La mutazione antropologica tra sud e nord: i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati

DANIEL RAFFINI
Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Tra gli scrittori che si interessarono al fenomeno, cercando di trasferirne gli effetti nelle loro narrazioni e ragionando su di esso a livello teorico, si analizzano qui i casi di Vincenzo Consolo e Gianni Celati. Il primo descrive nei suoi racconti la fine del mondo contadino siciliano, il dramma della dissoluzione di un sapere millenario e la resistenza strenua ma inutile di alcuni personaggi reali che entrano nelle narrazioni. La mutazione antropologica sfocia in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, la Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio e nei suoi racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio e viene riportata dallo scrittore sulla pagina attraverso una scrittura scarna frutto di un’attenta osservazione. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pier Paolo Pasolini descrive il cambiamento della società italiana nel passaggio dal mondo contadino a quello industriale. Pasolini se ne occupa in una serie di articoli usciti tra il 1973 e il 1974 su varie testate, dando vita a un dibattito che vede l’intervento di molti scrittori e intellettuali italiani, tra cui Alberto Moravia, Edoardo Sanguineti, Italo Calvino, Maurizio Ferrara, Tullio De Mauro, Franco Fortini e Leonardo Sciascia. In particolare, Pasolini viene accusato di rinnegare lo sviluppo e di ripetere concetti già formulati. Lo scrittore riprende in effetti discorsi sulla società contemporanea già formulati da Marcuse, Horkheimer e Adorno, quando parlavano ad esempio di uomo a una dimensione e di tolleranza repressiva. Tuttavia, specifica Berardinelli nell’introduzione agli Scritti Corsari che «solo ora quei processi di cui aveva parlato la sociologia critica in Germania, in Francia e negli Stati Uniti, arrivano a compimento in Italia, con una violenza concentrata e improvvisa»1. Gli articoli di Pasolini ci restituiscono l’idea della società contemporanea come di sistema repressivo teso all’omologazione culturale, in cui una nuova classe media formata culturalmente su modelli esterni imposti dal potere viene a sostituire le vecchie categorie oppositive di fascismo e antifascismo. Scrive ancora Berardinelli che «per Pasolini i concetti sociologici e politici diventavano evidenze fisiche, miti e storie della fine del mondo»2. La mitizzazione dei processi sociologici rende possibile la trasfigurazione letteraria di questo mondo che va scomparendo in un gruppo di poesie italo-friulane tarde, pubblicate da Pasolini in quegli anni e poi entrate nella sezione Tetro entusiasmo della raccolta La Nuova Gioventù. Nell’articolo Acculturazione e acculturazione, uscito per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 9 dicembre 1973 con il titolo Sfida ai dirigenti della televisione, Pasolini si scaglia contro la centralizzazione come livellazione delle differenze: Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana? Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. […] Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo.3 La religione del consumo avrebbe preso il posto della religione vera e propria in qualità di oppio dei popoli di marxista memoria. Da qui parte Pasolini nel suo Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, dalla costatazione – in seguito alla vittoria del no nel referendum sull’abolizione del divorzio – che la società italiana è più evoluta in fatto di laicismo rispetto a quanto credessero il Vaticano e il PCI. Pasolini ne deduce un cambiamento del ceto medio, non più legato ai valori cristiani ma all’ideologia del consumo e ne trae la conclusione «che l’Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c’è più, e al suo posto c’è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione»4. Pasolini registra insomma un cambiamento profondo nella società italiana a seguito del boom economico: Si tratta infatti del passaggio di una cultura, fatta di analfabetismo (il popolo) e di umanesimo cencioso (i ceti medi) da un’organizzazione culturale arcaica, all’organizzazione moderna della «cultura di massa». La cosa in realtà è enorme: è un fenomeno, insito, di «mutazione» antropologica.5 La mutazione antropologica implica da una parte il miglioramento delle effettive condizioni di vita delle persone, dall’altra determina però la fine delle culture popolari italiane in favore di un’unica cultura centralizzata fondata su un modello esterno di origine statunitense. D’altra parte Pasolini ha una visione fortemente ideologizzata e negativa della civiltà dei consumi, che definisce come il «più repressivo totalitarismo che si sia mai visto»6 e alla quale sente la necessita di opporre una battaglia politica prima ancora che culturale fondata sui principi di una rivoluzione proletaria e contadina. Il concetto di mutazione antropologica coniato da Pasolini sarà ripreso da scrittori del decennio successivo. Tra di essi un punto di vista privilegiato è quello del siciliano Vincenzo Consolo. Privilegiato perché è quello di uno scrittore attento ai contrasti insiti e ai cambiamenti storici della sua terra, la Sicilia. In Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino Pasolini parlava di un «illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa»7, per il quale gli stati preunitari, l’Italia unita, l’Italia fascista e l’Italia democratica hanno rappresentato senza soluzione di continuità la nazione estranea, l’altro e l’oppressore. Consolo, dal canto suo, tornerà a parlare di quel mondo contadino in termini mitici, come «di tempi andati, di tempi d’oro, tempi che sono durati fino all’altro ieri»8, e descriverà le rivolte dei siciliani di fronte al potere La raccolta postuma La mia isola è Las Vegas raccoglie testi brevi pubblicati nel corso degli anni da Consolo su vari giornali e fondamentali per capire l’evoluzione del pensiero dello scrittore così come la genesi 3 borbonico, all’unificazione, al Fascismo e all’Italia dopoguerra, per arrivare alla fine di quel mondo che pure aveva fatto in tempo a conoscere da bambino e che aveva descritto in alcuni racconti degli anni Cinquanta e Sessanta9. In due racconti tardi, pubblicati per la prima volta nel 2007 e nel 2008 e poi inclusi nella raccolta La mia isola è Las Vegas, Consolo cita direttamente il concetto pasoliniano di mutazione antropologica. In Alésia al tempo de Li Causi, parlando degli anni in cui studiava a Milano, l’autore scrive: Erano quelli gli anni della fine del mondo contadino e della rapida trasformazione dell’Italia in Paese neo-industriale, del miracolo economico e della mutazione antropologica; gli anni, quelli dell’espulsione dal Paese di milioni e milioni di lavoratori in cerca d’un futuro, d’un destino migliore. 10 Mentre nel racconto E Ciro vide Anna Magnani, riferendosi agli stessi anni, scrive: Era quello il momento della fine del mondo contadino, del fallimento della riforma agraria in Sicilia, della vittoria dei feudatari, eterni Gattopardi, e dei loro sovrastanti o gabelloti mafiosi. Era il momento quello che Pasolini poi chiamò della “mutazione antropologica” di questo nostro Paese.11 L’attenzione dello scrittore al tema della mutazione risale almeno agli anni Ottanta ed è legata all’osservazione del fenomeno dell’emigrazione di massa dei siciliani verso il nord Italia, dovuta all’irruzione delle nuove tecniche di produzione che mettono fine a tradizioni che in Sicilia, oltre ad essere millenarie, rivestivano un forte ruolo identitario, come quella della coltivazione degli aranci o della pesca del tonno12. In un racconto del 1985 dedicato al tema dell’emigrazione a Milano, Consolo parlerà del sud come di una terra «dove la storia si è conclusa»13. La mutazione antropologica rappresenta nella narrativa consoliana una cesura netta e su di essa lo scrittore fonda la funzione etica della propria scrittura. Se il mondo globalizzato digerisce nel suo ventre le culture particolari, se la cultura del centro progressivamente sostituisce le culture periferiche, il compito della letteratura è quello di narrare ciò che non c’è più. In questo senso fortemente significativi sono alcuni personaggi della sezione Persone della raccolta del 1989 Le Pietre di Pantalica, attraverso i quali Consolo prova a raccontare il momento di passaggio, l’attimo della fine, attraverso le figure di chi tentò di opporvisi. Antonino Uccello, poeta-etnologo amico di Consolo, cerca di salvare le vestigia di ciò che sta finendo, raccogliendo gli strumenti e le testimonianze del mondo contadino; oggetti che trova abbandonati, relitti della storia, il cui unico destino è quello di essere musealizzati. In un’intervista Consolo accosterà il proprio compito a quello dell’amico: di alcune delle sue opere. 4 Il poeta-etnologo de La casa di Icaro, credo che sia il personaggio più importante, la figura-simbolo di tutto il libro. È stato uno, Uccello, che, come un pietoso raccoglitore di detriti dopo la risacca, ha cercato di salvare, nel momento in cui essi sparivano, i resti, le testimonianze del mondo contadino. E non è questo in fondo il dovere e il destino di ogni scrittore della mia età e della mia estrazione, che si è trovato a cavallo della grande trasformazione, tra un mondo che spariva e un mondo che iniziava? Non è questo il compito e il destino sempre, in ogni epoca, di uno scrittore: raccogliere e custodire memorie, reliquie di un mondo che continuamente frana, sparisce?14 Ad un’altra Sicilia che va scomparendo, quella magica e barocca, sognante e mitologica, rimanda invece la figura del barone Lucio Piccolo, poeta fuori dalle mode e fuori dal tempo, simbolo di un’erudizione che ci ricorda quella di Mandralisca de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Piccolo fu amico e mentore di Consolo, che in queste pagine racconta il loro primo incontro, gli insegnamenti, le visite nella casa di Capo d’Orlando. Come Uccello, Piccolo è emblema di un mondo che non esiste più, tanto che nel momento della sua scomparsa il dolore che Consolo prova non è solo per la perdita dell’amico e maestro, ma anche «per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano»15. Andando ancora indietro, Consolo risale ai tempi in cui quel mondo esisteva, con i suoi riti e le sue usanze, con la sua cultura, quella cultura popolare rivendicata come tale da Pasolini, contro tutti quegli intellettuali che la relegavano agli strati prerazionali. Consolo ci racconta le lotte di quel mondo, le rivolte e le battaglie per la sua sopravvivenza, in molti racconti de Le Pietre di Pantalica e in alcuni di quelli poi confluiti ne La mia isola è Las Vegas, così come nei romanzi, basti pensare alle rivolte di Alcara Li Fusi narrate ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Come afferma Flora Di Legami la scrittura di Consolo viaggia nel passato storico per isolarne travagli umani e sociali da depositare poi sulla pagina. E questa si dispone come archivio memoriale di un mondo, quello popolare (con i suoi tipi e le sue tradizioni), che non esiste più, e che non si conoscerebbe se non ci fosse un aedo delle microstorie o dell’antistoria pronto ad assumere su di sé il compito di narrare quanto è andato disperso.16 Anche per quanto riguarda il discorso sull’evoluzione linguaggio nell’epoca della mutazione antropologica Consolo sembra essere in linea con quanto Pasolini diceva in Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino: Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli sono costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva.17 Il discorso di Consolo sulla lingua è più profondo di quello di Pasolini, non si limita solo a un recupero linguistico di tipo dialettale, ma allarga la propria ricerca e l’operazione di salvataggio anche al piano diacronico e ai diversi livelli d’uso della lingua, restituendo sulla pagina una grande dose di ricchezza e invenzione verbale, contro l’appiattimento del linguaggio letterario su quello dei media. 5 La mutazione antropologica sfocia dunque in Sicilia nell’emigrazione di massa, che riflette il vuoto successivo alla fine del mondo contadino e le difficoltà della nascita di una nuova società. Lo stesso senso di vuoto è percepibile anche dove quella società riesce a prendere piede, nella Pianura Padana descritta da Gianni Celati nei suoi resoconti di viaggio di Verso la foce e nei racconti degli anni Ottanta. In questo caso lo svuotamento si riflette sulle persone e sul paesaggio determinando una descrizione in cui la parola stessa diventa scarna ed essenziale e il paesaggio postindustriale ci mostra quanto la nuova società derivata dalla mutazione abbia in realtà un carattere effimero e transitorio. A differenza dello sguardo politicizzato di Pasolini e di quello partecipe di Consolo, Celati si pone dal punto di vista dell’osservatore anonimo, lasciando la centralità dell’evocazione all’immagine nuda. Una tecnica che gli viene dalla frequentazione, nei primi anni Ottanta, di quei fotografi raggruppati intorno alla figura Luigi Ghirri, i quali si proponevano di registrare attraverso il loro lavoro la mutazione del paesaggio italiano. Nell’introduzione a Verso la foce Celati definisce questi diari di viaggio come «racconti d’osservazione»18 e specifica meglio il tipo di osservazione necessaria e lo scopo che intende perseguire: Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dai codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non si capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita.19 L’osservazione di Celati non ha dunque un fine consolatorio, parte dallo straniamento e arriva allo spaesamento, ma solo così lo scrittore sente di poter rendere il senso ultimo di quel «deserto di solitudine»20 che si trova ad attraversare durante le sue peregrinazioni. Celati descrive il paesaggio padano svuotato della sua storicità in seguito a una mutazione di cui rimangono solo ruderi. Anche qui, come nella Sicilia descritta da Consolo, permangono relitti di una storia che non c’è più, che entrano in contrasto con le superfetazioni della modernità. L’esempio più evidente sono forse le corti, fattorie tipiche di queste zone, ora abbandonate: Ho sbirciato in un paio di quei cortili, c’erano strumenti agricoli abbandonati e paglia per terra. Gli abitanti delle corti sono andati tutti a vivere in quelle vilette geometrili sparse nelle campagne, e il bestiame è stato traslocato in grandi capannoni industriali.21 Di fronte alla piattezza e all’omologazione delle costruzioni moderne, le corti presentano una grande varietà di soluzioni architettoniche, che cambia da una provincia all’altra. I segni dell’antica bellezza non sono solo nelle corti, ma si possono ravvisare anche in alcuni centri storici, come in quello di Casalmaggiore Vedo strade girovaganti, portici e palazzi scrostati, finché non si arriva nelle stradine dietro il palazzo municipale, e da lì nella piazza centrale. […] Dalla piazza, ripassando per stradine un po’ in salita dietro il municipio, si arriva all’argine del Po. Accanto a una vecchia porta della città, la fila irregolare di palazzi sette-ottocenteschi, ognuno con facciata e forma e altezza 6 diverse, movimenti di linee senza mai forti squadrature, segue l’andamento sinuoso dell’argine e del fiume che si allarga in prospettiva.22 La differenza tra antico e moderno è dunque per Celati prima di tutto una questione di linee e di forme. A Codigoro lo scrittore osserva le case dalle facciate veneziane e le villette in stile liberty disposte lungo il canale, elementi che «formano davvero un luogo» e mostrano che qui «il tempo è diventato forma dello spazio, un aspetto è cresciuto a poco a poco sull’altro, come le rughe sulla nostra pelle»23. A ciò si oppone la fine del tempo, fine della storia e le forme geometrizzanti rappresentate dagli elementi della modernità, che minacciano i luoghi antichi: le industrie, che finiscono per costituire delle nuove città; i centri commerciali, che nel giro di pochi anni stravolgono il paesaggio; le strutture turistiche, presenti persino nelle zone più solitarie della foce del fiume; i cartelloni pubblicitari, che ostruiscono la visuale sostituendosi al paesaggio; infine, le nuove tipologie abitative dell’omologazione, le villette a schiera. La mutazione antropologica descritta da Celati non interessa solo il paesaggio, ma lo scrittore si sofferma anche sulle modalità di vita. L’alienazione dei luoghi rispecchia quelle delle persone. I nuovi non-luoghi creati dalla società di consumo, che di lì a qualche anno saranno teorizzati da Marc Augé, sono occupati da delle non-persone, svuotate anch’esse di storicità e private della diversità in favore dell’omologazione imposta24. In Acculturazione e acculturazione Pasolini si chiedeva se le persone sarebbero davvero riuscite a realizzare il modello imposto dalla cultura di massa e si rispondeva: No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi.25 In questo senso va anche l’osservazione compiuta da Gianni Celati sui luoghi dell’abitare che la mutazione antropologica impone agli abitanti della pianura, le villette a schiera che ricorrono come leitmotiv di queste pagine. Celati riprende le teorie dell’abitare espresse da Bachelard negli degli anni Cinquanta, adattandole al nuovo contesto depersonalizzato successivo alla mutazione antropologica. Le villette diventano allora simbolo stesso dell’alienazione postindustriale dei luoghi descritti, simbolo di un tentativo falso e illusorio di nascondersi della «vita piena di pena»26 e di non vedere «l’orizzonte pesantissimo pieno di camion e maiali»27: Quelle case non hanno volto, hanno solo aperture di sicurezza e superfici protettive dietro cui si va a nascondere. Si esce a vedere se in giro è tutto normale, poi si torna a nascondersi nelle tane.28 Se i luoghi precedentemente descritti da Celati mostrano una stratificazione del tempo e delle epoche, qui il tempo risulta sospeso, nelle villette le persone si autoesiliano involontariamente dal7 proprio tempo. Nel 1957 Gaston Bachelard ne La poetica dello spazio descriveva la casa come il luogo dove le persone si rifugiano a seguito dell’aumento di importanza della vita pubblica determinato dal progresso economico e tecnologico29. Se in Bachelard il senso di protezione evocato dalla casa ha ancora un valore positivo, Celati ci presenta trent’anni dopo i risultati di quel processo e ripropone in chiave negativa la visione della casa come rifugio. La mutazione antropologica cambia insomma i luoghi e le persone che li abitano. Raccontare la mutazione antropologica significa per gli scrittori raccontare la realtà in un momento in cui il realismo sembra essere una via non più percorribile. Ciò rende necessaria una riflessione e un lavoro da parte degli scrittori sulle forme e sui generi. Se Pasolini sceglie la via di una poesia per metà dialettale e per metà italiana per trasfigurare in forma artistica ciò che andava scrivendo nei suoi saggi, Consolo opta invece da una parte sulla rifondazione del romanzo storico su basi antiromanzesche e dall’altra sull’inserimento dell’elemento autobiografico all’interno delle strutture finzionali del racconto. Celati, infine, sceglie il diario di viaggio, un diario di viaggio denso di narratività e riflessioni, che fungono da punto di partenza per i racconti veri e propri di Narratori delle pianure e per le Quattro novelle sulle apparenze. Si nota insomma come la mutazione antropologica sia stata un motore, forse primo, che spinse gli scrittori a un ripensamento delle forme, quel ripensamento che culminerà nei nuovi realismi e nella fioritura della nonfiction a partire dagli anni Novanta, ma che affonda le basi sui grandi cambiamenti antropologici e sociologici che hanno interessato il mondo e l’Italia nella seconda metà del Novecento.

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1 A. BERARDINELLI, Premessa, in P.P. PASOLINI, Scritti Corsari, Milano, Garzanti, 2000, p. X. 2 Ivi, VIII.
3 PASOLINI, Acculturazione e acculturazione, in ID., Scritti corsari…, 22-23. 4 PASOLINI, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari…, 40. L’articolo era uscito per la prima
volta sul «Corriere della Sera» il 10 giugno 1974 col titolo Gli italiani non sono più quelli. 5 Ivi, 41. 6 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Scritti corsari, 53-54. L’articolo viene pubblicato l’8 luglio 1974 su «Paese sera» come lettera aperta in risposta a Italo Calvino.
7 Ivi, 53. 8 V. CONSOLO, Arancio, sogno e nostalgia, in ID., La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano, Mondadori, 2012, 133. Il racconto è pubblicato per la prima volta su «Sicilia Magazine» nel dicembre d
el 1988. Cfr. D. RAFFINI, La mia isola è Las Vegas: laboratorio e testamento letterario, in A.
Frabetti e L. Toppan (a cura di), Studi per Vincenzo Consolo. Come lo scrivere può forse cambiare il mondo,
«Recherches», n. 21, automne 2018, 129-142. 9 Si fa riferimento in particolare ai racconti Un sacco di magnolie, Befana di novembre, Grandine come neve e Triangolo e
luna, riproposti anch’essi nella raccolta La mia isola è Las Vegas. 10 CONSOLO, Alèsia al tempo di Li Causi, in ID., La mia isola…, 226. 11 ID., E Ciro vide Anna Magnani, in ID., La mia isola…, 229. 12 Alla coltivazione degli aranci Consolo dedica il già citato racconto Arancio, sogno e nostalgia; mentre sul tema
delle tonnare è il saggio La pesca del tonno pubblicato nella raccolta Di qua dal faro. 13 CONSOLO, Porta Venezia, in ID., La mia isola…, 113. 14 CONSOLO, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori, 2015, 1388. 15 ID., Piccolo grande Gattopardo, in ID., La mia isola…, 214. 16 F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, 10. 17 PASOLINI, Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in ID., Scritti corsari…, 54. 18 G. CELATI, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 2011, 9. 19 Ivi, 10. 20 Ivi, 9. 21 Ivi, 32. 22 Ivi, 38-39. 23 Ivi, 95. 24 Secondo la definizione di Augé: «Se un luogo può definirci some identitario, relazionale, storico, uno spazio
che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo» (M. AUGÉ, Nonluoghi.
Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993, 73). 25 PASOLINI, Acculturazione…, 23. 26 CELATI, Verso la foce…, 35. 27 Ivi, 31. 28 Ivi, 94.
29 Cfr. G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Bari, Dedalo, 1975, 31-45

Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso
dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Bologna, 13-15 settembre 2018),
a cura di A. Campana e F. Giunta,
Roma, Adi editore, 2020



Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo

Nicola Izzo

Negli anni Ottanta, la produzione di Consolo è contraddistinta dalla stilizzazione barocca, che raggiunge il suo culmine con Retablo (1987), opera-laboratorio e straordinario compendio letterario. Tale studio si concentra sulla pratica di riscrittura espletata dall’autore siciliano, che, quale il Pierre Menard autore del Chisciotte borgesiano, ricrea e rivisita testi importanti della letteratura italiana (Leopardi, Ariosto) ed europea (Goethe, Jaufré Rudel, Eliot).

Parole chiave:Consolo , Retablo , Leopardi , Ariosto , Genette , intertestualità , palinsesto , parodia , ribaltamento

1 Retablo è un che si contraddistingue per la sua fitta stratificazione linguistica e letteraria, che va a termine – declinandosi attraverso un’abile e ricercata commistione di prosa e lirismo, raffinato pastiche espressionistico di toni e stili un vero e proprio palinsesto, che richiama quanto teorizzato da Gerard Genette a proposito della letteratura della seconda metà del Novecento (Genette 1982). L’intento di tale studio è pertanto di penetrare tra i vari livelli dell’opera, alla ricerca dei numerosi riferimenti intertestuali presenti, estrinsecandone in modo speciale i giochi di parodie e ribaltamenti operati da Consolo.
A ciò va premio che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la comp (…)

2 Il primo obiettivo è quello di analizzare il modo in cui i personaggi dell’opera interagiscono all’interno del microcosmo consolano. La passione che lega frate Isidoro a Rosalia e il sentimento di Fabrizio Clerici sono manifestazioni di due opposte concezioni amorose, che rimandano a topoi medievali attestati repertorio della letteratura.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, ro (…)
Alle prime intense parole d’ordine di utilizzatore», non notare quanto esse presentino le medesime caratteristiche li forma che Guiette identificava nel modello utilizzato, riconoscevi «la supremazia dell’ordine estetico utilizzato per il suo valore incantatorio» e sublimato « ove «il linguaggio verrà utilizzato per suo valore incantatorio» e sublimato « dalla sua collocazione, dal suo volume, dall’uso che ne viene fatto» (Guiette 1990: 140).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta più avanti da Conso (…)
Il racconto di Isidoro e Rosalia è affiancabile al contrasto di Cielo o Ciullo d’Alcamo, Rosa fresca aulentissima , breve composizione che il De Sanctis identificava come il primo testo della letteratura italiana (De Sanctis 1981: 59) e che rielaborava il modello della pastorella (sottogenere della lirica medievale che Bec inserimento nel registro popolareggiante) (Formisano 1990: 123) attraverso la «rottura del contrasto un po’ meccanico fra il portatore delle convenzioni cortesi e la detentrice dell’istintiva diffidenza e riottosità dell’ambiente plebeo» ( Pasquini 1987: 119).
5 Alcune concordanze possono anche il gioco evidenziabili e confermerebbero letterario operato dallo scrittore siciliano:
Ahi, non abènto , e majormente ora ch’uscii di Vicarìa (Consolo 1987: 19).
Per te non ajo abènto notte e dia (Rosa fresca aulentissima, str. I, v. 4).

O ancora:
[…] la quale m’illudeva che, giunti a un numero bastevole di onze , smesso il saio, avrei impalmato la figlia sua adorata Rosaliuzza (Consolo 1987: 23).
Intendi bene ciò che bol[io] dire?
men’este di mill’ onze lo tuo abere (Rosa fresca aulentissima, str. XVIII, vv. 4-5).
Il rivolgersi in prima persona al proprio amato scandendone il nome in funzione vocativa richiamerebbe una certa teatralità, non estranea all’ambito giullaresco e popolaresco (Apollonio 1981: 107-109); tuttavia, alle prime intense evocazioni dei due incipit di Oratorio e Veritas , vi sono due cesure orientate ad includere le due opposte della versione vicenda che deve l’ini afflato lirico-sentimentale a una struttura dal respiro diegetico più ampio, la cui vivacità e concretezza ricondurrebbero alla tradizione dei fabliaux .

6 Un modesto chierico e un’umile popolana si configurano come due protagonisti ideali di un ipotetico fabliau , dacché, come afferma Charmaine Lee «i frequentatori di questi luoghi ci vengono descritti con abbondanza di dettagli, e quasi con una sorta di compiacimento nel ritrarre gli aspetti più bassi della realtà» ( Lee 1976: 27) . E racconto senso di concretezza si declina nell’accezione tutta erotica dell’amore che congiunge i due protagonisti.
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su personaggi della borghesi (…)

7 Considerata la coscienza tabuizzata medievale, l’oscenità andava infatti a costituire un serbatoio rilevante di temi per i fabliaux ; seppure tale licenziosità non fosse affatto l’esito di menti pretestuosamente lubriche, bensì espressione di un carnevalesco e faceto senso del contrario che si risolveva nella parodia del modello di riferimento, ovvero quel fin’amor cortese che plasmava il modello curiale e che in Retablo è riconoscibile nel racconto di Fabrizio intorno al quale ruota il secondo capitolo dell’opera, Peregrinazione 5 .

8 Questo senso del contrario è rilevabile anche attraverso la maniera in cui Isidoro e Rosalia utilizza l’immaginario religioso. Le fattezze di Rosalia nella mente d’Isidoro si ricollegano alla statua dell’omonima Santa (Consolo 1987: 19), così come l’aspetto del fraticello viene da lei giudicato «torvo, nero come un san Calogero» (Consolo 1987: 194) paragonato al giovane «biondo e rizzuto come un San Giovanni» (Consolo 1987: 194) di cui ella s’infatua all’inizio del racconto. Tale operazione di sniženie bachtiniano, di iconoclastico abbassamento sul piano materiale e corporeo di figure spirituali (invero giocato al limite della blasfemia), porta con sé una non trascurabile carica di irriverenza; e al devotamente suscettibile uditorio medievale non poteva che destare il riso (o quantomeno suscitarne lo scandalo) (Bachtin 1979: 25).

9 L’amore che lega Rosalia ed Isidoro è un sentimento denso di passione e di sensualità, che, come canta Ariosto, «guarda e involva e stempre/ogni nostro disegno razionale» (Ariosto 1976: XIII, 20) e che alla fine conduce all ‘insania il protagonista. Tale immagine di follia amorosa – «questo furore che riduce l’uomo, come quel paladin famoso, a nuda e pura bestia, privato vale a dire del cervello» (Consolo 1987: 58) – non può che rievocare le mirabolanti vicende dell’Orlando Furioso, verso cui lo scioglimento di alcuni nodi intertestuali riconduce il lettore di Retablo.
10 Già lo stesso elegiaco lamento di Isidoro, che occupa le pagine iniziali di Oratorio , rende assimilabile la percezione del proprio sentimento a quell’effetto insieme inebriante e stuporoso cantato dall’Ariosto:

[…] libame oppioso, licore affatturato, letale pozione (Consolo 1987: 17).

«e questo hanno causato due fontane
che di effetto liquore
ambe in Ardenna, e non sono lontane:
d’amoroso disio l’una empie core;
che bee de l’altra, senza amor rimane» (Ariosto 1976: I, 78).

6 Ma anche Ariosto 1976: X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme o timor negli altri (…)Passione che logora e consuma, provocando quel «duol che sempre il rode e lima» (Ariosto 1976: I, 41) 6 , ea cui Consolo in Retablo conferisce maggiore carnalità rispetto all’accezione intellettuale ariostesca:
lima che sordamente mi corrose l’ossa (Consolo 1987: 18).
che ‘l poco ingegno ad o ad o mi lima (Ariosto 1976: I, 2).
Tale poche erotismo viene riassunto nelle righe che narrano della ben celata dote del fraticello,
[…] e t’appressasti a me che già dormivo, ah Isidoro, Dio benedica, io subito m’accorsi che la bellezza tua stava nascosta. Bella, la verità (Consolo 1987: 194). E che rievocano parodisticamente uno dei più salaci episodi ariosteschi, quello di Bradamante, Ricciardetto e Fiordispina.

E se non fosse che senza dimora

Vi potete chiarir, non credereste:

e qual nell’altro sesso, in questo ancora

ho le mie voglie ad ubbidirvi preste.

Commandate lor pur, che fieno o ora

e sempre mai per voi vigile e deste.

Così le dissi; e feci ch’ella istessa

Trovò con man la veritade espressa (Ariosto 1976: XXV, 65)

11 La voluttuosa follia di Isidoro, in cui convivono illusione e eros, è al centro anche di Peregrinazione , secondo capitolo di Retablo in cui – invertendo lo schema diegetico ariostesco in cui un chierico, Turpino, narrava la furia del cavaliere Orlando – il cavaliere Fabrizio narra le penose conseguenze della passione del fraticello «che per amor venne in furore e matto» (Ariosto 1976: I, 2)
[…] divenne matto: crollato in terra, si contorse, schiumò, lacerossi gli abiti, la faccia, quindi nel vico si diede a piangere, a urlare come un forsennato (Consolo 1987: 186).

E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo

l’ispido ventre e tutto ‘l petto e ‘l tergo;

e cominciò la gran follia, sì orrenda,

che de la più non sarà mai ch’intenda. (Ariosto 1976: XXIII, 133)
D’altronde al lettore colto di Retablo non sarà sfuggito che il racconto di Fabrizio Clerici si avvicina per rutilante vitalismo, visività e inventiva all’opera ariostesca, ovvero a quell’ideale di rappresentazione della vita «nella sua più reale consistenza e nelle sue fughe fantastiche e irreali» (Consolo 1987: 63).

12 Il viaggio di Fabrizio in Sicilia presenta, attraverso efficaci immagini e ironici capovolgimenti, una realtà in cui il confine con la menzogna risulta labile, ove ci si imbatte in «venditori d’incanti e illusioni» (Consolo 1987: 63), in retablos de las maravillas che trasportano in lontani castelli d’Atlante in cui «a tutti par che quella cosa sia,/ che più ciascun brama e desia» (Ariosto 1976: XII, 20), attraverso una lunga e immaginifica sequela di visioni in cui sfilano anche io potenziale:
Ecco che in mezzo a voi passa, sul suo destrier bianco e lo stendardo in mano del Redentore nostro Gesù Cristo, seguito da’ chiari e baldi, dai più arditi cavalèr normanni, il Conte magno, Roggiero d’Altavilla, il grande condottiero che l ‘isola liberò dal giogo saracino […] (Consolo 1987: 65).
A tal proposito, è d’uopo rimarcare che Consolo, richiamando il poema ariostesco, ne dissolve il proposito encomiastico in un ironico rovesciamento di prospettiva, in linea con i suoi propositi critici ed estetico-ideologici. L’autore di Retablo è stato uno scrittore permanentemente protetto alla ricerca della verità, in lotta contro le falsificazioni imposte dai poteri costituiti, rappresentati un tempo proprio da quella cavalleria cantata da Ludovico Ariosto, e di cui con sarcasmo egli mette in dubbio i valori, come è evidenziabile in questo passaggio: «voglia il cielo che in fatto d’armi, di violenze e guerre, valga comunque e sempre la finzione» (Consolo 1987: 112).
13 Valori dissolti in una dimensione etica che appare infatti contraddittoria, ambigua, manipolata. Sa lo scrittore siciliano che l’asservimento è costume troppo frequent, come deplorava già San Giovanni ad Astolfo riconoscendo «la giù ruffiani, adulatori, / buffon, cinedi, accusatori, e quelli/che viveno alle corti e che vi sono/più grati assai che ‘il virtuoso e ‘l buono» (Ariosto 1976: XXXV, 20) e come Fabrizio stigmatizza nella sua invettiva a mo’ di serventese, scagliandosi contro «l’impostore, il bauscia, ciarlatan» (Consolo 1987: 128).
14 In Retablo , Consolo si confronta soprattutto con il tema metaletterario della mistificazione artistica ad uso del potere, rappresentato da «il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa» e dal «poeta dalla putrida grascia brianzola» (Consolo 1987: 128), domanda che già Ariosto aveva posto cinque secoli o sono:

Non fu sì santo né benigno Augusto

Come la tuba di Virgilio suona.

L’aver avuto in poesia buon gusto

La proscrizion iniqua gli perdona (Ariosto 1976: XXXV, 26)
Chiedendosi se in «questo che tutti chiamano il teatro del gran mondo, vale sovente la rappresentazione, la maschera, il romore vuoto che la sostanza vera della realtate» (Consolo 1987: 112).

15 Come accennato in precedenza, al sentimento segnato dalla carnalità e dalla sensualità di Isidoro si contrappone l’aureo amore ideale di Fabrizio, narratoci da lui stesso in Peregrinazione.
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura storica di Teresa Blas (…)

16 Già in epigrafe Consolo consegna al lettore attento e meticoloso la chiave per aprire il portello centrale di Retablo, dove ci viene narrato il sentimento di Fabrizio Clerici per la contessina Teresa Blasco 7:

Avendo gran disio,

dipinsi una figura

bella, a voi somigliante.

Come in questa canzonetta Jacopo da Lentini rielabora e adatta al proprio substrato culturale stilemi e temi della lirica trobadorica provenzale, l’autore di Retablo svolge in questo capitolo – riprendendolo e proponendone un’ironica lettura in prospettiva postmoderna – il leitmotiv del fin’amor , l’amore inteso come suprema forma di affinamento spirituale. Fin’amor che contrapponendosi al fals’amor , l’amore nel senso carnale che lega Isidoro a Rosalia, va a formare una struttura a chiasmo in cui le due coppie – Isidoro e Rosalia, Fabrizio e Teresa – si pongono l’una al polo contrario dell’altra.

17 In Retablo sono presenti quei già largamente attestati nella retorica mediolatina che tutti i simboli devono riconoscersi subito quali importanti punti di riferimento per l’interpretazione artistica e il cui ricorso implicava, per i poeti, collocarsi nell’alveo di una tradizione consolidata e insieme approfondirla (Di Girolamo 1989: 36).
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano e Di Girolamo, si ri (…)
9 È Fabrizia Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo , a suggerire, nella sua re (…)
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.

18 Sin dalla dedicatoria il cavaliere Fabrizio pone in risalto la sottomissione alla sua domna 8 , doña Teresa, raffigurata come sublime figura («donna bella e sagace, amica mia, che un padre di Spagna e una madre di Sicilia ornaro di virtù speciali», Ret .:33) attorniata da una turba di savai , uomini vili («sciocchi e muffi e mercantili», Ret .: 33). E, mentre procede egli nella sua quête 9 cavalleresca, il pittore milanese vagheggia della propria amata, la cui dimensione platonica viene caricata da Consolo nei suoi tratti d’irraggiung. irraggiungibilità che si collega al tema della distanza (e quan me sui partitz de lai/remembram, d’un amor de lonh ) 10 che nel fitto repertorio della letteratura provenzale è trattato da Jaufré Rudel.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi da Picone 1979. Si c (…)12 Ibidem.

19 Quelle che rimangono ad oggi alcune delle più interessanti interpretazioni date all’ amor del lonh rudeliano 11 sono sovrapponibili al sentimento di Fabrizio ea «quel volontario vallo», «gelida distanza» (Consolo 1987: 76) che pone egli tra sé e la sua dama. L ‘amor de lonh di Fabrizio Clerici traduce in concreto quel sottile senso di angoscia compendiato nel paradosso cristiano di un «reale irreale» (il mondo invisibile esiste mentre quello visibile non ha nessuna esistenza) 12, come del resto conferme le sue inquietudini metafisiche («cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, […]?», (Consolo 1987: 134)). Da qui laperegrinazione come forma di affinamento spirituale.

20 Tuttavia, questo esemplare riconducibile al filone dell’amor cortese viene anch’esso capovolto in Retablo . Come è narrato nella sua vida , Jaufré Rudel dirigeva il suo amore verso la Contessa di Tripoli, donna che non aveva mai visto, ma di cui aveva ascoltato la descrizione, procedendo dunque dall’ideale al concreto. Al contrario, Fabrizio vagola alla ricerca di un’astrazione da ricondurre al concreto modello di partenza, di un «frammentario brano di poesia o d’un eccelso modello di beltà» (Consolo 1987: 77). Questo di Fabrizio è un amore dunque perfettamente intellettualistico, totalmente contemplativo, e che nulla concede al desiderio de «le carni ascose immaginate» (Consolo 1987: 172).

21 Tale eccesso di mezura – per usare un efficace ossimoro – non porta ad alcuno forma di elevazione e perfezione spirituale quale prevista dal fin’amor . Il nostro protagonista, alla fine della sua peregrinazione, si ritroverà più smarrito di prima e l’unico cambiamento inferto alla sua condizione di partenza sarà la notizia del matrimonio tra la sua amata Teresa Blasco e il Marchese Cesare Beccaria.

22 In Retablo, nel finale, si verifica anche questo estremo ribaltamento dello schema di riferimento: il protagonista non accetterà il «compromesso» che è posto alla base del fin’amor : all’ amor del lonh preferirà un’errabonda solitudine e alla servitium amoris un prematuro comiat : «Ora addio, donna bella e sagace, che foste amica mia. Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria» (Consolo 1987: 189).
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che compiono il loro Grand Tou (…)

23 Siamo giunti in questo modo alla fine del percorso compiuto dai protagonisti, percorso che presenta molti tratti assimilabili alla tradizione della narrativa picaresca 13. Tuttavia, poiché poiché Consolo rovescia anche la struttura del Bildungsroman , Fabrizio, alla fine del suo cammino, non avrà raggiunto né una crescita interiore, né tantomeno una calma accettazione del presente, ma vivrà per sempre con quello che definisce un «dolore senza nome» (Consolo 1987: 140).

24 Questo senso di ineluttabilità non è soltanto un’angoscia individuale, ma in Retablo si collega alla concezione postmoderna della Storia, («[…] noi naufraghi di una storia infranta», (Consolo 1987: 146)), di cui è andata persa l ‘idea di causalità. Ed è in questa atmosfera rarefatta di disincanto che riecheggiano i versi del Leopardi, la cui memoria letteraria è importante anche per l’analisi dell’altra grande opera barocca di Consolo, Lunaria (Consolo 1985 e 1996) , pubblicata due anni prima di Retablo . Il dialogo col poeta di Recanati non è solo poetico, ma anche filosofico, in quanto il pessimismo di Fabrizio Clerici è assimilabile a quello che pervade i Canti leopardiani.

25 Inequivocabili sono le concordanze con L’infinito :
sedendo e mirando , e ascoltando… (Consolo 1987 : 101)
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni leopardiane).
Ma sedendo e mirando … (L’Infinito , v. 4) 14

26 E con La Ginestra :
O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto!» (Consolo 1987: 128)
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco (La Ginestra, vv. 52-53)
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces, romanzo storico pubbli (…)

Il pessimismo storico di Leopardi viene da Consolo tradotto nello scetticismo antilluministico di Fabrizio Clerici («peggiori di quanto noi pensiamo sono i tempi che viviamo!»; Consolo 1987: 42) che porta questi ad allontanarsi dalla Milano illustri dove intellettuali come i fratelli Verri e Cesare Beccaria, l’autore del saggio Dei delitti e delle pene, che diffondendo le nuove idee del Secolo dei Lumi 15.

27 La critica antistoricistica postmoderna si esprime in Retablo attraverso la caduta del mito del progresso. E, riflesso nella finzione romanzesca settecentesca, è riconoscibile il giudizio che dà l’autore agli anni Ottanta del Novecento, anni in cui alla composizione letteraria egli affianca la pratica giornalistica. La Milano tanto odiata da Fabrizio Clerici è la stessa città contro cui l’autore scaglia la propria invettiva. Erano quelli gli anni del governo socialista di Bettino Craxi (che darà vita dieci anni dopo allo scandalo di Tangentopoli) e in cui in Italia c’era una diffusa idea di benessere. Consolo, da grande intellettuale, individua proprio in quel periodo la nascita del degrado sociale e culturale italiano, e non esita a condannarlo dalle pagine del suo romanzo:
Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solo nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrica grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan! (Consolo 1987: 128)
Al tema storico di Retablo si coniuga anche il tema metafisico del Tempo. Uno dei temi più ricorrenti nell’opera di Consolo è proprio il «male di vivere», la profonda consapevolezza della caducità delle cose. Le rovine di antiche civiltà presenti durante la Peregrinazione dei nostri protagonisti ci vengono come destino «simboli indecifrati ed allarmanti» (Consolo 1987: 42), manifestazioni della contingenza che domina il destino dell’Uomo.

28 Fabrizio si reca tra gli antichi templi siciliani per abbandonare il concetto di Tempo escatologico e tornare al Tempo classico e circolare del mito e finalmente ritrovare ristoro dalle proprie angosce nella «stasi metafisica» (Consolo 1987: 40).
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa un ventennio dopo quel (…)

29 Il tour siciliano di Fabrizio avviene nella stessa epoca in cui si colloca un altro importante resoconto di viaggio, quasi parallelo al tour del nostro protagonista, quello di Goethe in Sicilia 16 , parte centrale del suo tour italico alla ricerca delle radici culturali e civili dell’ Occidente. Il grande poeta – che all’epoca aveva trentasette anni, nel pieno del suo fulgore artistico – arriva in Sicilia dopo averto le raffinate suggestioni di Venezia, l’eleganza colorata rinascimentale di Ferrara, la maestosità di Roma, la confusa e vivacità di Napoli , ed aver goduto sia dei diversi paesaggi culturali sia dei vasti campionari minerali, vegetali e paesaggistici offerti dalla penisola.

30 Alle tre pomeridiane del 2 aprile, allo sguardo estasiato del poeta tedesco, si offrì «il più ridente dei panorami», Palermo:
La città, situata ai piedi d’alte montagne, guarda verso nord; su di essa, conforme all’ora del giorno, splendeva il sole, al cui riverbero tutte le facciate in ombra delle case ci apparivano chiare. A destra il Monte Pellegrino con la sua elegante linea in piena luce, a sinistra la lunga distesa della costa, rotta da baie, penisolette, promontori. Nuovo fascino aggiungevano al quadro certi slanciati alberi dal delicato color verde, le cui cime, illuminate di luce riflessa, ondeggiavano come grandi sciami di lucciole vegetali davanti alle case buie. (Goethe 1983: 255-257)
Il medesimo spettacolo si offre a Fabrizio, assalito sul ponte nave dalle prime impressioni antelucane di una Palermo immersa nell’incantevole aria mattutina e inondata di luce:
[…] in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiar d ‘antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e d’oro e specchi di carrozze che lontano correvano le strade. (Consolo 1987: 35)
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine all’opera di Vincenzo (…)
Gli effetti di luce e di riverbero su cui indugiano le consoliane fanno parte di quella «retorica della luce» 17 descritto da Paola Capponi, e in cui pagine va considerata la stessa esperienza biografica dello scrittore. La polarizzazione su cui è incentrata tale riflessione si basa ancora su due coppie disposte a chiasmo: una che si muove sul piano orizzontale e diatopico – la Milano di Fabrizio Clerici e dell’ emigréVincenzo Consolo contrapposta ai luoghi natii dello scrittore siciliano – e l’altra di ordine verticale e diacronico – che si muove tra il grigio presente lombardo e le atmosfere mediterranee del suo passato: «Di luce in luce, donna Teresita, di oro in oro. » (Consolo 1987: 34). E la memoria influenza così la percezione dei fenomeni esterni, come viene espresso in queste righe:
«E sognare è viepiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato» (Consolo 1987: 95).

31 Ma ciò si verifica soltanto in quella metaforica camera oscura ove acquistano forma le reminiscenze dell’autore. Infatti nella dimensione reale e presente, come ha modo di testimoniare il milanese Fabrizio ad Alcamo, ove vige un iniquo sistema di poteri, lo splendore isolano si effonde anche sulla miseria ed ha forza abbacinante, dissimulatoria:
Ma fu quello come il segnale d’un assalto nella guerra, la guerra intendo, antica e vana, contra il nemico della fama. Che non si scorge qui, di primo acchitto, come da noi ne’ nebbiosi e gelati inverni nella campagna bassa o su per le valli sopra i laghi o sotto le gran montagne delle Alpi, ovvero meglio in alcuni quartieri popolosi e infetti di Milano, per la chiarità del cielo e pei colori, per la natura benevola e accogliente […] (Consolo 1987: 69).
Anche Goethe, perso nelle sue ricognizioni artistiche e scientifiche, ha modo di assistere, proprio ad Alcamo, al penoso spettacolo di questa «guerra tra poveri»:
Qualche cane ingoiava avido le pelli di salame che noi gettavamo; un piccolo mendicante cacciò via i cani, divorò di buon appetito le bucce delle nostre mele e venne a sua volta messo in fuga dal vecchio accattone. La gelosia di mestiere è di casa ovunque. (Goethe 1983: 297)
e di misurare la propria indignazione sulle problematiche sociali dell’isola, di biasimarne l’ambiguo e corrotto sistema di poteri che fa perno sulla religiosità cristiana,
[…] l’intera cristianità, che da milleottocento anni asside il suo dominio, la sua pompa ei suoi solenni tripudi sulla miseria dei propri fondatori e dei più zelanti seguaci (Goethe 1983: 264)
e di cui siamo efficaci ragguaglio anche in Retablo.
E il Soldano in pompa magna, quale sindaco della civitate, in uno con i decurioni, e con gli amici, seguito da cavalieri e da pedoni, in quella festa della patrona santa, fece la visita e l’omaggio a tutti i conventi, ritiri , orfanotrofi, spedali, chiese, collegi, monasteri e compagnie. E in ognuno, in sale, refettori o sacrestie, era ogni volta un ricevimento con dolciumi e creme, rosoli, caffè e cioccolata (Consolo 1987: 60).
La Sicilia si offre quale realtà composita, come egli ha modo di notare appena sbarcatovi in ​​quel di Palermo «assai facile da osservarsi superficialmente ma difficile da conoscere» (Goethe 1983: 255); un metaforico vasto retablo, meraviglioso e vivace, che può rivelare una miserrima realtà.

32 Tuttavia è da notare che l’animo, seppur sensibile, del grande autore del Werther, non sembra turbarsi intimamente, come accade invece a Fabrizio Clerici. Ciò è giustificabile con la semplice constatazione che, mentre il viaggio di Goethe in Sicilia in uno dei tanti tour che uomini di alta cultura compivano in quel tempo per gustare gli splendori naturali dell’isola e immergersi nelle sue anticheggianti suggestioni, dietro
Il viaggio letterario del lombardo Fabrizio Clerici si cela il nóstos di Vincenzo Consolo e il lamento per la sua terra ferita intride di sé le pagine dell’opera:
Dietro la croce e la Compagnia, venia la gente più miserevole, la più lacera, malata e infelice. Ed era, così ammassata, così livida, come la teoria d’un oltretomba, una processione d’ombre, d’umanità priva di vita e di colore (Consolo 1987: 184).
L’autore siciliano sa che dietro alle mirabolanti facciate come quelle architettoniche di Trapani, dietro alle bellezze fastose, si cela una realtà di brutture, su cui si spande un mirabolante, quanto ingannevole, velo:
Mai vid’io insieme tanto orrore, tanto strazio. L’altra faccia, il rovescio o forse la verità più chiara e netta di questa nostra vita. Che nascondiamo ognora con l’illusione, i velami, gli oblii, le facciate come quelle teatrali de’ palazzi della rua Nuova e della Grande, ch’io avea visto e ammirato la sera avanti, della gente lussuosa, spensierata che là vi dimorava (Consolo 1987: 184).
La prosa consolaana rivela, attraverso la sua efficace espressività, una tensione maggiore, un più acuto sguardo, laddove Goethe sembra solo intento a gratificare la propria algida curiosità di visitatore, come accade tra le rovine della terremotata Messina. Nell’autore tedesco sembra che l’itinerario siciliano produca nulla più di un vacuo corroboramento del suo gusto estetizzante e razionale. Laddove Fabrizio sembra inquietarsi, sconfortarsi sempre più per il desengaño che ad ogni piè sospinto sembra squarciare il velo di maraviglia che ammanta l’isola, il poeta tedesco sembra esaltarsi:
l’esaltazione poetica che provavo su questo suolo supremamente classico faceva sì che di tutto quanto apprendevo, vedevo, osservavo, incontravo, m’impossessassi per custodirlo in una riserva di felicità (Goethe 1983: 333).
Eppure sia Clerici che Goethe giungono in Sicilia con un bagaglio estetico e culturale similitudine. Goethiana infatti è l’intenzione di risalita alle origini, storiche e culturali in prima istanza, ma anche naturali, a cui Fabrizio aggiunge un ulteriore fattore sentimentale:
[…] mi pare di viaggiare alla ricerca degli stampi o matrici del vostro meraviglioso sembiante, della grazia che dagli avoli del corno di Sicilia ereditaste, in tanto che viaggio in cerca delle tracce d’ogni più antica civiltate. (Consolo 1987: 77).
Mentre la ricerca del poeta tedesco sembra focalizzarsi su una più asettica analisi biologica, ovvero uno studio sull’ Urpflanze , la pianta originaria che egli stesso aveva teorizzato:
Di fronte a tante forme nuove o rinnovate si ridestò in me la vecchia idea fissa se non sia possibile scoprire fra quell’abbondanza la pianta originaria (Goethe 1983: 295).
Ma soprattutto il poeta dell’ Italienische Reise e il pittore di Retablo – dalla predilezione artistica tuttavia analoga a quella del compagno di viaggio di Goethe, il pittore Christoph Heinrich Kniep – sono accomunati dal medesimo punto di riferimento artistico: quel canone neoclassico ed ellenizzante, winkelmanniano , ravvisabile nell’opera di Consolo nell’episodio della statua moziese:
Più che un umano atleta trionfante, un dio mi parve, un Apolline, dalle forme classiche, ideali, di quelle tanto amate dal Winkelmano.(Consolo 1987: 159)
e rintracciabile più volte nelle proprie di Goethe. Tuttavia equilibrio il poeta tedesco vi dimostra un più legame, rivelando una maggior aderenza a quell’ sintesi d’armonia, compostezza e razionalità mediato dal von Riedesel: «[…] alludo all’eccellente von Riedesel, il cuicino custodisco in seno come breviario o talismano.» (Goethe 1983: 307). Mentre, per quanto riguarda il protagonista dell’opera di Consolo, nel gusto della descrizione-elencazione sono ravvisabili influssi barocchi.

33 Efficace, a tal proposito, è il raffronto che può essere operato attraverso le opposte rappresentazioni del tempio di Segesta, al centro di una delle scene più suggestive di Retablo, ove si palesa la differenza sostanziale di atteggiamento dei due viaggiatori:
Le colonne sono tutte ritte; due, ch’erano cadute, sono state risollevate di recente. Se rivela o no uno zoccolo è difficile definire, e non esiste un disegno che c’illumini al riguardo […]. Un architetto potrebbe risolvere la questione (Goethe 1983: 306).

Il diametro di tutte le colonne è di 6 piedi, quattro pollici, sei linee; l’altezza di 28 piedi, e sei pollici… E potrei viepiù continuare se non temessi di tediarvi con altezze e larghezze e volumi, con piedi e pollici e linee (Consolo 1987: 97)
Laddove Goethe rivolge la sua attenzione alla semplice ricognizione tecnico-strutturale, il pittore milanese si lascia rapire dalla fascinazione «del tempio che vorrei ritrarre in modo distanziato, come fosse una realtà che poggia sopra un altro pianoforte, in un’aura irreale o trasognata» (Consolo 1987: 109); e alle speculazioni estetico-architettoniche goethiane si contrappongono le riflessioni di carattere metafisico del protagonista consolano:
[…] Come porta o passaggio concepire verso l’ignoto, verso l’eternitate e l’infinito. (Consolo 1987: 99)
Goethe, come ci suggerisce lo stesso Consolo, giunge in Sicilia, questa realtà eterogenea e prismatica, cercando non di raccontarla, bensì di «misurarla», con la capziosa – o piuttosto presuntuosa – crede di decifrare il mistero siciliano:
Sono, ripetiamo, queste certezze riposte nella bellezza, nell’ordine, nell’armonia, nella cognizione e classificazione della natura, gli argini, le barriere contro l’indistinto, il caos, l’imprevedibile, il disordine. Contro l’infinito (Consolo 2001: 246).
A differenza di Goethe, Fabrizio riesce a spogliarsi dei suoi oberanti metri illuministici e riesce ad abbandonare gli stereotipi estetizzanti e classicheggianti legati al mito siciliano. Le antiche vestigia così alimentano le sue inquietudini in quanto tracce degli orrori alla storia dell’Uomo che «vive sopravvivendo sordo, cieco e indifferente su una distesa di struttura e di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe» (Consolo 1987: 151). Nel viaggio storico del poeta tedesco invece non vi è traccia di tali riflessioni, da cui, anzi, sembra rifuggire:
Non bastava, osservai, che di tempo in tempo le sementi venivaro, se non da elefanti, calpestate da cavalli e uomini? Che bisogno c’era di ridestare bruscamente dal suo sogno di pace la fantasia risuscitando tali frastuoni? (Goethe 1983: 259)
Clerici si arrenderà al mistero siciliano, alla sua ricchezza ed al suo fascino, contrariamente al poeta tedesco che schiavo della sua razionale riluttanza di non varcare, nel viaggio a ritroso verso l’antichità della storia, verso l’origine della civiltà, la soglia dell’ignoto, di non inoltrarsi nell’oscura e indecifrabile eternità; di non smarrirsi, immerso in una natura troppo evidente e prorompente, nell’indistinto, nel caos infinito. (Consolo 2001: 244)
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement, et cependant c’est (…)

34 Come è stato scritto da Genette «une dialettique perplexe de la veille et du rêve, du réel et de l’imaginaire, de la sagesse et de la folie, traverse toute la pensée baroque» (Genette 1996: 18). Opera barocca per eccellenza, Retablo gioca sull’oscillazione tra i temi della maravilla ed il desengaño , della verità e della mistificazione, tra le percezioni sensibili della superficie dei fenomeni e l’abisso dell’esistenza, tra le visioni che il mondo propone ei riflessi capovolti di esse. I protagonisti consoliani si trovano quindi «a passare dal sogno e dall’incanto al risveglio più lucido», e ciò lungo il corso di un divertissement letterario, che – collegandosi e capovolgendo un celebre pensiero di Blaise Pascal 18– non spinge alla distrazione dalle domande dell’interiorità, ma ne esprime attraverso un’intensa sensibilità stilistica, dacché come affermare ancora Genette «l’univers baroque est ce sophisme pathétique où le tourment de la vision se résout – et s ‘achève – en bonheur d’expression».
O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio ​​sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? (Consolo 1987:135)

Bibliografia

I DOI vengono aggiunti automaticamente ai riferimenti da Bilbo, lo strumento di annotazione bibliografica di OpenEdition.
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APPUNTI

2 A ciò va premesso che la struttura di Retablo ricalca quella dell’omonimo polittico e che la comprensione e decodifica del racconto di Isidoro e Rosalia – senza dimenticare la predella situata nell’esatta metà dell’opera – presuppone una lettura unitaria laddove essa si presenta scissa in due capitoli: Oratorio e Veritas, e presentanti ciascuno il relativo punto di vista narrativo.
3 Per quanto riguarda Isidoro: «Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato.» (Consolo 1987: 17-18). A queste parole nella risposta quelle di Rosalia, su parte finale dell’opera: «Isidoro, dono dell’alma e gioia delle carni, spirito di miele, verdello della state, suggello d’oro, candela della Pasqua, battaglio d’ogni festa […]» (Consolo 1987: 193).
4 La vexata quaestio sul nome del giullare autore dell’opera è tuttavia risolta più avanti da Consolo a favore della seconda ipotesi quando introdurrà, ammantata da una notevole ironia, la sedicente Accademia poetica de Ciulli Ardenti. A tal proposito, è interessante notare che anche Dario Fo si è soffermato su Rosa fresca aulentissima, identificando il nome esatto dell’autore in Ciullo e scartando l’invalso Cielo, risultato questo di una mistificazione culturale a scopo censorio (ciulloindica anche membro il maschile). È quanto meno ipotizzabile che Consolo conosca l’altro e più scurrile significato della parola, tant’è che sembra giocarci col lettore in queste righe: «di Ciullo intenno, chiaro al monno intero, e surtutto per nui de l’Accademia ardente che al nome suo s’appenne» (Consolo 1987: 54).
5 Cfr. «[…] la narrativa dei fabliaux , sbrigativa e salace, imperniata su personaggi della borghesia, del clero, del contado, o anche dell’aristocrazia, ma in una chiave beffarda che sembra antitetica a quella del romanzo o del lai » (Rutebeuf 2007 : 13).
6 Ma anche Ariosto 1976 : X, 46: «il suo amore ha dagli altri differenza:/speme o timor negli altri il cor ti lima».
7 Albertocchi (2005: 95-111) dedica un esauriente articolo alla reale figura storica di Teresa Blasco, rivelandone, attraverso i documenti dell’epoca, le vicende – invero scabrose – che la videro protagonista nella Milano dei Lumi, e che la allontanano notevolmente dalla figura di donna vereconda tratteggiata nel diario di viaggio di Fabrizio.
8 Per il lessico specifico trobadorico, oltre ai già citati testi di Formisano e Di Girolamo, si rimanda al più agevole glossario posto a margine di Cataldi 2006: 226-229.
9 È Fabri Ramondino, estimatrice e critica della prima ora di Retablo, a suggerire, nella sua recensione all’opera inclusa nel numero del 3 novembre 1987 de «Il Mattino», che il romanzo è costruito secondo lo schema della quête dei cavalieri erranti: l’orazione, la peregrinazione e la verità ritrovata.
10 Questi versi e quelli successivi sono ripresi da Roncaglia 1961: 304-307.
11 Si rimanda per un rapido sunto ancora a Di Girolamo 1989: 63, e approfonditi da Picone 1979. Si consiglia inoltre la lettura dell’introduzione dell’edizione curata da Chiarini 2003.
12 Ibidem.
13 Dietro i personaggi del Cavaliere Fabrizio e del suo servo Isidoro che compiono il loro Grand Tour siciliano sono intravedibili le sagome dei personaggi di Jacques le fataliste.
14 Si veda Leopardi 2007 (qui e di seguito, per tutte le citazioni leopardiane).
15 È doveroso qui richiamare Alejo Carpentier e il suo El Siglo de Las Luces, romanzo storico pubblicato nel 1962, e che ha sviluppato, per temi e atmosfere, Vincenzo Consolo.
16 Il viaggio del grande autore di tedesco si svolge tuttavia nel 1787, circa un ventennio dopo quello del protagonista di Retablo.
17 Cfr. Capponi P., «Della luce e della visibilità, considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo», in: AA.VV. 2005.
18 «Misera. La seule ha scelto qui nous console de nos misères est le divertissement, et cependant c’est la plus grande de nos misères. Car c’est cela qui nous empêche principalement de songer à nous, et qui nous fait perdre insensiblement. Sans cela, nous serions dans l’ennui, et cet ennui nous pousserait à chercher un moyen plus solide d’en sortir. Mais le divertissement nous amuse, et nous fait arriver insensiblement à la mort .» (Pascal 1971: I, 268).
Nicola Izzo , “Nello scriptorium barocco di Vincenzo Consolo: riprese e ribaltamenti letterari in Retablo ” ,  reCHERches , 21 | 2018, 113-128.

Nicola Izzo

Université Jean Monnet, Saint-Étienne

La Metafora del Sorriso. Vincenzo Consolo e l’Antonello del Mandralisca

Alessandro Dell’Aira
Editor, iberista

Incontrai Consolo per la prima volta a Madrid, nell’autunno del ’95.
Allora dirigevo la rivista “Quaderni” del Liceo Italiano Enrico Fermi,
di cui ero preside. L’Istituto Italiano di Cultura seguiva con interesse
il nostro lavoro e ci autorizzava a pubblicare i testi delle conferenze
che organizzava nella sua sede o patrocinava in Spagna. Certo di
fargli piacere, gli donai una copia della prima edizione italiana della
commedia di Lope sul Santo negro Rosambuco de la ciudad de Palermo,
da me curata, edita qualche mese prima a Palermo.
Consolo, in quell’autunno, lasciò Madrid per Barcelona e Salamanca,
dove tenne una lezione accademica, La retta e la spirale, su temi siciliani
intrecciati con la storia spagnola tra Rinascimento e Barocco. Cedette
generosamente ai “Quaderni” copia del testo che avrebbe poi inserito
in Di qua dal faro,1 che accennava anche alla commedia di Rosambuco
come esempio di legame interculturale nel Siglo de Oro, e si concludeva
con una riflessione amara e attualissima sul “dolore senza catarsi”.
Prima di inviare il dattiloscritto in tipografia mi venne il dubbio che
vi fosse un evidente refuso, perdita anziché perdida, nella trascrizione di
una quartina dalla Galatea di Cervantes incisa sull’arco d’ingresso di una
villa di Bagheria:

Ya la esperanza es perdida
Y un solo bien me consuela

1 “La Retta e la Spirale”, «Quaderni del Liceo Italiano di Madrid», 4 (giugno 1996),pp. 83-84. IL testo è preceduto da parte di un’intervista con Valeria Cioffi. Di qua dal Faro (d’ora in avanti DQF), in L’opera completa (d’ora in avanti OC), a cura di Gianni Turchetta, prefazione di Cesare Segre, Milano, Mondadori, 2015 (I Meridiani), pp.1234-1238.

Que el tiempo que pasa y buela
Llevará presto la vida.2

Chiamai Consolo a Barcelona: mi disse che avrebbe controllato. E infatti mi chiamò la mattina dopo, molto divertito. Mi aveva cercato a scuola qualche ora dopo, e in mia assenza gli aveva risposto Juanita, la custode. Consolo le disse: «Per favore, avvisi il preside che la esperanza es perdida». Juanita si allarmò: «No signore, questa brutta notizia al preside gliela dia lei. Richiami domani». Tutto avrei immaginato, tranne che sarei tornato su questo divertente equivoco ventitré anni dopo, per presentare a Valencia Sfidando L’Ignoto, diario narrato della ricerca condotta da Sandro e Salvatore Varzi e da me sul capolavoro di Antonello oggi nel Museo Mandralisca di Cefalù, celebrato da Consolo ne Il Sorriso dell’Ignoto marinaio. Corredato di note finali rigorose, Sfidando L’Ignoto è un saggio di ‘filologia leggera’, nel senso che non cede di una sillaba all’invenzione e agevola la condivisione di un percorso in cui non mancano fasi di incertezza e di suspense. Consolo, messo sulla pista del marinaio da Lucio Piccolo,3 precisò poi che non aveva mai creduto a quella diceria. Lo rivelò rievocando l’incontro con Roberto Longhi a Milano nel ’69, quando chiese notizie al noto critico d’arte sul primo capitolo del Sorriso che gli aveva inviato qualche tempo prima. Longhi gli rispose bruscamente: «Sì sì, ho letto

2 La villa-fortezza apparteneva a don Giuseppe Branciforti, conte di Mazzarino, capo di una congiura contro Filippo IV di Spagna, scoperta e sventata per tempo. L’iscrizione è del 1658. La quartina è abbinata a un emistichio di Torquato Tasso, O corte a dio. 3 Il sorriso dell’ignoto marinaio, d’ora in avanti SIM, Note e notizie sui testi, in OC, p. 1300. Secondo Consolo, il primo fotografo a riprodurre il quadro fu Domenico Anderson intorno al 1915 (OC, p. 1309). In realtà di trattò del fotografo palermitano Giovanni Fiorenza, autorizzato dalla Soprintendenza di Palermo il 22 giugno 1914, in vista della dichiarazione di rilevante interesse artistico e storico del ritratto, notificata l’11 febbraio 1916. Poiché non vi è traccia della riproduzione presso gli archivi della Fondazione Mandralisca, si suppone che la lastra venne acquistata nel 1930 da Domenico Anderson. Cfr. Sfidando l’Ignoto, Palermo, Ed. Torri del Vento, 2017
(d’ora in avanti SI), pp. 87-88, n. 28.

le sue pagine, ma questa storia del marinaio deve finire».4 Abbiamo inserito questa frase in quarta di copertina, consapevoli che la diceria sarà dura a morire. Il fatto nuovo è che ne abbiamo dimostrato l’infondatezza, partendo da un sigillo mai notato prima, apposto nel Settecento sul retro della tavoletta da un prozio del barone Mandralisca, l’arcidiacono Giuseppe Pirajno, all’epoca vescovo vicario di Cefalù. A
nostro parere, anche in assenza di fonti scritte, questo sigillo e varie altre evidenze iconografiche bastano a identificare il personaggio raffigurato nella tavoletta, misterioso come tutti gli ‘Ignoti’ di Antonello. Tuttavia, è bene che il gap tra Mistero e Ignoto persista: lo svelamento toutcourt toglierebbe al ritratto parte del fascino di cui lo stesso Consolo partecipa.5 Cesare Segre ha osservato che l’Antonello del Mandralisca è divenuto «una specie di doppio di Vincenzo Consolo».6 In ogni caso,
non c’è ricerca in grado di andare oltre quel sorriso-lumaca, «fiore
di ragione»,7 insondabile, condiviso dagli artisti in azione –pittore e
narratore– e dal modello in posa. A nostro parere si tratta di Francesco Vitale da Noja presso Bari, oggi Noicattaro. Dottore alla Sorbona in Teologia e Arti, precettore, segretario e ambasciatore di Ferdinando il Cattolico, valoroso umanista e profondo esperto di Duns Scoto, fu designato vescovo di Cefalù nel 1484, quando tra i diplomatici di Ferdinando e Isabella gli ‘aragonesi’ furono rimpiazzati dai ‘castigliani’. Si fece ritrarre su xilografie e medaglie. In Sicilia sostenne gli interessi della casa d’Aragona. Colto da ictus a Valencia nel 1491, dopo un soggiorno a Siviglia, rientrò a Cefalù

4 SI, p. 7, n. 1 con rinvii a Fuga dall’Etna e a MESSINA, N., “Per una storia di «Il sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo”, «Quaderns d’Italià», 10 (2005), pp. 113-126. 5 SI, pp. 75-76. Consolo non dubitò mai della provenienza ‘precaria’ del ritratto, da lui associato al cratere siceliota con la scena della vendita del tonno, acquistato dal barone a Lipari (La Pesca del Tonno, in DQF, OC, p. 1007). 6 SEGRE, C., “Un profilo di Vincenzo Consolo”, in OC, p. XVI. 7 Così in L’Olivo e l’olivastro (in OC, p. 853) Consolo definisce il sorriso dell’Ignoto, rivolto alla «grande storia di Palermo».

e vi mori in data incerta, comunque anteriore al 14 febbraio 1494.8 Quando il prozio del Mandralisca la fece propria, la tavoletta era molto malridotta. Forse non si sapeva più chi raffigurasse. Consolo si dimostra certo della provenienza liparitana del ritratto. Imposta la narrazione sulla «planimetria metaforica» Lipari-Cefalù- Messina,9 ma sa di non avere a che fare con un marinaio. Lo confermano due sue descrizioni, stilisticamente lontane ma convergenti. Nella prima si accenna alla reazione del barone, che stringe sotto un’ascella la tavoletta avvolta in una tela cerata, a bordo di un veliero stipato di gente e di mercanzie. Consolo descrive il ritratto con gli occhi del barone che scruta il misterioso Giovanni Interdonato, dopo i colpi di tosse che scuotono un vecchio cavatore di pomice:
[…] Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza

8 Vitale, semiparalizzato, il 10 marzo 1492 fece apporre una chiosa da altri sull’ultimo foglio di un incunabolo stampato a Venezia nel 1481, aggiungendo a margine un tremolante manu propria (SI, pp. 50-53). Il 12 febbraio 1494 Ferdinando il Cattolico scrisse di avere appena appreso della morte di Vitale (SI, p. 53, n. 53). Il documento è trascritto da Óscar Perea Rodríguez nella sua tesi di dottorato: «[…] en esta hora es venida aquí nueua que es fallecido maestre Francisco de Noya, obispo de Cefalú; y comoquier que no se sabe muy certificadamente si ello es assí, cordamos de vos preuenir de nuestra voluntat sobre la prouisión del dicho obispado […]» [Las cortes literarias hispánicas delsiglo XV: el entorno histórico del Cancionero general de Hernando del Castillo (1511). Universidad Complutense de Madrid, a.a. 2003-2004, p. 194 n. 587]. Da un documento della Curia cefaludense risulta che la sede di Cefalù fu dichiarata vacante nel febbraio del 1495. 9 Cefalù e l’Ignoto di Antonello sono uno dei vertici del triangolo metaforico. I cavatori di pomice liparitani e i rivoltosi di Alcàra Li Fusi occupano gli altri due. e vi mori in data incerta, comunque anteriore al 14 febbraio 1494.8 Quando il prozio del Mandralisca la fece propria, la tavoletta era molto malridotta. Forse non si sapeva più chi raffigurasse. Consolo si dimostra certo della provenienza liparitana del ritratto. Imposta la narrazione sulla «planimetria metaforica» Lipari-Cefalù- Messina,9 ma sa di non avere a che fare con un marinaio. Lo confermano due sue descrizioni, stilisticamente lontane ma convergenti.
Nella prima si accenna alla reazione del barone, che stringe sotto un’ascella la tavoletta avvolta in una tela cerata, a bordo di un veliero stipato di gente e di mercanzie. Consolo descrive il ritratto con gli occhi del barone che scruta il misterioso Giovanni Interdonato, dopo i colpi di tosse che scuotono un vecchio cavatore di pomice:
[…] Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza

8Vitale, semiparalizzato, il 10 marzo 1492 fece apporre una chiosa da altri sull’ultimo
foglio di un incunabolo stampato a Venezia nel 1481, aggiungendo a margine un tremolante manu propria (SI, pp. 50-53). Il 12 febbraio 1494 Ferdinando il Cattolico
scrisse di avere appena appreso della morte di Vitale (SI, p. 53, n. 53). Il documento
è trascritto da Óscar Perea Rodríguez nella sua tesi di dottorato: «[…] en esta hora
es venida aquí nueua que es fallecido maestre Francisco de Noya, obispo de Cefalú;
y comoquier que no se sabe muy certificadamente si ello es assí, acordamos de vos
preuenir de nuestra voluntat sobre la prouisión del dicho obispado […]» [Las cortes
literarias hispánicas delsiglo XV: el entorno histórico del Cancionero general de Hernando del Castillo (1511). Universidad Complutense de Madrid, a.a. 2003-2004, p. 194 n.587]. Da un documento della Curia cefaludense risulta che la sede di Cefalù fu
dichiarata vacante nel febbraio del 1495. 9 Cefalù e l’Ignoto di Antonello sono uno dei vertici del triangolo metaforico. I cavatori di pomice liparitani e i rivoltosi di Alcàra Li Fusi occupano gli altri due. dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vivuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e alle vicende loro. E, avvertivasi in colui, la grande dignità di un signore […].10


In questa oscillazione tra conoscenza e pietà, Consolo coglie da rabdomante il profilo di un conciliatore di storia e spiritualità, umanesimo e missioni diplomatico-ecclesiastiche. Vitale visse in mezzo agli uomini e alle vicende loro, ancor più di Interdonato, riconosciuto da Mandralisca nell’Ignoto del ritratto, mentre di notte, nel suo studio, si concentra sulla tavoletta appesa a una parete tra gli scaffali. Un’agnizione-insight degna di un romanzo di Dumas. Per quanto ci risulta, tuttavia, il barone non era certo, o ignorava di possedere un Antonello prima che nel gennaio del 1860 Giovan Battista Cavalcaselle, in casa sua, ne ricavasse un geniale bozzetto. Cavalcaselle, garibaldino mazziniano esule a Londra dopo il 1849, critico d’arte e pittore, giunto in Sicilia per ragioni di studio qualche mese prima di Garibaldi, forse con una missione coperta, è una specie di doppio attenuato del democratico Interdonato. Nella seconda descrizione, a tratti impressionistica, risuonano il lessico e i luoghi comuni dei frequentatori di pinacoteche. Ha per sfondo una festa organizzata dal barone in casa sua per presentare il ritratto ad amici e conoscenti. Quando Enrico sfila il panno dal leggìo su cui ha collocato la tavoletta, l’Ignoto si svela e il Mistero, volendo rubare il titolo a un romanzo di Marco Malvaldi, si accentua «negli occhi di chi guarda»:

[…] Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta,
10 SIM, in OC, pp. 129-130.

le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini. Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi parte essi si trovavano, con
i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si sentì come a disagio […].11


Come nel cambio di scena di un’opera lirica, questa seconda
descrizione è interrotta da colpi di schioppo e abbaiar di cani in
lontananza, equivalenti ai colpi di tosse del cavatore a bordo del veliero.
Dal suo leggìo, l’Ignoto sembra allargare il sorriso in un ghigno. In un
angolo del salone, il cefalutano Salvatore Spinuzza, pressoché ignorato
dagli altri invitati perché ‘facinoroso’ come Giovanni Interdonato,
rabbrividisce.
Di qua dal faro, pubblicato nel ’99, contiene il testo della conferenza
salmantina del ’95, affidato quattro anni prima ai «Quaderni del Liceo
Italiano». Tra gli altri ‘pezzi’, contiene anche un bilancio d’autore sul
Sorriso vent’anni dopo, definito come metafora del superamento dei
«romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore», come approdo
alla pari dignità dialettica dei linguaggi, «compresi quelli marginali».12
Consolo è entrato da anni in una fase nuova. Coglie nel segno Joseph
Francese quando afferma che gli attentati mafiosi dei giudici Falcone e
Borsellino, mesi in atto nel ’92 per conto di raffinati mandanti, segnano
il passaggio definitivo di Consolo dall’aventino sciasciano all’impegno
politico scoperto.13 E quanto al «parricidio» da lui perpetrato, ingrato
e miope è il giudizio di chi lo ha definito «un infelice che voleva essere

11 Ivi, pp. 143-144.
12 CONSOLO, V., “Il «Sorriso» vent’anni dopo”, in DQF, OC, p. 1254.
13 FRANCESE, J., Vincenzo Consolo. Gli anni de «L’Unità» (1992-2012), ovvero la
poetica della colpa-espiazione, Firenze, University Press, 2015.

Sciascia».14 Se Sciascia fu un superbo autore di romanzi e saggista, Consolo fu un artista, un linguista, un «orafo della parola». A tanta distanza da quell’equivoco sulla esperanza perdida, che allarmò la simpatica custode del Liceo Italiano, verrebbe da dire che nulla accade per caso. C’è ancora speranza. Il dibattito in ambito letterario e non solo, che in quei giorni Consolo giudicava «quasi spento»,15 è in agonia, ma il decesso del romanzo non è sopravvenuto. A rantolare, semmai, sono i lettori. Da rappresentazione del reale e dell’esistenziale, da intreccio di storie più o meno rilevanti o defilate, la letteratura di oggi si apre allo svelamento di crimini sommersi (per esempio, in Resto qui, di Marco Balzano, che nel 2015 ha vinto il Campiello con la storia di un giovane del Sud immigrato a Milano). In Italia, in Spagna, in Europa,
la narrativa si è aperta all’epica delle culture migranti e alle voci critiche dai paesi ‘banditi’, quelli che il presidente USA in carica ha definito latrine. Scrittori-migranti e migranti-scrittori,16 protagonisti dell’epica dell’andare e venire viaggiando, narrano storie di emarginazione nelle lingue dell’Unione. Sicché la partita non è persa del tutto. Tra guerre e violenze endemiche, speculazione spietata, politici e amministratori corrotti, vincere l’impotenza si può, sorridere da lumache si può, con
o senza il supporto dell’ideologia, ma senza rinunciare alla speranza e senza bandire l’immaginazione creativa. La speranza, se cade, trova sempre il modo di rialzarsi. Diversamente dal sorriso, non è mai stata quel che si dice una metafora, neppure in letteratura.

14 CARUSO, C., “Vincenzo Consolo: «Un infelice che voleva essere Sciascia». Il ricordo del fotografo Fernando Scianna amico di Vincenzo Consolo, che Mondadori pubblica nella Collana «I Meridiani»”, «Panorama», 9 febbraio 2015. 15 In I ritorni (in DQF, OC, p. 1121) Consolo scrive: «Crediamo che oggi, per la caduta di relazione tra la scrittura letteraria e la relazione sociale, non si possono che adottare, per esorcizzare il silenzio, i moduli stilistici della poesia; ridurre, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio del romanzo». 16 La distinzione è del brasiliano Julio Monteiro Martins, scomparso a Lucca nel 2014.




Il punto scritto: genesi e scrittura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio

DARAGH O’CONNELL

In un’intervista fatta a Vincenzo Consolo parecchi anni fa, lo scrittore siciliano ha parlato della “fantasia creatrice” come di un elemento femminile con il quale si può uscire dal cerchio della ragione, un cerchio simboleggiato dalla metafora della “chiocciola” nel Sorriso dell’ignoto marinaio (O’Connell, 2004: 238-253). Questa fantasia creatrice nel romanzo, si muove nei panni del personaggio Catena Carnevale la fidanzata che sfregia il sorriso ironico e pungente del ritratto e, in seguito, ricama la tovaglia di seta intitolata «L’albero delle quattro arance «. La descrizione nel libro di questa tovaglia e fondamentale e assomiglia per certi versi proprio allo stile della scrittura consoliana, ed e in realtà una metafora per il testo stesso, se non l’intero progetto letterario di Consolo. Leggiamo: Sembrava, quella, una tovaglia stramba, cucita a fantasia e senza disciplina. Aveva sì, tutt’attorno una bordura di sfilato, ma il ricamo al centro era una mescolanza dei punti più disparati: il punto erba si mischiava col punto in croce, questo scivolava nel punto ombra e diradava fino al punto scritto. E i colori! Dalle tinte più tenui e sfumate, si passava d’improvviso ai verdi accesi e ai rossi più sfacciati. Sembrava, quella tovaglia, – penso la baronessa, – ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare che la ragione le fosse andata a spasso. (Consolo, 2015: 167-168) Questa analogia tra la scrittura letteraria e il ricamo e lo sfregio di Catena, richiama proprio la poetica distintiva di Consolo: una poetica palinsestica che prevede l’accumulo e l’elisione di vari testi di provenienza diversa, siano essi di stampo giornalistico, creativo o saggistico, in uno spazio di singolare gestazione autoriale fra polifonia e palinsesto (O’Connell, 2008: 161-184). Queste pagine intendono analizzare, da diversi punti di vista, il primo capitolo del longseller di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), delineando l’evoluzione del romanzo dalla sua forma primigenia fino alle più recenti rielaborazioni. Saranno messe a fuoco alcune varianti testuali (Messina, 2009: 143-202) e dichiarate le fonti, letterarie e non, sottese all’intero capitolo. Il primo capitolo e in effetti, a mio avviso, un grande palinsesto, e molte delle procedure adottatevi da Consolo richiamano una polifonia e una concezione alla Bachtin ell’enciclopedismo, la sua definizione di romanzo di Seconda linea. In più, il capitolo I sancisce in realtà molti aspetti della nuova poetica di Consolo, che in definitiva rappresenta lo spazio letterario in cui il passaggio da riso a sorriso e più evidente. Consolo conclude cosi la Nota dell’autore, vent’anni dopo aggiunta come postfazione dell’edizione Mondadori del 1997: […] che senso ha la riproposta di questo Sorriso? E la risposta che posso ora darmi e che un senso il romanzo possa ancora trovarlo nella sua metafora. Metafora che sempre, quando s’irradia da un libro di verità ideativa ed emozionale, allarga il suo spettro con l’allargarsi del tempo. (Consolo, 1997: 183)2 Sono passati vent’anni da queste enunciazioni, e oggi il testo sfaccettato di Consolo ha cominciato a ricevere il trattamento critico che merita. Abbiamo avuto oltre quarant’anni per metabolizzare e situare un romanzo della sua importanza, non solo nel contesto della narrativa italiana del ventesimo secolo, ma anche in quello dell’evoluzione poetica di Consolo. Si dovrebbe, pertanto, entrare nel cuore del dibattito su questo allargarsi del tempo, contribuire attivamente alla crescita di questo corpus critico-accademico con al centro la poetica di Consolo. Tuttavia, in questo approccio al capitolo I, ciò che più ci preme non e tanto il suo allargarsi nel tempo, quanto il suo restringervisi, cercando di individuare con esattezza i momenti cardine della composizione del testo. Sarebbe erroneo, in tanti sensi interconnessi, dire che Il sorriso e un testo nel fiore dei suoi quarant’anni. Quando leggiamo le mini-biografie sulle copertine dei libri di Consolo, siamo portati a credere che Il sorriso sia un prodotto testuale della metà degli anni ’70 e perfettamente inserito nel suo tempo. In realtà, va sottolineato che Il sorriso e un testo mutevole, «un lavoro perennemente mobile e non finibile», per dirla con Contini (1970: 5), la cui genesi può essere collocata intorno alla metà degli anni ’60 e le cui più recenti articolazioni possono essere datate al 1997. Questo saggio intende dimostrare che Il sorriso si può considerare come un atto letterario il cui incipit – non solo testuale, ma anche concettuale – e retrodatabile a cinquant’anni fa. Fuori dalla storia del testo in quanto tale, alcune delle tematiche e delle metafore de Il sorriso sono apparse in diverse guise, in altre narrazioni più tarde di Consolo. Sia Nottetempo, casa per casa sia L’olivo e l’olivastro si riferiscono esplicitamente al Ritratto d’uomo di Antonello (Consolo, 1992a: 138-139 [Consolo, 2015: 142-143]; Consolo, 1994: 124-125 [Consolo, 2015: 852- 853]). Per cui si può dire che Il sorriso, dal suo livello ipertestuale originario, 2 La Nota dell’autore, vent’anni dopo e successivamente riapparsa come saggio di chiusura in Consolo, 1999a, p. 276-282, con il titolo «Il sorriso», vent’anni dopo. 57 e diventato un ipotesto per le opere successive di Consolo3. Per di più, Il sorriso e il primo capitolo di una trilogia di romanzi che prendono le mosse da importanti momenti della storia siciliana e italiana: l’insorgere del fascismo nei primi anni ’20 e la sua correlazione in tempi più recenti con la nuova destra italiana, in Nottetempo, casa per casa (1992); e il fallimento del tentativo di creare una società giusta da parte della comunemente definita “generazione del dopoguerra”, simbolizzato dall’assassinio del giudice Paolo Borsellino, in Lo spasimo di Palermo (1998). Tralasciando queste considerazioni, la focalizzazione esclusiva su Il sorriso e, in particolare, sul capitolo iniziale del romanzo, si basa su alcune valide ragioni: anzitutto, il capitolo I risulta il più negletto di tutti, dato che la critica ha preferito studiare e interpretare i cosiddetti “capitoli caldi” della seconda meta del romanzo; poi, perché e il capitolo con la storia testuale più lunga, e dunque la sua gestazione dovrebbe apparire più evidente ad un’attenta analisi; infine, il capitolo inaugura una nuova poetica per Consolo dopo La ferita dell’aprile (1963): gli elementi di solito associati al romanzo – il significato del sorriso, la chiocciola, la compresenza di poesia e prosa, le forme metriche, gli stilemi, l’uso dell’elencazione, di forme dialettali e parodistiche, l’impegno dell’autore, e un’abbondante messe di intertesti, in breve, una polifonia – sono già tutti presenti nel loro insieme in questo capitolo. Certo i commenti dell’autore facilitano la lettura del primo capitolo del romanzo, e le riflessioni sono molto rilevanti, non solo per ciò che nascondono, ma anche per ciò che rivelano. Forse, quella più significativa riguardo al Sorriso appare nella Nota dell’autore chiamata in causa all’inizio, in cui, pur a distanza di venti anni, Consolo delinea i tre elementi fondamentali da cui la struttura del romanzo ha preso forma: I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcara, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezze […] a una terra di consapevolezza e di dialettica. (Consolo, 1997: 177-178) Dei tre punti sopraelencati, solo il primo e notoriamente escluso, e di là da venire. Inoltre, questo movimento ad assetto triangolare, emanante dai brani d’apertura del capitolo, e illuminante riguardo alla poetica di Consolo e a come (e dove) egli si vede situato all’interno della tradizione letteraria siciliana: in una posizione intermedia tra quella occidentale e quella orientale, che e come dire, tra 3 Seguo le categorizzazioni e classificazioni genettiane della “transtestualità”, vale a dire la trascendenza testuale del testo, rilevate da Gérard Genette (1997: 7-8): «si tratta appunto di quella che chiamerò d’ora in poi ipertestualità. Designo con questo termine ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto) sul quale esso si innesta in una maniera che non è quella del commento». storia e mito. I movimenti spaziali da est a ovest nel primo capitolo del romanzo, e la decisione dell’autore di abbracciare le tradizioni storiche occidentali degli scrittori dell’isola, si scorgono nello stesso incipit4. Nel libro-intervista Fuga dall’Etna, riferendosi proprio alla prima parte del romanzo, Consolo afferma: Il libro e scritto nella prima parte in forma parodistica, mimetica, sarcastica se si vuole, quindi in negativo: faccio il verso a un erudito dell’Ottocento recluso nella sua mania antiquaria, che scrive i suoi saggi scientifici, che si occupa di malacologia, una materia quanto mai curiosa, eccentrica. (Consolo, 1993: 45) Se gli elementi parodistici, mimetici e sarcastici sono davvero presenti, e in abbondanza, nella prima parte del romanzo, Consolo pero non evidenzia tutti gli altri che danno “forma” a questo capitolo: un’angoscia delle influenze di altri scrittori, la ricerca di una nuova poetica, una concezione totalmente alterata di quello che è il genere del romanzo. L’analisi s’incentrerà proprio su questi elementi nascosti o impliciti, peraltro parzialmente rivelati dall’esame del graduale crescere del testo, gli inizi del quale si possono far risalire a un momento circostanziato della vita dell’autore, un evento che e l’emblema degli obiettivi dichiarati della sua poetica, vale a dire, la fusione dei due filoni, orientale e occidentale, della letteratura siciliana. E mia ferma convinzione, che l’incontro organizzato da Consolo tra i suoi due mentori, il poeta Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia, e il più chiaro esempio possibile del punto di partenza del futuro romanzo. Né Le pietre di Pantalica, Consolo racconta l’evento tenutosi il 7 marzo 1965, una data degna di nota, perché coincidente con la prima messa officiata in lingua italiana dopo il Concilio Vaticano Secondo: Sciascia arrivo da Caltanissetta al mio paese e assieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali». Avevo deciso di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Milano. «Non parta, non vada via» mi diceva Piccolo. «A Milano con tutti gli altri, rischia di annullarsi. La lontananza, l’isolamento danno più fascino suscitano interesse e curiosità.» Non potevo rispondergli che non ero ricco, che dovevo guadagnarmi la vita. Non potevo dirgli, soprattutto, che lì in Sicilia mi sembrava tutto finito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia. (Consolo, 1988: 142-143 [Consolo, 2015: 599])5 Ad un primo sguardo, nel brano sono proprio pochi gli accenni riferibili alla futura opera Il sorriso, perché Consolo taglia corto con la storia dell’incontro raccontando di altre esperienze con Piccolo. Invece nella Fuga dall’Etna riprende il racconto con un’interessante coda: 4 Per le discussioni sulla mappatura della letteratura siciliana del luogo, cfr. il mio saggio: O’Connell, (2005: 29-48); e O’Rawe (2007: 79-94). 5 La più antica traccia si trova in due quaderni autografi (Ms 3, Ms 4), per cui cfr. Messina (2009: 58 e n. 53). Questo uno dei ricordi più belli, che riprendo da Le pietre di Pantalica: «[…] “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali.” “C’e qui Consolo,” rispose Sciascia. “Consolo e ancora giovinetto,” replico Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone.» Sciascia era rimasto affascinato da quel poeta, da quel gran personaggio che era Piccolo. Erano, i due scrittori, quanto di più diverso, di più lontano si potesse immaginare, eppure nutrivano, l’uno per l’altro, stima e ammirazione. (Consolo, 1993: 23-24)6 Non è da ritenere una coincidenza il fatto che siano esattamente queste nostre terre, quei paesi medievali a costituire il contenuto o retroscena del primo capitolo del futuro romanzo. La sfida sottaciuta di Consolo a Piccolo diventa poi col tempo anche sfida a tutta la letteratura siciliana, e il romanzo che ne risulta e un romanzo i cui antenati sono certo Verga, De Roberto, Pirandello, Vittorini e Tomasi di Lampedusa, ma i cui “istigatori” potrebbero considerarsi Piccolo e Sciascia: sia detto per inciso, richiamati rispettivamente dal protagonista Enrico Pirajno Barone di Mandralisca (Piccolo) e del deuteragonista Giovanni Interdonato (Sciascia). Tredici anni di silenzio separano il primo romanzo di Consolo La ferita dell’aprile datato 1963 e Il sorriso. La concezione originale de Il sorriso, comunque, prende le mosse negli anni ’60 ed e connessa, almeno dal punto di vista ideologico, al periodo di “acuta storia”. Inoltre, e un romanzo siciliano in senso stretto, non solo perché tratta di storia siciliana, ma anche perché la sua nascita e il suo sviluppo sono databili al periodo 1963-1968, ovvero gli anni in cui Consolo visse in Sicilia prima di spostarsi a Milano definitivamente nel gennaio 1968. Ma Consolo, e chiaro, non smise di scrivere a meta anni ’60 per riprendere la penna in mano soltanto a metà degli anni ’70. Rimase attivo, sia sul piano creativo sia su quello giornalistico, durante gli anni che separano le date di pubblicazione dei due romanzi7. Tuttavia, ciò che si commenta e la preistoria effettiva del libro, ovvero come arrivo alla sua versione definitiva nel 1976. Quanto segue e la storia tracciata sulla fortuna di pubblicazione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, dalle prime apparizioni fino ad oggi. Testo e testi: variazioni e varianti. Nel numero luglio-settembre di «Nuovi Argomenti» del 1969, diretto da Alberto Carocci, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, appare per la prima 6 Le virgolette evidenzierebbero il passaggio citato da Le pietre di Pantalica fino a «una sfida verso il barone». In realtà, il passo da «C’e qui Consolo» a «una sfida verso il barone» non appaiono, come si è visto, in Le pietre di Pantalica. 7 Per la scrittura creativa, cfr. i racconti di quegli anni ora in La mia isola è Las Vegas (Consolo, 2012). Per quella giornalistica, anche se ne dà solo una visione parziale, Esercizi di cronaca (Consolo, 2013). Da non escludere sono anche gli articoli raccolti in Cosa loro. Mafie fra cronaca e riflessione. 1970-2010, (Consolo, 2017). Ed altri ancora, di vario argomento, risulta che ne siano conservati nell’Archivio Consolo. Volta un racconto dal titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio. A tutti gli effetti e ciò che diventerà il primo capitolo del futuro romanzo omonimo (Consolo, 1969: 161-174). Il racconto non presenta alcun antefatto o appendici. E di poco successivo, del 1975, un libro dallo stesso titolo con un’acquaforte di Renato Guttuso del famoso Ritratto d’uomo (edizione limitata in 150 copie). Il volume contiene i primi due capitoli di quello che sarà il romanzo che conosciamo (Consolo, 1975a). Corrado Stajano, amico di Consolo, avvalendosi di una celebre metafora pirandelliana, ha scritto un pezzo per Il Giorno per segnalare questa pubblicazione: Adesso Manusé ha esaudito il gran sogno della vita, e diventato editore e c’è la possibilità, dicono gli uomini di penna, che questo libro che ha stampato, […] possa creare un nuovo caso letterario. Perché qui si sono incontrate due corde pazze siciliane, quella di Manusé e quella dello scrittore del libro, o meglio dei primi due capitoli del libro pubblicato in questo volume, che gli editori, quando il romanzo sarà finito, certo si contenderanno, perché Il sorriso dell’ignoto marinaio e un nuovo Gattopardo, ma più sottile, più intenso del romanzo di Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia poetico, di venosa lava sanguigna e insieme razionalmente freddo nei suoi teoremi dell’intelligenza. (Stajano, 1975) La motivazione dell’articolo di Stajano sembra essere quella di voler forzare la mano di Consolo, spingendolo verso il completamento del romanzo. E anche notevole l’intento di fare pubblicità al romanzo futuro. Tuttavia, Stajano risulta anche molto ben informato del contenuto dei capitoli inediti e ciò suggerisce che al momento della pubblicazione della versione di Manusé la maggior parte del romanzo era già stata completata, o già comunque concettualmente concepita, e che Consolo ne stava discutendo apertamente con gli amici più fidati. Il romanzo completo, l’editio princeps, venne pubblicato l’anno successivo da Einaudi e fu accolto dagli elogi della critica (Consolo, 1976). Nel 1987 la Mondadori ne stampo un’edizione economica includendo una Introduzione firmata da Cesare Segre (Consolo, 1987). Nel 1991 Mursia pubblico una seconda edizione aggiornata dell’antologia di Leonardo Sciascia e Salvatore Guglielmino Narratori di Sicilia, che accoglie, con annotazioni, la prima sezione del capitolo I de Il sorriso (Consolo, 1991). Nel 1992 Einaudi ripubblico il romanzo (Consolo, 1992b) e nel 1995 ne apparve un’edizione scolastica, edita e annotata da Giovanni Tesio (Consolo, 1995).
Nel 1997 Mondadori ha pubblicato ancora una volta il romanzo insieme alla Nota dell’autore, vent’anni dopo (Consolo, 1997). Due successive riedizioni del romanzo sono state pubblicate sempre da Mondadori: la prima, nella collana Oscar scrittori del Novecento (Consolo, 2002); la seconda, in quella Oscar classici moderni (Consolo, 2004). Come si può intuire dalle date di pubblicazione, il periodo di gestazione de Il sorriso e stato decisamente lungo e in più va considerato che la versione originariamente pubblicata in «Nuovi Argomenti» differisce molto da quelle successive con una divisione in capitoli, anche perché parziale. Le varianti testuali tra le dieci versioni, edizioni e ristampe, databili dal 1969 al 1997, rivelano che Consolo ha rielaborato di continuo il suo testo. Che la maggior parte di esse siano quelle tra la versione di «Nuovi argomenti» e l’edizione del 1997, significa inoltre che Consolo ha ritoccato il testo dopo il 19768. Le varianti si diversificano per tipologia e importanza, partono dai più banali errori di battitura per arrivare alle sostituzioni e alle rielaborazioni di interi paragrafi. Questo di per sé suggerisce che il capitolo I e una sorta di workinprogress, un testo sempre compulsato dall’autore e completato da una serie di aggiunte accorpate nel corso degli anni. Lasciando da parte le fonti pubblicate, il cosiddetto emerso9, si può andare indietro fino al livello delle fonti precedenti alla pubblicazione e paratestuali che vanno a toccare il punto cruciale della genesi e gestazione del romanzo. Ho deciso di chiamarli pre-testi, nel senso che essi variano in tipologia, importanza e stato. Alcuni sono stati pubblicati e quindi dovrebbero rientrare nella categoria del paratesto, venendo così ad aumentare il nostro attuale bagaglio di nozioni sul romanzo. Pre-testi: genesi e gestazione Lo stato di incertezza che caratterizza i manoscritti autografi, i testi scritti a macchina, i saggi e gli altri “interventi autoriali”, con particolare attenzione alla gestazione del testo, sono noti. Anche il problema di datare il materiale presenta non poche difficolta. La tentazione, quando si ha a che fare con manoscritti e varianti testuali, e quella di sviluppare un approccio unilineare alla poetica dell’autore considerato; ascrivere a quell’autore certi presupposti fondamentali che tuttavia non sono facilmente verificabili. Nel caso di Consolo, al di là delle suddette edizioni del testo in forma di racconto e romanzo e dell’allettante realizzazione di varianti che intercorrono fra esse, esiste anche un ricco patrimonio di documenti non pubblicati. Nicolo Messina ha suggerito che sarebbe stato «illuminante, oltre che un’entusiasmante avventura, il poter penetrare grazie a un’edizione critica genetica all’interno della sua officina» (Messina, 1994: 40). Da allora, Messina si e imbarcato in questa avventura con una serie di articoli ispirati a un approccio filologico critico-genetico alle opere di Consolo, specialmente Il sorriso (Messina, 2005: 113-126). Oltre a ciò, Messina ha completato l’edizione critica del romanzo di cui si sentiva l’assoluta necessita e che è in sé stessa un vero capolavoro di critica-genetica10. Poiché Messina ha lavorato sui manoscritti e dattiloscritti, non mi ci soffermerò. 8 L’edizione del 1997 e il testo tenuto come base per lo studio di tutti gli altri, essendo la versione che ha ricevuto l’ultimo ne varietur dell’autore. Concordo in questo con Messina (2005: 121-124). 9 Ricorro alla denominazione di Messina (2005: 117-121). 10 Messina (2009). L’approccio critico-genetico di Messina e basato sui seguenti studi: Hay (1979), Degala (1988), Gresillon (1994), Tavani (1996) e Contat e Ferrer (1998). Ai fini del nostro discorso, pero, risulta assai significativo un dattiloscritto denominato Ds 2, o piuttosto le pagine che l’accompagnano (Ds 20), perché contengono una sorta di resoconto del futuro romanzo. In particolare, l’asserzione nella scheda Ds 20 che «sono due capitoli di un romanzo (capitoli o racconti autonomi, perché, nelle intenzioni dell’autore, intercambiabili e combinatori come carte da giuoco)», pone una serie di questioni che sono rilevanti per la genesi e la gestazione del testo. Ci sono numerose sovrapposizioni, intrecci tematici e corrispondenze lessicali tra i capitoli I e II del romanzo. Dal punto di vista strutturale, la narrazione di entrambi i testi e in parte focalizzata attraverso Mandralisca (capitolo I) e Interdonato (capitolo II) con corrispondenze tra i due. Il fatto che i capitoli I e II siano intercambiabili e combinatori, postula un’influenza di Italo Calvino sul metodo strutturale di Consolo, in particolare del saggio Appunti sulla narrativa come processo combinatorio (Calvino, 1995: 199-219). Nella spiegazione di Calvino dell’ars combinatoria tanti elementi avrebbero potuto colpire Consolo, non ultimi le citazioni da Strutture topologiche nella letteratura moderna di Hans Magnus Enzensberger11, Calvino tra l’altro afferma anche: La battaglia della letteratura e appunto uno sforzo per uscire fuori dai confini del linguaggio; e dall’orlo estremo del dicibile che essa si protende; e il richiamo di ciò che è fuori dal vocabolario che muove la letteratura. (1995: 211) E che Calvino nel saggio ritorni sul simbolo del labirinto dopo l’analisi fattane nel precedente La sfida al labirinto (1962), non avrà lasciato indifferente Consolo tutto preso dalla sua curiosa, personale concezione siciliana del labirinto in Il sorriso: cioè la chiocciola12. La questione della genesi del romanzo si può far risalire ancora più indietro, all’attività giornalistica di Consolo da metà degli anni Sessanta in poi. Al riguardo ci si può anche chiedere quale influenza abbia potuto esercitare il giornalismo sui suoi sforzi creativi. Per tanti aspetti il giornalismo consoliano e come un’istantanea dei multiformi interessi nutriti in quel tempo: letterari, artistici, politici e civili; e quando tutto ciò viene visto attraverso la lente de Il sorriso, ci si apre un’intrigante entrée nel mondo della sua attività creativa e poetica ancora in via di sviluppo. Consolo ha scritto per Tempo illustrato e, durante il suo primo periodo a Milano, ebbe una regolare rubrica intitolata Fuori casa nel giornale palermitano L’Ora13. Tuttavia, il suo rapporto con L’Ora 11 Avrà una diretta influenza su Consolo, si sa, il saggio di Hans Magnus Enzensberger (1966: 7-22). 12 Calvino (1995: 99-117) dove (116) si sostiene: «Quel che la letteratura può fare e definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che passaggio da un labirinto all’altro. E la sfida al labirinto che vogliamo salvare, e una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto». Consolo mette in scena la sua sfida al labirinto attraverso il personaggio secondario di Catena Carnevale in Il sorriso. 13 La rubrica, pubblicata dal dicembre 1968 al maggio 1969, e definita un piccolo gioiello» da Nisticò (2001: 113); e si può rileggere in Consolo (2013: 179-223). precede il suo trasferimento a Milano ed e indissolubilmente legata con le sue attività in Sicilia14. Nel 1965 e negli anni immediatamente adiacenti, un gruppo di intellettuali e scrittori cominciarono a frequentare il giornale, tra questi Sciascia, il fotografo Enzo Sellerio, lo scrittore Michele Perriera e Consolo stesso. Vittorio Nisticò, direttore de L’Ora nel periodo 1955-1975, ricorda con affetto la presenza e il contributo di Consolo in quegli anni 15. Nel 1966, a seguito dell’omicidio per mano mafiosa del leader sindacale socialista Carmine Battaglia a Tusa (provincia di Messina), Consolo scrisse un breve racconto ispirato all’uccisione, Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, pubblicato ne L’Ora (16 aprile) un mese dopo l’evento 16. Anche se non può facilmente e strettamente rientrare nella categoria del giornalismo, il racconto, come sostiene Sciascia, e «una sorta di reportage giornalistico» (Consolo, 1967b: 429), ed e forse la prova più significativa della scrittura creativa di Consolo dopo La ferita dell’aprile, perché presenta in forma embrionale alcuni elementi linguistici, strutturali e tematici che saranno precipui de Il sorriso. Consolo, senza dubbio, ebbe come modello Le parole sono pietre di Carlo Levi, in particolare la terza sezione in cui si narra la sua visita a Francesca Serio, la madre del sindacalista socialista Salvatore Carnevale, assassinato anch’egli dalla mafia (Levi, [1955] 1979). Non e una coincidenza che Consolo abbia firmato in seguito l’introduzione per una nuova edizione del “libro-indagine”, (Levi, 1979; Consolo, 1999a, 251-257) in cui scrive tra l’altro: A Sciara, Levi ha trovato, sul filo sottile che inseguiva della nuova coscienza contadina, il punto più vero e più alto della realtà siciliana di quegli anni. E più vero e più alto si fa allora il tono del libro: le pagine su Francesca Serio di commozione rattenuta dal pudore, di parole scarne e risonanti. (Consolo, 1999a, 256) Lo stesso senso di ingiustizia e indignazione permea Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, anche se nella storia di Consolo la figura della madre e abbattuta dal dolore e il compito di parlare viene lasciato alla figlia, «una giovane bellissima». All’inizio la incontriamo impegnata in un’attività che fa seriamente presagire le preoccupazioni testuali e metaforiche del futuro romanzo: «dietro i vetri di una piccola finestra, ricamava» (Consolo, 1967b: 432; Consolo, 2012: 20). Come personaggio, la figlia anticipa la figura liminale, altamente metaforica, 14 La prima collaborazione risalirebbe esattamente al 4 febbraio 1964, una recensione di Menabò, 6. Cfr. Salvatore Grassia, in Consolo (2013: 229-230). 15 Nisticò (2001: 113): «Amavamo di lui il garbo, la modestia, il senso di amicizia, gli accenni di sorridente ironia, non meno di quanto ci affascinassero i ricami della sua scrittura, la sua totale mediterraneità, quei fuochi improvvisi della sua passione letteraria e civile.» Il memoriale di Nisticò e senz’altro un affascinante resoconto di un giornale di sinistra in prima linea nella lotta contro la mafia in uno dei più difficili periodi storici. 16 Il racconto fu poi ripreso da Narratori di Sicilia, cit. [ed. 19671], (Consolo, 1967b: 429- 434); ora, col titolo Un filo d’erba al margine del feudo (Consolo, 2012: 18-22; 239). Sul caso Battaglia, cfr. Ovazza (1967) e Santino (2000: 232-233). della venticinquenne Catena del Sorriso, che nell’Antefatto il padre si augura di vedere «serena dietro il banco a ricamare» (Consolo, 1997: 11)17. Anche il cognome di Catena e intrigante: si chiama, infatti, Carnevale, nome che rafforza il legame con il “giovane”, ventiduenne, Salvatore del racconto e con la famiglia di Le parole sono pietre. La presentazione della giovane ragazza da parte di Consolo suggerisce a Traina «sviluppi successivi della narrativa consoliana», come «l’insistenza sul dettaglio cromatico e sull’immagine “rubata” dal passante, che si fa quasi, emblematicamente, quadro o fotografia». (Traina, 2001: 16). Questa tecnica di sospensione della realtà tramite l’immagine fissa, una forma di ipotiposi, e un aspetto prevalente della narrativa più tarda di Consolo. Il racconto di Consolo contiene inoltre una serie di espedienti e scelte lessicali che saranno ulteriormente ampliati nel romanzo. Ecco esempi di emergenza di scrittura “consoliana”, quale poi impronterà il romanzo: «Il sole batteva […] sulle pietre di via Murorotto e sul portale d’arenaria ricamata del Palazzo»; «[…] col suo castello sull’acqua smagliante e triangoli di vele sui merli» (Consolo, 1867b: 429 2 431; Consolo, 2012: 18-19). E successivamente, nel capitolo I de Il sorriso, leggiamo: «Vorticare di giorni e soli e acque, venti a raffiche, a spirali, muro d’arenaria che si sfalda […]»; «Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollano i lor merli di cinque canne sugli scogli» (Consolo, 1997: 12; Consolo, 2015: 132). Inoltre, va sottolineato che la predilezione di Consolo per la catalogazione o inserzione, soprattutto di toponimi, e presente in maniera decisa nel racconto. Entrando nella citta di Tusa, il narratore si mette a conversare con un «vecchio con lo scialle», che indica le montagne circostanti: «Motta» […]. E poi «Pettineo, Castelluzzo, Mistretta, San Mauro…» […]. Stesi io il braccio nel vuoto oltre la ringhiera e indicai il mare. «Quelle macchie azzurre sono isole, Alicudi, Filicudi, Salina… Più in là c’è Napoli, il Continente, Roma…» «Roma» ripeté il vecchio. Volse le spalle al mare e continuo a indicare verso le montagne, ora con un breve cenno del capo: «Cozzo San Pietro, Cozzo Favara, Fulla, Foieri…». (Consolo, 1967b: 430; Consolo, 2012: 18) Il nome di Roma non dice niente al «vecchio», egli ripete meccanicamente ed elenca rapidamente i toponimi del suo mondo, toponimi non registrati sulle mappe ufficiali, come se la loro enunciazione andasse a evocare una realtà diversa. Questo senso di “urgenza toponimica” e la sua sospensione sono ripetuti nel capitolo I del romanzo, dove ancora una volta l’elenco dei toponimi della costa tirrenica della Sicilia e predominante: «Erano del Calavà e Calanovella, del Lauro e Gioiosa, del Brolo…» (Consolo, 1997: 12; Consolo 2015: 128). L’antico passato greco di Tusa e evocato in una breve parentesi del racconto e anticipa il Consolo de Il sorriso: La valle declinava dolce fino alla balza d’Alesa (le sue mura massicce, l’agora, i cocci d’anfora e i rocchi di colonna affioranti tra gli ulivi, la bianca Demetra dal velo incollato sul ventre abbondante). (Consolo, 1967b, 431; Consolo, 2012: 19) 17 Il ricamo di Catena e una chiara metafora tessile del testo. Per ulteriori approfondimenti di questo aspetto consoliano, cfr. il mio saggio: O’Connell, (2003, 85-105). Genesi e scrittura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio 65 Il nome di Tusa deriva dall’arabo “Alesa al-tusah” (“Alesa la nuova”), quando l’antica città greca di Alesa perse il primato nella zona nella seconda meta del ix secolo, e il centro fu spostato verso il sito dell’odierna Tusa (Ingrilli, 2000: 56). Nel romanzo, Consolo sancisce una sorta di nostalgia antico-archeologica tramite l’esposizione di ulteriori elenchi toponimici: Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Calacte, Alesa… Citta nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni, fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. (Consolo, 1997: 13; Consolo, 2015: 128- 129) Oltre a manifestare le preoccupazioni più importanti del Mandralisca per l’archeologia e il suo rifiuto di affrontare la realtà contemporanea, nella fattispecie quel che si rivelerà essere un cavatore di pomice ammalato di silicosi, la frase si riferisce agli antichi toponimi greci della regione dei Nebrodi sulla costa tirrenica, alcuni dei quali erano già stati citati da Cicerone tra le città della Sicilia vittime di Verre: Tyndaritanam, nobilissimam civitatem, Cephaloeditanam, Haluntinam [Alunzio], Apolloniensem, Enguinam, Capitinam perditas esse hac iniquitate decumarum intellegetis. (Verrine, II.3, 103) Tuttavia nell’edizione del 1997 c’è una variante del testo: «Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Apollonia, Alesa…». Consolo ha chiaramente sostituito la diade Alunzio e Calacte con l’altra Alunzio e Apollonia con l’evidente intenzione di migliorare l’allitterazione della frase e ottenere un elenco alfabetico pressoché perfetto, e in tal modo ha rivelato che alcune rielaborazioni de facto hanno avuto luogo tra le due edizioni cronologicamente estreme dell’intero romanzo. Consolo suggerisce il motivo della sostituzione in un saggio celebrativo di Cefalù pubblicato nel 1999: «Nascere dov’erano soltanto echi d’antiche città scomparse, Alunzio Alesa Agatirno Apollonia, che con la loro iniziale in A facevano pensare agli inizi della civiltà» (Consolo, 1999b: 17). Le somiglianze sono evidenti e ci permettono di visualizzare i processi che hanno delineato la creazione di questo capitolo. Non e un caso, quindi, che questa invocazione alla lettera A, alla storia antica, alla storia seppellita sotto i toponimi odierni dovesse avvenire nella fase iniziale di un romanzo intimamente connesso tanto con ciò che la storia nasconde quanto con ciò che essa rivela. Apollonia, inoltre, si ritiene che fosse l’antico toponimo dell’odierna San Fratello, un paese che ha una funzione estremamente metaforica in gran parte delle opere di Consolo, non ultima Il sorriso18. Consolo sta, quindi, mettendo uno dei suoi marker, o 18 La citta e evocata, in vario grado, in La ferita dell’aprile (1963), Lunaria (1985) e nel racconto «I linguaggi del bosco», in Le pietre di Pantalica (1988). In particolare il sanfratellano, usato o semplicemente citato da Consolo a più riprese, sembra attirare l’attenzione dello scrittore per la natura e ricchezza di lingua “periferica”, voce di una cultura particolare in netto contrasto con la lingua omologata “centrale” cui ricorre la cultura dominante. Segnali, alludendo a qualcosa che acquisisce via via importanza con il procedere del racconto. L’evocazione di antichi toponimi era riapparsa invero in Le pietre di Pantalica, in quel Il barone magico che si avvale ancora una volta della toponomastica poetica e suggerisce con gli stessi toponimi (e qualcuno nuovo) non solamente una topografia autoriale personalizzata, ma anche la loro contiguità con l’atto di scrittura e gli inizi della parola: Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena, Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai primordi, alle origini della civiltà. (Consolo, 1988: 147; Consolo, 2015: 603) Il passo tratto da Il sorriso condivide anche somiglianze con un’altra opera d’impostazione storica parallela, I vecchi e i giovani di Pirandello: Via Atenea, Rupe Atenea, Empedocle… – nomi: luci di nomi, che rendeva più triste la miseria e la bruttezza delle cose e dei luoghi. L’Akragas dei Greci, l’Agrigentum dei Romani, eran finiti nella Kerkent dei Musulmani, e il marchio degli Arabi era rimasto indelebile negli anni e nei costumi della gente. (Pirandello, 1973: 163) Il suo stato di intertesto e ulteriormente rafforzato appena più avanti, nello stesso quarto paragrafo, quando Consolo sostiene: «Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni» (Consolo, 1997: 13; Consolo, 2015: 129). Le affinità tra il pirandelliano nome: luci di nomi e il consoliano nomi […], suoni, sogni sono degne di nota. Forse sarà più significativo che Per un po’ d’erba ai limiti del feudo anticipi la tendenza di Consolo a usare documenti storici come discorsi compensativi all’interno delle proprie narrazioni, una pratica più pienamente realizzata ne Il sorriso dell’ignoto marinaio19. Sul portone del municipio era scolpito lo stemma della citta: un grosso cane muscoloso sopra una torre, le zampe posteriori contratte, sul punto d’avventarsi, i denti scoperti. (1860: «In più luoghi, come a Bronte, a Tusa e altrove, i Consigli municipali, costituiti dai Governatori distrettuali, erano composti di elementi della grossa borghesia o dell’aristocrazia di proprietari terrieri, avversi alle rivendicazioni contadine e ai fautori e capi del movimento per la divisione delle terre demaniali»). (Consolo, 1967b: 432; Consolo, 2012: 20) La parte del passo in corsivo e tratta da un documento contemporaneo allo sbarco di Garibaldi in Sicilia e sottolinea un fondamentale fattore storico del Risorgimento in Sicilia: l’opposizione delle classi dominanti in Sicilia al decreto del 2 giugno 1860 «col quale Garibaldi ordinava la divisione delle terre demaniali mediante sorteggio a tutti i capi di famiglia sprovvisti di terra, riservando una quota certa ai combattenti della guerra di liberazione ed ai loro eredi» (Romano, 1952: 139). 19 Segre esamina la funzione narrativa di tale pratica consoliana, anche se l’attenzione del saggio e incentrata esclusivamente sui documenti storici riprodotti in appendice e non su quelli incorporati nel testo stesso (Segre, 2005: 129-138). L’amara ironia che scaturisce dall’inclusione del documento sottolinea il fatto che in 106 anni poco era cambiato nella vita e nelle aspirazioni dei diseredati. E, forse, per questa ragione che Sciascia nella storia scorge il «gioco gattopardesco delle forze della conservazione» (Consolo, 1967b: 429). Da parte sua, di fronte alla staticità del corso degli eventi, Onofri sottolinea che l’immobilita storica, sancita dal documento legislativo, «trova finale suggello nella letteratura, testimonianza abbastanza precoce di quello che possiamo definire il circolo ermeneutico consoliano» (Onofri, 1995: 232). Tuttavia, a permeare queste pagine e soprattutto l’impegno di Consolo a favore della giustizia sociale. Nel racconto, dunque, si possono ritrovare le tracce evidenti del suo primo tentativo di scrivere qualcosa sui paesi medievali additati da Piccolo, pero attraverso il filtro dell’impegno di matrice sciasciana, cioè della sua stessa volontà di abbracciare i temi della giustizia sociale e politica. Sulla questione dell’inserimento di documenti storici nel narrato, il primo capitolo del Sorriso offre un accattivante esempio del metodo di Consolo. E riscontrabile nel diciannovesimo paragrafo e da nell’occhio proprio per quel che rivela delle procedure narrative impiegate dallo scrittore nei suoi testi multiformi. Il paragrafo, presentato per la sua maggior parte in corsivo, suggerisce una citazione o, almeno, una condizione narrante alternativa, una voce o un punto di vista diversi. Nel romanzo, l’unico altro luogo in cui una vasta porzione di testo e riportata in corsivo e nel Capitolo v, Il Vespero, in cui il passo incastonato non in tondo e mutuato direttamente da I promessi Sposi di Alessandro Manzoni: e la descrizione del momento della conversione dell’Innominato piegata da Consolo a tratteggiare il “tempo” e le sensazioni del personaggio Peppe Sirna (Consolo, 1997: 106; Consolo, 2015: 204-205; Manzoni, 2002: 409). Tranne il corsivo non c’è nel testo nessuna indicazione che si tratti di una citazione manzoniana. Nessuna indicazione, né note a piè di pagina né richiami all’autore, soccorre il lettore, il quale non può far altro che accettare la stranezza del passo ed andare avanti con la narrazione. Il brano e interrotto dall’improvviso cambiamento di registro impresso da Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, che esclama: «Uh, ah, cazzo, le bellezze!» (Consolo, 1997: 20; Consolo, 2015, 134), poiché la sua immaginazione prende il sopravvento sul resto del paragrafo. Ciò che precedeva in corsivo, pero, non è un parto dei rimuginii del protagonista del Sorriso, ma un qualcosa di abbastanza strano ed estraneo, e il frutto del pensare altrui, benché sia la mente del barone Mandralisca a rievocarlo. Si ha un indizio nella frase finale del paragrafo: Avrebbe fottuto il Biscari, l’Asmundo Zappala, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pepoli, il Bellomo e forse il Landolina. Questo forse il Landolina e l’unica allusione, nel testo, ad una possibile fonte, anche se il lettore medio non ha modo né e in grado di saperlo. La parte in corsivo del brano, cioè i tre quinti del paragrafo, e, in effetti, una citazione diretta da una fonte che non sarebbe stata familiare per il Mandralisca, sebbene Consolo la abbia consultata come campione di stile di prosa degli intellettuali siciliani del tardo Settecento e del primo Ottocento. La fonte e proprio il Cavalier Saverio Landolina (1753-1814), figura dominante dell’archeologia siciliana all’inizio del xix secolo. La sua fama e la sua posizione di rilievo si dovevano alla scoperta della famosa Venere Anadiomene, fatta nel 1803 (Dizionario dei Siciliani illustri, 1939). Il testo in questione e da ricercare in una lettera datata 29 gennaio 1807 e indirizzata all’allora «Sopraintendente generale alle antichità», un certo Soratti Agnello, 1972: 218-219; Consolo, 1997: 19-20; Consolo, 2015: 134): Passando a visitare li monumenti del Tindaro ebbi il dispiacere di non ritrovare il più bel pezzo, che l’altra volta vi avevo ammirato. Erano due piedi con le gambe fino alle cosce di un giovane ignudo di elegantissimo greco lavoro, con un’ara dal lato sinistro ben ornata, di marmo alabastro bianco. Osservai ancora due grossi pezzi di marmo statuario, che insieme formavano il busto di un uomo di statura gigantesca; in uno dei detti pezzi si vede la corazza ornata di bassi rilievi, tra i quali si distinguano una bulla pendente sul petto con una testa molto crinita come si osserva in molte nostre medaglie. Dalla spalla destra era pendente sopra la mammella una fettuccia lavorata. Su la spalla sinistra era elegantemente rilevato il gruppo del pallio che doveva coprire le spalle. Sopra il ventre erano due ippogrifi. L’altro pezzo di marmo era il rimanente della corazza, cioè le fibule e le bulle pendenti sopra il sago che copriva le cosce le quali si vedono tagliate. Le bulle erano tutte figurate con varie teste di animali e qualcuna umana. L’esistenza di questi pezzi nel Tìndaro mi fa sospettare che potevano appartenere ad una statua dei Dioscuri, descritti sempre dai poeti in abito militare. Il brano di Landolina e citato pressoché alla lettera e le sole inter/estrapolazioni eseguite da Consolo vanno individuate nei tempi verbali e in quei segmenti del brano che si riferiscono al Landolina stesso. Questo tipo di intertestualità e abbastanza sconcertante per il lettore e, una volta rilevato, mostra il modo in cui si forgia lo stile di Consolo: testi dentro testi, siano essi citazioni poetiche di scrittori canonici o citazioni dirette da oscuri testi archeologici del xix secolo. La citazione letteraria diretta si può considerare ammissibile, se accettiamo che il punto di vista narrativo e qui quello del Mandralisca, com’e peraltro accertabile nel resto di questo capitolo iniziale, ma la citazione diretta da lettere di argomento archeologico e più problematica. Segre scrive che Consolo condivide con Gadda «la voracità linguistica, la capacita di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico» e, assecondando le riflessioni di Bachtin, aggiunge che il plurilinguismo di Consolo e anche «nettamente plurivocità» (Segre, 1991: 83-85). Al riguardo i commenti bachtiniani sull’enciclopedismo nel genere del romanzo sono rilevanti, specialmente in quelli da lui definiti romanzi della seconda linea. Questo tipo di romanzo tende all’enciclopedicità dei generi, e si avvale anche dei generi inseriti. Il fine principale e introdurre nel romanzo la pluridiscorsività, la varietà delle lingue di un’epoca. Scrive Bachtin che i generi extraletterari sono introdotti non per “nobilitarli” e “letteraturizzarli” ma proprio perché sono extraletterari, perché era possibile introdurre nel romanzo una lingua extraletteraria (persino un dialetto). La molteplicità delle lingue dell’epoca deve essere rappresentata nel romanzo (Bachtin, 2001: 218). L’uso sapiente di Consolo di mescolare generi letterari ed extraletterari contrassegna Il sorriso come un complesso romanzo polifonico. Tuttavia, la funzione di memoria qui e profondamente testuale e quindi comparabile a un palinsesto. Un altro brano altamente significativo di Consolo in questi anni Sessanta appare ne L’Ora ed e un pezzo dedicato a Lucio Piccolo. L’articolo intitolato Il barone magico celebra in apparenza l’impresa poetica di Piccolo (Consolo, 1967a)20. Il testo di Consolo sarebbe un pretesto per la presentazione di tre poesie inedite di Piccolo e un frammento della sua prosa Balletto in tre tempi: L’esequie della luna21. Come nel caso di Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, Il barone magico anticipa molto del futuro Sorriso, ma se l’attenzione nel racconto era imperniata sull’indignazione civile dell’autore, il pezzo su Piccolo vede un Consolo lontano dalle questioni politiche e, invece, fortemente immerso nelle potenzialità magiche della parola, radicate nella seduzione del testo poetico. Se il primo era sciasciano nei presupposti e risultati, il secondo e, in gran parte, piccoliano nella sua espressività. Queste tendenze conflittuali dovevano risolversi nell’intensa fusione della scrittura de Il sorriso, in cui Consolo stesso divenne, per Stajano, uno «Sciascia poetico» (Stajano, 1975). E – si potrebbe forse aggiungere – anche un “Piccolo impegnato”. Questi, poi, sono gli scritti di Consolo fino al momento del trasferimento a Milano nel 1968, scritti che rivelano chiaramente che egli aveva già in mente le coordinate del futuro romanzo. Non che il suo rapporto con il giornale palermitano si fosse concluso con la decisione di lasciare la Sicilia, anzi le collaborazioni di Consolo con L’Ora s’intensificarono e divennero più “tradizionalmente” giornalistiche. I temi affrontati per il quotidiano erano abbastanza diversificati e variavano dalla politica, alla cronaca, alla critica d’arte, alle interviste e recensioni, come anche ad alcuni saggi di produzione creativa. Nel 1975 Consolo torno in Sicilia a lavorare al romanzo e ricomincio a frequentare L’Ora. La testimonianza di Nisticò e interessante per l’attenzione prestata agli interessi poliedrici di Consolo e alle attività da lui svolte contemporaneamente alla scrittura de Il sorriso: Nei primi mesi del ’75 Consolo si trasferì per un po’ di tempo a Palermo. […] si butto con manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. […] Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a Il sorriso dell’ignoto marinaio: il capolavoro che da li a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione. A dicembre ne pubblicammo in anteprima un capitolo: la festa in casa del barone Mandralisca. (Nisticò 2001: 113-114) 20 La maggior parte del materiale dell’articolo costituisce la prima sezione del suo successivo «Il barone magico» (Consolo, 1988: 133-135). 21 Le poesie erano Plumelia, L’andito e quella che sarà poi intitolata Non fu come credesti per lo scatto. Un altro esercizio giornalistico con attinenza diretta alla formazione del capitolo i e un articolo, datato al 1970, fremente d’indignazione civile per le deplorevoli condizioni di lavoro dei cavatori di pomice dell’isola di Lipari. Originariamente intitolato «Il paese dei vivi pietrificati», fu pubblicato su Tempo illustrato, ma sotto altro titolo e solo dopo aver subito pesanti interventi modificatori (Consolo, 1970)22. Ancora una volta, affiora il primo capitolo del romanzo che si occupa del destino dei cavatori di pomice di Lipari e della strana malattia da cui sono affetti: la silicosi, popolarmente conosciuta come Male di pietra. L’articolo di Consolo e degno di nota, in quanto mette in risalto un misto di strategie del discorso significative anche per la sua poetica narrativa (Consolo, 1997: 177). Le preoccupazioni di Consolo sono molteplici, ma ciò che dà forza all’articolo e nel fondo la messa a fuoco della percentuale insolitamente alta a Lipari di malati di silicosi e della loro breve aspettativa di vita. Come chiarisce l’ignoto marinaio del romanzo, a provocare la malattia e l’estrazione della pietra pomice senza rispettare le più elementari misure di sicurezza. Consolo definisce le cave «un kafkiano teatro di vita penale dove si aspetta da sempre il messaggio dell’imperatore»23. E una sorta di altra controversia liparitana, ma diversa da quella della Recitazione sciasciana, in quanto lo sfondo non e settecentesco e Consolo vi delinea una storia dei cavatori di pietra pomice sull’isola a partire dal 1838, quando il monopolio e dato in appalto ad un francese di nome Gabriel Barthe. Lo scrittore si addentra nella battaglia giudiziaria tra questi e il vescovo di Lipari Giovampietro Natoli per il controllo delle miniere: il vescovo ottenne la proprietà delle terre, rifacendosi a un decreto del re Roberto I d’Altavilla datato 108424! E non mancano accenni alla moglie del Guiscardo ovvero Adelasia di Monferrato, evocata nel primo capitolo del romanzo e sepolta a Patti. Questa serie di informazioni a prima vista insignificanti permette a Consolo di presentare l’effettivo proprietario delle cave di pietra pomice al momento della redazione dell’articolo: la mafia, legata al finanziere Michele Sindona, nato a Patti 25. Tuttavia, che le condizioni di lavoro dei cavatori non fossero cambiate 22 Sono grato a Caterina Consolo per avermi fornito una copia dell’originale Il paese dei vivi pietrificati, composto da 5 cartelle battute a macchina con annotazioni e correzioni di mano dell’autore, e aggiunte vergate da Caterina Consolo: il toponimo «Lipari» (indicante il tema), la data di redazione: «settembre», e il futuro del testo: «[pubblicato non integralmente]». La cartella finale e datata: «3 settembre 1970». 23 «Il paese dei vivi pietrificati», cit., c. 3. Omesso nella versione apparsa in Tempo illustrato. 24 Consolo cita dal documento storico riportandolo ne «Il paese dei vivi pietrificati», ma il passaggio non compare in «Cosi la pomice si mangia Lipari». 25 Il banchiere Sindona fu una figura di spicco che ebbe contatti stretti con la mafia, leader politici italiani e la Loggia Massonica di Licio Gelli: la P2 (ben nota per gli scandali in cui fu coinvolta). Cfr. Renda (1998: 400-404); Lupo (1996: 262-271). L’editore di Tempo Illustrato soppresse evidentemente ogni riferimento a Sindona e al fatto che il manager dell’impianto Italpomice, Gebhart Raisch, era presumibilmente un ex Maggiore delle SS. dal 1852, anno dell’azione del primo capitolo de Il sorriso, e ben descritto nel pezzo che segue: Alle spalle di Canneto e il monte Pelato, il monte grigio-bianco con pomice con tra le gole radi cespugli verdastri. […] Gli operai sono dentro le gallerie sparsi qua e là per il costone. Con solo le mutande addosso, sotto questo sole di agosto, sono neri, piccoli e neri contro il bianco abbagliante. Sembrano ragni o scarafaggi che si muovono sopra una parete di calce o di sale. Dall’altra parte della strada vi è il burrone che precipita fino al mare. Dalla costa sì partono e vanno fino al largo snelli pontili neri, geometrici, sui quali scorrono i nastri trasportatori che riempiono le stive delle navi attraccate all’altro capo26. Il passo ha notevoli affinità con un altro del capitolo I de Il sorriso in cui Mandralisca svia il minuzioso esame di Interdonato permettendo alla sua immaginazione di proteggerlo dalla vista di uno di questi ‘cavatori’ e rivelando cosi che Consolo sta visualizzando la scena attraverso il filtro del suo testo: Al di là di Canneto, verso il ponente, s’erge dal mare un monte bianco, abbagliante che chiama si Pelato. Quivi copiosa schiera d’uomini, brulichio nero di tarantole e scarafaggi, sotto un sole di foco che pare di Marocco, gratta la pietra porosa col piccone; curva sotto le ceste esce da buche, da grotte, gallerie; scivola sopra pontili esili di tavole che s’allungano nel mare fino ai velieri. Sotto queste immagini il Mandralisca cercava di nascondere, di rimandare indietro altre che in quel momento (frecce di volatili nel cielo di tempesta migranti verso l’Africa, verdi chiocciole segnanti sulla pietra strie d’argento, alte flessuose palme schiudenti le vulve delle spate con le bianche pasquali inflorescenze…)27 Il paese dei vivi pietrificati e poi un esempio di come i processi creativi di Consolo abbiano chiaramente influenzato la sua scrittura giornalistica, in un’inversione di tendenza rispetto agli scritti per L’Ora fin qui considerati. Questi articoli dimostrano che Consolo stava riconsiderando i temi Risorgimentali da tanti punti di vista e in differenti prospettive. Un ultimo punto da trattare, attinente alla gestazione del romanzo, e quello degli scritti consoliani relativi, ovvero ispirati, all’arte figurativa. Questa scrittura differisce considerevolmente da quella della produzione giornalistica ed e fatta principalmente di presentazioni per mostre di artisti contemporanei. Una in particolare, manifestando l’innata vocazione di Consolo a usare forme metriche nella prosa, esercito una diretta influenza sulla gestazione del capitolo i. Il testo, intitolato Marina a Tindari, fu scritto per la mostra personale di Michele Spadaro tenutasi a Como presso la Galleria Giovio il 15-30 aprile 1972. Un centinaio di copie del testo della presentazione di Consolo venne pubblicato 26 «Il paese dei vivi pietrificati», cc. 2-3. La parte di testo in corsivo e stata omessa nell’articolo di Tempo illustrato. 27 Consolo (1969) e Consolo (1975a) presentano entrambi la variante precedente «sotto un sole di foco che pare di Morea». Consolo ha scritto un altro pezzo per Tempo illustrato (2 ottobre 1971) con il titolo «C’era Mussolini e il diavolo si fermo a Cefalù». L’articolo porta avanti un’indagine sulla residenza di Aleister Crowley a Cefalù nei primi anni venti del Novecento ed e il primo indizio del futuro Nottetempo, casa per casa (1992). nello stesso anno dal fratello dell’artista, Sergio Spadaro, insieme a un breve saggio (Consolo, 1972)28. In Marina a Tindari, dopo un’introduzione di prosa prelevata direttamente da Consolo (1969), seguono ventiquattro versi: Quindi

Adelasia, regina d’alabastro,
ferme le trine sullo sbuffo,
impassibile attese che il convento si sfacesse.
— Chi e, in nome di Dio? — di solitaria
badessa centenaria in clausura
domanda che si perde per le celle,
i vani enormi, gli anditi vacanti.
— Vi manda l’arcivescovo? —
E fuori era il vuoto.
Vorticare di giorni e soli e acque,
venti a raffi che, a spirali, muro
d’arenaria che si sfalda, duna
che si spiana, collina,
scivolio di pietra, consumo.
Il cardo emerge, si torce,
offre all’estremo il fiore tremulo,
diafano per l’occhio cavo
dell’asino bianco.
Luce che brucia, morde, divora
lati spigoli contorni,
stempera toni macchie, scolora.
Impasta cespi, sbianca le ramaglie,
oltre la piana mobile di scaglie
orizzonti vanifica, rimescola le masse.

(Consolo, 1972: 15-16)

Nel primo capitolo di Consolo (1975a) il paragrafo 14 e un chiaro esempio delle numerose aggiunte testuali di questa edizione. Il paragrafo e costituito proprio da questo testo in versi di Marina a Tindari, ricondotto, per così dire, all’originaria prosa del catalogo, e in questa forma interpolato tale e quale da Consolo in nell’edizione di 1975a29. Echi di T. S. Eliot, Salvatore Quasimodo e Piccolo sono evidenti sin da una lettura iniziale. Il dato significativo, pero, e che la poetica di Consolo comporti anche l’innesto di altri testi nel romanzo. Questo accorpamento non è solo una forma di autocitazione, ma un radicale spostamento di materiali testuali e potenzialità poetiche: cioè la nuova poetica 28 Consolo scrisse anche per la personale di un altro pittore: Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971. Il titolo della presentazione era, nota interessante, Nottetempo, casa per casa. Secondo Messina (2005: 123), il testo scritto per la mostra avrebbe avuto una diretta ripercussione nella costruzione del capitolo vii de Il sorriso, dove sarebbe stato rifuso. Cfr. Messina (2009: 390-393); e inoltre p. 592-621 e 623-627, con le anastatiche del catalogo di Spadaro e di Marina a Tindari, seguite da quella del catalogo di Gussoni. 29 La disposizione in versi e opera del curatore del libretto, Sergio Spadaro, che ha inteso cosi visualizzare i metri intravisti nella prosa consoliana per il catalogo originario. Per un’analisi delle forme metriche nella prosa di Consolo, cfr. Finzi e Finzi (1978: 121-135). di Consolo comporta l’accumulo di diversi testi di varia provenienza, siano essi giornalistici, creativi o di ambito saggistico, in uno spazio a meta fra il polifonico e il palinsesto di singolare gestazione autoriale. Inoltre, in questo particolare esempio, lo spostamento di materiali testuali investe il rapporto di Consolo con l’arte figurativa e le potenzialità proteiformi di parola e immagine. Altrove lo scrittore ha dichiarato: [.,.] io non ho mai scritto una recensione di tipo logico critico dei pittori. I pittori mi interessavano quando mi davano lo spunto per scrivere delle pagine di tipo lirico narrativo, ed allora poi utilizzavo queste presentazioni per scrivere quelli che io chiamo gli ‘a parte’, la parte del coro quando s’interrompe la narrazione. Queste digressioni di tipo lirico espressivo che i latini chiamavano ‘cantica’. (Consolo, 2006: 235) Questo tipo di poetici a parte o di elementi lirico-narrativi a carattere digressivo, sono presenti con maggior frequenza nell’opera più tarda di Consolo e vi assolvono una funzione decisamente corale. L’esempio dedotto dal capitolo i de Il sorriso rappresenta la prima apparizione di questa procedura unica nell’opera di Consolo, una procedura che suggerisce anche il suo ruolo epifanico all’interno della prosa. Non si tratta di un’ekphrasis nel senso stretto del termine, ma la fonte prima svolge una funzione ecfrastica nel suo accentuare l’articolazione del campo visivo. Cosi, queste fonti testuali, giornalistiche, saggistiche e creative, insieme alle varianti testuali, offrono un aiuto inestimabile per la ricostruzione del capitolo i de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Esse evidenziano i momenti salienti della gestazione e forniscono spunti di approfondimento delle preoccupazioni dell’autore; sono parte integrante dei processi creativi del romanzo e ampliano la nostra conoscenza degli aspetti oscuri dell’intero testo; soprattutto, ci permettono di vedere Il sorriso come un prodotto testuale degli anni attorno al 1960, periodo intimamente collegato agli anni di Consolo in Sicilia. Una volta a Milano, lo scrittore inizio l’arduo cammino di tracciare la forma del suo romanzo, di riunirvi tutti i disparati elementi di questo testo mutevole.


Daragh O’Connel

Bibliografia

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Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche»

Laura Toppan.

Nella conversazione  Le Pietre di Pantalica – uscita sul Corriere della Sera del 13 febbraio 1989 –, Consolo risponde che la sua «consonanza con Zanzotto è evidente». Una consonanza stilistico-formale, con la sola differenza che il poeta di Pieve di Soligo l’ha declinata in poesia e Consolo in prosa. Zanzotto è un poeta che egli ha «moltissimo amato e letto» e va da sé che la stima profonda fosse reciproca, a giudicare anche, come vedremo, dal tono della recensione di Zanzotto e dall’omaggio esplicito di Consolo allo stesso poeta ne Lo Spasimo di Palermo (1998). I due autori si sono frequentati poco, ma ‘studiati’ da lontano, con un’attenzione costante al lavoro dell’altro. Due autori profondamente diversi, ma animati entrambi dalla volontà di resistere alla mercificazione e alla corruzione del linguaggio e di tentare l’ardua impresa di restituire una dignità alla lingua letteraria attraverso la tradizione, rinnovandola e, in un certo senso, ‘stravolgendola’ anche, quella tradizione che il Gruppo ’63 cercava in qualche modo di ‘azzerare’ e da cui sia Consolo che Zanzotto si sentivano lontanissimi, seppur ne fossero incuriositi, e con cui si dovettero comunque misurare.

2Dal confronto / scontro con i “Novissimi” si sono quindi ‘sprigionati’ due percorsi molto originali, in linea più con il Pasolini (2000: 5-24) delle Nuove questioni linguistiche del ’64, che con i Neoavanguardisti del ’63. Nel suo saggio Pasolini non si proponeva di definire un modello ideale di lingua nazionale, ma si concentrava piuttosto su un’analisi socio-linguistica del contesto italiano del dopoguerra e in particolare degli anni del boom economico. Egli vedeva nell’italiano della nuova civiltà industriale delle trasformazioni portate dall’arrivo del lessico tecnico, tipico del settore industriale. In effetti, mentre dal dopoguerra sino agli anni Sessanta aveva prevalso piuttosto l’asse delle parlate Roma-Napoli, a partire dagli anni Sessanta in poi prevarrà soprattutto quello dell’asse Milano-Torino, polo industriale attrattivo per tutta una massa di persone provenienti dall’Est e dal Nord del paese. Pasolini registrava quindi la cessazione, per l’italiano, dell’osmosi con il latino e intuiva che la guida della lingua non sarebbe più stata la letteratura, ma la tecnica, che il fine della lingua sarebbe ora rientrato nel ciclo produzione-consumo. Contro queste trasformazioni Pasolini cerca di resistere, e così fanno Consolo e Zanzotto che, attentissimi ai mutamenti del cosiddetto italiano ‘standard’, si costruiscono un percorso tutto personale in materia di sperimentazione linguistica, di lingua poetica, diverso comunque anche dall’operazione dello stesso Pasolini. Lo scrittore siciliano infatti scriverà:

La mia sperimentazione […] non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettale di Pasolini o la degradazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico o una “plurivocità”, come poi l’avrebbe chiamata Segre (nell’Introduzione a Il Sorriso dell’ignoto marinaio), che mi permetteva di non adottare un codice linguistico imposto (Consolo 1993: 16)

  • 2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza (…)

Zanzotto, dal canto suo, in un’intervista dal titolo L’italiano siamo noi (otto brevi risposte)2 del ’62 osservava:

Il latino è oggi una faglia che s’apre nel terreno discusso dell’italiano, è più un richiamo agli Inferi (come i dialetti, seppure con diverso significato) che ai Superi. (Zanzotto 1999: 1104)

Il ’62 è anche l’anno della recensione di Zanzotto in cui prende distanza dai Novissimi (Zanzotto 1999: 1105-1113), oltre che della pubblicazione di IX Ecloghe, raccolta in cui la lingua inizia ad aprirsi agli inserti che derivano dal registro scientifico tecnologico (mucillagini, cariocinesi, geyser, anancasma, macromolecola) e che convivono con latinismi, arcaismi, recuperi danteschi e letterari in generale. Il latino, in particolare, interviene spesso a fungere da ‘mediatore’ tra il repertorio tradizionale e la terminologia tecnica (Dal Bianco 2011: XXV).

3Fin dai loro esordi letterari, quindi, sia Consolo che Zanzotto cercano di costruirsi una lingua poetica, una lingua della creazione che attraversi tutta la tradizione letteraria italiana ed europea (ed extra-europea) risalendo verticalmente sino alle origini della/e lingua/e, in un’immersione da cui poi le parole risalgano rigenerate o vengano riscoperte. Consolo spiegherà:

[le parole] le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. […] Quelle parole, irreperibili nei vocaboli italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati. (Consolo 1993: 54)

  • 3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’U (…)
  • 4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it (…)
  • 5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2 (…)

4Ma se la sperimentazione linguistica dello scrittore siciliano e del poeta di Pieve di Soligo – ormai due “classici” del secondo Novecento italiano – è un punto forte e comune, il loro percorso di vita è, potremmo dire, all’opposto. Consolo parte dalla Sicilia all’inizio degli anni Cinquanta per andare a studiare a Milano3, città che poi sceglierà per vivere e lavorare, anche perché «era la stessa in cui operava Vittorini, dove aveva passato circa un ventennio Verga nell’Ottocento e dove aveva avuto luogo la rivoluzione industriale»4, secondo le parole dello stesso Consolo in un’intervista per la R.A.I. della serie Scrittori per un anno. Il capoluogo lombardo diventa il luogo privilegiato da cui osservare la propria isola e il mondo, con continue partenze e ritorni tra Nord e Sud e frequenti viaggi all’estero, per quella sua necessità irrefrenabile di movimento spaziale, nel tentativo di capire e di interpretare i grandi eventi epocali: le nuove migrazioni, le ingiustizie, le connivenze, come il fenomeno mafioso a cui Consolo dedicherà molte riflessioni5. La scrittura diventa quindi un’arma per opporsi ai poteri, denuncia contro i mali del nostro tempo. Zanzotto, al contrario, rimane praticamente ‘stanziale’ per tutta la vita, se escludiamo brevi soggiorni a Milano e il periodo in cui partì per la Svizzera tra il ’46 e il ’47 per un’esperienza di lavoro: entro il perimetro geografico della sua Pieve, ai piedi delle Alpi trevigiane e attorniato dal paesaggio dei colli, egli osserva il mondo locale e globale, cercando di interpretarne i cambiamenti. Questo piccolo centro, la sua Pieve, ha rappresentato non il punto fermo di un universo in movimento, ma un luogo che il poeta ha visto ‘girare e muoversi’ secondo ritmi sempre più rapidi, sino a diventare quasi irriconoscibile, inghiottito dalla mostruosa conurbazione che va dal Garda al Friuli e che è chiamata «la Los Angeles veneta». In Consolo, invece, sarà la sua isola, la Sicilia, ad essere sempre il punto di partenza: «Io porto in me questo unico punto del mondo, questo paese» (Consolo 2014: 137-138), e aggiunge:

  • 6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014.

Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. (Consolo 2014: 135)6

  • 7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare (…)

E il narrare è da intendersi nell’accezione definita da Benjamin (2011) nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, per il quale il narratore è pre-borghese (rispetto al romanziere), è colui che «riferisce di un’esperienza che ha vissuto, è soprattutto quello che viene da lontano, che ha compiuto un viaggio» . Per Zanzotto, al contrario, Pieve di Soligo è il punto da cui allontanarsi ogni tanto, ma sempre centro del suo vivere. Nei mesi dopo il 25 aprile e durante l’estate del ’45, egli si reca più volte a Milano, compiendo il viaggio su convogli di camion partigiani che, dai paesi devastati della zona intorno al Piave, erano alla ricerca di viveri e di materiali, in assenza di una rete di rifornimenti. Nel ’46, al referendum per determinare la forma di governo che dovrà guidare l’Italia postbellica e che mobilita l’opinione pubblica, Zanzotto sostiene il voto in favore della Repubblica e si troverà in contrasto con la propaganda ecclesiastica. La direzione del collegio Balbi-Valier dove ha da poco ottenuto una supplenza, fa intendere ai dipendenti il gradimento per una scelta anche politica e Zanzotto quindi, terminato l’anno scolastico ’45-’46, decide di emigrare in Svizzera, dove rimarrà per più di un anno7. Una volta rientrato nella sua Pieve, inizierà da lì il suo percorso letterario, tanto che la definizione consoliana relativa ai tanti scrittori siciliani che avevano rinunciato alla ‘fuga’ dall’isola, ovvero che appartenevano ad una «letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33), può forse essere applicata anche all’opera del poeta del solighese. Nella conversazione con Calcaterra, Consolo affermava che «esiste una letteratura della distanza spaziale, o dell’esilio» (Calcaterra 2014: 33) e «una letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33): per lui, ancor più incisiva della distanza spaziale è la distanza intellettuale, poiché si riesce ad «affinare una grande saggezza e lucidità rispetto alle cose» (Calcaterra 2014: 32) e al mondo che si osserva. Lucidità che Zanzotto ebbe tutto lungo il suo percorso ‘scosceso’: pensiamo solo, a titolo di esempio, al volume In questo progresso scorsoio (Zanzotto 2009) in cui il poeta, dialogando con l’amico giornalista Marzio Breda, affronta temi capitali come le emergenze climatiche e le crisi ambientali, i conflitti per l’energia e i fondamentalismi religiosi, il ‘turbocapitalismo’ in panne e l’eclissi degli idiomi minori. Per Zanzotto, agli esordi del nuovo millennio, ci troviamo immersi in un tempo che «strapiomba», in cui si aprono nuove difficili sfide di cui a volte siamo addirittura inconsapevoli. Una certa teoria del progresso, sordida e indifferente all’etica, rischia così di portarci verso l’autodistruzione.

5Pur con dodici anni di differenza – Zanzotto nato nel ’21 e Consolo nel ’33 – entrambi vivranno in prima persona il trauma della Seconda Guerra Mondiale: Consolo prima da bambino, sotto i bombardamenti degli Americani sulla Sicilia nell’estate del ’43, in particolare a Palermo e a Messina; in seguito da sfollato, e poi tramite i giochi pericolosi delle bombe e delle mine disseminate sul territorio che lasceranno tracce indelebili nella sua memoria. Zanzotto invece, all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, è poco più che ventenne e partecipa in prima persona alla Resistenza veneta nelle Brigate di “Giustizia e Libertà” occupandosi della stampa e della propaganda del movimento. Si era formata la Brigata Mazzini che, pur essendo sotto il controllo del Partito Comunista, accoglieva anche altre forze antifasciste e Zanzotto, avendo deciso di non far uso delle armi, partecipò alla realizzazione di manifesti e fogli informativi. Nell’inverno del ’44 Pieve di Soligo diventa una sorta di campo di concentramento e il poeta viene reclutato a forza e inviato al lavoro coatto. Nel ’45 riprenderà l’attività partigiana di propaganda sulle colline e in quel periodo non scriverà quasi nulla, tranne qualche frammento diaristico e una poesia per i morti fucilati del paese (Zanzotto 1999: CXII). Gli scontri continuano sino al 30 aprile, data a partire dalla quale la zona viene liberata dalle truppe alleate e si avvia verso il processo di normalizzazione.

6Le tracce della guerra nei Nostri si trasmisero anche attraverso i padri: il padre di Consolo era stato in prima linea sul Carso nella Guerra del ’15-’18, mentre il padre di Zanzotto, pittore-decoratore, a causa delle sue posizioni apertamente antifasciste era dovuto partire per l’esilio in Francia nel ’25 e nel ’26 e, successivamente, a Santo Stefano di Cadore, in montagna. La Storia entra quindi violentemente nella vita dei due autori e segnerà profondamente la loro opera, anche per contrasto al fenomeno della cancellazione della memoria del nostro tempo che entrambi hanno denunciato in più occasioni in varie interviste. Consolo affermava che funzione della letteratura rimane quello di portare alla luce le verità nascoste, di svelare, smascherare, denunciare. Lo scrittore deve riscoprire la forza della parolaverticalizzare la scritturarenderla più possibile densa e pregna di significatitrovare strumenti più incisivi e graffianti, perché lo scandalo venga raccontato, la colpa denunciata, il misfatto scoperto, l’ingiustizia rivelata8. E il paesaggio da cui scaturisce questa parola è il testimone di questa ricerca: per Consolo è la Sicilia, con il suo Mar Mediterraneo carico di approdi e di tragedie; per Zanzotto è il Veneto, quello delle Prealpi sino alla Laguna e all’Adriatico, «luoghi ricchi di lontananze ed intrecci di tempo-spazio» (Zanzotto 2013: 142), li definisce il poeta ne La memoria della lingua, tanto che per lui:

muoversi, aggirarsi, stare […] in una di queste aree porta sempre un senso di sprofondamento, di peso sulle spalle, e insieme di spinta verso altri orizzonti, verso altezze atmosferiche e perfino stellari. (Zanzotto 2013: 142)

8Anche Consolo, probabilmente, ha avuto un senso di sprofondamento aggirandosi nella sua isola, ma è proprio da quel peso, paradossalmente, che si è mosso, che è partito verso un’avventura «archeologica» della lingua e della Storia siciliana, che è poi Storia italiana, europea, mondiale. Allo stesso modo Zanzotto, sin dall’infanzia, ha «avvertito gli spostamenti entro la geografia [veneta] come spostamenti nella storia» (Zanzotto 2013: 143), legati alla terra in modo radicale e ciò dovuto in parte «alla frequenza ossessiva delle commemorazioni della Grande Guerra» (Zanzotto 2013: 143). Di conseguenza egli si è «interiormente segnato un tracciato particolare, quello dell’ubicazione degli Ossari, che inneva la linea del Piave». Per il poeta di Pieve di Soligo, infatti:

una vera memoria è propria della lingua, prima ancora della letteratura, nelle profondità in cui diviene continuamente e continua ad essere ‘lingua nascente’ […] in contatto […] con la “fisica” antropologica e [la] geografia dell’ambiente, in continue interazioni. (Zanzotto 2013: 142)

Zanzotto cerca di recuperare la memoria della lingua e alla stessa impresa ha dedicato tutta la sua opera Consolo, come mette in evidenza Cesare Segre nel Profilo del Meridiano:

[egli] mostra […] che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportata alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato: da quella dei Greci delle colonie, e poi dei Romani, a quella dei poeti di corte sotto Federico II, sino a quella degli scrittori delle classi subalterne. (Segre 2015: XX-XXI)

Ecco allora che, attraverso il plurilinguismo, Consolo apre degli orizzonti verso i momenti significativi della storia siciliana: «archeologo della lingua» o «delle lingue», egli scava in altri dialetti siciliani e nell’italiano per riportare alla luce significati perduti, originari, con innesti da varie lingue. La sua sperimentazione si svolge sia sul piano della storia che della lingua nelle sue diverse stratificazioni (Domenico 2014: 53). E sempre secondo Segre:

ciò che tiene insieme questo plurilinguismo è un fatto musicale, [grazie alla] tecnica del pastiche [e al ricorso di] frammenti [di] altre [e numerose] lingue. (Segre 2015: XXI)

  • 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it

9Gianni Turchetta, inoltre, nella sua ricchissima Introduzione al Meridiano, evidenzia che «il dialetto siciliano è di norma italianizzato e l’italiano spesso sicilianizzato» (Turchetta 2015: XXXI), mentre in un’intervista Consolo precisa che in Sicilia esistono sette aree linguistiche di gallo-italico, ovvero dialetti che sono arrivati con i Normanni e quindi con residui di lombardo9. Di conseguenza:

gli strati siciliani della lingua di Consolo attingono ad un’impressionante molteplicità di varietà locali: [il] siciliano orientale, che ha più riconoscibili radici greco-bizantine […]: [il] sanfratellano, […] oltre al toscano, al napoletano e al milanese. (Turchetta 2015: XXXI)

  • 10 Il sabir era chiamata anche petit mauresqueferenghi‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse u (…)
  • 11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni (…)

Si tratta di «lacerti di lingue vive e morte, corrette o deformate: il greco classico, il latino classico, liturgico e medioevale, il francese, lo spagnolo, l’inglese, l’arabo, il sabir10» (Turchetta 2015: XXXI), che è la lingua franca del Mediterraneo. Diamo qui solo qualche esempio11: per il latino della liturgia, «Regem venturum Dominum / Venite Adoremus / Ecce Dominus veniet, et erit in die illa lux magna» (FA: 8); per il greco, «Agios o Théos / Agios ischirós / Agios athanós, / eléison imás» (FA: 76); «chiocciola, kochlías nella lingua greca, còchlea nella latina» (S: 235); per il francese, «Montesquieu, nel suo essé titolato Esprit des lois» (R: 445); per lo spagnolo, uno dei personaggi principali, Doña Sol, è spagnola: «También, Madre de Dios?! Hombre sin nervio, debilidad, ságoma sin vida, sombra sin consistencia, ausencia, lástima de mi vida, cojón de algodón!» (L: 278); per l’inglese, «(Broccolino, Broccolino), che alla lunga identificai con Brooklyn» (PP: 493); per un mélange di francese e di arabo, parlato da un tunisino in Sicilia, «E l’alìve? Sitròn e alìve. E tomasso, pecorino ‘o puavr’». (PP: 502); per l’arabo, «Inshallah» (R: 440) e per un dialogo a più lingue (PP: 569):

«Alò» gli fece uno dei giovinotti per rompere il silenzio e l’imbarazzo. «Hallo» gli rispose Robert. «Do you speak english?» Silenzio dall’altra parte. «Habla español?» Silenzio. «Parlez-vous français?» «Moi, je parle français» rispose il Piancimòre. «Êtes-vous allé en France?» «Non, je suis allé en Belgique, à travailler, dans les mines» «…» «Et êtes-vous américain?» «Non, non, je suis hongrois, mais j’habite en France.» «Ah, la France, le pays de Prudhon et de Victor Hugo!» escalamó il Pinciamòre. «Oui, de Proudhon, de Hugo et bien d’autres…» rispose Robert ridendo apertamente. Ma capì subito di fronte a chi si trovava, e pensò, guardando la faccia del suo interlocutore, ai contadini catalani di Durruti, ai duri minatori delle Asturie. «Dites-moi, était-il de ce pays le cardinal Mazarin?» chiese il francese. «Bah, ici il n’y a jamais eu un cardinal, mais seulement des prêtres, des religieuses et des capucins. Nous en avons déjà assez!» Robert gli tese la mano sorridendo e l’altro gliela strinse. «Au revoir» disse «au revoir» «Au revoir» rispose il Pinciamòre «Vive la France!» «Oh…Vive le monde tout entier!» disse Robert. (Consolo 2015: 569)

10Consolo ricorre poi a una pluralità di termini appartenenti ad una lista impressionante di settori, quali «la pesca, la marineria, la botanica, l’agricoltura, la zoologia, la cucina, l’architettura, la tessitura, la medicina e l’astronomia» (Turchetta 2015: XXXII), solo per citarne alcuni, e in questi «impasti linguistici, la lingua di Consolo lavora sistematicamente e progressivamente sugli estremi» (Turchetta 2015: XXXII), passando dall’aulico, all’iper-letterario al registro più basso e familiare («il bambino con la testa a vaporino grufolava per terra, agitava le mani e tirava sgrigne soffocate», FA: 51; «sulle ginocchia e sul didietro», FA: 13; «ci dissero cacati e, per l’invidia, ci presero a sfottò», FA: 15; «o stronzo, o merda!…e calci e cinque franchi», FA: 15; «Si vede nu cazzu!», S: 152), e anche se con il tempo il suo sperimentalismo vira verso il tragico, il registro comico, ironico, rimane comunque sempre presente come sottobosco; quell’ironia che fa capolino sin dal primo libro, La ferita dell’aprile: «Puressa, puressa, primavera di bellessa» (FA: 13); «zanglé…sta piova, lesanglé, non inglesi, ma normanni», (FA: 24). E il carattere predominante nei saggi critici e nella poesia di Zanzotto, come per esempio ne La Beltà, raccolta uscita nel 1968 in pieno boom economico, è proprio l’ironia, che si trasforma in aperta comicità o in sarcasmo (come nel componimento Sì ancora la neve: “per voi bimbi con diritto / e programma di pappa, per tutti / ferocemente tutti, voi (sniff sniff / gnam gnam yum yum slurp slurp: / perché sempre si continui l’«umbra fuimus fumo e fumetto»); «colorini più o meno truffaldini») (Zanzotto 2001: 240).

11Il plurilinguismo di Zanzotto, inteso come la messa in opera di elementi appartenenti a diverse lingue e di una pluralità di voci, dialoganti o meno, può esser considerato, secondo Jean Nimis, «una delle caratteristiche ‘fondanti’ della poetica dell’autore» (Nimis 2018: 23). Si tratta di un fenomeno ancora in nuce fino a Vocativo (’57), che diventa esplicito a partire dalla raccolta IX Ecloghe (’62), per poi prendere tutta la sua forza ne La Beltà (’68), ne Gli sguardi i fatti e i Senhal (’69) e in Pasque (’73), in cui la commistione di lingue, linguaggi e voci genera una musicalità molto particolare, ovvero «quel grain de la voix di cui parlava Roland Barthes» – suggerisce Nimis (2018: 23) – e che contraddistingue la poetica zanzottiana. A questa raccolta si deve aggiungere anche il Filò (del ’76), in un dialetto intessuto della koiné veneta. La poesia di Zanzotto è stata una vera e propria «esperienza di linguaggio» – secondo una formula di Stefano Agosti – e dunque un’esperienza sul e nel linguaggio e possiamo attribuire la stessa formula al lavoro letterario di Consolo, che ha realizzato un’escursione a largo raggio verso le origini del linguaggio.

12Anche il plurilinguismo di Zanzotto, come quello di Consolo, riguarda l’uso di varie lingue: l’italiano; il latino, che secondo Dal Bianco, dalla raccolta Vocativo (1957) in poi rappresenta la lingua della Storia, con tutta la sua portata di terrore, soprattutto quando è accompagnata dal lessico scientifico (Dal Bianco 2018: 41); il dialetto, che è la lingua dell’inconscio, la lingua materna e della madre (l’uso del dialetto in Zanzotto esplode dopo il ’73, ovvero dopo la morte della madre), ma che ad un certo punto, in Idioma (1986), diventa la lingua dei morti; il greco, in particolare quello dei Vangeli e di San Paolo, utilizzato quindi come lingua dell’alterità massima, della Natura; il francese, che in genere compare in citazioni letterarie; il tedesco, che è la lingua dell’abbrutimento nazista e al tempo stesso il sublime di Hölderlin – uno dei modelli più alti in poesia –, quindi lingua «dell’antiumano e della somma umanità» (Dal Bianco 2018: 41-43); l’ungherese, che entra nell’ultima raccolta, Conglomerati (2009), in particolare nel componimento Silvia, Silvia, là sul confine… (Zanzotto 2011: 1041-1042), dedicata alla figlia del poeta Cecchinel, morta in giovane età, che studiava lingua e letteratura ungherese all’università di Venezia («Jó estét, kisasszoni!», che significa «Buonasera Signorina!»).

  • 12 Breda 2012: 3.

13Dal Bianco osserva che, a partire dalla trilogia di Zanzotto ch’egli ha definito «dell’Oltremondo» (Dal Bianco 2018: 43), ovvero Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009), gli inserti delle varie lingue a cui ricorre Zanzotto giocano in un certo senso al ribasso, ovvero ad un «abbassamento di registro». Alle lingue già citate si aggiunge l’inglese, la lingua disprezzata (perché in Italia è quella della pubblicità, della mercificazione) ma che negli anni Ottanta, dopo un lungo periodo di depressione e di afasia, sorge dal profondo per la composizione di pseudo-haiku: Zanzotto dirà che fiorivano spontaneamente, come degli zampilli improvvisi provenienti da qualche luogo recondito della psiche, da un fondo oscuro e fangoso, quasi delle bolle, a testimonianza del fatto che nonostante il deserto doloroso della malattia, un’oasi salvatrice, una fonte di creazione esisteva ancora. Nel saggio Europa, melograno di lingue, il poeta definisce l’inglese «una lingua vulcanica, […] che non può non stimolare alle grandi arrampicate» (Zanzotto 2011: 45), e il suo è un inglese petèl, come lui stesso l’ha definito, ovvero quello dei bambini piccoli che iniziano a parlare: ricorrendo ad elementi minimi della fonologia inglese, Zanzotto spiega «che gli pseudo-haiku gli si congegnavano un po’ alla volta, si coagulavano quasi da sé, grazie alla spinta allitterativa così caratteristica di questa lingua» (Zanzotto 2011: 45). Egli aveva provato a tradurre quei frammenti in italiano, ma restavano in qualche modo sminuiti; e si era anche industriato a tradurli in francese, ma senza grandi risultati e quindi vi aveva rinunciato. Gli riuscivano bene in inglese e non sapeva nemmeno lui bene il perché: partiva forse da una citazione molto conosciuta e da lì nasceva un vero haiku. Solo in un secondo momento li tradurrà in italiano e verranno pubblicati postumi in edizione bilingue negli Stati Uniti: Haiku for a season / Haiku per una stagione (Zanzotto 2012)12.

14La lingua poetica di Zanzotto ricorre inoltre, come la prosa consoliana, a vari lessici specifici appartenenti a numerosissime e svariate discipline, come la medicina, la psicanalisi, la botanica, l’astrofisica, la matematica, l’astronomia, la geologia, l’ottica, oltre ad elementi espressivi connessi all’uso dei linguaggi, come il balbettio rappresentato, gli ideogrammi, i disegni e gli scarabocchi (qualificabili tutti come «iconografie»), i disegni e i collages che accompagnano i testi (cfr. Dal Bianco 2011). E molto importante è anche la dimensione sonora, ove i segni sulla pagina bianca sono da considerarsi come delle ‘scansioni’, dei ‘segnali metronomici’, delle ‘pause’: indicazioni ritmiche per un’interpretazione musicale. Il suo procedere mette in atto un dispositivo sonoro molto denso, costituito da onomatopee, spezzoni di enunciati in diverse lingue, serie di versi dal tessuto ‘acustico’: ora rumoroso, ora sussurrante, ora quasi bisbigliato. Lo stesso Montale aveva definito il poeta di Pieve di Soligo «un poeta percussivo» (Montale 1968: 338). Anche in Consolo, seppur con procedimenti diversi, vi è una «tensione verso la pronuncia fisica [delle parole] e dunque [un’]evocazione permanente dell’oralità» (Turchetta 2015: XXXV), anche perché legata ad una lingua che ha in sé una forte teatralità, quindi che ben si presta alla recitazione. E ricordiamo anche la pratica di riportare melodie e canti popolari in Consolo, così come filastrocche, proverbi e modi di dire in dialetto in Zanzotto.

15Entrambi gli autori, inoltre, scrivono quella che è stata definita una trilogia o, nel caso di Zanzotto, una «pseudo trilogia», secondo le parole dello stesso poeta: un connubio di lingua e storia, le due componenti fondamentali nell’opera dei Nostri.

16La trilogia di Consolo comprende il Sorriso dell’ignoto marinaio (’76) ambientato nel periodo del Risorgimento, un momento di grandi speranze e di grandi delusioni; Nottetempo, casa per casa (’92), che mette a confronto l’avvento del fascismo, segnato da un’estrema violenza tra Cefalù e Palermo attraverso le vicende della famiglia Marano e, allo stesso tempo, con l’Italia degli anni Novanta, dell’avvento della destra; e Lo Spasimo di Palermo (’98) che mette in luce le collusioni tra il potere politico e la mafia con le stragi degli anni Novanta.

17Anche la trilogia di Zanzotto è legata alla Storia, ma comprende un arco temporale che parte dalla grande tragedia popolare della Prima Guerra Mondiale con la prima ‘anta’, Il Galateo in Bosco (’78), nella prospettiva di rivitalizzarne la memoria nel presente. Il Bosco è quello del Montello, a sud di Pieve di Soligo, visto dal poeta come un’enorme pattumiera che r-accoglie i sedimenti organici e inorganici del processo naturale, i resti dei picnic dei villeggianti assieme alle ossa dei soldati della Grande Guerra, il cumulo delle tracce lasciate dall’uomo nei secoli. Questo Bosco rimasto quasi intatto, seppur sfruttato, nei secoli venne distrutto dopo l’Unificazione, nelle varie battaglie che portarono, nel ’18, alla vittoria italiana contro l’Austria-Ungheria. Le tracce di questa tragedia sono rimaste nella terra, tanto che la topografia della zona segna la linea degli Ossari nel Montello (Tessari 2009). Parecchi titoli dei componimenti – come indica Zanzotto in una Nota – sono tratti da parole o frasi del Bollettino della Vittoria e questo è un procedere anche di Consolo, che si spinge forse ancora più in là riportando in alcuni casi, nei suoi romanzi, stralci di documenti inediti consultati in archivio, con quella sua preoccupazione di verità e soprattutto di dar voce a chi non ne ha avutaGalateo è un codice di comportamento, espressione delle regole che presiedono al vivere civile, ma che storicamente si sono incarnate nella retorica del potere e nella volontà di dominio sull’uomo e sulla natura; è il Galateo overo de’ costumi che Giovanni della Casa scrisse probabilmente negli anni in cui si ritirò nell’abbazia di Sant’Eustachio, presso Nervesa, nel trevigiano, tra il 1551 e il 1555 (e pubblicato postumo nel 1558). Ambiguo e lacerato è lo statuto della poesia: da una parte si rivolge al bosco come unica fonte di sostentamento e speranza di vita autentica, dall’altra si riconosce nelle istanze razionalizzanti del Galateo, poiché memoria stratificata nel codice letterario. Al centro della raccolta vi è l’Ipersonetto (16 sonetti), che sta ad indicare l’elezione di un codice altamente letterario, ma ‘stravolto’, poiché vi è la tendenza del poeta ad incorporare grafismiideogrammisimboli matematicidisegni naïf, a volte con valore di notazioni musicali, influendo quindi sull’intonazione degli enunciati; a volte con funzione di semplice “commento” al testo; a volte con funzione di “disturbo” o monito, poiché manifestazioni del “rumore” della storia e del mondo contemporaneo.

18In Fosfeni (dell’83), il paesaggio è quello a nord di Pieve di Soligo e il carico di responsabilità sulla lingua poetica aumenta progressivamente, mentre in Idioma (dell’86) – la terza ‘anta’ della Trilogia – il centro geografico è la Pieve del poeta, un paese che è come un giardino devastato qua e là, una mappa, un palinsesto. La necessità di una presa di coscienza della distanza presente da ciò che ci costituisce in quanto passato è certamente uno dei principi guida della trilogia. Idioma contiene i Mestieròi, una sorta di ‘museo d’ombre’ in dialetto solighese, e una vecchia canzoncina satirica locale, I putèi del Mulineto, e vi è l’espressione queimada brasilèira, con cui Zanzotto denuncia il fatto di bruciare le foreste per coltivare il terreno (ciò’ è legato all’emigrazione veneta in Brasile alla fine del XIX secolo). Ma anche la foresta del Montello era stata abbattuta nell’82 per poter coltivare il terreno. In questo processo di nominazione (da Idioma, appunto) entra sempre la Storia e un esempio ne è la poesia intitolata Il nome di Maria Fresu, dedicata a una ragazza letteralmente polverizzata dalla bomba della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, tanto che si dubitò a lungo se fosse realmente tra le vittime: ridotta unicamente al suo nome:

E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni
rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp. (Zanzotto 2011: 700)

La necessità di registrare gli accadimenti passati e più recenti ritorna costantemente nell’opera di Zanzotto e Consolo, ma nell’ultima ‘anta’ della trilogia dello scrittore siciliano è presente il rischio dell’afasia, rappresentata dal protagonista Gioacchino Martinez, dietro cui si cela lo stesso Consolo, uno scrittore che non scrive e non vuole più scrivere, nemmeno le dediche sui propri libri. Questo silenzio è causato dall’esigenza di dire una verità e dalla constatazione dell’impossibilità di farlo. L’afasia qui  si accentua, testimone anche della coerenza e del coraggio del percorso letterario di Consolo: Decise di scuotersi, di fare, dar mano al proposito, da tempo accantonato, d’indagare sulla prigionia in Algeri di Cervantes e a quella, insieme, d’un poeta di qua dialettale, Antonio Veneziano. Sarebbe riuscito forse a scriverne, scrivere d’una realtà storica, della pena vera di due poeti, fuori da ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti, maggiormente il veneto rinchiuso nella solitudine d’una pieve saccheggiata – tutt’ossa del Montello questo mondo – «Le tue ecloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vi grava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante e la seconda ancor più ardua, scoscesa…’ questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sua sponda d’un antico Mediterraneo devastato13. (Consolo 2015: 953-954)

Il «veneto» è chiaramente Zanzotto che, «rinchiuso nella sua solitudine», registra i mutamenti di Pieve di Soligo e la dissacrazione del paesaggio che lo circonda dovuta alla cementificazione e al disboscamento; «le tue ecloghe» fa riferimento alla raccolta del ’62, IX Ecloghe, e la «puella pallidula vagante» è citazione appunto da IX Ecloghe, in particolare dal componimento:

13 settembre 1959 (Variante)
Luna puella pallidula,
Luna flora eremitica,
Luna unica selenita,
distonia vita traviata,
atonia vita evitata,
mataia, matta morula,
vampirisma, paralisi,
[…] (Zanzotto 2011: 171)

19Ritorna il tema della luna – che ha tanto affascinato Consolo tanto da comporre Lunaria (1985) – legato ad una serie di nominazioni provenienti da diversi campi linguistici: selenita, che in astronomia è tutto ciò che è in rapporto con la luna; distonia, che è l’alterazione del tono muscolare; l’atonia, che in linguistica è la mancanza di accento e in medicina la perdita del tono muscolare; la mataia, che deriva dal greco e significa folle, stolta; morula, che in biologia è la fase con cui ha inizio il processo di sviluppo di un embrione e infine vampirisma, che deriva da vampiro, spettro che esce dalle tombe la notte. «La tua lingua prima balbettante» è invece il dialetto di Zanzotto, mentre «la seconda ancor più ardua, scoscesa» è l’italiano. In questo passaggio, che possiamo considerare un omaggio di Consolo al poeta di Pieve di Soligo, l’io narrante aborre il romanzo e lamenta di non avere il dono della poesia, che per lo scrittore siciliano rappresenta

un’esigenza primaria dell’uomo. Se non ci fosse la poesia, se si estinguesse il canto, l’umanità rischierebbe parecchio, perché la poesia ha la capacità di risorgere, rifiorire inaspettata, riapparire anche nei luoghi più imprevedibili. In Italia rimane certamente la forma letteraria più irriducibile (perché meno mercificabile), continua a possedere un genuino nucleo di forza espressiva e verità. (Calcaterra 2016: 66)

Da questa concezione alta della poesia, deriva anche la prosa ritmica di Consolo e l’omaggio esplicito a Zanzotto va de soi, forse perché, come suggerisce Massimo Onofri, egli è:

abituato a lavorare sull’ideologia per alchimia sintattica, fermento lessicale, combustioni prosodiche […] dentro una «metrica della memoria» proprio come Consolo, senza compromessi. Entrambi hanno fatto della forma una questione di sostanza (Onofri 2004: 193-199).

  • 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RA (…)

20Ricordiamo inoltre che nella seconda metà degli anni Settanta, Consolo realizzerà per la RAI il documentario dal titolo Una giornata di Iseo Tesser. Dentro e fuori una mostra sulla cultura contadina veneta, nato dall’esposizione Settecento anni di costume nel Veneto per la regia di Raoul Bozzi. La sceneggiatura è di Consolo, mentre l’intervistatore è Andrea Zanzotto, che parla con Iseo Tesser, un mezzadro sulle terre dei principi di Collalto (il ramo italiano degli Hohenzollern), ultimo di una famiglia che esercita quel mestiere da secoli14. Questo lavoro è testimonianza dell’attenzione dei due scrittori per i mestieri legati alla terra e la storia, nei secoli, di determinati territori, in particolare quelli delle loro regioni, che rappresentano sempre il punto di partenza.

21E veniamo ora alla recensione di Zanzotto alle Pietre di Pantalica, (Zanzotto 2001: 308-310):

Questo libro è costituito come da un terriccio fresco di apporti estremamente variati […]. L’autore sta chino, tra schifo ed entusiasmo, tra gioie segrete o paralizzanti perplessità, a scrivere un suo brogliaccio del tutto particolare [ed] è sempre un rivolgersi ai molti […] è quasi una preghiera […]. Il libro risulta quasi riportato al suo carattere di strato vegetale, […]. […] all’orizzonte, [vi sono] quelle entità che sono i toponimi, liberi suoni che finiscono per dire di più proprio a chi non può riconoscervi i luoghi. […] trasudano succhi e sapori le parole che denotano piante, strumenti, oggetti, scorrenti tra dialetto, italiano e manuale scientifico, spesso e in diversi modi obsolete, e con un tale aroma-afrore (odore penetrante e acre) di memoria, o perfino di necessario vuoto-di-presenza, da non far muovere la mano di chi legge verso vocabolari e simili.

Ma il momento più alto del libro è […][il] fascinoso imperio linguistico di Amalia: che trascina (l’amico) […] iniziandolo alla vita vera e forse anche alla vita vera della scrittura che egli svilupperà da adulto. (Zanzotto 2001: 308-310)15

Zanzotto, così attento alla lingua, alle parole, in particolare a tutti i nomi di piante, di fiori, di alberi, al paesaggio in generale e a quello del bosco in particolare, e così ‘funambolo’ nell’invenzione linguistica (pensiamo alla fantasia linguistica de Il Galateo in bosco del ’78), non poteva non apprezzare, sopra tutti, il magnifico racconto consoliano Il linguaggio del bosco, tanto che alla fine della sua recensione scriverà:

Consolo chiude improvvisamente, o meglio lascia il discorso su una storia marinaresca (vera) se mai ancora più cupa, […], [m]a non può disperare l’autore di quest’opera tanto amara quanto abbarbicata a quella minima letizia che viene dal sentire in cuore il pullulare di una lingua che fa di per sé sopravvivere. (Zanzotto 2001: 308-310)16

Ci sembra importante sottolineare che per la scrittura di Consolo si è parlato di “palinsesto” (‘O Connell 2010: 42-66), un termine che si riferisce al codice di pergamena su cui, raschiata la prima scrittura, si può scrivere un nuovo testo e dove l’originale rimane in trasparenza: così l’ipertesto si innesta nell’ipotesto. Zanzotto, nel 2001, pubblica la raccolta Sovrimpressioni e il primo significato del titolo è il riemergere di parole, di storie e di figure antiche di un tempo ormai lontano, ma confuso-fuso con quello reale. Il titolo deve quindi essere letto in relazione al ritorno di ricordi e di “tracce scritturali”: il poeta registra il degrado del paesaggio della sua amata terra, esprime la propria amarezza e lo fa rivivere, in dialetto, attraverso il ricordo di figure ‘mitiche’ del suo passato, già incontrate nella sua opera (come la Maestra Morchet o l’agricoltore Nino). Il modo di procedere è personalissimo, ma delle convergenze sono riscontrabili nell’idea di traccia, di recupero di modelli letterari, fatti storici, immagini di persone che hanno segnato in qualche modo il loro percorso.

22Questo studio si propone quindi come un primo contributo all’analisi comparativa di due autori che sono accomunati da un forte interesse per la sperimentazione linguistica e da una poetica comune, pur nell’estrema diversità dei risultati e dei generi praticati. Lo sforzo di recuperare dall’oblio pezzi di Storia, Consolo e Zanzotto l’hanno investito tutto nella lingua, e anche nei momenti più terribili, più tragici, quando la tentazione di abbandonare l’impresa era forte, da un degré zéro della pagina bianca hanno sempre continuato, nonostante tutto, l’entreprise, forti di un valore prima di tutto etico, che estetico, della letteratura e della lingua.Haut de page

Bibliographie

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Zappulla Muscarà S., Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone.Haut de page

Note

2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza di diritti, ma non meno tra parentesi che gli altri fenomeni. […] si rende impossibile salvare, attraverso tanto legittimo disamore, qualche cosa che alluda, almeno, all’amore, ne isoli l’immagine per assurdo».
3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’Università. Intervenne mio fratello: ‘Lo mandiamo a Milano all’Università Cattolica’. Io felice. Vincenzo si iscrive quindi a Giurisprudenza alla Cattolica di Milano: Vi sono approdato non per convinzioni religiose ma casualmente, perché avevo il desiderio di lasciare l’isola e conoscere il famoso continente. Il continente per noi siciliani era una sorta di mito».
4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2010, ovvero poco prima di morire. Ora riuniti in Consolo 2017.
6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014. I corsivi sono nostri.

7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare. Da amici trevigiani apprende che in Svizzera si può trovare un impiego: gli segnalano in particolare un posto di insegnante presso il collegio della cittadina turistica di Villars sur Ollon, nel Vaud, sulle montagne sopra Losanna, dove prende servizio nel mese di settembre. L’ambiente si dimostra alquanto opprimente, sia per una singolare figura di direttrice-padrona […] sia perché viene impiegato per supplenze e lezioni innumerevoli in tutte le materie, compresa la matematica. Rimane in Svizzera quasi un intero anno scolastico, poi è costretto a rientrare per essere operato di appendicite e per il successivo mese di convalescenza. Al ritorno in Svizzera decide di abbandonare il collegio tra i monti e si stabilisce a Losanna, dove l’atmosfera è ben più vivace. […] è disposto a fare il barista e il cameriere […] viene in contatto con i seguaci di Swedenborg. Rientrerà in Italia alla fine del’47 all’aprirsi di nuove prospettive per l’insegnamento». Di questo periodo svizzero inizierà a scrivere, in francese, nel Cahier Vaudois, rimasto però incompiuto e a tutt’oggi inedito. 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
10 Il sabir era chiamata anche petit mauresqueferenghi‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse una storpiatura del catalano saber; lingua franca, invece, deriva dall’arabo lisān-al-faranğī. Il secondo termine è in seguito passato ad indicare qualsiasi idioma che metta in contatto parlanti di estrazione diversa. Questa lingua ausiliaria serviva a mettere in contatto i commercianti europei con gli arabi e i turchi, ed era parlata anche dagli schiavi di Malta, dai corsari del Maghreb e dai fuggitivi europei che trovavano riparo ad Algeri. La morfologia era molto semplice e l’ordine delle parole molto libero. Per supplire alla mancanza di alcune classi di parole, vi era un largo uso di preposizioni e di aggettivi possessivi e aveva un numero limitato di tempi verbali (il futuro, per esempio, si creava usando il modale bisognio, il passato con il participio passato). Il primo documento in lingua franca risale al 1296 (Compasso da Navegare). Nel 1830 viene pubblicato a Marsiglia il Dictionnaire de la langue franque ou petit mauresque, suivi de quelques dialogues familiers et d’un vocabulaire de mots arabes le plus usuels; à l’usage des Français en Afrique, manuale scritto in lingua francese in occasione della spedizione francese in Algeria per la conquista di Algeri (è l’inizio della colonizzazione francese che si sarebbe protratta fino al 1962). Veniva così alla luce un idioma alquanto misterioso, usato dai secoli medievali nel Mediterraneo come mezzo di comunicazione tra cristiani di lingua romanza da un lato, arabi e poi turchi dall’altro. Doveva servire ai soldati francesi per imparare e conoscere la lingua sabir. Nell’Impresario delle Smirne, Goldoni inserisce un personaggio che si esprimeva in lingua franca. Cfr. Francesco Bruni, https://web.archive.org/web/20090328135757/http://www.italica.rai.it/principali/lingua/bruni/lezioni/f_lll5.htm.

11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni, seguite dal numero di pagina: Ferita dell’aprile (FA), Il sorriso dell’ignoto marinaio (S), Retablo (R), Le pietre di Pantalica (PP).
12 Breda 2012: 3. 13 I corsivi sono nostri. 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RAI 1 la sera del 10 luglio 1977.

Référence papier

Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches, 21 | 2018, 183-198.

Référence électronique

Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches [En ligne], 21 | 2018, mis en ligne le 07 octobre 2021, consulté le 20 septembre 2022. URL : http://journals.openedition.org/cher/1269 ; DOI : https://doi.org/10.4000/cher.1269

Vincenzo Consolo con Luigi Meneghello “Laurea honoris causa” Palermo 20 giugno 2007

Cosa Loro. Mafie fra cronaca e riflessione, Vincenzo Consolo

*
Vincenzo Consolo, Cosa Loro. Mafie fra cronaca e riflessione. 1970-2010,
a c. di Nicolò Messina, Milano, Bompiani, 2017, pp. 315. Nel mantenere la visibilità di Vincenzo Consolo dopo la sua morte avvenuta nel 2012, il curatore del presente volume, Nicolò Messina, ha avuto un ruolo importante, anche grazie a La mia isola è Las Vegas (Milano, Mondadori, 2012), organica sistemazione di brevi scritti, racconti li chiamava lo scrittore (tra cui alcuni preziosi inediti), che coprono un arco di più di cinquant’anni. Un rapido censimento dei testi consoliani, pubblicati dopo il 2012, non può naturalmente prescindere dal Meridiano (L’opera completa, Milano, Mondadori, 2015) curato da Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre. Ma vanno comunque citati anche gli Esercizi di cronaca, una raccolta di articoli pubblicati su L’Ora di Palermo, a cura di Salvatore Grassia, con prefazione di Salvatore Silvano Nigro (Palermo, Sellerio, 2013); gli Accordi, versi inediti, a cura di Claudio Masetta Milone  (Sant’Agata di Militello, Zuccarello, 2015) e sempre in ambito poetico le 4 liriche, 77 esemplari numerati con acquaforte originale di Luciano Ragozzino (Milano, “Il ragazzo innocuo”, 2017). Oltre ad alcune interessanti conversazioni”: Conversazione a Siviglia a cura di Miguel Ángel Cuevas (Caltagirone, Lettere da Qalat, 2016) che rimanda a Conversación en Sevilla, sempre a cura dello stesso (Sevilla, La Carbonería, 2014) e Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor (Bologna, “Ogni uomo è tutti gli uomini”, 2016). Per finire, le prose brevi di Mediterraneo. Viaggiatori e migranti (Roma, Edizioni dell’Asino, 2016). Cosa loro consta di sessantaquattro articoli scritti tra il 1970 ed il 2010, due anni prima della morte, pubblicati su diverse testate giornalistiche (L’Unità, Il Messaggero, Il Corriere della Sera, L’Ora, L’avvenire), su riviste (Linea d’Ombra, Euros) e su pubblicazioni di diversa natura, libri collettanei, ecc. Chiude il libro un’appendice
nella quale il curatore dell’edizione, Nicolò Messina, fornisce utilissime informazioni storiche e filologiche sui diversi pezzi, alcuni dei quali ha potuto collazionare con gli originali, dattiloscritti o manoscritti. Il titolo, Cosa loro, intende apportare, mediante lo scambio del possessivo, una modifica, di certo non solo grammaticale, alla definizione vulgata di “Cosa nostra”, per segnalare, si legge in una nota introduttiva, «un sistema da cui prendere senza compromessi le distanze e da contrastare indefettibilmente ». Consolo lo ha fatto nel corso di tutta la sua vita in quanto, ammetteva, «non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo» («Memorie», ora in La mia isola…). In un articolo apparso su L’Ora nel 1982 («I nemici tra di noi», Cosa loro) proclama infatti che «la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione; che è lotta politica, lotta per la nostra civiltà». Così Consolo “impugna” la scrittura per fare la sua parte. Scrive, come dice in «Un giorno come gli altri» (La mia isola…) perché la
scrittura «può forse cambiare il mondo». Con il narrare, invece, che è l’altro versante della sua ispirazione, il mondo non lo si cambia, lo si descrive soltanto. Negli articoli ora riuniti in Cosa loro, Consolo adotta quindi una “scrittura di presenza”, ossia una prosa militante che vibra fino ad innalzarsi alla liturgia indignata della riscrittura di un Dies irae da Requiem eseguito il 27 marzo 1993 nella cattedrale di Palermo per ricordare le stragi in cui persero la vita i giudici Falcone, Borsellino («soldati in prima linea » come li definisce), le loro scorte ed i congiunti («Dies irae a Palermo»). La “scrittura di presenza” assume, in certi scritti, la connotazione fisica dell’inviato speciale che segue “in diretta” le vicende che descrive: così ritroviamo lo scrittore al processo di Milano contro Michele Pantaleone nel 1975, querelato ma poi assolto, per aver denunciato un soggetto mafioso o a Comiso («Ero anch’io là, quella primavera del 1982, là a Comiso» – proclama con orgoglio – per protestare contro l’installazione di missili Cruise nella base della Nato. Ma l’intervento più solenne per un inviato speciale mandato in prima linea è quello al “maxiprocesso” del 1986: 475 mafiosi in gabbia. «Anch’io, in quel piovoso mattino del 10 febbraio del 1986, ero nella famosa, avveniristica, metafisica aula-bunker», afferma lo scrittore con
l’orgoglio di chi assiste, sono ancora parole sue, «al più grande psicodramma della storia siciliana, della storia nazionale». A cui seguirà purtroppo la tragica sequela di Capaci e di Via Amelio, nel 1992. Di Giovanni Falcone, a cui sono dedicati diversi articoli ed uno straziante necrologio, Consolo ha un ricordo personale: si conoscono ad una cena in casa di amici comuni e lo scrittore non può fare a meno di notare la tragica solitudine di quel commensale taciturno con «quell’aria triste di uomo “con toda su muerte a cuestas”», dice citando Federico García Lorca. Anche Falcone, come Ignacio Sánchez Mejía, era già avviato verso l’irreparabile destino. Consolo traccia la linea genealogica degli scrittori «siciliani e no» militanti: a cominciare dall’archetipo ottocentesco, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, i primi che denunciarono, nella famosa inchiesta del 1870, l’esistenza della mafia e l’arretratezza della Sicilia. Seguono, più vicino a noi, il già citato Michele Pantaleone che passò dalla scrittura all’azione, raggiungendo il record di quaranta querele mossegli da presunti mafiosi, Danilo Dolci, con i suoi scritti e le sue inchieste e soprattutto Leonardo Sciascia che «come Sherlock Holmes – è il titolo di un articolo del 1994 – scende nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Leonardo Sciascia è inevitabilmente per il nostro scrittore una sorta di nume tutelare. Ma anche per «quel grande illustratore dell’Italia di ieri e di sempre» che risponde al nome di Alessandro Manzoni, Consolo dice di nutrire una grande ammirazione. Del tutto diversi i giudizi di Consolo su alcuni  prestigiosi scrittori siciliani; quali Luigi Capuana, Giovanni Verga, e soprattutto Giuseppe Tomasi di Lampedusa. All’autore de Il sorriso dell’ignoto marinaio non poteva naturalmente andare a genio l’affresco storico de Il Gattopardo, definito peraltro come un «sentenzioso romanzo» che cerca di occultare con l’enfasi delle famose parole pronunciate da Fabrizio Salina, («Noi fummo i Gattopardi
e i Leoni; quelli che ci sostituiranno […]» eccetera eccetera..), le complicità
dell’aristocrazia siciliana nell’avvento delle iene in futuro odore di mafia. Ma il
«principe di Salina – si legge ne I nostri eroi di Sicilia del 2007 – ignorava o voleva
ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si
erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermo a passare il tempo tra feste e balli. Vogliamo dire che la mafia dei gabellotti, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni. Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, ignorava questo?».  Sotto la “scrittura di presenza” che cerca di «cambiare il mondo», circolano, nei diversi capitoli di Cosa loro, frammenti dell’altra vena, narrativa, dello scrittore, che il curatore del libro, profondo conoscitore dell’opera di Consolo, individua puntualmente nell’appendice. Il frammento più solido è, a mio avviso, quello relativo ad un episodio che prende forma in un articolo del 1991 per raggiungere poi l’elaborazione definitiva nel racconto «Le lenticchie di Villalba» del 2000 ( La mia isola…) e rientrare successivamente nella “scrittura di presenza” nel 2004 con il titolo significativo di «Prima educazione alla legalità». Nell’articolo apparso su Linea d’ombra nel 1991, troviamo infatti l’embrione del futuro racconto di un episodio che Consolo dice di narrare per la prima volta, «risalente –precisa – a poco meno di cinquant’anni or sono […]». C’è una colpa, confessa ironicamente lo scrittore, da cui intendo liberarmi: «io
sono stato in casa a Villalba, del famoso capomafia don Calogero Vizzini, [non solo] ho avuto in dono, dallo squisito personaggio, un torroncino di sesamo e un buffetto sulla guancia». «Racconto com’è andata», precisa, quasi per avvertire che dalla scrittura militante sta scivolando in quella narrativa della memoria. «Era l’estate del ‘43», così ha inizio l’episodio. Consolo, a quell’epoca aveva dieci anni, viaggiava in camion con il padre, commerciante di cereali, per racimolare generi alimentari che scarseggiavano. A Villalba, in provincia di Caltanisetta, riescono a rifornirsi di derrate tra cui le lenticchie per cui era famosa la cittadina. Dopo aver caricato il camion, stanno per partire ma vengono bloccati da un maresciallo dei carabinieri che proibisce loro di trasportare la merce. Gli consigliano di ricorrere a don Calò che in effetti sblocca la situazione, li fa partire ed in più regala il torroncino al piccolo Vincenzo. Seguendo la cronologia delle lenticchie arriviamo al racconto del 2000 che ha un finale da un punto di vista etico, più pertinente: niente dolci e buffetti sulle guance del bambino e soprattutto c’è il padre che rifiuta la protezione mafiosa di don Calò, fa scaricare il camion e durante il viaggio di ritorno fa notare al figlio che «in questi paesi ci sono persone che comandano più dei marescialli». E lo invita a raccontare l’episodio «in un bel copiato» che Consolo metterà per iscritto quasi sessant’anni dopo. Nell’articolo del 2004, intitolato, come si è appena detto, «Prima educazione alla legalità», l’episodio non può che riconfermare il finale sancito nel racconto del 2000, con una messa a fuoco piu ravvicinata del losco personaggio che il padre definisce senza mezzi termini “capomafia” ed ancora l’invito, quasi un lascito morale al figlio, a raccontarlo a scuola in un “copiato”. Una curiosità lessicale: il ritratto di don Calò attraversa diverse varianti iconografiche: nel 1991 («Mafia e media») è descritto come un «vecchio, imperioso, compassato»; nel 2000 («Le lenticchie…»), è semplicemente «un vecchio con gli occhiali e il bastone» mentre nel 2004 («Prima educazione alla legalità ») viene bollato definitivamente come «un vecchio laido e bavoso». In altre circostanze lo scambio tra scrittura e narrazione (anche di taglio saggistico) procede all’inverso, nel senso che è questa a fornire alla prosa militante, atmosfere, spunti o addirittura interi brani contenuti nei romanzi. Così l’«Invettiva» del 1992 nei giorni successivi all’assassinio di Giovanni Falcone («Adesso odio il paese,
l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… Odio finanche la lingua che si parla…»), è una citazione – è lo stesso Consolo a confermarlo – del coevo romanzo Nottetempo, casa per casa. Continuando questo rapido inventario, sempre sotto la guida attenta del curatore del volume, troviamo Al di qua dal faro come fonte ispiratrice dell’articolo «Sciascia come Sherlok Holmes nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Per quanto riguarda la città di Palermo (in «I fantasmi di Palermo») essa è bersaglio di invettive, «Palermo è fetida» e «Questa città  è diventata un campo di battaglia», che provengono rispettivamente da Le pietre di Pantalica e Lo spasimo di Palermo. Attraverso gli articoli di Consolo ripercorriamo quarant’anni di una tragedia nazionale di corruzione e di morti ammazzati che ha il suo apice con l’attentato a Falcone ed a Borsellino: dopo la loro morte, possiamo dire con lo scrittore che «non siamo stati più gli stessi». Ai registri usati da Consolo nei diversi capitoli del suo lungo “copiato”, si deve aggiungere anche quello comico-grottesco in cui agiscono personaggi come Salvatore (Totò) Cuffaro (governatore della regione siciliana), il suo successore, Raffaele Lombardo, e dulcis in fundo Silvio Berlusconi. I primi due sembrano maschere della commedia dell’Arte. A Cuffaro (rinviato a giudizio per «rivelazione di notizie riservate e favoreggiamento» che, sia detto per inciso, approfittò della reclusione per scrivere una tesi di laurea sul sovraffollamento delle carceri) Consolo attribuisce una illustre ascendenza, nientemeno che Sancho Panza: come il personaggio di Cervantes è, afferma lo scrittore, governatore dell’Isola di Baratteria e come lui potrà affermare, alla fine del suo mandato: «nudo son nato e nudo mi ritrovo». L’elemento farsesco è suggerito dalla sua ghiottoneria: nei diversi “cammeo” che gli sono dedicati nel volume, da «Totò il buono» (2004) fino a «Totò se n’è juto» (2008), è raffigurato come un cicciottello in estasi «davanti a una enorme cassata siciliana». Il menù della sua voracità comprende anche altre leccornie come «cannoli, cassate e mammelle di vergine». Anche il suo successore Raffaele Lombardo eredita il debole per la pasticceria ed in effetti, dice Consolo, scivola pure lui «su un vassoio di cannoli» e sull’accusa di concorso in associazione mafiosa. Lombardo inoltre si è fatto portavoce dell’annoso assioma
secondo il quale a parlare della mafia si infanga la Sicilia. E se la prende pure
con chi a suo avviso l’ha denigrata: la lista include persino Omero, per aver rappresentato lo stretto di Messina nelle fogge mostruose di Scilla e Cariddi, poi Garibaldi, Verga, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa. Si salvano invece Camilleri e curiosamente lo stesso Consolo verso cui Lombardo manifesta una grande ammirazione. Al che lo scrittore in persona prende divertito la parola per esprimere la propria sorpresa: «Ohibò! […] se il Lombardo avesse letto qualche libro di Consolo, se ne sarebbe accorto che razza di denigratore della Sicilia è questo scrittore!». Il cast del grottesco si chiude con Silvio Berlusconi, «l’anziano uomo truccato, quello che secondo Pirandello susciterebbe, come la vecchia signora “goffamente imbellettata”, l’avvertimento del contrario il quale crea a sua volta la comicità». In un contributo ad un libro su don Pino Puglisi, sacerdote assassinato dalla mafia nel 1993, intitolato «La luce di don Puglisi nelle tenebre di Brancaccio», lo scrittore si chiede se la Sicilia e l’intero paese siano, per usare un’espressione di Sciascia, «irredimibili». La risposta è lui stesso a formularla in un intervento successivo in cui si sofferma, a mio avviso, in modo enigmatico sulla soglia della parola “utopia”: «Sì –risponde all’intervistatore che gli chiede un messaggio di speranza – come scrittore, devo dare speranza. E la do, credo la speranza, come gli altri, con la scrittura. Il grande critico letterario russo Michail Bachtin affermava che il romanzo critico nei confronti del contesto storico-sociale è romanzo utopico: vale a dire che esso, narrando il male sociale, fa immaginare il bene, indica la società ideale».

Cuadernos de Filología Italiana
Giovanni Albertocchi
Universitat de Girona

Vincenzo Consolo, dal sorriso allo spasimo: l’impossibile romanzo


Lise Bossi

Lo Spasimo di Palermo può essere considerato l’ultimo romanzo di Vincenzo Consolo, anche se può sembrare «abusivo» classificarlo in questo genere letterario dato che l’opera si presenta come la conclusione di una riflessione e di un lavoro di scrittura che non riconoscono alla narrazione romanzesca, nella sua accezione e nella sua forma classica, la capacità di rendere conto del mondo, di ordinarlo e di dargli un senso. Nelle sue opere precedenti, grazie a un nuovo logos, Consolo ha tentato di sostituire un nuovo epos alle Grandi Narrazioni individuali e collettive – confiscate dai Padri, e più generalmente dal potere – allo scopo di porre le basi di un nuovo ethos. Qui si è voluto esplorare l’ipotesi secondo la quale Lo Spasimo di Palermo sarebbe insieme la forma più estrema di tale tentativo e l’ammissione del suo fallimento, almeno in questa forma. Forse perché non basta uccidere i Padri – siano essi simbolici, politici o letterari – perché i figli si possano salvare.


Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto,

impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in

una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale

ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio.

(Consolo 2000: 105)

2 «Si tratterebbe del racconto dei tre fallimenti della storia unitaria. Nel primo, sarebbe rappres (…)

1 Abbiamo scelto di incamminarci sulle orme di Consolo, lungo la traiettoria esistenziale e letteraria da lui percorsa, seguendo i titoli delle tre opere che costituiscono quello che egli stesso ha chiamato «Il ciclo dell’Italia unita» (De Gregorio 2013)2, una traiettoria che va quindi dal sorriso risorgimentale allo spasimo degli anni Novanta attraversando la notte buia del Ventennio fascista. Ci è parso ovvio infatti che, alla stregua di tutte le scelte stilistiche di Consolo, la scelta di quei titoli non fosse e non potesse essere gratuita: attraverso quei titoli ci veniva offerta una strada per arrivare fino all’ultima sua opera, Lo Spasimo di Palermo (Consolo 2000), cioè fino all’ultima tappa di un lungo e doloroso viaggio, fino agli ultimi frammenti, alle ultime parole troncate e stroncate di una conversazione nostalgica e metaforica con e sulla Sicilia.

2 Allo stesso modo, non poteva essere e non è gratuito il fatto che Consolo apra Lo Spasimo di Palermo, quel libro che porta quindi il dolore iscritto nel proprio titolo, con una citazione tratta dal Prometeo incatenato di Eschilo, in cui Prometeo, colui che viene martoriato per aver portato la luce, ossia, metaforicamente e ulissianamente, virtute e conoscenza al genere umano, dichiari che «il racconto è dolore ma anche il silenzio è dolore» (Consolo 2000: 7). Questo incipit fa sorgere un certo numero di domande poiché, com’è risaputo, un incipit – e Consolo, autore di un saggio sulle Epigrafi (Consolo 1999b), più di ogni altro lo sa e lo mette in pratica – fornisce indicazioni sul significato, se non sul contenuto, dell’opera che apre.

3 Una domanda, per cominciare, sull’ambiguità della dichiarazione di Prometeo, prima delle tante e senz’altro volute ambiguità che troveremo nel testo di Consolo non appena si tratterà di racconto o, meglio, di narrazione. Tale dichiarazione significa infatti che il raccontare è doloroso quanto o più del tacere, oppure che, quando si tratta di esprimere il dolore, il silenzio è efficace quanto o più del racconto?

4 Nella prima ipotesi, l’incipit ci induce a pensare che il racconto sia una specie di male minore al quale per lo scrittore sia stato giocoforza rassegnarsi pur di non incorrere nel dolore maggiore che sarebbe potuto derivare dal silenzio. Nella seconda ipotesi, lo stesso incipit ci porta a pensare che il silenzio non sia meno adatto del racconto a dire il dolore, ma anzi, possa esserne l’espressione più alta e compiuta. Se accolta, questa seconda interpretazione implica che il dolore, lo spasimo, che, come la sciasciana linea della palma, si dilata «da Palermo, alla Sicilia, al mondo» (Consolo 2000: 112), si può dire facendo a meno del racconto. Ovvero, se proseguiamo fino in fondo con il ragionamento, ciò significa che Lo spasimo di Palermo è un non-racconto nei cui silenzi viene detto il dolore prima dell’opera, e il dolore espresso nell’opera s’inabissa definitivamente nel silenzio. Il che, se guardiamo alla bibliografia di Consolo, corrisponde esattamente alla realtà, giacché, dopo Lo Spasimo, egli non ha effettivamente più scritto nessun racconto, romanzo o anti-romanzo.

5 Queste prime constatazioni ci permettono, tra l’altro, di capire perché Lo Spasimo di Palermo si configuri insieme come un testamento e un tombeau letterario. Un testamento, perché l’opera si chiude proprio con una lettera in forma di bilancio personale e intellettuale scritta dal protagonista al proprio figlio; ma anche di bilancio dall’autore al proprio lettore, prima che chi scrive scompaia con le sue ultime parole ancora nella penna, in una di quelle esplosioni al tritolo che ricorrono in un crescendo ossessivo negli ultimi racconti di Consolo, proprio come nei giorni e nelle notti di Palermo. E Lo Spasimo è anche un tombeau poetico-letterario perché, posto fin dall’inizio sotto il segno di un’oscillazione tra i due poli opposti e complementari del racconto e del silenzio, quest’ultimo opus sembra destinato a spiegare le ragioni di tale oscillazione, offrendo al lettore una specie di compendium di tutti i precedenti tentativi stilistici attraverso i quali Consolo ha cercato di proporre un epos alternativo che, partendo da una lingua poematica, lo ha portato fino all’urlo panico, per poi riportarlo alla narrazione. In effetti, si tratta di un doppio tombeau, i cui piani sovrapposti entrano in relazione attraverso una serrata rete intra- ed intertestuale, poiché quella specie di sopralluogo personale e letterario si combina con un paradossale omaggio parricida di Consolo a tutti gli auctores che egli ha ammirato per poi rinnegarli, come fanno tutti i figli quando intraprendono una crociata contro i propri padri, nella vita e nella letteratura; perché i padri sono stati giudicati troppo spesso «imbell[i], ipocrit[i] o impotent[i]» (Consolo 2000: 89); perché le loro parole non hanno saputo essere l’ultimo baluardo contro il sonno della ragione e il caos.

6 Sembra, infatti, che quest’ultimo libro, alla stregua di quanto dichiara l’incipit dell’ultimo romanzo di Sciascia, sia un modo per «ancora una volta […] scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia» (Sciascia 1989: 7) e, vorremmo aggiungere, alla letteratura. Sennonché tale ricerca ha portato Sciascia a scrivere Una storia semplice mentre, per Consolo, è venuta fuori una storia maledettamente complicata, condotta come un’analisi retrospettiva, alla maniera delle inchieste politico-filologiche dello scrittore di Racalmuto, ma senza ricorrere fino in fondo ai suoi strumenti di investigazione della realtà e del discorso; quelli di Pausania, tanto per intenderci, il saccente geografo che ne L’olivo e l’olivastro sentenziava: «a me è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio» (Consolo 1999a: 39).

7 Come il suo protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, Consolo si è infatti rifiutato di entrare nella logica «fiduciosamente comunicativa, di padre e fratelli – confrères – più anziani, involontari complici, pensav[a], dei responsabili del disastro sociale» (Consolo 2000: 127). Da allora, per lui, ha trovato «solo senso il dire o ridire il male, nel mondo invaso in ogni piega e piaga dal diluvio melmoso e indifferente di parole atone e consunte, con parole antiche o nuove, con diverso accento, di diverso cuore, intelligenza. Dirlo nel greco d’Eschilo, in un volgare vergine come quello di Giacomo o di Cielo o nella lingua pietrosa e aspra d’Acitrezza» (Consolo 1999a: 77). Fino a Lo Spasimo di Palermo. Fino al momento in cui, dopo un ultimo tentativo per lottare contro il disordine, il silenzio sostituisce il coro che, poc’anzi ancora, «in tono alto, poetico, in una lingua non più comunicabile, commenta[va] e lamenta[va] la tragedia senza soluzione, il dolore senza catarsi» (Consolo 1999b: 262).

8 Come la maggior parte dei libri precedenti di Consolo, Lo Spasimo di Palermo è la storia di un viaggio, quello dello scrittore Gioacchino Martinez. Un viaggio nello spazio, da Parigi a Milano e da Milano a Palermo, e un viaggio nel tempo, quello dell’infanzia durante la Seconda Guerra Mondiale, dei primi trasporti e del matrimonio con Lucia, che diventerà sua moglie e la madre di Mauro, il figlio rifugiatosi appunto a Parigi per sfuggire alla repressione politica della fine degli “anni di piombo”, mentre Lucia sprofonderà a poco a poco nella follia per sfuggire all’insopportabile realtà della violenza mafiosa degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, prima di scomparire nel buio. Un viaggio a misura d’uomo dunque, chiuso e concluso, almeno in apparenza, nei limiti di una vita d’uomo, con gli inevitabili punti di contatto con il mondo che gli sta attorno, cioè con la Storia con la S maiuscola i cui disordini e le cui convulsioni si ripercuotono sull’esistenza dell’individuo e la possono travolgere senza remissione.

9 Però, anche se l’invocazione liminare è quella di un Omero-Consolo a un Ulisse-Consolo la cui commistione-confusione sarà nel libro un’ulteriore fonte di ambiguità, non si tratta più, proprio per lo spasimo, del solito nostos ulissiano di cui L’olivo e l’olivastro è forse l’espressione più compiuta e dichiarata, ma si tratta piuttosto di un percorso di anamnesi dalle coordinate incrociate e sovrapposte, che trasforma l’effettivo ritorno a casa del protagonista e il suo tentativo di ricongiungersi con il proprio passato, in viaggio penitenziale (Francese 2015: 66 e 104; Consolo 1999a: 19). Un viaggio per espiare colpe insite nelle confessate manchevolezze di chi scrive attraverso la di nuovo paradossale, nonché scaramantica, trasformazione della scrittura/lettura di questo libro in una complessa operazione di cifratura e decodifica storico-letteraria.

10 La principale fonte di complessità sta nella frammentazione o variazione della voce narrante. Il procedimento non è nuovo e Consolo lo ha ampiamente sfruttato fin dal Sorriso e anche in Nottetempo (Consolo 1994). Solo che allora si trattava di dare alle «‘voci’ dei margini» (Consolo 1997: 182) una possibilità di farsi sentire pur riconoscendo l’inadeguatezza della scrittura, dotta per definizione, nella restituzione di un’oralità per così dire primitiva, nonché «l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento» (Consolo 1994: 53) per colui che scrive. Il dilemma sembrava si fosse risolto in senso sperimentalista con l’«adottare […] moduli stilistici della poesia, riducendo, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio della narrazione» (Consolo 1997: 183); e l’intento di far combaciare logos, epos ed ethos pareva fosse stato raggiunto ne L’olivo e l’olivastro come dimostrano l’omogeneità di tono e la stabilità dell’istanza narrativa (Bossi 2012).

11 Ma con Lo Spasimo di Palermo si sgretola quel fragile equilibrio nella frantumazione dei punti di vista e nella variazione dei toni e dei gradi della diegesi. Più conturbante ancora: vengono di nuovo sfruttate soluzioni narratologico-espressive da tempo dichiaratamente abbandonate e, nel libro stesso in cui ricompaiono, presentate come detestabili (Consolo 2000: 105).

12 Il corifeo-narratore de L’olivo e l’olivastro – che cantava la storia del nuovo Ulisse in una specie di discorso indiretto libero intriso di quella tragicità antica che per Consolo è «l’esito ultimo […] della

ideologia letteraria, l’espressione estrema della [sua] ricerca stilistica» (Consolo 2007: 21) e in cui si intercalavano registrazioni/restituzioni di voci testimoniali – è ancora presente nel prologo in corsivo, ma solo per un ideale passaggio di testimone narrativo ed esistenziale allo stesso Ulisse. E nel suo augurio per il viaggio da compiere sta senz’altro la spiegazione delle contraddizioni e dei paradossi che abbiamo segnalati fin qui: «Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza. In my beginning is my end» (Consolo 2000: 9).

13 Solo attraverso la volontà di tornare al punto di partenza, geografico ed esistenziale, si può infatti spiegare il metaforico ritorno a una specie di autobiografismo letterario che si palesa attraverso una fitta rete di autocitazioni più o meno esplicite come, ad esempio, quella testuale tratta da Le pietre di Pantalica (Consolo 1988: 166): «Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino». Messa in bocca al giudice che ne Lo Spasimo di Palermo (con la S maiuscola) viene omaggiato in quanto uno tra i pochi difensori della polis e del vivere civile, quella citazione già parlava dello spasimo (con la s minuscola) di Palermo e, anche se Gioacchino-Consolo si schermisce dicendo che «sono passati da allora un po’ di anni», il giudice – di nuovo sciascianamente, come conferma il paragrafo successivo – profetizza: «Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale… o forse peggio» (Consolo 2000: 115).

14 Allo stesso modo, questo appellarsi di continuo a Sciascia come pure a Manzoni con riferimenti espliciti – oltre che alla peste che allora infettava Milano come ora infetta Palermo – anche al famoso manoscritto manzoniano (Consolo 2000: 106), ossia alla finzione letteraria destinata a conferire verosimiglianza al testo fondatore dei Componimenti misti di storia e d’invenzione, delinea una specie di autobiografia non più o non solo personale, bensì familiare, nel senso di una famiglia spirituale, un omaggio intertestuale in forma di metaromanzo di formazione «ai suoi» (Consolo 2000: 36), come egli chiama i suoi autori prediletti.

15 Sembra infatti che Consolo si chieda se proprio nel tornare alle origini, alle fonti e, quindi, a quei «linguaggi logici, illuministici», «alla loro serena geometrizzazione» (Consolo 1997: 182) non risieda la possibilità di dire il male e di sanarlo. Ragion per cui egli conserva effettivamente, ad inizio capitolo, quei paragrafi che segnano «l’interruzione del racconto e il cambio di tono della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica», che sono per lui «le parti corali o i cantica latini» (Consolo 2007: 35); quei paragrafi che dicono il male come rottura, alla stregua di quel passaggio dalla luce all’ombra che spaventa la Lucia di Gioacchino (Consolo 2000: 65 e 117) come segno precursore di un’irrimediabile condanna alla follia, con «lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri» (Consolo 2000: 45). E quelli sono i nessi, tra afasia e urlo, che, soli, la poesia, il linguaggio poematico, possono dire.

16 Ma allo stesso tempo Consolo, come Gioacchino, ha la tentazione di riannodare il discorso interrotto, di riprendere il film dell’infanzia, rappresentato metaforicamente dalla storia di Judex, nel punto in cui è stato tagliato, e farlo ripartire con «la sutura, l’acetone sulla memoria, il nastro che s’attacca, lo scintillio dei carboni, il ronzio che riprende, la storia che prosegue e si conclude». Pena però la riscoperta dei «fotogrammi segreti della sua storia, della vita sua oscura e inconclusa, della frana, delle colpe sepolte e obliate» (Consolo 2000: 47). In altri termini, sembra che Consolo si chieda, in un libro che insiste sull’interruzione della comunicazione tra padri e figli a causa delle compromissioni e dei tradimenti rimproverati dai figli ai padri, se non si dovrebbe compiere una sutura tra gli uni e gli altri, tra passato e presente, ricorrendo ai pure ripetutamente rinnegati strumenti di Pausania – il geografo che, come si diceva prima, conosce «i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio» (Consolo 1999: 39). Ed è proprio a quel lavoro di sutura personale e letteraria che si accinge Gioacchino, confrontato al falso ordine della sua biblioteca risistemata “cromaticamente” dalle incolte persone di casa:
Giorni trascorsi a rimettere ordine fra i libri. Da questi doveva ricominciare, dalla chiara geografia, dai confini certi, dal conforto loro, per potersi orientare, riprendere la strada. Oltre, non era che mutamento, cancellazione d’ogni segno, realtà infida, landa d’inganno, sviamento. (Consolo 2000: 102)
A partire dai libri della sua biblioteca, egli comincia dunque a ricostruire una mappa letteraria della propria città, uno di quei Cruciverba (Sciascia 1983) che tanto piacevano a Sciascia, come quello dedicato dal racalmutese a Parigi dove egli si recava, come ricorda lo stesso Consolo (Consolo 2016: 124), compiendo un viaggio le cui tappe erano Palermo-Milano e poi Milano-Parigi, ovvero l’esatto rovescio, quasi a specchio, del viaggio raccontato dalla doppia, se non dubbia, figura di Empedocle-Pausania e compiuto dall’ambiguo Ulisse de Lo Spasimo di Palermo. Infatti l’Ulisse consoliano ha avuto bisogno di attingere di nuovo ai valori civili e letterari della Francia illuminista tanto amata da Sciascia. Questo spiega perché, per la prima volta, non lo vediamo approdare fin dall’inizio del libro alla sua Itaca-Sicilia come invece succedeva nei precedenti racconti: è dovuto prima andare a cercare a Parigi, nella città in cui «tutto parla di letteratura» e dove si parla «quella che Leopardi chiamava una lingua ‘geometrizzata’» (Consolo 2016: 132), quei pezzi mancanti, quelle colpe sepolte e dimenticate della propria storia, prima di intraprendere il suo nostos espiatorio (Traina 2001: 43).

17 A quell’Ulisse, costretto quindi a usare quasi simultaneamente due lingue diverse, una poematica e l’altra geometrizzata, viene assegnato il compito di riannodare i fili spezzati per tentare non solo di dire, poeticamente ed espressivamente, ma anche di denunciare, razionalmente e comunicativamente, i mali passati e presenti e la loro diffusione-dilatazione. Infatti essi hanno ormai da tempo varcato lo Stretto, come mostra la cantica dedicata a Milano, che fu «approdo della fuga, quell’asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza». Ormai Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dalle acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità. (Consolo 2000: 91) Una Milano reificata attraverso la soppressione di tutte le maiuscole, una Milano al cui quadro orrifico corrisponde, “di qua dal faro”, quello di Palermo. Non la Palermo dell’approdo – e siamo già oltre i tre quarti del libro – di Ulisse-Gioacchino-Consolo al porto che fu anche il loro comune punto di partenza, ancora ingentilita dalla memoria dell’esiliato e dal ricordo dei passati splendori: Nella luce bianca, vaporosa, apparivano il piano di Sant’Erasmo, la foce melmosa dell’Oreto, le palazzate nuove del sacco mafioso, la Flora e le possenti mura, la Porta dei Greci, la passeggiata delle Cattive, gli antichi palazzi dietro nobiliari, le cupole e i campanili delle chiese, il Càssaro Morto e la Porta Felice, Santa Maria della Catena, la conca stagna affollata d’alberi di lussuose barche della Cala. (Consolo 2000: 98)
Ma la Palermo della banalità secolare del male. «L’amata sua odiata» che non nasconde più il proprio vero viso: Intrigo d’ogni storia, teatro di storture, iniquità, divano di potenti, càssaro dei criadi, villena degli apparati, osterio di fanatismo, tribunale impietoso, stanza della corda, ucciardone della nequizia, kalsa del degrado, cortile della ribellione, spasimo della cancrena, loggia della setta, casaprofessa della tenebra, monreale del mantello bianco. (Consolo 2000: 122)
Oltre alle scelte stilistiche illustrate da questi due cantica speculari, la cui espressività, non sempre compensata dalla comunicatività dei fatti e delle date, costringe il lettore a indovinare situazioni ed epoche, nonché bersagli della denuncia, il cambiamento maggiore portato dall’ambiguità della nuova istanza narrativa poematico-geometrica sembra risiedere nel filtro che una specie di stream of conciousness di stampo quasi gattopardiano impone alla rimemorazione, come pure nello sfasamento che tale rimemorazione provoca tra tempo e spazio ricordati rispetto ai tempi e allo spazio della narrazione e a quelli della Storia, con la conseguenza di appiattire e concentrare tempi ed epoche diverse nello stesso movimento narrativo. Come quando, ad esempio, a partire dal vivido ricordo della peste manzoniana (Consolo 2000: 85) e senza nessuna rottura temporale apparente, il narratore ci parla del «tempo febbrile delle pesti, del colera di Palermo» (Consolo 2000: 113), giocando peraltro sull’ambiguità tra tempo meteorologico e tempo cronologico, in una sovrapposizione allucinata in cui diventa impossibile discernere in quale epoca vivano i «ciechi vaiolosi storpi appestati d’ogni sorta che dallo Spasimo si recavano ogni giorno per mangiare alla Dogana» (Consolo 2000: 32).

18 Infatti, se Consolo, fedele alla sua definizione dello scrittore siciliano come uno per cui «il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale [è un] passo obbligato» (Consolo 1997: 181), ci presenta con Lo Spasimo di Palermo «un ulteriore fallimento delle speranze italiane» per cui «[le] speranze di una rinascita crollano di fronte alla pervasività del potere mafioso, e alle sue infiltrazioni nello Stato repubblicano» (De Gregorio 2013), nelle modalità pratiche sembra invece che egli aspiri, da un lato a cancellare e distruggere la rete cronologica, dialogica e narrativa di cui necessita la storia per essere detta o per raccontarsi, dichiarando di «aborri[re] il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile» (Consolo 2000: 105) e, dall’altro, a ristabilire i nessi logici atti a rendere conto dell’orrenda realtà palermitana e italiana di quegli anni.

19 L’operazione di distruzione non è nuova: Consolo aveva infatti rivendicato che Il sorriso dell’ignoto marinaio, primo opus del ciclo, fosse classificato nella categoria degli antiromanzi storici, in una formulazione peraltro già ambigua poiché, se è antiromanzo, non può essere racconto e, se non è racconto, non può essere storia, per cui non si vede come un antiromanzo possa essere storico. Infatti sembrava degno della quadratura del cerchio il tentativo da allora condotto da Consolo di raccontare una storia e, addirittura, la Storia, che è la Grande Narrazione per eccellenza senza gli strumenti del racconto, col solo spostare il problema della scrittura «dalla comunicazione all’espressione» (Consolo 2007: 35). Questa è probabilmente la ragione dello scarso effetto di tali scelte sulla società civile e del conseguente mea culpa di Gioacchino-Consolo a destinazione dei figli che, alla stregua di Mauro Martinez, «si nega[no] a ogni confidenza, tentativo di racconto, chiarimento» (Consolo 2000: 42), esattamente come lo stesso Gioacchino Martinez confessa di averlo fatto con i propri padri intellettuali e letterari (Consolo 2000: 129).

20 Quello che è nuovo, invece, e diretta conseguenza di quanto precede, è la costruzione filologico-letteraria in puro stile sciasciano avviata da Consolo-Gioacchino a partire da fatti diversi di storia letteraria e civile (Sciascia 1989b), organizzati e ramificati in modo da costituire quello che Sciascia, ancora, chiamava un “teatro della memoria”, cioè un sistema di «oggetti eterni […] che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità» (Sciascia 1979: 231) poiché, come ha scritto lo zio Mauro di Gioacchino nel suo testamento, là si trova, «negli assoluti libri, la verità umana» (Consolo 2000: 73). Infatti, proprio dai libri di botanica e dal giardino dello zio scatta il primo “teatro della memoria” inscenato da Gioacchino, giacché, per lui come per lo zio, il giardino è «luogo platonico, ordine del mondo […], immagine del giardino interiore, sogno del ritorno, ripristino». Sotto il segno di questo ritorno e di questo ripristino, che però possono anche portare «offesa, patimento» (Consolo 2000: 49), nasceranno gli ulteriori elementi del suo sistema di “oggetti eterni” destinati a comporre una specie di antistorica – perché sorta dall’eterna e quindi atemporale verità letteraria – Storia delle storie: messe insieme, la storia delle tonnare (Consolo 2000: 59), quella del codice di San Martino – di nuovo di sciasciana ascendenza – e quella del Libro intorno alle palme di Abu-Hâtem-es-Segestâni (Consolo 2000: 64) tracciano i confini storico-geografici della Sicilia araba; quella poi, già più complessa e ricorrente, della «prigionia in Algeri di Cervantes e [di] quella insieme, d’un poeta [palermitano], dialettale, Antonio Veneziano» (Consolo 2000: 41, 105, 115, 118) disegna i contorni della Sicilia dei tempi dell’occupazione spagnola e conduce a sua volta alla scoperta, nella topographia e historia general de Argel (Consolo 2000: 107), di una parola che permetta a Consolo di collegare gli oggetti letterari già messi in risonanza con la più recente storia siciliana e italiana e, a Gioacchino, di seguire uno dei fili più dolorosi della sua personale storia umana. La parola è “marabutto”, e il filo che da essa dipana Gioacchino va dal massacro di suo padre e della madre di Lucia nel Marabutto di Rassàlemi per arrivare all’ultima scena del libro, quella dell’esplosione, in cui, mentre scrive a suo figlio, egli scompare insieme al giudice, figlio della sua vicina di casa: una scomparsa preannunciata da una specie di predizione dell’amico fioraio: «Ddiu ti scanza d’amici e nnimici, e di chiddi chi ti manciunu lu pani. Ddiu ti scanza di marabutta» (Consolo 2000: 124). Tutta questa intricata storia di fili e di figli permette inoltre al lettore di ricostruire, pure se a volte faticosamente, i famosi nessi grazie ai quali Gioacchino-Consolo spera di «scrivere di una storia vera […] fuori da ogni invenzione, finzione letteraria» (Consolo 2000: 105), insomma, fuori dall’aborrita scrittura romanzesca.

21 Tuttavia intento alla (per lui) illuminante, salvifica e lenificante ricostruzione letteraria e culturale di un passato comune a sé e, a una seppur «devastata» (Consolo 2000: 105) civiltà mediterranea nella quale riaffondare le proprie radici per ripartire verso un futuro riconciliato, Gioacchino non presta abbastanza attenzione ai messaggi sempre più cupi che provengono dall’altro “teatro della memoria”, concorrente del primo, che si sta costruendo quasi suo malgrado a partire da altri elementi anch’essi perfettamente collegati: un altro “teatro” che ha le stesse radici del primo, ma si sviluppa in modo subdolo e morboso esattamente come, a partire dallo stesso tronco, quello dell’olivo in cui Ulisse ha intagliato il proprio letto, si possono sviluppare sia l’olivo che l’olivastro. E infatti, dalla sua stessa casa, anzi dal suo stesso letto appunto, «sporcato ignobilmente» (Consolo 2000: 119) ad opera dei nuovi Proci, dei sempre rinnovati Proci della mafia e della politica, seguendo poi quella strada intitolata al musicista Emanuele d’Astorga da cui Gioacchino credeva di poter cominciare a riprendere possesso della sua città inseguendo memorie storiche e civili, proprio da lì ricomincia invece a proliferare la mai sanata peste, il cui nome, le cui immagini, i cui manzoniani echi percorrono tutto il libro al ritmo sempre più serrato di un’allucinata cavalcata mortifera per le strade, i monumenti della città, per poi proseguire, alla stregua del quadro di Raffaello, la sua anti-Odissea «da Palermo, alla Sicilia, al mondo» (Consolo 2000: 112), a celebrare il Trionfo della Morte (Consolo 2000: 117), della Follia (Consolo 2000: 111) e del Caos (Consolo 2000: 117). Il “teatro della memoria”, messo in moto dalla vita, ossia dalla vita di d’Astorga, si ramifica generando un’escrescenza cancrenosa che fagocita progressivamente gli “oggetti eterni” positivi che si stavano sviluppando serenamente sull’altro ramo, quello della riconciliazione, fino a mettere in una luce sinistra, di malaugurio, le notizie sulla chiesa di Santa Maria dello Spasimo «per cui Raffaello aveva dipinto La caduta di Cristo sul cammino del Calvario, chiamato qui Lo spasimo di Sicilia», ma chiamato dal suo artefice «sgomento della Vergine e Spasimo del mondo» (Consolo 2000: 112). Come anche la notizia secondo la quale il pezzo più conosciuto di d’Astorga era uno Stabat mater. Quello Stabat mater le cui note, la cui grafia diversa da quella della scrittura, la cui espressività che mai la scrittura potrà raggiungere, anche se cerca di farsi pura espressività e puro suono, bucano ad un tratto la pagina di Consolo a sostituire le parole (Consolo 2000: 125), preannunciando sia lo strazio, lo spasimo della madre del giudice di fronte alla morte del figlio in veste di laico redentore di tutte le colpe dei padri, sia «la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna» (Consolo 2000: 127), confessati da Martinez nella sua lettera al figlio e quindi da Consolo al suo lettore.

3 Basterebbe seguire le tracce lasciate dall’uomo dalle scarpe gialle, dal falso ragioniere, dal ma (…)

22 Ci si può chiedere se sarebbe stato possibile evitare tale sconfitta, una sconfitta che ha portato Consolo a riconoscere, con la metafora della lettera interrotta, l’impossibilità di un sereno passaggio di testimone tra le generazioni, per poi chiudersi nel silenzio dopo la morte del suo doppio letterario. Ci si può chiedere se, rifiutando i nessi razionali, la comunicazione dialogica propria del romanzo e in particolare la lettura ipotetico-deduttiva propria del romanzo poliziesco che gli avrebbe permesso di collegare gli indizi, pur presenti nel testo, della proliferazione del male3 e, limitandosi a scrivere «solo di cultura, storia, vicende curiose del passato, di questa città com’era un tempo» (Consolo 2000: 74), Consolo-Gioacchino non si sia precluso ogni possibilità di analizzare correttamente il presente e di riformarlo. Ci si può chiedere se non sarebbe stato opportuno approfittare di quel «varco che conduceva nel passato, nel racconto, in cui tutto era accaduto, tutto sembrava decifrabile» (Consolo 2000: 69), per scrivere, a dieci anni dalla morte dell’amico Sciascia, una storia finalmente semplice, invece di considerare che la volontà di riannodare i fili della propria storia personale e civile, di riprendere il film della lotta di Judex contro i cattivi laddove si era interrotto era, per finire, «uno sbaglio» (Consolo 2000: 53).

23 Quello che possiamo dire è che Consolo ci ha provato. Con Lo Spasimo di Palermo è infatti giunto a quanto di più vicino al romanzo – al, per lui, “impossibile romanzo” – fosse lecito spingersi, senza rinunciare completamente alle scelte e agli impegni di tutta una vita, in quanto scrittore e in quanto cittadino. Lo ha fatto cercando di ibridare la sua abituale scrittura poematica con quella geometrica comunicazione presa in prestito dal «castoro ligure; [dal] romano indifferente, [dall’]amaro [suo] amico siciliano», ma anche da quelli che, come loro, «hanno la forza […] della ragione, la chiarità, la geometria civile dei francesi» (Consolo 2000: 88): Pasolini, Vittorini, Manzoni, e tanti altri, i cui nomi, i cui libri, compongono a poco a poco un superiore “sistema di oggetti eterni”, una specie di borgesiano Aleph letterario.

24 Sennonché, anche quest’ultimo tentativo per dire il male, seppur condotto sotto l’alto patrocinio di sì autorevoli padri, si conclude con la morte di quelli che, almeno per Consolo, sono, erano, gli ultimi difensori dell’umana civiltà, il giudice e l’intellettuale. E con la loro morte non solo scompare la possibilità di una redenzione civile, ma viene anche dimostrata, attraverso quella specie di suicidio parricida, l’impotenza della letteratura – i cui rappresentanti sono pur stati convocati in schiere compatte – ad arginare, con qualsiasi mezzo o strumento, il dilagare del male.
4 «Questo di oggi è un libro sul presente, ma anche un ripercorrere gli anni Sessanta, con il terro (…)
25Il che non ci deve stupire, poiché neanche Judex, che pure «giudica e sentenzia fuori dalle leggi» (Consolo 2000: 129), ci può riuscire: ovunque e comunque «la nera sagoma trionfa del giustiziere» e «si conclude il feuilleton fuori da leggi, tribunali, si scioglie la vendetta precivile nel sentimento, si ricompone l’ordine del denaro e del potere» (Consolo 2000: 47) 4.

Bibliografia
Bossi, L., 2012, «‘L’olivo e l’olivastro’ de Vincenzo Consolo: pour une Odyssée du désastre», Cahiers d’études italiennes, n°14/2012, Les années quatre-vingt et le cas italien, a cura di Barbara Aiosa e Leonardo Casalino, p. 201-212.
Consolo, V., 1988, Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori.
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Consolo, V., 1999b, Di qua dal faro, Epigrafi, Milano, Mondadori, «Oscar».
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Consolo, V., 2016, Passi a piedi, passi a memoria in Sciascia e Parigi, Catania, Passim Editore.
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De Gregorio, F., 2013, In ricordo di Vincenzo Consolo in: Eidoteca, https://eidoteca.net/2013/04/30/in-ricordo-di-vincenzo-consolo/
Francese, J., 2015, Vincenzo Consolo: gli anni de «l’Unità» (1992-2012), ovvero la poetica della colpa-espiazione, Firenze University Press.
Sciascia, L., 1979, Nero su nero, Torino, Einaudi.
Sciascia, L., 1983, Cruciverba, Torino, Einaudi.
Sciascia, L., 1989, Una storia semplice, Milano, Adelphi.
Sciascia, L., 1989b, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Palermo, Sellerio.
Traina, G., 2001, Vincenzo Consolo, Firenze, Cadmo.

Note

2 «Si tratterebbe del racconto dei tre fallimenti della storia unitaria. Nel primo, sarebbe rappresentato il fallimento risorgimentale, il naufragio delle speranze democratiche e garibaldine nella Sicilia dei Gattopardi; e con esso, è descritta anche l’eclissi dell’intellettuale: inattuale, inconsapevole, passivo, non ancora engagé, per così dire. Nel secondo romanzo, Nottetempo, casa per casa, anche qui un intellettuale, maestro elementare, è travolto dal secondo e drammatico fallimento dell’Italia unitaria, quello dovuto all’avvento del fascismo. Per la seconda volta, le speranze degli italiani naufragano in un gorgo storico, nel Ventennio del buio novecentesco. E infine il terzo romanzo, Lo Spasimo di Palermo, ci presenta un ulteriore fallimento delle speranze italiane, quello repubblicano. Le speranze di una rinascita crollano di fronte alla pervasività del potere mafioso, e alle sue infiltrazioni nello Stato repubblicano».

3 Basterebbe seguire le tracce lasciate dall’uomo dalle scarpe gialle, dal falso ragioniere, dal mafioso delle Falde…

4 «Questo di oggi è un libro sul presente, ma anche un ripercorrere gli anni Sessanta, con il terrorismo vissuto a Milano e anche con quello che è il male della Sicilia, con le atrocità delle stragi di mafia. Infatti, il libro si conclude con la strage di Via d’Amelio e con la morte del giudice Borsellino. Questo è stato il mio progetto letterario. Poi, naturalmente, accanto a questi libri, ci sono dei libri collaterali, ma tutti convergono su questa idea, cioè, sul potere, sulla corruzione del potere» in Intervista inedita a Vincenzo Consolo, a cura di Irene Romera Pintor, http://vincenzoconsolo.it/?p=1299 poi pubblicata in Vincenzo Consolo, “Autobiografia della lingua” – Conversazione con Irene Romera Pintor http://books.openedition.org/res/318.

Autrice
Lise Bossi
Université Paris-Sorbonne

Rcherches
Culture et historie dans l’espace Roman

Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta

Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta

Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta

Viaggio in Sicilia, a Sant’Agata di Militello, paese natio del grande narratore italiano Vincenzo Consolo

Una Prof. in AmericaFilomena Fuduli Sorrentino 

Ogni volta che vado in Italia, una mia aspirazione è visitare la Sicilia. Attraversare lo stretto sul traghetto e arrivare sull’isola è un’esperienza bellissima, ancora più bella se si viaggia in auto e si visitano diverse città siciliane. Quest’anno in Sicilia ci sono stata due volte, la prima per passare una giornata a Taormina in compagnia di mio fratello e dei miei nipoti; la seconda invece per un obbiettivo culturale più specifico, arrivare a Sant’Agata di Militello, il paese natio di Vincenzo Consolo, considerato uno tra i maggiori narratori italiani contemporanei, e visitare la Casa Letteraria, inaugurata di recente. Volevo vedere di persona la collezione che include le opere dello scrittore, i suoi quadri, i premi ricevuti, e le sue cose personali.

Vincenzo Consolo oltre a scrittore e saggista, aveva lavorato come giornalista, insegnante, e consulente per la Einaudi. Il libro “La mia isola non è Las Vegas” contiene cinquantadue racconti, racconti di viaggio, d’infanzia, incontri con personaggi, e ricordi professionali pubblicati nell’arco di 50 anni su diversi giornali e periodici italiani come: L’Ora di Palermo, l’Unità, Il manifesto, Il Messaggero, La Stampa, Il Corriere della Sera, Giornale di Sicilia, La Sicilia; alcuni di questi quotidiani non esistono più. Leggendo i suoi saggi, i suoi romanzi, e ascoltando le sue video interviste, Consolo descrive “la sua isola” nei minimi dettagli, raccontandone le bellezze e i problemi. A me la Sicilia affascina moltissimo, la trovo veramente bellissima; una terra ricca di civiltà mediterranee, di storia, di cultura, di arte, con un mare da sogno, sole africano, e cibi gustosissimi. Non si finirebbe mai di girarla e di apprezzarne le sue bellezze, la sua storia, e il suo cibo, proprio come scrive Consolo in uno dei racconti di Le pietre di Pantalicain cui il protagonista si chiede: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”.

Ero in compagnia di mio marito, e quando siamo arrivati al Castello Dei Principi Gallego, nel centro storico della città, tra piazza Francesco Crispi e la storica piazza Vittorio Emanuele ribattezzata Piazza Vincenzo Consolo il 18 febbraio 2017, ci aspettava Claudio Masetta Milone, uno dei fondatori dell’Associazione “amici di Vincenzo Consolo”. Claudio, cortesemente ci ha fatto da guida del castello incominciando da “La casa letteraria di Vincenzo Consolo” dove sono custodite, a disposizione della cittadinanza, le opere dello scrittore e la sua biblioteca personale con oggetti preziosi e premi ricevuti nel corso della sua lunga carriera letteraria. La donazione voluta dalla signora Consolo, include ricordi e ricchezze culturali che Consolo collezionava durante i suoi viaggi, e tra questi ho notato modelli di piccolissimi libretti di ceramica o di ottone, e lumache di ceramica o di ottone (chiocciole, simbolo del castello Gallego e del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio). Ci sono pezzi antichi che ricordano il lavoro fatto a mano della cultura contadina siciliana, come un telaio per tessere, dei birilli di legno, i suoi libri, i suoi quadri, le onorificenze ricevute da diversi Paesi esteri come la Francia, l’onorificenza del Presidente italiano, la macchina da scrivere che usava per il suo lavoro, e tante altre cose; troppe per essere elencate in questo pezzo, e tutto a disposizione degli studiosi e del pubblico. Ero contentissima di trovarmi li ed emozionata allo steso tempo guardando e toccando le cose personali di Vincenzo Consolo sullo scaffale; tra le sue cose c’era anche L’opera completa di Vincenzo Consolo, opera pubblicata nei Meridiani Mondadori grazie alla cura di Gianni Turchetta.

Nello studio c’erano anche molte foto, ma una foto datata 1968 aveva attratto la mia attenzione, erano fotografati: Consolo insieme allo scrittore Leonardo Sciascia e al poeta Lucio Piccolo nel giardino della villa Piccolo a Capo di Orlando. Mente guardavo la foto ho chiesto al signor Masetta Milone, amico intimo di Consolo e della signora Consolo, quanta importanza dava lo scrittore all’amicizia, Claudio mi rispose con una citazione dal libro La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo“…E questa amicizia, che quando uno è solo contro tutti, l’altro gli dice ecco qua, siamo in due”. Lucio Piccolo era un poeta e viveva nella villa “Piccolo” a Capo d’Orlando, ma passava molto tempo anche a Palermo. Piccolo era conosciuto come il barone, ed era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore di un unico ma famosissimo romanzo, Il Gattopardo. Lucio Piccolo era un  uomo molto solitario e chiuso in se stesso, amava la solitudine. Consolo da giovane lo andava a trovare spesso alla sua villa a Capo d’Orlando e ci restava per ore a parlare di poesie e di lingua. Per Consolo visitare Piccolo era come andare a lezione, lo stimava molto e lo riteneva un suo maestro.

La laurea “honoris causa” in Filologia Moderna, conferita dall’Università degli Studi di Palermo

Con Leonardo Sciascia Consolo aveva un rapporto diverso da quello con il poeta Lucio Piccolo. Consolo per Sciascia custodiva un’amicizia storica e un gran rispetto, e come Sciacca, egli era motivato a sconfiggere l’ignoranza che alimenta la cultura mafiosa in Sicilia. Leonardo Sciascia viveva a Recalmuto e Consolo doveva prendere il treno da Sant’Agata di Militello per andare a visitarlo, ma di solito lo faceva una volta la settimana. Prima di Sciascia, nessun scrittore aveva scritto di Mafia, egli fu il primo a scriverne nel suo grande successo Il giorno della civetta, terminato nel 1960 e pubblicato nel 1961. Al romanzo si ispirò il film, dello stesso nome, del regista Damiano Damiani uscito nel 1968. Con i suoi romanzi Sciascia dimostrò che l’esistenza pericolosa della Mafia si deve combattere con ogni mezzo disponibile, specialmente scrivendone e diffondendo la cultura e la legalità. Dopo Sciascia Consolo continuò la battaglia contro la Mafia e la criminalità organizzata usando anche lui come arnese la stressa arma, la letteratura. Il signor Masetta Milone, che ha sempre vissuto in Sicilia, dice che la letteratura insieme alla cultura e alla bellezza sono l’arma più potente da usare contro la criminalità organizzata e la Mafia.

Vincenzo Consolo è conosciuto come l’autore della pluralità di lingue e di toni, una caratteristica che afferma la sua identità di scrittore. Lo stile linguistico di Consolo non è dialetto ma nemmeno lingua nazionale. Egli usa vocaboli che esprimono emozioni ma non sono parole dialettali. Il suo stile si allontana dall’italiano comune che egli riteneva troppo tecnico. La pluralità di toni e di lingue comporta anche una pluralità di prospettive, Consolo nei suoi romanzi sceglie di raccontare secondo la prospettiva soggettiva e particolare dei personaggi. Riconoscibile in ogni sua frase è l’utilizzazione di lessici incrociati tra l’italiano antico (la lingua volgare o lingua del popolo) e il siciliano, quindi, la sua è una scrittura che narra una continua ricerca di originalità. Nei suoi romanzi racconta secondo la prospettiva soggettiva di chi è dentro la storia giocando con le parole, come possiamo notare in “Retablo”, nella ode a Rosalia: “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore”. In un’intervista curata da Marino Sinibaldi, giornalista, critico letterario, e conduttore radiofonico, Consolo aveva dichiarato: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”.

Consolo amava la Sicilia, la lingua siciliana, la cultura dell’isola e la lingua italiana, ma era convinto che i giovani a scuola debbano studiare l’italiano e non il dialetto. Nel 2011 egli fu il più critico scrittore contro l’insegnamento del dialetto nelle scuole. Console vedeva la legge che regolava lezioni di dialetto in ogni istituto di ordine e grado come un’iniziativa leghista: “Ormai siamo alla stupidità”, aveva affermato Consolo. “Una bella regressione sulla scia dei ‘lumbard’. Che senso hanno i regionalismi e i localismi in un quadro politico e sociale già abbastanza sfilacciato? Abbiamo una grande lingua, l’italiano, che tra l’altro è nata in Sicilia: perché avvizzirci sui dialetti? Io sono per la lingua italiana, quella che ci hanno insegnato i nostri grandi scrittori, e tutto ciò che tende a sminuirla mi preoccupa”. Consolo usa anche l’arma dell’ironia, ma da quasi tutti i suoi scritti trapela una Sicilia amara per quanto sempre molto amata.




























Tornando alla mia visita al Castello dei Principi Gallego, dopo aver ammirato “La casa letteraria di Vincenzo Consolo”, visito il resto del castello con il signor Masetta Milone, un tempo dimora dei Principi Gallego. Risalendo una scala a chiocciola – simbolo del castello e del nome Gallego – si raggiunge il piano superiore dove si trovava la residenza di Principi Gallego: i saloni di ricevimento, i soggiorni, le stanze da letto, il giardino, le cucine e le stanze più riservate del castello. Come ogni residenza nobile, il castello ha pure una cappella, anche questa con dei segreti: i Principi Gallego potevano assistere alle funzioni religiose senza essere visti, affacciandosi da una finestrella comunicante con alcune stanze dell’abitazione. Aprendo la finestrella Claudio dice: “Da questa finestra i principi guardavano se c’erano belle ragazze in chiesa senza che gli altri se ne accorgessero”. L’ingresso della chiesa si trova sulla piazza, e all’interno della cappella si possono ammirare tele, dipinti e statue di legno dei secoli XVIII e XIX. Visibile da lontano, il campanile della chiesa con il grande orologio.

Continuando il giro del castello arrivo sulle terrazze del palazzo: alcuni sono balconi che si affacciano sulle terrazze settentrionali, un tempo armati d’artiglierie per fermare gli attacchi dei pirati che arrivavano via mare. Da ognuna delle terrazze si poteva ammirare un panorama bellissimo e suggestivo del porto di Sant’Agata Di Militello, dove erano ancorate barche a vela e motoscafi. Si avvistava la curva della costa di Cefalù, e la punta di Capo d’ Orlando, e guardando in rettifilo si poteva riconoscere il bellissimo arcipelago delle isole Eolie. “Il castello domina le isole Eolie, dunque da qui il Mandralisca doveva passare navigando per recarsi a Cefalù – ci spiega Claudio Masetta Milone. E nelle prigioni del castello sono stati imprigionati molti rivoluzionari di Alcara Li Fusi. Consolo parla delle prigioni del castello con molta tristezza; attraverso la figura di Mandralisca, nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo si fa portavoce del malessere delle genti siciliane tradite dalle strutture politiche.

Panorama marittimo da uno dei terrazzi del Castello (Foto VNY, F.S)

I Principi Gallego ottennero la signoria della città nel 1573, Vincenzo Gallego e suo figlio Luigi costruirono il castello nel 1663. Il castello fu venduto nel 1820, insieme alle terre, dall’ultimo erede dei Gallego al Principe di Trabia. Nello stesso secolo i privilegi feudali declinarono. Il libro di Vincenzo Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio finisce con una descrizione precisa del castello-carcere di Sant’Agata di Militello, che per la sua forma a chiocciola divenne un simbolo architettonico per anime malvagie: “E siam persuasi che quell’insolito e capriccioso nome chiuso tra le parentesi che vien dopo Girolamo del principe marchese, Còcalo, sicuramente d’accademico versato in cose d’arte o di scienza, sennò sarìa stato eretico per paganità, abbia ispirato l’architetto. Essendo Còcalo il re di Sicilia che accolse Dedalo, il costruttore del Labirinto, dopo la fuga per il cielo da Creta e da Minosse, ed avendo il nome Còcalo dentro la radice l’idea della chiocciola, kokalìas nella lingua greca, còchlea nella latina, enigma soluto, falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso, la grande entrata da cui si può uscire seguendo la curva sinuosa ma logica, come nella lumaca di Pascal, della sua spirale, l’architetto fece il castello sopra questo nome: approdo dopo il volo fortunoso dal grande labirinto senza scampo della Spagna, segreto sogno di divenire un giorno viceré di Sicilia, sforzo creativo in sfida alla Natura come l’ali di cera dell’inventore greco o solo capricciosa fantasia?” Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Come la vita di ogni scrittore, anche quella di Vincenzo Consolo non fu facile. Terminate le scuole superiori si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, dell’Università Cattolica di Milano. Consolo decise di fare l’università a Milano perché c’erano Vittorini, Quasimodo, e c’era stato Verga. Però, per far contenti i suoi genitori egli si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e non a quella di lettere; la sua famiglia considerava l’insegnamento un lavoro da donne e non da uomini. Durante il tempo in cui si trovava a Milano fu costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, e in seguito si laureò in Giurisprudenza con una tesi in filosofia del diritto dall’Università di Messina, e ritornò a vivere in Sicilia dove si dedicò all’insegnamento nelle scuole agrarie. Nel 1963 debuttò con il suo primo romanzo, La ferita dell’aprile, una narrazione della vita di un paese siciliano straziato dalle lotte politiche del dopoguerra. Nel 1968, dopo aver vinto un concorso alla Rai, si trasferisce a Milano, dove vivrà e lavorerà fino alla sua morte svolgendo un’intensa attività giornalistica ed editoriale, e alternando alla vita milanese con lunghi soggiorni nel paese d’origine. Nel 2007 ricevette la laurea “honoris causa” in Filologia moderna dall’Università di Palermo.

Tra le opere di Vincenzo Consolo riordiamo: La ferita dell’aprile (1963), Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, la sua opera più celebre), Retablo (1987, premio Grinzane), Le pietre di Pantalica (1988), Nottetempo, casa per casa (1992, premio Strega), L’olivo e l’olivastro (1994), Lo spasimo di Palermo (1998). Lunaria (1985, dialogo fiabesco di sapore leopardiano). Consolo ha scritto anche per il teatro (Catarsi, 1989) ed è stato autore di saggi dedicati alla sua terra, la Sicilia: La pesca del tonno in Sicilia (1986), Il Barocco in Sicilia (1991), Vedute dallo stretto di Messina (1993).

Concludo con una citazione di Vincenzo Consolo,  tratta da una video intervista: “Perché molti siciliani scriviamo? Noi scrittori siciliani non è che non sapevamo che fare, ma abbiamo sentito il bisogno di spiegarci, di capire le ragioni di tanto malessere di quest’isola. Da sempre un’isola che potrebbe essere veramente un isola felice, l’Isola dei Feaci, perché abbiamo tutto; abbiamo la terra, le antichità. Eppure, per i mal Governi che si sono succeduti da sempre quest’isola e diventata un’isola maledetta, un’isola infelice”.

Filomena Fuduli Sorrentino

Filomena Fuduli Sorrentino

Una Prof. in America

Calabrese e appassionata per l’insegnamento delle lingue, dal 1983 vivo nel Long Island, NY. Laureata alla SUNY con un AAS e in lingue alla NYU

CONSOLO, Vincenzo

Paola Villani

Sesto di otto figli, nacque a Sant’Agata di Militello (Messina)  il 18 febbraio 1933, da Calogero (1898-1962) e Maria Giallombardo (1900-88).

Il padre, commerciante alimentare e poi piccolo imprenditore con la nascita della ditta ‘Fratelli Consolo Cereali’ nel 1939, trasmise al figlio i tratti di un’etica rigorosa, dimostrata anche contro la mafia, la quale nell’immediato dopoguerra veniva organizzando in tutta la Sicilia il controllo delle attività economiche.

Anche evocando il celebre testo di Luigi Pirandello sulla propria nascita nella contrada del Caos, Consolo ricordò i luoghi d’infanzia, le sue origini e la sua prima educazione nel romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile (Milano 1963), dedicato «con pudore» a suo padre, scomparso proprio in quell’anno.

Iniziava una progressiva centralità della Sicilia nella sua personalità di uomo e di scrittore, di intellettuale al bivio tra saggistica e letteratura, in una contaminazione di ‘generi’ che ha sempre distinto le sue pagine e che trova in Leonardo Sciascia, maestro dell’ibridismo, un decisivo modello.

La sua terra di origine si rivela come presenza «ossessiva», con un forte valore identitario, storico ma anche simbolico, che segna in parte il destino di uno scrittore «anfibio», tra terra e mare, tra passato e presente. Sicilia come luogo, tema, personaggio, persino struttura narrativa; quasi ad annodare, in una profonda corrispondenza e circolarità, i fili dell’amplissimo e diversificato corpus letterario dello scrittore, da La ferita dell’aprile al postumo La mia isola è Las Vegas: «tutti i romanzi, se ordinati in base alla cronologia dei fatti descritti o allusi, compongono, per momenti decisivi, una storia della Sicilia degli ultimi duecentocinquant’anni» (C. Segre, Un profilo di V. C., in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, 2015, p. XIV). Questa sicilianità «ostinata» e «implacabile» (v. G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, ibid., pp. XXV-LXXIV, con partic. riferimento a p. XXV) emerge spesso nella declinazione, tematica e metaforica, del viaggio, che è spostamento fisico ma anche attraversamento di tempi e luoghi, sfida all’ignoto e continua tensione verso un altrove; nella duplice direzione della partenza e del nostos che richiama il grande archetipo omerico, l’Odissea, il «poema in cui per la prima volta si apre davanti ai nostri occhi lo spazio mediterraneo» (Lo spazio in letteratura, in Di qua dal faro, poi in L’opera completa, cit., p. 1239). Eppure, «nella modernità, le colpe non sono più soggettive, ma oggettive, sono della storia. I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato […] Itaca non è più raggiungibile. Questo, secondo me, lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare» (in V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999, p. 22). Nel tragico confronto tra passato mitico e desolato presente, la sua terra gli appare aver perso tutti i connotati di un approdo. Si ripropone la sofferta diaspora, e il doloroso ritorno, degli scrittori meridionali; la «dolorosa saggezza» e la «disperata intelligenza» di cui Consolo ragiona ne Le pietre di Pantalica, come declinazione personale del paradigma della «intelligenza siciliana» di Vitaliano Brancati. Non è un caso se nel laboratorio della scrittura, oltre alla lezione di Italo Calvino o Cesare Pavese, affiora il realismo lirico-fantastico di Elio Vittorini o la prosa di cose di Giovanni Verga, Federico De Roberto, ma anche Pirandello.

Gli anni della guerra per il giovanissimo Vincenzo trascorsero relativamente tranquilli fino al 1943, quando gli americani, in preparazione dello sbarco, diedero avvio a massicci bombardamenti che coinvolsero la zona di Sant’Agata, sulla linea strategica Messina-Palermo, e che costrinsero la famiglia Consolo a ‘sfollare’ in campagna, nella contrada di Vallebruca. Dopo le scuole medie all’istituto salesiano Guglielmo Marconi, l’assenza di scuole pubbliche di grado secondario lo condusse nel 1947 al primo allontanamento da casa, per frequentare il liceo-ginnasio salesiano Luigi Valli a Barcellona Pozzo di Gotto, a ottanta chilometri da Sant’Agata. Era già chiara la sua passione per la lettura. Nelle pause scolastiche approfittava di un cugino del padre, Peppino Consolo, che possedeva una pur scarna biblioteca con alcuni classici della letteratura, da Manzoni a Hugo o Balzac, ai romanzieri russi.

Negli anni liceali si collocano i primi esercizi di scrittura, anche su suggestione di due letture che si rivelarono decisive: Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini e Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Iniziava allora una lunga ricerca sulle lingue, anche antiche. La sperimentazione di nuovi codici, registri e linguaggi si veniva costituendo in una «ideologia» precisa e insieme fluida e mai conclusa, tradotta in racconto con I linguaggi del bosco (in Le pietre di Pantalica, poi in L’opera completa, cit., pp. 606-612).

Nell’autunno del 1952 giunse il primo trasferimento, «traumatico», a Milano, per frequentare la facoltà di giurisprudenza dell’Università Cattolica. Fu in quei primi anni universitari che conobbe Basilio Reale, l’amico Silo che lo introdusse alla casa editrice Mondadori (cfr. Sirene siciliane, Palermo 1986; poi in Di qua dal faro, cit.), e Lucio Piccolo, il «barone magico» delle Pietre di Pantalica: «grande poeta di sconfinata cultura, cugino e antagonista di Tomasi di Lampedusa. Fu lui a insegnarmi la vera letteratura, la poesia e, insieme, a farmi amare certi libri di erudizione provinciale, ottocentesca, storie, guide, cataloghi, ‘pieni di insospettabile poesia’ diceva, che furono miniere lessicali per me» (Fuga dall’Etna, Roma 1993, p. 18).

Costretto a interrompere gli studi per assolvere gli obblighi del servizio militare (dapprima a Orvieto e poi a Roma), riprese il percorso universitario nel 1957, stavolta a Messina, per laurearsi quindi nel 1960 discutendo una tesi in filosofia del diritto dal titolo «La crisi attuale di diritti della persona umana».

I PRIMI GRANDI ROMANZI

Il primo testo a stampa risale al 1957, Un sacco di magnolie, apparso a firma «Enzo Consolo» nella rivista La parrucca (poi in La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano 2012, pp. 8-10) che vantava collaboratori come Umberto Eco, Giorgio Manganelli o Edoardo Sanguineti. Il suo esordio come romanziere è invece La ferita dell’aprile (cit.) che, dopo lunga gestazione, apparve nel 1963 per Mondadori nella collana «Il Tornasole» di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, con l’assistenza redazionale di Raffaele Crovi: «Mi sono ritrovato fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria» (Fuga dall’Etna, cit., p. 15). Forse anche per quella coincidenza cronologica con le spinte avanguardistiche, il romanzo quasi sfuggì all’attenzione di critica e di lettori. Suscitò invece l’interesse di Sciascia, al quale Consolo aveva inviato il libro allegando una lettera nella quale gli dichiarava il suo debito come scrittore. Era l’inizio di una salda e duratura amicizia, alla quale Consolo dedicò numerose pagine, molte delle quali raccolte nella sezione Intorno a Leonardo Sciascia del volume Di qua dal faro (cit., pp. 1161-1184).

La ferita dell’aprile, «poemetto narrativo» da leggersi anche come Bildungsroman autobiografico, costituisce un unicum nella carriera dello scrittore. Nel racconto della vita di un paese siciliano e delle lotte politiche del dopoguerra, la narrazione in prima persona (di cui Consolo non usufruì nei romanzi successivi) è impostata cronologicamente come diario di un anno scolastico e mette in scena i turbamenti dell’uscita dall’infanzia, nell’intreccio tra vicende personali dei protagonisti e storia d’Italia.

Sin dall’esordio emerge con forza, nella scrittura, quella centralità della parola che ha connotato fortemente l’intera sua produzione, fino a consacrarlo come ‘autore difficile’, ‘enigmatico’: «Mi ponevo […] sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’impasto linguistico» (in Adamo, 2006, p. 183).

L’attento lettore e saggista seguiva da vicino il dibattito sulla letteratura contemporanea. A segnare profondamente quella stagione fu anche la pubblicazione in Rinascita, del noto saggio di Pasolini, Nuove questioni linguistiche, apparso nel dicembre 1964, alla vigilia della pubblicazione del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e anche della stesura di Il pane (1964), dei racconti Grandine come neve, Befana di novembre (1965) e Triangolo e Luna (1966), poi inclusi in La mia isola è Las Vegas (cit.).

Nel 1964 prese a scrivere per L’Ora di Palermo, giornale allora diretto da Vittorio Nisticò; era l’inizio di una lunga collaborazione che lo impegnò fino al 1975 e poi ancora dal 1977 al 1991, e che vide Consolo anche titolare di una rubrica di successo, «Fuori casa», inaugurata nel dicembre 1968. Nel racconto Per un po’ d’erba ai margini del feudo (in L’Ora, 16 aprile 1966, poi incluso da Sciascia nell’antologia Narratori siciliani curata per Mursia insieme con Salvatore Guglielmino), forte anche della lettura del fortunato saggio di Hans Magnus Enzensberger Letteratura come storiografia (in Il Menabò, 1966, n. 9), inaugurava un nuovo modo narrativo, fondato sull’intreccio tra fiction e storia, racconto e documenti, che avrebbe poi preso corpo nel suo maggiore romanzo.

Nello stesso 1966 si collocano per Consolo viaggi significativi: uno nella valle del Belice, che torna nel racconto del 1984, Il drappo rosso con le spighe d’oro, e la trasferta a Parigi con Sciascia, il quale nello stesso 1966 aveva dato vita al premio Brancati di Zafferana Etnea coinvolgendo, oltre ad Alberto Moravia, Dacia Maraini e Pier Paolo Pasolini, anche i siciliani Ignazio Buttitta, Lucio Piccolo e naturalmente Consolo.

Nel 1967, l’anno nel quale Pasolini pubblicava in Nuovi Argomenti la prosa poetica di Lucio Piccolo L’esequie della luna da cui nacque lo spunto per Lunaria, Consolo vinse un concorso per la RAIInterruppe quindi l’insegnamento nelle scuole secondarie di secondo grado e, nel gennaio 1968, prese servizio presso la sede di Milano. Era un trasferimento destinato a essere definitivo, che segnò la vita e l’opera dello scrittore. Ad accoglierlo in azienda fu, tra gli altri, Caterina Pilenga, che aveva apprezzato il suo poco noto romanzo La ferita dell’aprile e che divenne compagna della vita, e moglie con rito civile dal 1986.

Quel trasferimento, in quel «momento di acuta storia», per l’acceso dibattito politico e culturale e per il duro conflitto sociale, fu una decisiva cesura, uno snodo sul quale spesso Consolo avrebbe riflettuto, non senza ripensamenti. Era una declinazione tragica del tema del contrasto di dimensione spazio-temporale, la sua protesta contro luoghi e tempi rispetto ai quali si sarebbe spesso sentito estraneo: la Milano di allora, l’«attiva, mercatora» città, e in particolare la RAI, «completamente ipotecata dal potere politico, dalla mafia partitica».

Pur mai rinunciando al suo carattere anarcoide, che lo portò non di rado ad aperte contestazioni, quella del servizio pubblico televisivo fu in effetti una postazione privilegiata per penetrare il paesaggio della letteratura contemporanea che Consolo lettore e critico ben conosceva; in una posizione insieme scomoda ma anche centrale di giornalista, che rivive nel personaggio Antonio Crisafi del racconto La pallottola in testa (poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 157-162).

Stabilitosi a Milano, Consolo prese a frequentare la casa sui Navigli della compagna di Vittorini, Ginetta Varisco, un cenacolo culturale animato tra gli altri da Carlo Bo, Italo Calvino, Paolo Volponi e Salvatore Quasimodo. Intanto lesse, destinati a incidere il suo percorso di scrittura, Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, pubblicato in Nuovi Argomenti, e Appunti sulla narrativa come processo combinatorio di Calvino, apparso in ‘Nuova Corrente’.

In quel ‘caldo’ 1968 aveva anche inviato a Paragone, la rivista diretta da Roberto Longhi e Anna Banti, un racconto intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio: si trattava del primo capitolo del futuro capolavoro, che tuttavia non venne accolto dalla rivista e apparve in Nuovi Argomenti, per volontà di Enzo Siciliano, nell’ultimo numero della stessa annata.

Nel 1975, dopo il rallentamento subìto negli anni precedenti, l’attività giornalistica s’intensificò. Nell’autunno del 1976 Consolo iniziò a collaborare anche con La Stampa e Il Corriere di Sicilia; dal dicembre 1977 con il Corriere della sera e, dal 1980, col Messaggero. Era un lavoro che non solo non si interruppe ma che, attraverso l’impegno profuso in numerosi quotidiani e periodici, anche stranieri, si prospettò infine come possibile impegno esclusivo: «Ho cercato di lasciare Milano nel 1975, perché non volevo più scrivere, non volevo più fare lo scrittore […]. Mi sono detto ‘farò il giornalista a vita’, perché mi sembra importante fare il giornalista, soprattutto in una città di frontiera com’era Palermo a quell’epoca» (in Pintor, 2006, p. 252).

Era la vigilia dell’uscita del romanzo, che avrebbe fatto conoscere Consolo al grande pubblico. Nell’autunno del 1975, infatti, all’insaputa dell’autore, apparve l’edizione Manusè del Sorriso dell’ignoto marinaio, per interessamento della compagna Caterina e di Sciascia, con un’acquaforte di Renato Guttuso. Dopo diverse proposte editoriali, e con un crescente interesse di pubblico e di critica, il romanzo apparve in versione definitiva nel 1979 per Einaudi, la casa editrice con la quale collaborava dal 1976 su proposta dell’amica Elsa Morante e dello stesso Giulio Einaudi; mentre già si diffondevano le traduzioni e mentre la RAI commissionò un progetto (mai realizzato) di sceneggiatura allo stesso Consolo e al regista Salvatore Maira.

Il romanzo richiama nel titolo il sorriso enigmatico raffigurato nel Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. L’intreccio prende corpo intorno a tre elementi, che si fanno nuclei narrativi: il fascino esercitato dalla preziosa tavoletta pittorica ammirata già nell’estate del 1949 presso la Casa-museo Mandralisca; l’interesse per la storia della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, innescata dall’arrivo di Garibaldi; l’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle isole Eolie ammalati di silicosi. Ne vien fuori una complessa architettura narrativa, più volte letta come anti-Gattopardo; pur con moduli espressivi e pur da postazioni ideologiche e artistiche molto differenti, al centro di entrambi i romanzi è la Sicilia percorsa dai moti risorgimentali, liberata (o occupata) dai Mille. In tale prospettiva, Il sorriso può intendersi come epigono della tradizione del racconto storico siciliano per ridisegnare l’epopea risorgimentale sullo sfondo del quadro storico-sociale negli anni dello sbarco garibaldino: una tradizione «sempre critica, antirisorgimentale», che da Verga, attraverso De Roberto e Pirandello, arrivava a Sciascia e Tomasi di Lampedusa. La complessità strutturale e stilistica giustifica la lunga gestazione del testo. La trasposizione del tempo storico all’immediato presente, la riflessione sulla lingua e la stessa tessitura linguistica, impastata di dialetti e gerghi tecnici, sembrano confermare la natura più autentica della narrativa di un autore che, sul modello di Zola, «abdica, per così dire, alla sua condizione di letterato per divenire intellettuale, ‘politico’» (Letteratura e potere, [1979], in Di qua dal faro, cit., p. 1168); la decisione di «non scrivere in italiano» era una forma di «ribellione alle norme» e alla storia, una «uccisione del padre» (in Sinibaldi, 1988, p. 12).

Nella contaminazione tra inserti documentari e narrazioni d’autore, in una costante sovrascrittura per la quale è stata richiamata la tecnica chirurgica del «trapianto» (O’ Connell, 2008, p. 165), il romanzo evoca le sperimentazioni novecentesche, il pastiche gaddiano o lo sperimentalismo pasoliniano, pur con una declinazione personalissima, a tratti neobarocca; in una raffinatezza strutturale, di carattere anche simbolico, che si rivela in una «costruzione a chiocciola», concentrica e labirintica, sulla quale ha insistito un fortunato saggio di Cesare Segre (Segre, 1987). A sostenere questo complesso impianto è, però, anche la grande tradizione del romanzo storico, e naturalmente il suo primo modello, il Manzoni dei Promessi sposi e della Storia della colonna infame.

Continuava intanto l’attività di scrittura come protesta e insieme documento, in quei caldi ‘anni di piombo’, di attentati e inchieste, che Consolo tradusse anche in racconto nel riuscito Un giorno come gli altri (1981) inserito poi da Enzo Siciliano nel «Meridiano» dei Racconti italiani del Novecento.

GLI ANNI OTTANTA E IL DITTICO BAROCCO DI LUNARIA E RETABLO

Anche sull’onda del successo del Sorriso, negli anni Ottanta Consolo intensificò l’attività di scrittura nella ricerca di nuove forme espressive, come mostra l’ampio ventaglio di progetti ai quali lavorò: un singolare romanzo giallo, Morte del giardiniere (1981); un libro saggistico sul Movimento indipendentista siciliano (1981); l’ipotesi di una sceneggiatura sulla vita di Giovanni Pascoli, alla quale si dedicò a Roma nel 1982 con Vincenzo Cerami per un film che avrebbe dovuto esser realizzato da Marco Bellocchio; il progetto di una inchiesta su una vicenda criminale degli anni Cinquanta (i frati estorsori di Mazzarino, primo nucleo narrativo di Le pietre di Pantalica); la traduzione, insieme con Dario Del Corno, di Ifigenia fra i Tauri di Euripide, che andò in scena nel 1982 al Teatro antico di Siracusa.

Nel novembre 1983 discusse con l’allora giovanissimo regista Roberto Andò il progetto di un testo teatrale tratto dal citato poemetto in prosa di Lucio Piccolo, Le esequie della luna; ne nacque invece Lunaria, favola teatrale ambientata nella Palermo settecentesca che apparve nei «Nuovi Coralli» di Einaudi (Torino 1985) e che gli valse il premio Pirandello.

La scrittura degli anni Ottanta sembra, almeno in parte, allontanarsi dalle ardite sperimentazioni formali e linguistiche del Sorriso. Tanto Lunaria (cit.) quanto Retablo (Palermo, 1987) sembrano aprirsi a forme più distese, costruite su vicende ambientate in un Settecento colmo di riferimenti storici e insieme estraneo a documentazioni rigorose, con una libertà di invenzione che mancava alle opere precedenti.

Nella profonda tensione etica, la scrittura si sarebbe liberata dallo scavo della realtà autobiografica e storica proprio con Lunaria, che può anche leggersi come semplice allegoria della solitudine dello scrittore. Nella Palermo settecentesca si muove il malinconico Viceré Casimiro, che sogna la caduta della luna, turbato da fantasmi di una diversa realtà, in una visione che si fa presagio che s’invera. Con un’apertura della prosa verso la poesia, quella poesia alla quale pure Consolo si dedicò (Accordi. Poesie inedite di V.C., a cura di F. Zuccarello – C. Massetta Milone, S. Agata di Militello 2015), ‘Lunaria’ vira decisamente in direzione del fantastico, ma anche del conte philosophique, che però attinge alla fortunata tradizione popolare del cuntu, come anche alle suggestioni del teatro barocco, Calderón de la Barca in testa (cfr. Di Legami, 1990, p. 28). Nel giugno 1986 l’opera andò per la prima volta in scena, a Roma, con la Cooperativa Quarta espressione, costituita da giovani diplomati dell’Accademia drammatica Silvio d’Amico.

Si moltiplicava, intanto, la rete di relazioni significative (da José Saramago ad Alberto Moravia), mentre proseguiva con Sciascia una salda amicizia, che lo spinse a pubblicare un articolo (Difficile mestiere scrivere da uomo libero, in Il Messaggero, 27 gennaio 1987), in difesa dello scrittore di Racalmuto travolto dalle polemiche suscitate da I professionisti dell’antimafia, apparso nel Corriere della sera il 10 gennaio 1987.

In seguito all’insistente invito di Elvira Sellerio, nell’estate del 1987 Consolo raggiunse Palermo per lavorare a Retablo, che apparve (dopo l’anticipazione di alcuni capitoli in la Repubblica) nell’ottobre 1987, con cinque disegni di Fabrizio Clerici. Retablo riscosse grande successo di pubblico e gli valse il premio Grinzane Cavour e il premio Racalmare. Nel 1997 Sebastiano Romano ne realizzò una lettura scenica a Milano, nella chiesa sconsacrata di San Paolo Converso, per la regia di Richi Ferrero e dello stesso Romano. Una versione teatrale, scritta da Ugo Ronfani, andò in scena nel 2001 al teatro stabile di Catania e poi a Milano.

L’opera segna per molti aspetti uno snodo all’interno della produzione di Consolo che, sensibile agli esiti della narrativa italiana e straniera (da Calvino a Manganelli, da Perec a Borges), pone al centro della narrazione romanzesca una stringente interrogazione sulla scrittura. Nella reiterata sovrapposizione tra storia e invenzione, persone e personaggi, Retablo, che richiama l’arte pittorica sin dal titolo, segue le vicende di un intellettuale e artista in fuga da Milano verso la Sicilia alla ricerca della matrice culturale e umana della donna che ama, Teresa Blasco (nella storia, la madre di Giulia Beccaria). Intorno al protagonista-pittore si dipana un intreccio tra letteratura e arti visive, ormai divenuto centrale nella scrittura di Consolo (Cuevas, Ut pictura: el imaginario iconografico en la obra de V. C., in Cuevas, 2005, pp. 63-77); fino a una immaginazione visiva che punta sulla centralità dei luoghi, in una personale geografia esistenziale. Retablo infatti è costruito sul modello odeporico, che richiama, per rinnovarla, la tradizione dei racconti del Grand Tour oltre che del modello classico del nostos, che utilizzò poi anche nelle narrazioni successive, nella opposizione geostorica Milano-Sicilia.

Il 1989 segnò per Consolo il ritorno alla forma tragica, con un testo redatto insieme con gli amici Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia, Trittico appunto, andato in scena al teatro stabile di Catania il 3 novembre 1989 per la regia di Antonio Calenda (poi in volume, Catania 1989). L’atto unico di Consolo, Catarsi, si accompagnava a La panchina di Bufalino e a Quando non arrivarono i nostri, rielaborazione drammaturgica di una novella di Sciascia.

LA TRILOGIA DEGLI ANNI NOVANTA

La sincera passione civile, declinata spesso nel segno della protesta, non si tradusse mai nella partecipazione attiva alla politica – nonostante i ripetuti inviti a una sua candidatura avanzati dal Partito comunista italiano (PCI) di Achille Occhetto – ma certo animò la sua scrittura, nella battaglia ingaggiata tra le parole e le cose. All’indomani dell’assassinio del giudice Rosario Livatino, il 21 settembre 1990, in un acceso clima di rivendicazioni e polemiche, decise di dimettersi dalla giuria del premio Racalmare, che intanto era stato intitolato a Sciascia, scomparso l’anno precedente.

È nel segno di questa protesta che si inserisce anche lo studio e il racconto della Sicilia, che Consolo continuava a osservare e denunciare: l’isola tra mito e storia, la terra dalla quale idealmente non riuscì mai a separarsi, sul piano intellettuale e artistico, eppure nella quale non tornò mai a vivere. È in questa prospettiva che può leggersi quella che sembra configurarsi quasi come trilogia: Nottetempo, casa per casa (Milano 1992), L’olivo e l’olivastro (ibid. 1994) e Lo spasimo di Palermo (ibid. 1998), sotto il segno del definitivo tramonto dell’utopia, nell’accentuazione di una dimensione simbolica della storia e della realtà.

Dopo una serie di ritratti di scrittori lombardi realizzati in RAI nel 1991 con il titolo Tracciati (Piero Chiara, Carlo Emilio Gadda, Lucio Mastronardi, Ada Negri, Vittorio Sereni, Delio Tessa e Giovanni Testori), nel 1992 Nottetempo, casa per casa (cit.), che fu insignito con il Premio Strega, rappresentò un ritorno al romanzo storico, come già forse, in parte, Le pietre di Pantalica (Milano 1988), stratificato e multigenere, la cui struttura tripartita (Teatro, Persone, Eventi) rimandava ancora una volta al teatro.

Al progetto narrativo di Nottetempo Consolo lavorava almeno dalla fine degli anni Sessanta, quando aveva cominciato a raccogliere materiali e documenti sul risorgimento in Sicilia, sulla strage di Alcàra Li Fusi e sulla Cefalù degli anni Venti alle prese con il controverso caso del “santone” Aleister Crowley. L’opera sembra segnare il secondo tempo di una ideale lunga storia della Sicilia, una fase successiva al Risorgimento del Sorriso e precedente agli anni Novanta di Lo spasimo di Palermo (1998). «In Nottetempo ho voluto far vedere come il fascismo fosse figlio della follia, la follia privata del protagonista e quella pubblica della Storia, il ricorso al satanismo che voleva distruggere il cristianesimo di una società malata: tutti segni oscuri e premonitori, come quelli che vediamo oggi con il ritorno a queste ridicole forme di esorcismo, questi fondamentalismi, questi revanscismi» (in Parazzoli, 1998, p. 28).

Continuava la sua forte militanza civile: le proteste contro l’elezione di Formentini a sindaco di Milano, o le dimissioni, all’indomani della nomina, il 10 settembre 1993, dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione del teatro stabile di Palermo, in polemica con il direttore artistico Pietro Carriglio, ritenuto «intellettuale organico alla DC di Salvo Lima».

Questa forte militanza proseguì con maggiore libertà dopo il suo collocamento in pensione dalla RAI, nel 1993. In seguito alla vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche, Consolo aderì al Forum Manifesto democratico 1994, promosso da Cesare Segre, Raffaele Fiengo e Corrado Stajano. Intanto, il 25 giugno di quell’anno partecipò a un dibattito coordinato da Renato Nisticò da cui sarebbe nato il testo Fuga dall’Etna (cit.)nuova testimonianza di una sicilianità che trovò riconoscimento anche nella cittadinanza onoraria di Cefalù, cui seguì, nel 1996, la stessa onorificenza da parte del Comune di Santo Stefano di Camastra. Ed è sempre la Sicilia al centro del volume del 1994, L’olivo e l’olivastro, che nel consueto superamento dei confini di ‘generi’ compiuto da Consolo, nell’intreccio tra poesia e prosa, narrazione e saggismo, che per alcuni richiama l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, si presenta come graffiante narrazione di viaggio. Il doloroso ritorno di Odisseo-Consolo verso l’Itaca-Sicilia è «un viaggio in verticale, una discesa negli abissi». Come Retablo, anche L’olivo e l’olivastro conduce il lettore attraverso la Sicilia di un presente degradato, che si confronta con il passato mitico.

Nel dicembre dello stesso 1994 ricevette per il complesso della sua opera narrativa e saggistica il premio internazionale Unione Latina da una giuria composta, tra gli altri, da José Saramago, Jorge Amado, Luigi Malerba.

In questi anni Novanta la presenza internazionale di Consolo si andò rafforzando. Nel 1995, su invito dell’allora presidente Salman Rushdie, divenne membro del Parlament international des écrivains (PIE) di Strasburgo. Tra dicembre 1995 e gennaio 1996 a Parigi andò in scena La crèche de Sicile, rappresentato anche a Palermo l’anno dopo. Il 15 febbraio 1996 il ministro della Cultura francese Philippe Douste-Blazy lo nominò chevalier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Ormai anche socio onorario dell’Accademia di Brera, nel 1996 fu inoltre in Argentina con una delegazione di scrittori italiani, su invito dell’Università di Buenos Aires; seguirono quindi viaggi a Strasburgo, Santiago del Cile e nella Bosnia-Erzegovina della guerra.

Alla Sicilia continuano a essere dedicate anche le sue opere mature. Il 19 giugno 1998 venne eseguita al teatro Verdi di Firenze, l’Ape iblea. Elegia per Noto, musicata da Francesco Pennisi (poi, insieme con Catarsi, raccolto nel volume Oratorio, Lecce 2002). Pochi mesi dopo apparve il suo ultimo romanzo, Lo spasimo di Palermo (Milano 1998) che, riprendendo elementi de La ferita dell’aprile, segna come un ritorno all’autobiografismo. La vicenda si svolge nell’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, i tragici fatti del 1992 ai quali Consolo aveva già dedicato un testo-adattamento della Messa di requiem di Verdi: Dies irae. Requiem da questa Palermo (poi Requiem per le vittime della mafia), eseguita con musiche di vari artisti nella Cattedrale di Palermo il 27 marzo 1993. La vicenda del protagonista-scrittore Gioacchino Martinez e del suo nostos ai luoghi dell’infanzia e giovinezza riscosse grande successo di pubblico e di critica (premio Monreale per la narrativa nel 1998; nonché, l’anno successivo, insignito con il premio Flaiano e il premio Brancati).

La Sicilia è ancora protagonista dell’ampia raccolta di saggi per la quale ipotizzava il titolo Pane di zolfo o Per nascente solfo, che apparve invece con il titolo Di qua dal faro (Milano 1999; premio Nino Martoglio e premio Feronia). Ed è ancora alla cultura popolare isolana che si consacra una sua riscrittura delle Fiabe siciliane raccolte nel 1868-69 dall’etnologa siculo-svizzera Laura Gonzenbach (Roma 1999).

IL SILENZIO DELLO SCRITTORE

Gli ultimi anni di vita sono segnati per Consolo da una dolorosa afasia artistica, che si manifesta come ulteriore declinazione dell’impegno, nella presenza-assenza al suo tempo e nella difficile condizione di un intellettuale «solo perché libero» (Letteratura e potere, cit., p. 1172). Nel marzo 2000 partecipò a una conferenza in difesa di Adriano Sofri, organizzata dal citato PIE con Christian Salmon, Jacques Derrida, Jacqueline Risset e Antonio Tabucchi. Il mese successivo firmò la sua adesione al Manifesto in difesa della lingua italiana promosso tra gli altri da Luigi Manconi, Aldo Masullo, Vittorio Sermonti, nella convinzione che l’Italia «ha perso memoria di sé, della sua storia, della sua identità», e che «l’italiano è divenuta un’orrenda lingua, un balbettio invaso di linguaggi che non esprimono altro che merce e consumo» (Il lungo sonno della lingua, in Il Corriere della sera, 6 giugno 2000).

Dopo esser stato in Francia ospite d’onore dell’Académie française al Prix Italiques, dove lesse la relazione La patria immaginaria, (poi con il titolo I Vespri, i paladini e la patria immaginaria, in Stilos, 1° maggio 2001), nel 2002 si trovò a esprimere per motivi politici – insieme con Umberto Eco e Antonio Tabucchi – il suo rifiuto alla partecipazione al Salon du livre di Parigi come componente della delegazione ufficiale italiana. Nello stesso anno si recò in Palestina con il PIE, per consegnare un appello di pace ad Arafat (cfr. Madre coraggio, poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 195-200) e firmò anche un Manifesto contro la islamofobia, che sarebbe stato presentato poi alla Fundación de cultura islámica di Madrid il 30 gennaio 2007.

Intanto, era ascoltato, letto e studiato all’estero: nel 2002 tenne un ciclo di conferenze negli Stati Uniti, mentre si avvicendavano convegni e volumi a lui dedicati: Siracusa, Siviglia e tre convegni all’Università di Valencia per iniziativa di Irene Romera Pintor, traduttrice di opere consoliane. Con il convegno Éthique et écriture tenuto il 25 e 26 ottobre 2002, con la direzione di Dominique Budor (ed. in volume, Parigi 2007), l’Università Sorbonne di Parigi dedicava per la prima volta un convegno a uno scrittore vivente.

Nel 2003 l’Università di Roma «Tor Vergata» gli conferì la laurea honoris causa in lettere: pronunciò una lectio magistralis (La metrica della memoria) che riprendeva una fortunata relazione del 1996Nello stesso anno, dal Ministère de la culture et de la communication francese, fu insignito del grado di officier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Una seconda laurea honoris causa, in filologia moderna, gli venne conferita, insieme con Luigi Meneghello, da parte dell’Università di Palermo nel 2007.

Mentre proseguivano le edizioni di romanzi e raccolte di saggi in Europa, negli Stati Uniti e in Canada, a settembre 2004 Consolo iniziò a lavorare a una raccolta di racconti, che apparve postuma nel maggio 2012, a pochi mesi dalla morte, con il titolo La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina. Dichiarava intanto di lavorare al suo ultimo romanzo, Amor sacro e amor profano, del quale però nell’Archivio Consolo non sono state rinvenute carte.

Nel 2010 Consolo avrebbe dovuto introdurre un’opera di Roberto Saviano (La parola contro la camorra, DVD, Torino 2010) ma, risentito per alcune non condivise dichiarazioni letterarie e politiche del giovane autore, ritirò il suo testo.

Mentre dunque Consolo testimoniava la sua presenza nel segno della denuncia, e spesso del rifiuto, si moltiplicavano le trasposizioni delle sue opere letterarie. Erano transcodificazioni, da intendersi anche come viaggio dei testi, che rispondevano a specifici interessi di un intellettuale sempre attento ai diversi linguaggi artistici, in particolare alla pittura – che tanto attraversava la sua scrittura –, al teatro e soprattutto al cinema, consumato quest’ultimo come rito collettivo, come rievoca nel racconto-saggio scritto in occasione della proiezione di Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (Dal buio, la vita, in Di qua dal faro, cit., pp. 1179-1184). Mentre si arenava il progetto di una riduzione cinematografica dello Spasimo di Palermo, proseguivano adattamenti teatrali delle sue opere. Dopo la versione di Retablo al teatro stabile di Catania, per la stessa regia di Daniela Ardini, Ugo Ronfani scrisse nel luglio 2010 l’adattamento del Sorriso dell’ignoto marinaio, andato in scena a Genova. Al festival di Cannes dello stesso anno venne presentato il progetto cinematografico Vivre ou rien, di Maria Agnès Viala e Giorgio Arlorio, tratto da Lo spasimo di Palermo.

Il 5 giugno del 2011, nonostante fosse affetto da un tumore in stadio avanzato, Consolo si recò personalmente a Ostana (Cuneo) per ricevere il premio Lenga Maire, dedicato alle scritture in lingue minoritarie. Teneva molto al premio, che riconosceva il suo impegno per far rivivere lingue marginali e in via di estinzione.

Morì poco dopo, a Milano, il 21 gennaio 2012. Rifiutando cerimonie pubbliche in fede alla volontà dell’Autore, la moglie Caterina fece celebrare le esequie a Sant’Agata di Militello il 23 gennaio, dove fu seppellito nella cappella di famiglia.

OPERE

Gran parte dei volumi editi sono ora raccolti nel «Meridiano» L’opera completa, a cura di G. Turchetta con un profilo di C. Segre, Milano 2015, da cui si cita e cui si rimanda anche per una esaustiva bibliografia degli scritti (che include articoli, saggi in volume, traduzioni, riscritture e altri scritti sparsi), insieme con una dettagliata bibliografia critica.

Il volume comprende (nell’ordine delle prime edizioni): La ferita dell’aprile, Milano 1963; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Lunaria, ibid. 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988; Nottetempo, casa per casa, ibid. 1992; L’olivo e l’olivastro, ibid. 1994; Lo spasimo di Palermo, ibid. 1998; Di qua dal faro, ibid. 1999.

Ci si limita qui a segnalare i volumi non inclusi in quella edizione (anche postumi) e i saggi critici citati: Marina a Tindari. Poesie, Vercelli 1972; V. Consolo – N. Rubino, Fra contemplazione e Paradiso. Suggestioni dello Stretto, Messina 1988; Catarsi, in V. Consolo – G. Bufalino – L. Sciascia, Trittico, a cura di A. Di Grado – G. Lazzaro Damuso, Catania 1989; La Sicilia. Passeggiata, Torino 1991; Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma 1993; Neró metallicó, Genova 1994; V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999; Il Teatro del Sole. Racconti di Natale, Novara 1999; V. Consolo – F. Cassano, Lo sguardo italiano. Rappresentare il Mediterraneo, Messina 2000; Oratorio, Lecce 2002; Isole dolci del Dio, Brescia 2002; Reading and writing the Mediterranean. Essays by V. C., a cura di N. Bouchard – M. Lollini, Toronto 2006; Il corteo di Dioniso, Roma 2009; Pio La Torre, orgoglio di Sicilia, Palermo 2009; L’attesa, Milano 2010; La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, ibid. 2012; Esercizi di cronaca, a cura di S. Grassia, Palermo 2013; Accordi. Poesie inedite di V. C., a cura di F. Zuccarello – C. Masetta Milone, S. Agata di Militello 2015.

FONTI E BIBLIOGRAFIA

M. Sinibaldi, La lingua ritrovata: V. C., in Leggere, II (1988), pp. 8-15; C. Segre, Introduzione a V. Consolo, Il Sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987, pp. V-XVIII (poi in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino 1991, pp. 71-86); F. Di Legami, V. C. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; V. C., Nuove Effemeridi, VIII (1995/I), 29 (n. monografico); P. Farinelli, Strategie compositive, motivi e istanze nelle opere di V. C., in Italienisch,  XXXVII (1997), pp. 38-45; F. Parazzoli, Il gioco del mondodialoghi sulla vita, i sogni, le memorie, Cinisello Balsamo 1998, pp. 21-33; G. Traina, V. C., Fiesole 2001; E. Papa, V. C., in Belfagor, LVIII (2003), 2, pp. 179-198; Per V. C., Atti delle giornate di studio… 2003, a cura di E. Papa, San Cesario di Lecce 2004; Leggere V. C. – Llegir V. C., a cura di M.A. Cuevas, in Quaderns d’Italià, X (2005), pp. 5-132; «Lunaria» vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor, Valencia 2006; La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di V. C., a cura di G. Adamo, San Cesario di Lecce 2006;  V. C. Éthique et écriture, Atti del Convegno… 2002, a cura di D. Budor, Paris 2007; L. Terrusi, L’onomastica nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di V. C., in Il Nome del testo, XIV (2012), pp. 55-63.

La letteratura come nostalgia della vita. Retablo di Vincenzo Consolo

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Gianni Turchetta

Rappresentazione e realtà
La ricchezza linguistica e culturale della pagina di Vincenzo Consolo, la

stratificazione vertiginosa delle allusioni e delle citazioni nelle sue opere, potrebbero far sorgere l’idea che la sua sia una scrittura non soltanto, come egli stesso ha detto, ‘palinsestica’ o addirittura ‘palincestuosa’, ma addirittura esclusivamente giocata su una infinita deriva verbale, su qualcosa come la fuga senza fine delle parole e delle immagini, nell’ impossibilità, per la letteratura e per l’arte in genere, di attingere la realtà. Tesi che è peraltro balenata non di rado in alcune interpretazioni recenti. Le parole, certo, sono altro dalla vita, e dall’esperienza. Ma d’altro canto alla letteratura spetta proprio la sfida senza fine di evocare comunque la vita, di mettere in scena un testo costantemente teso a sfondare la propria chiusura, a far saltare i limiti del linguaggio che pure lo costituisce. Per Consolo l’arte tutta, e le rappresentazioni, e le parole, sono in qualche modo una forma di nostalgia: in quanto tensione disperata verso una vita comunque irraggiungibile, verso una realtà che nessun’arte, nessuna rappresentazione, e nessuna parola, sarà mai in grado di restituire in tutta la sua intensità e densità. D’altro canto, Consolo non smette mai di essere scrittore profondamente etico, che muove dalla percezione, intimamente tragica, profondissima, e patita fino allo spasimo, del proprio essere scrittore come una limitazione, una condizione fatalmente segnata da un non medicabile distacco dal mondo: un mondo che pure egli intende cambiare, denunciandone senza sosta l’ingiustizia e la violenza. La scrittura letteraria, così come l’arte e l’essere intellettuale, resta un valore: ma non può prescindere dalla sofferta consapevolezza del proprio essere altro rispetto alla realtà. La forza fascinosa della scrittura di Consolo mette così radici anche e proprio nell’ energia con cui la sua nostalgia del mondo si lascia pienamente sentire come desiderio, per quanto deluso e problematico, e proprio per questo non smette mai di comunicarci proprio quella densità del reale che dispera di raggiungere. Se questo accade un po’ sempre nei libri di Consolo, forse Retablo porta all’estremo la tensione fra, da un lato, un pessimismo, storico e meta-storico, acutissimo e, dall’altro, una mai perduta capacità di gustare la vita, e perciò di amarla, di riaffermare sempre e comunque, le ragioni della vitalità (che non va in nessun modo confuso con il vitalismo, da Consolo sempre rifiutato e combattuto) e persino dei sensi. Così, se è certo vero che, come scrive Giuseppe Traina, “Retablo appare, almeno in parte, come un episodio alquanto eccentrico dell’itinerario narrativo consoliano, sia rispetto ai romanzi che l’hanno preceduto sia rispetto a quelli che l’hanno seguito” (Traina 2004, 113), a guardarlo da un punto di vista un po’ diverso, Retablo può legittimamente apparire piuttosto come un’opera esemplare nella carriera di Consolo, un romanzo capace di mettere sotto tensione, al massimo grado, proprio l’antitesi fra pessimismo e vitalità.      Come ebbe a scrivere Giuseppe Pontiggia, a proposito di un altro grande siciliano da Consolo amatissimo, Stefano D’Arrigo, lo scopo dei veri artisti è alla fine quello di “aggiungere vita alla vita” (Pontiggia 1984, “Retablo” di Vincenzo Consolo

209). Sarei tentato a questo punto di citare tutto lo straordinario, travolgente incipit del romanzo, con l’invocazione del fraticello Isidoro all’amata Rosalia; mi accontenterò di citarne solo una parte: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozio- ne, lilio dell’inferno che credi divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue

che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. (Consolo 1987a, 369) Ce n’est qu’un début … Opera straordinariamente coerente e compatta, fin dal titolo Retablo (cioè pala d’altare, polittico) pone il problema del rapporto fra rappresentazione e realtà, avviando un complesso gioco di specchi fra letteratura e pittura, e fra parola e immagine: un gioco confermato anche dalla macro-struttura del libro, che si presenta come una sorta di trittico, cioè come una struttura a tre termini, con agli estremi due capitoli molto brevi (“Oratorio” e “Veritas”), analoghe alle due pale d’altare laterali, più piccole, e con al centro un capitolo molto più lungo (“Peregrinazione”, che occupa tre quarti del libro), come più largo è di solito il quadro centrale dei polittici: significativamente il tema principale del capitolo centrale è il viaggio. Fra i molti possibili riferimenti di questa complessa operazione, mi piace ricordare il troppo poco citato Claude Simon, con il suo Le vent, che porta come sottotitolo Tentative de restitution d’un retable baroque (Simon 1957). A prescindere da possibili intertesti, con ogni evidenza nel libro di Consolo l’intreccio letteratura/pittura, in Retablo come già in Il sorriso dell’ignoto marinaio, e in altre opere ancora, si fa anche costruzione di diversi livelli di realtà: un effetto strutturale che Consolo moltiplica affidando sempre il racconto a narratori interni, in prima persona, cioè a una prospettiva soggettiva, parziale. Inoltre, ognuna delle tre parti di Retablo ha un narratore diverso, che interpreta la realtà dal suo punto di vista, obbligando il lettore a cambiare a sua volta via via prospettiva. Il gioco delle prospettive e dei livelli di realtà, a complicare ancora di più la complessità dell’impianto narrativo, s’intreccia inoltre con la percezione, spagnolesca e barocca (da Cervantes a Calderón de la Barca), ma anche siciliana, pirandelliana e sciasciana, del mondo come teatro: e dunque come illusione, mascherata e rappresentazione. Storia, fiction e metafora: fra idillio e orrore Come si vede, i rapporti fra rappresentazione e realtà vengono giocati, problematicamente, su molti piani allo stesso tempo: col risultato, solo apparentemente paradossale, che il lettore ne riceve un effetto insieme di esibito artificio e di realtà, per via di addensamento di un’irriducibile pluralità percettiva e interpretativa. A complicare ulteriormente il quadro c’è anche la dimensione di romanzo lato sensu storico: anche Retablo, come Il sorriso dell’ignoto marinaio, è a suo modo un romanzo storico, ‘un componimento misto di storia e d’invenzione’, ambientato in questo caso nel XVIII secolo. Però, per quanto un po’ sommariamente, possiamo dire subito che Retablo è molto meno romanzo storico del Sorriso dell’ignoto marinaio, anche se il principio di verosimiglianza, anche e proprio nel senso della verosimiglianza storica, non viene mai intaccato in modo sostanziale. Anche a Retablo si potrebbero del resto premettere le stesse parole che Consolo metteva in epigrafe al suo primo romanzo: “Persone, fatti, luoghi sono immaginari. Reale è il libro” (Consolo 1963, 4). Certo, non mancano i riscontri puntuali con aspetti, eventi e personaggi storici, che Consolo sempre mette in scena solo dopo un pazientissimo lavoro di documentazione e di ricostruzione storica. Penso, per esempio, alle figure di Teresa Blasco, di Cesare Beccaria e dei fratelli Verri, dello scultore Giacomo Serpotta e dell’abate e poeta dialettale Giovanni Meli. Ma, mentre ricostruisce attentamente il contesto, Consolo mette in atto pure, a contropelo, una serie consapevole di anacronismi. Anzitutto, e fondamentalmente, scegliendo come protagonista un Fabrizio Clerici, omonimo del grande pittore e amico, nato nel 1913 (morirà nel 1993), con il quale aveva compiuto nel 1984 il viaggio che sarà lo spunto per il romanzo, dopo la comune partecipazione come testimoni al matrimonio dell’amico regista Roberto Andò 1. Ma il gioco è molto più sottile. Infatti, la vicenda è ambientata nel 1760-1761. Ma Serpotta era morto nel 1732 (era nato nel 1656); in modo opposto e complementare, Giovanni Meli, nato nel 1740 Per la storia della genesi e dell’elaborazione di Retablo, cf. Turchetta 2015, 1351- (morirà nel 1815), a quell’epoca aveva vent’anni, e non era certo un vecchio abate bavoso, lesto a toccare Rosalia e poi a fuggire. Va notato, fra l’altro, che Giovanni Meli era già un personaggio di Il consiglio d’Egitto di Sciascia (Sciascia 1963), opera fondamentale per Consolo, soprattutto per l’ideazione di Il sorriso dell’ignoto marinaio.  Né mancano, in questa Sicilia un po’ sognata, le violenze e gli orrori, che rappresentano comunque un richiamo costante alla feroce durezza della realtà: nella quale le catastrofi naturali si sovrappongono alle crudeltà della storia, all’evocazione degli strumenti di tortura, alla brutale ferocia di una sedicente giustizia, come accade, esemplarmente, nella scena delle prostitute frustate e mutilate: Ci girammo e vedemmo quattro donzelle in fila, che aizzate da un bruto con un nerbo, affannate correvan lacrimando in giro in giro per tutto quel terrazzo. Al cui centro, imperioso e alto sopra una catasta di palle di granito, stava il tronfio figlio del Soldano. “Cos’hanno queste fanciulle, perché subiscon una simile condanna?” gli chiesi avvicinandomi. “Puttane sono!” risposemi sprezzante. “Si fecero da me violare. E ora voglio che sgravino, avanti d’aver ricatti e il pensiero di mettere alla ruota i bastardelli”. Guardai con raccapriccio le fanciulle piangenti, il ceffo privo di naso, mozza- togli di certo per condanna di ruffianeria, che ghignando le colpiva; guardai quel ribaldo garzone compiaciuto, e non desiderai altro che fuggire presto la casa di suo padre, abbandonar correndo quel paese. (Consolo 1987a, 400) Inoltre, il viaggio in Sicilia diventa anche uno strumento per evocare Milano: sì, la Milano del XVIII secolo, ma non meno la Milano ‘da bere’ degli anni Ottanta e dell’era Craxi, cioè di un presente di superficialità, consumismo, corruzione: O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via, via, lontan! (Consolo 1987a, 433) D’altro canto, la riconoscibilità dei personaggi nei termini della storia ufficiale, per quanto rilevante, tutto sommato non appare qui decisiva, a differenza di quanto accadeva nel Sorriso. Diciamo che lo scenario in cui si svolgono le vicende di Retablo è ‘antico’, prima che storico: tanto che qualche recensore, esagerando in senso opposto, ebbe a parlare persino di ‘fiaba’, o di ‘sogno’. Ma Consolo è molto più lucido, oltre che letterariamente più bravo, dei molti autori di romanzi pseudo-storici, o para-fantastici, degli ultimi trent’anni circa. Riprendendo liberamente un’acuta categoria interpretativa del mio maestro Vittorio Spinazzola, riferita proprio al romanzo siciliano del XIX e del XX secolo (Spinazzola 1990), potrei dire che anche Retablo è un romanzo anti-storico: dove, in particolare, la regressione nel tempo e l’allontanamento dal presente sono costruite in esplicita opposizione con la violenza della storia, oltre che in aperta polemica con la barbarie del presente. Nel passato, certo, si ritrovano altre violenze e altre barbarie: ma resta importante proprio il movimento di fondo, il gesto di distacco, conspevolmente esibito, insieme dal presente e dalla storia: che implica comunque un moto polemico e critico, senza il quale il testo consoliano sarebbe in buona sostanza incomprensibile. In prima approssimazione, Retablo si presenta come un trittico, che evoca la struttura di quel tipo di pala d’altare definito appunto retablo; ma la struttura programmaticamente pittorica si doppia nell’impostazione teatrale della narrazione, così costituendo il testo tutto a partire da una irriducibile pluralità strutturale: Retablo è teatro, pur nella forma narrativa o romanzesca. Il termine ‘retablo’, recita il dizionario, ‘è l’insieme di figure dipinte o scolpite, rappresentanti in successione lo svolgimento d’un fatto, d’una storia’. Appartiene dunque il termine (che deriva dal latino retrotabulum) alla sfera dalla pittura o della scultura (in Sicilia abbiamo retabli dei Gagini). Ma il termine trapassa poi in Spagna dalla pittura al teatro. È teatro (tìtere: teatro di marionette, di pupi) in Lope de Vega e soprattutto in Cervantes, nell’ intermezzo El retablo de las maravillas e nel Don Chisciotte: qui vi è il racconto del retablo o teatrino di Mastro Pietro. Nel grande ironico spagnolo retablo è metafora dell’arte, pittura teatro o racconto: è inganno, illusione, ma illusione necessaria per fugare il sentimento della caducità della vita, per lenire il dolore. Il mio Retablo è dunque pittura (a partire dalla sua struttura) e insieme racconto. Racconto di un viaggio in Sicilia (la coppia dei viaggiatori Fabrizio e Isidoro sono proiezioni, ombre labili, quanto si vuole, di don Chisciotte e Sancio), viaggio nel tempo e nella storia, nella miseria e nelle nobiltà umane. Ed è teatro ancora, Retablo, per il linguaggio, che è ampiamente dispiegato in quella che è la mia sperimentazione stilistica. (Consolo e Ronfani 2001, 9-10) Sulla ben percepibile strutturazione a trittico, pittorica e però anche teatrale, il complesso impianto narrativo di Retablo innesta e intreccia due “Retablo” di Vincenzo Consolo storie principali. La prima è quella dell’amore del fraticello Isidoro per la bella Rosalia: un amore che gli fa abbandonare il convento, e che viene riecheggiato un po’ per tutto il libro dalla presenza quasi ossessiva del nome di Santa Rosalia, oltre che dalla presenza di un’altra Rosalia. Quest’ultima fa balenare persino il sospetto di essere la stessa amata da Isidoro, e dà luogo a sua volta a un’altra storia nella storia, quella raccontata, ancora una volta in prima persona, nel capitolo “Confessione”, che si incastra esattamente al centro del capitolo centrale, e dunque al centro del libro tutto: è la confessione di Rosalia Granata, che racconta la propria seduzione ad opera del proprio confessore, frate Giacinto, che la obbligherà poi ad avere rapporti con altri tre conversi, uno dei quali, innamorato, la libererà uccidendo il corruttore. Questa ulteriore storia inserita, ma verrebbe voglia di dire intarsiata, crea un ulteriore gioco di specchi e di rimandi interni, arricchendo e complicando la polisemia del libro, anche perché appare vergata in corsivo sul verso di una serie di pagine pari del romanzo (Consolo 1987a, 416, 418, 420, 422), alternate alla narrazione normale, in tondo nelle pagine dispari. Queste pagine infatti si rivelano essere il verso dei fogli di una risma di carta consegnata a Fabrizio Clerici perché possa disegnare, ma sono anche scritti effettivamente sul verso delle pagine del romanzo pubblicato, così che la storia di Rosalia Granata sfonda la separazione fra mondo della rappresentazione e mondo del lettore, perché va a toccare direttamente la realtà materiale al tempo stesso dei fogli che sono in mano a Fabrizio e delle pagine del libro che il lettore ha per le mani: “Ecco la carta, ecco la carta che vi manda frat’Innocenzo, col fraterno saluto e la benedizione sua paterna”. Così dicendo uno dei due messi porse una rìsima di carta vecchia, gialla e spessa al capo suo don Vito. Il quale, contento, con un profondo inchino me la porse. Io la sogguardai e subito m’accorsi ch’erano alcuni di quei fogli scritti su una faccia, in righe sconnesse e con una scrittura svolazzante. E sono quei fogli questi su cui, nella faccia opposta e immacolata, ho continuato a scrivere il diario di viaggio oltre che sugli altri fogli vergini e ingialliti. Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti, sembra che qualsivoglia nuovo scritto, che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco d’altri scritti. Come l’amore l’eco d’altri amori da altri accesi e ormai inceneriti. E il mio diario dunque ha proceduto, vi siete accorta, come la tavola in alto d’un retablo che poggia su una predella o base già dipinta, sopra la memoria vera, vale a dire, e originale, scritta da una fanciulla di nome Rosalia. Che temo sia la Rosalia amata da don Vito Sammataro, per la quale uccise, e si convertì in brigante. O pure, che ne sappiamo?, la Rosalia di Isidoro. O solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore. (Consolo 1987a, 421 e 423) Tornando a Isidoro, questi perde tutte le comodità della condizione di fraticello, e si ritrova da un giorno all’altro sulla strada e per di più non ritrova l’amata per la quale si è appena rovinato; ma per fortuna incontra il cavalier Fabrizio Clerici, che lo prende al suo servizio. Si apre così la seconda storia principale del romanzo, quella appunto del viaggio di Fabrizio, alla ricerca di oggetti archeologici. In questo modo, la vicenda di Isidoro servo di Fabrizio evoca palesemente, come del resto accennato dallo stesso Consolo, la coppia don Chisciotte – Sancio Panza: coppia che a sua volta rimanda a un ulteriore palese riferimento a Cervantes, presente fin dal titolo, che, oltre a richiamare il genere pittorico del retablo, è anche più specifica citazione di El retablo de las maravillas, uno degli entremeses di Cervantes. Inoltre, l’avvio del viaggio in Sicilia rimanda visibilmente non solo al modello odeporico in genere, ma specificamente al Viaggio in Italia di Goethe, per il quale Consolo aveva scritto una introduzione pubblicata, corrispondenza certo non casuale, proprio nel 1987, lo stesso anno di Retablo (Consolo 1987b). A moltiplicare ancora i rimandi interni, e i livelli di realtà del testo, Fabrizio Clerici, come si è visto, è anche il nome di chi ha realmente disegnato le illustrazioni del volume: a conferma dei molteplici interscambi fra letteratura e pittura, da un lato, ma anche, più fondamentalmente, tra realtà e finzione. Abbiamo così un amore parallelo ad un viaggio, dove il primo innamorato, Isidoro, si metterà in viaggio con Fabrizio. Ulteriore parallelismo, si scoprirà che anche Fabrizio in realtà è innamorato: e se l’amore di Isidoro è un amore non realizzato, non consumato, il viaggio di Fabrizio è stato intrapreso per sfuggire all’amore, per non lasciarsene afferrare: “Io avvertii il male al suo apparire, come s’avverte il sole al primo roseggiar dell’aurora, e assunsi subito il mio contravveleno del viaggio. Laonde posso serenamente stendere per voi le note che qui stendo, e nel contempo parlare serenamente dell’amore. Siete felice voi, o mia signora, siete felice?” (Consolo 1987a, 393). En passant, uno dei personaggi più riconoscibili rispetto alla realtà storica è la donna amata da Fabrizio: donna Teresa Blasco (cognome fondamentale nei Viceré di De Roberto, ça va sans dire), che sposerà Cesare Beccaria, e che dunque è la nonna di Alessandro Manzoni 2 … Ma, si noti, Fabrizio si distacca dall’amata e dall’amore per eccesso di amore: e per eccesso di amore si mette a scrivere. Senza il distacco, non riuscirebbe a scrivere; tuttavia, se non amasse verrebbe a perdere la conditio sine qua non della scrittura. Una raffinata e puntuale ricostruzione delle vicende di Teresa Blasco, nel contesto della Milano dei Verri e di Beccaria, è quella di Albertocchi 2005.  “Prima viene la vita” Entrambe le storie rappresentano comunque una condizione di distanza, di non contatto. Non a caso, Consolo riprende l’immagine della scrittura come viaggio, arricchendola di una complessa stratificazione di significati aggiuntivi: Ascesi, come procedendo in sogno, o come in uno di quei disegni trasognati che i viaggiatori oltremontani lasciaro di questo sogno, del sogno intendo di quest’antichitate indecifrata (perché viaggiamo, perché veniamo fino in quest’isola remota, marginale? Diciamo per vedere le vestigia, i resti del passato, della cultura nostra e civiltate, ma la causa vera è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno d’ère trapassate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’ nostri desideri. Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene, è un sogna E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, e d’un viaggio nella terra del passato. Come questo diario di viaggio che io per voi vado scrivendo, mia signora Mi chiedo: sogno, chiuso nella mia casa deserta di Milano, o egli è vero che io sto viaggiando, che mi trovo ora qui, sul suolo della celebre Segesta?), ascesi, per un sentiero d’agavi fiorite, macchie d’acanto, di cardi mezzo gli anfratti delle rocce di candido calcare, al colmo di quel colle, ai piedi del maestoso e chiaro, misterioso templo … (Consolo 1987a, 413) Come si vede, ancora una volta Consolo assume un atteggiamento duplice, ambivalente, nei confronti della letteratura e più in generale dell’arte: da un lato, infatti, egli le esibisce e svela come frutto di una rinuncia e di un rifiuto, consapevolmente arrischiandosi a sottolinearne persino il valore consolatorio, come esito proprio della fuga dalla violenza del mondo, dagli orrori della realtà. Da un altro lato, però, proprio la coscienza di questa debolezza dell’arte diventa la sua forza: l’arte può accostarsi al reale senza mistificazioni proprio perché sa di non identificarsi col reale stesso, e proprio così resta sempre in grado, mentre ci fa sfuggire al reale con l’illusione, di rivelarci questo stesso reale, di farcelo indirettamente afferrare, in modo apparentemente paradossale.   Fabrizio (nome carico di risonanze romanzesche, a cominciare da Fabrizio del Dongo) viaggia dunque alla ricerca di antichità, di oggetti antichi, e dunque fugge la vita inseguendo la storia e la cultura, spendendo il proprio tempo alla ricerca di oggetti doppiamente distanti dal presente in quanto arte e in quanto appartenenti al passato. Si noti, però, che, a fronte del pericolo di naufragio durante una tempesta, una preziosa statua greca verrà gettata in mare, consentendo alla nave di riequilibrarsi e ai viaggiatori di salvarsi: a conferma che la cosa più importante resta sempre e comunque la vita; l’arte può anche prendere il comando della nostra esistenza, ma solo finché ci aiuta a vivere: quando entra in conflitto aperto con l’esistenza deve essere messa da parte, persino a rischio della distruzione: “Pericolo c’è, ah?, don Giacomino? Io non so natare …” disse con voce rotta. “Pericolo … pericolo … mastr’Isidoro … ’sto marmo è, che non sta fermo! …”. E guardò me, il marinaro, come responsabile, pel mio capriccio di trasportare in Trapani la statua: capriccio incomprensivo di forastiero, d’uomo ricco … Una più alta onda, a un certo punto, sferzando fortemente la fiancata, fece rotolare ancora, e trasbordare, tranciando scalmi, inabissar nell’acqua, salvandoci sicuramente da naufragio, la mia statua. Vai, dunque, vai, giovine di Mozia, atleta o iddio, sagoma, effigie vera o ideale, chiunque tu ti sia, pace e quiete a te in fondo al mare, a noi sopra la barca, e a terra, quando v’arriveremo e fino a che duriamo. Tutto viene dal mare e tutto nel mare si riduce. Addio. Prima viene la vita, quella umana, sacra, inoffendibile, e quindi viene ogni altro: filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza … Quanti Fenici o Greci navigando, giovani e prestanti al par di te, ma vivi, veri, Matar di nome oppur Alchibiades, si persero nel mare, si sciolsero finanche nelle ossa … Tu perduri nella tua petrosa consistenza e forse un giorno, chi sa?, sospinto da correnti o trascinato da sciabiche, pur incrostato di madrèpore, coralli, risorgerai dal mare, ridestando ancora sulla terra maraviglia. Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo. Questo, o di questo genere, fu l’ultimo pensiero ch’io gli rivolsi, mentre la barca andava equilibrandosi sgravata finalmente di quel peso. E il vento a regredire, e il mare a rabbonirsi. (Consolo 1987a, 452- 453) D’altro canto, se Fabrizio, cercando reperti archeologici, fugge dalla realtà, allo stesso modo egli testimonia di realtà perdute, adempiendo a una necessaria pietas storica, che è un compito fondamentale dell’arte e, più in generale, del lavoro intellettuale. La stessa lingua di Consolo, del resto, con la sua raffinata e inesauribile ricerca di parole e giaciture sintattiche, con lo scialo sontuoso di lingue diverse rimescolate in modo inatteso (italiano antico, dialetti siciliani, spesso proprio nelle varianti meno conosciute e non vocabolarizzate, altre lingue antiche e altri dialetti, gerghi, lessici tecnici) e di registri diversi (con il calcolato contrasto fra registri alti e registri bassi), nasce anche e proprio dall’esigenza di difendere strenuamente, per così dire, le bio-diversità del linguaggio, di contrastare l’oblio delle parole, per difendere almeno la memoria delle cose e delle persone a cui si riferiscono. La ricerca delle parole risponde così, certo, a esigenze di concentrazione simbolica, ma, ancora una volta, nasce, nel profondo, da un’esigenza etica, che, per riprendere il punto di partenza del nostro discorso, fa tutt’uno con l’amore per gli infiniti aspetti del mondo, per le cose e le persone che la scrittura si sforza di preservare in qualche modo, per impedire che la morte coincida con la sparizione definitiva anche dalla memoria degli uomini, che la violenza vinca due volte, inabissando anche nel nulla dell’oblio quanto ha già sconfitto nella realtà. Diventa così tutto sommato secondaria la questione della storicità o meno della rappresentazione di Retablo, nella prospettiva di una possibile attribuzione di genere letterario. Da questo punto di vista, infatti, tutte le scritture di Consolo sono profondamente storiche: di una storia, per la precisione, che in ogni momento si mescola, felicemente, allo sguardo antropologico; come del resto confermano, ad abundantiam, i saggi di Vincenzo. E la sua irriducibile esigenza etica non entra affatto in contrasto, ma finisce anzi per coincidere con la sua carnale passione per il mondo, per le cose che restano fuori dalle pagine, ma che pure la letteratura riesce a far balenare. Significativamente, l’ultimo capitolo, la pala che chiude il polittico, evoca la figura di un cantante e maestro di canto, don Gennaro Affronti, sopranista dalla voce sublime, ma perché è stato castrato: Io sono dunque ormai creatura di don Gennaro. Il quale, meschino, da caruso, fu mutilato della sostanza sua mascolina per esser tramutato in istromento dolcissimo di canto. E ha avuto ricchezza, onori e risonanza, ma gli è mancata la cosa più importante della vita: l’amore, come quello nostro, Isidoro mio. Mi dice: “Ah, come t’avrei adorata, Rosalia, se fossi stato uguale come gli altri!”. E ancora, sospirando: “C’est la vie: chi canta non vive e chi vive non canta!”. E mi guarda, alla vigilia del mio inizio, con gran malinconia. “Siamo castrati, figlia mia”, aggiunge “siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore … Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo,e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti”. (Consolo 1987a, 473) Del resto: […] non la conoscenza di un luogo ci trasmettono gli uomini come Goethe, i poeti, ma la conoscenza del Luogo, del sempre sconosciuto, misterioso luogo, bellissimo e tremendo, che si chiama vita. (Consolo 1987, 1224) Riferimenti bibliografici Albertocchi, Giovanni. 2005. “Dietro il Retablo. ‘Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria’”. Leggere Vincenzo Consolo. Quaderns d’Italià (Universitat Autónoma de Barcelona) 10: 95-111 (poi in Giovanni Albertocchi, ‘Non vedo l’ora di vederti’. Legami, affetti, ritrosie, nei carteggi di Porta, Grossi & Manzoni, 141-159. Firenze: Clinamen, 2011). Consolo, Vincenzo. 1963. La ferita dell’aprile. Milano: Mondadori (poi in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, 3-121. Milano:  Mondadori, 2015). Consolo, Vincenzo. 1987a. Retablo. Palermo: Sellerio (poi in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, con un saggio introduttivo di e uno scritto di Cesare Segre, 365- 475. Milano: Mondadori, 2015).Consolo, Vincenzo. 1987b. “Introduzione”. In Johann Wolfgang Goethe, Viaggio in Sicilia. Siracusa: Ediprint (poi in Vincenzo Consolo, Di qua dal faro. Milano: Mondadori, 1999; ora in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, 1219-1224. Milano: Mondadori, 2015). Consolo, Vincenzo, e Ugo Ronfani. 2001. Retablo, versione teatrale a cura di Ugo Ronfani. Catania: La Cantinella – Istituto di Storia dello Spettacolo Siciliano.Pontiggia, Giuseppe. 1984. “Un eroe moderno”. In Giuseppe Pontiggia, Il giardino  delle Esperidi, 208-220. Milano: Adelphi. Sciascia, Leonardo. 1963. Il consiglio d’Egitto. Torino: Einaudi. Simon, Claude. 1957. Le vent. Tentative de restitution d’un retable baroque. Paris: Minuit. Spinazzola, Vittorio. 1990. Il romanzo antistorico. Roma: Editori Riuniti. Traina, Giuseppe. 2004. “Rilettura di Retablo”. In Per Vincenzo Consolo. Atti delle Giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2003), a cura di Enzo Papa. San Cesario di Lecce: Piero Manni. 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