Giuseppe Tornatore fotografo Vincenzo Consolo

 

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Bisogna subito dire di Bagheria, paese dove è nato e cresciuto Giuseppe Tornatore, questo regista della seconda generazione dei grandi registi italiani del secondo dopoguerra. Dire di Bagheria e di Giuseppe Tornatore fotografo, della sua fotografia come telemachia, prima educazione artistica, primo passo verso il mondo delle immagini, verso il cinema.
Bagheria, singolare paese, rispetto agli altri paesi di Sicilia per il motivo e per il modo in cui  esso è nato, si è formato. “Bagheria – latino, Bayharia – Siciliano, Baaria (Val di Mazara). Estesissima ed amena campagna, ad oriente del territorio di Palermo, adorna all’ultima eleganza di casine suburbane di signori; lungo sarebbe descriverle, dirò tuttavia delle primarie. E prima occorre l’amplissima villa del principe Butera (…) Sovrastà ad una altura, a mezzogiorno di quella terra, al villa Valguarnera, dove nulla desideri che tenda alla delizia dell’animo; magnifica altresì quella di Aragona né quella di Cattolica, Filingeri, Palagonìa, Lardaria, sottostanno per fabbriche, ornamenti e disegno; sono palazzi degni tutti di grande città”. Così scrive Vito Amico nel suo Lexicon Siculum (1757), tradotto dal latino e postillato da Gioacchino di Marzo (Dizionario Topografico della Sicilia, 1858). E partiamo dunque dal primo che fece costruire la sua villa in quella “estesissima e amena campagna”, il principe Butera. Un emistichio del Tasso, O corte a dio, e una quartina in lingua spagnola faceva incidere sul primo e sul secondo arco di ingresso alla sua villa a Bagheria don Giuseppe Branciforti, conte di Mazzarino e principe di Butera. A capo di una congiura contro il re di Spagna, Filippo IV, e contro i viceré di Sicilia, don Giovanni d’Austria, l’eroe di Lepanto, nel sogno di divenire re di una Sicilia indipendente, tradito e traditore – la sua delazione, insieme a quella del poeta Simone Rao, costò la vita a sei congiurati – il Butera si ritirò in quel sobborgo di Palermo, tra la fenicia Soluto e la greca Imera, si chiuse dentro quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso.

Ya la esperanza es perdita
Y un solo ben me consuela
Que el tempo que pasa y buela
Lleverà presto al vida.

Congiuravano contro il re di Spagna, i nobili di Sicilia, ma frequentavano i poeti spagnoli. Epigrafava la sua villa, il principe di Butera, con versi tratti dalla Galatea di Miguel de Cervantes. Dopo il Butera, come ci dice l’Amico, costruirono  ville nell’amena plaga molti altri nobili, tra di loro in gara di delizia, di sfarzo, fino al rovesciamento nel delirio del barocco, nell’allucinazione pietrificata, nel capriccio goyesco della villa dei Mostri del principe Palagonìa, da cui Goethe, in cerca in Sicilia di una Ellade di luce e d’armonia, si sarebbe allontanato inorridito. Scrive nel suo Viaggio in Italia: “Palermo, lunedì 9 aprile 1787. Abbiamo sciupato tutta la giornata d’oggi dietro le pazzie del principe di Palagonia. (…) Quando il padre del principe attuale costruì la villa, (…) ha concesso libero sfogo al suo capriccio e alla predilezione per il deforme e per il mostruoso”. Certo, per un Goethe che viaggiavo in Sicilia con il metro di Winckelmann in tasca, quella villa Palagonìa non poteva che suscitargli orrore.Le ville di Bagheria. “Di ville, di ville!…di principesche ville” avrebbe esclamato con ironia Gonzalo – Carlo Emilio Gadda, riferendosi a quelle di Lukones, vale a dire della Brianza, ne La cognizione de dolore. Le ville di Bagheria non le hanno certo costruite con le loro mani i nobili, i Gattopardi di Sicilia, il loro progetto villesco, nella loro gara di sfarzo, di lusso, oltre agli architetti, ha attirato là, da Palermo e da altre zone della Sicilia, masse di murifabbri, scalpellini, falegnami, manovali e artigiani, oltre a braccianti, a contadini, per lavorare negli estesi giardini. Gli abitanti di Bagheria,  abitanti al di qua delle ville cinte di gran mura come fortezze, erano, ci dice il Di Marzo, nel 1852 quasi diecimila. E oggi sono più di quarantamila. Al di qua delle alte mura delle ville i cui padroni, i famosi “leoni e i gattopardi” lampedusiani sono per la maggior parte tramontati, finiti per isolamento, dissennatezza o alienazione, al di qua sono nati e cresciuti a Bagheria, tra quello che si chiamava il popolo, gli spiriti più acuti, più intelligenti, gli artisti e gli intellettuali più dotati. Facciamo per tutti tre nomi: il poeta Ignazio Buttitta, il pittore Renato Guttuso e il fotografo-regista Giuseppe Tornatore. E qui vogliamo dire, dell’autore di famosi films, come  Nuovo Cinema Paradiso, Stanno tutti bene, L’uomo delle stelle, La sconosciuta, e altri, e, in fase di produzione, l’ancora inedito Baarìa, di cui qui compaiono immagini delle riprese. La Baaria funestata oggi da quella mala pianta che si chiama mafia, da quelle “iene e sciacalletti” che sono subentrati ai principi e ai baroni delle famose ville. Giuseppe, anzi Peppuccio Tornatore, muove dunque i primi passi per le strade di Bagheria con una macchina fotografica in mano. La Sibilai, le città e i paesi siciliani, per la loro profondità storica, sono stati da sempre interessanti e “urgenti” per i viaggiatori stranieri, per gli incisori prima, incisori come Houel e Saint-Non, e quindi, con l’avvento della fotografia, è divenuta interessante e “urgente” per fotografi stranieri e per gli stessi siciliani. Ai primordi, verso la fine dell’Ottocento, vale a dire, otografano la Sicilia l’inglese Samuel Butler, l’eccentrico autore de L’autrice dell’Odissea, la grande triade quindi dei veristi siciliani, Capuana, Verga, De Roberto, che nella fotografia vedevano confermate le loro tesi letterarie. E ancora i fratelli Alinari, Giacomo Brogi, l’esteta von Gloeden, Giorgio Sommer. Robert Capa, poi, sbarcato nel ’43 con gli Americani in Sicilia, fotografò la Sicilia di quel momento della Liberazione. Vi fu poi la scuola di fotografi palermitani, da Interguglielmi a Giusto e Nicola Scafidi a Enzo Sellerio, a Ferdinando Scianna, a Melo Minnella. A questa scuola e a questa tradizione ha appartenuto il giovane fotografo Peppuccio Tornatore. Scrive Tornatore nel libro Giuseppe Tornatore fotografo in Siberia: “Dopo mesi e mesi vissuti in moviola, al buio, gli occhi eternamente puntati a vedere, rivedere…Ero in questo limbo dell’immaginazione, mentre mi avviavo a concludere il montaggio di La leggenda del pianista sull’oceano, quando un bel giorno, inaspettatamente, la voce nordica e gentile di Alberto Meomartini giunge a insinuarsi come una nota stonata nel quotidiano coro telefonico: “So che da ragazzo lei è stato fotografo. Se la sentirebbe di tornare a fare fotografie?”. Il Meomartini lo invita dunque ad andare in Siberia con la sua Rolleicord. Sono quelle fotografie di una Siberia innevata, quasi desolata, una terra di Dostoevskij o Solzenicyn, ma sono anche foto di bimbi, di donne, di uomini di grande dignità. E poi, in giro per la Russia, Tornatore ha fotografato Mosca, e in giro per il mondo, la Cina, il Giappone, l’America, la Tunisia. Sono foto che in parte compaiono in questa mostra. Ma a chi qui scrive, da siciliano e sicilianista, senza nessuna ombra di regionalismo, interessa molto il fotografo che “da ragazzo” fotografava la Sicilia, fotografava la sua Baaria, Porticello, Palermo, Portella della Ginestra…Sono fotografie degli anni Sessanta-Settanta di una Baaria ancora povera, contadina, ancora non mutata antropologicamente, fuori ancora crediamo dalla contaminazione corleonese: una Baaria priva di ville, ma nobile, ricca di umanità.

Indiscrezioni
Giuseppe Tornatore fotografie
Edizioni Fratelli Alinari 2008

Giuseppe Tornatore e Vincenzo Consolo a Venezia
foto di Giovanni Giovannetti

Giuseppe Tornatore, Vincenzo Consolo world copyright Giovanni Giovannetti/effigie

La cuna del sogno, di Vincenzo Consolo

Quasi tutta l’estate dell’89 Leonardo Sciascia la trascorse a Milano, in un appartamento di via Solferino. Oltre che a dolorose, spossanti cure mediche, quell’uomo paziente e tollerante doveva anche sottoporsi a quotidiane, numerose incursioni di amici e conoscenti, me compreso. Era, insomma, Sciascia – coscientissimo dello stato e dello stadio della sua malattia (e già ne aveva dato, prima di ogni diagnosi medica, esatto ragguaglio nell’appena pubblicato Il cavaliere e la morte) e del suo prossimo fatale esito -, era nella situazione dell’Ivan Il’ic di Tolstoj, da lui del resto, e pour cause, citato nell’ultimo suo racconto, nella sua sotie: ci vedeva sfilare, noi tutti attori dell’assurda commedia che deve apparire la vita a chi dalla vita sa che si sta allontanando, che è sul punto di staccarsi, generosamente sopportando d’ognuno la maschera, il costume, la recitazione, le movenze, tutto il resto. Ma una mattina – una luminosa mattina di fine luglio, in una Milano semievacuata per le vacanze e restituita a una più tranquilla, fisiologica tensione – Sciascia poté assistere a un vero spettacolo: al cinema Odeon di via Santa Radegonda, al film di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso.
Nelle poltrone azzurre, al centro della vasta sala deserta di quell’elegante cinema in uno stile tra assiro-babilonese e liberty, lo scrittore, la moglie e un gruppetto d’amici assistemmo dunque a quella proiezione. Alla fine della quale, riaccesesi le luci, restammo muti e fermi ai nostri posti per la commozione che il film ci aveva dato, ma ancor di più per l’imbarazzo di fronte alla più profonda, e più evidente, commozione di Sciascia. Per il quale quella mattutina e privata proiezione era stata apparecchiata perché egli del film potesse scrivere. E ne scrisse, magistralmente, memorialmente e poeticamente, su un quotidiano (lo scritto, intitolato C’era una volta il cinema, con altri, è confluito poi nel libro Fatti diversi di storia letteraria e civile).
« Un uomo che sta oggi per varcare la fatidica soglia dei settant’anni e che i primi dieci – gli indelebili anni dell’infanzia – ha passato in un piccolo paese, isola nell’isola, della Sicilia interna, senza, in quei primi anni, mai allontanarsene, ha da inventariare ricordi ben diversi per quantità, qualità e significati, di quelli di ogni altro suo coetaneo che quei primi anni li ha passati in città più o meno grandi, in paesi affacciati al mare o toccati da strade e ferrovie di grande transito». Così esordiva. Ora (ma non possiamo prima non fare cenno a quella « fatidica soglia dei settant’anni » che il fato allo scrittore non concesse di varcare), nell’inventario dei ricordi di Sciascia c’è naturalmente anche il cinema (come c’è nell’inventario dei ricordi del giovane regista Giuseppe Tornatore o in quello di suo padre – volendo restare nell’ambito o nell’aura memoriale di un piccolo paese siciliano, che nel caso dei Tornatore è Bagheria, e volendo misurare il tempo per scansioni generazionali).
« … affiorò su un grande lenzuolo alzato in piazza con supporti di fortuna, il primo film che il paese avesse mai visto; … La macchina di proiezione funzionava ad acetilene: alla costruzione di una centrale elettrica nel paese avevano appena cominciato a lavorare. … Per l’elettricità, o in coincidenza col suo avvento, finì nelle zolfare il lavoro minorile, finì l’impiego di asini e muli per la molitura di zolfo e salgemma, l’acqua zampillò dalle pompe invece che venir su secchio a secchio; … E venne il cinematografo. Il piccolo, delizioso teatro comunale diventò (e ne ebbe lenta devastazione) cinema. … Si era, credo, nel 1929. Non ricordo con quale film si inaugurò il cinema: ma ne rivedo, vago e intermittente come nei sogni, dei primi piani con la faccia di Jack Holt ».
La memoria, i ricordi. Quanto più lontani nel tempo, tanto più frammentati, intermittenti come i sogni, come fotogrammi isolati di un film: la memoria come il sogno; il sogno come il film. E quello raccontato da Giuseppe Tornatore con Nuovo Cinema Paradiso non è che la memoria, il sogno del cinema di un fanciullo di un’estrema periferia. O meglio, il sogno, crediamo, del padre del regista trentatreenne, ché l’epoca in cui il film si colloca – come si legge anche nella citazione di una certa filmografia popolare – è del secondo dopoguerra, degli anni all’incirca a cavallo tra il ’50 e il ’60. Rispetto ai quali, un decennio più indietro è collocata anche la mia memoria del cinema (se posso pretestuosamente affiancare memoria a memoria, sogno a sogno). E mentre la memoria riporta Sciascia, con gli esordi e i primordi del cinema a Racalmuto, all’avvento dell’elettricità che libera il paese da tante fatiche e penurie sociali, da tante schiavitù e da immemorabili paure (avvento che avrebbe meritato giusta celebrazione con la messa in scena, al teatro comunale, del famoso ballo Excelsior con i suoi « quadri » de Il genio dell’elettricismo e degli Effetti della Elettricità), la memoria del cinema, dei primi film visti al mio paese sul finire degli anni Quaranta – La corona di ferro e Luciano Serra pilota, Maddalena zero in condotta e Agguato sul fondo, L’eredità dello zio buonanima e San Giovanni decollato -, con i fotogrammi raccattati sotto la finestra della cabina di proiezione del cinemino dell’oratorio dei Salesiani, la memoria mi riporta al tempo dell’arrivo delle truppe americane in paese, periodo in cui, agli spezzoni di pellicola incendiata per gioco si sovrappone l’incendio di polvere da sparo o di miccia bianca e a strisce come tagliatelle, che i soldati, assieme a cartucce e ad altri ordigni micidiali, lasciavano nei luoghi dei loro accampamenti a disposizione di noi ragazzi, per i nostri giochi proibiti.
Di sogni parlavamo. Se da Bagheria – o da Giancaldo, come il paese è chiamato nella sceneggiatura qui pubblicata – e da Racalmuto ci spostiamo verso più grandi città, verso capitali e centri di cultura come Parigi o Vienna; se dal 1929, o dal ’50 o ’40, andiamo indietro nel tempo fino al 1895, vediamo che l’equivalenza film-sogno non è poi così forzata o peregrina: il 1895 è l’anno della nascita, dal padre Louis Lumière, del cinema (del 1899 è L’affaire Dreyfus di Méliès, il primo lungometraggio della storia del cinema); il 1895 è l’anno della nascita, dal padre Sigmund Freud, della psicanalisi (in quest’anno lo scienziato pubblica Studi sull’isteria e cinque anni dopo L’interpretazione dei sogni). Casualità, certo, coincidenze, ma che ci servono intanto ad avvalorare quanto noi vogliamo credere. E pur rischiando di scivolare in psicologismi e in sociologismi d’accatto, non possiamo non dire quanto sia stato socialmente o psicologicamente salutare, più che nelle grandi città, in piccoli paesi come quelli siciliani, dalla vita sociale difficile, accidentata, un sogno vissuto collettivamente come il cinema (il cinema che subentrava così all’opera dei pupi o al contastorie); in paesi in cui le uniche occasioni di comunicazione sociale erano le feste religiose o le elezioni politiche (quando si celebravano).
« Buona sera a tutti! » saluta a voce alta il 1° Vecchio entrando al cinema; e il 2° Vecchio: « Bona salute a tutti! »; e il Pubblico: « Ssssssss! Ssssssss! Silenzio! »; e i Bambini: « Aurr! Aurrrrrr! » facendo il verso al leone della Metro Goldwyn Mayer che ruggisce dallo schermo; e un signore, dalla galleria, che sputa in platea, mentre, di rimando, Voce platea che gli urla: « Cornuto!!! ». E si potrebbe continuare con gli esempi di comunicazione esilarante e liberatoria, dentro il cinema, fuori, nella piazza del paese.
Di cosa parla questa sceneggiatura, questa trama del film di Tornatore? Parla della storia di un cinema di paese, il Cinema Paradiso, distrutto da un incendio, e del ricostruito Nuovo Cinema Paradiso. Ma parla insieme della storia del cinema vista dall’angolazione di una piccola comunità meridionale, che è insieme storia della comunità stessa e storia di singole vite umane: dell’operatore Alfredo che, per l’incendio del cinema, diviene cieco; storia del piccolo Salvatore, orfano del padre disperso in Russia, e della madre, della sorella, dei compagni di scuola… Storia soprattutto dell’educazione sentimentale del bambino protagonista, della nascita del suo « sogno » cinematografico e, cresciuto, del sogno d’amore per Elena: due sogni, sembra dire il regista, in conflitto, dove uno dei due deve soccombere, deve essere sacrificato. E Salvatore, per istigazione di Alfredo – sostituto padre del bambino, guida e maestro di vita e di arte, cieco veggente che scopre nell’apprendista vocazione e talento -, di Alfredo che ambisce a far passare il protagonista dal ruolo artigianale di distributore di sogni (operatore) al ruolo artistico di creatore di sogni (regista), Salvatore sacrifica, in apparenza per fortuito caso, per un involontario mancato incontro con Elena, il sogno d’amore e parte, lascia la famiglia, gli amici, il paese, l’isola e si trasferisce a Roma dove realizzerà il suo sogno d’arte, diventerà regista stimato e affermato. Ritorna, il nostro eroe, nei luoghi della sua infanzia, dopo trent’anni, per assistere ai funerali di Alfredo; ritorna per raccontarci, in una lunga digressione, in totale flash-back, la sua storia, la storia del Nuovo Cinema Paradiso, della sua fine, della fine del cinema.
Una narrazione, questa di Tornatore, altamente metaforica (sta in questo, crediamo, il segno della sua autenticità, della sua universalità), dal tono lirico-evocativo continuamente controllato dall’ironia, aperto spesso a soluzioni, ed invenzioni poetiche. Ma è insieme un racconto di tristezza, di rimpianto per un mondo, per una società che sta perdendo o che ha già perso la capacità e il bisogno, dentro la notte della sala cinematografica, di sognare collettivamente, di ricreare, con l’immaginazione, capire e riscattare, attraverso quelle ombre che si muovono sopra il lenzuolo bianco, la vita. Una società che sta perdendo la notte, il buio, la grotta Platonica dove, sulla parete, nascono le ombre, le illusioni, i sogni, illuminato com’è ormai tutto il nostro tempo da una continua, lattiginosa, elettronica luce indifferente.
In quel giorno di luglio, in quel cinema Odeon di Milano, dove ho assistito con Sciascia alla proiezione del film Nuovo Cinema Paradiso, al riaccendersi delle luci in sala, ho letto, sopra la cornice del grande schermo bianco, questa scritta: « EX TAENEBRIS VITA».
Tenebra, notte come cuna del sogno, del cinema, dell’arte. Arte come memoria, come proiezione della vita.

Milano, 15 aprile 1990