura?». Questi versi, sappiamo, sono tratti dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Canto scaturito, apprendiamo dallo Zibaldone, dalla lettura del Voyage d’Orembourg à Boukara del barone Meyendorff, dove si dice di nomadi kirghisi che improvvisano tristi canti contemplando la luna. «Ed io che sono?», fa dire Leopardi al pastore smarrito nella contemplazione, immerso in quell’infinito sereno, in quella solitudine immensa. De Vita capovolge l’interrogatorio leopardiano, dice «Io sono». Da qui l’accettazione umile, «cristiana» diremmo, dell’esistere, del mondo in cui si è trovato a vivere, della solidarietà, dell’amore verso uomini, animali e cose. C’è stupore e tenerezza nella contemplazione del paesaggio, del mondo animato e inanimato, delle creature che in questo mondo si muovono, che con il poeta condividono il destino. La tenerezza e insieme la violenza e il dolore che fatalmente accompagnano la vita, accompagnano le vicende, le avventure, i giochi proibiti degli scagnozzelli di Cutusio. Ricorda, questo mondo d’innocenza, tenerezza e insieme violenza, quello infantile che Dylan Thomas ha narrato in Ritratto dell’artista da cucciolo. C’è poesia e insieme incosciente crudeltà nei giochi di Rriccardu, Cimuni, Filippeddu. C’è amore e dolore, tragedia anche in Àngilu, Bbatassanu, Ggiammitrina, Bbicitedda, Mastru ’Nzinu, in Nuô puzzu e soprattutto in Bbnirittedda.
«Bloccate da uno sguardo attento e severo (non impassibile), le scene della contrada Cutusio o dello Stagnone che fronteggia Mozia e le altre isole presso Marsala, diventano le intermittenti rivelazioni e i casuali affioramenti di una storia che appare intemporale, o circolarmente vòlta alla ripetizione di se stessa (passano solo le vite umane, che più non ritornano come le stagioni)», scrive Pietro Gibellini nella prefazione a Cutusìu. Certo, di creature fragili, precarie è il mondo di Cutusio, della vita che repentinamente si consuma. Come ne I Malavoglia, consumatasi la tragedia, il tempo lineare e impassibile continua a scorrere. Si riaccendono nel cielo di Acitrezza i Tre re e la Puddara, si apre l’alba del nuovo giorno. Ma il pessimismo e la tristezza verghiane qui sono riscattati dai brevi bagliori di gioia e di intensa umanità che quelle vite emettono, legate dal dolore e dalla pietà.
«… ma certo in me s’apriva/ e umile e tremenda/ la voce che da sempre dura/ e che ci lega, ognuno/ di noi, al dolore d’ognuno anche ignorato», ha scritto Lucio Piccolo.4
Un autentico poeta, Nino De Vita, sul quale in tanti ormai hanno appuntato lo sguardo per la novità e la bellezza dei suoi versi. E salutiamo questa pubblicazione di Cutusìu, in edizione non più privata, «clandestina», ma per felice scelta dell’edizione Mesogea di Ugo Magno.
Dicevo all’inizio di quella trama letteraria o di letterati che nel passato in Sicilia si era tessuta. De Vita ne è oggi il più ammirevole continuatore. Sciascia, il maestro di tutti, se avesse potuto leggere gli odierni approdi devitiani di Cutusìu avrebbe sorriso in quel suo modo umano di approvazione e di compiacimento.