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Consolo Vincenzo, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, a cura di Miguel Ángel Cuevas.
Consolo Vincenzo, L’ora sospesa e altri scritti per artisti,
a cura di Miguel Ángel Cuevas, Valverde, Le Farfalle Edizioni, Collana Turchese – Saggistica, 5, 2018, 140 pp.
Che vi sia, nella cultura italiana, una tendenza a tradurre concetti, argomenti, segni in simboli, figure ed immagine è cosa, dopo gli studi di Esposito ed altri, accertata;che in Sicilia, forse la regione letteraria più defilatamente importante nell’Italia odierna, tale tendenza si faccia oltranza, come scriveva un critico appunto siciliano,Natale Tedesco, era già da tempo chiaro a chi avesse delibate le preziosissime prose che dall’Isola, veramente munifica in fatto di letteratura, hanno arricchito le lettere italiane.A conferma di quell’ immaginare scrivendo, di cui dicevamo, giunge un volumetto – in realtà una preziosissima tessera, ecdoticamente succulenta, che s’aggiunge al mosaico imponente dell’opera di Vincenzo Consolo – con cui la competenza sicura,ed invidiabile, di un curatore in perfetto sincrono col suo autore, Miguel Ángel Cuevas,unita al civile impegno di una piccola casa editrice di cultura, Le Farfalle, salvano alcune, importanti, «occasioni di scrittura», come dice, con lungimiranza, il Cuevas (p. 16) del maestro di Sant’Agata di Militello. L’ora sospesa raccoglie, suddividendoli in quattro sezioni cui s’aggiunge un’appendice,ventidue brevi testi consoliani, ventidue frammenti, come dice Cuevas, dei quali i diciannove in prosa sono tutti apparsi come introduzione, o testo di accompagnamento,a cataloghi di mostre d’arte di amici scultori, fotografi o pittori, tranne i tre compresi nella terza sezione, «Vedute di Antonello», dedicate al maestro messinese un cui quadro fu ispirazione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, forse una delle migliori prove di prosa a partire dall’immagine pittorica del Novecento italiano. Chiudono il volume una corta sezione, «Due frammenti lirici», di versi e un calligramma
in forma di limone, «Autoritratto», posto in appendice a quest’antologia
paradossale come ultimo, raffinatissimo congedo. Formano però parte della carne di questo volume anche l’introduzione, «L’arte a parole» (pp. 9-16), e l’utilissimo apparato che segue ai testi – poiché, sebbene abbia il modesto titolo di «Notizie sui testi» (pp. 132-138), di vero e proprio apparato, in realtà, si tratta – con cui Cuevas ci fa da guida non solo nelle scritture che qui presenta, ma nell’ intera scrittura consoliana, di cui questo volumetto rappresenta una
ponderata, profonda misura.Il grosso dei testi è compreso nelle tre sezioni che vanno sotto i titoli di: «Bozze di scrittura», «Prove di saggi», «Vedute su Antonello». I tre testi che compongono la sezione dedicata ad Antonello: «Pittore di una città tra sogno e nostalgia» (pp. 101-103), «Lasciò il mare per la terra, l’esistenza per la storia» (pp. 104-109) e «Ad Occidente trovai “l’ignoto”» (pp. 111-117), definiscono,in maniera insolitamente univoca per Consolo, uno stadio preciso della sua attività autoriale. Queste scritture “antonelliane”, tutte pubblicate fra il 1981 ed il 1983, di-Cuadernos de Filología Italiana ISSN: 1133-9527 https://dx.doi.org/10.5209/cfit.63479 RESEÑAS324 Reseñas. Cuad. filol. ital. 26, 2019: 323-326 scendono infatti dal patrimonio segnico definito ne Il sorriso dell’ignoto marinaio,di cui rappresentano un’eco, o piuttosto una sorta di paradossale accordatura successiva all’esecuzione; leggendole è, infatti, impossibile non coglierne il valore autocritico. È forse qui, nella sezione in cui l’itinerario di formazione della scrittura consoliana assume una linearità altrove sconosciuta, che emerge più forte quella modalità auto-interpretativa da cui l’intera produzione di Consolo è pervasa, quasi fosse questo il reale genere (o, piuttosto, meta-genere) nel quale iscrivere l’opera del maestro di Sant’Agata di Militello. Antonello, la sua ombra, l’insolita grandezza di un’esperienza artistica che, come molte altre volte accadrà in Sicilia, surclassa la pochezza del suo ambiente d’origine,costituiscono dunque un ancoraggio solido nel variare della fuga continua da cui è segnata l’opera consoliana, ed è uno dei non pochi meriti de L’ora sospesa il fatto di permetterci, grazie a questi tre testi,
una considerazione attenta del valore di Antonello per Consolo. È però nelle altre due sezioni che emerge la fitta trama di rimandi interni, autocitazioni,riusi, riscritture che formano il fitto intreccio dell’attività di Consolo, scrittore per cui la continiana variante d’autore rappresenta più che un modo di lavoro la vera e propria cifra di una scrittura che trova nell’ecfrasi, nella fuga, nella variazione la sua natura più vera. E sarebbe, invero, difficile per il lettore riuscire a cogliere il senso e l’importanza di questi testi senza l’ausilio di Miguel Ángel Cuevas, vero e proprio Virgilio pronto ad accompagnarci nell’intricata selva dei testi che costituiscono le prime due sezioni del volume: «Bozze di scrittura» e «Prove di saggi». Si tratta di sedici testi, nove compresi in «Bozze di scrittura», e sette in «Prove di saggi», spalmati su un arco temporale di trent’anni, dal 1968 al 1998, che di fatto coincide con un vasto segmento della scrittura consoliana, un segmento in cui si raccolgono i “romanzi” principali dell’autore siciliano. Qui il valore ecdotico delle notizie dateci da Cuevas è di fondamentale importanza per seguire alcuni movimenti della scrittura consoliana, permettendoci così di confermare fatti già noti ma anche di scoprire nuove vie d’indagine all’interno della raffinatissima trama inter- ed intra-testuale di Consolo. Non intendiamo, né sarebbe opportuno privare il lettore della duplice scoperta, quella del testo stesso e quella dei brevi, ma preziosi e puntuali commenti di Cuevas, presentare singolarmente ognuno dei frammenti raccolti in quest’antologia, poiché antologia, anche se paradossalmente, può a pieno titolo essere definita L’ora sospesa – il testo eponimo, pubblicato da Sellerio nel 1989 in catalogo di una mostra dedicata a Ruggero Savinio, si legge alle pagine 42-46 – giacché il frammento rappresenta una precisa forma della scrittura consoliana. Preferiamo invece soffermarci un poco sulla divisione in due sezioni di questi testi, sul criterio cioè che regge la distinzione fra «Bozze di scrittura», da una parte,e «Prove di saggi», dall’altra. Se infatti i due frammenti in versi occupano, naturalmente, verrebbe da dire, una loro sezione in esergo, se, come abbiamo visto, i tre testi antonelliani, per tema, ma più ancora per il valore autopoetico che quel tema ha,sono destinati ad un loro saldo “a parte”, il mannello di quelli divisi fra le prime due sezioni del volumetto potrebbe sembrare non fornire sufficiente materia alla divisione che ne determina l’assegnazione all’una piuttosto che all’altra parte.Un primo importante indizio a riguardo lo dà Cuevas nella breve nota che precede il commento, scrivendo: «La selezione e disposizione dei testi – su proposta del curatore,accettata non senza modifiche, soppressione e aggiunte – è autoriale. I testi sono Reseñas. Cuad. filol. ital. 26, 2019: 323-326 325 stati sempre proposti nella loro prima forma […]» (p. 132). Tre sono le informazioni importanti che la nota ci dà: la prima, che i testi proposti sono, come sempre Cuevas dice nell’introduzione («L’arte a parole», p. 19), reali occasioni di scrittura, qui siamo,cioè, di fronte ad una scrittura in statu nascenti; la seconda, che l’autorialità non era per Consolo un qualche stato demiurgico la cui funzione fosse quella di procedere ad una creazione ex nihilo, quanto piuttosto un lavoro testuale di seguimento e sviluppo di tracce che trovano nell’abbozzo la loro prima, precisa sebbene embrionale, espressione;
la terza, che questa era dialogo, e non monologo, con un’alterità non solo di
segni e di codici, ma anche di pratiche e di persone, o almeno di quelle pratiche e di quelle persone che Consolo stesso coinvolgeva nella digressione della sua scrittura.Queste tre considerazioni hanno molto a che vedere col modo in cui l’immagine,fatto primordiale, causale, materico della scrittura di Consolo, viene trattata in queste pagine, giustamente definite come “forme prime” e non come “forme originali”,“forme prime” che possono svilupparsi, come nel Sorriso, come in Retablo, come in Nottetempo casa per casa ne Lo spasimo di Palermo, lungo le vie della narrazione, a sua volta, nelle pagine di Consolo, una sorta di meta-immagine, oppure, come avviene in altre pagine, possono imboccare la via della concettualizzazione, divenendo quasi icona, più che allegoria, di un pensiero.
Qui, ne L’ora sospesa, i testi, appunto iniziali, non hanno ancora ricevuta la loro
piega, non sono ancora stati messi lungo un di queste due vie, lungo cui poi, seguendo il commento di Cuevas, potremo vederli invece cambiare e riapparire trasformati;per tanto, la scelta di assegnazione all’una od all’altra sezione, a prescindere dalle poche, solitamente esili e non esclusive tracce di alcuni testi, è espressione di una volontà autoriale che indica la strada prescelta per il testo, ossia per l’occasione di scrittura, in questione. In questo senso il curatore co-autore compie, proponendo la divisione del lavoro che poi l’autore discute e sanziona, un altissimo esercizio di ecdotica testuale, permettendoci di entrare nel punto più intimo del laboratorio di scrittura consoliano,esattamente laddove un testo nasce, laddove si presenta un’immagine, destinata poi a farsi figura, o concetto, e suggerendoci, secondo una modalità di sapientissimo annullamento del critico, una verità ermeneutica fondamentale per la comprensione di Consolo, quella secondo cui l’immagine funziona da principio motore e ricapitolazione dei due assi linguistici, quello espressivo e quello definitorio, così intimamente intrecciati nell’opera del siciliano. L’elegante raffinatezza di quest’operazione critica, tanto profonda da segnalare la presenza tramite l’invisibilità della mano che l’ha voluta e preparata, rimanda direttamente
alle poche, pregnanti pagine di un’introduzione densissima, «L’arte a parole
» (pp. 9-16), con cui Cuevas è capace di giungere ai moventi più veri della scrittura di Consolo. Si potrebbero, e forse si dovrebbero, scrivere non poche pagine sulle non molte che, invece, compongono l’introduzione di Cuevas, tante sono le riflessioni che esse suscitano, tali sono gli echi che in esse risuonano; sia qui concesso soffermarsi fuggevolmente sulla necessità che queste pagine pongono di leggere Consolo alla luce di una figuralità vissuta come occasione di scrittura. Il portato forse più profondo dell’introduzione di Cuevas, almeno secondo quanto ci sembra, è infatti proprio quello di stabilire che l’immagine è occasione dello scrivere, il quale a sua volta all’immagine ritorna, rivelandola e conferendole quell’esistere che fuori dalla scrittura non potrebbe mai avere.
Questa duplice via della dialettica immagine/scrittura, finemente definita nell’introduzione di Cuevas, apre così una via interpretativa che passa per la scrittura di Consolo e che, potenzialmente, può essere estesa ad altri tipi di scrittura, a tutta quella scrittura che, come ben sa il curatore e prefatore de L’ora sospesa, non nuovo ad esperienze siciliane, definisce, come si diceva all’inizio, la Sicilia come dimensione fantastica e fantasmagorica della letteratura in italiano.
Libro fecondo, esemplare per l’onestà ecdotica – merce sempre più rara – e la
finezza di lettura di un’ermeneutica sicura ma non ingombrante, L’ora sospesa è libro su cui ma non di cui si possa scrivere, tanta è la ricchezza della voce di Consolo che qui torna, finalmente, a risplendere.
Marco Carmello
Universidad Complutense de Madrid
macarmel@filol.ucm.es
La rappresentazione degli spazi nell’ opera di Vincenzo Consolo
Bellanova A.,
Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera
di Vincenzo Consolo, Université de Lausanne, 2019.
Il volume propone un’analisi geocentrata della produzione di Vincenzo Consolo, valutando un corpus di testi ampio e vario, che va dalle opere maggiori a articoli e testi sparsi. Osservando come,già a una lettura superficiale, gli spazi rappresentati si annuncino quali straordinari portatori di senso, ha dunque l’obiettivo, mediante uno studio delle modalità di costruzione dell’immagine
letteraria, di accendere l’attenzione non solo sugli spazi di cui l’autore parla direttamente, ma anche sulla nostra relazione con lo spazio. L’introduzione, oltre a portare esempi della ‘geograficità’ dell’opera di Consolo – indicazioni
spaziali, dettagli localizzativi e descrittivi, toponimi –, fa il punto sugli indirizzi di critica geocentrati, ovvero geocritica, geopoetica, geotematica e ecocritica.
La prima parte invece, partendo dalla scelta di un approccio che contamina più linee di indagine,dichiara anche la necessità degli strumenti della critica letteraria tradizionale, soprattutto in relazione alla pagina ‘palinsesto’ e alla polifonia che caratterizzano l’opera di Consolo. Individua dunque e passa in rassegna i modi più ricorrenti nella rappresentazione consoliana: il contributo della letteratura e dell’arte nella definizione degli spazi, il ruolo della Storia, i rimandi alle percezioni sensoriali, il legame tra spazio e lavoro dell’uomo. In particolare l’esplorazione della ‘palincestuosità’ in relazione all’immagine dei luoghi sortisce la valorizzazione di un’ampia serie di rimandi e aspetti, distinguendo tra interventi della letteratura suscitati dall’identità stessa dei realia oggetto di appresentazione (ad esempio il rimando a Scilla e Cariddi e all’Odissea per parlare dello Stretto di Messina, i numerosi riferimenti ai resoconti del Grand Tour, soprattutto in Retablo per la caratterizzazione dell’isola) e accostamenti con luoghi distanti, a loro volta oggetto di rappresentazione letteraria (come i luoghi manzoniani ne Il sorriso dell’ignoto marinaio). Importante l’attenzione riservata al ruolo dei classici greci e latini: non solo l’Odissea, referente d’eccezione ne L’olivo e l’olivastro o ne Lo Spasimo, ma anche l’Eneide in particolare nel finale di Nottetempo, casa per casa, la poesia arcadica, gli storici antichi ecc.Come i modi individuati si intreccino nella produzione dell’immagine dei luoghi più significativi è argomento della seconda parte che, muovendo da Sant’Agata di Militello, si allarga all’analisi
puntuale della rappresentazione di Cefalù, Palermo, Siracusa, grandi siti archeologici della Sicilia occidentale, Milano. Una terza parte invece, sulla base delle suggestioni e degli strumenti forniti dall’ecocritica, riflette sul tema ecologico nell’opera di Consolo, soffermandosi soprattutto sulla rappresentazione degli
spazi siciliani e mediterranei e sull’impegno etico che vi si accompagna. In particolare questa sezione si concentra sull’immagine letteraria degli effetti prodotti dal “miracolo indecente” (i casi dei poli industriali di Milazzo, area siracusana, Gela o la violenza della speculazione edilizia) a cui l’autore contrappone alcune isole di sopravvivenza, ovvero i Nebrodi e gli Iblei. ‘osservazione
dello spazio di carta e quindi la considerazione dei meccanismi rappresentativi impegnati ‒ ricca intertestualità, straniamento, notazioni percettive ‒ accompagnate dalla documentazione a proposito dei referenti geografici reali, consentono di comprendere la critica feroce all’industrializzazione e alla modernità, in quanto fautrici di una grave perdita in termini di biodiversità culturale: soffermandosi sulle rappresentazioni dei luoghi del passato e denunciando l’invadenza delle immagini distorte di quelli del presente, l’autore avvisa della necessità di ricordare, del bisogno di documentare un’identità a rischio. A questo aspetto si aggiunge inoltre l’analisi della descrizione dei danni causati da una natura violenta (eruzioni, terremoti) e, ancora più importante, della rappresentazione dei meccanismi di ricostruzione (lodevoli nel caso della Noto barocca, stranianti nel caso della Nuova Gibellina). Infine una quarta parte, incentrata sulla questione Mediterraneo. Mentre evidenzia la caratterizzazione del mare come spazio di molteplicità e migrazioni (significativo il motivo insistente della morte per acqua, con chiaro riferimento al personaggio eliotiano di Phlebas il Fenicio), lo studio rivela un’importante riflessione autoriale sulle emergenze della contemporaneità.
Dalle Conclusioni, pp. 366-367: «Il lettore [di Consolo] potrà, facendosi strada in uno spazio letterario labirintico, compilare mappe di senso e comprendere i luoghi dell’autore e il nesso esistente tra geografie di carta e geografie
reali? Se sì, forse sarà incoraggiato a scoprire la Sicilia, il Mediterraneo, chissà anche Milano. Ma, fatta salva la specificità dei luoghi chiamati in causa, si troverà inevitabilmente di fronte a una serie di riflessioni di più ampia portata, ciò che accade di fronte alla vera letteratura. Comprenderà che i luoghi non sono uno sfondo, non solo quelli della pagina scritta, ancor meno i loro referenti della
realtà: nessun luogo reale, infatti, è un semplice contenitore, uno scenario su cui sfilare. Mediterà allora sul proprio modo di percepire lo spazio, sulla relazione tra rappresentazione e realtà, sulla memoria e sul cortocircuito che si produce quando, nello scorrere del tempo, Itaca smette di essere Itaca mentre i ricordi restano fedeli al passato. Sarà costretto a pensare a quello che sta succedendo
al paesaggio, a tratti esteticamente splendido, a tratti deturpato, privato della sua identità. Ecco, si interrogherà sull’identità: se i luoghi non sono uno sfondo e smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. Ecco allora l’eccezionalità di baedeker dell’opera di Consolo: vi si può cogliere l’invito a scoprire alcuni angoli geografici, mediante il rilievo a proposito delle emergenze architettoniche o naturalistiche che attendono il lettore che voglia avventurarsi alla scoperta dello spazio reale, ma vi si troverà anche la presentazione dei deprecabili interventi che deturpano il paesaggio e la vita umana. Già questo basterebbe ad attestarne la particolarità, perché le guide di viaggio, anche quelle letterarie, si soffermano piuttosto sugli aspetti seducenti, evitando invece ciò che produrrebbe un’esperienza quanto meno sgradevole per il lettore-viaggiatore. Mentre, alternando la lente dello stupore e dell’idealizzazione a quella dell’indignazione, attrae e scoraggia,
il testo svela la complessità della nostra relazione con lo spazio, costringendo ad un’esperienza non sempre gratificante, e guida a una maggiore attenzione nei confronti dei luoghi, di tutti i luoghi, in quanto portatori di identità. Alla domanda che la contemporaneità continua a porsi “Come andare avanti adesso che la modernità è sfinita?” (F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna,
Mondadori, Milano 2013), l’opera risponde affermando il valore di ciò che è rimasto, traccia di passato nel presente: solo nella conservazione, nella cura possiamo sperare di non perdere noi stessi,ma questo non può accadere senza consapevolezza. Consolo dichiara insomma che i luoghi non sono uno sfondo, ma ci appartengono profondamente e rileva l’intimo scambio che esiste sempre tra ambiente e essere umano.Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, l’autore alluda proprio a questo, ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto ciò, cosa saremmo?
Sei nato dal carrubo
e dalla pietra
da madre ebrea
e da padre saraceno.
S’è indurita la tua carne
alle sabbie tempestose
del deserto,
affilate si sono le tue ossa
sui muri a secco
della masseria.
Brillano granatini
sul tuo palmo
per le punture
delle spinesante».
L’illusione di Consolo tra metafora e realtà
di Sebastiano Burgaretta
C’è un libro di Vincenzo Consolo, La Sicilia passeggiata, che, sebbene si presenti come opera minore, legata a un evento occasionale[1], riveste, come ha recentemente evidenziato Miguel Ángel Cuevas[2], un ruolo importante nel rapporto tra Consolo e la Sicilia, e, aggiungo io, per estensione, tra Consolo e l’Italia, Consolo e il mondo, in particolare per ciò che attiene al bacino del Mediterraneo. Il ruolo di questo libro è lo stesso che è narrato e descritto anche nelle due opere che – a parte il racconto La grande vacanza orientale-occidentale[3] — si configurano come viaggio dello scrittore nell’isola. Scrive, infatti, Cuevas nella sua introduzione all’edizione spagnola: La Sicilia passeggiata è in effetti, per quanto opera minore, un testo centrale, e non solo né principalmente sul piano cronologico, fra le altre opere narrative: fra il sollievo erudito, il balsamo sentimentale di Retablo e l’insanabile frattura, le contemporanee lande desolate dell’Olivo e l’olivastro[4]. È vero, infatti, che nelle opere di Consolo si registra una tensione costante tra la volontà di intonare uno scongiuro propiziatorio e quella di svelare le atrocità. Nella Sicilia passeggiata è la prima pulsione a vincere[5]. Anche Giuseppe Traina, già nel 2001, scriveva che il testo si potrebbe per certi versi considerare un incunabulo del viaggio in Sicilia compiuto poi in L’olivo e l’olivastro ma fin dal titolo rasserenante, dimostra – anche rispetto agli esiti di Retablo e Le pietre di Pantalica – una disposizione d’animo meno direttamente coinvolta negli scempi dell’attualità[6]. La descrizione procede dritta, schivando le angustie dell’attualità, le ferocie mafiose palermitane, le chimeriche disgregazioni siracusane, e si svolge scioltamente, ha scritto Salvatore Mazzarella, con tono sereno e disteso, onirico[7]. È lo stesso Consolo, del resto, a precisare nella nota introduttiva all’edizione del 1991, che il libro era nato da una commissione e da una illusione…L’illusione mia, di mostrare – agli stranieri soprattutto! –, contro quella negativa e sconveniente che la cronaca ogni giorno ci consegna, una immagine positiva della Sicilia. Ho ripercorso così brevemente…una Sicilia onirica, illusoria. Nell’illusione anche, prendendo a metafora il mito di Persefone o Kore, che questa terra, la sua storia, possa, in una prossima desiderata primavera, risorgere dalle tenebre dell’attuale inverno, dal fondo dell’inferno[8].
Intenzionalmente e significativamente perciò egli intitolò il testo, nella prima edizione, Kore risorgente. L’illusione suscitata nello scrittore da un fatto occasionale e documentata nel libro è in realtà l’aspirazione costante, dolorosa che Consolo si portò dentro sino alla fine; il desiderio, mai appagato, di vedere una buona volta in Sicilia l’ulivo crescere e fruttificare in pace senza le briglie soffocatrici dell’olivastro, di vedere la positività soppiantare la negatività, il bene trionfare sul male. Quella di Consolo era una tensione dolorosa, che angustiava l’uomo e che si trasferiva tormentosamente nelle pagine delle sue opere con sempre maggiore intensità[9]. I suoi frequenti e attivissimi ritorni nell’isola ne sono stati la spia evidente, come egli stesso lasciò chiaramente intendere nelle pagine delle Pietre di Pantalica: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e rigirare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca[10].
Una tensione dolorosa che era figlia dell’amore viscerale che lo scrittore aveva per la Sicilia e la sua storia culturale, memoriale e linguistica. Una storia che non perdeva occasione di rivisitare e documentalmente illustrare sotto vari aspetti, tematiche e tradizioni etnoantropologiche, cui prestava profonda attenzione. E io conservo tanti bei ricordi di escursioni qua e là per l’isola. Mi ha fatto visitare con la sua sapiente guida, Palermo, i Nebrodi, Alcara Li Fusi, i resti archeologici di Apollonia, il bosco della Miraglia con i luoghi descritti e i linguaggi dei quali gli fu maestra la piccola Amalia[11], Cefalù, la stessa Sant’Agata Militello, Villa Piccolo a Capo d’Orlando, Santo Stefano di Camastra, e poi ancora insieme Siracusa, Sortino, Palazzolo Acreide, Cittadella dei Maccari, Eloro, Vendicari, Cava d’Ispica, Noto, Serravento, Testa dell’Acqua, Cava Grande del Cassibile, tutta la Montagna d’Avola con la delizia delle sue erbe aromatiche, alcuni di questi luoghi anche ripetutamente. Era questa la Sicilia, terra geograficamente e storicamente crocevia al centro di quel Mediterraneo che Consolo amava e proponeva nel bene e nella positività, senza tuttavia che il suo amore per l’isola facesse velo alle realtà negative e atroci di cui è lontana portatrice, come invece qualche benpensante in Sicilia gli rimproverava, tutt’altro anzi, perché non smise mai di denunciare i mali di cui soffre la Sicilia.
Lo scrittore aveva chiara consapevolezza del positivo portato storico-culturale e memoriale della gente dell’isola e ne ha dato prova in molti testi di natura saggistica pubblicati nel corso degli anni e poi riuniti in volumi, il più ricco dei quali è Di qua dal Faro. In questo sono confluiti, per esempio, con il titolo Uomini e paesi dello zolfo, lo scritto Un uomo di alta dignità, che era stato pubblicato coma saggio introduttivo al volume curato da Aurelio Grimaldi ‘Nfernu veru[12], La pesca del tonno, già uscito con Sellerio[13], Vedute dello Stretto di Messina, anch’esso già uscito da Sellerio[14], I pupi[15], argomento, questo, del quale si occupò più volte[16], La rinascita del Val di Noto, già uscito da Bompiani[17]. Tutti questi saggi sono incursioni in e approfondimenti di alcuni aspetti della storia e della cultura della Sicilia, che hanno la loro centralità nella matrice mediterranea della civiltà e dell’evoluzione culturale dell’isola. Sono scritti solo apparentemente d’occasione, perché lo scrittore è capace, ogni volta, di trasformarli e funzionalizzarli positivamente all’interno della sua ricerca – amorosa illusione – storico-memoriale[18] e, perché no, anche linguistica, stando ai documenti in essi studiati e citati, e ciò anche a non voler considerare il valore fondante che la lingua e la scrittura verticale, figlie della memoria storico-culturale, hanno in tutta l’opera di Consolo. Nella nota conclusiva del volume Di qua dal Faro lo scrittore dichiara: La scelta (dei testi) è dettata dalla coerenza e dalla sequenza degli argomenti tra loro. Utile, questa scelta, a dare ancora una mia idea della Sicilia[19]. È la Sicilia dell’olivo non sopraffatto dall’olivastro, la Sicilia che fa dire allo scrittore, per bocca del pescatore messinese Placido Alessi: Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico e affisso a un’eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l’agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita e pure avanti, di distaccarmi d’ogni reale vero e di sognare[20]. È la Sicilia degli amici costanti lungo il tempo, che offrono conforto, quando si sente smarrito[21]. La Sicilia nella quale gli può succedere d’esser in un luogo in disparte, lontano dagli uomini che mangiano pane, lontano dai Ciclopi, d’essere ai confini del mondo, in un’isola di sopravvivenza d’una umana misura ormai perduta[22]. Una terra in disparte, come quella che nell’isola di Scheria permette al re Alcinoo di coltivare, lontano dall’incivile convivenza in una terra in disparte, ai confini del mondo, oltre all’accoglienza di chi ha bisogno, anche l’esercizio della ragione, l’amore per il canto, la poesia[23]. In altri termini la Sicilia che porta i segni della sua antica civiltà e che è da sempre crocevia e ponte per uomini in viaggio e cammino all’interno del Mediterraneo, la Sicilia incrocio e centro d’ogni antica navigazione dell’uomo[24].
Di qua da Faro è il chiaro segnale del rovesciamento della prospettiva dalla quale i Borboni guardavano – da Napoli – al Faro e allo Stretto che separa la Sicilia dal continente. Consolo guarda, posto “di qua dal Faro”, facendo della Sicilia ciò che essa è realmente stata in passato, collocata com’è al centro del Mediterraneo: l’asse dal quale ruotare lo sguardo a 360 gradi, alla ricerca di quei contatti e di quelle aperture che la storia non ha lesinato agli abitanti dell’isola e che oggi si rendono necessari alla sopravvivenza di una civiltà, giunta “alla fine”, come quella del mondo occidentale. Anche in tempi epocali di “fine”, sembra voler dire lo scrittore, la Sicilia forse non ha esaurito il suo ruolo storico[25]. E noi oggi siamo testimoni dell’avverarsi di questo intimo desiderio dello scrittore. Stiamo, infatti, assistendo, in questi anni, a una sorta di rinnovata funzione mediatrice della Sicilia al centro del Mediterraneo. L’isola sta ridiventando quella che è già “in costrutto”: ponte reale, oltre che, poi anche, metaforico e letterario[26]. Questo, di fatto, ci insegna, che lo vogliamo o no, il fenomeno epocale dei drammatici sbarchi nell’isola. Questo ci è testimoniato dai tanti segnali positivi di ricerca scientifica e di collaborazione culturale presenti nell’isola. Penso, per esempio, al ruolo che da tanti anni riveste la Fondazione delle Orestiadi, messa su da quel Ludovico Corrao che Consolo omaggio in Retablo, penso al lavoro proficuo e mirato della casa editrice messinese Mesogea, con la quale lo scrittore collaborò, penso all’attività dell’Istituto Euro arabo di Mazara del Vallo, che in particolare con la rivista bimestrale “Dialoghi mediterranei”, grazie al lavoro del suo fondatore Antonino Cusumano spesso ricordato da Consolo, contribuisce all’arricchimento del patrimonio culturale e scientifico dei paesi mediterranei “considerati nella propria unità e diversità”, aprendo spazi e occasioni di riflessione su argomenti strettamente legati all’incontro dei vari popoli dell’area mediterranea sui diversi aspetti relativi ai rapporti intrattenuti nel passato, nel presente e in prospettiva, tra la Sicilia, l’Italia e l’Europa, da un lato, e il mondo arabo-islamico, dall’altro[27]. Il segreto del felice modello Mazara, che resiste al virus del razzismo, è costituito dal lavoro e dalla cultura, un modello, ha dichiarato il vescovo della città, Domenico Mogavero, nato su quello della Tunisia, quando ad andare lì erano i siciliani. E qui c’è tolleranza, anche fra le religioni. Un clima che ormai non fa più notizia ma che forse è il momento che torni a fare notizia[28]. E qui è il ruolo degli intellettuali chiamati a dover intervenire, come Consolo non mancava di sottolineare già in una intervista del lontano 1992: Penso a quando, nel 1968, i primi tunisini sbarcavano a Trapani. Nessuno si accorgeva della presenza dei tunisini quando sui pescherecci o nelle vigne servivano le loro braccia. Ma nei momenti di crisi, nei momenti in cui i lavoratori locali sentivano la concorrenza dei tunisini, si scatenava una vera e propria caccia all’immigrato, cui partecipavano “onesti cittadini”, per ripulire la città da discriminazioni razziali… C’è nei letterati come una cautela, una reticenza, perché “l’impegno” era prima connotato come schieramento politico a sinistra. Oggi, di fronte a episodi di razzismo, nessuno interviene. Ci sono piuttosto interventi al contrario, di rifiuto del “diverso”[29]. Non perdeva occasione di denunciare la latitanza degli intellettuali davanti a certe emergenze sociali. Oggi gli intellettuali sono pressoché distanti dall’impegno sociale; la parola stessa “impegno” è ormai tabù, quasi scandalosa dichiarava a Domenico Calcaterra[30]. E a Roberto Andò: Piango la scomparsa delle eccentricità letterarie[31]. Non mancò di intervenire energicamente e anche con una punta di ironia Consolo, accendendo peraltro un vivace dibattito sulla stampa del tempo[32], nel 2004, alla notizia che una deputata dell’Udc aveva proposto una legge regionale che istituisse un museo dei migranti a Lampedusa. In anni nei quali si consumava, come ancora oggi si consuma, la tragedia di tanti immigrati morti nelle acque del Mediterraneo, Consolo bollò come retorica e ipocrita quella proposta: Cosa ci metterebbe dentro quel museo di Lampedusa la signora deputata dell’Udc? Ci metterebbe tibie incrociate e teschi? … È retorica pensare a un museo nel momento in cui il dramma dell’immigrazione terzomondista nel nostro crasso e ameno Paese è in atto… Un monumento piuttosto a quella giovane madre africana, alla madre africana che affida alle acque il corpicino del figlio morto sulla carretta del mare durante il tragico viaggio della speranza[33].
È altra, invece, non quella della retorica di circostanza, la Sicilia amata, agognata, cercata da Vincenzo Consolo. È la Sicilia di cui egli ha ripetutamente scandagliato la storica matrice mediterranea, identificandone la vocazione geografica e storica di mesogea, di terra di mezzo, il cui accesso non va negato a nessuno. Ecco quanto ebbe a dichiarare Consolo sulla centralità della Sicilia nel lontano dicembre del 1988: Questa regione è la più periferica e insieme è al centro del Mediterraneo. Anche per Goethe è una terra miracolosa: qui si sono incrociati tutti gli eventi. Si sono svolte qui tragedie e cose sublimi. Il susseguirsi dei popoli ha portato una grande infelicità sociale e insieme una grande ricchezza culturale[34]. Rifacendosi, come già Sciascia, al pensiero di Américo Castro, Consolo, nei suoi scritti, è più volte tornato a parlare della vocazione storica alla convivenza tra popoli diversi sperimentata nell’isola in età medievale. Soprattutto fu sotto la dominazione araba che si registrarono, scrive, lo spirito di tolleranza e la convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri[35]. La Sicilia, insomma, che, al di là delle metafore di ascendenza omerica, ci porta alla realtà variegata del suo cammino storico. La Sicilia che coltivava buoni rapporti col Maghreb. Citando Francesco Gabrieli, Consolo evidenzia i rapporti della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli che, già sul finire della dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese, all’Imàam al Màzari[36].
L’incanto della tolleranza e della convivenza civile fu rotto poi dai cristiani: Culminò, l’intolleranza, con i re cattolici di Spagna, con la cacciata dall’Isola, nel 1492, dei Mori e degli Ebrei. Decadde Palermo, decadde la Sicilia, da quella sua età dell’oro, da quel momento unico e irripetibile di equilibrio ateniese, di composta e alta civiltà, dal momento in cui si entrò nell’età dei conflitti e si piombò in quella paralisi culturale, e insieme sociale, storica, che, al di là dei tre secoli che Américo Castro attribuisce alla Spagna, è durata in Sicilia sino a ieri, dura sino ad oggi[37]. E il Mediterraneo divenne mare che conobbe migrazioni e spostamenti di popoli con ogni tipo di boat people, antico e moderno, dai settemila cavalieri di Gerusalemme, che cacciati da tutti i porti, ha scritto Francesco Merlo, errarono dal 1522 al 1530, alla famosa Exodus con a bordo 4515 profughi ebrei scampati ai campi di concentramento nazisti. E fino alla nave Diciotti[38]. S’era rotto l’incanto, s’erano guastati i civili rapporti tra la Sicilia e i paesi del Maghreb. Il ponte sul Canale di Sicilia, ponte umano già rappresentato dal Boccaccio nella seconda novella della giornata quinta del Decamerone, quella di Gostanza che ama Martuccio, ebbe a subire scossoni e colpi che non sono finiti più, nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Le cronache, ha scritto Consolo due anni prima di morire, ci dicono di disperati che cercano di raggiungere l’isola di Lampedusa. Disperati che partono soprattutto dalla Libia, ma anche dalla Tunisia e dal Marocco…Il governo italiano intanto non fa altro che promulgare leggi xenofobe, razzistiche, di vero spirito fascistico. Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, di fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame, gesti di autolesionismo e di tentai suicidi, di gravi episodi di razzismo e di norme italiane altrettanto razzistiche si rimane esterrefatti. Ci ritornano allora le parole di Braudel[39] riferite a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce le miserie, gli errori e le santità degli universi concentrazionari[40]. A questo ponte distrutto e alla sua storia, in particolare quella dei primi anni del XX secolo, che vide una folta immigrazione di siciliani in Tunisia, Consolo ha dedicato un capitolo intero, riprendendo un articolo pubblicato già sul “Messaggero”[41]; e ha dedicato anche il testo di una conferenza tenuta, col titolo I muri d’Europa, agli studenti dell’Università di Milano nella sede di via della Passione nel 2006 e successivamente ripresa al Palazzo Ducale di Genova, nel giugno del 2009, nell’ambito degli incontri della manifestazione “Mediterranea”[42] E la Tunisia, oltre che terra amata dallo scrittore, nel suo immaginario letterario è diventata anche terra d’esilio per siciliani amanti della libertà, come l’anarchico Paolo Schicchi e il protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano[43].
Purtroppo il veleno che aveva intossicato le acque del Mediterraneo s’era diffuso per osmosi all’intero mondo e dall’Egeo era giunto fino alle acque della costa somala – amara ironia degli stravolgimenti della storia – su di una nave greca, il cui capitano, in anni recenti, ha fatto gettare in mare un gruppo di giovani clandestini neri scoperti a bordo dell’imbarcazione; tragico e profetico prologo consoliano, nel 1988, di quello che sarebbe stato, ed è ancora oggi, il destino di tanti infelici che vogliono fuggire dalla guerra e dalla fame e s’avventurano, in mano a criminali speculatori, nelle acque del Mediterraneo, dove in gran parte lasciano la vita e il corpo in quello che è diventato un cimitero subacqueo, da Mare Bianco, che era, mare nero. Consolo prefigura tutto ciò nel racconto che significativamente chiude Le pietre di Pantalica, quello che nell’endiade del titolo ho sempre pensato reca un cordiale omaggio a Basilio Reale[44], amico e mentore di Vincenzo Consolo, che lo scrittore mi fece conoscere un’estate a Capo d’Orlando. Al disincanto dello scrittore verso il degrado della civiltà contemporanea presente in questo libro aveva fatto riferimento Flora Di Legami nella sua monografia dedicata a Consolo[45]. Della cancellazione dei buoni rapporti tra popoli all’interno del Mediterraneo Consolo avrebbe scritto poi nello Spasimo di Palermo[46], puntualizzando poi in un’intervista: Con la citazione dell’Algeria, prendendo spunto dalla moschea che c’è a Parigi e dalla sosta che fa il protagonista nel giardino della moschea, ho voluto dire della distruzione della civiltà mediterranea, della cancellazione della nostra cultura, che avviene in modo anche visibile e atroce, come appunto in Algeria o nella ex-Jugoslavia[47].
Sono stato personalmente privilegiato testimone[48] di questo suo disincanto, dell’amarezza che ne inficiava l’animo, della sua ansia di vita nuova per la Sicilia, della sua attesa speranzosa di una primavera, per così dire, “cerealicola” e “floreale” nella terra di Kore e nell’Italia tutta, attesa speranzosa che purtroppo puntualmente abortiva nella delusione, sino a fargli scrivere, in una pagina dell’Olivo e l’olivastro, davanti a Palermo, centro aggregante e sintesi della Sicilia della storia, contrapposta a quella appagante del mito e del canto poetico: Via via, lontano da quella città che ha disprezzato probità e intelligenza, memoria, eredità di storia, arte, ha ucciso i deboli e i giusti[49]. La stessa Palermo, contraddittoria e infelice di cui parla nel racconto Il boato di Santa Rosalia[50].
Purtroppo, come per Sciascia la linea della palma s’era spostata a nord[51], così per Consolo, e in verità per tutti, i miasmi socio-antropologici e politici, e dunque sostanzialmente culturali, di Palermo e della Sicilia si erano propagati in tutto il paese, raggiungendo quella Milano che, per Consolo, anni prima, era stata il punto di un approdo culturale liberante e potenzialmente fecondo. Scoraggiato dichiara, in occasione dell’uscita dello Spasimo di Palermo: Sciascia si riferiva solo alla mafia, mentre io sento questo spasimo (in progressione, da Palermo alla Sicilia, al mondo) come distruzione della civiltà, come passaggio epocale, perché questa grande rivoluzione tecnologica che ci schiaccia e ci annulla è il mondo della sottocultura, dello spettacolo, della canzonetta, dove nessuno è se non appare[52]. Conseguenza ne fu che, sul piano creativo, lo scrittore si ritrovò senza il tessuto memoriale del luogo e perciò afasico, mentre, sul piano personale e civile, si ritrovò davanti agli stessi mali sociali e politici che soffocavano la Sicilia. Percepiva Milano e il suo decadimento culturale e civile come la proiezione geometrica dei mali siciliani nell’Italia tutta, di cui Milano era stata il cuore pulsante, giusta la storica tradizione degli illuministi lombardi di ogni tempo, da Beccaria a Manzoni a Dossi, fino all’amato Vittorini, a Sereni e al lui caro Leonardo Mondadori.
Crimine organizzato, mala politica, nuovi fascismi rampanti, forme variegate di irrazionalismo caratterizzano il panorama nel quale l’ombra della Sicilia si è estesa a tutta la nazione. In Nottetempo, casa per casa tutto ciò è evidenziato in modo chiarissimo, ed è lo stesso Consolo a dichiarare in un’intervista: La questione dell’irrazionalismo delle neometafisiche sembra essere di grande attualità. In un periodo di crisi delle ideologie e delle relative estetiche, questo ritorno all’irrazionale non lascia prefigurare nulla di buono[53]. E in un’altra intervista, con riferimento alla metafora del presente insita nella storicità d’inizio Novecento di Nottetempo, casa per casa, dichiara: Un’alienazione dolorosa percorre quegli anni: sono tempi di sradicamento…Nel quotidiano smarrimento trionfano gli squadristi, i più umani soccombono al carnefice, i politici rincorrono utopie…Oggi l’Italia ha subito tali scosse in termini di classe, cultura, politica ed economia da ricordare quella del ’20. Ciò si traduce, ripeto, in perdita di sé, incapacità di sopportazione del reale, che genera nevrosi e barbarie[54]. Scrisse al riguardo Oreste del Buono: Vincenzo Consolo sa che quanto avviene in Sicilia, avviene anche a Milano, avviene in tutto il mondo. Lui scrive della Sicilia, perché ci è nato e perché a Sicilia è così bella, eccessiva ed esemplare anche nell’orrore[55]. Consolo stesso dichiara nel 1988: Non è migliorata Milano. Qui tutto è merce, denaro, falsi valori. Milano ha grandi responsabilità. Da Milano partono i messaggi. Milano è un pezzo d’America. Ci sono i giornali, c’è la televisione, uno strumento con cui si persuadono le masse[56]. E oggi noi possiamo aggiungere: c’è la rete telematica, che consente a chicchessia di lasciarsi piacevolmente persuadere dal primo villan che parteggiando viene e che perciò stesso diviene un Marcello[57]. Conferma tutto quanto Lo spasimo di Palermo, che Massimo Onofri definì tutto il romanzo della Sicilia, dell’Italia – tra Milano e Palermo – degli ultimi cinquant’anni: a complicare di un capitolo nuovo quella controstoria d’Italia letteraria e civile che ci ha affidato tanta letteratura siciliana[58]. Luca Canali, definendo l’ultimo romanzo di Consolo il più bello forse, e il più compatto dei libri dello scrittore di Sant’Agata Militello, riscontrò in esso il quadro “nero” della società italiana (da Palermo a Milano)[59]. È poi lo stesso scrittore a dichiarare: È un libro estremo, è l’esito o l’esodo di tutto il mio percorso letterario…Questo libro riassume la storia di un uomo nell’arco di cinquant’anni, a partire dal dopoguerra con l’orrore dei bombardamenti, la violenza dei tedeschi, dei razzisti, e arriva sino ai giorni nostri, nel ’92… Ho guardato a questo cinquantennio come a una perdita, a un’età di orrori, di dolore, un cinquantennio anche di violenza dalle forze che non amano la civiltà, che agiscono solo per i propri interessi. Parlo delle responsabilità di chi ha amministrato, di chi ha diretto i fili della nostra vita e ha deciso per la nostra vita. E quindi parlo di Milano, parlo di Palermo, parlo di Parigi, di questo nostro contesto[60]. Per bocca del protagonista, Chino Martinez, lo scrittore consuma tutta la sua delusione nei riguardi della scrittura e in particolare del romanzo, genere letterario ormai inadeguato di fronte alla realtà di degradazione in cui versa la società. Sono vari i luoghi del libro significativi al riguardo: Non scrivo più nemmeno dediche[61]; sai bene che non sono più uno scrittore, se mai lo sono stato[62]; ho assoluta ripugnanza, in questo stordimento, nell’angoscia mia e generale[63]; sarebbe riuscito forse a scrivere d’una realtà storica…fuori da ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, genere questo scaduto corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio[64].
Quello dello Spasimo di Palermo è un urlo d’amore che porta Consolo a fare finalmente i conti con Milano, divenuta metafora dell’Italia intera e perciò oggetto di ricerca poetico-creativa, come lo era stata la Sicilia. E attraverso la città lombarda, che già fu antitesi al marasma, cerchia di rigore, civile convivenza[65], lo scrittore, servendosi di Chino Martinez, fa i conti con l’Italia del nostro tempo, confessandosi in una sorta di esame di coscienza storico-generazionale (è debolezza d’un vecchio, desiderio estremo…[66]), nel quale non può non sentirsi coinvolto ogni lettore sensibile e attento. La Milano con cui si confronta l’alter ego di Consolo è quella dell’omologazione e della corruzione: Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette… palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria…stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità[67]. Non è più la Milano di Vittorini, nella quale il giovane scrittore aveva sperato più di trent’anni prima. È invece la Milano della logica dell’avere e non dell’essere, arrasso dalla quale era fuggito Fabrizio Clerici, il protagonista di Retablo. Oggi la Milano dei miei sogni, delle mie aspettative è una città irriconoscibile, per dirla con Rushdie. Una città centrale della menzogna[68]. Una Milano omologata a Palermo, alla Sicilia, all’Italia tutta, quella che non ha potuto conciliare a sé lo spirito critico e irrequieto, si direbbe pasoliniano, “irriducibile all’utile” di Vincenzo Consolo. Tutto il Paese ridotto ad un unicum di corruzione e di degrado: In questo Paese, in quest’accozzaglia d’assolvenza, dove lo stato è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants…dove tutti ci impegnamo, governo e cittadini, ad eludere le leggi, a delinquere, e il giudice che applica le leggi ci appare come un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, rimuovere. O da uccidere[69]. L’impossibilità di scrivere un romanzo storico-metaforico su Milano, sperimentata o patita per anni dallo scrittore, si è mutata nella realtà di un rapporto d’amore sofferto — Addio ai luoghi del dolore e dell’affetto[70] –, maturato e approdato compiutamente alla pagina, pur nei modi dell’invettiva pasoliniana, soltanto quando la città lombarda è diventata come tutte le altre città e, in virtù dei suoi mezzi produttivi, forse peggiore delle altre. Di un Paese tale ormai Milano, più che Palermo, è divenuta metafora. Ecco perché, non essendo stato Consolo ad “andare” a Milano, è stata questa, ormai irrimediabilmente mutata, ad “andare” da lui. Da questa odiosamata Milano lo scrittore, attraverso il protagonista del romanzo, dolorosamente si congeda, invocando la compagnia e l’assistenza degli spiriti magni che fecero grande la città e che da tempo costantemente lo confortano[71].
Ebbero un bel dire quanti si indignarono davanti alla dichiarazione, che Consolo fece sulle pagine del “Messaggero”[72], di voler lasciare Milano in caso di vittoria della Lega di Bossi alle elezioni amministrative del 20 giugno 1993. Una dichiarazione che… potrà apparire a chi legge…insensata, carica di esibizionismo, di prevenzione e presunzione, inopportunamente provocatoria, ma credo che essa possa trovare una sua motivazione e legittimità nel fatto che altri intellettuali milanesi – editori, scrittori, giornalisti ben più autorevoli e famosi di me – hanno dichiarato la loro simpatia e adesione politica allo schieramento della Lega Nord e quindi, implicitamente, la loro soddisfazione e felicità nel trovarsi a vivere in una Milano amministrata da domani dai leghisti[73]. Dichiarava che se ne andava specificando: Me ne andrò, voglio chiarire, non in quanto militante dell’altro schieramento politico…ma in quanto cittadino di Milano, in quanto lavoratore, in quanto, è la parola che si usa, un intellettuale[74]. E ancora precisava, data l’omologazione socio-culturale e civile del Paese tutto: Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo prigionieri, a Milano, a Roma, a Palermo, della stessa realtà, affetti tutti dallo stesso male. La mia dichiarazione di lasciare Milano era un gesto simbolico di protesta[75]. Il gesto, è chiaro, di un uomo libero, di uno abilitato a scrivere: Solo pochi scrittori, solo pochi isolati, “non protetti”, hanno sentito il dovere morale di parlare, di battersi per la verità e la giustizia…Lo scrittore rimane solo. Quando Zola affermava reiteratamente “sono uno scrittore libero”, “sono uno scrittore solo” affermava. O solo perché libero[76].
La libertà e il coraggio di elevare una simile protesta, che irritò e inquietò tanta gente[77], gli venivano dall’essere, nonostante egli se ne schermisse, un seguace degli scrittori-intellettuali che osavano partecipare alla vita del Paese con la scrittura cosiddetta d’intervento; dall’essere una persona nella quale non c’era separazione fra l’uomo e lo scrittore, una persona che, nonostante la forza, e in virtù anzi, dei suoi mezzi linguistici, meditava e pesava bene le parole, prima di parlare e scrivere. Una persona che, davanti a quella che i benpensanti gli rimproveravano come una contraddizione evidente la sua scrittura e i suoi interventi pubblici, da una parte, e l’essere pubblicato dalla casa editrice acquisita dal fondatore di Forza Italia, dall’altra, ebbe a confidarmi testualmente: Jano, bisogna imparare a sapere sputare nel piatto in cui si mangia, se si vuole conservare la libertà personale. Questo era Consolo. E a proposito di “contraddizioni” rinfacciate a grandi scrittori, non posso qui sottacere quanto testualmente mi disse, durante una sua visita ad Avola, a una mia esplicita domanda circa il suo “contraddisse e si contraddisse”, Leonardo Sciascia: Dissi questa battuta per gli stupidi[78], per coloro, insomma, che non sanno cogliere la portata, a volte profetica, di determinate dichiarazioni e che si soffermano a guardare non la luna ma il dito che la indica, spesso con esiti di insipienza socio-culturale che porta alla miopia politica e apre strade a scenari regressivi di demagogia, populismi, razzismi e titillamenti di pancia delle cosiddette masse, come quelli che sono sotto gli occhi e sulla pelle di tutti nell’Europa di oggi.
La battuta dello scrittore di Racalmuto mi riportò alla mente il saggio di Miguel De Unamuno Sobre la consecuencia la sinceridad, col quale il filosofo e scrittore basco nel 1906 combatteva contro l’ipocrisia e il perbenismo utilitario di certi intellettuali del suo tempo. Essere coerente, scriveva il pensatore basco, suole significare, la maggior parte delle volte, essere ipocrita. E questo arriva ad avvelenare le sorgenti stesse della vita morale intima[79]…È ridicolo, sommamente ridicolo, chiedere coerenza a un pensatore puro[80]. E ancora nel saggio Mi religión affermava: Il mio più grande impegno è inquietare il mio prossimo[81], la mia religione, insomma, è inquietare gli altri. Nella determinazione di Sciascia e di Consolo ravviso lo stile e la determinazione dell’intellettuale puro che fu Unamuno. E un intellettuale vero non può non essere un pensatore puro. Sciascia e Consolo lo furono entrambi ed entrambi ne pagarono il prezzo. Consolo, ha scritto Concetto Prestifilippo, non esercitava diplomazie linguistiche. Non operava concessioni. Non salvava potentati. Non blandiva accademie. I suoi interventi potevano irritare, non essere condivisi ma erano sempre onesti, veri[82]. Consolo era un irregolare, non era irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e anche in Sicilia[83]. Un intellettuale contro. Questo è stato il suo paradigma esistenziale[84]. Le parole che chiudono Fuga dall’Etna sono emblematiche a tale riguardo: La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo[85].
Con Lo Spasimo di Palermo, ultima opera fondamentale, che chiude la trilogia aperta da Nottetempo, casa per casa, passando per L’olivo e l’olivastro, la furia verbale ch’era finita in urlo, come s’è detto, s’era dissolta nel silenzio[86], un silenzio che fu al tempo stesso metafisico e reale. Ma poiché anche il silenzio è dolore[87], pur non credendo più nel romanzo, Consolo non rinuncia tuttavia alla scrittura e alla denuncia di uomo libero e solo. Ha giustamente osservato Massimo Onofri che l’afasia cui ci si riferisce non ha né una valenza psicologica né estetica, ma solo storica ed antropologica. Anzi: è proprio a questo livello che la ricerca di Consolo e la sua storia di scrittore sembrano caricarsi di futuro[88] Se il narratore tacque, l’uomo che nel suo intimo coltivava, contro ogni evidenza – spes contra spem – la speranza nella linfa nuova che dal Mediterraneo sarebbe venuta all’Italia e all’Europa intera, non cessava di intervenire in pubblico. La speranza non bisogna mai perderla, aveva dichiarato in un’intervista, io credo nella forza della storia. Malgrado i momenti bui, la storia si schiarisce. Viene la luce. Citando il poeta spagnolo Machado: desperados, esperamos, todavía[89].
Sperava, Consolo, sperava, per esempio, nelle nuove energie vitali che, in tempi di decadimento e di barbarie come quelli che registra attualmente la società del mondo occidentale, sarebbe venuta a noi dai paesi del Maghreb, a rinvigorire e temprare le nostre membra esauste e svigorite dagli eccessi dell’opulenza e dell’irrazionalità. In più d’una occasione ebbe ad auspicare che entro pochi anni i figli e i nipoti degli immigrati di questi nostri anni avrebbero potuto scrivere la loro letteratura, che sarebbe stata anche la nostra. Cosa che realmente si sta verificando da qualche tempo a questa parte. Riferendosi a Ben Jelloun, così annotava lo scrittore: E noi aspettiamo in Italia una voce come la sua che venga dal Maghreb, a far esplodere la nostra lingua, che venga ad arricchire il nostro romanzo[90]. In una intervista a Gianni Bonina Consolo dichiarava: Nel nostro contesto le voci nuove possono essere quelle di quanti arrivano qui e diventano, se non in questa generazione forse nella prossima, italianofoni, portando fantasia e immaginazione, come è successo in Francia e in Inghilterra. Speriamo che i figli dei nostri clandestini possano arrivare ad esprimersi e diventare scrittori e poeti, arricchendo così la nostra letteratura. Nella quale vedo un prosciugamento senza rimedio[91]. Alla luce di queste affermazioni, come non pensare al lavoro svolto in anni recenti in Italia dal giovane scrittore congolese Jadelin Mabiala Gamgbo, autore del romanzo Rometta e Giulieo e, insieme con Piersandro Pallavicini, curatore dell’antologia L’Africa secondo noi[92], nonché a quello di tanti altri autori immigrati?[93] Allora, possiamo arguire, sarà salva la nostra società, perché sarà garantita la salvezza di una memoria storica di ampia matrice mediterranea che oggi traballa e rischia di essere cancellata definitivamente. La nostra società tutta ha bisogno di nuova linfa culturale, senza preclusioni di ordine storico né geografico né etnico. È una prospettiva nuova, oggi per molti scandalosa, sulla quale è necessario riflettere, per sottrarsi ai condizionamenti dell’unidimensionalità alla quale ci costringe la realtà del mondo contemporaneo. Si tratta di una proiezione razionale dell’ethos profondo dello scrittore, che in Di qua dal Faro è calibrata in modi e termini non metaforici, come nelle opere narrative, ma comunicativi, quelli propri della scrittura d’intervento. Ne viene fuori un sostanziale atto di fiducia nelle possibilità dell’uomo, quasi una sorta di profezia che supera di fatto, lungo il percorso di un “orizzonte colloquiale”, come l’ha definito Giulio Ferroni, i tratti, per così dire, pessimistici che porta con sé il tono alto, elaborato, solenne, talora tragico, di quell’articolato e sofferto poema narrativo che è tutta l’opera narrativa di Consolo[94]. A ragione Gianni Turchetta, a conclusione del suo saggio introduttivo al Meridiano Mondadori con l’opera omnia dello scrittore, ha sottolineato che il disincanto e le delusioni non hanno impedito a Consolo di coltivare l’intensità del suo amore per il mondo…Il progressivo incupirsi della sua visione non deve indurci a sottovalutare un altro aspetto fondamentale delle sue scritture: l’instancabile, attentissima, partecipe valorizzazione degli infiniti aspetti del mondo, e più ancora dei soggetti che lo abitano, che giorno per giorno lo fabbricano[95].
Sperava Consolo, sperava e credeva nella poesia, per lui la forma più alta di espressione creativa, quella cui era maggiormente votato e con cui – quasi antico aedo, erede anche della memoria popolare della gente di Sicilia – chiude Lo Spasimo di Palermo, in un disperato urlo catartico, a somiglianza dell’Empedocle della sua pièce Catarsi, con una preghiera, quella preghiera alla quale egli, in Chino Martinez[96], alla fine approda, realizzando un passo avanti rispetto allo Sciascia, che, alla fine del Cavaliere e la morte, s’era fermato muto davanti alla soglia del mistero del tempo[97]. Sperava Consolo, sperava e confidava nei giovani, come dimostra il sostegno dato negli anni a tanti di loro, fra cui Aurelio Grimaldi, Roberto Andò, Roberto Saviano e altri. E nella società di oggi sono i giovani a dare i segnali forti del cambiamento. Quando mai era successo che un italiano figlio di immigrati magrebini riempisse il Forum di Assago, strapieno di giovani, come ha fatto l’estate scorsa il rapper, figlio di tunisini, Ghali Andouni?[98] E come non segnalare, a proposito di giovani artisti legati all’immigrazione magrebina, i nomi della cantautrice italiana ma di origine marocchina Malika Ayane e quello dell’italo-egiziano Alessandro Mahmood[99], che, segno dei tempi nuovi, ha vinto il festival di Sanremo 2019, con tutto lo strascico di polemiche che in ambito politico e mediatico ne è seguito[100] e a conferma, come ha sottolineato più d’uno e come sosteneva Consolo, che l’incontro di culture differenti genera bellezza; nomi, tutti questi, di giovani tra i tanti in cui sperava Consolo. E sappiamo tutti quanta influenza abbia il mondo della musica e dello spettacolo in genere nell’incontro tra i giovani di ogni latitudine, oltre ogni limite e pregiudizio culturale.
Sperava Consolo, e alimentava la speranza degli altri. Voglio ricordare, al riguardo, il mio ultimo incontro con lui, nell’aprile del 2011, nella sua casa di Sant’Agata Militello. Ero andato a trovarlo insieme con Nino De Vita, ed egli, che recava evidenti nel fisico i segni della malattia che lo stava divorando, ci parlava del suo romanzo in programma, ambientato, precisava, nel Seicento e al quale, ripeteva, stava lavorando, come mi aveva in precedenza anche per telefono più volte confermato. E io, forse più per sostenerlo che per intimo convincimento, pensando oltretutto ai tempi lunghi della gestazione dei suoi romanzi, lo incoraggiavo e lo spronavo, come avevo sempre fatto con lui nel corso degli anni. E lui: Sì, Jano, scriverò, scriverò… Illusione che tra metafora e realtà lo accompagnò sino alla fine per la fiducia che egli aveva nella scrittura, in virtù della testimonianza civile di cui per lui la scrittura letteraria era portatrice. E un sospetto, in verità, mi portai dentro alla fine di quell’incontro: che fosse stato lui a sostenere e confortare me con la naturale empatia, con la pietas umana e l’amicizia che mi aveva sempre dimostrato e confermato nel corso degli anni, al punto di non vergognarsi di versare lacrime, in mia presenza, accarezzando le pietre dell’antica Eloro, come stesse accarezzando delle persone, di quelle che, ebbe a dirmi, andando poi via dal sito archeologico e chiedendomi sommessamente scusa, erano passate e vissute tra quelle antiche pietre[101].
[1] Il libro, col titolo Sicilia teatro del mondo, e corredato di foto di Giuseppe Leone, fu pubblicato nel 1990 in occasione della 42° sessione del “Premio Italia” della RAI, che si tenne in Sicilia. L’anno successivo l’opera fu pubblicata in edizione economica col titolo La Sicilia passeggiata.
[2] Cfr. V. Consolo, Sicilia paseada, Ediciones Taspiés, Granada 2016, pp. 9-14.
[3] Il racconto è stato pubblicato in trentaduesimo a Napoli nel 2001 dalle Edizioni Dante e Descartes.
[4] V. Consolo, Op. cit., p. 12.
[5] Ivi, p. 13.
[6] G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole 2001, p. 32.
[7] S. Mazzarella, Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore, in “Nuove Effemeridi” a. VIII, n. 29, p.58.
[8] V. Consolo, La Sicilia passeggiata, ERI, Torino 1991, p. 5.
[9] Cfr. S. Burgaretta, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada, in “Notabilis”. A. IX, n. 3, maggio-giugno 2018, pp. 26-28.
[10] V. Consolo, Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988, p. 179.
[11] Ivi, pp. 154 ss.
[12] AA. VV. ‘Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, Edizioni Lavoro, Roma 1985.
[13] V. Consolo, La pesca del tonno in Sicilia, Sellerio, Palermo 1986.
[14] V. Consolo, Vedute dello Stretto di Messina, Sellerio, Palermo 1986. Sull’attenzione dello scrittore allo Stretto di Messina cfr. V. Consolo – N. Rubino, Fra contemplazione e paradiso. Suggestioni dello Stretto, Sicania, Messina 1988.
[15] Era uscito sul “Messaggero” del 30 novembre 1993.
[16] Cfr. V. Consolo, Così la Sicilia ingrata tradì il paladino Mimmo, in “Il Messaggero”, 8 gennaio 1995; Idem, Retablo siciliano, in S. Burgaretta, Retablo siciliano. I colori dell’epos nella Casa-museo “Antonino Uccello”, catalogo dell’omonima mostra tenutasi al Museo Teatrale alla Scala. Museo Teatrale alla Scala, Milano 1997, pp. 17-20.
[17] V. Consolo, La rinascita del Val di Noto, Bompiani, Milano 1991.
[18] Cfr. M. A. Cuevas, Introdución, in V. Consolo, A este lado del Faro, Editorial Parténope, Valencia 2008, p. 10.
[19] V. Consolo, Di qua dal Faro, Mondadori, Milano, p. 283.
[20] V. Consolo-N. Rubino, Op cit., p. 7.
[21] V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Arnoldo Mondadori, Milano 1994, p. 106.
[22] Ivi, p. 113.
[23] Ivi, p. 18.
[24] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 39.
[25] Cfr. S. Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi romanzi; in “Stilos”, 23 novembre 1999.
[26] Cfr. S. Burgaretta, La parola che salva, in “Annali 12”, a. XX, 2003, Centro Studi Feliciano Rossitto, Ragusa 2004, pp. 298-299; Idem, Il beato Antonio Etiope, profeta dell’accoglienza, nel rinnovato culto degli avolesi, in Idem, Uomini e santi, vol. I, Armando Siciliano Editore, Messina-Civitanova Marche 2019, pp. 102 ss.
[27] M. D’Anna, I “dialoghi mediterranei”, in “La Sicilia”, 13 settembre 2018.
[28] G. Amato, Attenti al rischio intolleranza; il virus sta sconvolgendo la natura del popolo siciliano, in “la Repubblica”, 21 agosto 2018.
[29] V. Consolo – L. Manconi, Perché non ha senso essere razzisti, in “Sette” del “Corriere della sera”, 26 novembre 1992, p. 38.
[31] R. Andò, Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura, in “Nuove Effemeridi”, cit., p. 12.
[32] V. Consolo, Ai disperati non servono musei, in “la Repubblica”, edizione di Palermo, 22 agosto 2004.
[33] Cfr. A. Cusumano, I migranti senza valigie nelle stanze della memoria, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 35, gennaio 2019.
[34] G. Giordano, “Il libro? Deve ferire”, in “Giornale di Sicilia”, 24 dicembre 1988.
[35] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p.213.
[36] Ivi, p. 215.
[37] Ivi, p. 239.
[38] F. Merlo, La nave della resistenza, in “la Repubblica”, 23 agosto 2018.
[39] F. Braudel, Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. I, Einaudi, Torino 1976, pp. 921-922
[40] V. Consolo, Il Mediterraneo tra illusione e conflitto nella storia e in letteratura, in G. Interlandi (a c d), La salute mentale nelle terre di mezzo. Per costruire insieme politiche di inclusione nel Mediterraneo, in “Fogli d’informazione”, terza serie, nn. 13-14, gennaio-giugno 2010, p. 7.
[41] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., pp. 217-222; cfr, inoltre, A. Campisi – F. Pisanelli, Memorie e racconti del Mediterraneo: l’emigrazione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo, Mc éditions, Tunisi 2015, A. Campisi, Il pericolo è alle “nostre porte”. L’invasione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo, in “Dialoghi mediterranei”, www.istitutoeuroarabo.it, n. 33, settembre 2018.
[42] Cfr. I muri d’Europa, in www.nuovosoldo.it
[43] Cfr. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992, pp.173-175; cfr. G. Traina, Op. cit., p. 33.
[44] V. Consolo, Memoriale di Basilio Archita, in Idem, Le pietre di Pantalica, cit., pp. 187-195. Il racconto, ispirato a un fatto di cronaca, era già uscito, quattro anni prima, con il titolo E il capitano ordinò: buttateli agli squali! In “L’Espresso”, 3 giugno 1984, pp. 55-64.
[45] F. Di Legami, Vincenzo Consolo, Pungitopo, Marina di Patti 1990, p. 43.
[46] V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano 1998, pp. 40-41.
[47] G. Bonina, In nome della nostra legge, in “La Sicilia”, 27 settembre 1998.
[48] Cfr. S. Burgaretta, L’illusione di Consolo, art. cit.
[49] V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Op. cit., p. 125.
[50] V. Consolo, Il boato di Santa Rosalia, in “L’Unità”, 6 agosto 1998.
[51] L. Sciascia, La palma va a nord, Gammalibri, Milano 1982.
[52] G. Bonina, Art. cit.
[53] G. Marrone, Consolo risveglia l’eco di parole dimenticate, in “L’Ora”, 14 aprile 1992.
[54] C. Medail, C’era il diavolo a Cefalù. Ma poi arrivò Mussolini, in “Il Corriere della sera”, 21 marzo 1992.
[55] O. del Buono, Sicilia con furore, in “Panorama”, 16 ottobre 1988, p. 137.
[56] A. Rossi, Il “contastorie” del bel tempo che fu, in “Grazia”, 30 ottobre 1988, p. 97.
[57] D. Alighieri, Purgatorio, VI, vv. 125-126.
[58] M. Onofri, I miracoli della poesia, in “Diario della settimana”, 7 ottobre 1998.
[59] L. Canali, Che schiaffo la furia civile di Consolo, in “L’Unità”, 7 ottobre 1988.
[60] Dalla registrazione del discorso che Consolo tenne ad Avola l’11 dicembre 1998, in occasione della presentazione, da me organizzata, dello Spasimo di Palermo. Cfr. anche L. Faraci, Ho scritto il romanzo per narrare le nostre perdite, in “La Sicilia”, 13 dicembre 1998.
[61] V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 37.
[62] Ivi, p. 91.
[63] Ivi, p.88.
[64] Ivi, p. 105.
[65] Ivi, p. 91.
[66] Ivi, pp. 127-128.
[67] Ibidem.
[68] C. Prestifilippo, Parole contro il potere. Vincenzo Consolo, ritratti e lezioni civili, Navarra Editore, Marsala, 2013, p.69.
[69] Ivi, pp.129-130.
[70] Ivi, p. 93.
[71] Cfr. S. Burgaretta, Il Gran Lombardo schiavo dell’utile, in “la Sicilia”, 10 dicembre 1998.
[72] V. Consolo, Tu non mi avrai, città dei leghisti, in “Il Messaggero”, 20 giugno 1993.
[73] V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma 1993, p. 5.
[74] Ivi, p. 4.
[75] Ivi, pp.68-69.
[76] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 197.
[77] V. Consolo. Fuga dall’Etna, cit., p. 69.
[78] Cfr. S. Burgaretta, La nota dissonante, in “Il Giornale di Scicli”, 9 febbraio 2003.
[79] M. De Unamuno, Ensayos, tomo I, Aguilar, Madrid 1966, p. 849.
[80] Ivi, p. 855.
[81] M. De Unamuno, Ensayos, tomo II, Aguilar, Madrid 1966, p. 373.
[82] C. Prestifilippo, Op. cit., p.8.
[83] Ivi, p.12.
[84] Ivi, p. 13.
[85] V. Consolo, Fuga dall’Etna, cit., p.70.
[86] Cfr. la nota n. 59.
[87] Cfr. l’epigrafe in esergo con la citazione dal Prometeo incatenato di Eschilo.
[88] M. Onofri, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in A A. V V. Per Vincenzo Consolo, a cura di Enzo Papa, Manni, San Cesario di Lecce 2004, p. 66.
[89] C. Prestifilippo, Op. cit, p. 27.
[90] V. Consolo, Di qua dal Faro, cit., p. 235.
[91] G. Bonina, Art. cit.
[92] AA. VV. , L’Africa secondo noi, a cura di P. Pallavicini e J.M. Gangbo, Edizioni dell’Arco, Pavia 2002.
[93] C’è da segnalare che da una ventina d’anni si va sviluppando in Italia una letteratura che è opera di immigrati che scrivono adottando la lingua italiana. Tra di essi sono Pap Khouma, Saidou Moussa Ba, Mohamed Bouchane, Mbacke Gadji, Amara Lakhous, Igiaba Scego e altri.
[94] Cfr. S. Burgaretta, I saggi di Consolo, un commento ai suoi romanzi, in “Stilos”, art. cit.
[95] G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in V. Consolo, L’opera completa, Mondadori, Milano 2015, p. LXXIV.
[96] V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, cit., p. 131.
[97] L. Sciascia, Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano 1988, pp. 90-91.
[98] Cfr. L. Bolognini, Ghali:“Dovrei esser pieno di amici, invece ne ho persi la metà, in “la Repubblica”, 11 settembre 2018, p. 35; G. Castaldo, Lasciatemi cantare, sono un italiano di nome Ghali, in “ la Repubblica”, 29 dicembre 2018, p. 34.
[99] Cfr. C. Moretti, Mahmood”Faccio Morocco pop nel segno di mio padre”, in “la Repubblica”, 6 febbraio 2019, p. 32.
[100] Cfr., fra l’altro, A. Laffranchi, Mahmood: italiano al 100°/° cresciuto in periferia tra i cantautori di mamma e la musica araba di papà, in “Corriere della Sera”, 11 febbraio 2019, p. 13; R. Franco, Sanremo, polemiche e veleni sulla finale. E la politica “sale” sul palco dell’Ariston, Ivi, p. 12; S. Fumarola, Sanremo, Mahmood l’italiano trionfo che spacca la politica, in “la Repubblica”, 12 febbraio 2019, p. 2; L. Bolognini, Nella periferia di Mahmood “È il mio mondo, io resto qui”, in “la Repubblica”, 18 febbraio 2019, p. 18.
[101] Cfr. S. Burgaretta, Alle soglie del témenos, in M. Maugeri (a c d), Letteratitudine 3, LiberAria Editrice, Bari 2017, p. 350; Idem, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada, cit., p. 28.
foto di Claudio Masetta Milone
Milano, 6 – 7 marzo 2019
Università degli Studi
Sala Napoleonica via Sant’Antonio 10/12
L’opera di Vincenzo Consolo e l’identità culturale del Mediterraneo
*
MILANO, 6 -7 MARZO 2019
Università degli Studi
Sala Napoleonica
via Sant’Antonio 10/12
Responsabile scientifico Gianni Turchetta
Segreteria Chiara Melgrati
GIOVEDÌ 7 MARZO
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Sebastiano Burgaretta (etnologo e docente)
L’illusione di Consolo tra metafora e realtà
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Il «mondo delle meraviglie e del contrasto».
Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo
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Della natura equorea dello Scill’e Cariddi:
testimonianze consoliane inedite su Stefano D’Arrigo
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11.30
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La notte della ragione: Nottetempo, casa per casa
fra poetica e politica
Giuseppe Traina (Università degli Studi di Catania)
Per un Consolo arabo-mediterraneo
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Parole allo specchio
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Introduzione ai lavori
Carla Riccardi (Università degli Studi di Pavia)
Da Lunaria a Pantalica: fuga e ritorno alla storia?
Nicolò Messina (Universitat de València)
Cartografia delle migrazioni in Consolo
16.30 | Pausa caffè
17.00
Corrado Stajano (giornalista e scrittore)
Storia di un’amicizia
Dominique Budor (Université Sorbonne Nouvelle)
“Gli inverni della storia” e le “patrie immaginarie”
Marina Paino (Università degli Studi di Catania)
La scrittura e l’isola
L’opera di
Vincenzo Consolo
e l’identità culturale del Mediterraneo
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I fili ininterrotti di Vincenzo Consolo Memoria, memoria, tanta memoria.
*
Paolo Di Stefano
Se c’è uno scrittore che ha passato tutta la sua vita a combattere sul fronte dell’impegno etico-civile e su quello della sperimentazione linguistica, questo è Vincenzo Consolo. «Il maggiore scrittore italiano della sua generazione» l’ha definito Cesare Segre, tenendo presente che la sua generazione è quella che viene dopo Sciascia, Pasolini, Volponi e Calvino, e cioè quella degli anni Trenta (Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 ed è morto a Milano nel 2012) che ha attraversato le turbolenze della neoavanguardia con totale simpatia o con totale disgusto. Consolo non si è allineato né con gli uni né con gli altri: grazie a un suo speciale e inesausto sperimentalismo, sempre in lotta contro la lingua del suo tempo e contro la lingua vittoriosa della storia; insofferente e pessimista rispetto alle magnifiche sorti agognate dalle ideologie progressiste. Arrivato a Milano negli anni 50 per studiare, attratto dalle sirene vittoriniane, Consolo abita fino alla fine nella metropoli lombarda (con crescente irritazione che culmina negli anni 90) ma non smette di tormentarsi sul destino della sua Sicilia. E anzi la sua narrativa rappresenta quasi programmaticamente (e ostinatamente) le varie fasi della storia sicula, dall’antichità greca (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria), al Settecento illuminista (Retablo), alla pessima realizzazione unitaria (Il sorriso dell’ignoto marinaio), all’irrazionalismo prefascista (Nottetempo, casa per casa), al secondo dopoguerra, fino alla contemporaneità della cronaca mafiosa (L’olivo e l’olivastro), comprese le «memorie degli innocenti sopraffatti dai delinquenti» (Lo spasimo di Palermo).
La scrittura di Consolo vive di molteplici paradossi, come non cessa di sottolineare Gianni Turchetta, curatore dello splendido Meridiano, coordinatore del convegno milanese e autore del saggio introduttivo delle «Carte raccontate», il fascicolo appena pubblicato dalla Fondazione Mondadori: «Per Consolo la “letteratura” è il luogo dove il linguaggio viene sospinto fino alle sue estreme possibilità, sottoposto a una pressione senza compromessi, con una tensione che è al tempo stesso formale e morale (…). D’altro canto, Consolo non smette di ricordare quanto le parole siano mancanti rispetto alla realtà». In questa contraddizione irresoluta è il tragico della narrativa di Consolo, che si rispecchia nel rigore tormentoso del lavoro materiale sul testo, dove ogni parola e ogni giro sintattico sono il risultato di scavi filologici e, si direbbe, archeologici, sprofondamenti negli strati della memoria storica, con le sue cicatrici, e della memoria linguistica. In un burrascoso incontro al Teatro Studio di Milano (un entusiasmante tutti contro tutti), organizzato nel marzo 2002 dalla Fondazione del Corriere, con Emilio Tadini, Tiziano Scarpa e Laura Pariani, Consolo disse: «Se stabiliamo che la letteratura è memoria – e la letteratura è memoria altrimenti sarebbe soltanto comunicazione cronistica, giornalismo – allora diventa anche memoria linguistica. Io credo che l’impegno di chi scrive sia quello di far emergere continuamente la memoria». Memoria è anche memoria linguistica: il che significa affidare alla letteratura il compito di resistere al linguaggio «fascistissimo» dell’omologazione. Una visione pasoliniana. Anche per questo è affascinante (e non di rado perturbante) seguire da vicino lo scrittore lungo le vie accidentate che conducono alla pubblicazione delle sue opere: attraverso cui si intuisce come «dato fondativo» della scrittura di Consolo quella che lo stesso Turchetta definisce «la ridiscussione e perfino l’aperta negazione della forma romanzo, in quanto portatrice di un’illusoria continuità narrativa, che mistifica la complessità del reale». E già a partire da La ferita dell’aprile (1963) – il sorprendente libro d’esordio che restituisce le lotte politiche del secondo dopoguerra narrate in prima persona dall’allievo di un istituto religioso di paese – si intravede uno sviluppo che porta dalle soluzioni più piane delle prime redazioni verso una crescente deformazione espressionistica e un arricchimento stilistico. Un processo che troverà una vera maturazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato ai tempi della spedizione dei Mille e articolato su più livelli: il capolavoro del 1976 il cui titolo si deve a un misterioso ritratto d’uomo di Antonello da Messina (che per una felice coincidenza è in mostra in questi giorni nella rassegna di Palazzo Reale), un dipinto ricevuto in dono a Lipari dal protagonista, il barone di Mandralisca. Una gestazione sofferta (e fondata su una lunga preparazione documentaria) che procede per faticose fasi di scrittura e riscrittura, ripensamenti e blocchi che in quegli anni vennero superati grazie al sostegno della moglie Caterina Pilenga e alle sollecitazioni di amici fedeli come Corrado Stajano. E nel segno dell’amicizia è anche il lungo rapporto – di totale ammirazione – con il «maestro» Sciascia: ora testimoniato dalla corrispondenza (1963-1988), edita da Archinto a cura di Rosalba Galvagno. La preziosa biblioteca consoliana e l’archivio – con le varie redazioni dei romanzi e i rispettivi materiali di ricerca – sono stati affidati alla Fondazione Mondadori che negli ultimi due anni ha completato la catalogazione e la descrizione. Con un rigore e una passione che Consolo, principe di rigore e di passione, avrebbe certamente approvato.
Paolo Di Stefano
4 marzo 2019 (Corriere della Sera)
Un volume della Fondazione Mondadori curato da Gianni Turchetta e un epistolario
edito da Archinto. E a Milano il 6 e 7 marzo un convegno sullo scrittore
Il volume «E questa storia che m’intestardo a scrivere. Vincenzo Consolo e il dovere della scrittura», a cura di Gianni Turchetta, nella collana «Carte raccontate» (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pp. 52, euro 12, disponibile dal 6 marzo)
Il volume «Essere o no scrittore. Lettere 1963-1988», di Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia (Archinto, pp. 84, euro 14)
“Con lo scrivere si puo’ forse cambiare il mondo”. Studi per Vincenzo Consolo
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Vincenzo Consolo (Sant’Agata di Militello, 1933 – Milano, 2012) è uno dei grandi classici del secondo Novecento; la sua opera è ormai tradotta in molte lingue.
Questo volume vuole rendere omaggio alla sua originalissima figura di scrittore e di intellettuale e propone, accanto a studi di critici “consoliani” di lungo corso, nuove prospettive di lettura di giovani ricercatori.
Il libro presenta anche alcuni materiali inediti: un’intervista all’autore, una nota esplicativa sul suo archivio di recente apertura e due fotografie in bianco e nero.
Anna Fabretti
ReCHERches n° 21/2018
«Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo». Studi per Vincenzo Consolo
Avec Anna Frabetti, Laura Toppan, Marine Aubry-Morici, Lise Bossi, Michele Carini, Giulia Falistocco, Cinzia Gallo, Nicola Izzo, Rosina Martucci, Daragh O’Connell, Caterina Pilenga Consolo, Daniel Raffini, Giuseppe Traina, Gianni Turchetta
Édité par Anna Frabetti, Laura Toppan
Photographies de Giovanna Borgese
Dettagli:
Caterina Pilenga Consolo, « Breve nota sull’Archivio Consolo » ;
Anna Frabetti, « Conversazione con Vincenzo Consolo » ;
Anna Frabetti e Laura Toppan, « Introduzione »;
Gianni Turchetta, « Soggettività e iterazione nel romanzo storico-metaforico di Vincenzo Consolo » ;
Daragh O’Connell, « Il punto scritto: genesi e scrittura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio » ;
Giulia Falistocco, « La scrittura come fuga dal carcere della Storia. Il sorriso dell’ignoto marinaio » ;
Lise Bossi, « Vincenzo Consolo, dal sorriso allo spasimo: l’impossibile romanzo » ;
Giuseppe Traina, « L’ulissismo intellettuale in Vincenzo Consolo » ;
Nicola Izzo, « Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo;
Daniel Raffini, « La mia isola è Las Vegas: laboratorio e testamento letterario » ;
Marine Aubry-Morici, « Écrivains de l’histoire, écrivains du mythe : la géographie littéraire de Vincenzo Consolo » ;
Michele Carini, «E questa storia che m’intestardo a scrivere» Sull’istanza narrativa nell’opera di Vincenzo Consolo » ;
Cinzia Gallo, « Vincenzo Consolo lettore di Pirandello » ;
Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» » ;
Rosina Martucci, « Vincenzo Consolo e Giose Rimanelli: quadri di letteratura comparata fra viaggio, emigrazione ed esilio ».
Vincenzo Consolo (Sant’Agata Di Militello,18 febbraio 1933 – Milano 21 gennaio 2012)
La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio
Giulia Falistocco
Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio Consolo riprende la lezione di Manzoni, ma decostruisce la forma romanzesca attraverso una struttura complessa e una forte sperimentazione linguistica. Il romanzo storico rimane per Consolo un modo per rappresentare metaforicamente il presente, sebbene non più in maniera innocente, ma per mezzo di forme parodiche, atte a superare un’arte ironica-borghese. L’articolo quindi analizza le strategie rappresentative e allegoriche con cui Consolo dà nuovo spessore al romanzo storico, riuscendo a conservare un vigore etico e politico.
Dopo tredici anni di silenzio, a seguito de La ferita dell’aprile, nel 1976 Vincenzo Consolo pubblica Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il suo secondo romanzo è un’opera necessaria, «nata da esperienze private e da eventi pubblici» (Consolo 2015: 1255), con la quale l’autore affronta metaforicamente il passato e il presente siciliano. Per Consolo lo scrittore, infatti, da Zola in poi, non può sottrarsi alla Storia, «se non a rischio dell’accusa di complicità e di collaborazione col potere che perpetra ingiustizie e delitti» (Consolo 2015: 1173). Il romanzo propone una metafora politica e sociale, dunque, che tenta di superare il “silenzio artistico”, per dirla con parole dello stesso Consolo, e di sperimentare le potenzialità rappresentative del romanzo.
2La planimetria metaforica del romanzo è strutturata attraverso l’immagine della chiocciola, come ha mostrato Cesare Segre nel suo illuminante saggio (Segre 1991), archetipo ancestrale, «origine della percezione, conoscenza e costruzione» (Consolo 2015: 1254). Attraverso quest’immagine, Consolo dà forma alla materia narrata, con l’intento di allargare nel tempo, «verticalizzare» (Consolo 2015: 1255), il suo messaggio. L’obiettivo ultimo dell’autore, però, è quello di mostrarne il superamento: solo l’evasione dal carcere-chiocciola può ridurre lo spazio comunicativo fra testo linguistico e contesto situazionale. Nel pensiero di Consolo, quindi, la sfida alla chiocciola si coniuga con la sperimentazione del romanzo storico. Il punto focale, o, come direbbe Consolo, «l’angolo acuto» (Consolo 2015: 1255) di questo triangolo, è il quadro di Antonello da Messina: L’ignoto marinaio. Con il suo sorriso ironico, il ritratto è espressione dell’élite intellettuale, di cui l’autore mostra le mancanze, i limiti e le storture. Il raziocino culturale, in particolare di stampo illuminista, viene smascherato, con lo scopo di mostrare in ultimo la fragilità della parola: la letteratura deve quindi prendere coscienza della sua “impostura”, della sua soggettività e temporalità.
- 2 Come scrive Spinazzola: «I Viceré, I vecchi e i giovani, Il Gattopardo costruiscono una sorta di (…)
3In questo articolo si intende analizzare gli elementi di questo triangolo (chiocciola, ritratto e romanzo) attraverso i quali Consolo sperimenta e supera il romanzo storico, genere ricorrente nella più recente letteratura siciliana2.
4I capitoli chiave che ci consentono di entrare nel cuore del romanzo sono gli ultimi quattro, composti dalle lettere che Mandralisca invia a Giovanni Interdonato (compreso l’ultimo capitolo costituito dalla trascrizione delle epigrafi). Queste nascono dalla necessità di narrare i moti di Alcàra Li Fusi; ma l’impossibilità di trovare le parole della memoria dà origine a una requisitoria rivolta al suo alter ego, che si trasforma con lo scorrere delle pagine in una confessione. Le aporie della Storia diventano, quindi, il vero oggetto della lettera: la loro risoluzione passa attraverso l’immagine della chiocciola, simbolo della memoria personale e collettiva.
- 3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato S (…)
5Nell’ottavo capitolo, intitolato Il carcere, l’ambientazione è nel castello di Maniforti, che nasconde nelle sue fondamenta la prigione, in cui vengono portati i condannati di Alcàra Li Fusi. Il carcere ha la forma di «un’immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume» (Consolo 2015: 235). È uno schema elicoidale che appunto, seguendo il suggerimento dello stesso Consolo, serve a «conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire» (Consolo 2015: 238). La forma della conchiglia, essendo tridimensionale, unisce spazio e tempo, ed è proprio quest’ultimo che «verticalizza» la struttura. Come ha individuato Turchetta, «la progressione lineare del racconto si sovrappone costantemente al ripetersi di strutture analoghe» (Turchetta 2015: XLIX) che appunto mimano la chiocciola. Il romanzo infatti è composto da una serie di piani temporali apparentemente disgiunti, ma che nascondono molteplici connessioni. Capire l’iter vorticoso della Storia è compito del lettore quanto del protagonista Mandralisca. Attraverso l’immagine della chiocciola, quindi, l’autore organizza la narrazione: la sua forma semi-labirintica serve a dare un’orditura agli eventi storici, creando una spirale, di «estremi» e di «intermedi» (Segre 1991: 81) che, parafrasando le parole di Segre, si alternano o si mescolano. Attraverso i suoi vari significati, inoltre, la chiocciola rappresenta il corso degli eventi, tanto quanto le modalità con cui vengono rappresentati. Con il suo intreccio di voci e di echi il carcere-conchiglia, infatti, assume un valore meta-letterario, dando forma alla lingua che per Consolo deve racchiudere l’ordine illuminista e il disordine barocco: «una lingua che resta molteplice volge dal basso all’alto, dal mondo popolare e dal mondo classico» (Consolo 2015: 1237)3.
- 4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata d (…)
6La rappresentazione della chiocciola si realizza attraverso il gioco delle somiglianze, «scandaglio delicato e sensibilissimo» (Sciascia 1998: 35)4. È sempre Consolo, attraverso le parole del Mandralisca che ci fornisce la chiave di lettura delle procedure narrative. L’arco di ingresso al carcere, infatti, ha nove pietre portanti per lato «con figure a bassi rilievi, diverse, ma ognuna che somiglia o corrisponde all’altra allato della pila opposta, e unica la chiave, che divide o congiunge, tiene le due spinte, l’ordine contrapposto delle somiglianze» (Consolo 2015: 235). Per entrare nella chiocciola bisogna passare quindi tra immagini simili, ma in contrasto; tra queste solo la chiave non ha un corrispettivo: è l’inizio, il centro della chiocciola «che divide o congiunge» (Consolo 2015: 235). Non a caso «sull’ordine delle somiglianze è strutturato il sistema conoscitivo del barone di Mandralisca» (Traina 2011: 59): a lui infatti Consolo affida il compito di interpretare lo schema della chiocciola. Il romanzo perciò dovrà rifarsi a questo impianto gnoseologico, perché, come scrive sempre Traina, la sfida al labirinto passa per l’assunzione della sua forma. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, perciò, sono presenti una serie di elementi simmetrici, ma allo stesso tempo in contrasto: tre in particolare sono importanti nell’andamento dell’opera: i moti di Cefalù e Alcàra Li Fusi, Giovanni Interdonato e il Ritratto dell’ignoto.
7I moti di Cefalù del 1856 sono sedati dall’esercito borbonico, portando alla condanna degli organizzatori. Si tratta di una rivolta che vede la partecipazione dell’alta borghesia liberale, presentata con elementi tra il tragico e il melodrammatico (Spinuzza ad esempio è descritto con tono di pietas dal narratore). La rivolta di Alcàra Li Fusi, che occupa il romanzo dal terzo capitolo fino alla fine, è invece ad opera dei contadini. Anche questa viene sedata nella violenza, ma dai rappresentanti della borghesia liberale. Apparentemente speculari i due moti sono in realtà “contrapposti”: sono i due modi di dare corpo alla parola “Libertà”, come si chiarirà più avanti. Anche la figura di Giovanni Interdonato subisce un capovolgimento: nella seconda parte del romanzo infatti Mandralisca incontra l’omonimo cugino del rivoluzionario, «somigliante a me nel nome e cognome solamente, ché per il resto discordiamo» (Consolo 2015: 229), colui che attraverso l’inganno riesce a sedare il moto di Alcàra Li Fusi. In ultimo abbiamo il Ritratto di Antonello, il cui sorriso ironico da simbolo della ragione illuministica passa ad essere luciferino e malefico alla fine del romanzo.
8L’aporia della Storia-chiocciola perciò si realizza nell’aporia delle somiglianze: «somiglia, ecco tutto» scrive Sciascia ne Il gioco delle somiglianze (Sciascia 1998: 35). La lumaca, metafora della Storia “vorticosa”, perciò, diventa una figura claustrofobica, negazione di vita, come il carcere di Maniforti, luogo di dolori e affanni dal quale bisogna uscire. È sempre Mandralisca, nella lettera a Interdonato, che ne dà una lucida spiegazione:
Vidi una volta una lumaca fare strisciando il suo cammino in forma di spirale, dall’esterno al punto terminale senza uscita, come a ripeter sul terreno, più ingrandita, la traccia segnata sopra la sua corazza, il cunicolo curvo della sua conchiglia. E sedendo e mirando mi sovvenni allor con raccapriccio di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine… (Consolo 2015: 217).
9La chiocciola è, quindi, riprendendo le parole di Segre, «metafora plurima», allegoria delle «ingiustizie del potere», dei «privilegi della cultura», «della proprietà come usurpazione» (Segre 1991: 80).
10La visione della Storia si associa alla riflessione sul linguaggio. «Cos’è stata la storia sin qui», scrive Consolo attraverso Mandralisca, se non «una scrittura continua di privilegiati» (Consolo 2015: 215). La Storia è una narrazione soggettiva, ad appannaggio di una determinata classe sociale, definita dall’autore come «coloro che possedevano i mezzi del narrare» (Consolo 2015: 215), e tra questi anche il romanziere-scrittore non ne è avulso. La giustapposizione tra documento e fiction dovrà, perciò, essere letta come la messa in discussione del racconto storico, non più fonte di veridicità. Come scrive Turchetta, «per tutta la vita Consolo ha messo in discussione lo statuto della parola, denunciandone gli invalicabili limiti, la falsità o quanto meno la tendenziosità e la dubbia legittimità, la sua inevitabile determinatezza, storica e soggettiva» (Turchetta 2015: XXV). Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio il maggiore esempio della polisemia linguistica è rappresentato dalla parola “Libertà”. Continuando a citare dalla lettera del Mandralisca:
e dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità […] e gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? (Consolo 2015: 216).
11Infatti se per la borghesia liberale “libertà” indentifica una serie di diritti astratti e immateriali, per i contadini, per coloro che non hanno il mezzo del narrare, libertà è la terra. La polisemia della parola è un chiaro riferimento alla novella di Verga, intitolata appunto Libertà. Questa si conclude con le amare riflessioni di uno dei rivoltosi di Bronte condannati a morte: «Il carbonaio mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà…» (Verga 2013: 325).
12La messa in discussione dell’istituto storia si lega, inoltre, a un progetto politico che deve mettere in scacco i soprusi di «coloro che hanno il mezzo del narrare». L’ambientazione scelta da Consolo è il Risorgimento: momento di contraddizioni e conflitti che deve essere liberato dalla sua patina oleografica e retorica. Consolo infatti scrive:
durante la campagna siciliana esplodono subito le contraddizioni, il conflitto tra i due modi di intendere il Risorgimento: quello popolare, come rivoluzione e riscatto sociale; e quello borghese intellettuale, come liberazione dalle dominazioni straniere del paese, come unità politica sotto forma di repubblica o di monarchia. (Consolo 2003)
- 5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvific (…)
13L’autore denuncia il crimine della proprietà, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca» (Consolo 2015: 220), che può essere proprietà della terra, quanto proprietà della parola. Simbolo della “proprietà” intellettuale è proprio il sorriso dell’ignoto, immagine dell’equilibrio tra «cupezza» e «riso» e della ragione «una lama d’acciao», «lucida» e «tagliente» (Consolo 2015: 144), come la definisce il narratore. Mandralisca, unicum nella società erudita siciliana, sente il bisogno di sottrarsi alle imposture della storia: deve perciò compiere una catabasi nelle profondità della chiocciola-carcere per riemergerne un uomo cambiato5. È lo stesso Interdonato a riconoscere le particolarità del barone:
voi invece, barone, mi dovete permettere, perché non siete un pazzo allegro, un imbecille o calacàusi come la maggior parte degli eruditi e dei nobili siciliani… Voi siete un uomo che ha le capacità di mente e di cuore per poter capire (Consolo 2015: 160)
14L’inganno della lumaca viene, dunque, smascherato da Mandralisca: dopo una vita passata a cercare e catalogare questi piccoli molluschi, non rimane altro che schiacciare quei gusci vuoti, bearsi del rumore delle chiocciole frantumate.
15L’impossibilità di conoscere la Storia attraverso la parola è una frattura epistemologica, sentita con forza da Consolo, che causa la crisi dell’intellettuale-scrittore. Questo deve, perciò, rinunciare al suo ruolo demiurgico, distaccato e ironico, e diventare l’opposto del ritratto che invece sembra fissare tutti negli occhi. La sua «impostura», un tempo origine di conoscenza, ora si rivela una chimera da affrontare. Così quel sorriso, un tempo «fiore d’intelligenza e sapienza, di ragione», diventa «pungente», «fiore di distacco e eleganza, d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o potere che viene da una carica» (Consolo 2015: 219). Il rimedio potrebbe essere quello di scrivere la Storia dal punto di vista di coloro che non possiedono il mezzo del narrare; tuttavia lo scarto «di voce e di persona» (Consolo 2015: 215) non può essere eliminato, poiché la nascita e la formazione dello scrittore generano un vizio di forma insuperabile. Consolo, infatti, non mette sotto scacco solo la narrazione storica, ma anche qualsiasi forma di riproduzione del reale: «quando un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta» (Consolo 2015: 216). Anche la forma d’arte più immediata, in presa diretta, come potrebbe essere il cinema o il documentario, alluse in queste parole, non sono sufficienti a superare l’impostura.
16«Che più, che fare?» (Consolo 2015: 218) si chiede il Mandralisca. La soluzione arriva da un altro personaggio. L’antagonista per eccellenza del sorriso, infatti, è Catena, colei che per prima riconosce l’aspetto «greve, sardonico, maligno» (Consolo 2015: 221) del ritratto e lo sfregia nel punto finale del labbro. Un gesto che Mandralisca comprende solo alla fine del romanzo e lo porta ad esclamare: «Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso!» (Consolo 2015: 219). Catena, per quanto non compaia come personaggio attivo, ha quindi un ruolo chiave per la comprensione dell’opera. Bouchard analizza la rielaborazione parodica di Catena rispetto alla tradizione risorgimentale. La ragazza, infatti, prima presentata come una semplice tessitrice, quasi «topos dell’isterismo femminile» (Bouchard 2013: 45), si rivela in seguito paladina della causa risorgimentale.Catena è quindi un personaggio complesso, allegoria dell’inventio e detentrice del genio creatore: la tovaglia con l’albero delle quattro arance ne è la manifestazione. La descrizione del ricamo è affidata allo sguardo distante della baronessa Parisi: «sembrava quella tovaglia – pensò la baronessa – ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare forse che la ragione le fosse andata a spasso» (Consolo 2015: 167-168). In questa «mescolanza dei punti più disparati» (Consolo 2015: 168), perciò, va rintracciato il progetto poetico di Consolo: il romanzo si origina dalla libera creatività, dando vita all’alternanza delle voci, rinascita della società. Bisogna notare che il «furore» (Consolo 2003) è la qualità attribuita dall’autore ai più alti poeti della tradizione letteraria: Virgilio, Dante, Petrarca e Leopardi.
17Le scritte, l’ultima testimonianza lasciata dal Mandralisca nel capitolo conclusivo, sono appunto frutto dell’immaginazione e della libertà creativa: evadono dal carcere-chiocciola portando il messaggio di «libertà» dei contadini di Alcàra Li Fusi. È qui, però, che interviene Consolo in persona, dando in ultimo al lettore il senso della sua poetica: le scritte infatti sono un artificio dall’autore stesso. In questo dialetto sanfratellano, siciliano e letterario si mescolano in un pastiche polivocalico, «sintesi linguistica», come scrive Segre, «della Sicilia medievale e barocca, feudale e popolare, cittadina e contadina» (Segre 1991: 86). La scrittura in questo modo diventa nemica della lumaca-labirinto, permettendone appunto la fuga.
18Lo scrittore, perciò, per poter evadere dal carcere-chiocciola, non può rinunciare all’impostura, ma aggirarla con l’immaginazione. Un percorso che egli compie in solitudine «per combattere il potere e il conformismo imposto dal potere» (Consolo 2015: 1173), scrive Consolo, solo così si potrà realizzare la libertà di linguaggio che è appropriazione di verità ed emotività. Lo stesso processo è indicato dal Mandralisca per i contadini di Alcàra: «tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose» (Consolo 2015: 217).
- 6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in (…)
19Il modello che Consolo deve superare è quello razionale e ironico di Sciascia e Manzoni, così da approdare a una letteratura terrigna, perché «a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna» (Consolo 2015: 219). Nella poetica di Consolo questo non significa mai accostarsi alla realtà con ingenuità e spontaneità, ma è piuttosto un procedere di labor lime, di complessa sperimentazione, in grado di accogliere tutte le forme espressive. «Il narrare», scrive Consolo, è un’«operazione che attinge quasi sempre dalla memoria», questa però, a differenza dello scrivere, «mera operazione di scrittura impoetica», non può cambiare il mondo, «perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta» (Consolo 2012: 92)6. Eppure, prosegue l’autore, «il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… questo salto mortale si chiama metafora» (Consolo 2012: 92). Il sorriso dell’ignoto marinaio, infatti, evita un approccio mimetico, ma è intarsiato di analogie, simmetrie tra i personaggi e tra le parti dell’opera (operazione che verrà ripresa anche in Retablo, con i tre capitoli che mimano la pala d’altare). Il romanzo è composto per blocchi, così da disorientare il lettore, non lasciandosi mai all’affabulazione: si pensi al passaggio dall’appendice del capitolo due, in cui vengono presentati i moti di Cefalù, a Morti Sacrata. Autocosciente della sua finzionalità, Il sorriso dell’ignoto marinaio non permette al lettore di adagiarsi in una lettura empatica e melodrammatica.
20In conclusione, l’analisi fin qui condotta permette di delineare cosa sia il romanzo storico per Vincenzo Consolo, attraverso il confronto con altre opere. Il primo paragone deve essere fatto con un altro romanzo composto nello stesso periodo e uscito a soli due anni di distanza, nel 1974: La Storia. Nel romanzo di Elsa Morante, come in Consolo, storia e romanzo non dialogano, ma vengono giustapposti. Morante, anche lei interessata a creare un linguaggio per le vittime del potere, predilige una lingua limpida e comunicativa, riformulando il rapporto tra epos e romanzo. Per l’autrice la letteratura gioca ancora un ruolo prioritario, in grado di illuminare le verità del reale. Consolo, invece, manifesta una crisi più profonda che coinvolge romanzo e linguaggio integralmente: questi condividono le stesse aporie, le stesse storture. Storia e invenzione, perciò, non si amalgamano, ma messi difronte l’uno all’altro condividono la stessa parità gnoseologica. Il campo d’indagine del romanzo storico, perciò, come sostiene Giovanna Rosa, va ricercato «nell’effetto di storia» (Rosa 2010: 50): tesi ancora più vera nel Novecento, visto che la Storia ha perso il suo carattere monolitico. Consolo, potremmo parafrasare, porta all’estremo la decostruzione del linguaggio creando “l’effetto di romanzo”. La riflessione dell’autore inizia proprio dal mettere in discussione l’istituto del genere, dando vita ad un romanzo che fa deflagrare il conflitto, prima di tutto linguistico. Il sorriso dell’ignoto marinaio, in maniera anti-affabulatoria, è «un romanzo storico che è la negazione del romanzo, come narrazione filata di una storia, e della Storia, come esplicazione degli avvenimenti» (Segre 1991: 77).
21L’afasia, possibile conseguenza dell’arbitrarietà della memoria, viene eclissata in favore di una parola che ritrova forza nello sperimentalismo di Gadda e Pasolini, ma soprattutto nel confronto con la grande tradizione del romanzo storico siciliano. «Il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale», scrive Consolo, è «passo obbligatorio, come abbiamo visto, di tutti gli scrittori siciliani, [ed] era per me l’unica forma possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze, le sue problematiche culturali» (Consolo 2003). Verga, Pirandello, ma soprattutto Tomasi di Lampedusa, sono i modelli di riferimento. Consolo però sceglie una via diversa rispetto agli autori siciliani: non un anti-romanzo, o contro-romanzo storico, ma una scrittura che manifesti il superamento:
per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano il superamento in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini (Consolo 2015 1258)
22Il Gattopardo in particolare, non a caso chiamato dall’autore romanzo della fine, segna un momento di frattura nel romanzo risorgimentale. Con la sua intelligenza razionale, la propensione per le idee astratte, il principe di Salina è il coronamento dell’atemporalità, del distacco armonico dell’intellighenzia siciliana. Passato il turbolento dibattito, infatti, Il Gattopardo è stato riconosciuto per quello che era, «un classico» (Consolo 2015: 1150). Consolo, invece, interessato a sperimentare le potenzialità del romanzo in un’epoca «senza speranza», ritiene che questo possa sopravvivere, ma solo sotto forma parodica e metaforica. Polivocalità e decostruzione del romanzo sono gli elementi per poter realizzare il processo di mediazione metaforica, ultimo orizzonte percorribile per rapportarsi con la realtà. Quindi il romanzo per Vincenzo Consolo può vivere solo sotto forma parodica, perché esso stesso è una parodia della realtà, un’impostura.
BIBLIOGRAFIA
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Gli utenti abbonati ad uno dei programmi OpenEdition Freemium possono scaricare i riferimenti per i quali Bilbo a trovato un DOI nei formati standard. Bouchard N., 2013, «Oltre la tradizione del romanzo storico ad argomento risorgimentale: la riscrittura di donna e nazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», Forum Italicum, vol. 47, Issue 1, p. 38-53. DOI : 10.1177/0014585813479869 Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli. Consolo V., 2003, Risorgimento e letteratura. Il romanzo post-risorgimentale siciliano, in: http://vincenzoconsolo.it. Consolo V., 2012, La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina, Milano, Mondadori. Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Rosa G., 2010, Dal romanzo storico alla Storia. Romanzo. Romanzo storico, antistorico e neostorico, in: Simona Costa e Monica Venturini, Le forme del romanzo italiano e le letterature occidentali dal Sette al Novecento, Firenze, ETS, p. 45-70. Sciascia L., 1998, Cruciverba, Milano, Adelphi. Segre C., 1991, «La costruzione a chiocciola nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo», Intrecci di voci: la polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, p. 71-86. Spinazzola V., 1990, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti. Traina G., 2011, Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo. Turchetta G., 2015, «Cronologia», in: Consolo Vincenzo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani». Verga G., 2013, Libertà, in: Novelle I, Milano, Mondadori.
NOTE
2 Come scrive Spinazzola: «I Viceré, I vecchi e i giovani, Il Gattopardo costruiscono una sorta di caso letterario plurimo, fascinoso e sconcertante. Di solito, un’opera viene presa a modello da altri scrittori, della stessa età o di epoche successive, in quanto ha ottenuto successo. Qui invece ci troviamo di fronte a una serie di romanzi palesemente imparentati fra loro, ma senza che il primo e nemmeno il secondo abbiano incontrato fortuna, tutt’altro» (Spinazzola 1990: 7). Anche Il sorriso dell’ignoto marinaio può essere aggiunto alla triade di romanzi proposti da Spinazzola: benché se ne distanzi per stile e intento, il riferimento a queste opere è costante.
3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato Sciascia infatti rappresenta la purezza linguistica, dall’altro Piccolo raffigura il caos barocco, una lingua classica e al tempo stesso ancestrale. Rispetto a Sciascia il rapporto è particolarmente importante, ma allo stesso tempo ambiguo; è Consolo stesso infatti ad alludere al distacco avvenuto da Sciascia attraverso Il sorriso dell’ignoto marinaio: «ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. “Questo libro è la storia di un parricidio” ha detto riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra» (Consolo 1993: 43).
4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata di Giovanni Santi, è inserita da Consolo nell’incipit del romanzo.
5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvifica. Traina fa riferimento al significato archetipico della conchiglia «simbolo prettamente femminile associato ai poteri magici della matrice – passa dalla simbologia mitica alla simbologia cristiana, come segno di perpetuo rinnovamento, dunque di resurrezione: forse, per Consolo, di rivoluzione» (Traina 2011: 62).
6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in Racconti italiani del Novecento, edito per Mondadori nel 1983.
Notizia bibliografica
Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches, 21 | 2018, 77-85.
Notizia bibliografica digitale
Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches [Online], 21 | 2018, online dal 05 octobre 2021, consultato il 07 décembre 2022. URL: http://journals.openedition.org/cher/1189; DOI: https://doi.org/10.4000/cher.1189
Giulia Falistocco
reCHERches, 21 | 2018, 77-85.
Vincenzo Consolo lettore di Pirandello
CINZIA GALLO
L’attenzione e l’interesse di Consolo per Pirandello sono costanti, come dimostrano i numerosi riferimenti, espliciti od impliciti, allo scrittore agrigentino che Consolo dissemina in gran parte dei suoi lavori. La figura di Pirandello sembra intanto esemplificare la profonda influenza esercitata dai luoghi sugli individui. Infatti, se «si può cadere su questo mondo per caso, […] non si nasce in un luogo impunemente. […] senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo» (Consolo 2012: 135)2. In Uomini e paesi dello zolfo, allora, Consolo asserisce: «E, come Pirandello, ogni siciliano credo possa dire “son figlio del Caos”. È il caos prima della formazione del cosmo, la materia informe, la “mescolanza di cose frammiste” di cui parla Empedocle (anch’egli nato nel “caos” d’Agrigento)» (Consolo 1999: 9). Ovviamente Consolo si riferisce alla grandissima varietà della terra siciliana3, dal punto di vista fisico, che gli eventi storici, però, riproducono: Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni, qua e là, diversi, distinti dagli altri e in conflitto: 1 Cinzia Gallo, Università di Catania. 2 Consolo ricorda, anche, quanto Pirandello asserisce su se stesso: «Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni…» (Consolo 2012: 135). 3 Sottolinea Consolo: «[…] la Sicilia, […] quest’isola in mezzo al Mediterraneo è quanto fisicamente di più vario possa in sé raccogliere una piccola terra. Un vasto campionario di terreni, argille, lave, tufi, rocce, gessi, minerali… E quindi varietà di colture, boschi, giardini, uliveti, vigne, seminativi, pascoli, sabbie, distese desertiche. In questa terra sembra che la natura abbia subìto come un arresto nella sua evoluzione, si sia come cristallizzata nel passaggio dal caos primordiale all’amalgama, all’uniformazione, alla serena ricomposizione, alla benigna quiete. Sì, crediamo che tutta la Sicilia sia rimasta per sempre quel caos fisico come quella campagna di Girgenti in cui vide la luce Pirandello da qui, forse, tutto il malessere, tutta l’infelicità storica della Sicilia, il modo difficile d’essere uomo di quell’isola, e lo smarrimento del siciliano, e il suo sforzo continuo della ricerca d’identità. Ma questi problemi ci porterebbero lontano, nel magma esistenziale o nel procelloso mare pirandelliano, ed è meglio quindi che rimaniamo ancorati alla terra (Consolo 1999: 10). Dunque, proprio perché Pirandello è «Uomo di zolfo» (Consolo 1999: 26), vissuto a stretto contatto con lo zolfo, ne tratta compiutamente nelle sue opere, che assumono carattere di denunzia. Consolo sottolinea così come nella novella Il fumo appaia chiaramente la «distruzione della campagna da parte della zolfara» (Consolo 1999: 18), mentre in Ciàula scopre la luna «la condizione del caruso […] viene fuori in tutta la sua straziante pena; e […] nei vecchi e i giovani […] il tema dello zolfo serpeggia, prima sommessamente, […] fino ad esplodere nel finale con la rivolta degli zolfatari e con l’eccidio dell’ingegner Aurelio Costa e della sua amante […]» (Consolo 1999: 27). Questi temi, attestanti la funzione civile della letteratura, sempre presente in Consolo, si articolano però in una filosofia «che non è sistema chiuso e definitivo, ma progressione verso […] la poesia» (Consolo 1999: 26). Sembrerebbe, questa, una giustificazione, una spiegazione della narrazione poematica a cui Consolo approda, a partire da L’olivo e l’olivastro, anche se già ne Il sorriso dell’ignoto marinaio se ne notano delle avvisaglie. Pirandello, «un certo Pirandello novelliere e romanziere» rappresenterebbe, inoltre, la letteratura della Sicilia occidentale, «zona fortemente implicata con la storia, […] marcata da temi di ordine relativo – la storia, la cultura, la civiltà, la pace o la guerra sociale», mentre Verga simboleggerebbe la letteratura della Sicilia orientale, «contrassegnata […] da temi di ordine assoluto: la vita, la morte, il mito, il fato […]» (Consolo 2012: 134)4. È stato perciò Pirandello – sottolinea Consolo – a dare ai personaggi siciliani «l’arma della dialettica, del sofisma» (Consolo 1999: 121), in sostituzione della violenza, delle passioni istintive che guidavano i contadini di Verga5. Lo spazio ristretto del villaggio di Trezza, allora, «si restringe ancora di più, si riduce alla stanza borghese, in quella che Giovanni Macchia chiama “la stanza della tortura”, dove si compie ogni violenza, lacerazione, crisi, frantumazione della realtà, perdita di identità. Il movimento, in quella stanza, è solo verbale» (Consolo 1999: 269). 4 Consolo aveva espresso queste idee già nel 1986, in Sirene siciliane, considerando, però, questa «Divisione ideale, immaginaria, […]. E questa idealità è subito contraddetta fatalmente dalla realtà, da spostamenti di autori da una parte verso l’altra: di un poeta come l’abate Meli, per esempio, verso l’Arcadia, verso la mitologia dell’Oriente, o del grande De Roberto verso la storia o lo storicismo d’Occidente» (Consolo 1999: 178-179). 5 Queste idee sono confermate nel 1999, ne Lo spazio in letteratura. Pirandello avrebbe rotto «il cerchio linguistico verghiano», portandolo «su una infinita linearità attraverso il processo verbale, la perorazione, la dialettica, i dissoi lógoi: […] squarcia la scena con la lama dell’umorismo, trasforma l’antica tragedia nel moderno dramma» (Consolo 1999: 269). Non stupisce, dunque, che i due autori, Pirandello e Verga, siano posti uno di fronte all’altro ne L’olivo e l’olivastro. E non è certamente un caso che sia Pirandello, in questo testo, a rendersi conto dell’isolamento, dell’estraneità, nel suo stesso ambiente, retrivo, di Verga, estraneità che un sapiente uso dell’aggettivazione, delle figure retoriche (anafore, metafore, enumerazioni) sottolinea, costituendo, appunto, un esempio di scrittura poematica: Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca remota, irrimediabilmente tramontata. Temette che né il suo, né il saggio di Croce, né il vasto studio del giovane Russo avrebbero mai potuto cancellare l’offesa dell’insulsa critica, del mondo stupido e perduto, a quello scrittore grande, a quell’Eschilo e Leopardi della tragedia antica, del dolore, della condanna umana. Pensò che, al di là dell’esterna ricorrenza, delle formali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore. Pensò che quel presente burrascoso e incerto, sordo alla ritrazione, alla castità della parola, ebbro d’eloquio osceno, poteva essere rappresentato solo col sorriso desolato, con l’umorismo straziante, con la parola che incalza e che tortura, la rottura delle forme, delle strutture, la frantumazione delle coscienze, con l’angoscioso smarrimento, il naufragio, la perdita dell’io. Pensò che la Demente, la sua Antonietta, la suor Agata della Capinera, la povera madre, il fratello suicida di San Secondo, ogni pura fragile creatura che s’allontana, che sparisce, non è che un barlume persistente, segno di un’estrema sanità nella malattia generale, nella follia del presente (Consolo 1994: 67). «Follia del presente» (Consolo 1994: 67) è sicuramente anche quella descritta da Consolo in gran parte dei suoi lavori: pensiamo alla realtà distorta, stravolta, frantumata propria di tutti i testi consoliani, da Il sorriso dell’ignoto marinaio a Lo Spasimo di Palermo. Giustamente, quindi, Consolo è, sostiene Anna Frabetti, un «autore di linea pirandelliana […] in cui il sublime precipita in umoristico, il dramma borghese […] degenera nella “vastasata”, nella farsa del mondo rovesciato, privo di centro» (1995: 1). Una «Vastasata» (Consolo 1985: 10), del resto, è presente in Lunaria, in cui il Vicerè recita «la sua parte di sovrano» (Consolo 1985: 26), definisce «finzione la vita» (Consolo 1985: 66), si mostra consapevole, ricorrendo ad interrogative retoriche ed enumerazioni, della vanità, del carattere relativo del reale: «Dov’è Abacena, Apollonia, Agatirno, Entella, Ibla, Selinunte? Dov’è Ninive, Tebe, Babilonia, Menfi, Persepoli, Palmira? Tutto è maceria, sabbia, polvere, erbe e arbusti ch’hanno coperto i loro resti» (Consolo 1985: 61); e Tutti commentano, con sapiente uso delle figure retoriche: «Così è stato e così [anafora] sempre sarà [poliptoto]: rovinano potenze, tramontano imperi regni civiltà [enumerazione], cadono astri, si sfaldano, si spengono [climax], uguale sorte hanno mitologie credenze religioni. Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione [chiasmo], stiamo saldi, pazienza, in altri teatri, su nuove illusioni nascono certezze» (Consolo 1985: 34). E la Sesta donna: «Tutto si frantuma, / cade, passa [climax]» (Consolo 1985: 54). Su questa scia, nella prima sezione di Retablo, Isidoro scorge, nella chiesa di S. Lorenzo, una statua, che reca sul piedistallo la parola«VERITAS» (Consolo 1992: 19), dalle fattezze simili a quelle di Rosalia, ad attestare il carattere apparente, relativo del reale. Lo stesso significato ha, nella terza sezione, l’espressione «Bella, la verità» (Consolo 1992: 149)6 ripetuta da Rosalia che, del resto, sottolinea esplicitamente il contrasto fra apparenza e realtà: «Bagascia, sì, all’apparenza, ma per il bene nostro, tuo e mio»; «Fu per questo che scappai, ch’accettai questa parte dell’amante, questa figura della mantenuta» (Consolo 1992: 149, 155). Se pirandelliana è la costrizione dell’individuo in una forma, Pirandello offre pure le coordinate con cui spiegare l’aspirazione ad essere diversi da quello che si è e con cui si ritiene che ciò sia possibile modificando l’aspetto esteriore, la propria forma, a svuotare di consistenza ruoli e funzioni. Ecco che Consolo, ne Le vele apparivano a Mozia, ricorda come l’«autista-inserviente-guardiano» del pittore Guttuso7, «dal bel nome greco dalla Spagna poi donato alla Sicilia d’Isidoro8 […] come nella novella di Pirandello Sua Maestà, in un desiderio di mimesi, di immedesimazione, si vestiva alla stessa maniera del padrone: giacca e pantaloni blu, camicia azzurra, pullover rosso, fazzoletto rosso che trabocca dal taschino» (Consolo 2012: 124). Anche l’importanza data ai nomi si pone, del resto, sulla scia di Pirandello, che – è noto – istituisce uno stretto «rapporto» fra «nome – identità dei personaggi» (De Villi2013: 278), «per affinità o per antifrasi» (De Villi 2013: 277). Analogamente Consolo esclama: «il destino dei nomi!» (Consolo 2012: 128)9. E la parola, il nome è spesso segno di predestinazione o di destino. Dei nomi dati agli uomini, voglio dire, e dei destini degli uomini: il destino dei nomi. Ma non sappiamo se è l’uomo sul nascere, già segnato da un destino, che si versa e assesta dentro il suo giusto e appropriato involucro di nome (e cognome) oppure se sono il nome e il cognome che, capitati per caso sulla pelle di un uomo come maglietta e brache, ne incidono le carni, ne determinano cioè il destino (Consolo 2012: 66). Definisce, così, le poesie della poetessa Assunta Della Musa, «fra le più ispirate, le più eccitate, le più squisite e belle tra le poesie d’amore scritte in tutti i tempi e in tutti i luoghi. […] Può una donna di nome Assunta Della Musa, coniugata ad Apollo Barilà, non scrivere poesie, essere della poesia, essere la poesia? Essere Erato, la poesia erotica?» (Consolo 2012: 69). Perciò, non a caso, con chiara allusione al leopardiano Dialogo di Plotino e Porfirio, in cui quest’ultimo è 6 Cfr., su questo argomento, Galvagno 2015: 39-64. 7 È, questi, l’unico pittore a cui Consolo attribuisce, ne L’enorme realtà, «il dono della capacità del racconto, della rappresentazione […] che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia» (Consolo 1999: 271). 8 Con caratteristiche simili, a confermare l’importanza dei nomi, in Lunaria si chiama Isidoro il maestro di cerimonie del Vicerè, attento alle apparenze, «intransigente custode di […] inderogabili forme palatine» (16). 9 In Lunaria, gli abitanti della «selvaggia Contrada senza nome» sono «uomini senza legge, senza lingua, senza storia, anime boschive, […]» (61).
consapevole della «vanità di ogni cosa» (Leopardi 1978: 530), si chiama Porfirio il valletto di Casimiro, il vicerè di Lunaria, che non prende mai la parola, ma è consapevole della «recitazione» (Consolo 1985: 10) del suo signore. Lucia, poi, si chiama – per antifrasi in rapporto all’etimologia del nome –, la sorella di Petro Marano, affetta da disturbi mentali. E il quinto capitolo di Nottetempo, casa per casa, che la mostra, alla fine, pazza, reca, in epigrafe, una battuta di Come tu mi vuoi: «Chiami, chi sa da qual momento lontano… felice…/ della tua vita, a cui sei rimasta sospesa… là…» (Consolo 1992: 59). Erasmo, ancora, con probabile riferimento ad Erasmo da Rotterdam e al suo Elogio della follia – oltre che, a confermare la rilevanza attribuita dal nostro scrittore allo spazio – al piano di sant’Erasmo, nei dintorni di Palermo, si chiama il «vecchietto lindo, bizzarro» (Consolo 1998: 103) de Lo Spasimo di Palermo, a cui è affidato il compito di mettere in evidenza, alla fine del romanzo, l’importanza della letteratura. Costui, infatti, coinvolto nell’attentato al giudice Borsellino, recita, in punto di morte, due versi de La storia di la Baronissa di Carini, ad attestare come, anche se al presente la letteratura non è ascoltata, è da questa, voce della tradizione, della memoria storica, che deve venire la salvezza: O gran mano di Diu, ca tantu pisi, cala, manu di Diu, fatti palisi! (Consolo 1998: 131) E, ancora, Consolo dichiara: «La salvezza è stata solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione» (Consolo 1999: 272). Petro Marano, perciò, si aggrappa «alla parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete», desideroso di «rinominare, ricreare il mondo» (Consolo 1992: 42-43). Egli, poi, alla fine si rifugia a Tunisi, così come anche Lando Laurentano avrebbe voluto imbarcarsi per Malta o per Tunisi (Pirandello 1953: 394). Consolo, quindi, mette in relazione, attraverso la figura di Antonio Crisafi de La pallottola in testa, il disagio, l’estraneità dell’intellettuale nella moderna società, sia quella del «Meridione depresso» (Consolo 2012: 157) sia quella legata all’avvento dei mass media, della televisione, all’isolamento del professor Lamis de L’eresia catara di Pirandello. Ed anche in Un giorno come gli altri, discutendo della funzione dell’intellettuale, Consolo si richiama a Pirandello. A proposito, infatti, della differenza, instaurata da Moravia e Vittorini, fra artista e intellettuale, egli asserisce: A me la distinzione sembra vecchia, mi ricorda l’affermazione di Pirandello: “La vita, o la si scrive o la si vive”. Ché l’alternativa, oltre a valere per tutti, non solo per l’artista, dopo Marx non ha più senso. Oggi siamo tutti intellettuali, siamo tutti politici, […]. Il problema mi sembra che stia nel voler essere o no dentro le “regole”, nel voler essere o no, totalmente, incondizionatamente, dentro un partito, dentro la logica “politica” di un partito. Questo mi sembra il punto, il punto di Vittorini (Consolo 2012: 91-92). Arriva, quindi, alla sua celebre distinzione fra scrivere e narrare: Riprendo a lavorare a un articolo per un rotocalco sul poeta Lucio Piccolo. Mi accorgo che l’articolo mi è diventato racconto, che più che parlare di Piccolo […] in termini razionali, critici, parlo di me, della mia adolescenza in Sicilia, di mio nonno, del mio paese: mi sono lasciato prendere la mano dall’onda piacevole del ricordo, della memoria. […] È […] il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria, […]. Diverso è lo scrivere, […] operazione […] impoetica, estranea alla memoria, che è madre della poesia, come si dice. E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta (Consolo 2012: 92)10. Pirandello simboleggia la Sicilia, insieme a Verga, Meli, Capuana, secondo il mafioso catanese, sottoposto al 41 bis nel carcere di Opera – Milano, dopo aver «fatto un bel po’ di strada negli affari, appalti, commerci vari» (Consolo 2012: 216): Consolo ironizza sulla politica separatista, portata avanti dal Movimento indipendentista siciliano di Finocchiaro Aprile e, di conseguenza, sulla politica della Lega Nord, sottolineando ancora una volta l’importanza della memoria storica. Si pone, ancora, accanto a Pirandello, dichiarando che Il sorriso dell’ignoto marinaio «era d’impianto storico» ma «voleva anche dire metaforicamente del momento che allora si viveva, a Milano e altrove» (Consolo 2012: 119): «(si svolgeva negli anni del Risorgimento e dell’impresa garibaldina: nodo di passaggio storico importante per il Meridione e banco di prova della maggior parte degli scrittori siciliani – Verga, De Roberto, Pirandello, Lampedusa, Sciascia…)» (Consolo 2012: 119)11, accomunati tutti, «da Verga a De Roberto, a Pirandello», da «un costante immobilismo» (Consolo 1999: 169)12, pur nella diversità delle posizioni ideologiche. In particolare, se la rinuncia a rappresentare la rivolta parrebbe accomunare Il sorriso dell’ignoto marinaio a I vecchi e i giovani, le motivazioni dei due scrittori sono differenti. Consolo, consapevole «dei limiti di classe degli intellettuali», nutre «sfiducia nella possibilità, da parte della letteratura, di rendere la visione e il sentire delle classi subalterne senza stravolgimenti mistificatori»; Pirandello, invece, è mosso da un profondo «pessimismo» che lo induce «a svalutare anche gli eventi più tragici ed epocali come frutto di vane illusioni e follie destinate ad essere cancellate dal 10 Nel 1997, richiamandosi alle tesi espresse da Walter Benjamin in Angelus novus, Consolo preciserà: «E c’è, nella narrazione, un’idea pratica di giustezza e di giustizia, un’esigenza di moralità». (Consolo 1999: 144). Per quest’argomento, cfr. Francese 2015. L’influsso di Benjamin su Consolo è stato evidenziato anche da Daragh O’Connell (2008: 161-184), che ricorda la traduzione in italiano de Il narratore di Benjamin effettuata, per Einaudi, da Renato Solmi nel 1962 (162, nota 2). 11 Pure ne Il sorriso, vent’anni dopo, Consolo asserisce che il suo romanzo è nato da una «rilettura della letteratura che investe il Risorgimento, soprattutto siciliana, ch’era sempre critica, antirisorgimentale, che partiva da Verga e, per De Roberto e Pirandello, arrivava allo Sciascia de Il Quarantotto, fino al Lampedusa de Il Gattopardo» (Consolo 1999: 279). 12 Consolo ricorda come i critici di orientamento lukácsiano avessero posto Il Gattopardo accanto a I Vicerè di De Roberto e a I vecchi e i giovani di Pirandello (Consolo 1999: 173). tempo, […]» (Baldi 2014: 254). In entrambi i romanzi, però, il Risorgimento si risolve in una «disillusione del vecchio sogno della terra» (Consolo 2012: 109)13 e nei pensieri di Lando Laurentano si scorge un’eco di quei contrasti di classe che Consolo pone in primo piano14: «Da una parte il costume feudale, l’uso di trattar come bestie i contadini, e l’avarizia e l’usura; dall’altra l’odio inveterato e feroce contro i signori e la sconfidenza assoluta nella giustizia, si paravano come ostacoli insormontabili a ogni tentativo per quella cooperazione» (Pirandello 1953: 392)15. E precedentemente, ascoltando il discorso di Cataldo Sclàfani, considera: «Una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve miglioramento dei magri salarii, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della Toscana e della Lombardia, come quelle accordate da lui nei suoi possedimenti, sarebbero bastati a soddisfare e a quietare quei miseri […]» (Pirandello 1953: 288). Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, del resto, anche la figura di Garibaldi, su cui si concentrano le aspettative dei ‘giovani’ (Roberto Auriti, Mauro Mortara, Corrado Selmi, Rosario Trigona), consente di stabilire delle corrispondenze con Pirandello. Consolo, difatti, sottolinea il favore ottenuto da Garibaldi («[…] vanno dicendo che [Garibaldi] gli dà giustizia e terre.»), ritenuto però, al tempo stesso, un «Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re […] Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge avanzi di galera…» (Consolo 2004: 66). E ribadisce le sue riserve su Garibaldi anche in altri testi. Parlando, nel 1982, della rivolta di Bronte, dell’agosto 1860, Consolo, oltre ad evidenziare la «crudeltà», la «sommarietà di giustizia» (Consolo 2012: 108) di Bixio, afferma riguardo Garibaldi: In questa annata di celebrazione garibaldinesca in chiave post-moderna, in cui tutti gli stili, le citazioni, i repêchages si fanno stile, in cui le pagine chiare e oscure, le glorie e le vergogne, le vittime e gli scheletri, più che nascosti nell’armadio, esibiti si fanno levigato stile eroico, gloriosa epopea da consumo, soffermarsi 13 Scrive Pirandello: «Sì, aveva esposto la verità dei fatti quel deputato siciliano: quei contadini di Sicilia, […] s’erano recati a zappare le terre demaniali usurpate dai maggiorenti del paese, amministratori ladri dei beni patrimoniali del Comune: intimoriti dall’intervento dei soldati, avevano sospeso il lavoro ed erano accorsi a reclamare al Municipio la divisione di quelle terre; […]» (Pirandello 1953: 238). 14 Pensiamo a quest’episodio, che trova corrispondenza nella terza scritta al nono capitolo: «“Ah ah, puzzo di merda, papà, ah ah” sentirono ancora alle spalle che faceva Salvatorino, grasso come ‘na femmina, babbalèo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio, unico erede, presciutto tesoro calasìa, al padre professore Ignazio e al nonno sindaco, il notaio Bàrtolo. / Tanticchia girò la testa sopra il tronco e lo guatò sbieco. / “Garrusello e figlio di garruso alletterato!” disse, e poi sputò per terra, bianco e sodo, tondo come un’onza» (Consolo 2004: 95-96). 15 Lo stesso Consolo ricorda le «Insurrezioni che spesso non sono solo contro i borbonici, ma di contadini e braccianti contro i loro nemici di sempre, i nobili e i borghesi che quasi dappertutto avevano usurpato terre demaniali» (Consolo 2012: 107). 178 su un episodio come quello di Bronte, estrapolarlo dal contesto post-moderno, appunto, può farci apparire fuori moda, arretrati, forse striduli (Consolo 2012: 107) Ma che Consolo consideri in modo non del tutto positivo Garibaldi e il suo influsso è dimostrato, ancora, dai giudizi formulati nell’articolo Il più bel monumento: Questo ironico (speriamo) e autoironico personaggio, nella sua campagna d’Italia, non fece che imitare, nel dire, nel fare e nel posare, il monumento di sé ch’era già idealmente eretto, in uno spassoso scambio tra l’immagine e il reale, in gara di esaltazione e in doppio accrescimento senza fine. Tutti rimasero vittime del giuoco, e ogni città e villa non poté che innalzargli il monumento. […] Ed era questo che Garibaldi in fondo desiderava: volare, volare in un teatrino d’invenzione per dimenticare le colpe e sopire i rimorsi che dentro gli rodevano (Consolo 2012: 70-71). Analogamente, nella novella pirandelliana L’altro figlio, Garibaldi è colui che «fece ribellare a ogni legge degli uomini e di Dio campagne e città» (Pirandello 1955: 242). E Maragrazia prosegue, servendosi di enumerazioni, metafore, esclamazioni, paragoni, puntini di sospensione, per coinvolgere emotivamente il lettore e rendere il suo racconto più persuasivo: […] vossignoria deve sapere che questo Canebardo diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne! I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena… Tra gli altri, ce n’era uno, il più feroce, un certo Cola Camizzi, capo-brigante, che ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come se fossero mosche, per provare la polvere, – diceva – per vedere se la carabina era parata bene. […] Ah, che vidi! […] Giocavano… là, in quel cortile… alle bocce… ma con teste d’uomini… nere, piene di terra… le tenevano acciuffate pei capelli… e una, quella di mio marito… la teneva lui, Cola Camizzi… e me la mostrò. […] cane assassino! (Pirandello 1955: 242-244). Pirandello è per Consolo, ancora, il termine di paragone attraverso cui giudicare i testi della contemporaneità, a metterne in evidenza la vitalità, il carattere paradigmatico. Asserisce così: «La storia di Creatura di sabbia [di Tahar Ben Jelloun] è una delle più felici invenzioni letterarie del romanzo contemporaneo, uguale forse, per la metafora, per la verità profonda che riesce a liberare, a quella de Il fu Mattia Pascal di Pirandello» (Consolo 1999: 232-233). Analogamente, pure vari aspetti della produzione di Sciascia sono spiegati in rapporto a Pirandello. Nella prefazione a Le epigrafi di Leonardo Sciascia di Pino Di Silvestro, Consolo considera quale «più grande epigrafe di tutta l’opera di Sciascia, non scritta ma vistosamente implicita, […] la stanza della tortura pirandelliana declinata sul piano della storia, sul palcoscenico della violenza, della sconfitta» (Consolo 1999: 202). Tre anni più tardi, nel 1999, Consolo, evidenziando la funzione civile sottesa all’opera di Sciascia, gli attribuisce il merito di avere spostato «la dialettica pirandelliana dalla stanza alla piazza, nella civile agorà» (Consolo 1999: 269). Sciascia, allora, in questa sua «conversazione loica e laica sui fatti sociali e politici» si rivela «figlio di Pirandello» (Consolo 1999: 186), al punto tale che il personaggio narrante di Todo modo è «nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani – al punto [dice] che tra le pagine dello scrittore e la vita che avevo vissuto fin oltre la giovinezza, non c’era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti» (Consolo 1999: 187-188). Quest’interesse, questa consonanza di idee con Pirandello, porta Consolo a riunire in Di qua dal faro, con il titolo di Asterischi su Pirandello, alcuni saggi dedicati allo scrittore agrigentino, pubblicati fra il 1986 e il 1997. In Album Pirandello Consolo ribadisce la funzione modellizzante che lo spazio ha esercitato su tutta la famiglia dello scrittore agrigentino: «quell’albero genealogico […] dispiega i suoi rami contro un cielo di luce crudele, affonda le sue radici in quell’asperrimo terreno che è la Sicilia, in quel caos di marne e di zolfi che è Girgenti» (Consolo 1999: 150). E così anche l’eclissi di sole a cui assistette «graverà sul mondo dello scrittore» (Consolo 1999: 150) e si combinerà con «quella […] della città in cui si trovò a vivere, di Girgenti. Una città dove è morta la storia, la civiltà, lasciando il vuoto, il deserto, […] la stasi, l’immobilità» (Consolo 1999: 150-151). Ricordiamo, difatti, che Consolo, ne L’olivo e l’olivastro e ne Lo Spasimo di Palermo, per esempio, individua, nella perdita della memoria storica, la causa della crisi del presente. Scrive così: «si può mai narrare senza la memoria?»; «Non è vero, io non so scrivere di Milano, non ho memoria» (Consolo 2012: 88, 97). Unica soluzione, allora, l’evasione, come quelle di Mattia Pascal o di Enrico IV, oppure rivestire delle forme, difenderle con le armi della dialettica, del sofisma, della retorica. L’operazione di Pirandello sembra perciò trovare dei riscontri nell’età contemporanea, in cui «l’io s’è perso nell’indistinta massa, la vita nelle prigioni sempre più disumane delle forme imposte dal potere, l’essere nell’apparire fantasmatico dei media» (Consolo 1999: 152). E non dimentichiamo che pure Consolo considera negativamente l’omologazione. Gioacchino Martinez, per esempio, sul treno che lo conduce a Palermo, prova piacere «a risentire quei suoni, quelle cadenze meridionali, quelle parlate che non erano più dialetto, ma non ancora la trucida nuova lingua nazionale» (Consolo 1998: 94-95) annunciata da Pasolini. Il viaggiatore de L’olivo e l’olivastro, poi, giudica «vacui» i giovani che, «con l’orecchino al lobo, i lunghi capelli legati sulla nuca» (Consolo 1994: 112), affollano la piazza di Avola. Altri legami fra Pirandello e Consolo ne L’ulivo e la giara. Gli stucchi di Giacomo Serpotta, che lo scrittore agrigentino ebbe modo, molto probabilmente, di osservare nella chiesa di Santo Spirito, con il loro carattere «mortuario […] fantasmatico» che «ha colto il pittore Fabrizio Clerici nella sua Confessione palermitana» (Consolo 1999: 156), hanno influenzato pure Consolo, il quale, in Retablo, chiama Fabrizio Clerici il protagonista e descrive le sculture in stucco dell’oratorio di via Immacolatella di Procopio Serpotta, figlio di Giacomo. «La bianca, spettrale fantasmagoria serpottiana» (Consolo 1999: 156), inoltre, richiama la «servetta Fantasia» attraverso cui i vari personaggi delle opere letterarie si materializzano, così come Macchia per Pirandello e Carandente per Serpotta parlano del «cannocchiale rovesciato» (Consolo 1999: 157). Analogamente, la superiorità di Cefalù su Palermo, sostenuta da Consolo varie volte16, è colta anche da Pirandello. Consolo immagina che questi, in viaggio da Palermo a Sant’Agata, in preda alla profonda suggestione «che gli suscitavano i nomi dei paesi: Solunto, Himera, Cefalù, Halaesa, Calacte…», si accorge che, «dopo Cefalù, il mondo colorato, vociante e brulicante del Palermitano andava a poco a poco stemperandosi [per] a prendere gradualmente una misura più dimessa, ma forse più serena» (Consolo 1999: 157-158). Pirandello, a confermare l’importanza dei luoghi, ebbe sicuramente presente, secondo Consolo, «il ricordo di quel suo lontano viaggio nel Val Dèmone» (Consolo 1999: 161) nello scrivere La giara, «la prima fuga nella memoria e nel ricordo, fuga dalla sua vita e dai fantasmi “pirandelliani” che lo assediavano» (Consolo 1999: 160). La novella, perciò, giudicata di recente una «divertita denuncia dell’intrinseca capziosità sia delle vicende che delle soluzioni giuridiche, calata in pieghe di umoristica densità» (Zappulla Muscarà 2007: 143), acquista nuovo significato nell’interpretazione di Consolo. La giara è per lui, infatti, a richiamare la sua tipica figura chiave della chiocciola, della spirale, sia «l’involucro della nascita, l’utero» sia «la tomba», mentre «quell’olio che la giara avrebbe dovuto contenere viene sì dall’ulivo saraceno, ma viene anche dall’albero sacro ad Atena, dea della sapienza» (Consolo 1999: 161-162), a ricordare la commistione delle due culture, araba e greca, della Sicilia. Consolo può allora vedere nel pino di Pirandello, tranciato, un simbolo degli «scadimenti, delle perdite, reali e simboliche, nel nostro Paese» (Consolo 1999: 163), a confermare la «visione del mondo, della vita come caos, mutamento incessante di forme, […] approdo all’assenza, al nulla» (Consolo 1999: 165). Anche in ciò Consolo si trova in consonanza con Sciascia17, che commenta, alla fine di Fuoco dell’anima: «Questa è la classe dirigente – per meglio dire digerente – che preferisce fare il pino di plastica piuttosto che salvare quello vero. Ed è così per tante, tante altre cose…» (Consolo 1999: 164). Con tutto questo, Consolo mostra l’importanza della ricezione dei testi letterari, avvicinandosi al lector in fabula descritto da Eco (1979). 16 Mi sia consentito, per questo, un rimando a Gallo 2017: 287-296. 17 Gianni Turchetta sottolinea, a proposito del termine ‘impostura’ de Il sorriso dell’ignoto marinaio, i legami di Consolo con Sciascia (2015: 1304-1305). Ne Lo Spasimo di Palermo, inoltre, Gioacchino Martinez legge, ne La corda pazza, la vita di Antonio Veneziano (115) e il narratore ricorda il «rifugio in Solferino dove Sciascia patì la malattia, sua del corpo e insieme quella mortale del Paese» (93-94). Vincenzo Consolo lettore di Pirandello 181
Bibliografia
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La mutazione antropologica tra sud e nord: i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati
DANIEL RAFFINI
Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Tra gli scrittori che si interessarono al fenomeno, cercando di trasferirne gli effetti nelle loro narrazioni e ragionando su di esso a livello teorico, si analizzano qui i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati. Il primo descrive nei suoi racconti la fine del mondo contadino siciliano, il dramma della dissoluzione di un sapere millenario e la resistenza strenua ma inutile di alcuni personaggi reali che entrano nelle narrazioni. La mutazione antropologica sfocia in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, la Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio e nei suoi racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio e viene riportata dallo scrittore sulla pagina attraverso una scrittura scarna frutto di un’attenta osservazione. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Pasolini se ne occupa in una serie di articoli usciti tra il 1973 e il 1974 su varie testate, dando vita a un dibattito che vede l’intervento di molti scrittori e intellettuali italiani, tra cui Alberto Moravia, Edoardo Sanguineti, Italo Calvino, Maurizio Ferrara, Tullio De Mauro, Franco Fortini e Leonardo Sciascia. In particolare, Pasolini viene accusato di rinnegare lo sviluppo e di ripetere concetti già formulati. Lo scrittore riprende in effetti discorsi sulla società contemporanea già formulati da Marcuse, Horkheimer e Adorno, quando parlavano ad esempio di uomo a una dimensione e di tolleranza repressiva. Tuttavia, specifica Berardinelli nell’introduzione agli Scritti Corsari che «solo ora quei processi di cui aveva parlato la sociologia critica in Germania, in Francia e negli Stati Uniti, arrivano a compimento in Italia, con una violenza concentrata e improvvisa»1. Gli articoli di Pasolini ci restituiscono l’idea della società contemporanea come di sistema repressivo teso all’omologazione culturale, in cui una nuova classe media formata culturalmente su modelli esterni imposti dal potere viene a sostituire le vecchie categorie oppositive di fascismo e antifascismo. Scrive ancora Berardinelli che «per Pasolini i concetti sociologici e politici diventavano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo»2. La mitizzazione dei processi sociologici rende possibile la trasfigurazione letteraria di questo mondo che va scomparendo in un gruppo di poesie italo-friulane tarde, pubblicate da Pasolini in quegli anni e poi entrate nella sezione Tetro entusiasmo della raccolta La Nuova Gioventù. Nell’articolo Acculturazione e acculturazione, uscito per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 9 dicembre 1973 con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione, Pasolini si scaglia contro la centralizzazione come livellazione delle differenze: Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana? Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. […] Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.3 La religione del consumo avrebbe preso il posto della religione vera e propria in qualità di oppio dei popoli di marxista memoria. Da qui parte Pasolini nel suo Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, dalla costatazione – in seguito alla vittoria del no nel referendum sull’abolizione del divorzio – che la società italiana è più evoluta in fatto di laicismo rispetto a quanto credessero il Vaticano e il PCI. Pasolini ne deduce un cambiamento del ceto medio, non più legato ai valori cristiani ma all’ideologia del consumo e ne trae la conclusione «che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione»4. Pasolini registra insomma un cambiamento profondo nella società italiana a seguito del boom economico: Si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della «cultura di massa». La cosa in realtà è enorme: è un fenomeno, insito, di «mutazione» antropologica.5 La mutazione antropologica implica da una parte il miglioramento delle effettive condizioni di vita delle persone, dall’altra determina però la fine delle culture popolari italiane in favore di un’unica cultura centralizzata fondata su un modello esterno di origine statunitense. D’altra parte Pasolini ha una visione fortemente ideologizzata e negativa della civiltà dei consumi, che definisce come il «più repressivo totalitarismo che si sia mai visto»6 e alla quale sente la necessita di opporre una battaglia politica prima ancora che culturale fondata sui principi di una rivoluzione proletaria e contadina. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pasolini sarà ripreso da scrittori del decennio successivo. Tra di essi un punto di vista privilegiato è quello del siciliano Vincenzo Consolo. Privilegiato perché è quello di uno scrittore attento ai contrasti insiti e ai cambiamenti storici della sua terra, la Sicilia. In Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino Pasolini parlava di un «illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa»7, per il quale gli stati preunitari, l’Italia unita, l’Italia fascista e l’Italia democratica hanno rappresentato senza soluzione di continuità la nazione estranea, l’altro e l’oppressore. Consolo, dal canto suo, tornerà a parlare di quel mondo contadino in termini mitici, come «di tempi andati, di tempi d’oro, tempi che sono durati fino all’altro ieri»8, e descriverà le rivolte dei siciliani di fronte al potere La raccolta postuma La mia isola è Las Vegas raccoglie testi brevi pubblicati nel corso degli anni da Consolo su vari giornali e fondamentali per capire l’evoluzione del pensiero dello scrittore così come la genesi 3 borbonico, all’unificazione, al Fascismo e all’Italia dopoguerra, per arrivare alla fine di quel mondo che pure aveva fatto in tempo a conoscere da bambino e che aveva descritto in alcuni racconti degli anni Cinquanta e Sessanta9. In due racconti tardi, pubblicati per la prima volta nel 2007 e nel 2008 e poi inclusi nella raccolta La mia isola è Las Vegas, Consolo cita direttamente il concetto pasoliniano di mutazione antropologica. In Alésia al tempo de Li Causi, parlando degli anni in cui studiava a Milano, l’autore scrive: Erano quelli gli anni della fine del mondo contadino e della rapida trasformazione dell’Italia in Paese neo-industriale, del miracolo economico e della mutazione antropologica; gli anni, quelli dell’espulsione dal Paese di milioni e milioni di lavoratori in cerca d’un futuro, d’un destino migliore. 10 Mentre nel racconto E Ciro vide Anna Magnani, riferendosi agli stessi anni, scrive: Era quello il momento della fine del mondo contadino, del fallimento della riforma agraria in Sicilia, della vittoria dei feudatari, eterni Gattopardi, e dei loro sovrastanti o gabelloti mafiosi. Era il momento quello che Pasolini poi chiamò della “mutazione antropologica” di questo nostro Paese.11 L’attenzione dello scrittore al tema della mutazione risale almeno agli anni Ottanta ed è legata all’osservazione del fenomeno dell’emigrazione di massa dei siciliani verso il nord Italia, dovuta all’irruzione delle nuove tecniche di produzione che mettono fine a tradizioni che in Sicilia, oltre ad essere millenarie, rivestivano un forte ruolo identitario, come quella della coltivazione degli aranci o della pesca del tonno12. In un racconto del 1985 dedicato al tema dell’emigrazione a Milano, Consolo parlerà del sud come di una terra «dove la storia si è conclusa»13. La mutazione antropologica rappresenta nella narrativa consoliana una cesura netta e su di essa lo scrittore fonda la funzione etica della propria scrittura. Se il mondo globalizzato digerisce nel suo ventre le culture particolari, se la cultura del centro progressivamente sostituisce le culture periferiche, il compito della letteratura è quello di narrare ciò che non c’è più. In questo senso fortemente significativi sono alcuni personaggi della sezione Persone della raccolta del 1989 Le Pietre di Pantalica, attraverso i quali Consolo prova a raccontare il momento di passaggio, l’attimo della fine, attraverso le figure di chi tentò di opporvisi. Antonino Uccello, poeta-etnologo amico di Consolo, cerca di salvare le vestigia di ciò che sta finendo, raccogliendo gli strumenti e le testimonianze del mondo contadino; oggetti che trova abbandonati, relitti della storia, il cui unico destino è quello di essere musealizzati. In un’intervista Consolo accosterà il proprio compito a quello dell’amico: di alcune delle sue opere. 4 Il poeta-etnologo de La casa di Icaro, credo che sia il personaggio più importante, la figura-simbolo di tutto il libro. È stato uno, Uccello, che, come un pietoso raccoglitore di detriti dopo la risacca, ha cercato di salvare, nel momento in cui essi sparivano, i resti, le testimonianze del mondo contadino. E non è questo in fondo il dovere e il destino di ogni scrittore della mia età e della mia estrazione, che si è trovato a cavallo della grande trasformazione, tra un mondo che spariva e un mondo che iniziava? Non è questo il compito e il destino sempre, in ogni epoca, di uno scrittore: raccogliere e custodire memorie, reliquie di un mondo che continuamente frana, sparisce?14 Ad un’altra Sicilia che va scomparendo, quella magica e barocca, sognante e mitologica, rimanda invece la figura del barone Lucio Piccolo, poeta fuori dalle mode e fuori dal tempo, simbolo di un’erudizione che ci ricorda quella di Mandralisca de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Piccolo fu amico e mentore di Consolo, che in queste pagine racconta il loro primo incontro, gli insegnamenti, le visite nella casa di Capo d’Orlando. Come Uccello, Piccolo è emblema di un mondo che non esiste più, tanto che nel momento della sua scomparsa il dolore che Consolo prova non è solo per la perdita dell’amico e maestro, ma anche «per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano»15. Andando ancora indietro, Consolo risale ai tempi in cui quel mondo esisteva, con i suoi riti e le sue usanze, con la sua cultura, quella cultura popolare rivendicata come tale da Pasolini, contro tutti quegli intellettuali che la relegavano agli strati prerazionali. Consolo ci racconta le lotte di quel mondo, le rivolte e le battaglie per la sua sopravvivenza, in molti racconti de Le Pietre di Pantalica e in alcuni di quelli poi confluiti ne La mia isola è Las Vegas, così come nei romanzi, basti pensare alle rivolte di Alcara Li Fusi narrate ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Come afferma Flora Di Legami la scrittura di Consolo viaggia nel passato storico per isolarne travagli umani e sociali da depositare poi sulla pagina. E questa si dispone come archivio memoriale di un mondo, quello popolare (con i suoi tipi e le sue tradizioni), che non esiste più, e che non si conoscerebbe se non ci fosse un aedo delle microstorie o dell’antistoria pronto ad assumere su di sé il compito di narrare quanto è andato disperso.16 Anche per quanto riguarda il discorso sull’evoluzione linguaggio nell’epoca della mutazione antropologica Consolo sembra essere in linea con quanto Pasolini diceva in Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino: Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva.17 Il discorso di Consolo sulla lingua è più profondo di quello di Pasolini, non si limita solo a un recupero linguistico di tipo dialettale, ma allarga la propria ricerca e l’operazione di salvataggio anche al piano diacronico e ai diversi livelli d’uso della lingua, restituendo sulla pagina una grande dose di ricchezza e invenzione verbale, contro l’appiattimento del linguaggio letterario su quello dei media. 5 La mutazione antropologica sfocia dunque in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino e le difficoltà della nascita di una nuova società. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, nella Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio di Verso la foce e nei racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio determinando una descrizione in cui la parola stessa diventa scarna ed essenziale e il paesaggio postindustriale ci mostra quanto la nuova società derivata dalla mutazione abbia in realtà un carattere effimero e transitorio. A differenza dello sguardo politicizzato di Pasolini e di quello partecipe di Consolo, Celati si pone dal punto di vista dell’osservatore anonimo, lasciando la centralità dell’evocazione all’immagine nuda. Una tecnica che gli viene dalla frequentazione, nei primi anni Ottanta, di quei fotografi raggruppati intorno alla figura Luigi Ghirri, i quali si proponevano di registrare attraverso il loro lavoro la mutazione del paesaggio italiano. Nell’introduzione a Verso la foce Celati definisce questi diari di viaggio come «racconti d’osservazione»18 e specifica meglio il tipo di osservazione necessaria e lo scopo che intende perseguire: Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non si capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita.19 L’osservazione di Celati non ha dunque un fine consolatorio, parte dallo straniamento e arriva allo spaesamento, ma solo così lo scrittore sente di poter rendere il senso ultimo di quel «deserto di solitudine»20 che si trova ad attraversare durante le sue peregrinazioni. Celati descrive il paesaggio padano svuotato della sua storicità in seguito a una mutazione di cui rimangono solo ruderi. Anche qui, come nella Sicilia descritta da Consolo, permangono relitti di una storia che non c’è più, che entrano in contrasto con le superfetazioni della modernità. L’esempio più evidente sono forse le corti, fattorie tipiche di queste zone, ora abbandonate: Ho sbirciato in un paio di quei cortili, c’erano strumenti agricoli abbandonati e paglia per terra. Gli abitanti delle corti sono andati tutti a vivere in quelle vilette geometrili sparse nelle campagne, e il bestiame è stato traslocato in grandi capannoni industriali.21 Di fronte alla piattezza e all’omologazione delle costruzioni moderne, le corti presentano una grande varietà di soluzioni architettoniche, che cambia da una provincia all’altra. I segni dell’antica bellezza non sono solo nelle corti, ma si possono ravvisare anche in alcuni centri storici, come in quello di Casalmaggiore Vedo strade girovaganti, portici e palazzi scrostati, finché non si arriva nelle stradine dietro il palazzo municipale, e da lì nella piazza centrale. […] Dalla piazza, ripassando per stradine un po’ in salita dietro il municipio, si arriva all’argine del Po. Accanto a una vecchia porta della città, la fila irregolare di palazzi sette-ottocenteschi, ognuno con facciata e forma e altezza 6 diverse, movimenti di linee senza mai forti squadrature, segue l’andamento sinuoso dell’argine e del fiume che si allarga in prospettiva.22 La differenza tra antico e moderno è dunque per Celati prima di tutto una questione di linee e di forme. A Codigoro lo scrittore osserva le case dalle facciate veneziane e le villette in stile liberty disposte lungo il canale, elementi che «formano davvero un luogo» e mostrano che qui «il tempo è diventato forma dello spazio, un aspetto è cresciuto a poco a poco sull’altro, come le rughe sulla nostra pelle»23. A ciò si oppone la fine del tempo, fine della storia e le forme geometrizzanti rappresentate dagli elementi della modernità, che minacciano i luoghi antichi: le industrie, che finiscono per costituire delle nuove città; i centri commerciali, che nel giro di pochi anni stravolgono il paesaggio; le strutture turistiche, presenti persino nelle zone più solitarie della foce del fiume; i cartelloni pubblicitari, che ostruiscono la visuale sostituendosi al paesaggio; infine, le nuove tipologie abitative dell’omologazione, le villette a schiera. La mutazione antropologica descritta da Celati non interessa solo il paesaggio, ma lo scrittore si sofferma anche sulle modalità di vita. L’alienazione dei luoghi rispecchia quelle delle persone. I nuovi non-luoghi creati dalla società di consumo, che di lì a qualche anno saranno teorizzati da Marc Augé, sono occupati da delle non-persone, svuotate anch’esse di storicità e private della diversità in favore dell’omologazione imposta24. In Acculturazione e acculturazione Pasolini si chiedeva se le persone sarebbero davvero riuscite a realizzare il modello imposto dalla cultura di massa e si rispondeva: No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi.25 In questo senso va anche l’osservazione compiuta da Gianni Celati sui luoghi dell’abitare che la mutazione antropologica impone agli abitanti della pianura, le villette a schiera che ricorrono come leitmotiv di queste pagine. Celati riprende le teorie dell’abitare espresse da Bachelard negli degli anni Cinquanta, adattandole al nuovo contesto depersonalizzato successivo alla mutazione antropologica. Le villette diventano allora simbolo stesso dell’alienazione postindustriale dei luoghi descritti, simbolo di un tentativo falso e illusorio di nascondersi della «vita piena di pena»26 e di non vedere «l’orizzonte pesantissimo pieno di camion e maiali»27: Quelle case non hanno volto, hanno solo aperture di sicurezza e superfici protettive dietro cui si va a nascondere. Si esce a vedere se in giro è tutto normale, poi si torna a nascondersi nelle tane.28 Se i luoghi precedentemente descritti da Celati mostrano una stratificazione del tempo e delle epoche, qui il tempo risulta sospeso, nelle villette le persone si autoesiliano involontariamente dal7 proprio tempo. Nel 1957 Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio descriveva la casa come il luogo dove le persone si rifugiano a seguito dell’aumento di importanza della vita pubblica determinato dal progresso economico e tecnologico29. Se in Bachelard il senso di protezione evocato dalla casa ha ancora un valore positivo, Celati ci presenta trent’anni dopo i risultati di quel processo e ripropone in chiave negativa la visione della casa come rifugio. La mutazione antropologica cambia insomma i luoghi e le persone che li abitano. Raccontare la mutazione antropologica significa per gli scrittori raccontare la realtà in un momento in cui il realismo sembra essere una via non più percorribile. Ciò rende necessaria una riflessione e un lavoro da parte degli scrittori sulle forme e sui generi. Se Pasolini sceglie la via di una poesia per metà dialettale e per metà italiana per trasfigurare in forma artistica ciò che andava scrivendo nei suoi saggi, Consolo opta invece da una parte sulla rifondazione del romanzo storico su basi antiromanzesche e dall’altra sull’inserimento dell’elemento autobiografico all’interno delle strutture finzionali del racconto. Celati, infine, sceglie il diario di viaggio, un diario di viaggio denso di narratività e riflessioni, che fungono da punto di partenza per i racconti veri e propri di Narratori delle pianure e per le Quattro novelle sulle apparenze. Si nota insomma come la mutazione antropologica sia stata un motore, forse primo, che spinse gli scrittori a un ripensamento delle forme, quel ripensamento che culminerà nei nuovi realismi e nella fioritura della nonfiction a partire dagli anni Novanta, ma che affonda le basi sui grandi cambiamenti antropologici e sociologici che hanno interessato il mondo e l’Italia nella seconda metà del Novecento.
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1 A. BERARDINELLI, Premessa, in P.P. PASOLINI, Scritti Corsari, Milano, Garzanti, 2000, p. X. 2 Ivi, VIII.
3 PASOLINI, Acculturazione e acculturazione, in ID., Scritti corsari…, 22-23. 4 PASOLINI, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari…, 40. L’articolo era uscito per la prima
volta sul «Corriere della Sera» il 10 giugno 1974 col titolo Gli italiani non sono più quelli. 5 Ivi, 41. 6 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Scritti corsari, 53-54. L’articolo viene pubblicato l’8 luglio 1974 su «Paese sera» come lettera aperta in risposta a Italo Calvino.
7 Ivi, 53. 8 V. CONSOLO, Arancio, sogno e nostalgia, in ID., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano, Mondadori, 2012, 133. Il racconto è pubblicato per la prima volta su «Sicilia Magazine» nel dicembre del 1988. Cfr. D. RAFFINI, La mia isola è Las Vegas: laboratorio e testamento letterario, in A.
Frabetti e L. Toppan (a cura di), Studi per Vincenzo Consolo. Come lo scrivere può forse cambiare il mondo,
«Recherches», n. 21, automne 2018, 129-142. 9 Si fa riferimento in particolare ai racconti Un sacco di magnolie, Befana di novembre, Grandine come neve e Triangolo e
luna, riproposti anch’essi nella raccolta La mia isola è Las Vegas. 10 CONSOLO, Alèsia al tempo di Li Causi, in ID., La mia isola…, 226. 11 ID., E Ciro vide Anna Magnani, in ID., La mia isola…, 229. 12 Alla coltivazione degli aranci Consolo dedica il già citato racconto Arancio, sogno e nostalgia; mentre sul tema
delle tonnare è il saggio La pesca del tonno pubblicato nella raccolta Di qua dal faro. 13 CONSOLO, Porta Venezia, in ID., La mia isola…, 113. 14 CONSOLO, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015, 1388. 15 ID., Piccolo grande Gattopardo, in ID., La mia isola…, 214. 16 F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, 10. 17 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in ID., Scritti corsari…, 54. 18 G. CELATI, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 2011, 9. 19 Ivi, 10. 20 Ivi, 9. 21 Ivi, 32. 22 Ivi, 38-39. 23 Ivi, 95. 24 Secondo la definizione di Augé: «Se un luogo può definirci some identitario, relazionale, storico, uno spazio
che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo» (M. AUGÉ, Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993, 73). 25 PASOLINI, Acculturazione…, 23. 26 CELATI, Verso la foce…, 35. 27 Ivi, 31. 28 Ivi, 94. 29 Cfr. G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, 31-45
Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso
dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018),
a cura di A. Campana e F. Giunta,
Roma, Adi editore, 2020