Questa è una serata nobile. Nobile perché è assolutamente gratuita, fatta non tanto in omaggio a me, quanto in omaggio della memoria. Lo scrittore infatti è un custode di memoria.
Molte volte, ad esempio, ci si è chiesti che cosa
significhi la parola Omero. La parola “omeros”, nel greco antico, si
traduce in italiano con la parola “ostaggio”.
E ci si è chiesti il perché di questo significato.
Ostaggio di chi?
Ebbene il poeta, quello che noi chiamiamo Omero,
naturalmente è ostaggio della memoria, della tradizione.
LO SCRITTORE E’ PORTATORE DI
MEMORIA
Tutti gli scrittori dovrebbero essere ostaggi della memoria;
i veri scrittori cioè sono coloro che assolvono al compito di tramandare una
memoria, che è poi memoria collettiva e realtà storica; coloro che esprimono,
secondo la propria sensibilità e le proprie idee, una testimonianza della
memoria, per tramandarla ai loro contemporanei e, se possibile, anche ai posteri.
Un custode di memoria ha l’obbligo di conservarla e di
servirla.
Coloro che scrivono senza essere
portatori di memoria appartengono a un’altra area, quella
del1a comunicazione.
I sapientissimi Greci dissero che Mnemosyne era la madre
delle Muse, e da lei derivano le altre arti: la Poesia e anche la Musica. Quindi
dopo aver ascoltato questa bellissima musica, posso solo dire delle parole
raccontare, narrare, secondo la mia inclinazione e il mio mestiere.
PAESTUM E NAPOLI:
LA BELLEZZA DEL PAESAGGIO
Vorrei partire da Goethe, e raccontare un aneddoto: Egli
si trova a Napoli durante il suo viaggio in Italia e vuole andare a visitare
Paestum. Ci va insieme a un suo amico pittore, che lo accompagna durante il viaggio
che, vero fotografo dell’epoca, ha il compito di prendere degli appunti, da
trasformare poi in incisioni e quindi in illustrazioni a corredo del libro sul
viaggio in Italia.
Arrivano a Paestum con un barroccio, che portava a
cassetta il barrocciaio con un suo nipote, un ragazzotto. Durante il ritorno,
alla vista di Napoli il fanciullo comincia a gridare in modo sconsiderato. I
due viaggiatori se ne preoccupano e gli chiedono: – Cosa hai da urlare? –
Il ragazzotto risponde nel modo più candido e più
allegro: – E’ il mio Paese. Non vedete
Signurì? Quello è il mio Paese. Guardate quant’è bello! –
Questo è un episodio straordinario, perché il ragazzino,
cresciuto tra tanta bellezza com’era allora il golfo di Napoli, avendo visitato
con quegli illustri personaggi la città di Paestum, si accorge che anche il suo
Paese è bello. E quindi gioisce e lo vuole mostrare ai viaggiatori: non c’è
solo Paestum, m a c’è anche Napoli.
E’ un episodio significativo anche nel senso che i viaggiatori
stranieri sono quelli che ci hanno fatto vedere l ‘ “invisibile”.
ITALIA TERRA PRIVILEGIATA
Noi Italiani, da sempre siamo fortunati, perché siamo
nati in una terra estremamente ricca e bella, dal punto di vista storico e da
quello naturale.
Però, vivendo tra tanta bellezza, abbiamo finito per non
vederla più, e sono stati quei viaggiatori, a partire da Montaigne nel ‘500,
per arrivare sino agli ultimi viaggiatori dell’ ‘800 (i nomi sono tantissimi),
che ci hanno fatto scoprire il nostro Paese. Ci hanno fatto vedere quale
preziosa eredità noi avevamo ricevuto dai nostri antenati.
Ci sono pagine di viaggiatori stranieri straordinarie, notazioni
interessanti su questa bellissima Italia.
E’ stato Moravia, grande conoscitore di Paesi ad avere
tracciato una sorta di classifica dei Paesi più belli del mondo. Lui diceva che
i Paesi sono belli quando alla natura uniscono anche la cultura. Allora al primo
posto, naturalmente, metteva l ‘Italia, al secondo, se non vado errato, il
Messico, al terzo la Spagna, al quarto la Grecia, e così via.
Quindi il nostro Paese era straordinariamente
“donato”, “munificato”.
LA SICILIA TERRA DI BELLEZZA E DI
CIVILTÀ
E la Sicilia, già in epoca preistorica, era di
eccezionale bellezza. Poi è stata arricchita da tutte le civiltà, che qui sono
passate per conquistare l ‘isola, m a anche per lasciare i segni della loro
cultura.
Ci sono stati si grandi predatori, come i Romani, ma
anche loro hanno lasciato qualcosa. I Bizantini, oppure, andando indietro, i
Fenici, i Greci. Poi la civiltà musulmana.
Sciascia dice che il modo di essere dei Siciliani, l
‘identità della Sicilia, incomincia proprio con la civilizzazione araba. Quindi
da quel momento, possiamo dirci Siciliani, dopo cioè le ruberie dei Romani e il
depauperamento bizantino.
Con gli Arabi
l’isola impoverita ha conosciuto un grande
rinascimento, durante il quale si è avuto il miracolo dei
sincretismi di religione, di cultura, di lingua.
Palermo, nel primo periodo normanno di Guglielmo il
Buono, era diventata una delle terre emblematiche, dove le varie civiltà, le
varie religioni, le varie lingue convivevano in una splendida armonia, in uno
scambio di cultura e di dono reciproco. Perciò Palermo era diventata forse la
città più bella, competeva con Cordova in Spagna, ed era una città di grandi
commerci, di grandi industrie, anche di grandi traffici. Essa era la tappa
obbligata per tutti i Musulmani andalusi, che dovevano fare il pellegrinaggio
alla Mecca.
C’erano a Palermo trecento moschee, c’erano altrettante
giudecche, perché vi era anche l ‘elemento ebraico, accanto alle popolazioni
più varie. C’erano barbari, spagnoli, africani, tutti con le loro usanze. Ma
tutto questo si era amalgamato e aveva formato una grande civiltà.
In più c’era lo sfondo di quella meravigliosa valle in cui
era stata costruita Palermo, che i Fenici chiamarono “Ziz” (fiore).
LA CONCA D’ORO
E’ un luogo a ridosso di una catena di montagne che lo
preserva dai venti africani, e che si stende sul mare in un clima di
eccezionale mitezza, che ha permesso il formarsi di quella famosa plaga che si
chiama la “Conca d’Oro”.
Qui furono costruiti quei meravigliosi gioielli che furono le ville, prima dei Mussulmani e poi dei Normanni. Le Ville di “delizie” come la grande Cuba, la piccola Cuba, la Zisa, la Favara, che erano tutti luoghi di villeggiatura.
Palermo era il simbolo di quello che è stata la Sicilia
fino a non molti anni fa. Era una delle terre più belle della terra più bella
del mondo, che era l ‘Italia.
LE CAUSE DELL’ ODIERNO DEGRADO
Questa terra hanno finito per distruggerla. Benché noi
abbiamo imparato dai viaggiatori stranieri a vedere l ‘invisibile e ad
apprezzare questo luogo, questa dimora vitale, tuttavia ci siamo comportati
anche come altri stranieri, che non erano più intellettuali, ma conquistatori
che depredavano e portavano via. Si pensi alle depredazioni che hanno fatto i
Tedeschi, gli Inglesi, i Francesi in Egitto o in Grecia. Tutto quello che hanno
portato nelle loro nazioni, depauperando queste terre di testimonianze della
loro civiltà e di grandi monumenti.
Ecco, noi ci siamo trasformati nella nostra terra in
predatori.
La ricchezza che avevamo abbiamo finito per rapinarla, a
volte anche per trasferirla altrove, come certi quadri, o certe colonne, e a
volte perfino semplicemente per distruggerla sconsideratamente.
Hanno distrutto l’ambiente, hanno distrutto i monumenti.
Tutto questo è avvenuto durante la guerra, con i bombardamenti,
ed è continuato nel dopoguerra, ma io credo che la distruzione principale è
avvenuta negli anni ’50 – ’60, con il cosiddetto miracolo economico, quando si
cominciò a ricostruire e si costruì nel modo più anarchico e più insensato,
senza alcun rispetto per l’ambiente in cui le nuove costruzioni nascevano.
Giustissima la ricostruzione, però è stata fatta nel modo
più avvilente e di conseguenza è stato distrutto quello che costituiva la
“bellezza”.
LA BELLEZZA COME CATEGORIA ETICA
La bellezza non è una categoria estetica, bensì morale. Non
è
bello cioè quello che appaga soltanto il nostro senso estetico,
ma è bello quello che soprattutto appaga anche la nostra anima.
Pirandello diceva che noi siamo quello che vediamo nei
primi anni della nostra vita. Se abbiamo avuto la fortuna di vedere luoghi
belli, io credo che la nostra crescita, il nostro sviluppo morale ed
intellettuale sarà diverso da quello di un bambino che nasce in un luogo con un
orizzonte devastato, orrendo e brutto.
Questi segni esterni fatalmente si proiettano nel nostro
interno e uccidono la nostra memoria.
Ci sono tantissimi scrittori che hanno parlato appunto
della bellezza come moralità, ma c’è soprattutto uno scrittore che voglio
ricordare particolarmente, che è Vittorini.
L’UTOPIA D I VITTORINI
Vittorini, nel libro
postumo che si intitola “Le città del mondo”, fa equivalere la
bellezza all’armonia sociale, intesa come base della democrazia, dove ognuno ha
rispetto dell’altro. Ne libro parla del viaggio che fanno alcune coppie di una
Sicilia in movimento, quando sembrava che l ‘isola dovesse togliersi di dosso
quella condanna del fato, di memoria verghiana. Vittorini, che era un
“antiverghiano” e che pensava che la Sicilia dovesse scuotersi da
questa condanna del destino e che dovesse prendere un atteggiamento attivo nei
confronti della storia, scrive questo libro alla fine degli anni ’50 (senza
riuscire a finirlo), dove c’è una Sicilia che parte per diversi itinerari di
vita. C’è ad esempio una ragazza che scappa da Milazzo, dei ragazzini che
scappano dalle Madonie, e partono senza una meta precisa, comunque
rappresentando una Sicilia che non sta pili seduta all’ombra a sonnecchiare, ma
è una Sicilia in attesa di un evento straordinario.
In quegli anni era stato scoperto il petrolio e s’erano
accese tante speranze. Vittorini aveva visto da vicino l’esperienza olivettiana,
di quel grande industriale e insieme sociologo, Adriano Olivetti, imprenditore
illuminato, che aveva creato un’industria a misura d ‘uomo. Vittorini s’era
entusiasmato di questa idea, che sembrava realizzare un sogno straordinario e
quindi aveva pensato che in Sicilia potesse avvenire qualcosa di simile. Che
cioè si sarebbe potuto lasciare alle spalle il vecchio mondo contadino, di
rassegnazione, di pena, d’ignoranza, di malattie, e finalmente con la
industrializzazione si potesse fare diventare il Siciliano protagonista della
storia.
Ma senza l
‘avvilimento, senza quella schiavitù che di solito l’industria comporta nei
confronti dei lavoratori. Lo sfruttamento, l’alienazione, quello che aveva
analizzato un signore, che Tomasi di Lampedusa chiama: “un ebreuccio di cui non ricordo il nome”, e che noi
invece ricordiamo benissimo e si chiama Carlo Marx.
Vittorini pensava nella sua utopia che ci potesse essere,
al di là del conflitto tra capitale e lavoro, un tipo di industria illuminata, dove
l ‘operaio, il bracciante, il lavoratore non venisse oppresso e non venisse
sfruttato. Utopia che si è infranta contro gli scogli della storia.
IL SICILIANO PROTAGONISTA DELLA
STORIA
Questa immagine vittoriniana di una Sicilia che rinasce,
di quella che Lui chiamò la Lombardia siciliana, lo portò a disegnare una sua
geografia lombarda in terra di Sicilia, rifacendosi appunto agli eredi degli
antichi insediamenti lombardi qui in Sicilia.
Parlava dei paesi di lingua lombarda, come San Fratello, Nicosia, Aidone,
comunità che si formarono con la conquista dei Normanni dopo la dominazione
araba.
Egli diceva che le città belle, come Caltagirone, come
Noto, creano armonia sociale, creano fantasia e mettono l’uomo in un
atteggiamento attivo e non più passivo nei confronti della storia. L’uomo deve
diventare protagonista.
Ora l ‘utopia economicista o politica di Vittorini io credo
che si sia infranta completamente, visti i risultati delle esperienze del
petrolio a Gela o ad Augusta. Resiste invece la sua idea dei luoghi belli che formano
l’uomo, lo migliorano e lo arricchiscono, mentre i luoghi brutti mortificano l
‘uomo, lo portano verso la malinconia, la depressione e a volte anche verso una
ribellione sconsiderata ed irrazionale, che degenera nella violenza.
LA DENUNZIA DELLE DISTRUZ IONI
La storia siciliana degli ultimi cinquant’anni di distruzione
dissennata ha avuto inizio con l ‘abbandono delle campagne e la trasformazione
dei nostri paesini e delle nostre città. Allora vi sono stati uomini che hanno
cominciato a denunciare queste perdite, non tanto come distruzioni materiali,
quanto per i riflessi morali e sociali che determinavano sulle persone e sulle
popolazioni.
Voglio ricordare Antonio Cederna, un urbanista che per
anni cd anni è stato un a voce clamante nel deserto, inascoltata, che ha
parlato e ha scritto prima sulle pagine de “Il Mondo”, poi su quelle
di “Repubblica”, delle devastazioni, dei gravi stupri (mi si perdoni
la parola forte), che avvenivano sul territorio del nostro Paese.
Voglio ricordare un poeta come Pasolini, che con le sue
bellissime metafore, come “La scomparsa delle lucciole”, voleva
simbolicamente segnalare questo mutamento nella Società.
Voglio ricordare un poeta come Andrea Zanzotto, che
lamentava l’”avvelenamento” dell’Eden veneto dove lui abitava, quando
i contadini hanno iniziato a mischiare veleni chimici alle sementi introducendo
una terribile alterazione ecologica.
Poi anche uno scrittore come Guido Ceronetti, che ha
scritto due libri che sono un po’ la continuazione del libro di Guido Piovene
“Viaggio in Italia”.
Però al tempo di Piovene, come al tempo del viaggio di un
altro scrittore, Riccardo Bacchelli (narrato in “Lo sa il tonno”),
ancora le perdite e le distruzioni non erano avvenute, e quindi loro scoprivano
soltanto le bellezze dei luoghi che vedevano per la prima volta.
Pensiamo ai luoghi più belli e più simbolici del cuore d ‘Italia,
quelli che pochi giorni fa hanno subito nell’Umbria e nelle Marche un terremoto
catastrofico. Pensiamo ai luoghi che abbiamo perso, alle ferite arrecate a
monumenti come la Basilica di S. Francesco, che sono delle ferite emblematiche
che in un certo senso ci dicono del nostro continuo scadimento.
In questo caso è stata la natura a determinare la distruzione,
ma in altri casi sono gli uomini ad apportare queste ferite.
Torniamo a Ceronetti che, con il precedente di Piovene,
ha scritto due libri, uno intitolato “Un viaggio in Italia” e l
‘altro “Albergo Italia”.
QUANDO LA DENUNZIA E’ REAZIONARIA
Ceronetti è un uomo singolare, di vastissima cultura, che
conosce l’ebraico, ma è un uomo che pensa che la soluzione per questo mondo di
oggi non sia altro che l’apocalisse, che finalmente potrà cancellare tutto per
ricominciare daccapo.
Egli compie il suo viaggio in Italia partendo dal veneto,
Torino, Milano, Roma, arrivando anche nei paesi più sperduti, sino in Sicilia,
dove visita Siracusa, Acitrezza, Noto, Palermo. In termini molto violenti, da
invettiva, registra le brutture che incontra, ma il suo discorso, proprio per
le sue concezioni così radicali ed apocalittiche, così tese ad aspirazione
metafisica, a volte diventa reazionario.
Io credo che quando si denunziano i mali della Società,
pur nell’invettiva, occorre sempre affermare che tutto si può rimediare, perché
la storia la fanno gli uomini e non c’è bisogno di aspettare l’azzeramento
totale, che postula pure l ‘offesa della vita.
Ceronetti arriva anche a declinare temi razzistici. C’è
una descrizione nel suo viaggio dell’incontro che ha in treno con un gruppo di
emigrati arabi. Li guarda, devo dire, con molto disprezzo. Arriva a usare
espressioni razzistiche quando afferma che dove loro passano infettano tutto,
rovinano e degradano tutto, dando la colpa a questo estraneo che viene nel
nostro contesto e sembra essere la causa prima del nostro degrado.
IL MIRACOLO ECONOMICO
E L’ORIGINE DELLO SVILUPPO
DISTORTO
In Ceronetti c’è un punto di vista discutibile. Lo
scrittore infatti viene da Torino e scrive sulla “Stampa”, che è di
proprietà del Sig. Agnelli. Nei suoi libri non mette mai in discussione queste
matrici prime dei mali italiani. Insomma, questo Paese è stato disegnato su
misura per le automobili e tutto il resto è avvenuto di conseguenza. Una certa
industrializzazione ha portato lavoro, è vero, ma non si è mai studiato se
potevano esserci delle altre dimensioni e direzioni dello sviluppo.
Con il miracolo
economico italiano si è distrutto quella che era la cultura contadina e si è
puntato solo sulla industrializzazione. Questo intendo quando affermo che il Paese
è stato disegnato su misura per l ‘industria FIAT, con tutto il processo di
emigrazione interna e di spostamento, che hanno chiamato “esodo”, di
masse di braccianti meridionali verso il nord. Ne è scaturito un processo massiccio
di inurbamento con costruzioni caotiche, veloci, repentine, per dare alloggi
nelle periferie delle città industriali. Anonime, atroci, definite dormitori, che
sono luoghi senza anima.
DEGRADO AMBIENTALE E DECADIMENTO
MORALE
E’ inutile meravigliarsi se in simili luoghi i giovani
possono avere problemi di ordine psichico, se possono scegliere di uccidersi
con una iniezione procurata dai trafficanti di droga, o di compiere atti
irrazionali e violenti.
L’ambiente degradato porta alla distruzione dell’uomo,
porta al degrado morale.
Per finire questa mia conversazione un po’ vagante di qua
e di là,
voglio leggere un pensiero di un famoso etologo, Konrad
Lorenz, contenuto negli “Otto peccati capitali della nostra civiltà“:.. Il senso estetico e quello morale
sono evidentemente strettamente collegati,
e gli uomini che sono costretti a vivere nelle condizioni sopra descritte vanno
chiaramente incontro all’atrofia di entrambi. Sia la bellezza della natura sia
quella dell’ambiente culturale, creato dall’uomo, sono manifestamente
necessarie per mantenere l’uomo psichicamente e spiritualmente sano. La totale
cecità psichica di fronte alla bellezza in tutte le sue forme, che oggi dilaga ovunque
così rapidamente, costituisce una malattia mentale che non va sottovalutata, se
non altro, perché va di pari passo verso tutto ciò che è moralmente
condannabile. “
Se noi perdiamo la nostra sensibilità verso la bellezza
perdiamo anche la sensibilità verso tutto quanto è orrore e azione ingiusta
dell’uomo, la violenza, l’ingiustizia, perdiamo la capacità di reagire contro
le offese arrecate alla civiltà stessa.
PER LA DIFESA DELLA BELLEZZA
Volevo ricordare un ‘iniziativa che, a un certo momento,
ho deciso di prendere insieme ad altri tre intellettuali, come il sen. dei
Verdi Luigi Manconi, la poetessa Viviane Lamarque e il giornalista Vittorio
Emiliani.
Ci siamo fatti promotori della difesa della bellezza, o
di quello che rimane della bellezza in questo Paese, invitando altri
intellettuali ad aderire. Subito hanno aderito cento altri intellettuali
italiani, per cercare di salvare la bellezza residua della nostra terra.
Ho cercato di spiegare il valore della bellezza, che non
è un fatto estetico, ma un fatto etico ed è anche un debito di eredità verso le
generazioni che verranno. Si è incominciato a fare qualcosa, ci siamo riuniti
la prima volta a Roma, si sta scrivendo un programma, si dovranno scegliere tre
monumenti emblematici dell’Italia settentrionale, dell’Italia centrale e
dell’Italia meridionale.
Ognuno di noi dovrà perorare la causa di un monumento
storico.
Per quanto mi riguarda ho scelto Noto, che è un paese che
sta crollando. Non è crollata solo la cupola della cattedrale, ma sta crollando
l’intero paese, pur essendo sotto la protezione dell’UNESCO. Finora non si è
fatto niente, sono stati messi soltanto tubi Innocenti a puntellare i monumenti.
Se Noto crollasse sparirebbe uno dei segni, non solo
artistici, ma anche storici di quella che era stata la progettazione ex novo di
quella insigne città.
PER IL RECUPERO DEI LUOGHI BELLI
I primi segni di ripresa
di un percorso valido si sono avuti da parte del Governo italiano e da parte
delle Amministrazioni comunali, con la demolizione di due mostri che erano
stati costruiti: uno al la periferia di Napoli che chiamano “Le Vele”
e poi un albergo abusivo sulla costa amalfitana.
Dunque ci sono già i segni del ripristino. Siamo stati
depauperati del paesaggio. Adesso è ora che si distruggano quei mostri, draghi
che bisogna abbattere.
Spero che si possa andare avanti in questo progetto di
eliminazione di orrori, per rendere più vivibile questo nostro paesaggio,
questo nostro ambiente.
Cercare di far rinascere la Conca d ‘Oro, cercare di far
rinascere la Piana di Milazzo, per quanto compatibilmente oggi si possa fare,
cercare di recuperare dei beni che c’erano e che abbiamo perduto.
Credo che questo sia compito di noi oggi riuniti in
questo scorcio del secondo millennio, e faccio questo augurio a mc stesso, di
poter vedere il paesaggio in qualche modo ricompensato, e a noi stessi di
essere in qualche modo ricompensati delle terribili perdite che abbiamo
sofferto.
SIAMO FIGLI DELLA CULTURA
La Legambiente è nata con questo scopo per la salvaguardia
del mondo, della natura e anche dei monumenti. I suoi aderenti sono un poco
come dei soldati che si impegnano contro i tentativi di perpetuare le offese.
Considero questa bella serata come omaggio a Omero, poeta
della memoria. Ho avuto la sorte di vivere a cavallo tra la civiltà contadina e
la civiltà industriale, che ho visto nascere, e poi tra due luoghi estremi come
la Sicilia e Milano, sono stato testimone di una grande trasformazione e quindi
ho cercato di conservare la mia memoria e di trasferirla agli altri che mi
leggono o mi leggeranno.
Reputo questo omaggio a me, come un omaggio alla memoria e
ai suoi custodi, siano essi scrittori, musicisti, o chiunque non abbia il vuoto
dietro le spalle.
Noi non siamo figli di nessuno. Noi siamo figli della
Cultura e ci portiamo dentro dei segni. Cerchiamo dunque di non farci cancellare questi segni dai barbari, dagli
imbecilli o dai violenti.
di Ada Bellanova Fornire una definizione del Mediterraneo non è un compito semplice. Mare – e contesto – in perenne trasformazione, come dimostra la sua storia ecologica, esso resiste ad ogni generalizzazione1 . Si può certamente tentare la strada della determinazione strettamente geografica ma si deve riconoscere che a poco serve dire che si tratta di un mare semichiuso su cui si affacciano vari popoli, diversi tra loro eppure simili per la loro posizione e per la condivisione di problemi e risorse. Si deve poi ammettere che il cosiddetto ecosistema mediterraneo ha subito trasformazioni profonde nel corso dei millenni: eliminazione di boschi e foreste, aumento della popolazione, sfruttamento delle risorse, mutamenti climatici, cambiamenti di fauna e flora2 . Le trasformazioni, tra l’altro, contraddistinguono anche la storia della rappresentazione. L’idealizzazione del passato classico che ha sedotto innumerevoli viaggiatori non esiste più e il Mediterraneo si rivela contesto dalle molte facce, non facilmente assimilabile al solo mondo europeo o occidentale3 . Perciò, come tentare una definizione? Cos’è veramente mediterraneo? Se la politica europea contemporanea ha ridotto la questione al problema della frontiera, al rischio di nuove invasioni barbariche4 , ragion per cui il mare è diventato spazio delle indesiderate migra- 1 La complessità del Mediterraneo è centrale nei recenti studi di Mediterranean ecocriticism. Si veda a proposito S. Iovino, Introduction: Mediterranean ecocriticism, or a Blueprint for Cultural Amphibians, in “Ecozon@”, 4.2, 2013, pp. 1-14, in particolare a p. 4. 2 Ibidem. La Iovino propone il caso dell’importazione di tutta una serie di piante e prodotti nel regno della vitis vinifera e dell’olea europaea, con conseguente profondissime sullacosiddetta dieta mediterranea (si pensi a pomodoro, riso, caffè ecc.). 3 Ivi, p. 5. 4 Si veda a proposito il saggio di C. Resta, Geofilosofia del Mediterraneo, Mesogea, Messina 2012. Sul Mediterraneo come confine,frontiera anche A. Le- zioni di masse di disperati, tra cui possono nascondersi pericolosi attentatori, e luogo di inevitabile sepoltura, un vero cimitero, di quanti non arrivano a compiere la traversata a bordo di gommoni e imbarcazioni di fortuna, gli intellettuali hanno mantenuto il Mediterraneo al centro di un vivace dibattito culturale. Dibattito che prova a mettere in discussione gli stereotipi. Rischiose sono infatti le immagini rassicuranti dell’idillio naturalistico e della civiltà dell’accoglienza da una parte oppure, all’estremo opposto, quelle fosche della violenza e della sopraffazione. Da una parte il paradiso turistico a buon mercato, le spiagge seducenti, l’esotismo della porta accanto, dall’altra quello della mafia, dell’estorsione, della corruzione delle classi dirigenti, della mancanza di sicurezza, dell’estremismo. L’una e l’altra immagine non sono che la faccia legale e quella illegale dell’inserimento subalterno del Sud nel mondo dello sviluppo, ai suoi margini, “laddove i modelli seducenti proposti dalle capitali del Nord-ovest si decompongono fino a diventare deformi”5 . Tali riduttive determinazioni trascurano la reale complessità del Mediterraneo, che, non a caso, Braudel tenta di definire nel segno della molteplicità e con l’espressione “crocevia eteroclito”6 . Questo spazio, quindi, non consiste soltanto in una teoria di paesaggi, addirittura non lo si può dire neppure mare unico, perché esso è piuttosto un insieme di mari. Nemmeno si esaurisce nell’elenco di tanti popoli diversi perché essi sono entrati spesso in relazione, avvicendandosi su uno stesso spazio o su spazi confinanti, si sono mescolati, hanno plasmato il territorio, anche come spazio dell’immaginazione, e continuano a farlo, rendendo impossibile una reductio ad unum. Ragion per cui Matvejevic può affermare che non esiste una sola cultura mediterranea, ma ce ne sono invece molte, caratterizzate da tratti simili e da differenze, mai assoluti o costanti7 . ogrande, La frontiera, Feltrinelli, Milano 2017, che indaga sulla condizione dei migranti. 5 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996, pp. 3-4. 6 F. Braudel, Mediterraneo, in Id. (a cura di), Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, pp. 7-8. 7 P. Matvejevic, Il Mediterraneo e l’Europa, Garzanti, Milano 1998, p. 31. Si veda anche Id., Quale Mediterraneo, quale Europa?, in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli Milano, 2007, p. 436: L’incontro ha sempre comportato delle criticità, in primis una diffusa e pressoché costante conflittualità8 : come scrive Braudel, “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”9 . Ma il contesto mediterraneo non si configura solo come spazio di guerra: nei secoli le civiltà dominanti non hanno potuto cancellare del tutto quelle sottomesse; si sono sempre attivati meccanismi di contaminazione, dialogo, stratificazione. Allora forse la sua “essenza profonda”10 sta nell’esempio che esso può offrire della convivenza tra culture differenti. Solo tale approccio all’alterità può permettere al Mediterraneo, “mare tra le terre”, di essere non confine, limite, ma luogo di relazione e di incontro11. Il problema è anche di politica europea, o dovrebbe esserlo, non solo per il timore della violazione da parte dei migranti. Il legame tra Europa e Mediterraneo infatti esiste, sebbene venga sistematicamente messo in ombra dalla prevalente prospettiva mitteleuropea, ritenuta vincente dal punto di vista economico12. Considerare la “via” mediterranea significa, secondo Franco Cassano, valorizzare le differenze, la varietà che l’ossessione di uno sviluppo a tutti i costi nega. Significa porsi il problema della gestione degli spazi, laddove gli spazi ospitano un patrimonio “verticale”, incredibilmente stratificato, e quello della cura dell’ambiente e del paesaggio, impedendo che questi siano solo preda dell’abusivismo selvaggio. Significa affrontare la questione dello scambio e della convivenza tra vecchi e nuovi abitanti. Ciò va fatto, ed è un’opportunità, non solo per “custodire forme d’esistenza diverse da quella dominante” ma anche per “tutelare la stessa modernità dal suo avvolgimento in una spirale senza ritorno” 13. “l’insieme mediterraneo è composto da molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici”. 8 P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, trad. it.di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1993, p. 19. 9 F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922. 10 Id., Mediterraneo, cit., p. 9. 11 Ancora Braudel a proposito della definizione del Mediterraneo come grande strada per trasportare uomini e merci (Id., Storia, misura del mondo, cit. p. 105). 12 F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 20-24. 13 Id., Il pensiero meridiano, cit., p. 7. Ma si veda anche Id., Paeninsula: l’Italia da ritrovare, Laterza, Roma 1998, pp. 10-11.
1. Lo spazio mediterraneo per Consolo
La scelta di Norma Bouchard e Massimo Lollini di seguire il criterio della mediterraneità nell’antologia del 200614 riflette la centralità dell’interesse di Consolo per la “lettura e la scrittura” dello spazio mediterraneo15. Andando oltre gli stereotipi, la linea interpretativa e rappresentativa dell’autore evidenzia tormento e ricchezza di un contesto complesso, che rifugge qualunque generalizzazione. Parlare della questione e dello spazio mediterraneo significa per Consolo parlare del Sud e, in particolare, della Sicilia. La riflessione sulla complessità del Mediterraneo si innesta dunque sulle considerazioni a proposito della varietà e della molteplicità che caratterizzano la storia, l’ambiente, il patrimonio siciliani. Estremamente significativo appare nell’isola il flusso incessante di energie umane e culturali16, che hanno condizionato e condizionano il paesaggio, accostando e sovrapponendo più identità17. Allo stesso modo l’intero Mediterraneo è amalgama, crocevia di popoli differenti, non solo territorio della conflittualità ma anche patrimonio ricchissimo, possibilità della relazione e dello scambio18: sì scenario di devastazione, dove la tecnologia ha perso la sua funzione antropologica e ha generato mostri che distruggono le antiche città, trasformandole in 14 V. Consolo, Reading and Writing the Mediterranean, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006). Si veda il chiarimento nel saggio introduttivo: N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, pp. 3-48, a p. 14. Sull’interesse di Consolo per il Mediterraneo si veda anche N. Bouchard, Vincenzo Consolo’s Mediterranean Journeys: From Sicily to the Global South(s), cit. 15 Sul tema anche l’antologia postuma, V. Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti, Edizioni dell’Asino, Roma 2016. 16 C. Gallo, Cultural crossovers in the Sicily of Vincenzo Consolo, in “US-China Foreign Language”, gennaio 2016, vol. 14, n.1, pp. 49-56. 17 Emblematico Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, pp. 981-982: “Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà, sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni”. 18 Tale visione è centrale anche nella riflessione di F. Cassano (i già citati Paeninsula, Il pensiero meridiano, Tre modi di vedere il Sud). Non a caso la scrittura di Consolo e quella di Cassano affiancate espongono il punto di vista italiano per “Rappresentare il Mediterraneo”, collana Mesogea (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit.). moderne metropoli, luoghi di intolleranza politica, religiosa e razziale, ma allo stesso tempo archivio di eredità preziose19. Dunque olivastro e olivo insieme. Ed è per tutelare ‘l’olivo’ che Consolo procede in direzione di un ripensamento dei consolidati effetti della globalizzazione20. L’imposizione dell’economia ritenuta vincente e l’emarginazione dei vari sistemi tradizionali producono inevitabilmente l’aberrante negazione della molteplicità che caratterizza l’identità mediterranea e la rottura degli utili equilibri preesistenti. L’autore dunque riflette sulla gestione degli spazi e della cultura e legge il fenomeno migratorio non come superamento di un limite ma come occasione di scambio che trasforma e vivifica. Nell’ottica di un recupero delle tradizioni e della molteplicità a rischio vanno guardate le scelte linguistiche che recuperano frammenti della Sicilia greca, bizantina, araba, normanna, ovvero le impronte delle lingue parlate un tempo nel Mediterraneo. L’imperativo della salvezza di linguaggi e dialetti dall’oblio si traduce in un plurilinguismo in cui non ci sono parole inventate ma parole scoperte e riscoperte, in un’operazione di riscatto della memoria e, quindi, di ricerca delle radici, dell’identità21. Se la rappresentazione del Mediterraneo risulta ambivalente, anche Ulisse, l’eroe mediterraneo per eccellenza, ha una natura duplice. Il personaggio omerico, associato da Consolo all’uomo contemporaneo, non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante: il nóstos gli è costantemente negato, perché nell’approdo all’isola egli scopre il sovvertimento, incontra le macerie di Troia anziché il palazzo di Itaca, ed è condannato perciò ad un esilio senza fine. La sua peregrinazione lo porta a contatto con le varie forme di violenza della modernità nei confronti di piccoli e grandi luoghi, in Sicilia e fuori dalla Sicilia. In ciò il viaggio diventa meditazione sulle proprie responsabilità: insieme all’ansia di scoperta e conoscenza, è 19 N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 3-48, a p. 18. 20 Si veda l’intervista con A. Prete (Il Mediterraneo oggi: un’intervista, in “Gallo Silvestre”, 1996, p. 63). 21 G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., p. 130. F. Cassano in Rappresentare il Mediterraneo parla di recupero da parte di Consolo di un’antica dimensione sacra della lingua, mediante lo scavo nel passato del Mediterraneo (V. Consolo, F. Cassano, Rappresentare il Mediterraneo, cit., p. 57). evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane22. Le tappe del viaggio cantato da Omero, a loro volta, come già evidenziato, diventano tessere per comporre l’immagine del mondo contemporaneo. Il mito ha avuto un suo innegabile ruolo nella costruzione dell’identità mediterranea23 perché, sorto da una radice geografica, ha a sua volta modificato e condizionato la percezione collettiva dello spazio, confluendo nel patrimonio di tutti, come è accaduto nei casi esemplari di Scilla e Cariddi o dell’Etna. Ma racconti e leggende antichi legati al territorio possono dire qualcosa di nuovo, possono mettere in luce la stortura: questa è l’operazione a cui si dedica Consolo, ribadendo il legame tra la piana delle vacche del Sole e la Milazzo dell’esplosione o evidenziando l’associazione tra regno dei Lestrigoni e area industriale siracusana. Proprio proponendo il mito originale, allora, enfatizzandone alcuni aspetti, l’autore è capace di trasmettere una denuncia che lamenta la profonda metamorfosi subita dai luoghi: riesce cioè a produrre un’immagine critica dello spazio contemporaneo.
1.1 Nel segno della varietà del mare
Consolo si sente figlio della varietà, dei passaggi, degli incroci di popoli che si sono avvicendati sulla sua terra. Perciò, nella straniante Milano, cerca il conforto dell’umanità colorata, varia, di corso Buenos Aires. A Nord egli cerca il suo Mediterraneo e lo trova negli arabi, nei tunisini, negli egiziani, nei marocchini, negli altri africani, lo trova nel “bruno meridionale”: in questa “ondata di mediterraneità” si immerge e si riconcilia, ci si distende come in una spiaggia di sole del Sud24. 22 Sulla figura di Ulisse e il suo rapporto con il Mediterraneo nell’opera di Consolo si vedano alcune riflessioni di M. Lollini (M. Lollini, Intrecci mediterranei. La testimonianza di Vincenzo Consolo moderno Odisseo, cit, pp. 24-43 o anche l’introduzione, scritta con N. Bouchard, all’antologia Reading and Writing the Mediterranean, N. Bouchard, M. Lollini, Introduction: Vincenzo Consolo and His Mediterranean Paradigm, cit., pp. 19-21). Ma si vedano anche le affermazioni dello stesso Consolo in Fuga dall’Etna, cit., pp. 50-52. 23 B. Westphal (a cura di), Le rivage des mythes. Une géocritique méditerranéenne. Le lieu et son muthe, Pulim, Limoges 2001. 24 “Io che sono di tante razze e che non appartengo a nessuna razza, frutto dell’estenuazione bizantina, del dissolvimento ebraico, della ritrazione ara- La similitudine esalta la presenza della varietà umana con tutta la sua gamma di neri e bruni qualificandola come occasione, in una Milano grigia al di là dello stereotipo, di sperimentare la mediterraneità. L’accostamento è significativo perché l’esperienza della “spiaggia al primo tiepido sole” è molto mediterranea, tanto più per Consolo, nato e cresciuto in una località di mare. La vita a Sant’Agata di Militello, “paese marino”, “borgo in antico di pescatori”25 gli ha permesso di avere una precoce familiarità con la spiaggia26. “La visione costante del mare” ha scandito l’infanzia, di giochi, bagni e gite sui gozzi. Sulla riva di una contrada poco nota sono approdati guerra e cadaveri della grande Storia27. Perciò lo spazio mediterraneo non può che configurarsi, sulla base dell’esperienza personale, come “mare”. Il tempo del mito che contraddistingue la percezione del mare delle Eolie viene poi superato nella frequentazione di altre coste, altri porti, altri arcipelaghi: il Mediterraneo non è più quello della giovinezza, non solo perché sono mutati i toponimi, le coordinate, ma anche perché a guardarlo ora è un adulto, con una prospettiva nuova, di cronista e narratore, e perché sempre più ristretto è lo spazio della bellezza, e delusione e amarezza nascono dalla coscienza di un patrimonio a rischio di estinzione, vampirizzato dall’indu, del seppellimento etiope, io, da una svariata commistione nato per caso bianco con dentro mutilazioni e nostalgie. Mi crogiolavo e distendevo dentro questa umanità come sulla spiaggia al primo, tiepido sole del mattino”, Porta Venezia, in La mia isola è Las Vegas, pp. 112-113. Nello stesso testo (p. 114) gli eritrei che, ai tavoli di un ristorante, mangiano tutti con le mani da uno stesso grande piatto centrale il tipico zichinì gli ricordano l’uso delle famiglie contadine siciliane di una volta. Anche nell’osservazione di questo gesto c’è il conforto del recupero di un’identità, specialmente nel confronto con un Nord tanto diverso. Poco più avanti anche la musica, in un bar egiziano, suggerisce legami, suscita l’evocazione dell’identità mediterranea (Ivi, p. 115). 25 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 220. 26 La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 163-169, a p. 165. Molte le dichiarazioni a proposito di una vita “anfibia”, vissuta cioè a stretto contatto con l’acqua. “Sono stato un bambino anfibio,vissuto più nell’acqua che nella terraferma” (La Musa inquieta, in “L’Espresso”, 15 aprile 1991). 27 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 220-221; La grande vacanza orientale-occidentale, in La mia isola è Las Vegas, pp. 164-165. Nella caratterizzazione del Mediterraneo, a partire dal paese natale, si intrecciano memorie personali e dati della storia ufficiale: lo scorrere del tempo plasma i luoghi, oggettivamente e nella ricezione personale dell’autore. -strializzazione selvaggia, o dello scenario di nuove guerre, nuove violenze, nuova morte. È negato l’idillio della vita libera e bella con la vista costante delle isole del dio, e risulta stravolto orrendamente anche il lavoro dell’uomo: i pescatori non tirano più nelle reti il pesce azzurro, bensì cadaveri di clandestini28.
1.2 Tra olivo e olivastro: il patrimonio e la violenza
Pur consapevole della varietà e della complessità che lo caratterizzano, Consolo percepisce lo spazio mediterraneo come un mondo unico e vi rintraccia caratteri ricorrenti, corrispondenze e somiglianze. Memoria di paesaggi noti, conoscenze geografiche, storia della rappresentazione si intrecciano nel proporre associazioni relative al patrimonio naturalistico, considerazioni sulle fragilità degli spazi urbani e sui problemi ecologici. A permettere, in Arancio sogno e nostalgia, la definizione del Mediterraneo come regno solare degli aranci, è l’esperienza della pervasività di una coltivazione, che caratterizza fortemente il paesaggio, dalla Sicilia alla Grecia, dal Maghreb alla Spagna. Riconosciuto come traccia artistica, segno di civiltà, ma anche come straordinario catalizzatore di gratificanti percezioni sensoriali – il colore vibrante dei frutti e delle foglie, l’odore e il sapore –, l’arancio è per Consolo, al di là del facile e consolidato stereotipo di un Sud di agrumi e sole capace di attirare i viaggiatori stranieri, sogno di un Eden perduto, simbolo cioè, nel confronto con coordinate geografiche stravolte dall’industrializzazione, come nel caso della Conca d’oro palermitana, di un’integrità ecologica e culturale, di uno spazio sano in cui piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato29. Della tipica vegetazione mediterranea conserva notazioni il diario del viaggio in Jugoslavia: i pini piegati fino al mare, gli ulivi, i fichi, le vigne non segnano solo il paesaggio balcanico, ma anche quello greco, siciliano, turco, e si può inferire che anche il gesto 28 Il mare, in La mia isola è Las Vegas, pp. 221-222. 29 Arancio, sogno e nostalgia, in “Sicilia Magazine”, dicembre 1988, pp. 35-46, ora in La mia isola è Las Vegas, pp. 128-133. La citazione è alle pp. 128-129. della donna che stende i frutti ad essiccare richiami ricordi di altre geografie più familiari30. Nel resoconto della visita in Palestina nel 2002 poi Consolo scrive di “un paesaggio […] di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in Sicilia”31. Ma oltre al profilo fisico del territorio, a suggerire accostamenti sono gestualità e dolore delle donne per i combattenti morti: nei movimenti e nel lamento si colgono i tratti della tragedia greca, la cerimonia funebre di tutto il Mediterraneo32. Città, anche distanti, sono accomunate dalla difficoltà di reggersi sul proprio passato, dalla fatica nella gestione della verticalità, della stratificazione, dal segno della decadenza a contatto con la modernità. Il paesaggio urbanistico mediterraneo risulta perciò inserito nella riflessione ecologica sullo spazio siciliano. Le case semicrollate nel reticolo delle viuzze della Casbah di Algeri evocano l’immagine del centro storico di Palermo33 e quasi topos diventano la crescita disordinata e veloce, l’invasione dei nuovi palazzi, il traffico, nel paesaggio urbano siracusano o in quello di Salonicco34. In L’olivo e l’olivastro dalla meditazione sulla decadenza della città di Siracusa, già accostata ad altre città del Mediterraneo, Atene, Argo, Costantinopoli, Alessandria35, scaturisce il racconto di 30 Ma questa è Sarajevo o Assisi?, in “L’Espresso”, 30 ottobre 1997. Si tratta del racconto del viaggio fatto a Sarajevo con altri intellettuali italiani per restituire la visita di un anno prima da parte di otto membri del Circolo 99 (di Sarajevo). 31 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 196. Il testo, uscito per la prima volta in italiano in V. Consolo et al., Viaggio in Palestina, Nottetempo, Roma 2003, ma già apparso precedentemente online, anche in francese, è il resoconto del viaggio in Palestina in qualità di membro del Parlamento internazionale degli scrittori. 32 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, p. 197. Consolo si riferisce alla cerimonia funebre mediterranea così com’è codificata in Morte e pianto rituale di E. De Martino che infatti ricorda. Ivi, p. 199. 33 Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, in “Il Messaggero”, 20 settembre 1993. 34 Ne abbiamo già parlato per Siracusa. Si veda invece quello che Consolo scrive di Salonicco in Neró metallicó: “città moderna, piena di luci, di insegne, di manifesti pubblicitari, di quartieri appena costruiti come d’una città che è stata invasa da immigrati, che in poco tempo ha moltiplicato i suoi abitanti. E piena di traffico” (Neró metallicó, in Il corteo di Dioniso, La Lepre edizioni, Roma 2009, p. 9). 35 L’olivo e l’olivastro, p. 820. una visita lungo la costa africana, a Ustica36. Il ricordo si sofferma in particolare sulle rovine e, a sorpresa, sul basilico profumato che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici. Quello che è apparentemente un particolare senza importanza serve però a definire un patrimonio di piccole cose, comune a tutto il Mediterraneo37. L’Ustica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Ustica. Tutto il Mediterraneo è fatto di “piccoli luoghi antichi e obliati” come Ustica, in cui la natura si intreccia con la memoria del passato38. Ma il rischio della dimenticanza è in agguato, l’incuria è già realtà, e il ricordo diventa occasione di meditazione amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo “ricordare”, Consolo si trasforma in un “presbite di mente” tutto rivolto verso il passato, si trasforma in “infimo Casella” tutto proteso verso qualcosa che non c’è più39. Se l’anima del musico appena giunta sulla spiaggia del Purgatorio mostra ancora un grande attaccamento alla vita terrena, tanto da slanciarsi verso Dante, memore dell’antico affetto, e la stessa canzone dantesca da lui intonata è all’insegna della nostalgia, il riferimento evidenzia proprio il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più, come la vita terrena per le anime purganti. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal “Non più, odia ora” e il canto non ha nulla della dolcezza del regno del Purgatorio, ma piut36 Ivi, p. 836. 37 Ibidem. 38 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophoros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: Malophoros, in Le pietre di Pantalica, pp. 574-575. Dello stesso tono la precedente osservazione sulle “stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi, sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia” che sanno essere “commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro” (p. 574). Omaggio ai “piccoli luoghi antichi e obliati” sono per lo più gli interventi apparsi su “L’Espresso” tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute, anche gastronomiche. Luogo antico e fuori dai soliti canali turistici (non segnalata sulla “Guide Bleu”) è anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo a cui sono dedicate alcune pagine in Neró Metallicó (Il corteo di Dioniso, cit., pp. 19-20). 39 L’olivo e l’olivastro, p. 837. tosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe “rime aspre e chiocce”:
No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…40
Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata “terribile, barbarica, terra di massacro”, una Tauride percorsa da “squadracce”, poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea ne sancisce la gravità: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. All’attentato nei confronti del patrimonio naturalistico e culturale si accompagna la violenza contro la vita umana, in svariate forme: il Mediterraneo è, per Consolo, spazio della conflittualità. La Palermo di Le pietre di Pantalica, in preda alle lotte di mafia, è come Beirut41: le bombe, i kalashnikov, gli efferati omicidi, il sangue sparso dai killer lasciano tra le strade siciliane il disastro dei campi di battaglia e spingono all’associazione con quell’altra violenza, in atto dall’altra parte dello stesso mare, della guerra che porta alla distruzione della capitale libanese. Comiso, poi, coi suoi missili Cruise, rappresenta la minaccia costante della violenza tra popoli a cui neppure le proteste dei pacifisti, bloccate brutalmente, possono opporsi. Nel racconto eponimo di Le pietre di Pantalica, mentre il paese “folgorato dal sole”, quasi fosse “uno di quei vuoti gusci dorati di cicala”, è tutto ripiegato nel suo torpore estivo, 40 Ibidem. 41 Le pietre di Pantalica, in Le pietre di Pantalica, p. 625. poco più in là l’aeroporto, nella campagna deserta, accoglie i lavori per l’installazione. Alla sola vista del cancello con la scritta “Zona militare-Divieto d’accesso” emerge la tremenda apocalittica considerazione: “Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola”42. Quasi a dire che troppo in là è andato l’uomo. Nel testo successivo, che porta nel titolo il toponimo, le cicale – ancora loro – che cantano nel sole estivo enfatizzano la pace e la fiacca che prelude alla carica delle forze dell’ordine sui dimostranti43. Di fronte al degrado della violenza – guerra per difendere la possibilità di fare la guerra – e di fronte alla speculazione edilizia e all’inquinamento, l’unica consolazione possibile viene a Consolo dalle rovine immerse nella natura, ovvero dal valore di un patrimonio naturalistico e culturale. Come ad Utica e ancor di più che ad Ustica, negli Iblei a Cava d’Ispica, a poca distanza da Comiso: qui ci sono “le migliaia di grotte scavate dall’uomo, le abitazioni, le chiese, le necropoli della preistoria, della storia più antica dei Siculi, dei Greci, dei Romani, dei Bizantini, di quelli di pochi anni passati”, qui c’è “un cammino bordato dai bastoni fioriti delle agavi, dagli ulivi, dai fichi, dai pistacchi, dai carrubi”44. E fuori dalla Sicilia? Una serie di articoli scritti a partire dagli anni Novanta denuncia una violenza connaturata in numerosi luoghi del Mediterraneo. Teatro del nascente integralismo è il Maghreb, l’Algeria in particolare, dove Consolo nel maggio 1991 42 Ivi, p. 623. 43 Più tardi, nell’atto unico Pio La Torre, Consolo accenna al coinvolgimento della mafia siciliana e americana nell’affare dei missili (Pio La Torre, cit., p. 65) e offre un’immagine amara della nuova Comiso, che contrasta con il passato nell’offesa dell’inquinamento selvaggio e della minaccia di una guerra (Ivi, p. 77). 44 Comiso, in Le pietre di Pantalica, pp. 637-638. Il testo si chiude con una visita alla necropoli bizantina di Cava d’Ispica. C’è la luna e, guardandola, Consolo ricorda la preghiera della Norma belliniana: “Casta diva, che inargenti / queste sacre, antiche piante…”. Dichiara di non sapere il motivo del ricordo. In realtà la memoria ha a che fare, più o meno volutamente, con Zanzotto, nella cui opera la presenza della Norma è significativa: in più di un’occasione il poeta, riferendosi alla luna, allude alle parole della sacerdotessa (un esempio su tutti l’Ipersonetto: “Casta diva” o “sembiante”, A. Zanzotto, Tutte le poesie, cit., p. 571). scorge il rischio che “il mistico linguaggio della preghiera” si stravolga nel “mortale linguaggio delle armi”45. Uno “scenario apocalittico, sconvolgente”46 caratterizza poi la Sarajevo del 1997. Il “paesaggio di macerie” che si mostra allo sguardo mano a mano che gli italiani in visita si inoltrano nell’entroterra, con la guida di Matvejevic, impressiona ancor di più per il contrasto con il quieto profilo mediterraneo della costa, dove non c’è traccia di guerra e dove Consolo ritrova la vegetazione della sua terra. La città distrutta evoca le dure immagini del Trionfo della morte di Bruegel o quelle di Los desastres de la guerra di Goya47; i suoi resti, accostati a quelli di Assisi appena colpita dal terremoto, si fanno ammonimento, metafora “del nostro scadimento”: “siamo scivolati sul ciglio della voragine paurosa della natura”, ovvero è scomparsa la civiltà. Infernale è infine la Palestina, visitata da Consolo con altri membri del PIE nel 2002 48. Nella descrizione del tragitto che da Tel Aviv conduce a Ramallah, l’accostamento del paesaggio a quello siciliano si rompe all’apparizione dei check point e delle mitragliatrici, e sempre più nel procedere verso la striscia di Gaza si moltiplicano i segni di rovina e lutto, pur nella prorompente vitalità dei “nugoli di bambini dagli occhi neri”49, al punto che il percorso in direzione dei villaggi di Khan Yunus 45 Quei parabolizzati che sognano l’Italia, in “Corriere della sera”, 20 giugno 1991; Orgogliosa Algeri tra mitra e coltello, cit. Si veda anche la prefazione al libro di poesie di Mokthar Sakhri (Poesie, Libro italiano, Ragusa 2000). L’esperienza giornalistica ritorna nel romanzo Lo Spasimo di Palermo (pp. 903-905): Chino Martinez nel giardino della moschea di Parigi ripensa allo sciopero di Algeri, al mitra e al Corano degli integralisti. Sui fondamentalismi nel Mediterraneo si veda anche l’intervista con A. Prete, Il Mediterraneo oggi: un’intervista, cit., pp. 65-66. Sul fondamentalismo di matrice islamica e in particolare sull’attacco alle torri gemelle, Consolo si esprime manifestando un’accesa critica nei confronti di Oriana Fallaci, evidenziando da una parte che non serve reagire con la violenza e che molti sono i vantaggi dell’incrocio tra culture, come insegna la storia siciliana (l’intervista a cura di G. Caldiron, Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo risponde a Oriana Fallaci “Parole che conducono alla violenza”, in “Liberazione”, 2 ottobre 2001). 46 Ma questa è Sarajevo o Assisi, cit. 47 Sempre a proposito della guerra in Jugoslavia il riferimento all’opera di Goya compare in La morte infinita, in “Il Messaggero”, 6 febbraio 1994. 48 Madre Coraggio, in La mia isola è Las Vegas, pp. 195-200.49 Ivi, p. 197. e Rafah pare “una discesa nei gironi infernali”50. L’immagine più forte, quasi un simbolo, è però quella della resistenza eroica di una madre: ad aprire e chiudere il resoconto del viaggio è la figura della donna di Ramallah51, “imponente, dalla faccia indurita”, che vende nepitella raccolta nei luoghi selvatici e che di certo abita nel campo profughi, forse ha figli che combattono. 1.3 Mediterraneo come spazio di migrazioni
Nella rappresentazione offerta da Consolo l’immagine del Mediterraneo come spazio di migrazioni appare fondamentale e questo, oltre che per una chiara consapevolezza storica, per un’attenta lettura della contemporaneità. Divenuto, nei fatti, confine, limite, addirittura cimitero a causa della grande quantità di morti rimasti imprigionati nelle “carrette”, il mare potrebbe essere, invece, occasione di arricchimento in virtù dello scambio tra popoli. È un’immagine ideale, eppure realizzabile, quella che Consolo propone, insistendo su una storia di civiltà, quella siciliana in particolare, che ha la radice della sua grandezza proprio nell’incontro tra le differenze: ora che l’isola è divenuta luogo di approdo dei migranti che provano a sfuggire alla guerra, alla persecuzione o alla povertà, non si deve dimenticare che il progresso, quello vero, è sempre figlio dell’arricchimento che proviene dall’alterità. Lo dimostrano gli straordinari effetti della dominazione araba in Sicilia, a cui Consolo riconosce, sulla base di un ricco corredo di fonti e seguendo l’opinione di Sciascia, addirittura un valore fondante in termini di identità: i tratti tipici della sicilianità, ovvero lingua, letteratura, arte, agricoltura, cucina e persino fisionomia, risentono tutti del passato arabo52. Non 50 Ivi, p. 199. 51 Ivi, p. 195 e 200. 52 Estremamente rappresentativa appare a proposito la sezione Sicilia e oltre in Di qua dal faro e, in particolare, il saggio introduttivo, La Sicilia e la cultura araba. Il saggio si apre con alcune considerazioni sul legame tra la poesia della scuola siciliana e le qaside dei siculo-arabi, ancora attivi nell’isola sotto i Normanni (La Sicilia e la cultura araba, in Di qua dal faro, pp. 1187- 1192, a p. 1187) e riflette poi su diversi aspetti dell’influenza araba, ad esempio sulla rinascita economica e sullo spirito di tolleranza (p. 1189). Significativi nel testo i rimandi a Sciascia (in particolare alle pp. 1188-1189). Ricordo che ilrapporto tra Sciascia e il mondo arabo costituisce un ambito ricco di spunti suggestivi. Significativa è la conclusione del saggio di apertura de La corda a caso l’insistenza sulla presenza degli Arabi nell’isola si traduce nella frequente celebrazione delle innovazioni in ambito agricolo, tecnico, delle trasformazioni in ambito artistico-culturale. Di “rinascimento” parla Consolo, non perdendo occasione per evidenziare i lasciti, le tracce ancora vive nella contemporaneità siciliana. La lussureggiante Palermo, ad esempio, non avrebbe chiese-moschee, castelli, palazzi e giardini seducenti, non avrebbe aranceti se non ci fossero stati gli Arabi. Lo spazio insomma risulta segnato profondamente da questa “migrazione”. Sorprendenti riescono ad essere poi – afferma Consolo – gli incroci della storia, e Mazara, che ridiventa araba nel Novecento per il massiccio arrivo dei tunisini, aveva già nel momento del primo approdo dell’827 l’Africa nel suo nome, Mazar, traccia dell’antica presenza cartaginese. Come a dire che è sempre stato normale per i popoli spostarsi, il mare non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando. Se innumerevoli sono le eredità, anche visibili, tangibili, sebbene a rischio, del passato arabo, scomparsa del tutto risulta per Consolo la scelta della tolleranza e della convivenza tra culture, confermata anche dai normanni che non vollero eliminare la civiltà che li aveva preceduti, ma la integrarono e la valorizzarono. Perciò l’immagine del Mediterraneo come spazio di equilibrio e coesistenza tra le alterità non è solo parentesi del passato ma anche un’aspirazione, un esempio positivo da opporre a quanti insistono sui rischi dello scontro tra culture53. Che l’arrivo di nuovi popoli produca progresso è poi testimoniato per l’autore anche da migrazioni più antiche come dimostra pazza (1970), Sicilia e sicilitudine, in cui l’autore traccia un collegamento ideale tra Salvatore Quasimodo e un poeta arabo di otto secoli precedente, Ibn Hamdis, siciliano di Noto, accomunati dai toni con cui hanno fatto poesia della pena profonda dell’esilio (L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id. La corda pazza, cit., pp. 11-17). Sulla questione particolarmente interessanti risultano anche le osservazioni contenute in uno degli scritti del Canton Ticino, su Tomasi di Lampedusa, apparso su “Libera Stampa” il 27 gennaio 1959, ora raccolto in Troppo poco pazzi (L. Sciascia, Marx Manzoni eccetera e il Gattopardo, in R. Martinoni, a cura di, Leonardo Sciascia nella libera e laica Svizzera, Olschki, Firenze 2011, pp. 102-104 alle pp. 102-103). 53 Nell’ultima intervista Consolo riflette proprio sull’ignoranza di chi solleva lo scontro di civiltà e accosta integralismo e islam (V. Pinello, op. cit.). l’entusiastica rappresentazione della Sicilia come museo a cielo aperto, che accoglie rovine antiche, città greche, elime, puniche. Ma numerosi sono anche i riferimenti alla nascita delle colonie, a volte molto precisi, con indicazione dell’ecista, del territorio di origine, degli sviluppi della vicenda coloniale54, sulla base dei dati forniti da fonti antiche, come l’opera di Tucidide55, o su testi più recenti che rinviano però alla storiografia greca. E ciò non solo nei testi saggistici: anche le prove narrative offrono una rappresentazione della Sicilia e del Mediterraneo che ne valorizza l’aspetto di crocevia di popoli. Concentrandosi sulle migrazioni dell’antichità, i testi impostano un implicito confronto con gli spostamenti di oggi, riconoscendovi ragioni identiche o simili, ovvero guerra, fame, difficoltà economiche. In particolare, ne L’olivo e l’olivastro56, Consolo si sofferma sull’emigrazione megarese verso la parte orientale dell’isola. La visita ai resti di Megara Hyblaea, oggetto dell’amorevole culto del giovane Salvo e dei suoi, mentre è in corso l’assedio della cannibalica civiltà industriale del polo siracusano, suscita un’entusiastica rievocazione dell’opera dell’ecista Lamis, dell’idea di uguaglianza e progresso dei coloni, della fertilità e della geometria nella suddivisione del terreno in lotti57. All’enfasi sulla fondazione Consolo 54 Ad esempio, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 12; I muri d’Europa, in L. Restuccia, G.S. Santangelo, Scritture delle migrazioni: passaggi e ospitalità, Palumbo, Palermo 2008, p. 25. 55 L’archaiologhia siceliota del VI libro si apre con una sintesi storica a proposito dei più antichi popoli locali, a partire dai misteriosi Lestrigoni e Ciclopi, cui segue un quadro preciso delle migrazioni dalla Grecia e delle successive fondazioni. Consolo rinvia a Tucidide per la fondazione di Messina, l’antica Zancle (Vedute dallo stretto di Messina, in Di qua dal faro, p. 1045) e infatti il dato è rintracciabile in Tuc. VI 4,5. Ricava probabilmente dallo storico greco anche il dato relativo alla fondazione di Siracusa da parte dell’ecista Archia (Tuc. VI 3), ricordato in La dimora degli Dei (cit., p. 14). Oltre alla fonte tucididea si può riconoscere anche quella di Diodoro Siculo, esplicitata per la colonizzazione greca delle Eolie (Isole dolci del dio, cit., p. 21). 56 L’olivo e l’olivastro, p. 783. 57 Tucidide parla dell’arrivo dei Megaresi (Tuc. VI 4, 1-2) ma non riporta quest’ultimo dato della lottizzazione, che invece si ricava dai rilievi archeologici. A proposito si veda H. Tréziny, De Mégare Hyblaea à Sélinonte, de Syracuse à Camarine: le paysage urbain des colonies et de leurs sous-colonies, in M. Lombardo, F. Frisone (a cura di), Atti del convegno Colonie di colonie: le fondazioni subcoloniali greche tra colonizzazione e colonialismo, Lecce, 22-24 giugno 2006, Congedo editore, Galatina-Martina Franca, 2009, aggiunge il plauso per le capacità che i Megaresi, scacciati dai Corinzi di Siracusa, dimostrarono, affrontando l’ignoto della Sicilia occidentale dove fondarono Selinunte. Le sue parole trasfigurano il neutro dato storico di Tucidide (VI 4, 2) attribuendo all’opera dei coloni i tratti di una straordinaria epopea58. I resti della civiltà greca di Megara e Selinunte, dunque, risultano monito contro lo straniamento che viene dalla degenerazione economica e culturale. La coscienza dell’identità trascurata dello spazio e della civiltà che l’ha costruita, originariamente straniera, immigrata, ma secondo le fonti storiche “progredita”, costringe l’attenzione sul rischio della perdita in termini di biodiversità culturale, e l’interesse per gli antichi coloni greci diventa traccia ecocritica. Ha a che fare con la volontà di valorizzare il passato greco dell’isola anche il ricorso al mito. Oltre al viaggio di Ulisse, Consolo ama ricordare la vicenda di Demetra, la madre disperata che, in cerca di sua figlia Kore, vaga per il Mediterraneo59, leggenda molto siciliana, in virtù dei luoghi coinvolti: ad Enna c’era l’antica sede della dea60, e proprio lì si svolse il rapimento di Kore, mentre poco più a pp. 163-164; M. Gras, H. Tréziny, Mégara Hyblaea: le domande e le risposte, in Alle origini della magna Grecia, Mobilità migrazioni e fondazioni, Atti del cinquantesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 1-4 ottobre 2010, Stampa Sud, Mottola 2012, pp. 1133-1147. 58 L’olivo e l’olivastro, pp. 783-784, ma anche Retablo, p. 432; La Sicilia passeggiata, pp. 94-95; Malophoros, in Le pietre di Pantalica, p. 578. 59 Più volte Consolo esibisce citazioni dall’Inno a Demetra (nella traduzione di F. Cassola del 1975). In Retablo ad esempio (Retablo, p. 409) i primi due versi (“Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare, / e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo / rapì”) sono esempio di suprema poesia per Clerici che sta sperimentando, nell’esperienza sublime dell’accoglienza da parte di Nino Alaimo, tra l’altro dedito al culto di una Grande Madre mediterranea, una sorta di possessione divina. La Sicilia passeggiata (p. 7) si apre con un’epigrafe tratta dall’Inno (Inno a Demetra, vv. 401-403) che pone l’attenzione sull’esito felice della vicenda, ovvero sul momento del ricongiungimento delle dee e sul ritorno della primavera; più avanti nel testo invece (La Sicilia passeggiata, p. 57) leggiamo anche i vv. 305-311 che descrivono l’amarezza di Demetra dopo la perdita della figlia e le conseguenze nefaste per gli uomini. In L’olivo e l’olivastro (p. 843) i versi 40-44 inquadrano i luoghi come scenario del vagabondaggio sofferente di Demetra. 60 La Sicilia passeggiata, p. 58; L’olivo e l’olivastro, p. 822. Al tradizionale luogo del culto di Demetra Consolo si riferisce anche nella prefazione al Sud, nell’area dello zolfo, la tradizione colloca il regno di Plutone61. La scelta autoriale chiama in causa le dinamiche di rappresentazione del Mediterraneo, ma anche l’identità profonda degli spazi geografici, evidentemente compromessa con il mito. Immaginario collettivo e prospettiva razionalizzante si intrecciano, nell’evidenziare il legame esistente tra Sicilia e Grecia, tra due differenti rive di uno stesso mare. Il culto e il mito, infatti, sarebbero conseguenza della colonizzazione greca62. Nel mito personale di un mondo antico vivace, fatto di intrecci e incroci alla presenza greca si aggiunge quella cartaginese o quella elima. La vicenda di quest’ultimo popolo, in bilico tra storia e mito, ha a che fare, già secondo Tucidide (VI 2), con l’arrivo in Sicilia dei Troiani: lo storico riferisce che la migrazione, successiva al crollo di Ilio, ebbe come effetto lo stanziamento in territori prossimi a quelli dei Sicani e tale vicinanza portò alla denominazione unica di Elimi per i due popoli; i centri più importanti di questa nuova civiltà furono Segesta e Erice. Consolo, pur conoscendo sicuramente il dato riportato dallo storico, è più sensibile in questo caso alla fonte poetica virgiliana. In La Sicilia passeggiata, ad esempio, il mistero sull’origine di Segesta – o Egesta – richiama i versi 755-758 del V libro dell’Eneide che proprio alla ktisis fanno riferimento63. La quale ktisis si conclude con la fondazione del tempio della dea Venere sulla vetta del monte Erice, com’è ricordato dai vv. 759-760 del V libro virgiliano che Consolo sceglie di citare in La Sicilia passeggiata (“Poi vicino alle stelle, in vetta all’Erice, fondano / un tempio a Venere Idalia”)64, quasi invitando a seguire nell’area occiden volume di F. Fontana dedicato a Morgantina (V. Consolo, Che non consumi tu tempo vorace, cit., p. 11-13) 61 Consolo ricorda questa associazione tra mito e luogo geografico in La Sicilia passeggiata, p. 62; Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, p. 985. 62 Molti gli studi sulla questione che evidenziano la difficoltà di definire la reale provenienza del culto di Demetra e Kore. Si veda ad esempio P. Anello, Sicilia terra amata dalle dee, in T. Alfieri Tonini (a cura di), Mythoi siciliani in Diodoro, Atti del seminario di studi, Università degli studi di Milano, 12-13 febbraio 2007 = in “Aristonothos, scritti per il mediterraneo antico”, 2, 2008, pp. 9-24. 63 La Sicilia passeggiata, p. 106. 64 Ivi, p. 108. Consolo precisa il dato poetico aggiungendo che in realtà il tempio è antecedente all’arrivo dei Troiani: parla infatti di un sacello sicano, elimo o fenicio già dedicato al culto della dea dell’amore. Si fa riferimento al tempio anche in Retablo (Retablo, p. 458) e in L’olivo e l’olivastro (L’olivo e l’olivastro, p. 860), dove ritroviamo la citazione dei versi dell’Eneide. In L’olivo e l’olivastro sono ricordati “il bosco e la spiaggia del funerale, tale dell’isola le orme del passaggio di Enea, sulla base delle indicazioni fornite dall’Eneide: un cammino attento potrebbe permettere di scoprire non solo l’area sacra ericina ma anche il bosco consacrato ad Anchise, la spiaggia dei sacrifici e delle gare65. La scelta di citare proprio i versi del rito di fondazione è interessante perché evidenzia la fusione tra popolazione straniera migrante, i Troiani, e popolazione locale, gli Elimi66. Da tutto ciò risulta evidente per Consolo che gli incontri, gli scambi tra popoli di culture diverse sono stati da sempre causa del cammino della civiltà, e che la chiusura, il rifiuto dell’ignoto che arriva da fuori, è perdita, regressione67. Perciò, egli, servendosi di una frase di Zanzotto, “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma”, descrive il vecchio continente come perennemente arroccato nelle sue posizioni. “Vecchia” davvero è l’Europa, vecchia l’Italia, non solo per l’età media della popolazione, ma per una cecità di fronte all’arrivo delle masse disperate dei profughi che non riconosce la ricchezza dell’accoglienza e addirittura produce morboso attaccamento ai privilegi, difesi con pericolosi atteggiamenti xenofobi68. All’imperativo dell’accoglienza umanitaria, a cui implicitamente alludono nell’articolo Gli ultimi disperati del canale di Sicilia le immagini tremende del mare-cimitero (“bare di delle gare in onore d’Anchise” (Ivi, p. 861), menzionati anche in Lo spazio in letteratura (Di qua dal faro, p. 1241). Al mito dell’arrivo dei Troiani in Sicilia si riferisce anche in Retablo l’onomastica relativa al fiume “Criniso o Scamandro” (p. 415). 65 Virgilio narra che Enea, fermatosi presso Drepano – l’attuale Trapani – dopo la parentesi di Cartagine, viene ospitato da Aceste e, con lui e i suoi, celebra gli onori funebri in onore di Anchise, lì seppellito un anno prima. Alla ospitalità già ricevuta da parte di Aceste si riferisce Aen. I 195. La morte di Anchiseinvece è accennata in Aen. III 707-710. Gli onori funebri in suo onore e i giochi successivi sono al centro del V libro (vv 42-103 e 104-603). 66 Dopo che le donne, istigate da Giunone, hanno dato fuoco alle navi (Aen. V 604-699), l’eroe, ispirato dalla visione di suo padre, decide di fondare una nuova città che sarà abitata da una parte del suo seguito e dai troiani dell’isola. Aceste e i suoi, infatti, che sono già in Sicilia (Aen. V 30 e 35-41) appartengono ad un’antica stirpe troiana. 67 Quando i Lombardi emigrarono in Sicilia, in “Corriere della Sera”, 4 maggio 1991. 68 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, in “La Repubblica”, 18 settembre 2007. La frase di Zanzotto è ripresa da A. Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con M. Breda, cit., pp. 68-69. Il poeta la usa per commentare la situazione dell’Italia, sospesa tra “un’Europa invecchiante e le esplosioni demografiche vicine”. ferro nei fondali del mare”) e dell’orrenda pesca dei morti (“i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani”), si accompagna nella prospettiva autoriale l’invito ad una valutazione delle possibilità economiche e culturali che derivano dai flussi di migranti69. Estremamente significativo nel dibattito risulta per Consolo il caso della doppia migrazione da e verso il Maghreb. C’è stato un tempo lontano in cui il braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane non era “frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio”70, un tempo in cui era normale per i lavoratori di Sicilia, di Calabria o di Sardegna cercare fortuna nelle terre degli “infedeli”. Tale familiarità tra i due mondi è stata confermata dall’emigrazione ottocentesca, intellettuale e borghese prima, poi anche di braccianti dell’Italia meridionale, verso le coste nordafricane71. Si tratta di un fenomeno che sta molto a cuore a Consolo72. Non a caso egli lo accoglie nella narrazione di Nottetempo, casa per casa. 69 Negli stimoli offerti dall’emigrazione contemporanea Consolo scorge una possibilità di rinascita anche letteraria: così nell’intervista con A. Bartalucci (A. Bartalucci, op. cit., pp. 201-204, a p. 204). 70 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1193. Consolo si è soffermato prima sulla seconda novella della quinta giornata del Decameron di Boccaccio che propone il tranquillo soggiorno di pescatori cristiani, trapanesi, nella musulmana Tunisia. Ma si veda anche in Retablo l’incontro di Clerici, accompagnato dal fido Isidoro e dal brigante, con Spelacchiata e i suoi compagni barbareschi, che si traduce in uno scambio di cerimonie (Retablo, pp. 438-440). L’episodio tiene conto dell’affinità culturale e della consuetudine dei rapporti tra paesi mediterranei. A proposito del valore della “rotta per Cartagine”, ovvero dell’attenzione consoliana per le relazioni storiche di contiguità e vicinanza tra Sicilia e Nord Africa, P. Montefoschi, Vincenzo Consolo: ritorno a Cartagine, in Id., Il mare al di là delle colline. Il viaggio nel Novecento letterario italiano, Carocci, Roma 2012, pp. 54-60; specificamente sull’episodio di Spelacchiata in Retablo, p. 55. 71 A proposito dell’emigrazione italiana in Tunisia si veda lo studio di F. Blandi: F. Blandi Appuntamento a La Goulette, Navarra Editore, Palermo 2012. 72 Del fenomeno Consolo fornisce dati precisi in diverse occasioni. Si veda in particolare Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1195-1196; Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, in G.Interlandi (a cura di), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, Atti del Convegno di Psichiatria Democratica, Caltagirone, 12-13 marzo 2009, numero monografico di “Fogli di informazione”, terza serie, 13-14, gennaio-giugno 2010, pp. 5-7. La fuga di Petro, nuovo Enea73, si inserisce proprio nel contesto storico della migrazione verso l’Africa settentrionale. La sua vicenda non è eccezionale, se non forse per le motivazioni, ma rientra nella normalità di un flusso migratorio consolidato74. La stessa presenza del personaggio storico di Paolo Schicchi, con cui Petro ha un breve colloquio sulla nave, obbedisce alla storicità del fenomeno. L’anarchico siciliano, infatti, non fu il solo a cercare rifugio in Tunisia per ragioni politiche: esisteva sulla sponda sud del Mediterraneo una nutrita comunità di antifascisti e addirittura una vera e propria comunità anarchica siciliana a Tunisi75. Il romanzo si chiude proprio con l’arrivo dall’altra parte del mare: i colori, le architetture, la vegetazione e gli uccelli sanciscono l’approdo ad un nuovo inizio, proprio come accadeva a coloro che emigravano in Tunisia76. Il nuovo spazio su cui si affaccia la nave si carica di attese, di possibilità, innesca un confronto con il passato, con la terra abbandonata, accende speranze, suscita decisioni. Petro lascia significativamente cadere in mare il libro che l’anarchico Schicchi gli ha consegnato durante il viaggio, a sancire il suo rifiuto per ogni forma di violenza, la sua volontà di essere “solo come un emigrante, in cerca di lavoro, casa, di rispetto”77. La prospettiva di chi guarda e vive il passaggio ad un nuovo spazio definisce e ridefinisce i contorni della realtà, quella che ha lasciato e quella a cui va incontro. La Tunisia non è per Petro un luogo neutro e nemmeno lo è la Sicilia. Allo stesso modo la terra di partenza e la Milano dell’arrivo vengono ridiscusse nell’esperienza 73 Non a caso il capitolo finale reca l’epigrafe virgiliana Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum (Aen. II 780) che permette di associare la Sicilia in preda all’alba fascista ad una Ilio in rovina e Petro in fuga all’eroe costretto a cercare una nuova terra. 74 Nottetempo, casa per casa, p. 752. Nell’intervista con Gambaro (F. Gambaro, V. Consolo, op. cit., p. 102) Consolo evidenzia l’importanza degli scambi tra le due rive del Mediterraneo, proprio a partire della vicenda degli italiani emigrati, perché essi permettono un arricchimento culturale e letterario. 75 Nottetempo, casa per casa, pp. 753-754. A proposito della comunità italiana in Tunisia si veda lo studio di Marinette Pendola (Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo), Ed. Umbra, “I Quaderni del Museo dell’emigrazione”, Foligno, 2007), curatrice anche del sito www.italianiditunisia.com, denso di informazioni storiche. 76 Nottetempo, casa per casa, p. 755. 77Ibidem. di migrazione che conduce i meridionali, negli anni del miracolo economico, alla volta del Nord. Come accade, d’altronde, allo stesso Consolo che, sebbene non si muova per fame ma per realizzazione intellettuale, sperimenta il passaggio, vive una ridefinizione dei luoghi. L’insistenza dell’autore sulla presenza significativa degli italiani in Maghreb e sugli innumerevoli scambi avvenuti tra l’una e l’altra riva del mare fin dal Medioevo va considerata in relazione al suo interesse per quell’emigrazione africana in Italia che ha avuto origine negli anni Sessanta e che non si è più arrestata. Le riflessioni a tal proposito sono estremamente lucide e inquadrano precocemente la questione. I primi lavoratori tunisini, forniti del semplice passaporto con il visto turistico e sprovvisti di quell’autorizzazione che permetteva un regolare contratto di lavoro, giungevano in Sicilia nel 1968. La presenza di questi primi immigrati, costretti a ritornare in patria alla scadenza del visto turistico, rispondeva alla domanda di lavoro a buon mercato da parte di proprietari terrieri e di armatori, per i quali reclutare questa manodopera e sfruttarne la condizione abusiva era senza dubbio un vantaggio. Ai primi immigrati si aggiunsero allora parenti e amici e il fenomeno si allargò78. “L’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo Mondo”79 ha inizio a Mazara, proprio lì dove il 17 giugno 827 – ricorda Consolo citando Amari – sbarcavano i musulmani, città splendida e prestigiosa secondo il geografo Idrisi80. A distanza di secoli, scomparsa la bellezza del passato, dopo che miseria e crollo avevano generato quell’altra migrazione, “di pescatori, muratori, artigiani, contadini di là dal mare, a La Goulette di Tunisi, nelle campagne di Soliman, di Sousse, di Biserta”81, il miracolo economico degli anni Sessanta attivava di nuovo la rotta dal Nord Africa82. 78 Sul fenomeno si veda A. Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio, Palermo 1978. Consolo lo cita in diverse occasioni, ad esempio, Il ponte sul canale di Sicilia, Di qua dal faro, p. 1197. 79 L’olivo e l’olivastro, p. 865. 80 Ivi, p. 864. 81 Ivi, p. 865. 82 Ibidem. Si veda anche Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. Molti gli articoli sul caso di Mazara, ad esempio I guasti del miracolo, cit.; Morte per acqua, cit; “Ci hanno dato la civiltà”, cit. Ancora precedente l’articolo uscito su “Sans frontières” nel 1980 che si sofferma sulla storia di Mazara prima di concentrarsi sulla quarta guerra punica o guerra L’inversione di rotta, di cui Consolo evidenzia la specularità rispetto a quella italiana, va a riempire i vuoti lasciati dall’altro flusso migratorio, quello dei meridionali verso il Nord, e, anche se il caso di Mazara ha una sua indiscussa esemplarità, il fenomeno, come si è detto, già all’origine riguarda un po’ tutto il trapanese: una terra che ha più di un tratto in comune con la regione di partenza83. Ma mentre, accennando alla somiglianza geografica e culturale delle due rive del Mediterraneo, riporta l’attenzione sulla vicinanza tra i popoli e sui risvolti positivi dello scambio del passato, Consolo lascia emergere la stortura del presente e individua in questa nuova migrazione l’inizio di una lunga serie di episodi di xenofobia e persecuzione84. Gli immigrati maghrebini, infatti, a Mazara in maniera significativa, ma anche altrove, divennero presto oggetto di sfruttamento, divennero strumento di speculazione politica, furono vittime di razzismo, caccia, di rimpatrio coatto. Nel 1999, in Di qua dal faro Consolo già lamenta l’assenza di previsioni, progettazioni, di accordi tra governi85. La vicenda dei tunisini del trapanese e quella di tutti coloro che hanno attraversato e attraversano le acque del Mediterraneo – ma in alcune pagine il discorso si estende al mondo intero – alla ricerca di una nuova vita sono parte di un’unica drammatica storia scandita dalle tragedie quotidiane di corpi senza vita86. del pesce i cui protagonisti erano proprio i tunisini immigrati della casbah: Quatrième guerre punique, in “Sans frontières”, 30 settembre 1980. 83 Alla somiglianza tra Italia meridionale e Nord Africa Consolo fa riferimento in“Ci hanno dato la civiltà”, cit.. Sulla questione anche un articolo del 1981, Immigration africaine en Italie (“Sans frontières”, 3 gennaio 1981): l’Italia è la prima tappa dei migranti per necessità geografiche ma anche perché è una terra non veramente straniera. 84 L’olivo e l’olivastro, p. 865; Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1197. Nel precedente I guasti del miracolo (cit.) Consolo rileva lo scandalo del dopo terremoto di Mazara (7 giugno 1981): ai tunisini vengono negate le tende, perché stranieri e perché non votanti e quindi ininfluenti nelle imminenti elezioni regionali. 85 Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, pp. 1197-1198. 86 Uomini sotto il sole, in Di qua dal faro, p. 1202. In particolare l’espressione “d’altri, scoperti, gettati in pasto ai pescecani” allude ad un episodio specifico, già tema del racconto Memoriale di Basilio Archita (Le pietre di Pantalica, pp. 639-646): nel maggio 1984, l’equipaggio della nave Garyfallia, che al comando di Antonis Plytzanopoulos era salpata dal porto di Mombasa da poche ore, si rese colpevole della morte, in mare aperto, proprio in pasto ai L’ombra del mito antico si affaccia a rappresentare il destino dei migranti: essi ripetono l’esilio di Ulisse, ma soprattutto sono Enea in fuga da una terra in fiamme, oppure sono Troiane, fatte schiave e costrette ad allontanarsi dalla propria patria87. La condizione degli esseri umani nel mare nostrum sembra così trovare una sintesi nella citazione da Braudel – “in tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato”88–, originariamente riferita all’età di Filippo II. Ma ancor di più i versi eliotiani di Morte per acqua, che ritornano con frequenza sorprendente nei testi giornalistici e nelle prove narrative, riescono a parlare della realtà contemporanea. Già in Retablo l’episodio in cui la statua dell’efebo di Mozia si perde nel mare suscita la riflessione su un’altra perdita, che è ben più grave, quella delle vite umane che in ogni tempo si sono spente e si spengono nell’acqua, “sciolte nelle ossa” come Phlebas il fenicio89. In L’olivo e l’olivastro la citazione si lega esplicitamente alla memoria di un fatto di cronaca: nel 1981 il giovane Bugawi, vittima del naufragio del Ben Hur di Mazara, rimane in fondo al mare e “una corrente sottomarina / gli spolpò le pescecani, di un gruppo di clandestini. I migranti non vengono sacrificati solo nel Mediterraneo: la vicenda, infatti, come ricorda anche la voce narrante del racconto, il siciliano Basilio Archita, si svolge al largo delle coste del Kenia. I responsabili sono un “manipolo di orribili greci, dai denti guasti e le braccia troppo corte, mostri assetati di sangue e di violenza” (S. Giovanardi, Imbroglio siciliano, in “La Repubblica”, 2 novembre 1988; Id., Le pietre di Pantalica, in S. Zappulla Muscarà, Narratori siciliani del secondo dopoguerra, cit., pp. 179-182), insomma non hanno niente a che fare con i valori dell’antica Grecia. E anche la citazione di Kavafis, in bocca ad uno di loro, stride nel confronto con il terribile delitto. 87 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 25. Entrambi i testi si aprono con citazione dalle Troiane di Euripide (vv. 45-47) e dall’Eneide di Virgilio (II 707-710). 88 Ad esempio a conclusione di Il ponte sul canale di Sicilia, in Di qua dal faro, p. 1198; Il mare, in La mia isola è Las Vegas, p. 222; Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit.; I muri d’Europa, cit., p. 30; nel discorso al convegno per Psichiatria democratica, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura, cit. La citazione è tratta da F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, cit., pp. 981-982). 89 Retablo, p. 453. ossa in sussurri”90. Ma anche i naufraghi di Scoglitti91 sono Phlebas il fenicio, e lo sono tutti i morti del Mediterraneo, tutti quelli che le carrette stracariche e le responsabilità umane hanno lasciato affogare92. Dal 2002 in poi Consolo interviene in maniera decisa e con la consueta indignazione sull’intensificarsi del fenomeno migratorio e sulle responsabilità della politica. Già un testo del ‘90 evidenzia l’ampliamento smisurato del braccio di mare tra Sicilia e Nord Africa, ovvero, la distanza economica creatasi tra i due mondi93. Ancora di più gli articoli successivi, suscitati in particolare dalla legge Bossi Fini, si concentrano sul contrasto evidentissimo, soprattutto a Lampedusa e nelle altre Pelasgie, tra l’opulenza del turismo nella natura incontaminata e la disperazione dell’approdo dei migranti94. Il procedimento antifrastico con cui Consolo si finge sostenitore delle ragioni dei ricchi vacanzieri contro gli sbarchi invadenti degli stranieri evidenzia lo stridere dei due mondi: “Ma lì, a Lampedusa, inopinatamente vi giungono anche, mannaggia, gli emigranti clandestini”95. Così la bella Lampedusa diventa nuovamente scenario di guerra contro l’infedele, come nel poema ariostesco. Se la Lipadusa del Furioso, “piena d’umil mortelle e di ginepri / ioconda solitudi 90 L’episodio è rievocato, con citazione da Eliot, in L’olivo e l’olivastro, pp. 865-866. Nel giugno del 1981 appena dopo il terremoto che aveva colpito Mazara, gli armatori ebbero fretta di rimandare in acqua le navi. Nel naufragio del Ben Hur morirono cinque mazaresi e due tunisini. L’identità di questi rimase ignota per diversi giorni: un indizio della condizione di sfruttamento e illegalità in cui lavoravano gli stranieri. Sullo stesso episodio, sempre con riferimento a Phlebas il fenicio, si veda il già citato Morte per acqua, cit., o “Ci hanno dato la civiltà”, cit. 91 Dedicato ai morti per acqua, in “L’Unità”, 29 settembre 2002. La citazione dei versi di Eliot chiude l’articolo e, che mi risulti, è l’unico caso in cui il passo è riportato per intero. Consolo si riferisce a quanto avvenuto il 24 settembre 2002: uno scafista abbandona a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti il suo carico di migranti; le onde impediscono l’approdo, muoiono 14 persone. 92 Gli ultimi disperati del canale di Sicilia, cit., o in I muri d’Europa, cit., p. 29. Meno esplicito il riferimento a Eliot in Immigrati avanzi del mare, in “L’Unità”, 18 giugno 2003, dove è l’aggettivo “spolpato” (“qualche corpo gonfio o spolpato finisce nelle reti dei pescatori”) che allude a Phlebas il fenicio. 93 Cronache di poveri venditori di strada, cit. 94 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, in “L’Unità”, 29 agosto 2002. 95 Ibidem. ne e remota / a cervi, a daini, a caprioli, a lepri”96, ospita il triplice duello di Orlando, Brandimarte e Oliviero contro i saracini Gradasso, Agramante e Sobrino, nel Duemila l’isola, divenuta da “remoto scoglio”, “meta ambitissima del turismo esclusivo”, è luogo d’approdo di pescherecci e gommoni che rovesciano il loro carico di clandestini: “i nuovi turchi, i nuovi invasori saracini”97. E – ancora è dominante l’antifrasi –, se non ci sono gli antichi paladini a combatterli e neppure le navi militari auspicate da Bossi, c’è però il mare “quel fascinoso mare azzurro e trasparente che d’improvviso s’infuria e travolge ogni gommone o peschereccio”98. Tanto più assurde si rivelano le leggi per gestire gli arrivi e, se già prima della Bossi Fini, Consolo lamentava la violazione sistematica dei diritti dell’uomo, dopo il 2002 è ancora più duro. Bersaglio polemico sono le nuove normative, più rigide di quelle previste dalla legge Martelli o dalla Turco-Napolitano: le nuove disposizioni prevedono che le carrette siano bloccate in acque extraterritoriali, “forse anche speronate e affondate. Con tutto il loro carico umano”99. Bersaglio polemico sono i centri di prima accoglienza che – scrive – non meriterebbero questo nome, perché piuttosto di lager si tratta, luoghi atroci, di violenza e umiliazione100. Bersaglio polemico è la diffusione di sentimenti xenofobi, suscitati dalla politica nella mentalità comune, ben rappresentata dall’io narrante del racconto eponimo di La mia isola è Las Vegas che invoca la costruzione di muri d’acciaio per arrestare la marea dei migranti101. In quest’ottica di critica alla nuova legge e all’inadempienza del dovere morale verso i migranti va letta la netta opposizione di Consolo al progetto di un museo della migrazione a Lampedusa, promosso nel 2004 dalla deputata regionale dell’Udc Giusy Savarino. A lei l’autore si rivolge pubblicamente dalle pagine di “La 96 Ariosto, Orlando Furioso, XL 45 vv. 3-4. Il passo è ricordato da Consolo in Lampedusa è l’ora delle iene, “L’Unità”, 28 giugno 2003. Ma si veda anche Isole dolci del dio, cit., pp. 33-35. 97 Lampedusa è l’ora delle iene, cit. 98 Ibidem. 99 Il mondo di Bossi Fini stupido e spietato, cit. 100 Ibidem ma anche Immigrati avanzi del mare, cit. 101 La mia isola è Las Vegas, in La mia isola è Las Vegas, p. 217. Repubblica”, accusando l’ipocrisia profonda di una tale iniziativa102 e riflettendo su quanto sia irrimediabilmente compromessa l’identità dello spazio mediterraneo. Che cosa rimane del mare di miti e storia? Che cosa della mirabile convivenza tra culture diverse? Il monito dei reperti archeologici, delle narrazioni risulta poca cosa di fronte al mutamento dello sguardo collettivo sancito da leggi xenofobe e lager mascherati da centri di accoglienza: il mare si è fatto frontiera, confine, che gli altri, gli stranieri, non devono superare. Ed è contemporaneamente cimitero, spazio del sacrificio, della tragedia. Perciò il progetto di un museo a Lampedusa, l’isoletta dell’ariostesca lotta contro l’infedele, è, per Consolo, strumento di una retorica ipocrita, che non è giusto appoggiare: che senso avrebbe un monumento all’emigrazione, quando proprio i migranti vengono combattuti, respinti, lasciati morire in mare? Ma, d’altra parte, è il mondo intero ad aver subito una metamorfosi: si è mutato agli occhi dell’autore in un “im-mondo”, ovvero negazione di se stesso, perché preda della follia. La ripetizione dell’aggettivo “nostro”, associato sia allo spazio stravolto che alla massa di cadaveri, assume, nel testo in versi Frammento, toni accusatori, richiamando gli esseri umani alle proprie responsabilità nei confronti della morte di innocenti.
Nostri questi morti dissolti nelle fiamme celesti, questi morti sepolti sotto tumuli infernali, nostre le carovane d’innocenti sopra tell di ceneri e di pianti. Nostro questo mondo di follia. Quest’im-mondo che s’avvia…103
102 Solo un monumento per gli immigrati, in “La Repubblica”, 21 agosto 2004. Sulla questione Consolo si era già espresso qualche giorno prima: Perché non voglio quel museo, in “La Repubblica”, 19 agosto 2004. 103 Frammento, in Per una Carta “visiva” dei Diritti civili, Viennepierre, Milano 2001, anche in “Microprovincia”, 48, gennaio-dicembre 2010, p. 5.
La vicenda biografica, il viaggio, l’esplorazione partono da Sant’Agata, un paese sconosciuto ai più, ai piedi dei Nebrodi e affacciato sul mare Tirreno, con le Eolie a vista [1]. Proprio qui Consolo nasce e trascorre i primi anni della sua vita, così che il luogo produce memoria, lo segna «nella carne, nell’anima», diventa ineludibile traccia di un percorso narrativo[2].
Oltre alle ragioni autobiografiche e
affettive, a favorire la presenza di Sant’Agata nelle mappe di Consolo è anche
la riflessione autoriale sulla posizione geografica del paese che si trova, per
così dire, al confine tra un oriente e un occidente, ovvero «alla
confluenza di due regni, dove si perdono, si sfumano, si ritraggono in una
sommessa risacca le onde lunghe della natura e della storia»[3].
Eppure il toponimo raramente compare nei testi narrativi, anche se i dettagli
geografici consentono di rintracciare nello scenario i tratti dello spazio
reale. Così ne La ferita dell’aprile, di cui già si è detto, o in La
grande vacanza orientale-occidentale, scopertamente autobiografico, dove
già la prima immagine – la vista dei
Nebrodi alti e rigogliosi – e poi la partecipata descrizione della marina,
delle fatiche dei pescatori, del litorale da Cefalù a Capo d’Orlando, delle
galleggianti Eolie, di una spiaggia «pietrosa» a cui
tornare come si trattasse di Itaca, il cenno veloce al Castello e alla Matrice
fanno pensare a Sant’Agata. La grande ricchezza di notazioni affettive e di
riferimenti a percezioni sensoriali testimonia l’esperienza e la memoria.
In Alesia
al tempo di Li Causi addirittura il luogo è mascherato da un
toponimofittizio ma il referente reale dello spazio di invenzione è svelato dal
riferimento al castello dei Gallego e dalla vista delle Eolie all’orizzonte[4].
Nella piazza del paese – anonima – Ciccio, il giovane protagonista del
racconto, «figlio d’un commerciante di alimentari»,
assiste agli eventi della Storia: il comizio di Girolamo Li Causi, le lotte dei
contadini, gli echi della strage di Portella della Ginestra, la propaganda
della Democrazia Cristiana e la vittoria nelle elezioni del 1948. Anche una
“contrada” poco nota può essere toccata dai grandi rivolgimenti storici: può
capitare che un ragazzino li osservi con «la testa tra i ferri della
ringhiera», si chiami Ciccio o Vincenzo. Piazza Vittorio Emanuele,
qui solo accennata e invece descritta in maniera precisissima in La testa
tra i ferri della ringhiera, con chiari riferimenti al castello, ai palazzi
nobiliari, alla bordatura di possenti platani[5],
diventa dunque punto di osservazione privilegiato, la radice di una prospettiva
nuova sul corso delle cose, e l’esperienza dei grandi eventi registrata dai
sensi si fa elemento propulsore fortissimo di un lungo e complesso dialogo tra
la letteratura e la Storia.
Il
sorriso dell’ignoto marinaio deve la sua riuscita anche alla straordinaria
scelta di mappare il castello Gallego di Sant’Agata con le scritte dei
prigionieri di Alcara. Un luogo familiare, uno dei più rappresentativi del
paese natio, si trasforma in elemento narrativo determinante. Lo spazio reale
si traduce in scenario e simbolo: la scala diventa chiocciola, la chiocciola
diventa storia, anzi la Storia, che si avvolge su se stessa e si confonde e
confonde. E anche la rilettura del Risorgimento, attraverso la valorizzazione
di un luogo e di un episodio “senza nome”, trova una sua radice a Sant’Agata,
lì dove si sono riversati i ricchi proprietari terrieri in fuga «dopo
rivolte contadine di Alcàra, d’Alunzio e di Bronte»[6].
Il toponimo
è taciuto anche in L’olivo e l’olivastro, dove sono intimi i dettagli
del ritorno doloroso, ad un paese che resta immobile, uguale a se stesso[7],
mentre la madre si fa evanescente come Euridice e la casa viene distrutta,
spazzata dalle ruspe, sostituita da un palazzo di banche e uffici che nasconde
la vista della spiagge e del mare[8].
La vicenda,
chiaramente autobiografica, diventa emblema della rapinosa speculazione
edilizia capace di travolgere anche ciò che è più caro e genera una traccia
narrativa ne Lo Spasimo di Palermo, traducendosinella
distruzione del giardino palermitano di Martinez, nell’apertura del cantiere e
nella costruzione di una nuova casa tra palazzi e casamenti[9].
[1]«Una
costa diritta, priva di insenature, cale, ai piedi dei Nèbrodi alti, verdi
d’agrumi, grigi d’ulivi. Una spiaggia pietrosa e un mare profondo che a ogni
spirare di vento, maestrale, tramontana o scirocco, ingrossava, violento
muggiva, coi cavalloni sferzava e invadeva la spiaggia» (La
grande vacanza orientale-occidentale, La mia isola è Las Vegas, pp.
163-169, a p. 163).
[2]«Sì,
si può cadere su questo mondo per caso, ma non si nasce in un luogo
impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati,
nella carne, nell’anima da questo stesso luogo. Il quale, con gli anni, con
l’inesorabile, crudele procedere del tempo, si fa per noi sempre più sacro.
[…] Fin dal primo sguardo sul mondo, fin
dai primi bagliori dei ricordi – e sono scene isolate, fotogrammi luminosi
incorniciati dal nero dell’immemorabile – si è impresso, Sant’Agata, dentro di me per
sempre. Hieme et aestate et prope et procul, com’era scritto nella stele
fogazzariana, io porto in me questo punto unico del mondo, questo paese […]
Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per
narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco
che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo
luogo», Memorie, prima “Il Valdemone”, I, 1febbraio
1990, pp. 7-9, ora La mia isola è Las Vegas, pp. 134-138 alle pp.
135-138.
[3]Ivi,
p. 137. Sant’Agata assume il ruolo di limen, ago della bilancia tra
un’area dell’isola maggiormente segnata dalla natura e un’altra in cui invece
hanno la meglio la ragione, la storia. Nel luogo delle sue radici, dunque,
Consolo individua la molla della sua aspirazione ad una narrazione che sia «incontro
miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e poesia»
(Ivi, p. 138).
[4]Alesia
al tempo di Li Causi, prima “Il Manifesto”, 19 agosto 2007, ora La mia
isola è Las Vegas, pp. 223-227, a p. 223.
[5]La
testa tra i ferri della ringhiera, La mia isola è Las Vegas, pp.
201-204, alle pp. 201-202.
[6]Alesia
al tempo di Li Causi, La mia isola è Las Vegas, a p. 223.
[9]Lo Spasimo di Palermo, p. 931. Nei dintorni di Sant’Agata è ambientato anche il racconto dell’infanzia di Chino, con indubbio recupero di materiale autobiografico (ad esempio Ivi, p. 981).
Tratto da “Un eccezionale baedeker” (La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo)
Da molti anni speravo di
ripubblicare La Sicilia passeggiata.
E mi piace ricordare subito come anche Caterina, la compagna di una vita di
Vincenzo Consolo, lo desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto
quasi solo dagli specialisti, questo testo, come potrete presto constatare,
esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo
e erudizione. Queste qualità sono rilanciate e riecheggiate a ogni pagina dalla
forza vibrante e dalla fulminea capacità di condensazione visiva e simbolica delle
foto di Giuseppe Leone.
In La Sicilia passeggiata narrazione, poeticità e saggismo si fondono
felicemente, integrandosi nell’evidenza dinamica degli spostamenti, marcata a
ogni passo dai verbi di moto. Si veda l’attacco, tra avventuroso e onirico:
“Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare” (p. 17). È una trama lieve e
decisa, che quasi sospinge il lettore: “Non sostiamo. Procediamo” (ibidem), “Siamo giunti” (p. 18), “è da
qui che vogliamo partire” (ibidem); o
ancora: “Abbandoniamo” (p. 46), “Dalla piazza di Scicli voliamo” (p. 48),
“Andiamo avanti, avanti” (p. 76), “Salpiamo da Porto Empedocle” (p. 96) e così
via. In prima approssimazione, il viaggio attraverso cui Consolo ci guida va da
Oriente a Occidente. Si parte dalla necropoli di Pantàlica, per poi raggiungere
i Monti Iblei, il Val di Noto, Scicli, e poi Còmiso, Vittoria, Ragusa Ibla, Modica,
Siracusa, e ancora Enna, i paesi dello zolfo e quelli del latifondo, fino a immettersi
“nell’antica strada che congiungeva Arigento a Catania” (p. 90), arrivare a
Gela, Agrigento e la Valle dei Templi, Porto Empedocle, proseguendo per Sciacca,
Caltabellotta, Selinunte, Salemi e Calatafimi, e poi Segesta, Trapani, e da qui
ancora Èrice e Mozia, le Égadi, fino a Palermo, già punto d’arrivo del viaggio
siciliano di Goethe. Ma il movimento fisico è solo l’asse portante di una fitta
sequenza di scorribande attraverso il tempo e lo spazio, in un andirivieni
senza soste, modulato da continue transizioni tematiche. L’inarrestabile
fluidità del discorso è del resto dichiarata apertamente, e coincide con il
desiderio di una conoscenza efficace proprio perché pronta a riconoscere un’irriducibile
pluralità: “vogliamo partire”, infatti, “per un nostro viaggio, per una nostra
ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di
geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra
infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo
luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni
civilizzazione.” (p. 18)
Si
viaggia, insomma, sotto il segno della molteplicità, caratteristica
dell’identità della Sicilia, ma anche del Mediterraneo tutto, come Consolo ha
ribadito per una vita intera. Né possiamo dimenticare quanto la pluralità (di
lingue, di stili, di generi) sia il cuore della sua ricerca artistica. Il
movimento che sospinge La Sicilia
passeggiata è incardinato, originalmente, su una prima persona plurale:
dove il “noi” è pluralis majestatis, ma
piuttosto sobria allusione a una possibile piccola compagnia di viaggiatori. Proprio
per questo il “noi” assume una movenza esortativa, come d’invito al lettore a
viaggiare insieme all’autore: stabilendo così una sorta di intimità, di
vicinanza affettiva oltre che culturale. Non dimentichiamo che questa è una “Sicilia
passeggiata”, dove il riferimento alla “passeggiata” non è disimpegno, ma possibilità
di conquistare un peculiare regime di leggerezza e libertà, che si fa garanzia di
conoscenza, perché capace di accogliere le ragioni della storia insieme a quelle
del mito e del sogno, e dunque della poesia. D’altro canto, La Sicilia passeggiata, come è tipico dell’odeporica,
della letteratura di viaggio, è sì racconto, ma sempre sorretto da informazioni
e spunti lato sensu saggistici: come
del resto tutto quello che scrive Consolo. La scelta del titolo è tuttavia segno
di differenze profonde rispetto ad altri testi ch’egli scrive in quegli anni. Proviamo
a metterle a fuoco.
Quello
che poi diventerà La Sicilia passeggiata
esce per la prima volta col titolo Kore
risorgente. La Sicilia
tra mito e storia, in un lussuoso volume hard cover (cm. 29×25), Sicilia
teatro del mondo, pubblicato da Nuova ERI / Edizioni RAI nel settembre 1990.
Di questo volume costituisce la “metà” letteraria, affiancata, oltre che dalle
fotografie di Giuseppe Leone, che già dialogano con il testo consoliano, da un bel
saggio di Cesare De Seta, Teatro
geografico antico e moderno del Regno di Sicilia, che racconta la storia
siciliana a partire dall’omonimo volume uscito a Madrid nel 1686, del cui sontuoso
apparato iconografico si riproducono circa cento stampe, su cartoncino. Entrambi
i testi sono tradotti in francese (da Nicole Dumoulin) e in inglese (da Richard
Kamm). Pochi mesi dopo, nel febbraio 1991, il testo di Consolo e le fotografie
di Giuseppe Leone diventano però un volume autonomo, stavolta in un agile
formato paperback (cm. 24×14), edito
ancora da ERI, con il titolo che qui riproponiamo.
Rispetto
alla storia della scrittura di Consolo, La
Sicilia passeggiata si colloca fra due opere diversissime, ma che sono entrambe,
a loro volta, il racconto di un viaggio in Sicilia. La prima è il romanzo Retablo (1987), ambientato nel
1760-1761, in un Settecento volutamente remoto e irreale, mezzo storico e mezzo
fantastico, in opposizione alla deludente realtà storica. La seconda è L’olivo e l’olivastro (1994), viaggio stavolta
autobiografico, ancora più apertamente polemico contro il degrado del presente,
incardinato sullo schema omerico del nòstos
(evocato fin dal titolo, ch’è citazione dall’Odissea). Numerosi spunti odeporici compaiono anche in Le pietre di Pantalica (1988): a prima
vista un libro di racconti, ma in realtà frutto della fusione di un originario
impianto romanzesco con un pacchetto di narrazioni autobiografiche. Più esili
sono invece i rapporti con il romanzo storico Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega)[1].
Proprio il confronto con gli altri due viaggi in Sicilia aiuta a delineare con
nettezza, per differentiam, i
contorni di La Sicilia passeggiata.
Per dirla in pochi cenni, è vistosa anzitutto la distanza rispetto alla fiction di Retablo, con cui pure ci sono non pochi fascinosi elementi di
contatto (come i rimandi alla visita goethiana alla grotta di Santa Rosalia,
che in Retablo però compare
all’inizio, mentre qui è in chiusura). Ma non meno evidente è lo scarto
rispetto all’impianto poematico, stilisticamente “alto”, tragico, di L’olivo e l’olivastro, che intreccia il
viaggio in Sicilia con la rievocazione delle vicende di personaggi storici rilevanti
nella storia dell’isola (Empedocle, Verga, Caravaggio, Maupassant, Saverio
Landolina, August von Platen, il giudice Ciaccio Montalto, ucciso dalla mafia,
e altri ancora). La copia postillata dall’autore di La Sicilia passeggiata mostra, significativamente, ipotesi di
interventi che avrebbero non solo ampliato materialmente il testo, ma anche
contribuito a spostarne l’intonazione verso l’alto e i contenuti verso la deprecatio temporis, sospingendolo verso
quello che sarà poi L’olivo e l’olivastro.
Ma i due libri vanno in realtà in direzioni molto diverse, quasi opposte. Se L’olivo e l’olivastro è infatti tutto
teso a sottolineare “i processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori”, come
dichiarato in un’intervista, La Sicilia
passeggiata intende invece valorizzare la ricchezza storica, artistica e
naturale dell’Isola, per coglierne l’irriducibile complessità. Come osserva
opportunamente Ada Bellanova, “l’attenzione
per gli esseri umani e gli intrecci di identità diverse diventa in La
Sicilia passeggiata il nodo centrale dello sforzo di dire”[2]. Senza contare l’importanza del
rapporto, assai stretto e in qualche misura fondativo, fra il percorso e l’apparato
fotografico che lo accompagna, collocandolo in una piccola tradizione di libri
dove il testo di Consolo sta accanto a foto dedicate a “luoghi geografici,
specialmente siciliani”[3].
Certo
anche La Sicilia passeggiata
conferma, con la densità dei suoi riferimenti alla classicità greco-latina, l’appartenenza
a una stagione di riavvicinamento all’antico, che si fa misura del degrado e della
corruzione del presente. Ricordiamo anche la tragedia Catarsi (1989), dedicata alla morte di Empedocle. Consolo si mostra
ben consapevole delle differenze tematiche e tonali proprio nel momento in cui,
invece che integrare e ampliare La
Sicilia passeggiata, decide di scrivere un altro libro, molto più cupo,
“alto” e polemico, come L’olivo e
l’olivastro. La Sicilia passeggiata
va letta, anzitutto, nella chiave della complessità e dell’ambivalenza, che
Consolo ritrovava già in Goethe: “Isola dell’esistenza pura e contrastante.
Isola dell’infanzia, dei miti e delle favole. Isola della storia. Di storia dei
primordi, degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri,
di decadenze, di crolli, di barbarie. Crogiuolo di civiltà, babele delle razze
e delle lingue. Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph,
geroglifico consunto, alfabeto monco” (p. 18). Dove la contraddizione
originaria è anzitutto quella più assoluta e irriducibile: il contrasto fra
Vita e Morte, evocato già dal primo titolo, Kore
risorgente, che allude alla storia di Persefone, sposa di Ade e regina
dell’Oltretomba, che ogni sei mesi torna all’aperto dalla madre Demetra e fa
rifiorire la Terra. Non a caso, del resto, questo viaggio siciliano comincia
dalla necropoli protostorica di Pantàlica: “vogliamo partire da questo luogo
estremo e abissale, da questa soglia per cui si passa dalla scansione della
storia all’oscurità del tempo, all’eterno circolare e immoto […]. Poiché
Pantàlica è sì un luogo di morte, ma è insieme luogo di resurrezione, di
cominciamento: è luogo-simbolo di questa complessa e contrastante terra di
Sicilia, della sua storia di ricorrente distruzione e di rinascita” (p. 20). In
una direzione analoga vanno molte altre storie evocate: come quella del
catastrofico terremoto in Val di Noto del 1693, da cui poi nacquero alcune
delle più straordinarie realizzazioni artistiche del barocco siciliano. Ma
persino lo spaventoso groviglio di contraddizioni che è Palermo la Rossa, su
cui si chiude il libro, riconferma una dinamica analoga. Santa Rosalia, infatti,
la “Santa estatica” patrona di Palermo, coincide con “tutte la Sante vergini di
Sicilia, Agata Lucia Venera Ninfa, ed è insieme Kore e Persefone”, e si colloca
dunque di nuovo sotto il segno della vita che rinasce, di Demetra che torna
alla superficie e alla luce: “Come fa l’ape nella primavera, come fa la
primavera della storia” (p. 138). Con
questa certezza anche noi, dopo tanto buio, ricominciamo il nostro viaggio.
RINGRAZIAMENTI.
Un grazie specialmente sentito va a Giuseppe Leone, che per la presente edizione
ha rivisto e arricchito lo splendido apparato fotografico: così questo libro è
un ritorno, ma anche un libro nuovo. Grazie, di cuore, a Claudio Masetta
Milone, che mi ha rivelato le postille di Consolo al volume, e a Francesca
Adamo, che ha creduto in questo libro e ne ha curato con competenza impaginazione
e redazione.
[1] Per una ricostruzione dettagliata della storia delle opere a cavallo fra fine
anni Ottanta a primi anni Novanta mi permetto di rimandare a G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V.
Consolo, L’opera completa, a cura e
con un saggio introduttivo di G. Turchetta, e con uno scritto di C.
Segre, Mondadori, Milano 2015, pp. 1351-1425.
[2] A.
Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera
di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 28.
Partendo dall’evidente ricchezza di riferimenti geografici osservabile nell’opera di Vincenzo Consolo, il saggio si propone, mediante uno studio delle modalità di costruzione dell’immagine letteraria, di accendere l’attenzione non solo sugli spazi di cui l’autore parla direttamente, ma anche sulla nostra relazione con lo spazio. Guida dunque il lettore attraverso un universo labirintico e ‘palincestuoso’, che ha il suo centro in Sicilia e che comprende il Mediterraneo, l’Italia, il mondo intero. Invitando a cogliere la complessità della percezione e della rappresentazione, si sofferma sul dramma ecologico di un paesaggio costantemente a rischio e sulla crisi dell’identità umana che ne consegue. Evidenziando poi la caratterizzazione del mare Mediterraneo come spazio di molteplicità e migrazioni lo studio rivela un’importante riflessione autoriale sulle emergenze dei nostri giorni. “Il lettore potrà, facendosi strada in uno spazio letterario labirintico, compilare mappe di senso e comprendere i luoghi dell’autore e il nesso esistente tra geografie di carta e geografie reali? Se sì, forse sarà incoraggiato a scoprire la Sicilia, il Mediterraneo, chissà anche Milano. Ma, fatta salva la specificità dei luoghi chiamati in causa, si troverà inevitabilmente di fronte a una serie di riflessioni di più ampia portata, ciò che accade di fronte alla vera letteratura. Comprenderà che i luoghi non sono uno sfondo, non solo quelli della pagina scritta, ancor meno i loro referenti della realtà: nessun luogo reale, infatti, è un semplice contenitore, uno scenario su cui sfilare. Mediterà allora sul proprio modo di percepire lo spazio, sulla relazione tra rappresentazione e realtà, sulla memoria e sul cortocircuito che si produce quando, nello scorrere del tempo, Itaca smette di essere Itaca mentre i ricordi restano fedeli al passato. Sarà costretto a pensare a quello che sta succedendo al paesaggio, a tratti esteticamente splendido, a tratti deturpato, privato della sua identità. Ecco, si interrogherà sull’identità: se i luoghi non sono uno sfondo e smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. Per questo allora l’opera di Consolo può dirsi un eccezionale baedeker: vi si può cogliere l’invito a scoprire alcuni angoli geografici, mediante il rilievo a proposito delle emergenze architettoniche o naturalistiche che attendono il lettore che voglia avventurarsi alla scoperta dello spazio reale, ma vi si troverà anche la presentazione dei deprecabili interventi che deturpano il paesaggio e la vita umana. Già questo basterebbe ad attestarne la particolarità, perché le guide di viaggio, anche quelle “letterarie”, si soffermano piuttosto sugli aspetti seducenti, evitando invece ciò che produrrebbe un’esperienza quanto meno sgradevole per il lettore-viaggiatore. Mentre, alternando la lente dello stupore e dell’idealizzazione a quella dell’indignazione, attrae e scoraggia, il testo svela la complessità della nostra relazione con lo spazio, costringendo ad un’esperienza non sempre gratificante, e guida a una maggiore attenzione nei confronti dei luoghi, di tutti i luoghi, in quanto portatori di identità. Agli importanti segni di crisi della modernità l’opera risponde affermando il valore di ciò che è rimasto, traccia di passato nel presente: solo nella conservazione, nella cura possiamo sperare di non perdere noi stessi, ma questo non può accadere senza consapevolezza. Consolo dichiara insomma che i luoghi non sono uno sfondo, ma ci appartengono profondamente e rileva l’intimo scambio che esiste sempre tra ambiente e essere umano. Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, l’autore alluda proprio a questo, ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto questo, cosa saremmo?
Sei nato dal carrubo e dalla pietra da madre ebrea e da padre saraceno. S’è indurita la tua carne alle sabbie tempestose del deserto, affilate si sono le tue ossa sui muri a secco della masseria. Brillano granatini sul tuo palmo per le punture delle spinesante [1]”.
[1] Accordi. Poesie inedite, a cura di F. Zuccarello e Claudio Masetta Milone, Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015.
Siciliano e milanese Il libro che avete fra le mani nasce da un Convegno internazionale tenutosi a Milano il 6 e 7 marzo 2019, presso l’Università degli Studi di Milano, nella prestigiosa Sala Napoleonica di Palazzo Greppi. Tenevo molto alla realizzazione di questo Convegno e ora sono felice di aprire questo volume. Tornerò subito sull’importanza di Consolo scrittore e intellettuale. Ma voglio anzitutto sottolineare fino a che punto il sicilianissimo Vincenzo Consolo, (nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933), che per tutta la vita ha parlato e scritto quasi solo della Sicilia, avesse messo radici a Milano, dove ha vissuto dal 1° gennaio 1968 (una data singolarmente simbolica) fino alla morte, avvenuta il 21 gennaio 2012. Questo volume esce anche ormai a ridosso del decennale della scomparsa, di cui intende aprire le celebrazioni. Come molti altri scrittori siciliani, Consolo si è trasferito a Milano: e come non pochi altri, Vittorini in testa, c’è rimasto poi fino alla fine. È vero anche però che, in non pochi momenti della sua vita, egli ha meditato seriamente sulla possibilità di andarsene, di tornare in Sicilia, o quanto meno al sud, per vari motivi: per nostalgia, forse per tutta la vita, ma fors’anche mai convintamente; perché il sud avrebbe avuto bisogno di una guida intellettuale (soprattutto all’indomani della morte di Sciascia, tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, anche per le sollecitazioni di Goffredo Fofi, a sua volta tornato da Milano a Napoli); perché deluso da un nord affarista e rapace, traditore della grande tradizione illuminista (si veda Retablo), politicamente sempre più a destra (soprattutto all’indomani dell’elezione di Formentini a Sindaco di Milano, nel 1993), e poco dopo berlusconiano. Eppure, nonostante tutto, Consolo alla fine è rimasto a Milano, per tante altre ragioni. E dunque non si fa certo una forzatura considerandolo, così come tanti altri meridionali diventati milanesi d’adozione (mi ci metto anch’io), non solo siciliano, ma anche milanese. Certamente Milano ha dato molto a Consolo. E d’altro canto Consolo ha ricambiato con una fedeltà profonda, più di quanto potrebbe apparire a prima vista. Era dunque doveroso che Milano, finalmente, gli dedicasse un grande Convegno, e che questo Convegno non restasse solo un evento, ma diventasse una tappa importante nella bibliografia critica consoliana, diventata ormai molto ampia e ricchissima di contributi di studiosi non italiani, o trasferiti da molto tempo in sedi estere. Prima di entrare nel merito dell’argomento cui sono dedicati i saggi qui raccolti, voglio ancora fare due osservazioni preliminari. La prima riguarda la necessità di acquisire in pianta stabile Consolo alla percezione diffusa della letteratura italiana contemporanea, a quello che potremmo chiamare il senso comune o, se preferite, il canone. La pubblicazione delle opere di Vincenzo Consolo nei Meridiani Mondadori ne sancisce del resto definitivamente la statura di “classico”, di scrittore destinato a restare. Sfruttando la prestigiosa auctoritas di Cesare Segre: «Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione»1, quella cioè degli anni Trenta. Segre ha certo ragione, ma noi possiamo allargare anche di più la sua affermazione, ribadendo, senza mezzi termini, che Consolo è tout court uno dei massimi scrittori italiani del Secondo Novecento. La seconda osservazione ha a che vedere con la scelta di inquadrare Consolo in relazione all’identità mediterranea, o piuttosto all’intreccio inestricabile di identità che caratterizza il Mediterraneo. Guardare a Consolo da questa prospettiva significa certo, in prima approssimazione, ribadire la costanza e la profondità dei suoi discorsi sulla Sicilia: ma tenendo sempre presente che per Consolo la Sicilia, come vedremo fra poco, è fisicamente centro e simbolicamente luogo esemplare di una realtà più ampia e complessa: quella appunto del Mediterraneo. Lo testimonia, fra, le altre cose, anche l’importante antologia in lingua inglese degli scritti di Consolo, Reading and writing the Mediterranean, curata da Norma Bouchard e Massimo Lollini2. Allo stesso tempo, leggere Consolo sub specie Mediterranei ha significato collocarsi in una specola privilegiata, dalla quale egli appare fin dal primo momento in tutta la sua complessità, di scrittore ma anche di intellettuale a tutto tondo, impegnato senza tregua anche sul piano politico-culturale. Sarei quasi tentato di parlare di una sorta di paradosso che governa il lavoro di Vincenzo Consolo: ma credo sia più opportuno parlare di una tensione costitutiva, che fa del resto tutt’uno con la sua straordinarietà. Sperimentalismo e eticità: fra scrittura e militanza La scrittura consoliana nasce certo da una vocazione implacabile, tutta tesa verso un’idea di letteratura come linguaggio speciale, tanto denso da sfidare la concretezza stessa del reale. In questa prospettiva, Consolo assegna alla letteratura una missione insieme impossibile e necessaria, che ha una profonda valenza etica e politica. Dopo la fine della stagione dell’engagement, Consolo chiede alla letteratura di essere pienamente, ferocemente letteratura, di distinguersi sempre dalle altre forme di comunicazione: comprese quella della quotidiana battaglia politico-culturale, condotta soprattutto sui quotidiani e in genere sui periodici a larga diffusione. Questa duplicità gli consente di affiancare due operazioni molto diverse, se non antitetiche: denunciare le ingiustizie del mondo, da un lato, producendo parole che potrebbero, nonostante tutto, contribuire a cambiarlo; ma anche, da un altro lato, valorizzare senza sosta la bellezza e la ricchezza della vita. Non è certo un caso che questa duplicità permei in profondità proprio la rappresentazione della Sicilia, come mostra esemplarmente, fra gli altri, un romanzoromanzo come Retablo. Se la scrittura propriamente letteraria è protesa verso la mission impossibile di sfidare la densità delle cose e della realtà, d’altro canto Consolo non smette di praticare senza sosta un’idea fortemente militante del lavoro intellettuale, mediante il quale lo scrittore, pur consapevole dei propri limiti, si batte per denunciare le ingiustizie del mondo, intervenendo senza soluzione di continuità nel dibattito culturale, in tutte le sedi disponibili. A fianco alla produzione propriamente letteraria, Consolo ha così realizzato un’immensa produzione saggistica e giornalistica, ancora pochissimo studiata, e che è necessario indagare. Egli ha infatti collaborato per decenni (dal 1966 al 2010) con numerosissime testate, fra le quali «L’Ora», «Il Messaggero», «La Stampa», il «Corriere della Sera», «l’Unità», «il Manifesto», «Repubblica», «L’Espresso». Solo una piccola parte di questa produzione è stata raccolta e ripubblicata in volume: il che equivale a dire che fra i lavori da fare ci sono non poche possibili nuove edizioni. Per ora in volume troviamo anzitutto i magnifici saggi, di impianto prevalentemente storico e letterario, raccolti in Di qua dal faro3, un libro che a sua volta riprende altri più piccoli volumi precedenti. Già questo volume affronta la storia, la cultura e la letteratura siciliane in una prospettiva che si apre verso il Mediterraneo tutto, anticipando prospettive di studio oggi molto frequentate e ai quali certo il presente volume intende ricollegarsi. Ma Di qua dal faro raccoglie solo una piccola parte della vasta produzione saggistica di Consolo. Sul versante giornalistico, possiamo leggere in volume anche un’antologia degli articoli pubblicati sul quotidiano di Palermo «L’Ora» tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta4, durante la stagione straordinaria della direzione di Vittorio Nisticò5. È poi disponibile una scelta quasi completa dei suoi scritti sulla mafia6: dove, di nuovo, emergono l’urgenza e la drammaticità di tematiche legate alla Sicilia e al Meridione d’Italia, nella loro peculiarità ma anche nel loro più ampio rapporto con i processi di modernizzazione della penisola. La maggior parte degli scritti saggistici e militanti di Consolo resta però sparpagliata nelle diverse sedi in cui è uscita e in una piccola galassia di libretti di pressoché impossibile reperibilità. Consolo ha svolto un’attività giornalistica di ampiezza e intensità davvero straordinarie: mi permetto di rimandare, a questo proposito, alla bibliografia da me curata per il Meridiano7, che nella sua (quasi) esaustività consente di farsi un’idea precisa e fondata. E pensare che alcuni critici hanno detto che Consolo era “pigro”: bibliografia alla mano, pare proprio difficile sostenerlo! È vero solo, semmai, che egli ha scritto un numero relativamente limitato di libri propriamente di letteratura: questo è avvenuto proprio perché, quando scriveva «letteratura», costruiva delle macchine semiotiche ed espressive di natura assai diversa da quelle realizzate negli articoli e nei saggi, macchine che chiedevano una costruzione lentissima, sviluppata nel corso di anni interi. D’altro canto, per tutta la vita, o per lo meno dagli anni immediatamente successivi all’esordio con La ferita dell’aprile 8, la scrittura letteraria è stata sempre affiancata da quella lato sensu giornalistica. Già i volumi a nostra disposizione ci consentono di cogliere fino a che punto Consolo fosse presente con grande costanza nella vita pubblica e nella vita politica, sempre ben salvaguardando la sua specificità di intellettuale, secondo un modello che deriva dalla cultura francese, da Émile Zola e dallo stesso Jean-Paul Sartre (entrambi citati più volte nei suoi scritti militanti). Consolo era, insomma, un intellettuale sempre pronto a parlare della realtà, del presente, della quotidianità, spesso toccando temi caldi e problematici, con un coraggio e una spregiudicatezza mai disponibili al compromesso, segnati da un’eticità rigorosissima, senza incrinature. Per dirla in modo un po’ colloquiale: Consolo non le mandava mai a dire, e questo, non lo si dimentichi, gli ha procurato non poche ostilità, delle quali si curava poco o nulla. Anche da questo punto di vista il suo esempio è davvero ammirevole. Vorrei persino dire che, pur rifiutando sempre le non poche sollecitazioni a scendere in politica9, a suo modo Consolo ha sempre fatto politica, per quanto in maniera molto diversa e lontana da quella dei politici professionali.
“Io non so che voglia sia questa”: l’ossessione della Sicilia Cominciamo a dirlo con le sue parole: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.10 Consolo ha sempre in mente la Sicilia, ne parla sempre. Un po’ la vuole, e un po’ però è lui il primo a non volerci tornare: la ama e non la sopporta, la desidera e gli ripugna. Rappresentare la Sicilia da lontano ha significato per lui anche vivere l’ossessione della Sicilia nei termini, consapevolmente contraddittori di necessità del ritorno, ma anche di impossibilità del ritorno. Significativamente, egli ha reinventato il mito di Ulisse alla sua maniera, parlandoci di un Ulisse che non ha più un’Itaca dove tornare, della quête ormai impossibile di una patria e di un’origine che ormai non esistono più. Consolo è ossessionato da questa sua patria che non è più quella di prima, che non è più patria: ma parlando della Sicilia parla con ogni evidenza di tutto un mondo dove la perdita delle radici è la regola, dove non è più possibile affidarsi a un’appartenenza originaria, che rischia di essere mistificata e mistificatoria. Ma che Sicilia è la Sicilia di Consolo? Ancora una volta la contraddizione è vitale: da un lato è una Sicilia costruita con un’attenzione documentaria rigorosa. Da questo punto di vista, Consolo si comporta in molti casi quasi come uno specialista, uno storiografo di professione. Frequentando a lungo le sue carte ho potuto vedere bene in che modo egli arrivasse a costruire i suoi testi letterari, quasi sempre raccogliendo documenti e materiali vari per anni. Nel caso del Sorriso dell’ignoto marinaio (la cui costruzione ha richiesto tredici anni di lavoro) Consolo narra della cruenta rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, del maggio 1860, poi repressa con violenza. Per ricostruirla non solo studia libri di storia, ma va in archivio, cercando le carte di quella vicenda: si procura, per esempio, i certificati di morte dei rivoltosi condannati alla fucilazione. Quando infatti, alla fine del Sorriso, leggiamo proprio un certificato di morte, quello del bracciante Peppe Sirna, non siamo davanti a un’invenzione, ma a un documento autentico, che certo ha anche la funzione simbolica di farci percepire il contrasto terribile fra la nuda povertà di un certificato di morte, delle sue poche, gelide, burocratiche parole, che sono un quasi-nulla, e la vigorosa intensità della vita in corso, in particolare quella che avevamo percepito nel cap. V, dove la rappresentazione passa proprio attraverso il punto di vista di Peppe Sirna, messo in scena nelle sue fatiche, nelle sue percezioni e nei suoi pensieri. Consolo lavora così in molte occasioni: raccoglie i materiali come uno storiografo e si confronta con la documentazione, nella sua oggettività. Ma al tempo stesso non smette di mostrarci la soggettività di ogni punto di vista e la prospetticità di ogni visione del mondo. La Sicilia che egli rappresenta è del resto sì concretissima, ma può essere anche sottoposta a una torsione mitizzante che la rende persino fiabesca, come accade soprattutto in Lunaria, ma anche in Retablo. In ogni caso, la sua Sicilia è, come dire?, una Sicilia-Sicilia, fedele alla propria identità, ma al tempo stesso non cessa di essere anche “altro”, di funzionare come una metafora ad alta densità, dotata di una energica tensione generalizzante. Anche la Sicilia di Consolo, com’era accaduto alla Lucania di Carlo Levi, si fa intensa rappresentazione del Sud del mondo e dei processi di modernizzazione che distruggono il mondo contadino: li vediamo all’opera in Italia, ma anche in tante altre nazioni, soprattutto extraeuropee. Anche se ci parla di come i processi di modernizzazione stiano distruggendo molte civiltà, in Consolo non c’è mai un atteggiamento nostalgico, la facile retorica sui bei tempi andati. È necessario ricordare, a questo proposito, come lo stesso plurilinguismo consoliano nasca dall’intenzione di conservare, attraverso la letteratura, parole che rischiano di perdersi, e, attraverso le parole, le culture, i punti di vista sul mondo, i modi di vita che esse portano in sé. Nella scrittura di Consolo vi è insomma una grande preoccupazione antropologica, oltre che storica, coerentemente con la sua costante attenzione alla longue durée. Parlando della Sicilia Consolo ci racconta una storia drammatica, anche perché molte volte i cambiamenti sono parsi offrire delle possibilità di rinnovamento, di liberazione, che poi però sono andate perdute e hanno deluso. Al di qua e al di là della Storia, per Consolo la Sicilia è però anche una densa metafora dell’ambivalenza della vita. In fondo in Sicilia c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per essere felici: una cultura millenaria, con straordinari monumenti, dalla protostoria alla Magna Grecia, dalla romanità al Medioevo, al Barocco, al Liberty; una natura rigogliosa e varia; una cultura stratificata e ricchissima; anche, perché no?, una cucina tra le più raffinate del mondo. Detto in due parole, la Sicilia potrebbe forse essere il migliore dei mondi possibili. Eppure per molti versi è quasi il contrario: è un mondo tragicamente violento e corrotto, pieno di orrori, tanto da rendersi persino proverbiale, visto che nel mondo intero è proprio una parola siciliana, mafia, a indicare tutte le forme di criminalità organizzata. Rispetto alla rappresentazione dell’ambivalenza della Sicilia, Retablo11 è un testo esemplare: vi troviamo deliziosi incontri tra amici e nuove amicizie che nascono; ma al tempo stesso assistiamo alla rappresentazione di un orrore innominabile, senza fine. Si pensi, fra le altre, alla scena delle prostitute a cui per punizione viene tagliato il naso12. Una violenza atroce, quella delle mutilazioni come pena legale, che si praticava nel mondo passato, certo (e dunque… come idealizzarlo?): ma che continua ad accadere ancora oggi in non poche parti del mondo… La Sicilia appare dunque in Consolo come un luogo in cui vi è tutto il male e tutto il bene, ed è di conseguenza anche per questo un’immagine della vita tutta, un luogo «bellissimo e tremendo», per riprendere un’espressione di Consolo stesso13. La Sicilia si fa insomma metafora della vita, della sua bellezza straordinaria e della sua terribile violenza, che convivono. D’altro canto, Consolo non cade mai in un vizio tipico dei letterati: quello di collocare tutto in «un tempo senza tempo», di parlare di ogni violenza e di ogni tristezza come di qualcosa di eterno, segno di un destino immodificabile e senza scampo. Non a caso del resto Consolo polemizza duramente con chi, come Tomasi di Lampedusa, pensa che la Storia sia inesorabilmente uguale a se stessa, che in essa «cambia tutto» perché «non cambi niente». Tutt’al contrario, Consolo ci ricorda in continuazione che i cambiamenti sono storicamente determinati: e che quindi bisogna continuare a combattere per provare a cambiare. “Non un paesaggio ma innumerevoli paesaggi”: il mosaico Mediterraneo Se la Sicilia funziona come chiave per la lettura del mondo tutto, questo avviene anche e proprio perché la Sicilia è per Consolo una sorta di sintesi del Mediterraneo, cioè di un’area talmente ricca sul piano storico e culturale da poter valere come equivalente del mondo tutto: Perché è da qui che vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione.14 L’ambiguità sintattica, che permette di interpretare sia la Sicilia sia il Mediterraneo come il “luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione” finisce per ribadire sul piano semantico la possibilità che la Sicilia sia una sorta di equivalente del Mediterraneo tutto, con le sue caratteristiche di molteplicità e, di più, di totalità. Già i saggi contenuti in Di qua dal faro15 vanno del resto, fin dal titolo, in una direzione apertamente mediterranea. Il titolo infatti evoca polemicamente un modo di dire dei Borboni, che con l’espressione «Di là dal faro» designavano appunto la Sicilia, vista dal continente, e più specificamente da Napoli, come la parte del loro regno collocata al di là del faro di Messina: una regione a cui guardavano evidentemente con sufficienza e distacco. La prospettiva opposta, quella «di qua dal faro», implica invece uno sguardo partecipe, ma al tempo stesso, mentre sottolinea la centralità della Sicilia, intende sottolineare proprio la necessaria apertura verso il Mediterraneo tutto: la Sicilia, dunque, come mondo “altro”, ma emblematico di un mondo più vasto. Quanto ricco sia il Mediterraneo di Consolo verrà mostrato con ampiezza e profondità dai saggi qui raccolti. E voglio ricordare anche la recente uscita di un’importante monografia di Ada Bellanova su La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, un volume che indaga ampiamente la mediterraneità di Consolo16. La dimensione mediterranea dell’opera di Consolo chiama in causa, come accennato poco sopra, un’identità che va declinata su una profondità storica straordinaria, plurimillenaria, di longue durée. In questa chiave, la storia si fa antropologia, anche perché chiama in causa gesti antichi, azioni che fondano le comunità umane: la raccolta e la produzione dei cibi, la produzione di oggetti, l’acquisizione delle risorse, e, in generale, quelle che potremmo chiamare le azioni del lavoro umano. Non a caso, in Di qua dal faro si trovano tante “storie” (straordinarie) che ci parlano direttamente di queste azioni, di questi gesti: si pensi alle ricostruzioni della storia dell’estrazione dello zolfo, una grande vicenda economica e antropologica della storia italiana, o della pesca del tonno17. Certo il Mediterraneo è uno spazio fortemente identitario. Ma si tratta di un’identità caratteristicamente plurale, perché composta da un mosaico complessissimo di tempi lingue culture etnie. Il Mediterraneo è un piccolo mare, certo, ma che tocca in un piccolo spazio tre continenti, in un’area segnata da una storia tanto antica da configurarsi per molti aspetti come la culla non di una, ma di molte civiltà. Ce lo ricordano, fra molte altre, le parole di uno dei più grandi esperti di tutti i tempi della storia mediterranea, Fernand Braudel: Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa profondare nell’abisso di secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto. Significa incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno: accanto a Venezia, nella sua falsa immobilità, l’imponente agglomerato industriale di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere. Significa immergersi nell’arcaismo dei mondi insulari e nello stesso tempo stupire di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare.18 Lettore attento di Braudel, con ogni evidenza anche Consolo colloca il Mediterraneo sotto il segno della pluralità, che ritroviamo in tutti gli studi più autorevoli sul mare nostrum. Mi verrebbe persino da dire che la stessa scrittura consoliana, così programmaticamente plurale, intende in qualche modo echeggiare proprio quella pluralità. Spazio millenario di intensi scambi e di ricchissima produzione culturale, nel Mediterraneo culture diversissime si sono mescolate, integrandosi prodigiosamente (si pensi alla civiltà arabo-sicula, o a un fenomeno linguistico come il sabir, la lingua franca dei porti del Mediterraneo, che mescola lingue romanze e lingue semitiche) o tragicamente scontrandosi e combattendosi. Le scritture di Consolo evocano continuamente lo spessore storico delle vicende che hanno attraversato il Mediterraneo, proiettandole in modo sistematico sull’attualità, e mostrando come la straordinaria ricchezza multilinguistica e multi-culturale del Mediterraneo possa costituire un punto di riferimento per l’interpretazione della realtà contemporanea e per l’individuazione di strategie di integrazione. La forza del riferimento all’identità mediterranea sta anche nel fatto che lo spazio del Mediterraneo rende problematiche molte opposizioni che siamo soliti dare per scontate, a cominciare da quelle, insieme geografiche e metaforiche, di nord vs sud e est vs ovest. Ragionare in termini di mediterraneità significa così, di necessità, fare sempre riferimento a un’identità composita, che nega ogni semplificazione identitaria: proprio quel tipo di semplificazione da cui derivano le elementari, forzatissime e opportunistiche narrazioni sovraniste e populiste. Per sua stessa costituzione, proprio l’identità mediterranea ci chiede continuamente di essere di nuovo decifrata, ci impone di non smettere mai di fare i conti con qualcosa che è sempre stata problematica, e che, per sovrapprezzo, gli ultimi anni hanno, drammaticamente, reso ancora più problematica e conflittuale. A questo proposito, è difficile trovare parole più esatte di quelle di un altro gigante degli studi mediterranei, Predrag Matvejević: l’Europa, il Magreb e il Levante; il giudaismo, il cristianesimo e l’Islam; il Talmud, la Bibbia e il Corano; Gerusalemme, Atene e Roma; Alessandria, Costantinopoli, Venezia; la dialettica greca, l’arte, la democrazia; il diritto romano, il foro e la repubblica; la scienza araba; il Rinascimento in Italia, la Spagna delle varie epoche, celebri e atroci; gli Slavi del sud sull’Adriatico e molte altre cose ancora. Qui popoli e razze per secoli hanno continuato a mescolarsi, fondersi e contrapporsi gli uni negli altri, come forse in nessuna ragione di questo pianeta. Si esagera evidenziando le loro convergenze e somiglianze, e trascurando invece i loro antagonismi e le differenze.19 Fra conflitto e integrazione, appunto, come nel nostro titolo. Parlare di Mediterraneo, non a caso, significa così anche denunciare la violenza che in questo spazio è stata e continua a essere esercitata. Ce lo ricorda ancora Braudel, in un passo che Consolo ha non a caso citato più di una volta: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”20. Consolo è stato, non per caso, uno dei più lucidi e tempestivi nel cogliere le nuove direzioni della violenza nel Mediterraneo, a cominciare da quella esercitata sui migranti, su cui torneremo fra pochissimo. Pochi come lui hanno capito subito, fin dagli anni Ottanta, che Il Mediterraneo oggi, forse per la prima volta nella propria storia millenaria vede intaccato il mito che costantemente lo ha accompagnato, quello della culla delle culture, delle civiltà, delle tre grandi religioni monoteistiche, per vederlo sostituire da un mito sommario, cumulativo, a grappolo, quasi, ed è quello che presenta il Mediterraneo come un mare pericoloso 21 La vibrata, lucida polemica di Andrea Gialloreto, Srećko Jurišić, Eliana Moscarda Mirković ci riporta, dolorosamente, a un contesto odierno dove purtroppo il confitto sembra prevalere sull’integrazione. Non sono pochi gli scenari in cui il peggioramento e il degrado sono tragicamente evidenti, è fin troppo facile ricordarli: a cominciare dalla Siria, per proseguire con l’Algeria, la Libia, l’Egitto. Caterina Consolo ricordava con rimpianto gli anni in cui lei e Vincenzo potevano viaggiare da soli in vari paesi del Magreb, semplicemente noleggiando una macchina e girando in tutta tranquillità. Difficile immaginare oggi qualcosa di simile. Certo, il degrado dell’oggi rimanda a tanti altri momenti e luoghi in cui sono prevalse la violenza e la conflittualità. A questo proposito, è opportuno ricordare che la tesi di laurea in Giurisprudenza di Consolo, discussa il 18 giugno 1960, si intitolava La crisi attuale dei diritti delle persone 22. Una volta di più, la prospettiva consoliana si mostra acutissima, sempre lucida davanti alla realtà presente. Per vari aspetti risulta impressionante, per la sua tempestività, l’insistenza di Consolo nel segnalare il dramma dei migranti africani e la frequenza delle tragedie in mare legate ai loro flussi attraverso il Mediterraneo, fin dagli anni Ottanta: si pensi a un racconto come il Memoriale di Basilio Archita 23, scritto addirittura nel 1984, una data incredibilmente precoce. Già allora, Consolo intuiva quanto Ian Chambers oggi può affermare senza incertezze: Il migrante moderno è colui che più intensamente delinea questa costellazione [attuale dell’ordine planetario]. Sospeso nell’intersecarsi di un’espropriazione economica, politica e culturale, è colui/colei che porta le frontiere dentro di sé. […] Il/la migrante non è puramente un sintomo storico della modernità; piuttosto è l’interrogazione condensata dell’identità vera e propria del soggetto politico moderno.24 Va aggiunto peraltro che Consolo ha dato anche costante attenzione alla pluri-direzionalità e periodicità dei flussi migratori. Si pensi, in particolare, ai suoi ripetuti riferimenti all’emigrazione dei siciliani in Tunisia: ancora oggi un quartiere di Tunisi si chiama “Petite Sicile”. Proprio in Tunisia emigra, fra gli altri, il protagonista Petro Marano al termine di Nottetempo, casa per casa25. Vi proporrò ora, per avviarmi al termine del mio percorso, un esempio molto caratteristico della capacità di Consolo di leggere lucidamente, criticamente la realtà, e insieme però di fondere la lettura del presente con la possibilità di attribuirgli, tramite la tensione espressiva e la forza mitizzante della letteratura, una più ampia dimensione simbolica: così da far convivere metafora e storia, sperimentazione e tensione etica, poesia e politica, in una miscela che non smette di essere rarissima. Certo, oggi abbiamo tutti presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, lo sappiamo, soccombono tragicamente nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. In tempi molto lontani Consolo ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali in discussione nell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla tutti i giorni, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e i ricatti di Erdogan, gli imbarazzi politici della Merkel e di Macron, le polemiche di Salvini e di Meloni. Come abbiamo visto, Consolo ha capito prestissimo la rilevanza del fenomeno. È chiaro: egli guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo il suo e nostro presente con rara tempestività e profondità, prima di tanti altri. Ma se consideriamo questa sua percezione da un altro lato, ci accorgeremo che, ben da molto prima, Consolo dà corpo anche a un’ossessione letteraria, ben più antica, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 195726) e poi ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”. Ben prima che le migrazioni nel Mediterraneo diventassero cronaca quotidiana, Consolo riprende infatti più e più volte l’immagine della Death by water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. La forza mitizzante di lungo periodo della letteratura diventa così a sua volta uno strumento privilegiato per cogliere la realtà presente. Una volta di più, metafora e storia si incontrano: così che l’ossessione letteraria fa tutt’uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale. La grandezza di Consolo sta anche qui. I saggi raccolti nel presente volume concentrano l’attenzione su un amplissimo ventaglio tematico relativo all’emergere, in molteplici forme, delle questioni mediterranee in tutta l’opera di Consolo, sia nelle opere propriamente letterarie, sia nelle prose saggistiche e giornalistiche. Ma è noto che uno dei tratti caratteristici della scrittura di Consolo sta anche nel rimescolare generi e stili. La ricchezza della proposta interpretativa qui proposta vuole rispondere anche e proprio sia alla pluralità così caratteristica della dimensione mediterranea, sia alla pluralità che caratterizza costitutivamente la scrittura di Consolo, e anche, più largamente, la sua fisionomia intellettuale e umana. In pochi rapidi cenni, ricorderò ora che Dominique Budor (Université Sorbonne Nouvelle), con “Gli inverni della storia” e le patrie immaginarie, approfondisce il ruolo dell’immagine di Milano, “patria immaginaria”, da un lato, e della Francia da un altro. Sebastiano Burgaretta, con L’illusione di Consolo tra metafora e realtà, mette a fuoco soprattutto la produzione saggistica di Consolo dedicata alla Sicilia (includendovi anche un testo peculiare per genere e per tono come La Sicilia passeggiata), nell’ottica privilegiata del discorso sul Mediterraneo di cui la Sicilia è centro e crocevia. Miguel Ángel Cuevas (Universidad de Sevilla), in Della natura equorea dello Scill’e Cariddi: testimonianze consoliane inedite su Stefano D’Arrigo, ripercorre il rapporto profondo e per certi aspetti portante fra Consolo e l’autore di Hocynus Orca, indagandone diramazioni letterarie e linguistiche. Rosalba Galvagno (Università degli Sudi di Catania), con Il «mondo delle meraviglie e del contrasto». Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo, delinea un denso e intenso ritratto del Mediterraneo consoliano, che diventa una chiave privilegiata per delineare “il destino, cioè il senso” della sua scrittura. Salvatore Maira, in Parole allo specchio, ci regala un intenso, vivo ricordo, legato soprattutto alla scrittura condivisa della sceneggiatura cinematografica derivata da Il sorriso dell’ignoto marinaio: vicenda che diventa la specola per guardare a Consolo da un punto di vista originale. Nicolò Messina (Universitat de València) costruisce un’attenta Cartografia delle migrazioni in Consolo: una questione cruciale, come abbiamo visto, che Messina indaga a partire da un censimento pressoché completo delle occorrenze della parola Mediterraneo e dei suoi derivati. Facendo perno sull’antitesi fra conflitto e integrazione, Messina mette a fuoco appunto “l’idea di un’identità del Mediterraneo, esaltata proprio dalle migrazioni e dai suoi attori”27. Daragh O’Connell (University College Cork), in La notte della ragione: Nottetempo, casa per casa fra poetica e politica, studia nel dettaglio, nella chiave qui proposta, il ruolo del secondo romanzo storico consoliano, strategico anche perché, come ebbe a dire l’autore, nato da “un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e italiana”28. Marina Paino (Università degli Sudi di Catania), in La scrittura e l’isola, indaga in profondità soprattutto le relazioni fra la scrittura di Consolo, “i miti mediterranei del nostos e dell’isola” e “la scrittura o meglio gli autori siciliani”29. Carla Riccardi (Università degli Studi di Pavia), con Da Lunaria a Pantalica: fuga e ritorno alla storia?, costruisce un denso percorso fra alcune opere consoliane, lette come una “ricerca su come afferrare la realtà, la storia con tutta la strumentazione che si vale di parole”30, in una fascinosa varietà di generi e stili. Irene Romera Pintor (Universitat de València), in All’ombra di Vincenzo Consolo: esperienze a confronto, rende conto felicemente delle molte sfide poste dalla traduzione in spagnolo di Consolo, nella consapevolezza dell’importanza delle traduzioni per comunicare al pubblico del presente e del futuro l’“immensa ricchezza culturale, linguistica e umana”31 della Sicilia, e del mondo, che lo scrittore santagatese ha voluto trasmettere. Corrado Stajano, con Un grande amico, ci offre un lucido e insieme toccante ricordo delle tappe cruciali di una grande, profonda, amicizia, durata tutta una vita, nelle sue complesse vicissitudini. Infine Giuseppe Traina (Università degli Sudi di Catania), in Per un Consolo arabomediterraneo, interpreta in modo articolato e persuasivo i diversi modi, fra loro intrecciati, in cui Consolo ci parla della presenza araba: quello “memoriale, di marca geografico-artistica”32; quello storico-sociologico; quello più marcatamente letterario; quello politico. Per finire, il quadro che emerge ci mostra, se ce ne fosse stato ancora bisogno, fino a che punto la scrittura di Consolo continui a interrogare il nostro presente. Nei suoi testi balena del resto, con grande forza, una percezione della Storia molto vicina a quella di un altro autore a lui molto caro, Walter Benjamin: “La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di «attualità»”33. Che scriva romanzi storico-metaforici, testi dalla problematica identità di genere (come Lunaria o L’olivo e l’olivastro), saggi o articoli di quotidiano, Consolo continua comunque a mettere in questione il nostro presente, e a ricordarci che la Storia è sempre adesso.
Ringraziamenti Grazie all’Università degli Studi di Milano, che ha ospitato il Convegno, e concesso i fondi di ricerca che hanno consentito la pubblicazione del presente volume. Grazie al Rettore Elio Franzini, ai colleghi Paola Catenaccio e Dino Gavinelli, che sono intervenuti all’apertura del Convegno. Un ringraziamento speciale all’amico Stefano Raimondi, che ha voluto con forza la collana in cui il volume esce, e a Francesca Adamo, che con la consueta perizia ne ha curato la redazione. Grazie di cuore a tutti i relatori, e anche ai non pochi colleghi che avrebbero voluto partecipare al Convegno: non era possibile invitare tutti, ma anche il desiderio di esserci è una bella testimonianza dell’ammirazione e della passione che circondano Consolo, in Sicilia, a Milano, e in molti altri paesi.
Università degli Studi di Milano 1 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. CONSOLO, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. Turchetta e uno scritto di C. Segre, Mondadori, Milano 2015, p. XI. 2 V. Consolo, Reading and writing the Mediterranean. Essays by Vincenzo Consolo, a cura di N. Bouchard e M. Lollini, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 2006. 3 V. Consolo, Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in Id., L’opera completa, cit., pp. 977-1260. 4 V. Consolo, Esercizi di cronaca, a cura di S. Grassia, Prefazione di S.S. Nigro, Sellerio, Palermo 2013. 5 Di cui possiamo leggere il lucido e appassionato racconto in V. Nisticò, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, Sellerio, Palermo 2001. 6 V. Consolo, Cosa loro, a cura di N. Messina, Bompiani, Milano 2017. 7 Bibliografia, Opere di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, L’opera completa, cit., pp. 1481-1517. 8 La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963; poi Torino, Einaudi, 19772; poi Milano, Mondadori 19893 (con introduzione di G. C. Ferretti); ora in Consolo, V., L’opera completa, cit., pp. 3-122. 9 In particolare nel 1988-1989, quando Consolo venne sollecitato a candidarsi come indipendente nelle liste del PCI per le elezioni europee da Aurelio Grimaldi prima, e poi dallo stesso Segretario del Partito Achille Occhetto; cfr. G. Turchetta, Cronologia, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. CXXXIII. 10 V. Consolo, Comiso, in Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988; 19902 (a cura e con introduzione di G. Turchetta, G.); ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. 632. 11 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 365-475. 12 Ivi, p. 400. 13 V. Consolo, Viaggio in Sicilia, in Id., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; poi in Id., L’opera completa, cit., p. 1224. 14 V. Consolo, La Sicilia passeggiata, ERI, Torino, 1991; poi con Prefazione di G. Turchetta, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021, p. 18. 15 Id. Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 987-1260. 16 A. Bellanova, Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2021. 17 Un uomo di alta dignità, Introduzione a ‘Nfernu veru. Uomini & immagini dei paesi dello zolfo, a cura di A. Grimaldi, Edizioni Lavoro, Roma 1985, pp. 9- 32, poi col titolo Uomini e paesi dello zolfo, in Di qua dal faro, cit., pp. 981- 1006; La pesca del tonno in Sicilia, in La pesca del tonno in Sicilia, con saggi di R. Lentini, F. Terranova ed E. Guggino; schede di S. Scimè; glossario di M. Giacomarra, Sellerio, Palermo 1986, pp. 13-30; poi in Di qua dal faro, cit., pp. 1007-1039. 18 F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni (1985), trad. it. di E. De Angeli, Bompiani, Milano 1987, 20193, pp. 5-6. 19 P. Matvejević, Breviario mediterraneo (1987), trad. ital. di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1991, 20062, pp. 18-19. 20 F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949), trad. it. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1976, vol. I, pp. 921-922. 21 A. Gialloreto, S. Jurišić, E. Moscarda Mirković, Introduzione, in Oceano Mediterraneo. Naufragi, esili, derive, approdi, migrazione e isole lungo le rotte mediterranee della letteratura italiana, a cura di Id., Franco Cesati, Firenze 2020, p. 9. 22 Per ulteriori dettagli si veda G. Turchetta, Cronologia, in V. Consolo, L’opera completa, cit., p. CV. 23 Uscito per la prima volta con il titolo Il capitano ordinò “buttateli agli squali”, «L’Espresso», 3 giugno 1984, pp. 55-64, venne poi inserito con il titolo Memoriale di Basilio Archita in Le pietre di Pantalica, cit., pp. 639-646. Per ulteriori dettagli si veda G. Turchetta, Note e notizie sui testi, in V. Consolo, L’opera completa, cit., pp. 1371-1372 e 1383. 24 I. Chambers, Mediterranean Crossings. The Politics of an Interrupted Modernity (2007), trad. ital. di S. Marinelli, Le molte voci del Mediterraneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 7. 25 V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. 755. 26 Ora in V. Consolo, La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Mondadori, Milano 2012, pp. 7-10. 27 Cfr. infra, p. 109. 28 Cfr. infra, p. 134. 29 Cfr. infra, p. 156. 30 Cfr. infra, p. 167. 31 Cfr. infra, p. 197. 32 Cfr. infra, p. 209. 33 W. Benjamin, Tesi di filosofia della Storia (1940), Tesi n. 14, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti (1955), trad. e introduzione di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1962, 19813, p. 83.
1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il
dramma di Ulisse e di Ifigenia.
Senza la letteratura
Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece
Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per
eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo
viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].
Ulisse in viaggio,
intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di
Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare.
Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il
nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una
volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra,
sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2].
Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non
solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua
geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste
ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e,
smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea
risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la
sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che
l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia.
Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di
ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come
scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è
insanabile, inestinguibile[3].
Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel
luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo,
neppure nell’opportunità di un ritorno.
Ifigenia a sua volta,
la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci
Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una
reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei
lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua
madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in
questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di
una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa
greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere
il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia
in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita
il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella
mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume
i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui
rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come
dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche
di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla
Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia
nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può
essere estremamente traumatico.
Il mito e la letteratura,
proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in
simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di
vivere gli spazi.
Ne sa qualcosa Vincenzo
Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e
sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e
perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le
nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride
euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di
Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto
procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già
nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea
olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei
Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina –
ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti
anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la
vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la
nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con
le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4],
non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel
secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino
Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia
della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro,
deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica
esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di
via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il
testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado –
culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in
causa i simboli della tragedia euripidea[5],
tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6],
che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore
dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e
li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a
un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una
modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di
mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella
prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i
tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità
– l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il
migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi,
dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una
perdita irreparabile in termini di valori e identità[7].
La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e
la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e
quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.
Eppure, affrontato il
rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto
allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però
prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle
radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di
buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di
ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare
una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.
La vera letteratura ha
questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti
e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con
gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano
cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come
unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi
stessi.
Trovo illuminante la sua
riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo
scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo
appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado,
i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo
di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore
della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha
una sua indubbia fragilità.
Nella sua
rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di
sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi
pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui
sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi
del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia
tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni
gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di
sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta
il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia
perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto
nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza
che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono –
fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di
barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani.
Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli
spazi.
La sua opera invita
dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio
consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella
salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.
Il passato – come
insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e
umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo
linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un
ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.
Mi piace pensare che nei
versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità
sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione
vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi:
tolto tutto questo, cosa saremmo?
Solo se ripartiamo da
questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso,
difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo
avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche
speranza, se non per domani, almeno per dopodomani.
[1]A. Montandon,
Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des
mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.
[3]V.
Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983,
pp. 370-371.
[4]V.
Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un
saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre,
Mondadori, Milano 2015, p. 869.
[5]V.
Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica,
in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.
[6]Ifigenia
fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno,
Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27
maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.
[7]«Non si
ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi
che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga
dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma
1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista
con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili.
Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a
colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento:
dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non
riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra
dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è
dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti,
espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza
sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non
s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda
da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante,
che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo
Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp.
20-22).
[8]P.P.
Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in
forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll.,
Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.
[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015. pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)
Ne Il
sorriso dell’ignoto marinaio Consolo
riprende la lezione di Manzoni, ma decostruisce la forma romanzesca attraverso
una struttura complessa e una forte sperimentazione linguistica. Il romanzo
storico rimane per Consolo un modo per rappresentare metaforicamente il
presente, sebbene non più in maniera innocente, ma per mezzo di forme
parodiche, atte a superare un’arte ironica-borghese. L’articolo quindi analizza
le strategie rappresentative e allegoriche con cui Consolo dà nuovo spessore al
romanzo storico, riuscendo a conservare un vigore etico e politico.
Dopo
tredici anni di silenzio, a seguito de La ferita dell’aprile, nel
1976 Vincenzo Consolo pubblica Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il
suo secondo romanzo è un’opera necessaria, «nata da esperienze private e da
eventi pubblici» (Consolo 2015: 1255), con la quale l’autore affronta
metaforicamente il passato e il presente siciliano. Per Consolo lo scrittore,
infatti, da Zola in poi, non può sottrarsi alla Storia, «se non a rischio
dell’accusa di complicità e di collaborazione col potere che perpetra
ingiustizie e delitti» (Consolo 2015: 1173). Il romanzo propone una metafora
politica e sociale, dunque, che tenta di superare il “silenzio artistico”, per
dirla con parole dello stesso Consolo, e di sperimentare le potenzialità
rappresentative del romanzo.
2La
planimetria metaforica del romanzo è strutturata attraverso l’immagine della
chiocciola, come ha mostrato Cesare Segre nel suo illuminante saggio (Segre
1991), archetipo ancestrale, «origine della percezione, conoscenza e
costruzione» (Consolo 2015: 1254). Attraverso quest’immagine, Consolo dà forma
alla materia narrata, con l’intento di allargare nel tempo, «verticalizzare»
(Consolo 2015: 1255), il suo messaggio. L’obiettivo ultimo dell’autore, però, è
quello di mostrarne il superamento: solo l’evasione dal carcere-chiocciola può
ridurre lo spazio comunicativo fra testo linguistico e contesto situazionale.
Nel pensiero di Consolo, quindi, la sfida alla chiocciola si coniuga con la
sperimentazione del romanzo storico. Il punto focale, o, come direbbe Consolo,
«l’angolo acuto» (Consolo 2015: 1255) di questo triangolo, è il quadro di
Antonello da Messina: L’ignoto marinaio. Con il suo sorriso
ironico, il ritratto è espressione dell’élite intellettuale, di cui l’autore
mostra le mancanze, i limiti e le storture. Il raziocino culturale, in
particolare di stampo illuminista, viene smascherato, con lo scopo di mostrare
in ultimo la fragilità della parola: la letteratura deve quindi prendere
coscienza della sua “impostura”, della sua soggettività e temporalità.
2 Come scrive Spinazzola: «I Viceré, I
vecchi e i giovani, Il Gattopardo costruiscono una
sorta di (…)
3In
questo articolo si intende analizzare gli elementi di questo triangolo
(chiocciola, ritratto e romanzo) attraverso i quali Consolo sperimenta e supera
il romanzo storico, genere ricorrente nella più recente letteratura siciliana2.
4I
capitoli chiave che ci consentono di entrare nel cuore del romanzo sono gli
ultimi quattro, composti dalle lettere che Mandralisca invia a Giovanni
Interdonato (compreso l’ultimo capitolo costituito dalla trascrizione delle
epigrafi). Queste nascono dalla necessità di narrare i moti di Alcàra Li Fusi;
ma l’impossibilità di trovare le parole della memoria dà origine a una
requisitoria rivolta al suo alter ego, che si trasforma con lo
scorrere delle pagine in una confessione. Le aporie della Storia diventano,
quindi, il vero oggetto della lettera: la loro risoluzione passa attraverso
l’immagine della chiocciola, simbolo della memoria personale e collettiva.
3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i
modelli letterari dell’autore: se da un lato S (…)
5Nell’ottavo
capitolo, intitolato Il carcere, l’ambientazione è nel castello di
Maniforti, che nasconde nelle sue fondamenta la prigione, in cui vengono
portati i condannati di Alcàra Li Fusi. Il carcere ha la forma di «un’immensa
chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume»
(Consolo 2015: 235). È uno schema elicoidale che appunto, seguendo il
suggerimento dello stesso Consolo, serve a «conoscere com’è la storia che
vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà
nell’avvenire» (Consolo 2015: 238). La forma della conchiglia, essendo
tridimensionale, unisce spazio e tempo, ed è proprio quest’ultimo che
«verticalizza» la struttura. Come ha individuato Turchetta, «la progressione
lineare del racconto si sovrappone costantemente al ripetersi di strutture
analoghe» (Turchetta 2015: XLIX) che appunto mimano la chiocciola. Il romanzo
infatti è composto da una serie di piani temporali apparentemente disgiunti, ma
che nascondono molteplici connessioni. Capire l’iter vorticoso
della Storia è compito del lettore quanto del protagonista Mandralisca.
Attraverso l’immagine della chiocciola, quindi, l’autore organizza la
narrazione: la sua forma semi-labirintica serve a dare un’orditura agli eventi
storici, creando una spirale, di «estremi» e di «intermedi» (Segre 1991: 81)
che, parafrasando le parole di Segre, si alternano o si mescolano. Attraverso i
suoi vari significati, inoltre, la chiocciola rappresenta il corso degli
eventi, tanto quanto le modalità con cui vengono rappresentati. Con il suo
intreccio di voci e di echi il carcere-conchiglia, infatti, assume un valore
meta-letterario, dando forma alla lingua che per Consolo deve racchiudere
l’ordine illuminista e il disordine barocco: «una lingua che resta molteplice
volge dal basso all’alto, dal mondo popolare e dal mondo classico» (Consolo
2015: 1237)3.
4 La citazione, presa da L’ordine delle
somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata d (…)
6La
rappresentazione della chiocciola si realizza attraverso il gioco delle
somiglianze, «scandaglio delicato e sensibilissimo» (Sciascia 1998: 35)4. È
sempre Consolo, attraverso le parole del Mandralisca che ci fornisce la chiave
di lettura delle procedure narrative. L’arco di ingresso al carcere, infatti,
ha nove pietre portanti per lato «con figure a bassi rilievi, diverse, ma
ognuna che somiglia o corrisponde all’altra allato della pila opposta, e unica
la chiave, che divide o congiunge, tiene le due spinte, l’ordine contrapposto
delle somiglianze» (Consolo 2015: 235). Per entrare nella chiocciola bisogna
passare quindi tra immagini simili, ma in contrasto; tra queste solo la chiave
non ha un corrispettivo: è l’inizio, il centro della chiocciola «che divide o
congiunge» (Consolo 2015: 235). Non a caso «sull’ordine delle somiglianze è
strutturato il sistema conoscitivo del barone di Mandralisca» (Traina 2011:
59): a lui infatti Consolo affida il compito di interpretare lo schema della
chiocciola. Il romanzo perciò dovrà rifarsi a questo impianto gnoseologico,
perché, come scrive sempre Traina, la sfida al labirinto passa per l’assunzione
della sua forma. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, perciò, sono
presenti una serie di elementi simmetrici, ma allo stesso tempo in contrasto:
tre in particolare sono importanti nell’andamento dell’opera: i moti di Cefalù
e Alcàra Li Fusi, Giovanni Interdonato e il Ritratto dell’ignoto.
7I
moti di Cefalù del 1856 sono sedati dall’esercito borbonico, portando alla
condanna degli organizzatori. Si tratta di una rivolta che vede la
partecipazione dell’alta borghesia liberale, presentata con elementi tra il
tragico e il melodrammatico (Spinuzza ad esempio è descritto con tono di pietas dal
narratore). La rivolta di Alcàra Li Fusi, che occupa il romanzo dal terzo
capitolo fino alla fine, è invece ad opera dei contadini. Anche questa viene
sedata nella violenza, ma dai rappresentanti della borghesia liberale. Apparentemente
speculari i due moti sono in realtà “contrapposti”: sono i due modi di dare
corpo alla parola “Libertà”, come si chiarirà più avanti. Anche la figura di
Giovanni Interdonato subisce un capovolgimento: nella seconda parte del romanzo
infatti Mandralisca incontra l’omonimo cugino del rivoluzionario, «somigliante
a me nel nome e cognome solamente, ché per il resto discordiamo» (Consolo 2015:
229), colui che attraverso l’inganno riesce a sedare il moto di Alcàra Li Fusi.
In ultimo abbiamo il Ritratto di Antonello, il cui sorriso ironico da simbolo
della ragione illuministica passa ad essere luciferino e malefico alla fine del
romanzo.
8L’aporia
della Storia-chiocciola perciò si realizza nell’aporia delle somiglianze:
«somiglia, ecco tutto» scrive Sciascia ne Il gioco delle somiglianze (Sciascia
1998: 35). La lumaca, metafora della Storia “vorticosa”, perciò, diventa una
figura claustrofobica, negazione di vita, come il carcere di Maniforti, luogo
di dolori e affanni dal quale bisogna uscire. È sempre Mandralisca, nella
lettera a Interdonato, che ne dà una lucida spiegazione:
Vidi
una volta una lumaca fare strisciando il suo cammino in forma di spirale,
dall’esterno al punto terminale senza uscita, come a ripeter sul terreno, più
ingrandita, la traccia segnata sopra la sua corazza, il cunicolo curvo della
sua conchiglia. E sedendo e mirando mi sovvenni allor con raccapriccio di tutti
i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le
putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga,
libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine… (Consolo 2015: 217).
9La
chiocciola è, quindi, riprendendo le parole di Segre, «metafora plurima»,
allegoria delle «ingiustizie del potere», dei «privilegi della cultura», «della
proprietà come usurpazione» (Segre 1991: 80).
10La
visione della Storia si associa alla riflessione sul linguaggio. «Cos’è stata
la storia sin qui», scrive Consolo attraverso Mandralisca, se non «una
scrittura continua di privilegiati» (Consolo 2015: 215). La Storia è una
narrazione soggettiva, ad appannaggio di una determinata classe sociale,
definita dall’autore come «coloro che possedevano i mezzi del narrare» (Consolo
2015: 215), e tra questi anche il romanziere-scrittore non ne è avulso. La
giustapposizione tra documento e fiction dovrà, perciò, essere letta come la
messa in discussione del racconto storico, non più fonte di veridicità. Come
scrive Turchetta, «per tutta la vita Consolo ha messo in discussione lo statuto
della parola, denunciandone gli invalicabili limiti, la falsità o quanto meno
la tendenziosità e la dubbia legittimità, la sua inevitabile determinatezza,
storica e soggettiva» (Turchetta 2015: XXV). Ne Il sorriso dell’ignoto
marinaio il maggiore esempio della polisemia linguistica è
rappresentato dalla parola “Libertà”. Continuando a citare dalla lettera del
Mandralisca:
e
dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità […] e gli altri, che
mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la
salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più
parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? (Consolo 2015: 216).
11Infatti
se per la borghesia liberale “libertà” indentifica una serie di diritti
astratti e immateriali, per i contadini, per coloro che non hanno il mezzo del
narrare, libertà è la terra. La polisemia della parola è un chiaro riferimento
alla novella di Verga, intitolata appunto Libertà. Questa si
conclude con le amare riflessioni di uno dei rivoltosi di Bronte condannati a
morte: «Il carbonaio mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: –
Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un
palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà…» (Verga 2013: 325).
12La
messa in discussione dell’istituto storia si lega, inoltre, a un progetto
politico che deve mettere in scacco i soprusi di «coloro che hanno il mezzo del
narrare». L’ambientazione scelta da Consolo è il Risorgimento: momento di
contraddizioni e conflitti che deve essere liberato dalla sua patina
oleografica e retorica. Consolo infatti scrive:
durante
la campagna siciliana esplodono subito le contraddizioni, il conflitto tra i
due modi di intendere il Risorgimento: quello popolare, come rivoluzione e
riscatto sociale; e quello borghese intellettuale, come liberazione dalle
dominazioni straniere del paese, come unità politica sotto forma di repubblica
o di monarchia. (Consolo 2003)
5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici
significati può assumere anche una valenza salvific (…)
13L’autore
denuncia il crimine della proprietà, «la più grossa, mostruosa, divoratrice
lumaca» (Consolo 2015: 220), che può essere proprietà della terra, quanto
proprietà della parola. Simbolo della “proprietà” intellettuale è proprio il
sorriso dell’ignoto, immagine dell’equilibrio tra «cupezza» e «riso» e della
ragione «una lama d’acciao», «lucida» e «tagliente» (Consolo 2015: 144), come
la definisce il narratore. Mandralisca, unicum nella società
erudita siciliana, sente il bisogno di sottrarsi alle imposture della storia:
deve perciò compiere una catabasi nelle profondità della chiocciola-carcere per
riemergerne un uomo cambiato5. È lo
stesso Interdonato a riconoscere le particolarità del barone:
voi
invece, barone, mi dovete permettere, perché non siete un pazzo allegro, un
imbecille o calacàusi come la maggior parte degli eruditi e dei nobili
siciliani… Voi siete un uomo che ha le capacità di mente e di cuore per poter
capire (Consolo 2015: 160)
14L’inganno
della lumaca viene, dunque, smascherato da Mandralisca: dopo una vita passata a
cercare e catalogare questi piccoli molluschi, non rimane altro che schiacciare
quei gusci vuoti, bearsi del rumore delle chiocciole frantumate.
15L’impossibilità
di conoscere la Storia attraverso la parola è una frattura epistemologica,
sentita con forza da Consolo, che causa la crisi dell’intellettuale-scrittore.
Questo deve, perciò, rinunciare al suo ruolo demiurgico, distaccato e ironico,
e diventare l’opposto del ritratto che invece sembra fissare tutti negli occhi.
La sua «impostura», un tempo origine di conoscenza, ora si rivela una chimera
da affrontare. Così quel sorriso, un tempo «fiore d’intelligenza e sapienza, di
ragione», diventa «pungente», «fiore di distacco e eleganza, d’aristocrazia,
dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o potere che viene da una carica»
(Consolo 2015: 219). Il rimedio potrebbe essere quello di scrivere la Storia
dal punto di vista di coloro che non possiedono il mezzo del narrare; tuttavia
lo scarto «di voce e di persona» (Consolo 2015: 215) non può essere eliminato,
poiché la nascita e la formazione dello scrittore generano un vizio di forma
insuperabile. Consolo, infatti, non mette sotto scacco solo la narrazione
storica, ma anche qualsiasi forma di riproduzione del reale: «quando un
immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi
al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure,
siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta» (Consolo 2015: 216). Anche la
forma d’arte più immediata, in presa diretta, come potrebbe essere il cinema o
il documentario, alluse in queste parole, non sono sufficienti a superare
l’impostura.
16«Che
più, che fare?» (Consolo 2015: 218) si chiede il Mandralisca. La soluzione
arriva da un altro personaggio. L’antagonista per eccellenza del sorriso,
infatti, è Catena, colei che per prima riconosce l’aspetto «greve, sardonico,
maligno» (Consolo 2015: 221) del ritratto e lo sfregia nel punto finale del
labbro. Un gesto che Mandralisca comprende solo alla fine del romanzo e lo
porta ad esclamare: «Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso!» (Consolo
2015: 219). Catena, per quanto non compaia come personaggio attivo, ha quindi
un ruolo chiave per la comprensione dell’opera. Bouchard analizza la
rielaborazione parodica di Catena rispetto alla tradizione risorgimentale. La
ragazza, infatti, prima presentata come una semplice tessitrice, quasi «topos
dell’isterismo femminile» (Bouchard 2013: 45), si rivela in seguito paladina
della causa risorgimentale.Catena è quindi un personaggio complesso, allegoria
dell’inventio e detentrice del genio creatore: la tovaglia con
l’albero delle quattro arance ne è la manifestazione. La descrizione del ricamo
è affidata allo sguardo distante della baronessa Parisi: «sembrava quella
tovaglia – pensò la baronessa – ricamata da una invasa dalla furia, che
con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare
forse che la ragione le fosse andata a spasso» (Consolo 2015: 167-168). In
questa «mescolanza dei punti più disparati» (Consolo 2015: 168), perciò, va
rintracciato il progetto poetico di Consolo: il romanzo si origina dalla libera
creatività, dando vita all’alternanza delle voci, rinascita della società.
Bisogna notare che il «furore» (Consolo 2003) è la qualità attribuita
dall’autore ai più alti poeti della tradizione letteraria: Virgilio, Dante,
Petrarca e Leopardi.
17Le
scritte, l’ultima testimonianza lasciata dal Mandralisca nel capitolo conclusivo,
sono appunto frutto dell’immaginazione e della libertà creativa: evadono dal
carcere-chiocciola portando il messaggio di «libertà» dei contadini di Alcàra
Li Fusi. È qui, però, che interviene Consolo in persona, dando in ultimo al
lettore il senso della sua poetica: le scritte infatti sono un artificio
dall’autore stesso. In questo dialetto sanfratellano, siciliano e letterario si
mescolano in un pastiche polivocalico, «sintesi linguistica»,
come scrive Segre, «della Sicilia medievale e barocca, feudale e popolare,
cittadina e contadina» (Segre 1991: 86). La scrittura in questo modo diventa
nemica della lumaca-labirinto, permettendone appunto la fuga.
18Lo
scrittore, perciò, per poter evadere dal carcere-chiocciola, non può rinunciare
all’impostura, ma aggirarla con l’immaginazione. Un percorso che egli compie in
solitudine «per combattere il potere e il conformismo imposto dal potere»
(Consolo 2015: 1173), scrive Consolo, solo così si potrà realizzare la libertà
di linguaggio che è appropriazione di verità ed emotività. Lo stesso processo è
indicato dal Mandralisca per i contadini di Alcàra: «tempo verrà in cui da soli
conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove,
vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno
intieramente riempiti dalle cose» (Consolo 2015: 217).
6 In precedenza questo saggio-racconto, Un
giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in (…)
19Il
modello che Consolo deve superare è quello razionale e ironico di Sciascia e
Manzoni, così da approdare a una letteratura terrigna, perché «a guardar sotto,
sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna» (Consolo 2015:
219). Nella poetica di Consolo questo non significa mai accostarsi alla realtà
con ingenuità e spontaneità, ma è piuttosto un procedere di labor lime,
di complessa sperimentazione, in grado di accogliere tutte le forme espressive.
«Il narrare», scrive Consolo, è un’«operazione che attinge quasi sempre dalla
memoria», questa però, a differenza dello scrivere, «mera operazione di
scrittura impoetica», non può cambiare il mondo, «perché il narrare è
rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta» (Consolo 2012: 92)6.
Eppure, prosegue l’autore, «il narratore dalla testa stravolta e procedente a
ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più
avanti dello scrittore, anticiparlo… questo salto mortale si chiama metafora»
(Consolo 2012: 92). Il sorriso dell’ignoto marinaio, infatti, evita
un approccio mimetico, ma è intarsiato di analogie, simmetrie tra i personaggi
e tra le parti dell’opera (operazione che verrà ripresa anche in Retablo,
con i tre capitoli che mimano la pala d’altare). Il romanzo è composto per
blocchi, così da disorientare il lettore, non lasciandosi mai
all’affabulazione: si pensi al passaggio dall’appendice del capitolo due, in
cui vengono presentati i moti di Cefalù, a Morti Sacrata.
Autocosciente della sua finzionalità, Il sorriso dell’ignoto marinaio non
permette al lettore di adagiarsi in una lettura empatica e melodrammatica.
20In
conclusione, l’analisi fin qui condotta permette di delineare cosa sia il
romanzo storico per Vincenzo Consolo, attraverso il confronto con altre opere.
Il primo paragone deve essere fatto con un altro romanzo composto nello stesso
periodo e uscito a soli due anni di distanza, nel 1974: La Storia.
Nel romanzo di Elsa Morante, come in Consolo, storia e romanzo non dialogano,
ma vengono giustapposti. Morante, anche lei interessata a creare un linguaggio
per le vittime del potere, predilige una lingua limpida e comunicativa,
riformulando il rapporto tra epos e romanzo. Per l’autrice la letteratura gioca
ancora un ruolo prioritario, in grado di illuminare le verità del reale.
Consolo, invece, manifesta una crisi più profonda che coinvolge romanzo e
linguaggio integralmente: questi condividono le stesse aporie, le stesse
storture. Storia e invenzione, perciò, non si amalgamano, ma messi difronte
l’uno all’altro condividono la stessa parità gnoseologica. Il campo d’indagine
del romanzo storico, perciò, come sostiene Giovanna Rosa, va ricercato
«nell’effetto di storia» (Rosa 2010: 50): tesi ancora più vera nel Novecento,
visto che la Storia ha perso il suo carattere monolitico. Consolo, potremmo
parafrasare, porta all’estremo la decostruzione del linguaggio creando
“l’effetto di romanzo”. La riflessione dell’autore inizia proprio dal mettere
in discussione l’istituto del genere, dando vita ad un romanzo che fa
deflagrare il conflitto, prima di tutto linguistico. Il sorriso
dell’ignoto marinaio, in maniera anti-affabulatoria, è «un romanzo storico
che è la negazione del romanzo, come narrazione filata di una storia, e della
Storia, come esplicazione degli avvenimenti» (Segre 1991: 77).
21L’afasia,
possibile conseguenza dell’arbitrarietà della memoria, viene eclissata in
favore di una parola che ritrova forza nello sperimentalismo di Gadda e
Pasolini, ma soprattutto nel confronto con la grande tradizione del romanzo
storico siciliano. «Il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale»,
scrive Consolo, è «passo obbligatorio, come abbiamo visto, di tutti gli
scrittori siciliani, [ed] era per me l’unica forma possibile per
rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze, le sue problematiche
culturali» (Consolo 2003). Verga, Pirandello, ma soprattutto Tomasi di
Lampedusa, sono i modelli di riferimento. Consolo però sceglie una via diversa
rispetto agli autori siciliani: non un anti-romanzo, o contro-romanzo storico,
ma una scrittura che manifesti il superamento:
per
me il suo linguaggio e la sua struttura volevano il superamento in senso etico,
estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze
immaginative dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di
tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida serena
geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini (Consolo 2015 1258)
22Il
Gattopardo in particolare, non a caso chiamato dall’autore romanzo della
fine, segna un momento di frattura nel romanzo risorgimentale. Con la sua
intelligenza razionale, la propensione per le idee astratte, il principe di
Salina è il coronamento dell’atemporalità, del distacco armonico
dell’intellighenzia siciliana. Passato il turbolento dibattito, infatti, Il
Gattopardo è stato riconosciuto per quello che era, «un classico»
(Consolo 2015: 1150). Consolo, invece, interessato a sperimentare le
potenzialità del romanzo in un’epoca «senza speranza», ritiene che questo possa
sopravvivere, ma solo sotto forma parodica e metaforica. Polivocalità e
decostruzione del romanzo sono gli elementi per poter realizzare il processo di
mediazione metaforica, ultimo orizzonte percorribile per rapportarsi con la
realtà. Quindi il romanzo per Vincenzo Consolo può vivere solo sotto forma
parodica, perché esso stesso è una parodia della realtà, un’impostura.
BIBLIOGRAFIA
I DOI sono automaticamente aggiunti ai riferimenti da Bilbo, strumento di annotazione bibliografica di Openedition. Gli utenti abbonati ad uno dei programmi OpenEdition Freemium possono scaricare i riferimenti per i quali Bilbo a trovato un DOI nei formati standard. Bouchard N., 2013, «Oltre la tradizione del romanzo storico ad argomento risorgimentale: la riscrittura di donna e nazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», Forum Italicum, vol. 47, Issue 1, p. 38-53. DOI : 10.1177/0014585813479869 Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli. Consolo V., 2003, Risorgimento e letteratura. Il romanzo post-risorgimentale siciliano, in: http://vincenzoconsolo.it. Consolo V., 2012, La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina, Milano, Mondadori. Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Rosa G., 2010, Dal romanzo storico alla Storia. Romanzo. Romanzo storico, antistorico e neostorico, in: Simona Costa e Monica Venturini, Le forme del romanzo italiano e le letterature occidentali dal Sette al Novecento, Firenze, ETS, p. 45-70. Sciascia L., 1998, Cruciverba, Milano, Adelphi. Segre C., 1991, «La costruzione a chiocciola nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo», Intrecci di voci: la polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, p. 71-86. Spinazzola V., 1990, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti. Traina G., 2011, Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo. Turchetta G., 2015, «Cronologia», in: Consolo Vincenzo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Verga G., 2013, Libertà, in: Novelle I, Milano, Mondadori. NOTE
2 Come
scrive Spinazzola: «I Viceré, I vecchi e i giovani, Il
Gattopardo costruiscono una sorta di caso letterario plurimo,
fascinoso e sconcertante. Di solito, un’opera viene presa a modello da altri
scrittori, della stessa età o di epoche successive, in quanto ha ottenuto
successo. Qui invece ci troviamo di fronte a una serie di romanzi palesemente
imparentati fra loro, ma senza che il primo e nemmeno il secondo abbiano
incontrato fortuna, tutt’altro» (Spinazzola 1990: 7). Anche Il sorriso
dell’ignoto marinaio può essere aggiunto alla triade di romanzi
proposti da Spinazzola: benché se ne distanzi per stile e intento, il
riferimento a queste opere è costante.
3 Dietro
questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se
da un lato Sciascia infatti rappresenta la purezza linguistica, dall’altro
Piccolo raffigura il caos barocco, una lingua classica e al tempo stesso
ancestrale. Rispetto a Sciascia il rapporto è particolarmente importante, ma
allo stesso tempo ambiguo; è Consolo stesso infatti ad alludere al distacco
avvenuto da Sciascia attraverso Il sorriso dell’ignoto marinaio:
«ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto
Sciascia. “Questo libro è la storia di un parricidio” ha detto riferendosi allo
sfregio che il ritratto ha sulle labbra» (Consolo 1993: 43).
4 La
citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo
Sciascia insieme a Cronaca rimata di Giovanni Santi, è
inserita da Consolo nell’incipit del romanzo.
5 La
chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una
valenza salvifica. Traina fa riferimento al significato archetipico della
conchiglia «simbolo prettamente femminile associato ai poteri magici della
matrice – passa dalla simbologia mitica alla simbologia cristiana, come segno
di perpetuo rinnovamento, dunque di resurrezione: forse, per Consolo, di
rivoluzione» (Traina 2011: 62).
6 In
precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu
inserito da Enzo Siciliano in Racconti italiani del Novecento,
edito per Mondadori nel 1983.
Notizia
bibliografica
Giulia Falistocco, «La
scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto
marinaio», reCHERches, 21 | 2018, 77-85.
Notizia
bibliografica digitale
Giulia Falistocco, «La
scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto
marinaio», reCHERches [Online], 21 | 2018,
online dal 05 octobre 2021, consultato il 07 décembre 2022. URL:
http://journals.openedition.org/cher/1189; DOI:
https://doi.org/10.4000/cher.1189
Sesto di otto figli, nacque a Sant’Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio 1933, da Calogero (1898-1962) e Maria Giallombardo (1900-88).
Il padre, commerciante alimentare e poi piccolo imprenditore con la nascita della ditta ‘Fratelli Consolo Cereali’ nel 1939, trasmise al figlio i tratti di un’etica rigorosa, dimostrata anche contro la mafia, la quale nell’immediato dopoguerra veniva organizzando in tutta la Sicilia il controllo delle attività economiche.
Anche evocando il celebre testo di Luigi Pirandello sulla propria nascita nella contrada del Caos, Consolo ricordò i luoghi d’infanzia, le sue origini e la sua prima educazione nel romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile (Milano 1963), dedicato «con pudore» a suo padre, scomparso proprio in quell’anno.
Iniziava una progressiva centralità della Sicilia nella sua personalità di uomo e di scrittore, di intellettuale al bivio tra saggistica e letteratura, in una contaminazione di ‘generi’ che ha sempre distinto le sue pagine e che trova in Leonardo Sciascia, maestro dell’ibridismo, un decisivo modello.
La sua terra di origine si rivela come presenza «ossessiva», con un forte valore identitario, storico ma anche simbolico, che segna in parte il destino di uno scrittore «anfibio», tra terra e mare, tra passato e presente. Sicilia come luogo, tema, personaggio, persino struttura narrativa; quasi ad annodare, in una profonda corrispondenza e circolarità, i fili dell’amplissimo e diversificato corpus letterario dello scrittore, da La ferita dell’aprile al postumo La mia isola è Las Vegas: «tutti i romanzi, se ordinati in base alla cronologia dei fatti descritti o allusi, compongono, per momenti decisivi, una storia della Sicilia degli ultimi duecentocinquant’anni» (C. Segre, Un profilo di V. C., in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, 2015, p. XIV). Questa sicilianità «ostinata» e «implacabile» (v. G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, ibid., pp. XXV-LXXIV, con partic. riferimento a p. XXV) emerge spesso nella declinazione, tematica e metaforica, del viaggio, che è spostamento fisico ma anche attraversamento di tempi e luoghi, sfida all’ignoto e continua tensione verso un altrove; nella duplice direzione della partenza e del nostos che richiama il grande archetipo omerico, l’Odissea, il «poema in cui per la prima volta si apre davanti ai nostri occhi lo spazio mediterraneo» (Lo spazio in letteratura, in Di qua dal faro, poi in L’opera completa, cit., p. 1239). Eppure, «nella modernità, le colpe non sono più soggettive, ma oggettive, sono della storia. I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato […] Itaca non è più raggiungibile. Questo, secondo me, lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare» (in V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999, p. 22). Nel tragico confronto tra passato mitico e desolato presente, la sua terra gli appare aver perso tutti i connotati di un approdo. Si ripropone la sofferta diaspora, e il doloroso ritorno, degli scrittori meridionali; la «dolorosa saggezza» e la «disperata intelligenza» di cui Consolo ragiona ne Le pietre di Pantalica, come declinazione personale del paradigma della «intelligenza siciliana» di Vitaliano Brancati. Non è un caso se nel laboratorio della scrittura, oltre alla lezione di Italo Calvino o Cesare Pavese, affiora il realismo lirico-fantastico di Elio Vittorini o la prosa di cose di Giovanni Verga, Federico De Roberto, ma anche Pirandello.
Gli anni della guerra per il giovanissimo Vincenzo trascorsero relativamente tranquilli fino al 1943, quando gli americani, in preparazione dello sbarco, diedero avvio a massicci bombardamenti che coinvolsero la zona di Sant’Agata, sulla linea strategica Messina-Palermo, e che costrinsero la famiglia Consolo a ‘sfollare’ in campagna, nella contrada di Vallebruca. Dopo le scuole medie all’istituto salesiano Guglielmo Marconi, l’assenza di scuole pubbliche di grado secondario lo condusse nel 1947 al primo allontanamento da casa, per frequentare il liceo-ginnasio salesiano Luigi Valli a Barcellona Pozzo di Gotto, a ottanta chilometri da Sant’Agata. Era già chiara la sua passione per la lettura. Nelle pause scolastiche approfittava di un cugino del padre, Peppino Consolo, che possedeva una pur scarna biblioteca con alcuni classici della letteratura, da Manzoni a Hugo o Balzac, ai romanzieri russi.
Negli anni liceali si collocano i primi esercizi di scrittura, anche su suggestione di due letture che si rivelarono decisive: Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini e Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Iniziava allora una lunga ricerca sulle lingue, anche antiche. La sperimentazione di nuovi codici, registri e linguaggi si veniva costituendo in una «ideologia» precisa e insieme fluida e mai conclusa, tradotta in racconto con I linguaggi del bosco (in Le pietre di Pantalica, poi in L’opera completa, cit., pp. 606-612).
Nell’autunno del 1952 giunse il primo trasferimento, «traumatico», a Milano, per frequentare la facoltà di giurisprudenza dell’Università Cattolica. Fu in quei primi anni universitari che conobbe Basilio Reale, l’amico Silo che lo introdusse alla casa editrice Mondadori (cfr. Sirene siciliane, Palermo 1986; poi in Di qua dal faro, cit.), e Lucio Piccolo, il «barone magico» delle Pietre di Pantalica: «grande poeta di sconfinata cultura, cugino e antagonista di Tomasi di Lampedusa. Fu lui a insegnarmi la vera letteratura, la poesia e, insieme, a farmi amare certi libri di erudizione provinciale, ottocentesca, storie, guide, cataloghi, ‘pieni di insospettabile poesia’ diceva, che furono miniere lessicali per me» (Fuga dall’Etna, Roma 1993, p. 18).
Costretto a interrompere gli studi per assolvere gli obblighi del servizio militare (dapprima a Orvieto e poi a Roma), riprese il percorso universitario nel 1957, stavolta a Messina, per laurearsi quindi nel 1960 discutendo una tesi in filosofia del diritto dal titolo «La crisi attuale di diritti della persona umana».
I PRIMI GRANDI ROMANZI
Il primo testo a stampa risale al 1957, Un sacco di magnolie, apparso a firma «Enzo Consolo» nella rivista La parrucca (poi in La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano 2012, pp. 8-10) che vantava collaboratori come Umberto Eco, Giorgio Manganelli o Edoardo Sanguineti. Il suo esordio come romanziere è invece La ferita dell’aprile (cit.) che, dopo lunga gestazione, apparve nel 1963 per Mondadori nella collana «Il Tornasole» di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, con l’assistenza redazionale di Raffaele Crovi: «Mi sono ritrovato fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria» (Fuga dall’Etna, cit., p. 15). Forse anche per quella coincidenza cronologica con le spinte avanguardistiche, il romanzo quasi sfuggì all’attenzione di critica e di lettori. Suscitò invece l’interesse di Sciascia, al quale Consolo aveva inviato il libro allegando una lettera nella quale gli dichiarava il suo debito come scrittore. Era l’inizio di una salda e duratura amicizia, alla quale Consolo dedicò numerose pagine, molte delle quali raccolte nella sezione Intorno a Leonardo Sciascia del volume Di qua dal faro (cit., pp. 1161-1184).
La ferita dell’aprile, «poemetto narrativo» da leggersi anche come Bildungsroman autobiografico, costituisce un unicum nella carriera dello scrittore. Nel racconto della vita di un paese siciliano e delle lotte politiche del dopoguerra, la narrazione in prima persona (di cui Consolo non usufruì nei romanzi successivi) è impostata cronologicamente come diario di un anno scolastico e mette in scena i turbamenti dell’uscita dall’infanzia, nell’intreccio tra vicende personali dei protagonisti e storia d’Italia.
Sin dall’esordio emerge con forza, nella scrittura, quella centralità della parola che ha connotato fortemente l’intera sua produzione, fino a consacrarlo come ‘autore difficile’, ‘enigmatico’: «Mi ponevo […] sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’impasto linguistico» (in Adamo, 2006, p. 183).
L’attento lettore e saggista seguiva da vicino il dibattito sulla letteratura contemporanea. A segnare profondamente quella stagione fu anche la pubblicazione in Rinascita, del noto saggio di Pasolini, Nuove questioni linguistiche, apparso nel dicembre 1964, alla vigilia della pubblicazione del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e anche della stesura di Il pane (1964), dei racconti Grandine come neve, Befana di novembre (1965) e Triangolo e Luna (1966), poi inclusi in La mia isola è Las Vegas (cit.).
Nel 1964 prese a scrivere per L’Ora di Palermo, giornale allora diretto da Vittorio Nisticò; era l’inizio di una lunga collaborazione che lo impegnò fino al 1975 e poi ancora dal 1977 al 1991, e che vide Consolo anche titolare di una rubrica di successo, «Fuori casa», inaugurata nel dicembre 1968. Nel racconto Per un po’ d’erba ai margini del feudo (in L’Ora, 16 aprile 1966, poi incluso da Sciascia nell’antologia Narratori siciliani curata per Mursia insieme con Salvatore Guglielmino), forte anche della lettura del fortunato saggio di Hans Magnus Enzensberger Letteratura come storiografia (in Il Menabò, 1966, n. 9), inaugurava un nuovo modo narrativo, fondato sull’intreccio tra fiction e storia, racconto e documenti, che avrebbe poi preso corpo nel suo maggiore romanzo.
Nello stesso 1966 si collocano per Consolo viaggi significativi: uno nella valle del Belice, che torna nel racconto del 1984, Il drappo rosso con le spighe d’oro, e la trasferta a Parigi con Sciascia, il quale nello stesso 1966 aveva dato vita al premio Brancati di Zafferana Etnea coinvolgendo, oltre ad Alberto Moravia, Dacia Maraini e Pier Paolo Pasolini, anche i siciliani Ignazio Buttitta, Lucio Piccolo e naturalmente Consolo.
Nel 1967, l’anno nel quale Pasolini pubblicava in Nuovi Argomenti la prosa poetica di Lucio Piccolo L’esequie della luna da cui nacque lo spunto per Lunaria, Consolo vinse un concorso per la RAI. Interruppe quindi l’insegnamento nelle scuole secondarie di secondo grado e, nel gennaio 1968, prese servizio presso la sede di Milano. Era un trasferimento destinato a essere definitivo, che segnò la vita e l’opera dello scrittore. Ad accoglierlo in azienda fu, tra gli altri, Caterina Pilenga, che aveva apprezzato il suo poco noto romanzo La ferita dell’aprile e che divenne compagna della vita, e moglie con rito civile dal 1986.
Quel trasferimento, in quel «momento di acuta storia», per l’acceso dibattito politico e culturale e per il duro conflitto sociale, fu una decisiva cesura, uno snodo sul quale spesso Consolo avrebbe riflettuto, non senza ripensamenti. Era una declinazione tragica del tema del contrasto di dimensione spazio-temporale, la sua protesta contro luoghi e tempi rispetto ai quali si sarebbe spesso sentito estraneo: la Milano di allora, l’«attiva, mercatora» città, e in particolare la RAI, «completamente ipotecata dal potere politico, dalla mafia partitica».
Pur mai rinunciando al suo carattere anarcoide, che lo portò non di rado ad aperte contestazioni, quella del servizio pubblico televisivo fu in effetti una postazione privilegiata per penetrare il paesaggio della letteratura contemporanea che Consolo lettore e critico ben conosceva; in una posizione insieme scomoda ma anche centrale di giornalista, che rivive nel personaggio Antonio Crisafi del racconto La pallottola in testa (poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 157-162).
Stabilitosi a Milano, Consolo prese a frequentare la casa sui Navigli della compagna di Vittorini, Ginetta Varisco, un cenacolo culturale animato tra gli altri da Carlo Bo, Italo Calvino, Paolo Volponi e Salvatore Quasimodo. Intanto lesse, destinati a incidere il suo percorso di scrittura, Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, pubblicato in Nuovi Argomenti, e Appunti sulla narrativa come processo combinatorio di Calvino, apparso in ‘Nuova Corrente’.
In quel ‘caldo’ 1968 aveva anche inviato a Paragone, la rivista diretta da Roberto Longhi e Anna Banti, un racconto intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio: si trattava del primo capitolo del futuro capolavoro, che tuttavia non venne accolto dalla rivista e apparve in Nuovi Argomenti, per volontà di Enzo Siciliano, nell’ultimo numero della stessa annata.
Nel 1975, dopo il rallentamento subìto negli anni precedenti, l’attività giornalistica s’intensificò. Nell’autunno del 1976 Consolo iniziò a collaborare anche con La Stampa e Il Corriere di Sicilia; dal dicembre 1977 con il Corriere della sera e, dal 1980, col Messaggero. Era un lavoro che non solo non si interruppe ma che, attraverso l’impegno profuso in numerosi quotidiani e periodici, anche stranieri, si prospettò infine come possibile impegno esclusivo: «Ho cercato di lasciare Milano nel 1975, perché non volevo più scrivere, non volevo più fare lo scrittore […]. Mi sono detto ‘farò il giornalista a vita’, perché mi sembra importante fare il giornalista, soprattutto in una città di frontiera com’era Palermo a quell’epoca» (in Pintor, 2006, p. 252).
Era la vigilia dell’uscita del romanzo, che avrebbe fatto conoscere Consolo al grande pubblico. Nell’autunno del 1975, infatti, all’insaputa dell’autore, apparve l’edizione Manusè del Sorriso dell’ignoto marinaio, per interessamento della compagna Caterina e di Sciascia, con un’acquaforte di Renato Guttuso. Dopo diverse proposte editoriali, e con un crescente interesse di pubblico e di critica, il romanzo apparve in versione definitiva nel 1979 per Einaudi, la casa editrice con la quale collaborava dal 1976 su proposta dell’amica Elsa Morante e dello stesso Giulio Einaudi; mentre già si diffondevano le traduzioni e mentre la RAI commissionò un progetto (mai realizzato) di sceneggiatura allo stesso Consolo e al regista Salvatore Maira.
Il romanzo richiama nel titolo il sorriso enigmatico raffigurato nel Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. L’intreccio prende corpo intorno a tre elementi, che si fanno nuclei narrativi: il fascino esercitato dalla preziosa tavoletta pittorica ammirata già nell’estate del 1949 presso la Casa-museo Mandralisca; l’interesse per la storia della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, innescata dall’arrivo di Garibaldi; l’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle isole Eolie ammalati di silicosi. Ne vien fuori una complessa architettura narrativa, più volte letta come anti-Gattopardo; pur con moduli espressivi e pur da postazioni ideologiche e artistiche molto differenti, al centro di entrambi i romanzi è la Sicilia percorsa dai moti risorgimentali, liberata (o occupata) dai Mille. In tale prospettiva, Il sorriso può intendersi come epigono della tradizione del racconto storico siciliano per ridisegnare l’epopea risorgimentale sullo sfondo del quadro storico-sociale negli anni dello sbarco garibaldino: una tradizione «sempre critica, antirisorgimentale», che da Verga, attraverso De Roberto e Pirandello, arrivava a Sciascia e Tomasi di Lampedusa. La complessità strutturale e stilistica giustifica la lunga gestazione del testo. La trasposizione del tempo storico all’immediato presente, la riflessione sulla lingua e la stessa tessitura linguistica, impastata di dialetti e gerghi tecnici, sembrano confermare la natura più autentica della narrativa di un autore che, sul modello di Zola, «abdica, per così dire, alla sua condizione di letterato per divenire intellettuale, ‘politico’» (Letteratura e potere, [1979], in Di qua dal faro, cit., p. 1168); la decisione di «non scrivere in italiano» era una forma di «ribellione alle norme» e alla storia, una «uccisione del padre» (in Sinibaldi, 1988, p. 12).
Nella contaminazione tra inserti documentari e narrazioni d’autore, in una costante sovrascrittura per la quale è stata richiamata la tecnica chirurgica del «trapianto» (O’ Connell, 2008, p. 165), il romanzo evoca le sperimentazioni novecentesche, il pastiche gaddiano o lo sperimentalismo pasoliniano, pur con una declinazione personalissima, a tratti neobarocca; in una raffinatezza strutturale, di carattere anche simbolico, che si rivela in una «costruzione a chiocciola», concentrica e labirintica, sulla quale ha insistito un fortunato saggio di Cesare Segre (Segre, 1987). A sostenere questo complesso impianto è, però, anche la grande tradizione del romanzo storico, e naturalmente il suo primo modello, il Manzoni dei Promessi sposi e della Storia della colonna infame.
Continuava intanto l’attività di scrittura come protesta e insieme documento, in quei caldi ‘anni di piombo’, di attentati e inchieste, che Consolo tradusse anche in racconto nel riuscito Un giorno come gli altri (1981) inserito poi da Enzo Siciliano nel «Meridiano» dei Racconti italiani del Novecento.
GLI ANNI OTTANTA E IL DITTICO BAROCCO DI LUNARIA E RETABLO
Anche sull’onda del successo del Sorriso, negli anni Ottanta Consolo intensificò l’attività di scrittura nella ricerca di nuove forme espressive, come mostra l’ampio ventaglio di progetti ai quali lavorò: un singolare romanzo giallo, Morte del giardiniere (1981); un libro saggistico sul Movimento indipendentista siciliano (1981); l’ipotesi di una sceneggiatura sulla vita di Giovanni Pascoli, alla quale si dedicò a Roma nel 1982 con Vincenzo Cerami per un film che avrebbe dovuto esser realizzato da Marco Bellocchio; il progetto di una inchiesta su una vicenda criminale degli anni Cinquanta (i frati estorsori di Mazzarino, primo nucleo narrativo di Le pietre di Pantalica); la traduzione, insieme con Dario Del Corno, di Ifigenia fra i Tauri di Euripide, che andò in scena nel 1982 al Teatro antico di Siracusa.
Nel novembre 1983 discusse con l’allora giovanissimo regista Roberto Andò il progetto di un testo teatrale tratto dal citato poemetto in prosa di Lucio Piccolo, Le esequie della luna; ne nacque invece Lunaria, favola teatrale ambientata nella Palermo settecentesca che apparve nei «Nuovi Coralli» di Einaudi (Torino 1985) e che gli valse il premio Pirandello.
La scrittura degli anni Ottanta sembra, almeno in parte, allontanarsi dalle ardite sperimentazioni formali e linguistiche del Sorriso. Tanto Lunaria (cit.) quanto Retablo (Palermo, 1987) sembrano aprirsi a forme più distese, costruite su vicende ambientate in un Settecento colmo di riferimenti storici e insieme estraneo a documentazioni rigorose, con una libertà di invenzione che mancava alle opere precedenti.
Nella profonda tensione etica, la scrittura si sarebbe liberata dallo scavo della realtà autobiografica e storica proprio con Lunaria, che può anche leggersi come semplice allegoria della solitudine dello scrittore. Nella Palermo settecentesca si muove il malinconico Viceré Casimiro, che sogna la caduta della luna, turbato da fantasmi di una diversa realtà, in una visione che si fa presagio che s’invera. Con un’apertura della prosa verso la poesia, quella poesia alla quale pure Consolo si dedicò (Accordi. Poesie inedite di V.C., a cura di F. Zuccarello – C. Massetta Milone, S. Agata di Militello 2015), ‘Lunaria’ vira decisamente in direzione del fantastico, ma anche del conte philosophique, che però attinge alla fortunata tradizione popolare del cuntu, come anche alle suggestioni del teatro barocco, Calderón de la Barca in testa (cfr. Di Legami, 1990, p. 28). Nel giugno 1986 l’opera andò per la prima volta in scena, a Roma, con la Cooperativa Quarta espressione, costituita da giovani diplomati dell’Accademia drammatica Silvio d’Amico.
Si moltiplicava, intanto, la rete di relazioni significative (da José Saramago ad Alberto Moravia), mentre proseguiva con Sciascia una salda amicizia, che lo spinse a pubblicare un articolo (Difficile mestiere scrivere da uomo libero, in Il Messaggero, 27 gennaio 1987), in difesa dello scrittore di Racalmuto travolto dalle polemiche suscitate da I professionisti dell’antimafia, apparso nel Corriere della sera il 10 gennaio 1987.
In seguito all’insistente invito di Elvira Sellerio, nell’estate del 1987 Consolo raggiunse Palermo per lavorare a Retablo, che apparve (dopo l’anticipazione di alcuni capitoli in la Repubblica) nell’ottobre 1987, con cinque disegni di Fabrizio Clerici. Retablo riscosse grande successo di pubblico e gli valse il premio Grinzane Cavour e il premio Racalmare. Nel 1997 Sebastiano Romano ne realizzò una lettura scenica a Milano, nella chiesa sconsacrata di San Paolo Converso, per la regia di Richi Ferrero e dello stesso Romano. Una versione teatrale, scritta da Ugo Ronfani, andò in scena nel 2001 al teatro stabile di Catania e poi a Milano.
L’opera segna per molti aspetti uno snodo all’interno della produzione di Consolo che, sensibile agli esiti della narrativa italiana e straniera (da Calvino a Manganelli, da Perec a Borges), pone al centro della narrazione romanzesca una stringente interrogazione sulla scrittura. Nella reiterata sovrapposizione tra storia e invenzione, persone e personaggi, Retablo, che richiama l’arte pittorica sin dal titolo, segue le vicende di un intellettuale e artista in fuga da Milano verso la Sicilia alla ricerca della matrice culturale e umana della donna che ama, Teresa Blasco (nella storia, la madre di Giulia Beccaria). Intorno al protagonista-pittore si dipana un intreccio tra letteratura e arti visive, ormai divenuto centrale nella scrittura di Consolo (Cuevas, Ut pictura: el imaginario iconografico en la obra de V. C., in Cuevas, 2005, pp. 63-77); fino a una immaginazione visiva che punta sulla centralità dei luoghi, in una personale geografia esistenziale. Retablo infatti è costruito sul modello odeporico, che richiama, per rinnovarla, la tradizione dei racconti del Grand Tour oltre che del modello classico del nostos, che utilizzò poi anche nelle narrazioni successive, nella opposizione geostorica Milano-Sicilia.
Il 1989 segnò per Consolo il ritorno alla forma tragica, con un testo redatto insieme con gli amici Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia, Trittico appunto, andato in scena al teatro stabile di Catania il 3 novembre 1989 per la regia di Antonio Calenda (poi in volume, Catania 1989). L’atto unico di Consolo, Catarsi, si accompagnava a La panchina di Bufalino e a Quando non arrivarono i nostri, rielaborazione drammaturgica di una novella di Sciascia.
LA TRILOGIA DEGLI ANNI NOVANTA
La sincera passione civile, declinata spesso nel segno della protesta, non si tradusse mai nella partecipazione attiva alla politica – nonostante i ripetuti inviti a una sua candidatura avanzati dal Partito comunista italiano (PCI) di Achille Occhetto – ma certo animò la sua scrittura, nella battaglia ingaggiata tra le parole e le cose. All’indomani dell’assassinio del giudice Rosario Livatino, il 21 settembre 1990, in un acceso clima di rivendicazioni e polemiche, decise di dimettersi dalla giuria del premio Racalmare, che intanto era stato intitolato a Sciascia, scomparso l’anno precedente.
È nel segno di questa protesta che si inserisce anche lo studio e il racconto della Sicilia, che Consolo continuava a osservare e denunciare: l’isola tra mito e storia, la terra dalla quale idealmente non riuscì mai a separarsi, sul piano intellettuale e artistico, eppure nella quale non tornò mai a vivere. È in questa prospettiva che può leggersi quella che sembra configurarsi quasi come trilogia: Nottetempo, casa per casa (Milano 1992), L’olivo e l’olivastro (ibid. 1994) e Lo spasimo di Palermo (ibid. 1998), sotto il segno del definitivo tramonto dell’utopia, nell’accentuazione di una dimensione simbolica della storia e della realtà.
Dopo una serie di ritratti di scrittori lombardi realizzati in RAI nel 1991 con il titolo Tracciati (Piero Chiara, Carlo Emilio Gadda, Lucio Mastronardi, Ada Negri, Vittorio Sereni, Delio Tessa e Giovanni Testori), nel 1992 Nottetempo, casa per casa (cit.), che fu insignito con il Premio Strega, rappresentò un ritorno al romanzo storico, come già forse, in parte, Le pietre di Pantalica (Milano 1988), stratificato e multigenere, la cui struttura tripartita (Teatro, Persone, Eventi) rimandava ancora una volta al teatro.
Al progetto narrativo di Nottetempo Consolo lavorava almeno dalla fine degli anni Sessanta, quando aveva cominciato a raccogliere materiali e documenti sul risorgimento in Sicilia, sulla strage di Alcàra Li Fusi e sulla Cefalù degli anni Venti alle prese con il controverso caso del “santone” Aleister Crowley. L’opera sembra segnare il secondo tempo di una ideale lunga storia della Sicilia, una fase successiva al Risorgimento del Sorriso e precedente agli anni Novanta di Lo spasimo di Palermo (1998). «In Nottetempo ho voluto far vedere come il fascismo fosse figlio della follia, la follia privata del protagonista e quella pubblica della Storia, il ricorso al satanismo che voleva distruggere il cristianesimo di una società malata: tutti segni oscuri e premonitori, come quelli che vediamo oggi con il ritorno a queste ridicole forme di esorcismo, questi fondamentalismi, questi revanscismi» (in Parazzoli, 1998, p. 28).
Continuava la sua forte militanza civile: le proteste contro l’elezione di Formentini a sindaco di Milano, o le dimissioni, all’indomani della nomina, il 10 settembre 1993, dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione del teatro stabile di Palermo, in polemica con il direttore artistico Pietro Carriglio, ritenuto «intellettuale organico alla DC di Salvo Lima».
Questa forte militanza proseguì con maggiore libertà dopo il suo collocamento in pensione dalla RAI, nel 1993. In seguito alla vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche, Consolo aderì al Forum Manifesto democratico 1994, promosso da Cesare Segre, Raffaele Fiengo e Corrado Stajano. Intanto, il 25 giugno di quell’anno partecipò a un dibattito coordinato da Renato Nisticò da cui sarebbe nato il testo Fuga dall’Etna (cit.), nuova testimonianza di una sicilianità che trovò riconoscimento anche nella cittadinanza onoraria di Cefalù, cui seguì, nel 1996, la stessa onorificenza da parte del Comune di Santo Stefano di Camastra. Ed è sempre la Sicilia al centro del volume del 1994, L’olivo e l’olivastro, che nel consueto superamento dei confini di ‘generi’ compiuto da Consolo, nell’intreccio tra poesia e prosa, narrazione e saggismo, che per alcuni richiama l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, si presenta come graffiante narrazione di viaggio. Il doloroso ritorno di Odisseo-Consolo verso l’Itaca-Sicilia è «un viaggio in verticale, una discesa negli abissi». Come Retablo, anche L’olivo e l’olivastro conduce il lettore attraverso la Sicilia di un presente degradato, che si confronta con il passato mitico.
Nel dicembre dello stesso 1994 ricevette per il complesso della sua opera narrativa e saggistica il premio internazionale Unione Latina da una giuria composta, tra gli altri, da José Saramago, Jorge Amado, Luigi Malerba.
In questi anni Novanta la presenza internazionale di Consolo si andò rafforzando. Nel 1995, su invito dell’allora presidente Salman Rushdie, divenne membro del Parlament international des écrivains (PIE) di Strasburgo. Tra dicembre 1995 e gennaio 1996 a Parigi andò in scena La crèche de Sicile, rappresentato anche a Palermo l’anno dopo. Il 15 febbraio 1996 il ministro della Cultura francese Philippe Douste-Blazy lo nominò chevalier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Ormai anche socio onorario dell’Accademia di Brera, nel 1996 fu inoltre in Argentina con una delegazione di scrittori italiani, su invito dell’Università di Buenos Aires; seguirono quindi viaggi a Strasburgo, Santiago del Cile e nella Bosnia-Erzegovina della guerra.
Alla Sicilia continuano a essere dedicate anche le sue opere mature. Il 19 giugno 1998 venne eseguita al teatro Verdi di Firenze, l’Ape iblea. Elegia per Noto, musicata da Francesco Pennisi (poi, insieme con Catarsi, raccolto nel volume Oratorio, Lecce 2002). Pochi mesi dopo apparve il suo ultimo romanzo, Lo spasimo di Palermo (Milano 1998) che, riprendendo elementi de La ferita dell’aprile, segna come un ritorno all’autobiografismo. La vicenda si svolge nell’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, i tragici fatti del 1992 ai quali Consolo aveva già dedicato un testo-adattamento della Messa di requiem di Verdi: Dies irae. Requiem da questa Palermo (poi Requiem per le vittime della mafia), eseguita con musiche di vari artisti nella Cattedrale di Palermo il 27 marzo 1993. La vicenda del protagonista-scrittore Gioacchino Martinez e del suo nostos ai luoghi dell’infanzia e giovinezza riscosse grande successo di pubblico e di critica (premio Monreale per la narrativa nel 1998; nonché, l’anno successivo, insignito con il premio Flaiano e il premio Brancati).
La Sicilia è ancora protagonista dell’ampia raccolta di saggi per la quale ipotizzava il titolo Pane di zolfo o Per nascente solfo, che apparve invece con il titolo Di qua dal faro (Milano 1999; premio Nino Martoglio e premio Feronia). Ed è ancora alla cultura popolare isolana che si consacra una sua riscrittura delle Fiabe siciliane raccolte nel 1868-69 dall’etnologa siculo-svizzera Laura Gonzenbach (Roma 1999).
IL SILENZIO DELLO SCRITTORE
Gli ultimi anni di vita sono segnati per Consolo da una dolorosa afasia artistica, che si manifesta come ulteriore declinazione dell’impegno, nella presenza-assenza al suo tempo e nella difficile condizione di un intellettuale «solo perché libero» (Letteratura e potere, cit., p. 1172). Nel marzo 2000 partecipò a una conferenza in difesa di Adriano Sofri, organizzata dal citato PIE con Christian Salmon, Jacques Derrida, Jacqueline Risset e Antonio Tabucchi. Il mese successivo firmò la sua adesione al Manifesto in difesa della lingua italiana promosso tra gli altri da Luigi Manconi, Aldo Masullo, Vittorio Sermonti, nella convinzione che l’Italia «ha perso memoria di sé, della sua storia, della sua identità», e che «l’italiano è divenuta un’orrenda lingua, un balbettio invaso di linguaggi che non esprimono altro che merce e consumo» (Il lungo sonno della lingua, in Il Corriere della sera, 6 giugno 2000).
Dopo esser stato in Francia ospite d’onore dell’Académie française al Prix Italiques, dove lesse la relazione La patria immaginaria, (poi con il titolo I Vespri, i paladini e la patria immaginaria, in Stilos, 1° maggio 2001), nel 2002 si trovò a esprimere per motivi politici – insieme con Umberto Eco e Antonio Tabucchi – il suo rifiuto alla partecipazione al Salon du livre di Parigi come componente della delegazione ufficiale italiana. Nello stesso anno si recò in Palestina con il PIE, per consegnare un appello di pace ad Arafat (cfr. Madre coraggio, poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 195-200) e firmò anche un Manifesto contro la islamofobia, che sarebbe stato presentato poi alla Fundación de cultura islámica di Madrid il 30 gennaio 2007.
Intanto, era ascoltato, letto e studiato all’estero: nel 2002 tenne un ciclo di conferenze negli Stati Uniti, mentre si avvicendavano convegni e volumi a lui dedicati: Siracusa, Siviglia e tre convegni all’Università di Valencia per iniziativa di Irene Romera Pintor, traduttrice di opere consoliane. Con il convegno Éthique et écriture tenuto il 25 e 26 ottobre 2002, con la direzione di Dominique Budor (ed. in volume, Parigi 2007), l’Università Sorbonne di Parigi dedicava per la prima volta un convegno a uno scrittore vivente.
Nel 2003 l’Università di Roma «Tor Vergata» gli conferì la laurea honoris causa in lettere: pronunciò una lectio magistralis (La metrica della memoria) che riprendeva una fortunata relazione del 1996. Nello stesso anno, dal Ministère de la culture et de la communication francese, fu insignito del grado di officier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Una seconda laurea honoris causa, in filologia moderna, gli venne conferita, insieme con Luigi Meneghello, da parte dell’Università di Palermo nel 2007.
Mentre proseguivano le edizioni di romanzi e raccolte di saggi in Europa, negli Stati Uniti e in Canada, a settembre 2004 Consolo iniziò a lavorare a una raccolta di racconti, che apparve postuma nel maggio 2012, a pochi mesi dalla morte, con il titolo La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina. Dichiarava intanto di lavorare al suo ultimo romanzo, Amor sacro e amor profano, del quale però nell’Archivio Consolo non sono state rinvenute carte.
Nel 2010 Consolo avrebbe dovuto introdurre un’opera di Roberto Saviano (La parola contro la camorra, DVD, Torino 2010) ma, risentito per alcune non condivise dichiarazioni letterarie e politiche del giovane autore, ritirò il suo testo.
Mentre dunque Consolo testimoniava la sua presenza nel segno della denuncia, e spesso del rifiuto, si moltiplicavano le trasposizioni delle sue opere letterarie. Erano transcodificazioni, da intendersi anche come viaggio dei testi, che rispondevano a specifici interessi di un intellettuale sempre attento ai diversi linguaggi artistici, in particolare alla pittura – che tanto attraversava la sua scrittura –, al teatro e soprattutto al cinema, consumato quest’ultimo come rito collettivo, come rievoca nel racconto-saggio scritto in occasione della proiezione di Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (Dal buio, la vita, in Di qua dal faro, cit., pp. 1179-1184). Mentre si arenava il progetto di una riduzione cinematografica dello Spasimo di Palermo, proseguivano adattamenti teatrali delle sue opere. Dopo la versione di Retablo al teatro stabile di Catania, per la stessa regia di Daniela Ardini, Ugo Ronfani scrisse nel luglio 2010 l’adattamento del Sorriso dell’ignoto marinaio, andato in scena a Genova. Al festival di Cannes dello stesso anno venne presentato il progetto cinematografico Vivre ou rien, di Maria Agnès Viala e Giorgio Arlorio, tratto da Lo spasimo di Palermo.
Il 5 giugno del 2011, nonostante fosse affetto da un tumore in stadio avanzato, Consolo si recò personalmente a Ostana (Cuneo) per ricevere il premio Lenga Maire, dedicato alle scritture in lingue minoritarie. Teneva molto al premio, che riconosceva il suo impegno per far rivivere lingue marginali e in via di estinzione.
Morì poco dopo, a Milano, il 21 gennaio 2012. Rifiutando cerimonie pubbliche in fede alla volontà dell’Autore, la moglie Caterina fece celebrare le esequie a Sant’Agata di Militello il 23 gennaio, dove fu seppellito nella cappella di famiglia.
OPERE
Gran parte dei volumi editi sono ora raccolti nel «Meridiano» L’opera completa, a cura di G. Turchetta con un profilo di C. Segre, Milano 2015, da cui si cita e cui si rimanda anche per una esaustiva bibliografia degli scritti (che include articoli, saggi in volume, traduzioni, riscritture e altri scritti sparsi), insieme con una dettagliata bibliografia critica.
Il volume comprende (nell’ordine delle prime edizioni): La ferita dell’aprile, Milano 1963; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Lunaria, ibid. 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988; Nottetempo, casa per casa, ibid. 1992; L’olivo e l’olivastro, ibid. 1994; Lo spasimo di Palermo, ibid. 1998; Di qua dal faro, ibid. 1999.
Ci si limita qui a segnalare i volumi non inclusi in quella edizione (anche postumi) e i saggi critici citati: Marina a Tindari. Poesie, Vercelli 1972; V. Consolo – N. Rubino, Fra contemplazione e Paradiso. Suggestioni dello Stretto, Messina 1988; Catarsi, in V. Consolo – G. Bufalino – L. Sciascia, Trittico, a cura di A. Di Grado – G. Lazzaro Damuso, Catania 1989; La Sicilia. Passeggiata, Torino 1991; Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma 1993; Neró metallicó, Genova 1994; V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999; Il Teatro del Sole. Racconti di Natale, Novara 1999; V. Consolo – F. Cassano, Lo sguardo italiano. Rappresentare il Mediterraneo, Messina 2000; Oratorio, Lecce 2002; Isole dolci del Dio, Brescia 2002; Reading and writing the Mediterranean. Essays by V. C., a cura di N. Bouchard – M. Lollini, Toronto 2006; Il corteo di Dioniso, Roma 2009; Pio La Torre, orgoglio di Sicilia, Palermo 2009; L’attesa, Milano 2010; La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, ibid. 2012; Esercizi di cronaca, a cura di S. Grassia, Palermo 2013; Accordi. Poesie inedite di V. C., a cura di F. Zuccarello – C. Masetta Milone, S. Agata di Militello 2015.
FONTI E BIBLIOGRAFIA
M. Sinibaldi, La lingua ritrovata: V. C., in Leggere, II (1988), pp. 8-15; C. Segre, Introduzione a V. Consolo, Il Sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987, pp. V-XVIII (poi in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino 1991, pp. 71-86); F. Di Legami, V. C. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; V. C., Nuove Effemeridi, VIII (1995/I), 29 (n. monografico); P. Farinelli, Strategie compositive, motivi e istanze nelle opere di V. C., in Italienisch, XXXVII (1997), pp. 38-45; F. Parazzoli, Il gioco del mondo, dialoghi sulla vita, i sogni, le memorie, Cinisello Balsamo 1998, pp. 21-33; G. Traina, V. C., Fiesole 2001; E. Papa, V. C., in Belfagor, LVIII (2003), 2, pp. 179-198; Per V. C., Atti delle giornate di studio… 2003, a cura di E. Papa, San Cesario di Lecce 2004; Leggere V. C. – Llegir V. C., a cura di M.A. Cuevas, in Quaderns d’Italià, X (2005), pp. 5-132; «Lunaria» vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor, Valencia 2006; La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di V. C., a cura di G. Adamo, San Cesario di Lecce 2006; V. C. Éthique et écriture, Atti del Convegno… 2002, a cura di D. Budor, Paris 2007; L. Terrusi, L’onomastica nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di V. C., in Il Nome del testo, XIV (2012), pp. 55-63.