Vincenzo Consolo: un critico d’arte sui generis

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Rosalba Galvagno
Vincenzo Consolo: un critico d’arte sui generis
Indipendentemente dalle splendide ekfraseis dispiegate nei romanzi, è possibile  delineare un ritratto di Vincenzo Consolo critico d’arte, grazie anche ad alcuni dei suoi scritti apparsi su cataloghi, brochures, giornali di recente raccolti dal critico e poeta Miguel Ángel Cuevas,tra i quali figura anche un Autoritratto dello scrittore,una sorta di carme figurato o di calligramma o ancora, secondo la terminologia della teoria visuale di William Mitchell, una image-text,con la quale quasi impercettibilmente e con cruda ironia il soggetto-ritrattato passa dalla somiglianza con un uovo o una pera o un limone a quella con una maschera funerea, per approdare al ritratto fotografico, «che è la morte», come si legge nell’explicit del componimento poetico:
A
un
Uovo, a una pera o meglio
a un limone assomiglia il mio volto.
Ma del limone sembra abbia solo il lunare
pallore, e le rughe e i pori, non l’acre o l’acidulo
dentro.
D’un limone, sì, ch’abbia l’umore, sia ormai avvizzito.
Che delle due fessure o ferite della sua buccia mostri occhi
penosi che guardano ma sembra non vedano. Se si chiudono
quelle fessure, se s’imbiancano gli occhi potrebbe anche
assomigliare il mio volto a una maschera, di quelle che si
cavavano una volta col gesso dai volti distesi, resi ormai
fermi dal rigore assoluto.
Ha ragione quel tale che disse che la foto è la Morte?

Cuevas ha ricostruito, grazie ad un lavoro certosino, il particolare modo di Consolo di riprendere e variare certi suoi testi matriciali o architesti considerati minori − come questi scritti d’occasione dedicati agli artisti − ma che non lo sono affatto, anzi, essi permettono di individuare la strategia occultante della scrittura di Consolo, attraverso quella che il curatore chiama l’ecfrasi nascosta. In L’ora sospesa si possono leggere, oltre all’Autoritratto, altri due frammenti lirici,
Blu e La Palma celeste, quest’ultimo costituito da strofe e dedicato al pittore Enrico Muscetra, il primo invece è una prosa lirica dedicata alla pittura di Marcello Lo Giudice, del quale tre quadri accompagnavano il testo di Consolo nel volume Opera di luce e dal quale citiamo qualche frammento in cui ricorrono, accanto ad altri colori, il «blu» con le varianti dell’«azzurro», il «colore dell’origine», del «lapislazzulo» e del «cobalto», riferiti ad un «imperioso» fiume:
Per isole di calce, passaggi di carminio, per sprazzi gialli e sfumature verdi, ai bordi, sul ciglio d’un ignoto mondo, del più profondo azzurro, ci muoviamo. […]. Denso, compatto come lapislazzulo precipita, scorre tra sponde d’oro, argini di smalti. Ci prende e ci trascina questo fiume imperioso nella Venezia e
Samarcanda del racconto, della favola, nell’oriente di splendori, nella Bisanzio al culmine del fasto e della grazia. Si ritrae e stempera l’azzurro, ristagna e vortica tra scialbature, muschi, biacche. […]. Tracima ora dagli argini, scorre per invisibili passaggi, colma ogni vuoto, abisso, s’addensa a strati, spegne ogni luce,
riflesso, culmina nella notte del mondo, nel blu più cupo. Compiamo questo viaggio dentro le quinte mobili e fugaci, dentro l’illusione, l’inganno, la malìa dei colori, fra l’apparenza della pittura. Dentro l’avventura dell’azzurro, del colore dell’origine, dell’infinito spazio e dell’eterno, del dolce colore d’oriental zaffiro.
[…]. Una mano d’istinto e di irruenza sembra abbia predisposto questo gioco, la mano d’un pittore che rapito dall’incanto del colore, dall’energia primigenia del cobalto, abbia superato, per il nostro rapimento, il nostro incanto, la superficie della tela, il confine del suo spazio, sia andato, per illuminazione, naufragio, oltre ogni grammatica, ogni sintassi». Si riconosce in questo brano scritto per le tele di Marcello Lo Giudice, definito pittore «tellurico» da Pierre Restany, non solo il ritmo inconfondibile e la tensione lirica della prosa consoliana, ma soprattutto quella «icasticità» che, con termine mutuato dallo stesso Consolo, Miguel Ángel Cuevas ha identificato essere la posta in gioco del delicato e complesso rapporto tra scrittura e immagine nell’opera dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Per il momento mi preme suggerire che per la sua icastica energia, Blu, oltre ad evocare esplicitamente l’oriente, o meglio un certo oriente che di frequente ritorna nella scrittura di Consolo, illumina circa l’origine e l’importanza
fantasmatica di questo tema (dell’oriente), proprio perché inserito in un testo
cosiddetto d’occasione:L’ora sospesa parla […] di pittori scultori fotografi architetti, e delle loro opere. Ma Vincenzo Consolo non è un critico d’arte; nel laboratorio consoliano ogni scritto d’occasione può diventare occasione di scrittura, se non altro sul proprio mestiere di scrittore. Qui, appunto, risiede l’interesse del libro: segna le tappe di un’intera opera; mostra le modalità della scrittura e della manipolazione autoriale della stessa; offre,soprattutto dei romanzi maggiori dell’autore, le prime forme di alcune delle pagine più alte; ricostruisce – ma sarà il lettore futuro ad operare o meno questa ricostruzione – il retroterra dal quale parte in buona misura la poetica consoliana. Leggere L’ora sospesa offrirà anche la possibilità di rileggere tutto Consolo. Con la sola eccezione del primo romanzo, La ferita dell’aprile, il lettore riconoscerà nelle sue pagine momenti e presenze che avrà già incontrato negli spazi degli altri libri dell’autore. Oppure, al contrario, potrà significare la prima soglia, il primo ingresso per il lettore nuovo. Consolo fa quindi delle autentiche prove di scrittura coi suoi esercizi d’occasione, tanto è vero che molti dei testi raccolti specialmente nella seconda sezione del volume, non a caso intitolata Bozze di scrittura, verranno ulteriormente utilizzati nelle grandi opere di finzione, più o meno modificati, con spostamenti e condensazioni, non senza essere stati riproposti in altre diverse sedi editoriali. Qualche esempio: Guida alla città pomposa confluirà in Lunaria (1985), Paludi e naufragi in Retablo (1987), L’ora sospesa in nottetempo, casa per casa (1992), I Barboni in Lo spasimo di Palermo (1998).
Marina a Tindari, scritto per una mostra di Michele Spadaro confluirà parzialmente ne Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976). Esiste inoltre una versione metrica di Marina a Tindari di Sergio Spadaro, fratello dell’artista, pubblicata nell’opuscolo intitolato Intorno alla «Marina» di V. Consolo. Citiamo la splendida ekfrasis iniziale: Il sole raggiante sopra la linea dell’orizzonte illuminava la rocca prominente, col santuario in cima, a picco sopra la grande distesa di acque e di terra. Era questa spiaggia, un ricamo di ori e di smalti. […]. Luceva sulla rena la madreperla di mitili e conchiglie e il bianco d’asterie calcinate. […]. Un’aria spessa, umida, con lo scirocco fermo, visibile per certe nuvole basse, sottili e sfilacciate, gravava sopra la spiaggia. Qual cosmico evento, qual terribile tremuoto avea precipitato a mare la sommità eccelsa della rocca e, con essa,
l’antica città che sopra vi giaceva? Un’altra magnifica evocazione dell’oriente si legge in Pittore di una città tra sogno e nostalgia, che apre la III sezione de L’ora sospesa, intitolata Vedute su Antonello. I tre scritti che la compongono sono infatti i primi incunaboli su Antonello da Messina, il pittore amatissimo sul quale Consolo ci ha lasciato delle pagine indimenticabili consegnate ai testi maggiori, primo fra tutti Il sorriso dell’ignoto marinaio. In Pittore di una città tra sogno e nostalgia (confluito in Vedute dello stretto di Messina 1993, Di qua dal faro 1999, L’olivo e l’olivastro 1998), si incontra ancora, come dicevamo, l’allusione a un Oriente nel quale Consolo ama iscrivere la città di Messina: Città di luce e d’acqua, aerea e sicura, riflessione, inganno, Fata Morgana e sogno, ricordo e nostalgia. Messina che non esiste. Esistono miti e leggende, Cariddi e Colapesce. […] Ma forse, [Ibn-Gubayr e Idrisi, due autori arabi] raccontano di un’altra Messina d’Arabia o d’Oriente. Perché nel luogo dove si dice sia
Messina, rimane qualche pietra, meno di quelle d’Ilio o di Micene. […]
Ma a Messina, dicono le storie, nacque un pittore grande, di nome Antonio D’Antonio. E deve essere così se ne parlano le storie. […] E dipingeva anche la città, con la falce del porto, i colli di San Rizzo, le Eolie vaganti come le Simplegadi, e le mura, il forte di Matagrifone, la Rocca Guelfonia, i torrenti Boccetta,Portalegni, Zaera, e la chiesa di San Francesco, il monastero del Salvatore, il Duomo, le case, gli orti… Nel secondo testo del trittico dedicato ad Antonello, Lasciò il mare per la terra. L’esistenza per la storia, s’incontra invece una delle più celebri opposizioni della poetica consoliana, quella tra «esistenza» e «storia» come suggerisce il titolo stesso del pezzo. Si trova in questo precedente articolo di giornale un’altra interessante divisione, quella tra gli scrittori «marini» (i siciliani orientali) e gli scrittori «terrestri»(i siciliani occidentali), declinata nel più ampio contesto di una divisione geografica letteraria e linguistica dell’isola (Messina, Catania, Vizzini da un lato, e Palermo,Girgenti, Racalmuto dall’altro), nella quale Consolo iscrive tre grandi scrittori siciliani, D’Arrigo, Lampedusa, Sciascia:Nel palcoscenico del teatro siciliano – schema, paradigma d’un più vasto teatro – abbiamo sempre pensato che città come Messina e Catania, fortemente compromesse con la natura per terremoti e eruzioni, abbiano da sempre avuto questa sorte: di regressione, di frustrato, continuo tentativo di risalita, di abbandono e di resa. Ci siamo così spiegati – semplicisticamente, schematicamente, com’è di chi non possiede scientifici
strumenti – i differenti modi d’essere dei siciliani orientali e occidentali, degli artisti, degli scrittori delle due parti, che per comodità abbiamo chiamati marini e terrestri, simboleggiando nel mare l’esistenza (che invenzione!) e nella terra la storia. E ci siamo accorti che molti conti tornavano, che nelle sue ampie,rudimentali caselle facilmente scivolavano, da una parte, fenomeni di Messina, Catania, Vizzini, dall’altra, fenomeni di Palermo, Girgenti, Racalmuto. Messina, poi, ci sembrò precisamente rappresentata, qualche anno fa, nella sua natura acquorea, nei suoi miti e nei suoi simboli, nella sua storicità, nella sua esistenzialità precaria, nella sua irrealtà e nel suo inganno di Fata Morgana, dal libro Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Rappresentata ed espressa soprattutto nel linguaggio. Un linguaggio di trepidazione, di paura. Che procede verso la realtà per accumulo e lenta progressione – per chiarimenti, ritorni, soste, ripetizioni, diminutivi, vezzeggiativi – senza mai raggiungerla. E dovrebbe essere un bel divertimento per un linguista mettere a confronto per esempio il linguaggio apodittico, sentenzioso, ‘mascolino e mafioso’ dei palermitani con quello trepidante , sfuggente, laconico e ‘femmineo’ dei messinesi (o con quello furbesco, levantino,buffonesco e ambiguo dei catanesi); o mettere a confronto il linguaggio approssimato, accumulato e fermentato di D’Arrigo con quello preciso, asciutto, definitivo di un Lampedusa, mettiamo, o di uno Sciascia; del lirismo e del pathos dell’uno con lo storicismo e l’ironia degli altri… Nello scritto A occidente trovai l’«Ignoto» viene ribadita l’opposizione tra esistenza (o natura) e storia, vengono descritte con rapidi e precisissimi tratti storici e urbanistici le diverse stratificazioni di Palermo, viene apertamente dichiarato l’innamoramento per Cefalù («M’innamorai di Cefalù»), e infine viene raccontata la scoperta dell’Ignoto di Antonello nel Museo Mandralisca del quale dice: «Fu questo piccolo, provinciale, polveroso e cadente museo Mandralisca il mio primo museo»,tutti temi cari a Consolo che migreranno in altri suoi testi. Si può inoltre enucleare, disseminata in quasi tutti questi scritti per artisti, una sorta di compendio della poetica di Vincenzo Consolo.Nel saggio dedicato al pittore Rino Scognamiglio, si fa riferimento ad esempio,
insieme ad altri autori, a un testo famosissimo di Freud, Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di Wilhelm Jensen (1907).15 Mi era già capitato di imbattermi in un Consolo freudiano a proposito dell’analisi di un suo stupendo racconto La grande vacanza orientale occidentale, e ho avuto la sorpresa di imbattermi ancora in una citazione freudiana, esplicita questa volta, concernente quella che mi piace definire la pulsione archeologica di Consolo, che è stata, com’è noto, anche quella del padre della psicoanalisi. Desidero citare a proposito di questa passione di Consolo per le antiche rovine un bellissimo e commovente aneddoto narrato da Sebastiano Burgaretta: Ho avuto l’onore e la gioia di essere stato tra i suoi amici costanti lungo il tempo (L’olivo e l’olivastro, p.107), di averlo accompagnato spesso in giro nel Siracusano tutto e di averlo visto intenerirsi fino alle lacrime sulle rovine della greca Eloro, che andava accarezzando lievemente con le mani, come stesse accarezzando delle persone, quelle che, ebbe a dirmi, andando via da quel luogo e scusandosi per le lacrime che gli erano spuntate agli occhi, erano passate e vissute tra quelle pietre». Ora, non avendo trovato su Internet nessuna immagine dell’opera dell’artista,probabilmente per mia imperizia, mi sono affidata interamente all’ekfrasis di Consolo, per figurarmi l’arte di Rino Scognamiglio. D’altronde si è rivelato un utile esercizio per mettere alla prova l’«icasticità» della scrittura consoliana. L’incipit dello scritto Per Rino Scognamiglio evoca già imponenti resti archeologici:La vita occultata da magma e cenere, ammassi, strati d’eruzioni ignorate, crolli oscuri e silenti, da scorie, accumuli lenti, di sabbie desertiche: un mondo sepolto, Ur Ilio Micene Babilonia Pompei. […]. Schliemann, Dostoevskij e Kafka, Freud… Viaggiatori, archeologi di giovani sogni, nascoste pene e gioie, d’antica vita bloccata, pietrificata in gesti, smorfie, cave sagome d’Ercolano e Pompei, gessi di Segal, ci hanno riportato memorie del sottosuolo che hanno sciolto e sconvolto le dure croste, gli illegittimi, chiusi orizzonti. Norbert Hanold, nel racconto di Jensen, s’imbatte per caso nella fanciulla di marmo, Gradiva, l’avanzante, e la cerca in delirio nella città sepolta. Incontra Zoe, la vita, alla casa di Meleagro, il ramoscello di asfodelo in una mano. “Naturam expellas furca, tamen usque recurret” (“anche se la cacci con la forca, la natura continua a tornare”) ammonisce Orazio.18 E Freud dice di Hanold “Un pezzo d’antichità, il bassorilievo d’una donna, è quello che ha strappato il nostro archeologo dal suo distacco dall’amore, sollecitandolo a pagare alla vita il debito che con essa abbiamo contratto con la nostra nascita”.Abbiamo rimosso, seppellito, creato i sottosuoli. Il sottosuolo in ognuno di noi, come quello di Hanold, e i sottosuoli delle forme, dell’uomo, della civiltà, della storia. […] Solo i poeti, gli scrittori di fantasia, gli artisti ci hanno fatto sospettare, più con le immagini che con le idee, più con l’implicito che con l’esplicito, quello che dell’uomo s’era perduto, la parte dell’uomo che non possiamo conoscere attraverso la scienza e l’ideologia. E in pittura, cosa sono le Bagnanti drappeggiate e distese su lidi mediterranei, le serene Maternità in pepli romani di Picasso, se non vagheggiamenti, ricordi di stagioni ‘umane’ e felici? E i bassorilievi, le arcaiche e stupefatte figure, i loculi e le grotte di Sironi, se non la riscoperta del sepolto? Reperti. E reperti. Forme-reperti troviamo anche nei quadri di Rino Scognamiglio. Sembrano queste tele del pittore marchigiano, immagini di un sottosuolo ritrovato attraverso un’operazione di scavo verticale: come se una immaginaria lama o un immaginario filo d’acciaio abbia tagliato in due parti la forma, la realtà nascosta.Un altro testo dalla sorprendente eco freudiana è quello, variamente riprodotto,dedicato a Fabrizio Clerici (I «Corpi di Orvieto» di Fabrizio Clerici), un artistaprediletto da Vincenzo Consolo, che ne ha fatto il protagonista del romanzo Retablo, uscito nella prima edizione einaudiana del 1987 proprio con alcune illustrazioni dello stesso Clerici. I «Corpi di Orvieto» di Fabrizio Clerici comincia curiosamente con un piccolo e suggestivo racconto dedicato alle origini, e alle memorie di queste origini, di Luigi Pirandello, a partire dalle quali Consolo si interroga su quelle stesse di Fabrizio Clerici per cercare di decriptarne in qualche modo il destino artistico: «Quali sono state le percezioni, le impressioni, al di là di ogni memoria, di Fabrizio Clerici?». Segue quindi una puntuale biografia dell’artista, punteggiata anche da splendide citazioni leopardiane (dalla Ginestra e dal Gallo silvestre), per spiegare, infine, le scelte artistiche proprie di Clerici, che come nessun’altro, scrive Consolo:ha saputo accusare la Madre della nostra caduta, della nostra ferina mutazione, della nostra ottusa ferocia.Su questo terreno di umano dolore, di pietà, di orrore durante una notte di tenebre spesse, di violenza, – […] – e da un ultimo incontro con la signorelliana Divina Commedia nascevano le straordinarie tavole, i disegni dei Corpi di Orvieto. Il corpo umano, l’uomo, la meraviglia del mondo, che nel Giudizio Universale del Duomo di Orvieto, nel miracolo della cappella di San Brizio, il Signorelli ha esaltato nella virginale armonia, nella luminosa innocenza di una resurrezione […] La chiave di lettura del poema di Signorelli da parte di Clerici fu l’incontro fortuito del suo sguardo con un particolare di una delle pareti affrescate. «Nel piccolo spazio di un rettangolo un tavolo rovesciato, tra cavalieri armati che lottano fra loro e un gruppo di dame terrorizzate in quel caos imperante, diventa simbolo della violenza circostante e assume così funzione di protagonista della rappresentazione di quella mischia»racconta [Clerici].La violenza, l’orrore: Clerici coglie in quell’aleph nascosto, quasi invisibile il sentimento che mosse la mano di Signorelli a Orvieto, il suo rimandare a violenze, orrori medievali, a quelli d’ogni passato e d’ogni futuro; coglie il dolore, la crisi di quell’uomo, di quell’artista per la morte del figlio, la crisi di quel mondo d’armonia attica che fu il Rinascimento. […] In un prezioso diario dell’estate del 1981, nella sua casa presso Siena, il pittore ci racconta la fatica, il travaglio, la pena nel dipingere quella sequenza orvietana. […]. Egli legge – […] – brani, frammenti del grande libro signorelliano e li fa suoi, li trasferisce nella cripta sotto il suolo della memoria, li riporta alla luce, alla scansione del tempo, alla sua poetica, li dispone nel suo spazio. Segue una ekfrasis minuziosa di «questa pittura orvietana di Clerici […] dove tutto si mostra conchiuso e compatto, d’improvviso venuto da un’obliata distanza, da un’ignota curva del tempo», per concludere alla fine:
Siamo in questa clericiana sequenza pittorica dei Corpi di Orvieto, e nel coro (corpo?) dei disegni, siamo per Signorelli, come prima per Böcklin, nella pittura dentro la pittura. Siamo nel dramma barocco, nel Sogno di  Calderòn, nel teatro dentro il teatro dell’Amleto, nella rappresentazione luttuosa, […]. E dove il mondo si copre di tenebra per un’eclisse totale di sole.Ora, come dicevo, anche questo magnifico testo su Clerici mi ha evocato temi freudiani, forse grazie alla celebre dimenticanza del nome del pittore Signorelli che Freud racconta per la prima volta in un breve saggio del 1898 intitolato Meccanismo psichico della dimenticanza (poi confluito in Psicopatologia della vita quotidiana), che altro non è che una profonda riflessione sulla memoria psichica, tema capitale per Consolo, presente anche nelle pagine dedicate ai Corpi di Orvieto: da quale memoria nascono i corpi di Signorelli, di Clerici, o l’arte di Pirandello con cui comincia questo racconto? Rispondo a questa interrogazione con le parole stesse di Consolo, che a sua volta cita Vasari per spiegare da dove nascono i corpi di Luca Signorelli, la cui spiegazione coincide in modo impressionante con quella di Freud intorno alla sua dimenticanza del nome Signorelli, e cioè dalla evocazione della morte: Essendogli stato ucciso in Cortona un figliolo che egli amava molto, bellissimo di volto e di persona, Luca così addolorato lo fece spogliare ignudo, e con grandissima costanza d’animo, senza piangere o gettar lacrima, lo ritrasse, per vedere sempre che volesse, mediante l’opera delle sue mani, quello che la natura gli aveva dato e tolto la nimica fortuna. Vorrei chiudere questo excursus sui saggi di Consolo dedicati ad artisti con una citazione tratta dallo scritto Faber audace, dove Consolo per introdurre lo scultore Nino Franchina, «il vulcanico artigiano, il fabbro della valle del Fitàlia», risale alle origini zingaresco-tortoticiane dell’artista: Da quel paese, da quella valle trae le sue origini lo scultore Nino Franchina. Non vogliamo per questo relegare lo scultore a una cifra ‘siciliana’, tutt’altro. Vogliamo solo dire che Franchina, venendo dal contesto dei Nebrodi, in cui flebili sono i segni della storia, forti quelli della natura,
avendo visto i neri antri delle forge, i mantici che suscitano scintille dai carboni, i fabbri battere sull’incudine i ferri incandescenti, essendo stato in luoghi marginali, vuoti e inospitali, […], essendo appartenuto a questa dimora vitale, a questo tempo arcaico e immoto, è sfuggito, sin dal suo nascere d’artista, a ogni memoria storica, a ogni condizionamento della tradizione, a ogni conformazione d’accademia o di gruppo. […]. La valle del Fitàlia per Franchina è stata l’estremità e l’estraneità che lo ha fatto rimbalzare nel centro della cultura e del dibattito. […] La Sammarcota (la donna di San Marco d’Alunzio, portatrice di pietre della fiumara) è un’arcana figura, priva di ogni segno storico, di ogni polemica sociale; Immagini dell’uomo e Forma, sono pietre modellate dalle acque del torrente Furiano (nel nome è la sua natura).Che dire di questo profondissimo rapporto di Consolo con le pietre trasfigurate dall’arte?

1V. CONSOLO, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, a cura di Miguel Ángel Cuevas, Valverde, Le Farfalle (collana
turchese – Saggistica), 2018. Le citazioni sono tratte da questo volume che è corredato da una densa introduzione
intitolata L’arte a parole e da preziose note che indicano con impeccabile precisione le variazioni di ciascun testo a
seconda della diversa collocazione editoriale. Di Miguel Ángel Cuevas valga il puntuale profilo tracciato da Sebastiano
Burgaretta nella recensione alla traduzione spagnola de La Sicilia passeggiata (Sicilia paseada, Granada, Ediciones
Traspiés, 2016) pubblicata nel sito ufficiale di Vincenzo Consolo curato da Claudio Masetta Milone: «Docente di
Letteratura italiana all’Università di Siviglia, critico letterario, traduttore e raffinato poeta, particolarmente legato alla
Sicilia, dove ha insegnato e risieduto lungamente, e alla sua cultura letteraria e antropologica. Cuevas ha tradotto
dall’italiano allo spagnolo opere di Luigi Pirandello, Maria Attanasio, Angelo Scandurra e di altri. Ha anche tradotto
dallo spagnolo all’italiano versi di José Ángel Valente nonché sue stesse poesie. Di Consolo è attento studioso e
curatore per edizioni spagnole. Sull’opera dello scrittore siciliano ha scritto vari saggi e ne ha tradotto La ferita
dell’aprile e Di qua del faro; ha tradotto, curato e pubblicato in Spagna e successivamente pubblicato anche in Italia
Conversazione a Siviglia, volume nel quale sono raccolti i testi degli interventi che Vincenzo Consolo tenne nella città
andalusa nel 2004, quando fu invitato a partecipare a delle giornate di studio sulla sua opera, organizzate dall’Università
di Siviglia su iniziativa dell’Istituto di Italianistica». S. BURGARETTA, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada
http://vincenzoconsolo.it – 21 maggio 2018.
2
W. J. T. MITCHELL, Picture Theory. Essays on Verbal and Visual Representation, Chicago-London 1993, The
University of Chicago Press, p. 95.
CONSOLO, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, cit., p. 131. Questa poesia fu pubblicata nel volume di Stefano
Baroni, Vanitas. Maschere e volti della cultura contemporanea (Siena, Alsaba Grafiche), per la mostra fotografica
omonima al Bagno Principe di Piemonte, Viareggio, Agosto 1999.

Un progetto di MARCO NEREO ROTELLI, Firenze-Siena, Maschietto-Musolino, 1995, pp. 24-28. 5
CONSOLO, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, cit., pp. 121-122, corsivi nostri eccetto il verso di Dante, Pur. I, 13.
M. Á. CUEVAS, L’arte a parole: intertesti figurativi nella scrittura di Vincenzo Consolo, in V. CONSOLO, «Diverso è lo
scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, a cura di Rosalba Galvagno, Introduzione di Antonio Di
Grado, Avellino, Sinestesie, 2015, p. 18.
Galleria Giovio, Como, aprile 1972.
Vercelli 1972, edizione fuori commercio di 100 copie.
CONSOLO, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, cit., p. 25.
10 Ivi, pp. 101-102.11 «Il Messaggero», 18-11-1981.12 Ivi, pp. 104-105.
13 Ivi, p. 112.14 Ivi, p. 116. 21 Ivi, p. 86. 22 Ivi, p. 84. 23 Ivi, p. 93.
24 Ivi, pp. 90-91. V. CONSOLO, L’ora sospesa e altri scritti per artisti, cit., pp. 55-57. 20 Ivi, pp. 82-85 Cfr. W. JENSEN-S. FREUD, Gradiva, Traduzione e note di Raffaele Oriani, Prefazione di Mario Lavagetto, Edizioni Studio Tesi, 1992. Cfr. R. GALVAGNO, La grande vacanza orientale-occidentale, in Geografie della modernità letteraria, Atti del XVII Convegno Internazionale della MOD, Perugia 10-13 giugno 2015, a cura di Siriana Sgavicchia e Massimiliano Tortora,
Pisa, Edizioni ETS, 2017, tomo II, pp. 209-219.17 BURGARETTA, L’illusione di Consolo e la Sicilia paseada, cit. 18 Epist. I, 10, 24. 30-31 32
OBLIO VIII, 30-31

Consolo e l’aprile dell’esistenza

 

 

Goffredo Fofi 

 

Uno dei romanzi di formazione più affascinanti della nostra letteratura è La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo, uscito tanti anni fa nella preziosa collanina del Tornasole ideata da Vittorio Sereni e Niccolò Gallo e disponile ora in edizione einaudiana. Non è noto quanto meriterebbe. Vincenzo Consolo, Enzo per gli amici, siciliano di Sant’Agata di Militello e vissuto a lungo a Milano dove è morto nel 2012, vi narrava con una lingua insolita, che rubava al dialetto e ai vocabolari, la sua adolescenza e il suo passaggio all’età adulta. Il libro uscì nel 1963, mentre il suo secondo libro, che è anche il suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio, arrivò solo tredici anni dopo, ed è quello che lo fece apprezzare come uno dei maggiori scrittori della generazione cresciuta nel dopoguerra, l’ultima di grandi scrittori prima della proliferazione degli scriventi. La ferita dell’aprile fu letto e amato da Leonardo Sciascia, attentissimo sempre alle cose dell’isola, e nacque tra i due un’amicizia salda e importante, e oggi la casa editrice Archinto aggiunge alla sua bella collana di epistolari lo scambio di lettere tra Sciascia e Consolo, durato dall’anno della Ferita (e per Sciascia di uno dei suoi testi più radicali, Morte dell’inquisitore), fino alla scomparsa di Sciascia nel 1989. Le ultime lettere sono dell’88, e Sciascia era già gravemente malato. Il rapporto tra i due cominciò come tra allievo e maestro ma diventò rapidamente amicale, quasi fraterno: dal “lei” al “tu”, molto presto. L’agile libretto della Archinto si intitola Essere o no scrittore (pagine 96, euro 14,00). Questo scambio di lettere non affascinerà soltanto coloro che hanno conosciuto i due grandi scrittori siciliani o che sono affascinati dai retroscena e misteri della creazione letteraria. Leggendole, confesso, con una certa commozione, mi è venuta voglia di riprendere in mano La ferita dell’aprile – riscoprendo così il senso e il valore dell’amicizia tra persone di forte presenza e forte super-io, ma trovandomi spinto a riflettere su quel passaggio cruciale dall’infanzia all’età adulta, oggi così avvilito da esperienze e da, se si può dire, solitudini collettive. Siamo in questi giorni in aprile, e la “ferita dell’aprile” vien fatto di legarla al processo e messa a morte di Gesù, ma è anche e sempre, nell’ottica dello scrittore Consolo, quella del passaggio d’età fondamentale (insieme a quello, diceva Hegel, degli anni in cui si è infine maturi), anni decisivi perché le scelte che si fanno saranno ora definitive. Aprile è il mese del dirompente risveglio della natura: una “ferita” che prelude al tempo delle messi. I dodici brevi capitoli del bellissimo romanzo di Consolo narrano le dense tappe di una formazione, tesa e sofferta ma piena di incontri, cose, esperienze, e narrano anche, l’affermazione di una sofferta maturità, ben più piena e rapida di quelle dei giovani di oggi. Scrittore eminentemente barocco, e per questo più vicino letterariamente a Gadda che a Sciascia, Consolo parla di sé sullo sfondo della provincia siciliana di tanti anni fa, e di una “ferita” che è sua ma di tutti. Lo è ancora, certamente, ma quanto sono diverse le formazioni di ieri da quelle di oggi, così compatte e, verrebbe da dire, meccaniche.
venerdì 19 aprile 2019 Avvenire



L’opera di Vincenzo Consolo e l’identità culturale del Mediterraneo


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MILANO, 6 -7 MARZO 2019
Università degli Studi
Sala Napoleonica
via Sant’Antonio 10/12
Responsabile scientifico Gianni Turchetta
Segreteria Chiara Melgrati

GIOVEDÌ 7 MARZO
9.30
Coordina Irene Romera Pintor (Universitat de València)
Sebastiano Burgaretta (etnologo e docente)
L’illusione di Consolo tra metafora e realtà
Rosalba Galvagno (Università degli Studi di Catania)
Il «mondo delle meraviglie e del contrasto».
Il Mediterraneo di Vincenzo Consolo
Miguel Angel Cuevas (Universidad de Sevilla)
Della natura equorea dello Scill’e Cariddi:
testimonianze consoliane inedite su Stefano D’Arrigo

11.00 | Pausa caffè
11.30

Daragh Daragh O’Connell (University College Cork)
La notte della ragione: Nottetempo, casa per casa
fra poetica e politica
Giuseppe Traina (Università degli Studi di Catania)
Per un Consolo arabo-mediterraneo
Salvatore Maira (scrittore e regista)
Parole allo specchio

MERCOLEDÌ 6 MARZO
14.30 | Saluti di apertura
Elio Franzini
Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Milano
15.00
Coordina Alberto Cadioli (Università degli Studi
di Milano)
Gianni Turchetta (Università degli Studi di Milano)
Introduzione ai lavori
Carla Riccardi (Università degli Studi di Pavia)
Da Lunaria a Pantalica: fuga e ritorno alla storia?
Nicolò Messina (Universitat de València)
Cartografia delle migrazioni in Consolo
16.30 | Pausa caffè
17.00
Corrado Stajano (giornalista e scrittore)
Storia di un’amicizia
Dominique Budor (Université Sorbonne Nouvelle)
“Gli inverni della storia” e le “patrie immaginarie”
Marina Paino (Università degli Studi di Catania)
La scrittura e l’isola
L’opera di
Vincenzo Consolo
e l’identità culturale del Mediterraneo
foto Giovanna Borgese

 

I fili ininterrotti di Vincenzo Consolo Memoria, memoria, tanta memoria.

*
Paolo Di Stefano

Se c’è uno scrittore che ha passato tutta la sua vita a combattere sul fronte dell’impegno etico-civile e su quello della sperimentazione linguistica, questo è Vincenzo Consolo. «Il maggiore scrittore italiano della sua generazione» l’ha definito Cesare Segre, tenendo presente che la sua generazione è quella che viene dopo Sciascia, Pasolini, Volponi e Calvino, e cioè quella degli anni Trenta (Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 ed è morto a Milano nel 2012) che ha attraversato le turbolenze della neoavanguardia con totale simpatia o con totale disgusto. Consolo non si è allineato né con gli uni né con gli altri: grazie a un suo speciale e inesausto sperimentalismo, sempre in lotta contro la lingua del suo tempo e contro la lingua vittoriosa della storia; insofferente e pessimista rispetto alle magnifiche sorti agognate dalle ideologie progressiste. Arrivato a Milano negli anni 50 per studiare, attratto dalle sirene vittoriniane, Consolo abita fino alla fine nella metropoli lombarda (con crescente irritazione che culmina negli anni 90) ma non smette di tormentarsi sul destino della sua Sicilia. E anzi la sua narrativa rappresenta quasi programmaticamente (e ostinatamente) le varie fasi della storia sicula, dall’antichità greca (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria), al Settecento illuminista (Retablo), alla pessima realizzazione unitaria (Il sorriso dell’ignoto marinaio), all’irrazionalismo prefascista (Nottetempo, casa per casa), al secondo dopoguerra, fino alla contemporaneità della cronaca mafiosa (L’olivo e l’olivastro), comprese le «memorie degli innocenti sopraffatti dai delinquenti» (Lo spasimo di Palermo).

La scrittura di Consolo vive di molteplici paradossi, come non cessa di sottolineare Gianni Turchetta, curatore dello splendido Meridiano, coordinatore del convegno milanese e autore del saggio introduttivo delle «Carte raccontate», il fascicolo appena pubblicato dalla Fondazione Mondadori: «Per Consolo la “letteratura” è il luogo dove il linguaggio viene sospinto fino alle sue estreme possibilità, sottoposto a una pressione senza compromessi, con una tensione che è al tempo stesso formale e morale (…). D’altro canto, Consolo non smette di ricordare quanto le parole siano mancanti rispetto alla realtà». In questa contraddizione irresoluta è il tragico della narrativa di Consolo, che si rispecchia nel rigore tormentoso del lavoro materiale sul testo, dove ogni parola e ogni giro sintattico sono il risultato di scavi filologici e, si direbbe, archeologici, sprofondamenti negli strati della memoria storica, con le sue cicatrici, e della memoria linguistica. In un burrascoso incontro al Teatro Studio di Milano (un entusiasmante tutti contro tutti), organizzato nel marzo 2002 dalla Fondazione del Corriere, con Emilio Tadini, Tiziano Scarpa e Laura Pariani, Consolo disse: «Se stabiliamo che la letteratura è memoria – e la letteratura è memoria altrimenti sarebbe soltanto comunicazione cronistica, giornalismo – allora diventa anche memoria linguistica. Io credo che l’impegno di chi scrive sia quello di far emergere continuamente la memoria». Memoria è anche memoria linguistica: il che significa affidare alla letteratura il compito di resistere al linguaggio «fascistissimo» dell’omologazione. Una visione pasoliniana. Anche per questo è affascinante (e non di rado perturbante) seguire da vicino lo scrittore lungo le vie accidentate che conducono alla pubblicazione delle sue opere: attraverso cui si intuisce come «dato fondativo» della scrittura di Consolo quella che lo stesso Turchetta definisce «la ridiscussione e perfino l’aperta negazione della forma romanzo, in quanto portatrice di un’illusoria continuità narrativa, che mistifica la complessità del reale». E già a partire da La ferita dell’aprile (1963) – il sorprendente libro d’esordio che restituisce le lotte politiche del secondo dopoguerra narrate in prima persona dall’allievo di un istituto religioso di paese – si intravede uno sviluppo che porta dalle soluzioni più piane delle prime redazioni verso una crescente deformazione espressionistica e un arricchimento stilistico. Un processo che troverà una vera maturazione ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, ambientato ai tempi della spedizione dei Mille e articolato su più livelli: il capolavoro del 1976 il cui titolo si deve a un misterioso ritratto d’uomo di Antonello da Messina (che per una felice coincidenza è in mostra in questi giorni nella rassegna di Palazzo Reale), un dipinto ricevuto in dono a Lipari dal protagonista, il barone di Mandralisca. Una gestazione sofferta (e fondata su una lunga preparazione documentaria) che procede per faticose fasi di scrittura e riscrittura, ripensamenti e blocchi che in quegli anni vennero superati grazie al sostegno della moglie Caterina Pilenga e alle sollecitazioni di amici fedeli come Corrado Stajano. E nel segno dell’amicizia è anche il lungo rapporto – di totale ammirazione – con il «maestro» Sciascia: ora testimoniato dalla corrispondenza (1963-1988), edita da Archinto a cura di Rosalba Galvagno. La preziosa biblioteca consoliana e l’archivio – con le varie redazioni dei romanzi e i rispettivi materiali di ricerca – sono stati affidati alla Fondazione Mondadori che negli ultimi due anni ha completato la catalogazione e la descrizione. Con un rigore e una passione che Consolo, principe di rigore e di passione, avrebbe certamente approvato.

Paolo Di Stefano
4 marzo 2019 (Corriere della Sera)

Un volume della Fondazione Mondadori curato da Gianni Turchetta e un epistolario
edito da Archinto. E a Milano il 6 e 7 marzo un convegno sullo scrittore

Il volume «E questa storia che m’intestardo a scrivere. Vincenzo Consolo e il dovere della scrittura», a cura di Gianni Turchetta, nella collana «Carte raccontate» (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pp. 52, euro 12, disponibile dal 6 marzo)


Il volume «Essere o no scrittore. Lettere 1963-1988», di Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia (Archinto, pp. 84, euro 14)

La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio

Giulia Falistocco

Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio Consolo riprende la lezione di Manzoni, ma decostruisce la forma romanzesca attraverso una struttura complessa e una forte sperimentazione linguistica. Il romanzo storico rimane per Consolo un modo per rappresentare metaforicamente il presente, sebbene non più in maniera innocente, ma per mezzo di forme parodiche, atte a superare un’arte ironica-borghese. L’articolo quindi analizza le strategie rappresentative e allegoriche con cui Consolo dà nuovo spessore al romanzo storico, riuscendo a conservare un vigore etico e politico.

                                                  Dopo tredici anni di silenzio, a seguito de La ferita dell’aprile, nel 1976 Vincenzo Consolo pubblica Il sorriso dell’ignoto marinaio. Il suo secondo romanzo è un’opera necessaria, «nata da esperienze private e da eventi pubblici» (Consolo 2015: 1255), con la quale l’autore affronta metaforicamente il passato e il presente siciliano. Per Consolo lo scrittore, infatti, da Zola in poi, non può sottrarsi alla Storia, «se non a rischio dell’accusa di complicità e di collaborazione col potere che perpetra ingiustizie e delitti» (Consolo 2015: 1173). Il romanzo propone una metafora politica e sociale, dunque, che tenta di superare il “silenzio artistico”, per dirla con parole dello stesso Consolo, e di sperimentare le potenzialità rappresentative del romanzo.

2La planimetria metaforica del romanzo è strutturata attraverso l’immagine della chiocciola, come ha mostrato Cesare Segre nel suo illuminante saggio (Segre 1991), archetipo ancestrale, «origine della percezione, conoscenza e costruzione» (Consolo 2015: 1254). Attraverso quest’immagine, Consolo dà forma alla materia narrata, con l’intento di allargare nel tempo, «verticalizzare» (Consolo 2015: 1255), il suo messaggio. L’obiettivo ultimo dell’autore, però, è quello di mostrarne il superamento: solo l’evasione dal carcere-chiocciola può ridurre lo spazio comunicativo fra testo linguistico e contesto situazionale. Nel pensiero di Consolo, quindi, la sfida alla chiocciola si coniuga con la sperimentazione del romanzo storico. Il punto focale, o, come direbbe Consolo, «l’angolo acuto» (Consolo 2015: 1255) di questo triangolo, è il quadro di Antonello da Messina: L’ignoto marinaio. Con il suo sorriso ironico, il ritratto è espressione dell’élite intellettuale, di cui l’autore mostra le mancanze, i limiti e le storture. Il raziocino culturale, in particolare di stampo illuminista, viene smascherato, con lo scopo di mostrare in ultimo la fragilità della parola: la letteratura deve quindi prendere coscienza della sua “impostura”, della sua soggettività e temporalità.

  • 2 Come scrive Spinazzola: «I ViceréI vecchi e i giovaniIl Gattopardo costruiscono una sorta di (…)

3In questo articolo si intende analizzare gli elementi di questo triangolo (chiocciola, ritratto e romanzo) attraverso i quali Consolo sperimenta e supera il romanzo storico, genere ricorrente nella più recente letteratura siciliana2.

4I capitoli chiave che ci consentono di entrare nel cuore del romanzo sono gli ultimi quattro, composti dalle lettere che Mandralisca invia a Giovanni Interdonato (compreso l’ultimo capitolo costituito dalla trascrizione delle epigrafi). Queste nascono dalla necessità di narrare i moti di Alcàra Li Fusi; ma l’impossibilità di trovare le parole della memoria dà origine a una requisitoria rivolta al suo alter ego, che si trasforma con lo scorrere delle pagine in una confessione. Le aporie della Storia diventano, quindi, il vero oggetto della lettera: la loro risoluzione passa attraverso l’immagine della chiocciola, simbolo della memoria personale e collettiva.

  • 3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato S (…)

5Nell’ottavo capitolo, intitolato Il carcere, l’ambientazione è nel castello di Maniforti, che nasconde nelle sue fondamenta la prigione, in cui vengono portati i condannati di Alcàra Li Fusi. Il carcere ha la forma di «un’immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel bujo e putridume» (Consolo 2015: 235). È uno schema elicoidale che appunto, seguendo il suggerimento dello stesso Consolo, serve a «conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire» (Consolo 2015: 238). La forma della conchiglia, essendo tridimensionale, unisce spazio e tempo, ed è proprio quest’ultimo che «verticalizza» la struttura. Come ha individuato Turchetta, «la progressione lineare del racconto si sovrappone costantemente al ripetersi di strutture analoghe» (Turchetta 2015: XLIX) che appunto mimano la chiocciola. Il romanzo infatti è composto da una serie di piani temporali apparentemente disgiunti, ma che nascondono molteplici connessioni. Capire l’iter vorticoso della Storia è compito del lettore quanto del protagonista Mandralisca. Attraverso l’immagine della chiocciola, quindi, l’autore organizza la narrazione: la sua forma semi-labirintica serve a dare un’orditura agli eventi storici, creando una spirale, di «estremi» e di «intermedi» (Segre 1991: 81) che, parafrasando le parole di Segre, si alternano o si mescolano. Attraverso i suoi vari significati, inoltre, la chiocciola rappresenta il corso degli eventi, tanto quanto le modalità con cui vengono rappresentati. Con il suo intreccio di voci e di echi il carcere-conchiglia, infatti, assume un valore meta-letterario, dando forma alla lingua che per Consolo deve racchiudere l’ordine illuminista e il disordine barocco: «una lingua che resta molteplice volge dal basso all’alto, dal mondo popolare e dal mondo classico» (Consolo 2015: 1237)3.

  • 4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata d (…)

6La rappresentazione della chiocciola si realizza attraverso il gioco delle somiglianze, «scandaglio delicato e sensibilissimo» (Sciascia 1998: 35)4. È sempre Consolo, attraverso le parole del Mandralisca che ci fornisce la chiave di lettura delle procedure narrative. L’arco di ingresso al carcere, infatti, ha nove pietre portanti per lato «con figure a bassi rilievi, diverse, ma ognuna che somiglia o corrisponde all’altra allato della pila opposta, e unica la chiave, che divide o congiunge, tiene le due spinte, l’ordine contrapposto delle somiglianze» (Consolo 2015: 235). Per entrare nella chiocciola bisogna passare quindi tra immagini simili, ma in contrasto; tra queste solo la chiave non ha un corrispettivo: è l’inizio, il centro della chiocciola «che divide o congiunge» (Consolo 2015: 235). Non a caso «sull’ordine delle somiglianze è strutturato il sistema conoscitivo del barone di Mandralisca» (Traina 2011: 59): a lui infatti Consolo affida il compito di interpretare lo schema della chiocciola. Il romanzo perciò dovrà rifarsi a questo impianto gnoseologico, perché, come scrive sempre Traina, la sfida al labirinto passa per l’assunzione della sua forma. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, perciò, sono presenti una serie di elementi simmetrici, ma allo stesso tempo in contrasto: tre in particolare sono importanti nell’andamento dell’opera: i moti di Cefalù e Alcàra Li Fusi, Giovanni Interdonato e il Ritratto dell’ignoto.

7I moti di Cefalù del 1856 sono sedati dall’esercito borbonico, portando alla condanna degli organizzatori. Si tratta di una rivolta che vede la partecipazione dell’alta borghesia liberale, presentata con elementi tra il tragico e il melodrammatico (Spinuzza ad esempio è descritto con tono di pietas dal narratore). La rivolta di Alcàra Li Fusi, che occupa il romanzo dal terzo capitolo fino alla fine, è invece ad opera dei contadini. Anche questa viene sedata nella violenza, ma dai rappresentanti della borghesia liberale. Apparentemente speculari i due moti sono in realtà “contrapposti”: sono i due modi di dare corpo alla parola “Libertà”, come si chiarirà più avanti. Anche la figura di Giovanni Interdonato subisce un capovolgimento: nella seconda parte del romanzo infatti Mandralisca incontra l’omonimo cugino del rivoluzionario, «somigliante a me nel nome e cognome solamente, ché per il resto discordiamo» (Consolo 2015: 229), colui che attraverso l’inganno riesce a sedare il moto di Alcàra Li Fusi. In ultimo abbiamo il Ritratto di Antonello, il cui sorriso ironico da simbolo della ragione illuministica passa ad essere luciferino e malefico alla fine del romanzo.

8L’aporia della Storia-chiocciola perciò si realizza nell’aporia delle somiglianze: «somiglia, ecco tutto» scrive Sciascia ne Il gioco delle somiglianze (Sciascia 1998: 35). La lumaca, metafora della Storia “vorticosa”, perciò, diventa una figura claustrofobica, negazione di vita, come il carcere di Maniforti, luogo di dolori e affanni dal quale bisogna uscire. È sempre Mandralisca, nella lettera a Interdonato, che ne dà una lucida spiegazione:

Vidi una volta una lumaca fare strisciando il suo cammino in forma di spirale, dall’esterno al punto terminale senza uscita, come a ripeter sul terreno, più ingrandita, la traccia segnata sopra la sua corazza, il cunicolo curvo della sua conchiglia. E sedendo e mirando mi sovvenni allor con raccapriccio di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine… (Consolo 2015: 217).

9La chiocciola è, quindi, riprendendo le parole di Segre, «metafora plurima», allegoria delle «ingiustizie del potere», dei «privilegi della cultura», «della proprietà come usurpazione» (Segre 1991: 80).

10La visione della Storia si associa alla riflessione sul linguaggio. «Cos’è stata la storia sin qui», scrive Consolo attraverso Mandralisca, se non «una scrittura continua di privilegiati» (Consolo 2015: 215). La Storia è una narrazione soggettiva, ad appannaggio di una determinata classe sociale, definita dall’autore come «coloro che possedevano i mezzi del narrare» (Consolo 2015: 215), e tra questi anche il romanziere-scrittore non ne è avulso. La giustapposizione tra documento e fiction dovrà, perciò, essere letta come la messa in discussione del racconto storico, non più fonte di veridicità. Come scrive Turchetta, «per tutta la vita Consolo ha messo in discussione lo statuto della parola, denunciandone gli invalicabili limiti, la falsità o quanto meno la tendenziosità e la dubbia legittimità, la sua inevitabile determinatezza, storica e soggettiva» (Turchetta 2015: XXV). Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio il maggiore esempio della polisemia linguistica è rappresentato dalla parola “Libertà”. Continuando a citare dalla lettera del Mandralisca:

e dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità […] e gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? (Consolo 2015: 216).

11Infatti se per la borghesia liberale “libertà” indentifica una serie di diritti astratti e immateriali, per i contadini, per coloro che non hanno il mezzo del narrare, libertà è la terra. La polisemia della parola è un chiaro riferimento alla novella di Verga, intitolata appunto Libertà. Questa si conclude con le amare riflessioni di uno dei rivoltosi di Bronte condannati a morte: «Il carbonaio mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la libertà…» (Verga 2013: 325).

12La messa in discussione dell’istituto storia si lega, inoltre, a un progetto politico che deve mettere in scacco i soprusi di «coloro che hanno il mezzo del narrare». L’ambientazione scelta da Consolo è il Risorgimento: momento di contraddizioni e conflitti che deve essere liberato dalla sua patina oleografica e retorica. Consolo infatti scrive:

durante la campagna siciliana esplodono subito le contraddizioni, il conflitto tra i due modi di intendere il Risorgimento: quello popolare, come rivoluzione e riscatto sociale; e quello borghese intellettuale, come liberazione dalle dominazioni straniere del paese, come unità politica sotto forma di repubblica o di monarchia. (Consolo 2003)

  • 5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvific (…)

13L’autore denuncia il crimine della proprietà, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca» (Consolo 2015: 220), che può essere proprietà della terra, quanto proprietà della parola. Simbolo della “proprietà” intellettuale è proprio il sorriso dell’ignoto, immagine dell’equilibrio tra «cupezza» e «riso» e della ragione «una lama d’acciao», «lucida» e «tagliente» (Consolo 2015: 144), come la definisce il narratore. Mandralisca, unicum nella società erudita siciliana, sente il bisogno di sottrarsi alle imposture della storia: deve perciò compiere una catabasi nelle profondità della chiocciola-carcere per riemergerne un uomo cambiato5. È lo stesso Interdonato a riconoscere le particolarità del barone:

voi invece, barone, mi dovete permettere, perché non siete un pazzo allegro, un imbecille o calacàusi come la maggior parte degli eruditi e dei nobili siciliani… Voi siete un uomo che ha le capacità di mente e di cuore per poter capire (Consolo 2015: 160)

14L’inganno della lumaca viene, dunque, smascherato da Mandralisca: dopo una vita passata a cercare e catalogare questi piccoli molluschi, non rimane altro che schiacciare quei gusci vuoti, bearsi del rumore delle chiocciole frantumate.

15L’impossibilità di conoscere la Storia attraverso la parola è una frattura epistemologica, sentita con forza da Consolo, che causa la crisi dell’intellettuale-scrittore. Questo deve, perciò, rinunciare al suo ruolo demiurgico, distaccato e ironico, e diventare l’opposto del ritratto che invece sembra fissare tutti negli occhi. La sua «impostura», un tempo origine di conoscenza, ora si rivela una chimera da affrontare. Così quel sorriso, un tempo «fiore d’intelligenza e sapienza, di ragione», diventa «pungente», «fiore di distacco e eleganza, d’aristocrazia, dovuta a nascita, a ricchezza, a cultura o potere che viene da una carica» (Consolo 2015: 219). Il rimedio potrebbe essere quello di scrivere la Storia dal punto di vista di coloro che non possiedono il mezzo del narrare; tuttavia lo scarto «di voce e di persona» (Consolo 2015: 215) non può essere eliminato, poiché la nascita e la formazione dello scrittore generano un vizio di forma insuperabile. Consolo, infatti, non mette sotto scacco solo la narrazione storica, ma anche qualsiasi forma di riproduzione del reale: «quando un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta» (Consolo 2015: 216). Anche la forma d’arte più immediata, in presa diretta, come potrebbe essere il cinema o il documentario, alluse in queste parole, non sono sufficienti a superare l’impostura.

16«Che più, che fare?» (Consolo 2015: 218) si chiede il Mandralisca. La soluzione arriva da un altro personaggio. L’antagonista per eccellenza del sorriso, infatti, è Catena, colei che per prima riconosce l’aspetto «greve, sardonico, maligno» (Consolo 2015: 221) del ritratto e lo sfregia nel punto finale del labbro. Un gesto che Mandralisca comprende solo alla fine del romanzo e lo porta ad esclamare: «Ho capito: lumaca, lumaca è anche quel sorriso!» (Consolo 2015: 219). Catena, per quanto non compaia come personaggio attivo, ha quindi un ruolo chiave per la comprensione dell’opera. Bouchard analizza la rielaborazione parodica di Catena rispetto alla tradizione risorgimentale. La ragazza, infatti, prima presentata come una semplice tessitrice, quasi «topos dell’isterismo femminile» (Bouchard 2013: 45), si rivela in seguito paladina della causa risorgimentale.Catena è quindi un personaggio complesso, allegoria dell’inventio e detentrice del genio creatore: la tovaglia con l’albero delle quattro arance ne è la manifestazione. La descrizione del ricamo è affidata allo sguardo distante della baronessa Parisi: «sembrava quella tovaglia – pensò la baronessa – ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare forse che la ragione le fosse andata a spasso» (Consolo 2015: 167-168). In questa «mescolanza dei punti più disparati» (Consolo 2015: 168), perciò, va rintracciato il progetto poetico di Consolo: il romanzo si origina dalla libera creatività, dando vita all’alternanza delle voci, rinascita della società. Bisogna notare che il «furore» (Consolo 2003) è la qualità attribuita dall’autore ai più alti poeti della tradizione letteraria: Virgilio, Dante, Petrarca e Leopardi.

17Le scritte, l’ultima testimonianza lasciata dal Mandralisca nel capitolo conclusivo, sono appunto frutto dell’immaginazione e della libertà creativa: evadono dal carcere-chiocciola portando il messaggio di «libertà» dei contadini di Alcàra Li Fusi. È qui, però, che interviene Consolo in persona, dando in ultimo al lettore il senso della sua poetica: le scritte infatti sono un artificio dall’autore stesso. In questo dialetto sanfratellano, siciliano e letterario si mescolano in un pastiche polivocalico, «sintesi linguistica», come scrive Segre, «della Sicilia medievale e barocca, feudale e popolare, cittadina e contadina» (Segre 1991: 86). La scrittura in questo modo diventa nemica della lumaca-labirinto, permettendone appunto la fuga.

18Lo scrittore, perciò, per poter evadere dal carcere-chiocciola, non può rinunciare all’impostura, ma aggirarla con l’immaginazione. Un percorso che egli compie in solitudine «per combattere il potere e il conformismo imposto dal potere» (Consolo 2015: 1173), scrive Consolo, solo così si potrà realizzare la libertà di linguaggio che è appropriazione di verità ed emotività. Lo stesso processo è indicato dal Mandralisca per i contadini di Alcàra: «tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose» (Consolo 2015: 217).

  • 6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in (…)

19Il modello che Consolo deve superare è quello razionale e ironico di Sciascia e Manzoni, così da approdare a una letteratura terrigna, perché «a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna» (Consolo 2015: 219). Nella poetica di Consolo questo non significa mai accostarsi alla realtà con ingenuità e spontaneità, ma è piuttosto un procedere di labor lime, di complessa sperimentazione, in grado di accogliere tutte le forme espressive. «Il narrare», scrive Consolo, è un’«operazione che attinge quasi sempre dalla memoria», questa però, a differenza dello scrivere, «mera operazione di scrittura impoetica», non può cambiare il mondo, «perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta» (Consolo 2012: 92)6. Eppure, prosegue l’autore, «il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… questo salto mortale si chiama metafora» (Consolo 2012: 92). Il sorriso dell’ignoto marinaio, infatti, evita un approccio mimetico, ma è intarsiato di analogie, simmetrie tra i personaggi e tra le parti dell’opera (operazione che verrà ripresa anche in Retablo, con i tre capitoli che mimano la pala d’altare). Il romanzo è composto per blocchi, così da disorientare il lettore, non lasciandosi mai all’affabulazione: si pensi al passaggio dall’appendice del capitolo due, in cui vengono presentati i moti di Cefalù, a Morti Sacrata. Autocosciente della sua finzionalità, Il sorriso dell’ignoto marinaio non permette al lettore di adagiarsi in una lettura empatica e melodrammatica.

20In conclusione, l’analisi fin qui condotta permette di delineare cosa sia il romanzo storico per Vincenzo Consolo, attraverso il confronto con altre opere. Il primo paragone deve essere fatto con un altro romanzo composto nello stesso periodo e uscito a soli due anni di distanza, nel 1974: La Storia. Nel romanzo di Elsa Morante, come in Consolo, storia e romanzo non dialogano, ma vengono giustapposti. Morante, anche lei interessata a creare un linguaggio per le vittime del potere, predilige una lingua limpida e comunicativa, riformulando il rapporto tra epos e romanzo. Per l’autrice la letteratura gioca ancora un ruolo prioritario, in grado di illuminare le verità del reale. Consolo, invece, manifesta una crisi più profonda che coinvolge romanzo e linguaggio integralmente: questi condividono le stesse aporie, le stesse storture. Storia e invenzione, perciò, non si amalgamano, ma messi difronte l’uno all’altro condividono la stessa parità gnoseologica. Il campo d’indagine del romanzo storico, perciò, come sostiene Giovanna Rosa, va ricercato «nell’effetto di storia» (Rosa 2010: 50): tesi ancora più vera nel Novecento, visto che la Storia ha perso il suo carattere monolitico. Consolo, potremmo parafrasare, porta all’estremo la decostruzione del linguaggio creando “l’effetto di romanzo”. La riflessione dell’autore inizia proprio dal mettere in discussione l’istituto del genere, dando vita ad un romanzo che fa deflagrare il conflitto, prima di tutto linguistico. Il sorriso dell’ignoto marinaio, in maniera anti-affabulatoria, è «un romanzo storico che è la negazione del romanzo, come narrazione filata di una storia, e della Storia, come esplicazione degli avvenimenti» (Segre 1991: 77).

21L’afasia, possibile conseguenza dell’arbitrarietà della memoria, viene eclissata in favore di una parola che ritrova forza nello sperimentalismo di Gadda e Pasolini, ma soprattutto nel confronto con la grande tradizione del romanzo storico siciliano. «Il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale», scrive Consolo, è «passo obbligatorio, come abbiamo visto, di tutti gli scrittori siciliani, [ed] era per me l’unica forma possibile per rappresentare metaforicamente il presente, le sue istanze, le sue problematiche culturali» (Consolo 2003). Verga, Pirandello, ma soprattutto Tomasi di Lampedusa, sono i modelli di riferimento. Consolo però sceglie una via diversa rispetto agli autori siciliani: non un anti-romanzo, o contro-romanzo storico, ma una scrittura che manifesti il superamento:

per me il suo linguaggio e la sua struttura volevano il superamento in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodia, fratture, sprezzature, oltranze immaginative dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che, nella loro limpida serena geometrizzazione, escludevano le “voci” dei margini (Consolo 2015 1258)

22Il Gattopardo in particolare, non a caso chiamato dall’autore romanzo della fine, segna un momento di frattura nel romanzo risorgimentale. Con la sua intelligenza razionale, la propensione per le idee astratte, il principe di Salina è il coronamento dell’atemporalità, del distacco armonico dell’intellighenzia siciliana. Passato il turbolento dibattito, infatti, Il Gattopardo è stato riconosciuto per quello che era, «un classico» (Consolo 2015: 1150). Consolo, invece, interessato a sperimentare le potenzialità del romanzo in un’epoca «senza speranza», ritiene che questo possa sopravvivere, ma solo sotto forma parodica e metaforica. Polivocalità e decostruzione del romanzo sono gli elementi per poter realizzare il processo di mediazione metaforica, ultimo orizzonte percorribile per rapportarsi con la realtà. Quindi il romanzo per Vincenzo Consolo può vivere solo sotto forma parodica, perché esso stesso è una parodia della realtà, un’impostura.


BIBLIOGRAFIA

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NOTE

2 Come scrive Spinazzola: «I ViceréI vecchi e i giovaniIl Gattopardo costruiscono una sorta di caso letterario plurimo, fascinoso e sconcertante. Di solito, un’opera viene presa a modello da altri scrittori, della stessa età o di epoche successive, in quanto ha ottenuto successo. Qui invece ci troviamo di fronte a una serie di romanzi palesemente imparentati fra loro, ma senza che il primo e nemmeno il secondo abbiano incontrato fortuna, tutt’altro» (Spinazzola 1990: 7). Anche Il sorriso dell’ignoto marinaio può essere aggiunto alla triade di romanzi proposti da Spinazzola: benché se ne distanzi per stile e intento, il riferimento a queste opere è costante.

3 Dietro questa dichiarazione possiamo intravedere i modelli letterari dell’autore: se da un lato Sciascia infatti rappresenta la purezza linguistica, dall’altro Piccolo raffigura il caos barocco, una lingua classica e al tempo stesso ancestrale. Rispetto a Sciascia il rapporto è particolarmente importante, ma allo stesso tempo ambiguo; è Consolo stesso infatti ad alludere al distacco avvenuto da Sciascia attraverso Il sorriso dell’ignoto marinaio: «ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. “Questo libro è la storia di un parricidio” ha detto riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra» (Consolo 1993: 43).

4 La citazione, presa da L’ordine delle somiglianze di Leonardo Sciascia insieme a Cronaca rimata di Giovanni Santi, è inserita da Consolo nell’incipit del romanzo.

5 La chiocciola, infatti, tra i suoi molteplici significati può assumere anche una valenza salvifica. Traina fa riferimento al significato archetipico della conchiglia «simbolo prettamente femminile associato ai poteri magici della matrice – passa dalla simbologia mitica alla simbologia cristiana, come segno di perpetuo rinnovamento, dunque di resurrezione: forse, per Consolo, di rivoluzione» (Traina 2011: 62).

6 In precedenza questo saggio-racconto, Un giorno come gli altri, fu inserito da Enzo Siciliano in Racconti italiani del Novecento, edito per Mondadori nel 1983.

Notizia bibliografica

Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches, 21 | 2018, 77-85.

Notizia bibliografica digitale

Giulia Falistocco, «La scrittura come fuga dal carcere della Storia Il sorriso dell’ignoto marinaio», reCHERches [Online], 21 | 2018, online dal 05 octobre 2021, consultato il 07 décembre 2022. URL: http://journals.openedition.org/cher/1189; DOI: https://doi.org/10.4000/cher.1189

Giulia Falistocco
reCHERches, 21 | 2018, 77-85.

L’ora sospesa e altri scritti per artisti.

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L’ARTE A PAROLE

Nel 2004, negli appunti inediti per una conferenza su Antonello e altri pittori tenuta nel mese di febbraio all’Accademia Carrara di Bergamo, scrive Vincenzo Consolo:

L’ispirazione della letteratura alla pittura può essere esplicita […] oppure implicita, nascosta. Voglio dire che un disegno, un’incisione, una pittura, una scultura può dare modo a uno scrittore di piegare il racconto verso inflessioni visive, verso l’icasticità.

Ho voluto sottolineare l’aggetivo nascosta come un segno della scoperta che  L’ora sospesa riserva ai suoi lettori. Ma andiamo alle origini; partiamo da un brano de I padri putativi (1960), primo inedito abbozzo manoscritto de La ferita dell’aprile:

Gesù con la tunichetta bianca e il cuore rosso e infiammato in una mano, là nel grande affresco dietro l’altare maggiore, scendeva una lunghissima scalinata che si perdeva nel cielo, una scalinata bordata da siepi di gigli bianchi, alcuni recisi e sparsi per i gradini, gigli che si perdevano anch’essi nel cielo e si confondevano con le nuvole. […] muoveva un piede sul gradino inferiore e gliene mancavano ancora tre per scendere sopra il piano dell’altare e poi lì, in mezzo ai ragazzi. Don Bosco, dal vetro dell’altare di destra, […] – Da mihi animas – diceva dal piedistallo […].

E leggiamo ora la scena nella versione definitiva, nel capitolo V del romanzo del ’63:

Gesù, cuore infiammato su tunica bianca, scende una celeste scalinata bordata di gigli immacolati, muove un piede scalzo e fiorito d’una piaga sui gradini e gliene mancano ancora tre per essere a terra, tra i bastasi della refezione. Don Bosco sorridente […] da mihi animas, e pure il cuore […].

Nel passaggio dalla prima alla seconda stesura assistiamo all’imporsi di alcuni degli espedienti stilistici che contraddistinguono la prosa consoliana: la frase nominale, il ritmo endecasillabico. Ma assistiamo pure a qualcosa di meno evidente, e tuttavia di più trascendente: l’escamotage dell’ecfrasi nascosta; ovvero il passaggio da un’esplicita rappresentazione ad una sorta di presentazione.

Spariti affresco e piedistallo, altare e vetro, al lettore resta non la descrizione di un’immagine ma la sua immediatezza: l’occultamento della dimensione ecfrastica del testo finisce per far diventare l’immagine un’alterità senza equivalenza, senza punto di riferimento: un’alterità assoluta; le figure si palesano in una loro ambiguità atopica, all’interno della quale la persistenza di segni elocutivi descrittivi potrebbe essere interpretata – non solo, ma almeno anche – come indizio del flusso di coscienza, come l’apparire in ogni caso di una diversa voce narrante. Benché nell’esigua misura di una tra le prime prove narrative dell’autore, abbiamo forse qui l’archetipo di una strategia di ambiguazione da annoverare fra le più cospicue della scrittura consoliana.

Non mancano, i romanzi di Consolo, di momenti di stasi narrativa, di still moments (Krieger, Ekphrasis: The Illusion of the Natural Sign), di passaggi in cui l’impiego di alcune risorse stilistiche (quali appunto la frase nominale, l’elencazione, la ritmicità della prosa, la rima interna, ecc.) sembrerebbe “voler trasformare il moto in quiete” (Mengaldo, Tra due linguaggi. Arti figurative e critica).

L’ora sospesa rivela l’intimo legame tra l’occasione figurativa e la stesura di pagine dominate (per dirla pasolinianamente) da “l’immediatezza allucinatoria della poesia che fissa le figure in un loro momento assoluto” (Pasolini, La volontà di Dante a essere poeta). Il libro immette il lettore in un laboratorio; soprattutto nelle sezioni «Bozze di scrittura» – che ospita alcune tra le prime stesure di certe pagine confluenti poi in ulteriori e più larghi discorsi narrativi – e «Prove di saggi» – campionario di alcuni dei leitmotiv della riflessione poetologica consoliana. Queste pagine si pongono quindi come l’occasione per la rilettura trasversale di un intero universo letterario, onde cogliere d’altronde la portata di un’operazione tesa spesso a cancellare le tracce d’una scrittura originale tendenzialmente ecfrastica; ad ulteriore riprova di una prassi letteraria che si serve consapevolmente di strategie di opacizzazione referenziale, e conferma, nel contempo, dei particolarissimi rapporti tra l’immaginazione figurativa e alcuni momenti testuali dove la semantica dell’ambiguità raggiunge la più alta densità stilistica; rapporti tutt’altro che scontati se si considera che spesso in Consolo la visività verbale si pone come controfigura di un’immagine non dichiarata; rapporti, in definitiva, basati su convergenze o parallelismi che incrinano, mostrandone l’obsolescenza, le tradizionali ed escludenti collocazioni delle immagini su un asse spaziale in rapporto al logos che si svolge sulla temporalità (Mitchell, Picture Theory).

L’attenzione – o l’intuizione –, i dubbi che la lettura del testo suscita nell’interprete che predispone lo sguardo verso un preciso orientamento (ché, Kant insegna, l’occhio innocente è cieco), finiscono per confermargli che alcune significative pagine di Consolo siano scaturite – nella loro concreta testura verbale, non soltanto nelle loro valenze simboliche – da un’ispirazione figurativa: che l’occasione iconografica sia diventata momento fondante della scrittura. Tale è ormai il collaudato orizzonte di precomprensione di ogni attento lettore consoliano.

Non pensiamo ora però – a questo ci invita L’ora sospesa – a quelle pagine in cui i riferimenti sono espliciti, dichiarati mediante meccanismi testuali o paratestuali (la dettagliata descrizione del Ritratto d’ignoto che chiude il capitolo primo del Sorriso); né alla presenza di quelle che potremmo chiamare icone autoriali (Antonello nel Sorriso, Clerici e Serpotta in Retablo, ne L’olivo e l’olivastro Caravaggio: nomi che il lettore attiva in modo finzionale tramite una successione di immagini: le loro opere); nemmeno, ancora, alla comparsa di titoli la cui iscrizione quasi epigrafica scandisce intere sequenze narrative (quelli dei Desastres di Goya nel Sorriso), o alle palesi citazioni pittoriche (l’Angelus di Millet che apre il capitolo quinto, sempre nel Sorriso; la Melancholia I del Dürer in Nottetempo, casa per casa). Tutta questa dimensione più o meno dichiarata, o appena velata, della scrittura di Consolo è ben nota.

Pensiamo ad altri frammenti – altri momenti, altri spazi – nei quali la rappresentazione verbale di un’altra rappresentazione, di tipo visuale, non è dichiarata: a frammenti nei quali l’evidenza dell’operazione ecfrastica, della meta-rappresentazione (quella letteraria che prende forma da quella pittorica), si direbbe che fosse, programmaticamente a volte, nascosta al lettore; oppure intensamente schermata all’interno di scene di forte contenuto referenziale che sembrerebbero escludere l’esistenza di una doppia mediazione stilistica, di una doppia semiosi.

Questo libro permette di leggere quei frammenti nella loro forma originaria, prima che fossero sottomessi alle diverse operazioni del trasferimento testuale (varianti, omissioni, procedure d’inserimento) in un tessuto narrativo di più ampio respiro.

Penetrare in questo laboratorio dovrebbe suscitare delle domande sulla natura del rapporto tra letteratura e arti figurative nell’opera di Vincenzo Consolo; non però allo scopo di rinsaldare o smentire alcuni topoi – tutti quelli che girano attorno alle cosiddette, in modo alquanto ingenuo, «arti sorelle» poesia e pittura, e alla secolare discussione teorica in merito –  ma per indagare nella funzionalità che tale rapporto può aver assunto nella scrittura narrativa consoliana; ricercare, ad esempio, come l’allusione a un intertesto figurativo dinamizzi la percezione del testo letterario. Una simile indagine sarebbe volta a gettare luce sui meccanismi della formatività testuale, sulle strategie e sulle materie della costruzione narrativa, sulla poetica implicita nell’opera.

Una lingua così materica, un narrare così sussultorio, il ritmo metrico della prosa, un così ricco intarsio strutturale di discorsi; una dimensione di poematicità (meglio che poeticità) che non può non compromettere strutturalmente la narrazione, e che sarebbe riduttivo identificare soltanto con l’andante tonale e timbrico della frase; un narrare macroscopicamente ritmico nel susseguirsi ellittico di frammenti di racconto, a cui fa capo microscopicamente la ritmicità prosodica della frase; l’esplosione interna degli assi crono-spaziali della narrazione, che provoca nel lettore momenti di smarrimento… Tutti questi tratti distintivi della scrittura consoliana, di un narrare che contamina finzione e dizione (romanzo e poesia, cunto e canto), trovano una loro cifra, una loro matrice nella dimensione ecfrastica del testo, sia essa velata o meno. L’ora sospesa ne è prova.

Vorrei, per chiudere, proporre ancora qualche brano di Consolo. Dal testo si parte e al testo si deve sempre tornare, ammonisce Steiner. Risalgono al 1966 le prime pagine scritte dall’autore per una mostra pittorica, pubblicate senza titolo nella brossura di una personale di Oscar Carnicelli alla Galleria d’Arte Il Cannone di Trapani nel mese di novembre. La nota si apre con un brano virgolettato in carattere corsivo, che si presenta come un frammento, incorniciato com’è da punti di sospensione, come una citazione espunta da un’opera che non si dice:

« …E giurammo sulla santa Vergine, su nostra madre, sui figli nati, sugli uomini che in terra ancora vivono, che mai, mai…

Batteva a tempo sulla crosta del suolo di dicembre un tacco (forse mazza o sfera) che rompeva lo stridere di croci di fili in altissime campate. La schiera si allargava e si stringeva muovendosi agli estremi; e regrediva, avanzava (le teste gonfiano e l’orlo della calotta affonda nella fronte e nella nuca: come farà la madre, ma hanno nostalgia d’una mano?).

Le monche braccia e le anche a branche di tenaglia, mostrò il congegno pel quale all’incastro d’un dente di quindici gradi ruotava la celata (quell’occhio, quel tondo occhio di vetro come scivola e gela la tua pelle).

Gridammo (forse solo pensammo) che se non per noi, per la tenera età dei nostri figli… Un sale spesso scorreva per la gola (il ferro ne uscì pulito, ancora più acuto). Si scostassero, ah, si scorgesse un momento una luna di cielo in mezzo a loro ( – O mia pudica, la tua calda camicia sopra la testa! – gemeva l’orgoglio. E la pietà chiedeva di non piegarti sopra l’erbe e i fiori, questi cardi maligni e rose di cianuro). Il vento derisorio (rintronava nelle volte di lamiera) ci sferzava l’onore e il sesso, e noi ancora sperando rigiurammo sulla santissima Vergine… ».

 

Sempre nello stesso testo, più avanti, già in carattere tondo, si legge il seguente microracconto:

[…] la sentenza è stata pronunciata e la condanna, la violenza, sta per essere compiuta. Nell’attesa dell’esecuzione, in questo fermo tempo, la sofferenza, la tragedia: lo scatenarsi di ansie, di tremori, di freddi sudori, incubi dove guglie lance pinnacoli, fili intersecantisi, fiori e foglie malignamente coriacei e spinosi, formano una trama, una maglia che inceppa e dilania il condannato che cerca di evadere da quel mondo cunicolare, di paura e buio ancestrale. Alla cui uscita, contro un cielo impietoso, attendono schiere fitte di cavalieri e fanti, sicuri esecutori della sentenza, massa scura, testuggine, perfetta macchina di inquietante minaccia e di brutale violenza.

Dalla brossura si evince che, almeno nel caso del secondo dei brani, siamo davanti ad un’ecfrasi di uno dei dipinti che vi si riproducono. Abbiamo buone ragioni per pensare che forse anche il primo parte da suggestioni figurative. La strategia della citazione (probabilmente autocitazione) non sarebbe che un pudico velo che nasconde appena il palesarsi di un esercizio di penna, una prova di scrittura che troverà – senza alcuna precisa corrispondenza testuale, sia chiaro – la sua misura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Ne funge, se non da conferma almeno da spia, la asfissiante atmosfera cunicolare abbozzata nel secondo dei brani. Si ricordi inoltre che per le prime testimonianze manoscritte della stesura del romanzo del ’76 (Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo. «Il sorriso dell’ignoto marinaio») si potrebbe azzardare la data 1965, essendo comunque accertato che si tratta di prove anteriori al ’69.

Qualche volta soluzioni di compromesso, e nati spesso da circostanze del tutto occasionali (il pittore, lo scultore che chiede il solito pezzo all’amico scrittore), i testi sull’arte e sugli artisti – almeno nei casi di quelli raccolti ne L’ora sospesa – si dimostrano tutt’altro che scritti d’occasione: a onor del vero, di occasioni di scrittura bisognerebbe piuttosto parlare, di occasioni alte ed altre, se sono servite per mettere a fuoco le tensioni espressive di Consolo: se hanno dato luogo, o corso, al racconto o alle domande sulla sua liceità, a delle riflessioni sulla sua incombente impraticabilità, allo strenuo assottigliarsi del dire.*

Miguel Ángel Cuevas

* Una presentazione dettagliata dei testi che conformano L’ora sospesa in M.A. Cuevas, L’arte a parole: intertesti figurativi nella scrittura di Vincenzo Consolo, nel volume curato da Rosalba Galvagno «Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2015, pp. 17-37. Per un elenco degli interventi dell’Autore su materie artistiche cfr. Cuevas,  Bibliografia consoliana. Scritti per artisti. Appunti per un nuovo libro di Vincenzo Consolo, in Testo. Studi di teoria e storia della letteratura e della critica, XXXVI, 69 (2015), pp. 81-95.

Paolo Barone per AGATHA - Edizioni ZUCCARELLO Stampa Arti Grafiche Zuccarello
Paolo Barone per AGATHA – Edizioni ZUCCARELLO
Stampa Arti Grafiche Zuccarello

Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche»

Laura Toppan.

Nella conversazione  Le Pietre di Pantalica – uscita sul Corriere della Sera del 13 febbraio 1989 –, Consolo risponde che la sua «consonanza con Zanzotto è evidente». Una consonanza stilistico-formale, con la sola differenza che il poeta di Pieve di Soligo l’ha declinata in poesia e Consolo in prosa. Zanzotto è un poeta che egli ha «moltissimo amato e letto» e va da sé che la stima profonda fosse reciproca, a giudicare anche, come vedremo, dal tono della recensione di Zanzotto e dall’omaggio esplicito di Consolo allo stesso poeta ne Lo Spasimo di Palermo (1998). I due autori si sono frequentati poco, ma ‘studiati’ da lontano, con un’attenzione costante al lavoro dell’altro. Due autori profondamente diversi, ma animati entrambi dalla volontà di resistere alla mercificazione e alla corruzione del linguaggio e di tentare l’ardua impresa di restituire una dignità alla lingua letteraria attraverso la tradizione, rinnovandola e, in un certo senso, ‘stravolgendola’ anche, quella tradizione che il Gruppo ’63 cercava in qualche modo di ‘azzerare’ e da cui sia Consolo che Zanzotto si sentivano lontanissimi, seppur ne fossero incuriositi, e con cui si dovettero comunque misurare.

2Dal confronto / scontro con i “Novissimi” si sono quindi ‘sprigionati’ due percorsi molto originali, in linea più con il Pasolini (2000: 5-24) delle Nuove questioni linguistiche del ’64, che con i Neoavanguardisti del ’63. Nel suo saggio Pasolini non si proponeva di definire un modello ideale di lingua nazionale, ma si concentrava piuttosto su un’analisi socio-linguistica del contesto italiano del dopoguerra e in particolare degli anni del boom economico. Egli vedeva nell’italiano della nuova civiltà industriale delle trasformazioni portate dall’arrivo del lessico tecnico, tipico del settore industriale. In effetti, mentre dal dopoguerra sino agli anni Sessanta aveva prevalso piuttosto l’asse delle parlate Roma-Napoli, a partire dagli anni Sessanta in poi prevarrà soprattutto quello dell’asse Milano-Torino, polo industriale attrattivo per tutta una massa di persone provenienti dall’Est e dal Nord del paese. Pasolini registrava quindi la cessazione, per l’italiano, dell’osmosi con il latino e intuiva che la guida della lingua non sarebbe più stata la letteratura, ma la tecnica, che il fine della lingua sarebbe ora rientrato nel ciclo produzione-consumo. Contro queste trasformazioni Pasolini cerca di resistere, e così fanno Consolo e Zanzotto che, attentissimi ai mutamenti del cosiddetto italiano ‘standard’, si costruiscono un percorso tutto personale in materia di sperimentazione linguistica, di lingua poetica, diverso comunque anche dall’operazione dello stesso Pasolini. Lo scrittore siciliano infatti scriverà:

La mia sperimentazione […] non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettale di Pasolini o la degradazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico o una “plurivocità”, come poi l’avrebbe chiamata Segre (nell’Introduzione a Il Sorriso dell’ignoto marinaio), che mi permetteva di non adottare un codice linguistico imposto (Consolo 1993: 16)

  • 2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza (…)

Zanzotto, dal canto suo, in un’intervista dal titolo L’italiano siamo noi (otto brevi risposte)2 del ’62 osservava:

Il latino è oggi una faglia che s’apre nel terreno discusso dell’italiano, è più un richiamo agli Inferi (come i dialetti, seppure con diverso significato) che ai Superi. (Zanzotto 1999: 1104)

Il ’62 è anche l’anno della recensione di Zanzotto in cui prende distanza dai Novissimi (Zanzotto 1999: 1105-1113), oltre che della pubblicazione di IX Ecloghe, raccolta in cui la lingua inizia ad aprirsi agli inserti che derivano dal registro scientifico tecnologico (mucillagini, cariocinesi, geyser, anancasma, macromolecola) e che convivono con latinismi, arcaismi, recuperi danteschi e letterari in generale. Il latino, in particolare, interviene spesso a fungere da ‘mediatore’ tra il repertorio tradizionale e la terminologia tecnica (Dal Bianco 2011: XXV).

3Fin dai loro esordi letterari, quindi, sia Consolo che Zanzotto cercano di costruirsi una lingua poetica, una lingua della creazione che attraversi tutta la tradizione letteraria italiana ed europea (ed extra-europea) risalendo verticalmente sino alle origini della/e lingua/e, in un’immersione da cui poi le parole risalgano rigenerate o vengano riscoperte. Consolo spiegherà:

[le parole] le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. […] Quelle parole, irreperibili nei vocaboli italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati. (Consolo 1993: 54)

  • 3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’U (…)
  • 4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it (…)
  • 5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2 (…)

4Ma se la sperimentazione linguistica dello scrittore siciliano e del poeta di Pieve di Soligo – ormai due “classici” del secondo Novecento italiano – è un punto forte e comune, il loro percorso di vita è, potremmo dire, all’opposto. Consolo parte dalla Sicilia all’inizio degli anni Cinquanta per andare a studiare a Milano3, città che poi sceglierà per vivere e lavorare, anche perché «era la stessa in cui operava Vittorini, dove aveva passato circa un ventennio Verga nell’Ottocento e dove aveva avuto luogo la rivoluzione industriale»4, secondo le parole dello stesso Consolo in un’intervista per la R.A.I. della serie Scrittori per un anno. Il capoluogo lombardo diventa il luogo privilegiato da cui osservare la propria isola e il mondo, con continue partenze e ritorni tra Nord e Sud e frequenti viaggi all’estero, per quella sua necessità irrefrenabile di movimento spaziale, nel tentativo di capire e di interpretare i grandi eventi epocali: le nuove migrazioni, le ingiustizie, le connivenze, come il fenomeno mafioso a cui Consolo dedicherà molte riflessioni5. La scrittura diventa quindi un’arma per opporsi ai poteri, denuncia contro i mali del nostro tempo. Zanzotto, al contrario, rimane praticamente ‘stanziale’ per tutta la vita, se escludiamo brevi soggiorni a Milano e il periodo in cui partì per la Svizzera tra il ’46 e il ’47 per un’esperienza di lavoro: entro il perimetro geografico della sua Pieve, ai piedi delle Alpi trevigiane e attorniato dal paesaggio dei colli, egli osserva il mondo locale e globale, cercando di interpretarne i cambiamenti. Questo piccolo centro, la sua Pieve, ha rappresentato non il punto fermo di un universo in movimento, ma un luogo che il poeta ha visto ‘girare e muoversi’ secondo ritmi sempre più rapidi, sino a diventare quasi irriconoscibile, inghiottito dalla mostruosa conurbazione che va dal Garda al Friuli e che è chiamata «la Los Angeles veneta». In Consolo, invece, sarà la sua isola, la Sicilia, ad essere sempre il punto di partenza: «Io porto in me questo unico punto del mondo, questo paese» (Consolo 2014: 137-138), e aggiunge:

  • 6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014.

Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. (Consolo 2014: 135)6

  • 7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare (…)

E il narrare è da intendersi nell’accezione definita da Benjamin (2011) nel saggio Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, per il quale il narratore è pre-borghese (rispetto al romanziere), è colui che «riferisce di un’esperienza che ha vissuto, è soprattutto quello che viene da lontano, che ha compiuto un viaggio» . Per Zanzotto, al contrario, Pieve di Soligo è il punto da cui allontanarsi ogni tanto, ma sempre centro del suo vivere. Nei mesi dopo il 25 aprile e durante l’estate del ’45, egli si reca più volte a Milano, compiendo il viaggio su convogli di camion partigiani che, dai paesi devastati della zona intorno al Piave, erano alla ricerca di viveri e di materiali, in assenza di una rete di rifornimenti. Nel ’46, al referendum per determinare la forma di governo che dovrà guidare l’Italia postbellica e che mobilita l’opinione pubblica, Zanzotto sostiene il voto in favore della Repubblica e si troverà in contrasto con la propaganda ecclesiastica. La direzione del collegio Balbi-Valier dove ha da poco ottenuto una supplenza, fa intendere ai dipendenti il gradimento per una scelta anche politica e Zanzotto quindi, terminato l’anno scolastico ’45-’46, decide di emigrare in Svizzera, dove rimarrà per più di un anno7. Una volta rientrato nella sua Pieve, inizierà da lì il suo percorso letterario, tanto che la definizione consoliana relativa ai tanti scrittori siciliani che avevano rinunciato alla ‘fuga’ dall’isola, ovvero che appartenevano ad una «letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33), può forse essere applicata anche all’opera del poeta del solighese. Nella conversazione con Calcaterra, Consolo affermava che «esiste una letteratura della distanza spaziale, o dell’esilio» (Calcaterra 2014: 33) e «una letteratura della distanza logica» (Calcaterra 2014: 33): per lui, ancor più incisiva della distanza spaziale è la distanza intellettuale, poiché si riesce ad «affinare una grande saggezza e lucidità rispetto alle cose» (Calcaterra 2014: 32) e al mondo che si osserva. Lucidità che Zanzotto ebbe tutto lungo il suo percorso ‘scosceso’: pensiamo solo, a titolo di esempio, al volume In questo progresso scorsoio (Zanzotto 2009) in cui il poeta, dialogando con l’amico giornalista Marzio Breda, affronta temi capitali come le emergenze climatiche e le crisi ambientali, i conflitti per l’energia e i fondamentalismi religiosi, il ‘turbocapitalismo’ in panne e l’eclissi degli idiomi minori. Per Zanzotto, agli esordi del nuovo millennio, ci troviamo immersi in un tempo che «strapiomba», in cui si aprono nuove difficili sfide di cui a volte siamo addirittura inconsapevoli. Una certa teoria del progresso, sordida e indifferente all’etica, rischia così di portarci verso l’autodistruzione.

5Pur con dodici anni di differenza – Zanzotto nato nel ’21 e Consolo nel ’33 – entrambi vivranno in prima persona il trauma della Seconda Guerra Mondiale: Consolo prima da bambino, sotto i bombardamenti degli Americani sulla Sicilia nell’estate del ’43, in particolare a Palermo e a Messina; in seguito da sfollato, e poi tramite i giochi pericolosi delle bombe e delle mine disseminate sul territorio che lasceranno tracce indelebili nella sua memoria. Zanzotto invece, all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, è poco più che ventenne e partecipa in prima persona alla Resistenza veneta nelle Brigate di “Giustizia e Libertà” occupandosi della stampa e della propaganda del movimento. Si era formata la Brigata Mazzini che, pur essendo sotto il controllo del Partito Comunista, accoglieva anche altre forze antifasciste e Zanzotto, avendo deciso di non far uso delle armi, partecipò alla realizzazione di manifesti e fogli informativi. Nell’inverno del ’44 Pieve di Soligo diventa una sorta di campo di concentramento e il poeta viene reclutato a forza e inviato al lavoro coatto. Nel ’45 riprenderà l’attività partigiana di propaganda sulle colline e in quel periodo non scriverà quasi nulla, tranne qualche frammento diaristico e una poesia per i morti fucilati del paese (Zanzotto 1999: CXII). Gli scontri continuano sino al 30 aprile, data a partire dalla quale la zona viene liberata dalle truppe alleate e si avvia verso il processo di normalizzazione.

6Le tracce della guerra nei Nostri si trasmisero anche attraverso i padri: il padre di Consolo era stato in prima linea sul Carso nella Guerra del ’15-’18, mentre il padre di Zanzotto, pittore-decoratore, a causa delle sue posizioni apertamente antifasciste era dovuto partire per l’esilio in Francia nel ’25 e nel ’26 e, successivamente, a Santo Stefano di Cadore, in montagna. La Storia entra quindi violentemente nella vita dei due autori e segnerà profondamente la loro opera, anche per contrasto al fenomeno della cancellazione della memoria del nostro tempo che entrambi hanno denunciato in più occasioni in varie interviste. Consolo affermava che funzione della letteratura rimane quello di portare alla luce le verità nascoste, di svelare, smascherare, denunciare. Lo scrittore deve riscoprire la forza della parolaverticalizzare la scritturarenderla più possibile densa e pregna di significatitrovare strumenti più incisivi e graffianti, perché lo scandalo venga raccontato, la colpa denunciata, il misfatto scoperto, l’ingiustizia rivelata8. E il paesaggio da cui scaturisce questa parola è il testimone di questa ricerca: per Consolo è la Sicilia, con il suo Mar Mediterraneo carico di approdi e di tragedie; per Zanzotto è il Veneto, quello delle Prealpi sino alla Laguna e all’Adriatico, «luoghi ricchi di lontananze ed intrecci di tempo-spazio» (Zanzotto 2013: 142), li definisce il poeta ne La memoria della lingua, tanto che per lui:

muoversi, aggirarsi, stare […] in una di queste aree porta sempre un senso di sprofondamento, di peso sulle spalle, e insieme di spinta verso altri orizzonti, verso altezze atmosferiche e perfino stellari. (Zanzotto 2013: 142)

8Anche Consolo, probabilmente, ha avuto un senso di sprofondamento aggirandosi nella sua isola, ma è proprio da quel peso, paradossalmente, che si è mosso, che è partito verso un’avventura «archeologica» della lingua e della Storia siciliana, che è poi Storia italiana, europea, mondiale. Allo stesso modo Zanzotto, sin dall’infanzia, ha «avvertito gli spostamenti entro la geografia [veneta] come spostamenti nella storia» (Zanzotto 2013: 143), legati alla terra in modo radicale e ciò dovuto in parte «alla frequenza ossessiva delle commemorazioni della Grande Guerra» (Zanzotto 2013: 143). Di conseguenza egli si è «interiormente segnato un tracciato particolare, quello dell’ubicazione degli Ossari, che inneva la linea del Piave». Per il poeta di Pieve di Soligo, infatti:

una vera memoria è propria della lingua, prima ancora della letteratura, nelle profondità in cui diviene continuamente e continua ad essere ‘lingua nascente’ […] in contatto […] con la “fisica” antropologica e [la] geografia dell’ambiente, in continue interazioni. (Zanzotto 2013: 142)

Zanzotto cerca di recuperare la memoria della lingua e alla stessa impresa ha dedicato tutta la sua opera Consolo, come mette in evidenza Cesare Segre nel Profilo del Meridiano:

[egli] mostra […] che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportata alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato: da quella dei Greci delle colonie, e poi dei Romani, a quella dei poeti di corte sotto Federico II, sino a quella degli scrittori delle classi subalterne. (Segre 2015: XX-XXI)

Ecco allora che, attraverso il plurilinguismo, Consolo apre degli orizzonti verso i momenti significativi della storia siciliana: «archeologo della lingua» o «delle lingue», egli scava in altri dialetti siciliani e nell’italiano per riportare alla luce significati perduti, originari, con innesti da varie lingue. La sua sperimentazione si svolge sia sul piano della storia che della lingua nelle sue diverse stratificazioni (Domenico 2014: 53). E sempre secondo Segre:

ciò che tiene insieme questo plurilinguismo è un fatto musicale, [grazie alla] tecnica del pastiche [e al ricorso di] frammenti [di] altre [e numerose] lingue. (Segre 2015: XXI)

  • 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it

9Gianni Turchetta, inoltre, nella sua ricchissima Introduzione al Meridiano, evidenzia che «il dialetto siciliano è di norma italianizzato e l’italiano spesso sicilianizzato» (Turchetta 2015: XXXI), mentre in un’intervista Consolo precisa che in Sicilia esistono sette aree linguistiche di gallo-italico, ovvero dialetti che sono arrivati con i Normanni e quindi con residui di lombardo9. Di conseguenza:

gli strati siciliani della lingua di Consolo attingono ad un’impressionante molteplicità di varietà locali: [il] siciliano orientale, che ha più riconoscibili radici greco-bizantine […]: [il] sanfratellano, […] oltre al toscano, al napoletano e al milanese. (Turchetta 2015: XXXI)

  • 10 Il sabir era chiamata anche petit mauresqueferenghi‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse u (…)
  • 11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni (…)

Si tratta di «lacerti di lingue vive e morte, corrette o deformate: il greco classico, il latino classico, liturgico e medioevale, il francese, lo spagnolo, l’inglese, l’arabo, il sabir10» (Turchetta 2015: XXXI), che è la lingua franca del Mediterraneo. Diamo qui solo qualche esempio11: per il latino della liturgia, «Regem venturum Dominum / Venite Adoremus / Ecce Dominus veniet, et erit in die illa lux magna» (FA: 8); per il greco, «Agios o Théos / Agios ischirós / Agios athanós, / eléison imás» (FA: 76); «chiocciola, kochlías nella lingua greca, còchlea nella latina» (S: 235); per il francese, «Montesquieu, nel suo essé titolato Esprit des lois» (R: 445); per lo spagnolo, uno dei personaggi principali, Doña Sol, è spagnola: «También, Madre de Dios?! Hombre sin nervio, debilidad, ságoma sin vida, sombra sin consistencia, ausencia, lástima de mi vida, cojón de algodón!» (L: 278); per l’inglese, «(Broccolino, Broccolino), che alla lunga identificai con Brooklyn» (PP: 493); per un mélange di francese e di arabo, parlato da un tunisino in Sicilia, «E l’alìve? Sitròn e alìve. E tomasso, pecorino ‘o puavr’». (PP: 502); per l’arabo, «Inshallah» (R: 440) e per un dialogo a più lingue (PP: 569):

«Alò» gli fece uno dei giovinotti per rompere il silenzio e l’imbarazzo. «Hallo» gli rispose Robert. «Do you speak english?» Silenzio dall’altra parte. «Habla español?» Silenzio. «Parlez-vous français?» «Moi, je parle français» rispose il Piancimòre. «Êtes-vous allé en France?» «Non, je suis allé en Belgique, à travailler, dans les mines» «…» «Et êtes-vous américain?» «Non, non, je suis hongrois, mais j’habite en France.» «Ah, la France, le pays de Prudhon et de Victor Hugo!» escalamó il Pinciamòre. «Oui, de Proudhon, de Hugo et bien d’autres…» rispose Robert ridendo apertamente. Ma capì subito di fronte a chi si trovava, e pensò, guardando la faccia del suo interlocutore, ai contadini catalani di Durruti, ai duri minatori delle Asturie. «Dites-moi, était-il de ce pays le cardinal Mazarin?» chiese il francese. «Bah, ici il n’y a jamais eu un cardinal, mais seulement des prêtres, des religieuses et des capucins. Nous en avons déjà assez!» Robert gli tese la mano sorridendo e l’altro gliela strinse. «Au revoir» disse «au revoir» «Au revoir» rispose il Pinciamòre «Vive la France!» «Oh…Vive le monde tout entier!» disse Robert. (Consolo 2015: 569)

10Consolo ricorre poi a una pluralità di termini appartenenti ad una lista impressionante di settori, quali «la pesca, la marineria, la botanica, l’agricoltura, la zoologia, la cucina, l’architettura, la tessitura, la medicina e l’astronomia» (Turchetta 2015: XXXII), solo per citarne alcuni, e in questi «impasti linguistici, la lingua di Consolo lavora sistematicamente e progressivamente sugli estremi» (Turchetta 2015: XXXII), passando dall’aulico, all’iper-letterario al registro più basso e familiare («il bambino con la testa a vaporino grufolava per terra, agitava le mani e tirava sgrigne soffocate», FA: 51; «sulle ginocchia e sul didietro», FA: 13; «ci dissero cacati e, per l’invidia, ci presero a sfottò», FA: 15; «o stronzo, o merda!…e calci e cinque franchi», FA: 15; «Si vede nu cazzu!», S: 152), e anche se con il tempo il suo sperimentalismo vira verso il tragico, il registro comico, ironico, rimane comunque sempre presente come sottobosco; quell’ironia che fa capolino sin dal primo libro, La ferita dell’aprile: «Puressa, puressa, primavera di bellessa» (FA: 13); «zanglé…sta piova, lesanglé, non inglesi, ma normanni», (FA: 24). E il carattere predominante nei saggi critici e nella poesia di Zanzotto, come per esempio ne La Beltà, raccolta uscita nel 1968 in pieno boom economico, è proprio l’ironia, che si trasforma in aperta comicità o in sarcasmo (come nel componimento Sì ancora la neve: “per voi bimbi con diritto / e programma di pappa, per tutti / ferocemente tutti, voi (sniff sniff / gnam gnam yum yum slurp slurp: / perché sempre si continui l’«umbra fuimus fumo e fumetto»); «colorini più o meno truffaldini») (Zanzotto 2001: 240).

11Il plurilinguismo di Zanzotto, inteso come la messa in opera di elementi appartenenti a diverse lingue e di una pluralità di voci, dialoganti o meno, può esser considerato, secondo Jean Nimis, «una delle caratteristiche ‘fondanti’ della poetica dell’autore» (Nimis 2018: 23). Si tratta di un fenomeno ancora in nuce fino a Vocativo (’57), che diventa esplicito a partire dalla raccolta IX Ecloghe (’62), per poi prendere tutta la sua forza ne La Beltà (’68), ne Gli sguardi i fatti e i Senhal (’69) e in Pasque (’73), in cui la commistione di lingue, linguaggi e voci genera una musicalità molto particolare, ovvero «quel grain de la voix di cui parlava Roland Barthes» – suggerisce Nimis (2018: 23) – e che contraddistingue la poetica zanzottiana. A questa raccolta si deve aggiungere anche il Filò (del ’76), in un dialetto intessuto della koiné veneta. La poesia di Zanzotto è stata una vera e propria «esperienza di linguaggio» – secondo una formula di Stefano Agosti – e dunque un’esperienza sul e nel linguaggio e possiamo attribuire la stessa formula al lavoro letterario di Consolo, che ha realizzato un’escursione a largo raggio verso le origini del linguaggio.

12Anche il plurilinguismo di Zanzotto, come quello di Consolo, riguarda l’uso di varie lingue: l’italiano; il latino, che secondo Dal Bianco, dalla raccolta Vocativo (1957) in poi rappresenta la lingua della Storia, con tutta la sua portata di terrore, soprattutto quando è accompagnata dal lessico scientifico (Dal Bianco 2018: 41); il dialetto, che è la lingua dell’inconscio, la lingua materna e della madre (l’uso del dialetto in Zanzotto esplode dopo il ’73, ovvero dopo la morte della madre), ma che ad un certo punto, in Idioma (1986), diventa la lingua dei morti; il greco, in particolare quello dei Vangeli e di San Paolo, utilizzato quindi come lingua dell’alterità massima, della Natura; il francese, che in genere compare in citazioni letterarie; il tedesco, che è la lingua dell’abbrutimento nazista e al tempo stesso il sublime di Hölderlin – uno dei modelli più alti in poesia –, quindi lingua «dell’antiumano e della somma umanità» (Dal Bianco 2018: 41-43); l’ungherese, che entra nell’ultima raccolta, Conglomerati (2009), in particolare nel componimento Silvia, Silvia, là sul confine… (Zanzotto 2011: 1041-1042), dedicata alla figlia del poeta Cecchinel, morta in giovane età, che studiava lingua e letteratura ungherese all’università di Venezia («Jó estét, kisasszoni!», che significa «Buonasera Signorina!»).

  • 12 Breda 2012: 3.

13Dal Bianco osserva che, a partire dalla trilogia di Zanzotto ch’egli ha definito «dell’Oltremondo» (Dal Bianco 2018: 43), ovvero Meteo (1996), Sovrimpressioni (2001) e Conglomerati (2009), gli inserti delle varie lingue a cui ricorre Zanzotto giocano in un certo senso al ribasso, ovvero ad un «abbassamento di registro». Alle lingue già citate si aggiunge l’inglese, la lingua disprezzata (perché in Italia è quella della pubblicità, della mercificazione) ma che negli anni Ottanta, dopo un lungo periodo di depressione e di afasia, sorge dal profondo per la composizione di pseudo-haiku: Zanzotto dirà che fiorivano spontaneamente, come degli zampilli improvvisi provenienti da qualche luogo recondito della psiche, da un fondo oscuro e fangoso, quasi delle bolle, a testimonianza del fatto che nonostante il deserto doloroso della malattia, un’oasi salvatrice, una fonte di creazione esisteva ancora. Nel saggio Europa, melograno di lingue, il poeta definisce l’inglese «una lingua vulcanica, […] che non può non stimolare alle grandi arrampicate» (Zanzotto 2011: 45), e il suo è un inglese petèl, come lui stesso l’ha definito, ovvero quello dei bambini piccoli che iniziano a parlare: ricorrendo ad elementi minimi della fonologia inglese, Zanzotto spiega «che gli pseudo-haiku gli si congegnavano un po’ alla volta, si coagulavano quasi da sé, grazie alla spinta allitterativa così caratteristica di questa lingua» (Zanzotto 2011: 45). Egli aveva provato a tradurre quei frammenti in italiano, ma restavano in qualche modo sminuiti; e si era anche industriato a tradurli in francese, ma senza grandi risultati e quindi vi aveva rinunciato. Gli riuscivano bene in inglese e non sapeva nemmeno lui bene il perché: partiva forse da una citazione molto conosciuta e da lì nasceva un vero haiku. Solo in un secondo momento li tradurrà in italiano e verranno pubblicati postumi in edizione bilingue negli Stati Uniti: Haiku for a season / Haiku per una stagione (Zanzotto 2012)12.

14La lingua poetica di Zanzotto ricorre inoltre, come la prosa consoliana, a vari lessici specifici appartenenti a numerosissime e svariate discipline, come la medicina, la psicanalisi, la botanica, l’astrofisica, la matematica, l’astronomia, la geologia, l’ottica, oltre ad elementi espressivi connessi all’uso dei linguaggi, come il balbettio rappresentato, gli ideogrammi, i disegni e gli scarabocchi (qualificabili tutti come «iconografie»), i disegni e i collages che accompagnano i testi (cfr. Dal Bianco 2011). E molto importante è anche la dimensione sonora, ove i segni sulla pagina bianca sono da considerarsi come delle ‘scansioni’, dei ‘segnali metronomici’, delle ‘pause’: indicazioni ritmiche per un’interpretazione musicale. Il suo procedere mette in atto un dispositivo sonoro molto denso, costituito da onomatopee, spezzoni di enunciati in diverse lingue, serie di versi dal tessuto ‘acustico’: ora rumoroso, ora sussurrante, ora quasi bisbigliato. Lo stesso Montale aveva definito il poeta di Pieve di Soligo «un poeta percussivo» (Montale 1968: 338). Anche in Consolo, seppur con procedimenti diversi, vi è una «tensione verso la pronuncia fisica [delle parole] e dunque [un’]evocazione permanente dell’oralità» (Turchetta 2015: XXXV), anche perché legata ad una lingua che ha in sé una forte teatralità, quindi che ben si presta alla recitazione. E ricordiamo anche la pratica di riportare melodie e canti popolari in Consolo, così come filastrocche, proverbi e modi di dire in dialetto in Zanzotto.

15Entrambi gli autori, inoltre, scrivono quella che è stata definita una trilogia o, nel caso di Zanzotto, una «pseudo trilogia», secondo le parole dello stesso poeta: un connubio di lingua e storia, le due componenti fondamentali nell’opera dei Nostri.

16La trilogia di Consolo comprende il Sorriso dell’ignoto marinaio (’76) ambientato nel periodo del Risorgimento, un momento di grandi speranze e di grandi delusioni; Nottetempo, casa per casa (’92), che mette a confronto l’avvento del fascismo, segnato da un’estrema violenza tra Cefalù e Palermo attraverso le vicende della famiglia Marano e, allo stesso tempo, con l’Italia degli anni Novanta, dell’avvento della destra; e Lo Spasimo di Palermo (’98) che mette in luce le collusioni tra il potere politico e la mafia con le stragi degli anni Novanta.

17Anche la trilogia di Zanzotto è legata alla Storia, ma comprende un arco temporale che parte dalla grande tragedia popolare della Prima Guerra Mondiale con la prima ‘anta’, Il Galateo in Bosco (’78), nella prospettiva di rivitalizzarne la memoria nel presente. Il Bosco è quello del Montello, a sud di Pieve di Soligo, visto dal poeta come un’enorme pattumiera che r-accoglie i sedimenti organici e inorganici del processo naturale, i resti dei picnic dei villeggianti assieme alle ossa dei soldati della Grande Guerra, il cumulo delle tracce lasciate dall’uomo nei secoli. Questo Bosco rimasto quasi intatto, seppur sfruttato, nei secoli venne distrutto dopo l’Unificazione, nelle varie battaglie che portarono, nel ’18, alla vittoria italiana contro l’Austria-Ungheria. Le tracce di questa tragedia sono rimaste nella terra, tanto che la topografia della zona segna la linea degli Ossari nel Montello (Tessari 2009). Parecchi titoli dei componimenti – come indica Zanzotto in una Nota – sono tratti da parole o frasi del Bollettino della Vittoria e questo è un procedere anche di Consolo, che si spinge forse ancora più in là riportando in alcuni casi, nei suoi romanzi, stralci di documenti inediti consultati in archivio, con quella sua preoccupazione di verità e soprattutto di dar voce a chi non ne ha avutaGalateo è un codice di comportamento, espressione delle regole che presiedono al vivere civile, ma che storicamente si sono incarnate nella retorica del potere e nella volontà di dominio sull’uomo e sulla natura; è il Galateo overo de’ costumi che Giovanni della Casa scrisse probabilmente negli anni in cui si ritirò nell’abbazia di Sant’Eustachio, presso Nervesa, nel trevigiano, tra il 1551 e il 1555 (e pubblicato postumo nel 1558). Ambiguo e lacerato è lo statuto della poesia: da una parte si rivolge al bosco come unica fonte di sostentamento e speranza di vita autentica, dall’altra si riconosce nelle istanze razionalizzanti del Galateo, poiché memoria stratificata nel codice letterario. Al centro della raccolta vi è l’Ipersonetto (16 sonetti), che sta ad indicare l’elezione di un codice altamente letterario, ma ‘stravolto’, poiché vi è la tendenza del poeta ad incorporare grafismiideogrammisimboli matematicidisegni naïf, a volte con valore di notazioni musicali, influendo quindi sull’intonazione degli enunciati; a volte con funzione di semplice “commento” al testo; a volte con funzione di “disturbo” o monito, poiché manifestazioni del “rumore” della storia e del mondo contemporaneo.

18In Fosfeni (dell’83), il paesaggio è quello a nord di Pieve di Soligo e il carico di responsabilità sulla lingua poetica aumenta progressivamente, mentre in Idioma (dell’86) – la terza ‘anta’ della Trilogia – il centro geografico è la Pieve del poeta, un paese che è come un giardino devastato qua e là, una mappa, un palinsesto. La necessità di una presa di coscienza della distanza presente da ciò che ci costituisce in quanto passato è certamente uno dei principi guida della trilogia. Idioma contiene i Mestieròi, una sorta di ‘museo d’ombre’ in dialetto solighese, e una vecchia canzoncina satirica locale, I putèi del Mulineto, e vi è l’espressione queimada brasilèira, con cui Zanzotto denuncia il fatto di bruciare le foreste per coltivare il terreno (ciò’ è legato all’emigrazione veneta in Brasile alla fine del XIX secolo). Ma anche la foresta del Montello era stata abbattuta nell’82 per poter coltivare il terreno. In questo processo di nominazione (da Idioma, appunto) entra sempre la Storia e un esempio ne è la poesia intitolata Il nome di Maria Fresu, dedicata a una ragazza letteralmente polverizzata dalla bomba della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, tanto che si dubitò a lungo se fosse realmente tra le vittime: ridotta unicamente al suo nome:

E il nome di Maria Fresu
continua a scoppiare
all’ora dei pranzi
in ogni casseruola
in ogni pentola
in ogni boccone
in ogni
rutto – scoppiato e disseminato –
in milioni di
dimenticanze, di comi, bburp. (Zanzotto 2011: 700)

La necessità di registrare gli accadimenti passati e più recenti ritorna costantemente nell’opera di Zanzotto e Consolo, ma nell’ultima ‘anta’ della trilogia dello scrittore siciliano è presente il rischio dell’afasia, rappresentata dal protagonista Gioacchino Martinez, dietro cui si cela lo stesso Consolo, uno scrittore che non scrive e non vuole più scrivere, nemmeno le dediche sui propri libri. Questo silenzio è causato dall’esigenza di dire una verità e dalla constatazione dell’impossibilità di farlo. L’afasia qui  si accentua, testimone anche della coerenza e del coraggio del percorso letterario di Consolo: Decise di scuotersi, di fare, dar mano al proposito, da tempo accantonato, d’indagare sulla prigionia in Algeri di Cervantes e a quella, insieme, d’un poeta di qua dialettale, Antonio Veneziano. Sarebbe riuscito forse a scriverne, scrivere d’una realtà storica, della pena vera di due poeti, fuori da ogni invenzione, finzione letteraria. Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall’implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti, maggiormente il veneto rinchiuso nella solitudine d’una pieve saccheggiata – tutt’ossa del Montello questo mondo – «Le tue ecloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vi grava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante e la seconda ancor più ardua, scoscesa…’ questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sua sponda d’un antico Mediterraneo devastato13. (Consolo 2015: 953-954)

Il «veneto» è chiaramente Zanzotto che, «rinchiuso nella sua solitudine», registra i mutamenti di Pieve di Soligo e la dissacrazione del paesaggio che lo circonda dovuta alla cementificazione e al disboscamento; «le tue ecloghe» fa riferimento alla raccolta del ’62, IX Ecloghe, e la «puella pallidula vagante» è citazione appunto da IX Ecloghe, in particolare dal componimento:

13 settembre 1959 (Variante)
Luna puella pallidula,
Luna flora eremitica,
Luna unica selenita,
distonia vita traviata,
atonia vita evitata,
mataia, matta morula,
vampirisma, paralisi,
[…] (Zanzotto 2011: 171)

19Ritorna il tema della luna – che ha tanto affascinato Consolo tanto da comporre Lunaria (1985) – legato ad una serie di nominazioni provenienti da diversi campi linguistici: selenita, che in astronomia è tutto ciò che è in rapporto con la luna; distonia, che è l’alterazione del tono muscolare; l’atonia, che in linguistica è la mancanza di accento e in medicina la perdita del tono muscolare; la mataia, che deriva dal greco e significa folle, stolta; morula, che in biologia è la fase con cui ha inizio il processo di sviluppo di un embrione e infine vampirisma, che deriva da vampiro, spettro che esce dalle tombe la notte. «La tua lingua prima balbettante» è invece il dialetto di Zanzotto, mentre «la seconda ancor più ardua, scoscesa» è l’italiano. In questo passaggio, che possiamo considerare un omaggio di Consolo al poeta di Pieve di Soligo, l’io narrante aborre il romanzo e lamenta di non avere il dono della poesia, che per lo scrittore siciliano rappresenta

un’esigenza primaria dell’uomo. Se non ci fosse la poesia, se si estinguesse il canto, l’umanità rischierebbe parecchio, perché la poesia ha la capacità di risorgere, rifiorire inaspettata, riapparire anche nei luoghi più imprevedibili. In Italia rimane certamente la forma letteraria più irriducibile (perché meno mercificabile), continua a possedere un genuino nucleo di forza espressiva e verità. (Calcaterra 2016: 66)

Da questa concezione alta della poesia, deriva anche la prosa ritmica di Consolo e l’omaggio esplicito a Zanzotto va de soi, forse perché, come suggerisce Massimo Onofri, egli è:

abituato a lavorare sull’ideologia per alchimia sintattica, fermento lessicale, combustioni prosodiche […] dentro una «metrica della memoria» proprio come Consolo, senza compromessi. Entrambi hanno fatto della forma una questione di sostanza (Onofri 2004: 193-199).

  • 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RA (…)

20Ricordiamo inoltre che nella seconda metà degli anni Settanta, Consolo realizzerà per la RAI il documentario dal titolo Una giornata di Iseo Tesser. Dentro e fuori una mostra sulla cultura contadina veneta, nato dall’esposizione Settecento anni di costume nel Veneto per la regia di Raoul Bozzi. La sceneggiatura è di Consolo, mentre l’intervistatore è Andrea Zanzotto, che parla con Iseo Tesser, un mezzadro sulle terre dei principi di Collalto (il ramo italiano degli Hohenzollern), ultimo di una famiglia che esercita quel mestiere da secoli14. Questo lavoro è testimonianza dell’attenzione dei due scrittori per i mestieri legati alla terra e la storia, nei secoli, di determinati territori, in particolare quelli delle loro regioni, che rappresentano sempre il punto di partenza.

21E veniamo ora alla recensione di Zanzotto alle Pietre di Pantalica, (Zanzotto 2001: 308-310):

Questo libro è costituito come da un terriccio fresco di apporti estremamente variati […]. L’autore sta chino, tra schifo ed entusiasmo, tra gioie segrete o paralizzanti perplessità, a scrivere un suo brogliaccio del tutto particolare [ed] è sempre un rivolgersi ai molti […] è quasi una preghiera […]. Il libro risulta quasi riportato al suo carattere di strato vegetale, […]. […] all’orizzonte, [vi sono] quelle entità che sono i toponimi, liberi suoni che finiscono per dire di più proprio a chi non può riconoscervi i luoghi. […] trasudano succhi e sapori le parole che denotano piante, strumenti, oggetti, scorrenti tra dialetto, italiano e manuale scientifico, spesso e in diversi modi obsolete, e con un tale aroma-afrore (odore penetrante e acre) di memoria, o perfino di necessario vuoto-di-presenza, da non far muovere la mano di chi legge verso vocabolari e simili.

Ma il momento più alto del libro è […][il] fascinoso imperio linguistico di Amalia: che trascina (l’amico) […] iniziandolo alla vita vera e forse anche alla vita vera della scrittura che egli svilupperà da adulto. (Zanzotto 2001: 308-310)15

Zanzotto, così attento alla lingua, alle parole, in particolare a tutti i nomi di piante, di fiori, di alberi, al paesaggio in generale e a quello del bosco in particolare, e così ‘funambolo’ nell’invenzione linguistica (pensiamo alla fantasia linguistica de Il Galateo in bosco del ’78), non poteva non apprezzare, sopra tutti, il magnifico racconto consoliano Il linguaggio del bosco, tanto che alla fine della sua recensione scriverà:

Consolo chiude improvvisamente, o meglio lascia il discorso su una storia marinaresca (vera) se mai ancora più cupa, […], [m]a non può disperare l’autore di quest’opera tanto amara quanto abbarbicata a quella minima letizia che viene dal sentire in cuore il pullulare di una lingua che fa di per sé sopravvivere. (Zanzotto 2001: 308-310)16

Ci sembra importante sottolineare che per la scrittura di Consolo si è parlato di “palinsesto” (‘O Connell 2010: 42-66), un termine che si riferisce al codice di pergamena su cui, raschiata la prima scrittura, si può scrivere un nuovo testo e dove l’originale rimane in trasparenza: così l’ipertesto si innesta nell’ipotesto. Zanzotto, nel 2001, pubblica la raccolta Sovrimpressioni e il primo significato del titolo è il riemergere di parole, di storie e di figure antiche di un tempo ormai lontano, ma confuso-fuso con quello reale. Il titolo deve quindi essere letto in relazione al ritorno di ricordi e di “tracce scritturali”: il poeta registra il degrado del paesaggio della sua amata terra, esprime la propria amarezza e lo fa rivivere, in dialetto, attraverso il ricordo di figure ‘mitiche’ del suo passato, già incontrate nella sua opera (come la Maestra Morchet o l’agricoltore Nino). Il modo di procedere è personalissimo, ma delle convergenze sono riscontrabili nell’idea di traccia, di recupero di modelli letterari, fatti storici, immagini di persone che hanno segnato in qualche modo il loro percorso.

22Questo studio si propone quindi come un primo contributo all’analisi comparativa di due autori che sono accomunati da un forte interesse per la sperimentazione linguistica e da una poetica comune, pur nell’estrema diversità dei risultati e dei generi praticati. Lo sforzo di recuperare dall’oblio pezzi di Storia, Consolo e Zanzotto l’hanno investito tutto nella lingua, e anche nei momenti più terribili, più tragici, quando la tentazione di abbandonare l’impresa era forte, da un degré zéro della pagina bianca hanno sempre continuato, nonostante tutto, l’entreprise, forti di un valore prima di tutto etico, che estetico, della letteratura e della lingua.Haut de page

Bibliographie

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Zappulla Muscarà S., Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone.Haut de page

Note

2 Cfr. Zanzotto 1999: 1104: «Certo anche un fenomeno come quello da loro rappresentato ha pienezza di diritti, ma non meno tra parentesi che gli altri fenomeni. […] si rende impossibile salvare, attraverso tanto legittimo disamore, qualche cosa che alluda, almeno, all’amore, ne isoli l’immagine per assurdo».
3 Si veda Consolo 2015: XCIX: «C’era il cognatino di un mio fratello, che era qui [a Milano], all’Università. Intervenne mio fratello: ‘Lo mandiamo a Milano all’Università Cattolica’. Io felice. Vincenzo si iscrive quindi a Giurisprudenza alla Cattolica di Milano: Vi sono approdato non per convinzioni religiose ma casualmente, perché avevo il desiderio di lasciare l’isola e conoscere il famoso continente. Il continente per noi siciliani era una sorta di mito».
4 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
5 Interessanti sono gli scritti di Consolo sulla mafia, che vanno dai primi anni Settanta sino al 2010, ovvero poco prima di morire. Ora riuniti in Consolo 2017.
6 Cfr. lo scritto Memorie, in Consolo 2014. I corsivi sono nostri.

7 Zanzotto 1999: CXIII-CXIV: «[…] terminato l’anno scolastico [il poeta] ’45-’46 decide di emigrare. Da amici trevigiani apprende che in Svizzera si può trovare un impiego: gli segnalano in particolare un posto di insegnante presso il collegio della cittadina turistica di Villars sur Ollon, nel Vaud, sulle montagne sopra Losanna, dove prende servizio nel mese di settembre. L’ambiente si dimostra alquanto opprimente, sia per una singolare figura di direttrice-padrona […] sia perché viene impiegato per supplenze e lezioni innumerevoli in tutte le materie, compresa la matematica. Rimane in Svizzera quasi un intero anno scolastico, poi è costretto a rientrare per essere operato di appendicite e per il successivo mese di convalescenza. Al ritorno in Svizzera decide di abbandonare il collegio tra i monti e si stabilisce a Losanna, dove l’atmosfera è ben più vivace. […] è disposto a fare il barista e il cameriere […] viene in contatto con i seguaci di Swedenborg. Rientrerà in Italia alla fine del’47 all’aprirsi di nuove prospettive per l’insegnamento». Di questo periodo svizzero inizierà a scrivere, in francese, nel Cahier Vaudois, rimasto però incompiuto e a tutt’oggi inedito. 9 Intervista a Vincenzo Consolo: R.A.I., serie Scrittori per un anno, http://www.letteratura.rai.it/articoli-programma/la-formazione-di-vincenzo-consolo/914/default.aspx.
10 Il sabir era chiamata anche petit mauresqueferenghi‘ajnabi o aljamia. Il nome sabir è forse una storpiatura del catalano saber; lingua franca, invece, deriva dall’arabo lisān-al-faranğī. Il secondo termine è in seguito passato ad indicare qualsiasi idioma che metta in contatto parlanti di estrazione diversa. Questa lingua ausiliaria serviva a mettere in contatto i commercianti europei con gli arabi e i turchi, ed era parlata anche dagli schiavi di Malta, dai corsari del Maghreb e dai fuggitivi europei che trovavano riparo ad Algeri. La morfologia era molto semplice e l’ordine delle parole molto libero. Per supplire alla mancanza di alcune classi di parole, vi era un largo uso di preposizioni e di aggettivi possessivi e aveva un numero limitato di tempi verbali (il futuro, per esempio, si creava usando il modale bisognio, il passato con il participio passato). Il primo documento in lingua franca risale al 1296 (Compasso da Navegare). Nel 1830 viene pubblicato a Marsiglia il Dictionnaire de la langue franque ou petit mauresque, suivi de quelques dialogues familiers et d’un vocabulaire de mots arabes le plus usuels; à l’usage des Français en Afrique, manuale scritto in lingua francese in occasione della spedizione francese in Algeria per la conquista di Algeri (è l’inizio della colonizzazione francese che si sarebbe protratta fino al 1962). Veniva così alla luce un idioma alquanto misterioso, usato dai secoli medievali nel Mediterraneo come mezzo di comunicazione tra cristiani di lingua romanza da un lato, arabi e poi turchi dall’altro. Doveva servire ai soldati francesi per imparare e conoscere la lingua sabir. Nell’Impresario delle Smirne, Goldoni inserisce un personaggio che si esprimeva in lingua franca. Cfr. Francesco Bruni, https://web.archive.org/web/20090328135757/http://www.italica.rai.it/principali/lingua/bruni/lezioni/f_lll5.htm.

11 Per le citazioni dalle opere di Consolo (dal «Meridiano»), ricorriamo alle seguenti abbreviazioni, seguite dal numero di pagina: Ferita dell’aprile (FA), Il sorriso dell’ignoto marinaio (S), Retablo (R), Le pietre di Pantalica (PP).
12 Breda 2012: 3. 13 I corsivi sono nostri. 14 Cfr. ds in AC, Faldone Collaborazioni giornalistiche varie. Il documentario viene trasmesso da RAI 1 la sera del 10 luglio 1977.

Référence papier

Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches, 21 | 2018, 183-198.

Référence électronique

Laura Toppan, « Vincenzo Consolo e Andrea Zanzotto: un «archeologo della lingua» e un «botanico di grammatiche» », reCHERches [En ligne], 21 | 2018, mis en ligne le 07 octobre 2021, consulté le 20 septembre 2022. URL : http://journals.openedition.org/cher/1269 ; DOI : https://doi.org/10.4000/cher.1269

Vincenzo Consolo con Luigi Meneghello “Laurea honoris causa” Palermo 20 giugno 2007

Vincenzo Consolo e la matria: lingua, terra e madre.

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PERIODICO QUADRIMESTRALE DI STUDI SULLA LETTERATURA E LE ARTI SUPPLEMENTO DELLA RIVISTA «SINESTESIE»

Sinestesieonline – N. 20 – Anno 6 – Giugno 2017
di Carmela Rosalia Spampinato Vincenzo Consolo e la matria: lingua, terra e madre.

Il 15 agosto del 2004 sul giornale La Sicilia viene pubblicato il racconto di Vincenzo Consolo La mia isola è Las Vegas, in cui compare l’hapax “matria”. La matria è una metafora di triplice natura: insieme lingua, terra e madre. Analizzando Retablo, Le pietre di Pantalica, L’olivo e l’olivastro, Il sorriso dell’ignoto marinaio e La mia isola è Las Vegas si individuano attestazioni e ricorrenze. Dei tre versanti della complessa metafora, quello materno e femminile si rivela il più articolato. On August 15, 2004 in the newspaper La Sicilia is published the story of Vincenzo Consolo My island is Las Vegas, in which the hapax “matria” appears. The matria is a triple nature metaphor: along with language, land and mother. AnalyzingAltarpiece, The Pantalica stones, The olive tree and the olive tree wild, The Smile of the unknown sailor and My island is Las Vegas are identified claims and celebrations. Of the three sides of the complex metaphor, maternal and feminine it reveals the most articulate.
Nel racconto La mia isola è Las Vegas, pubblicato da Vincenzo Consolo sul quotidiano «La Sicilia» il 15 agosto 2004, si legge per la prima ed unica volta il termine «matria»1 : «Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria, matria sì perché è lei che mi ha dato i natali, mi ha nutrito, mi ha cresciuto, mi ha educato. Ora sono lontano da lei e ne soffro, mi struggo di nostalgia per lei»2 . Il termine «matria» si può assumere come metafora e chiave di lettura per l‟intera produzione consoliana. L’incipit del racconto, fortemente evocativo, rimembra una terra lontana che è la «matria» poiché come una madre ha dato i natali allo scrittore, una terra che è dunque donna, che può essere America, tutte le terre insieme e nessuna, una terra che è dialetto e nenia, canto popolare, ritornello dedicato alle arance: Sicilia mia, oh che nostalgia! Ricordo una bella canzoncina che m‟hanno fatto imparare quand‟ero ancora picciriddu. Faceva così: “Di Muncibeddu i figghinuisemu, ohi oh, / terra di canti e di ciuri e d‟amuri, ohi oh, / „st‟arancisulunui li pussiremu, ohi oh, / e la Sicilia nostra si fa onuri, ohi oh. / E di luntanuvenunu li furisteri a massa / dicennu la Sicilia chi ciauruca fa, / chi ciauruca fa…”. Mi viene da piangere a ricordare queste parole. Terra antica, nobile e ricca, la mia Sicilia. Terra importante3 . Ecco dunque il nucleo più pro Vegas– si riscontrano le declinazioni della matria come: lingua, terra e madre5 . La lingua In primis, vi è la lingua. Ripudiando la lingua moderna, appiattita dai mass media, violentata, privata delle sfumature, Consolo sceglie lo sperimentalismo, una lingua definita pastiche6 , la lingua della plurivocità7 , all’insegna della ricerca e della convivenza degli estremi – razionalismo, illuminismo e prosa da una parte, musicalità e poesia dall’altra. E ancora, lo scrittore riscopre il dialetto – spesso nella variante sanfratellana8 –, culla dell’ultimo seme di autenticità, e lo mescola a termini dotti, prestiti linguistici, latinismi, grecismi e neoformazioni, risacralizzando9 così le parole. Il dialetto – la lingua che si impara da piccoli, quella della prima nominazione e quindi dell’invenzione del mondo, carico di ricordi, pulsioni ed affetti – può avere questa valenza forte e virginea. Il dialetto è importante poiché ha echi materni10 . 5 La metafora della matria si ritrova anche nelle altre opere di Vincenzo Consolo. 6 Salvatore Trovato afferma: «Studiare la lingua di Consolo significa estrarre dal pastiche delle sue opere gli ingredienti, isolarli e analizzarli singolarmente, in sé e in rapporto agli altri, nel testo singolo e nell’opera consoliana in genere. […] La lingua che […] possiamo fin da ora definire “dialetto metaforico” o, pascolianamente (ma senza allusioni alla complessa problematica decadentistica e simbolistica di Pascoli), la “lingua che più non si sa”»; S. C. Trovato, Italiano Regionale, Letteratura, Traduzione, Euno Edizioni, Leonforte, 2013, p.92. 7 Cfr. Consolo: «Nel solco della sperimentazione linguistica di Gadda e Pasolini dicevo. Senza dimenticare il solco per me più congeniale di Verga. La mia sperimentazione però non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettalgergale di Pasolini o la deflagrazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico e una “plurivocità”, come poi l’avrebbe chiamata Segre (nell‟introduzione al Sorriso dell’ignoto marinaio), che mi permettevano di non adottare un codice linguistico imposto» V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la Memoria e la Storia, Donzelli Editore, Roma, 1993, p.16. 8 «No, le parole non si trovano nel Devoto-Oli né nel Fanfani o nel Tommaseo. Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla, un antico dialetto, il gallo-italico. […] Quelle parole, irreperibili nei vocabolari italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…. Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati» Ivi p.54. 9 «“Risacralizzazione” non è sinonimo di aulicizzazione. La mia ricerca letterario-filologica è volta al recupero di parole che abbiano una loro intrinseca purezza, una verginità non ancora imbrattata e degradata, che portino una intima risonanza di luce e verità» D. Calcaterra, Vincenzo Consolo: le parole, il tono, la cadenza, Prova d’Autore, Catania, 2007, p.169. 10 «Si potrebbe ipotizzare che la scelta linguistica di Consolo – che egli stesso connette all’uccisione del padre e che si può ricondurre alla profondità naturale e “materna” del dialetto (anzi, dei dialetti: il siciliano standard e i dialetti gallo-italici, come il sanfratellano […]) – si situi in un equilibrio difficile con la proiezione storica (e dunque “paterna”) della sua ispirazione: è la stessa ricerca di equilibri fra “mondo dei padri” e “mondo delle madri” perseguita da Vittorini e, La scrittura consoliana, si serve dell’innesto e dello scavo archeologico: portando in auge termini dimenticati e ormai seppelliti, mescidandoli con altri, sperimenta un linguaggio nuovo e potente, che non scade mai nel tono medio. Tutti gli elementi della lingua consoliana richiamano fortemente la Sicilia. Narrando di una terra che dà i natali, che segna nel profondo l’uomo, la lingua diventa il mezzo per esprimere l’identità, la vocazione, l‟appartenenza. Consolo afferma infatti: Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. […] Credo, infine, di non aver mai smesso di essere uomo di quest‟isola, figlio di questo paese. A cui sono grato di tutto quanto mi ha dato, con i suoi segni, con la sua luce, con i suoi accenti11 . Attraverso le parole del racconto Memorie, si congiungono i tre vertici della matria: vi sono la lingua, una madre e la terra, di cui lo scrittore afferma di essere figlio. 2. La terra Dunque la matria è anche terra. È la Sicilia. E per Vincenzo Consolo: «Sì, si può cadere su questo mondo per caso, ma non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo. Il quale, con gli anni, con l’inesorabile, crudele procedere del tempo, si fa per noi sempre più sacro»12. E ancora, ne Le pietre di Pantalica afferma: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone,conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca13 . La Sicilia è sempre nei pensieri dello scrittore: «Io porto in me questo punto unico del mondo, questo paese14». Da una parte è l’isola santa(«la Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, ma era l’isola santa!15 »), dall‟altra è anche la terra delle contraddizioni, degli orrori, della in forme meno palesi, da Sciascia. Un equilibrio che […] si rivela sempre precario, frutto comunque di un azzardo lacerante» G. Traina, Vincenzo Consolo, Cadmo, Fiesole, 2001, p.56. 11V. Consolo, Memorie, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit. pp.137-138. 12Ivi p.135 13V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.632 14V. Consolo, Memorie, cit. p.135. 15V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, in Id., L’opera completa, cit. p.176. violenza e della forzatura: E cosa non è forzatura, cosa non è violentazione in quest’Isola? Che cosa non arriva al limite della vita, della follia? Tutto quello che non precipita, che non si disgrega, che non muore, è verdello, cedro lunare, è frutto aspro, innaturale, ricco d’umore e di profumo; è dolorosa saggezza, disperata intelligenza16 . E proprio del paradosso e di un inspiegabile grumo di odio e amore si alimenta il siciliano e lo scrittore. Per Consolo, narratore–viaggiatore–siciliano, la Sicilia non è mai semplice sfondo, muto e incolore, ma vera innegabile protagonista. Per Consolo, la terra è un culto, rappresenta la devozione di un figlio nei confronti della madre. A riprova di ciò, le parole scelte per la Sicilia sono di eco materna. Le città vengono descritte come donne, la terra raccontata come una madre, verso cui riservare le medesime attenzioni: I campi vogliono la vicenda: ora grano, ora fave, e un anno riposo. Non bisogna sfruttare eccessivamente la terra: se troppo le chiedi, ti rende meno. Dàllemodo di rafforzarsi e nutrirsi: essa è come la nutrice, che ha bisogno di riposo e di buon nutrimento per avere buon latte17 . Ecco come la matria appare ben riconoscibile. La metafora tripartita, la trinità laica, mostra i propri vertici. Li intreccia. 3. La madre E con la presenza materna, si introduce il vertice più importante dell‟hapax. La matria è donna. Elemento femminile. Natura profonda. La matria è madre. Metafora del «grembo» 18, recesso più interno e proibito19. Di volta in volta muta, si trasforma, si declina. Grazie a un’attenta ricognizione nei dizionari constatiamo che il termine «matria» ha nel panorama letterario italiano solo tre antecedenti: Màtria, sf. Letter. Luogo natio, patria. Tasso20 , II-379: Ne godo fra me stesso per molte cagioni, delle quali la prima, ch’ella sia di quella nobil patria de la quale io mi vanto; e potrei gloriarmene più ragionevolmente, s’io la chiamassi la mia cara matria, secondo l’usanza antica dei creti. M. ni21 ,3-4-338: La Patria e la Matria (per parlare al presente, come dicono i Cretesi), la 16V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.631 17Ivi p.523. 18V. Consolo, Retablo, cit. p.427. 19Ivi, p.437. 20T. Tasso, Dialoghi, a cura di E. Raimondi, 4 voll., G. C. Sansoni, Firenze, 1958, p.379. 21M. Adriani, Opuscoli morali di Plutarco volgarizzati, 6 voll., Stamperia Piatti, Firenze, 1819- 1820, p.338. quale è più antica, a cui siamo più forte obbligati che ai genitori, parimente è di lunga vita. – Figur. Gioberti22 , 1-71: La Chiesa è la patria, e per, usare la bella espressione dei Cretesi, legittimata da Platone, la ‘matria’ dell’uman genere, perché comprende, rannoda e restringe con vincolo interno, sacro e tenace, tutte le patrie speciali. = Formazione dotta, dal lat. matermatris ‘madre’, sul modello di patria23 . Tasso, Adriani e Gioberti scelgono il termine richiamando la tradizione cretese. È il luogo natio, insieme impasto affettivo e culturale. La matriacustodisce l’elemento sacro e diviene il cantuccio dei ricordi. Consolo, che si rifà alla lezione bizantina24 per la sacralità della lingua, alla cultura greca, all’oralità araba e allo stile makamet25, sembrerebbe stato memore anche della lezione cretese, dell’interpretazione antica di luogo natio, di dea e madre. Potrebbe aver usato il termine tanto come neoformazione che come riferimento alle attestazioni passate. Entrambe le intenzioni rappresentano la poetica dello scavo archeologico e dell‟innesto. Infatti ripescando una tradizione matriarcale profondissima e sepolta, di matrice siciliana (e non solo), Consolo modifica il termine tradizionale «patria» e lo adatta al fine di raccontare una storia diversa, personale, affettiva e materna. L’etimologia di «matria» è «mater». E questa madre si porta dietro un modello archetipo di valori, tradizioni, culti, storie, miti26 . 22V. Gioberti, Il gesuita moderno – Apologia, Dalla Stamperia del Vaglio, Napoli, 1848, p.71 23Battaglia, S. Barberi Squadrotti, G. (a cura di) [1961-2004], Grande dizionario della lingua italiana. Torino, Utet, 21 voll. + Supplemento + Indice degli Autori citati a cura di G. Ronco. 24«Gli scrittori bizantini nel momento in cui la loro grande civiltà stava finendo, scavavano ossessivamente nel linguaggio, cercando disperatamente di recuperare la loro matrice che era classica greca. Reinventarono una scrittura ricca e complessa, che non corrispondeva al momento storico che stavano vivendo ma era un modo per riaffermare la loro identità proprio mentre scomparivano dalla storia. Avevano i barbari alle porte e scrivevano in modo straordinario (p.15 e p.10)» SINIBALDI (1988); cit. in S. C. Sgroi, Scrivere Per Gli Italiani Nell’Italia Post-Unitaria, Franco Cesati Editore, Firenze, 2013, p.374. 25«[la prosa consoliana] credo che appartenga alla tradizione della narrazione orale. La narrazione epica dell’antica Grecia era orale. Ma anche nella tradizione araba, passata poi in Sicilia, la narrazione era orale. […] I poemi narrativi credo che siano nati così, dall’oralità, avevano bisogno di un ritmo, proprio per un fatto mnemonico. Nella tradizione araba c’è uno stile che si chiama makamet, che consiste inuna sorta di prosa ritmica, nata per ragioni pedagogiche, nella mia scrittura c’è uno slittare dalla prosa verso un ritmo poetico. Sento la necessità di far questo perché credo che la lingua della narrativa ha bisogno di “risacralizzarsi” (non solo, certo, attraverso l’espediente esterno del ritmo), di ritrovare dignità» V. Consolo, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la Memoria e la Storia, cit., p.52. 26Per ulteriori approfondimenti: E. Neumann, La grande madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, con 74 figg. e 186 tavv. fuori testo, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1981, ed. it. e trad. a cura di Antonio Vitolo; E. Neumann, La psicologia del femminile, Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma, 1975, trad. di Matelda Talarico; J. J. Bachofen, Il matriarcato. Ricerca sulla ginococrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, tomo I e tomo II, Giulio Einaudi Editore S.p.a., Torino, 1988, ed. it. a cura di Giulio Schiavoni; I. Magli, Matriarcato e po- 3.1. Le divinità femminili La prima manifestazione femminile della matria è di natura divina. La matria è dea. Un catalogo di dee. In Retablo, la Sicilia è la terra della coppia indissolubile Demetra e Persefone– Kore. La dea ammantata di nero27 che ha subito l’oltraggio è il simbolo della fertilità, delle messi e dei campi. È la madre della figlia rapita e sposa di Ade, signore della morte. Demetra collerica alterna alla fertilità l’aridità della terra, fino al momento in cui le è concesso il ricongiungimento alla figlia sfortunata. Dunque vita e morte diventano facce della medesima metafora. Alla madre si lega la terra, alla coppia madre–figlia si lega il dolore e l’oltraggio, simboli della Sicilia più antica e ferina. La matria è mito e terra. I luoghi delle dee e della mitologia sono luoghi sacri, carichi di significato e tradizione. Luoghi di magia e mito, silenzio e meraviglia. Alla madre disperata è riservato il luogo sacro, il temenos inviolabile e inviolato. Alla dea spettano i templi, i grandi luoghi misteriosi della Sicilia. Mediante le parole dello scrittore si rintraccia l’antichissimo nucleo del mistero. In Retablo riguardo Egesta, Consolo scrive: Porta o passaggio […] verso l‟ignoto, verso l‟eternitate e l‟infinito. L‟ignoto oltre la vita, metafisico, che nei riti notturni e sotto il cielo stellato le madri, per la gran Madre comune e originaria, vollero sondare; […] l‟infinito oltre questo tempio, […] oltre quest‟isola dal passato morto, dal presente tumultuoso e tragico per cui ora mi sogno di viaggiare28 . La matria si manifesta con i connotati più regali. A Selinunte, per il protagonista Fabrizio Clerici solcare i luoghi mitici vuol dire immergersi nel cuore della metafora. O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio pensiero, cos‟è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l‟uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? E qui tremo, pavento, poiché mi pare di toccare il cuor della metafora, e qui come mai mi pare di veder la vita, di capirla e amarla, d‟amare questa terra come fosse mia, la terra mia, la terra d‟ogni uomo.29 Nel mistero più oscuro, vi è posto per un altro culto, per un’altra donna dea e madre – anche se le due divinità spesso coincidono, come ne Le Pietre di tere delle donne, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1978; E. Ciaceri, Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese (BO), 1981. 27V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.580. L’intero capitolo Malophòros risulta assolutamente denso e utile al fine dello studio della metafora materna e divina insieme. 28 V. Consolo, Retablo, cit. p.414. 29Ivi, p. 436. Pantalica –, la Molle e Umida, la Malophòros, letteralmente «portatrice di mela»: «Lei, la grande Dea, la figlia del Tempo, la Signora, la Regina, la madre dolente e ammantata di nero, la Portatrice di spighe, la generosa nutrice»30 . Lo scrittore mostra un panorama di figure antiche femminili e divine, dee e ninfe, sante. Vi è spazio anche per Ecate Triforme, degna di attenzione per la natura tripartita, ricorrente in Consolo e nella tradizione siciliana: Traversato il ponticello sul fiume, arrivammo alla collina delle divinità catactonie, sotterranee, di Demetra Malophòros, la portatrice di mela, di Persefone, di EcateTriformis […] : stazione dei cortei funebri verso la vicina necropoli e recinti di culti segreti, di sacri misteri31 Inoltre questa divinità viene associata secondo alcune varianti del mito alla luna e proprio la luna è simbolo della vita e della morte, insieme donna fertile e malinconia di luponario, protagonista del sogno teatrale Lunaria32 e di Nottetempo, casa per casa33 . E volendo inoltrarsi ancor di più nelle pagine dello scrittore agatese, in Retablo ritroviamo altri due importanti culti femminili e materni: la Grande Dea Madre Astarte e la Celeste Madre Tanit. Era quello il cimitero ove i Fenici di quest’isola di Mozia seppellivano i fanciulli dopo averli sacrificati ai loro dèi. Il primo nato sacrificavano gli sposi, la primizia, estrema privazione e suprema offerta, come l’offerta del primo fiore o frutto d’una pianta, alla celebre madre Tanit o Astarte34 . Una delle manifestazioni più potenti della madre divina è ancora tra le pagine di Retablo, in cui il pastore Mastro Curatolo venera una Matre Santa, secondo un antichissimo culto che si tramanda di padre in figlio e la cui origine è ormai dimenticata. – Mastro curatolo, don Nino, che santa è quella? – La più santa – rispose l‟uomo. – E si chiama? – La Matre santa. – E dove la si venera? – Qua, per intanto, nella mia casèna. – Ma lo sanno i monaci, i parroci che avete in casa questa santa? – Lo so io e basta. Come lo seppe mio padre, da cui l‟ereditai. Che l‟ereditò dal padre suo e così arrere, fino a che si perde la memoria, memoria dico della mia famiglia.35 3.2. Rosalia e la matrazza 30V. Consolo, Le pietre di Pantalica, cit. p.580. 31Ibidem. 32Lunaria, può considerarsi una sorta di favola teatrale e viene pubblicata per la prima volta nel 1985 dalla casa editrice Einaudi. Ora in: V. Consolo,L’opera completa, cit. pp.261-364. 33 Il romanzo è pubblicato da Mondadori nel 1992 e vince il premio Strega. È incluso in: V. Consolo, L’opera completa, cit. pp.647-755. 34V. Consolo, Retablo, cit. p. 445. 35Ivi, pp. 408-409. Retablo è forse l’opera in cui la metafora della matria si manifesta con maggiore poeticità e con un numero elevato di ricorrenze. Infatti è il romanzo di una coppia madre–figlia36 (che richiama Demetra–Persefone): una figlia, che è fiore37, statua, simbolo dell‟eros, metafora della Veritas e una madre, una matrazza38viva e terrena, una madre bagascia39, «la ‘gna Cristina Insàlico, vedova Guarnaccia»40. I connotati di questa madre sono negativi. A tal proposito tornano utili le ricerche svolte sui vocabolari del siciliano-italiano, poiché tanto nell’Antonino Traina41quanto nel Giorgio Piccitto42 il termine «matria» si attesta col significato di «matrigna». Dunque la matriaconsoliana può essere anche la matrigna siciliana. Il romanzo di Demetra e della fanciulla con il nome di fiore parla anche di questa donna terribile. E Rosalia, l’altra metà dell’innesto materno, è tante Rosalie insieme. A partire dall’incipit in cui si tramuta in tanti fiori, è rosa e giglio43 , malia e maledizione, amore agognato e maledetto, angelo e diavola, magàra44 , si sdoppia, acquista più forme e diviene più donne. È Rosalia di Isidoro, ma è anche Rosalia Granata, è Teresa Blasco, è Ortensia, è «la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore»45. Siamo dinanzi a un personaggio che non è più personaggio, a un corpo mitizzato e sfumato46, a un soggetto che è metafora e destinatario indefinito di tutto l’amore. E Rosalia diviene anche soggetto artistico. In Retablo la statua della Veritas, realizzata dal Serpotta, ha le sue sembianze e provoca la reazione folle di Isidoro nelle prime pa36 «Già nel primo incontro Isidoro vede Rosalia in coppia con la madre, dettaglio quest’ultimo da non trascurare, poiché il ritratto della figlia si confonde talvolta coi tratti materni, fino a costituire un curioso corpo ibrido» R. Galvagno, Il corpo metamorfico di «Rosalia» in Retablo di Vincenzo Consolo, Comunicazione presentata al Convegno della Mod, Scritture del corpo, tenutosi a Catania il 22-24 giugno 2016 (in corso di stampa). 37Rosalia è rosa, giglio, gelsomino. Prende il nome di «Ortensia» nella parte finale del romanzo, altro fiore. Cfr R. Galvagno, L’inno a «Rosalia» in Retablo di Vincenzo Consolo, in corso di stampa, nel quale si analizza l’incipit del romanzo e si enunciano i vari riferimenti al mondo floreale. 38V. Consolo, Retablo, cit. p.373. 39Ivi, p.370. 40Ivi, p.375. 41 «Matria. V. MATRIGNA. In quel di Modica.» A. TRAINA, Vocabolario siciliano-italiano illustrato, 2 voll., Edizioni Sore, Palermo, 2ª ed., 1977. 42 «Matria (Spa., Tr., Av., Ma., ecc., RG7) f. matrigna.» G. PICCITTO, (a cura di), Vocabolario Siciliano, 5 voll., Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Catania – Palermo, 1977. 43Secondo le parole della madre: «la figlia mia ch’è giglio, regina»V. CONSOLO, Retablo, in Id., L’opera completa, cit. p.373. 44 V. Consolo, Retablo, cit. p.370. 45Ivi, p.423. 46«Quale corpo femminile è allora in questione nei due casi? Non è, in definitiva, che un corpo fantasmatico, puro oggetto della pulsione quello di Rosalia; un oggetto altamente idealizzato quello di Teresa Blasco; ma entrambi investiti dal furore dei loro amanti» R. Galvagno, Il corpo metamorfico di «Rosalia» in Retablo di Vincenzo Consolo, cit. gine del romanzo. Nel penultimo capitolo invece viene contemplata con ammirazione da Fabrizio Clerici47 . Ma Consolo dissemina nel testo molti riferimenti alla Veritas. Infatti «VERITAS» è il titolo dell‟ultima sezione del romanzo, nella quale Rosalia–Ortensia racconta la propria verità nella lettera dettata a Don Gennaro. Queste pagine malinconiche sono impreziosite dall‟ironica anafora «Bella la Verità!». Anche Rosalia Granata racconta una verità, la verità di una «smarrita pecorella, peccatora inveterata, anima confusa»48. La confessione, scritta in corsivo rispetto al tondo del testo, parla d‟amore ma anche di abusi e violenza. Attraverso Rosalia, la statua della Veritas e i vari riferimenti alla verità, Consolo affronta un tema a cui tiene particolarmente. In Retablo, nel Sorriso e in altre opere, mediante metafore, ekfraseis, rimanti più o meno celati e riflessioni, lo scrittore cerca e trova la propria verità49 . 3.4. Il corallo e l’arancio/arancia All’interno del catalogo femminile di Consolo, la donna finirà con l‟assumere anche i tratti del corallo e dell’arancia, due potenti rappresentazioni poetiche. Il corallo, sublime più di ogni altra pietra è sensuale e seducente, perché il colore suo morbido e carnale rimemora le carni femminine, […] il corallino pallido le carni ascose, immaginate, quello acceso, le carni in vista delle labbra, delle dita, degli orecchi, del canale pettorino… […] Di questa pietra o fior sottomarino che, pur raffigurando Annunziate, sante Rosalie, Maddalene, sante Caterine, Immacolate, sante Ninfe o Susanne, sono sempre carne, carne, che risveglia ogni senso e appetito.50 L’arancia e l’arancio richiamano la maternità, la fertilità umida del grembo, la conca intima, il miracolo. In diverse opere, al frutto e alla pianta sono dedicate le pagine più liriche, più cariche d’amore e nostalgia. Come la madeleine di Proust, il ricordo dell’arancia provoca l’epifania del passato, l’apparizione improvvisa della terra natia, il ricordo, una fitta al cuore. In Retablo, don 47«L’immagine su cui lo scrittore posa il suo sguardo narrativo, alla fine del viaggio di Clerici, è quella ambigua, esemplata in una statua del Serpotta, in cui è raffigurato il corpo reale di Rosalia e l’idea della Veritas. Vera e propria Morgana di un reperimento di senso, costituisce la figura più affascinante ed emblematica di un tentativo di mediazione tra reale ed immaginario, immagine concreta e simbolo ideale. Emblema infine del doppio insito in una narrazione ai limiti dell’artificio barocco, ove protagonista principale è la coscienza di una ricerca costantemente disillusa. La figura ariostesca di una Rosalia-Angelica, sempre sfuggente ai desideri e ai ritrovamenti dell’amato, si compone enigmaticamente nella realtà inattingibile della statua» F. Di Legami, Vincenzo Consolo, la figura e l’opera, Editrice Pungitopo, Marina di Patti, 1990, p.41. 48V. Consolo, Retablo, cit. p.416. 49Per un‟analisi approfondita, vedi: R. Galvagno, «Bella la verità». Figure della verità in alcuni testi di Vincenzo Consolo, in V. Consolo, «Diverso è lo scrivere», Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, a cura di Rosalba Galvagno e con Introduzione di Antonio di Grado, Biblioteca di Sinestesie, Avellino, 2015, pp.39-64. 50Ivi, pp.457-458. Carmelo Alòsi, «d’una Sicilia remota»51, dedica una struggente preghiera d’addio alla pampinella vergine, alla fanciulla fantasiosa, alla figlia e sposa bambina: Addio, promessa d‟ogni essenza, sorgente di fragranza, corona delle zagare, goliera dell‟aurora. Addio ramo di miele, fanciulla fantasiosa, stellaria vanigliata, regina dei giardini. Spero che gli innesti arcani compiuti nel grembo tuo di nardo fruttino la fantasia di spere multicolori, di scrigni di sapori impareggiabili. […] Bevi rugiada e ambrosia, o Mora, cresci, Bionda, Sanguinella, Tarocchina, divieni donna piena, fruttifera, amorosa, a te la buona sorte, vergine ingallata, zingara maliosa, figlia e sposa mia bambina, narancia affatturata.52 E ancora: Nel tepore del grembo, nutrito dagli umori, il seme gonfia, s‟apre, emette il suo germoglio. E in poco tempo, il semenzale, la pampinella vergine, è pronta per lo squarcio e per l‟innesto. […] Volevo che la mia prima amante si tramutasse in donna singolare, si facesse sogno, irrealtà, chimera. Io la contemplavo, le parlavo, le rivolgevo fiati e sillabe d„amore per tutto il tempo dell„incubazione e dell’attesa. E quindi, tolta la fasciatura della rafia, gridai al miracolo.53 La terra delle arance è Mazzarà. Anche il paese diventa così donna e madre: «Mazzarà: grembo, nutrice, madre d’ogni pianta d’agrume, limone o arancio, cedro o lumia, bergamotto, mandarino o chinotto che si trovi in questa terra di Sicilia e oltre. Luogo privilegiato, conca umida e calda riparata…»54 . Nel racconto Arancio, sogno o nostalgia55 il profumo inebriante di un aranceto dà vita alla narrazione di una Sicilia arabaantica e perduta: Ricordo, nostalgia è l’arancio, o il limone o il cedro, ma anche sogno, desiderio. Simbolo, accanto al tempio dorico, alla cavea di granito d’un teatro, al luminoso pario d’una Venere, d’un Sud d’antica civiltà. […] Non ci sarà più storia, per gli agrumi, per gli aranci di Sicilia, per questo pomo così antico, così mitico, per questo frutto dei poveri e dei reali56? L’arancia diventa vana illusione, ricerca di speranza e domanda priva di risposta. Consolo si chiede se potrà esserci ancora un futuro per l’arancia di Sicilia, se potrà esserci ancora un futuro per la sua metafora, per il mistero di una terra senza tempo e di un popolo senza speranza. 51Ivi, p.426. 52Ivi, pp.426-427. 53Ivi, p.429. 54Ivi, p.427. 55 Arancio, sogno o nostalgia viene pubblicato per la prima volta sul giornale «Sicilia Magazine», nel dicembre 1988 (con traduzione inglese a fronte). È trascorso circa un anno da Retablo. Nonostante i rispettivi anni di pubblicazione, è probabile che la stesura del racconto sia stata antecedente o contemporanea al romanzo. 56V. Consolo, Arancio, sogno o nostalgia, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit. pp.129-133. Anche ne L’olivo e l’olivastro un tenue lamento è dedicato al frutto dorato, al «profumo d’arancio edi nardo»57 . E infine nel capitolo del Sorriso intitolato L’albero delle quattro arance, la pianta è ricamata su una tovaglia. Questa immagine capovolta si trasforma nella penisola, in cui le arance finiscono per rappresentare le bocche dei tre vulcani di Sicilia58. Ancora una volta torna il numero tre, ancora una volta i vertici siciliani, ancora una volta la metafora. 3.5. Il carcere/labirinto, la chiocciola e la lumaca La metafora diventa altro ed altrove. Diventa carcere e discesa nell’antro recondito, nel profondo nucleo materno. Echi vittoriniani si avvertono nel romanzo Il Sorriso dell’ignoto marinaio, in cui la prigione ha forma circolare e richiama la chiocciola. Il simbolo della chiocciola59, il suo guscio a forma di conchiglia rappresentano il riferimento più arcaico della metafora materna60 . La chiocciola è l’origine61. E il ritorno all’origine significa ritorno alla madre ed alla terra natia62, preghiera alla donna, circolarità dell’immagine. Dentro il labirinto, i detenuti invocano le proprie donne con preghiere incise sui muri. «Mammuzza mia»63, scrive un povero diavolo, e si legge anche Rosa64 e Serafina65, giacché la donna è sogno e ristoro, attesa e sollievo. Dunque la metafora matria–madre–donna diviene carcere–labirinto–conchiglia– chiocciola–lumaca. 3.6. L’ermafrodita e il castrato È necessario riflettere ancora sul simbolo della lumaca poiché rappresenta anche l’ermafroditismo. Insieme maschio e femmina, la metafora si alimenta così di dicotomie per affermare la propria potenza. La lumaca non è il solo riferimento all’ermafroditismo nelle pagine dello scrittore agatese. Infatti più volte viene 57V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit. p.773. 58V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. p.168. 59 Per la metafora della chiocciola cfr: S. Grassia, La ricreazione della mente. Una lettura del «Sorriso dell’ignoto marinaio»,Sellerio editore, Palermo, 2011. 60Riguardo la metafora materna nel Sorriso, cfr.: G. Traina, Vincenzo Consolo, cit. pp.27-29 e pp.62-63. 61V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. p.236. 62 Attilio Scuderi si sofferma sulle metafore malinconiche di Consolo: «Conclude il libro l’effigie della chiocciola, vera parola fine del manifesto della poetica di Consolo; come se il libro volesse farsi anch’esso pietra, per rientrare nel ciclo della Terra-Madre concludendo una goethiana discesa nel luogo delle matrici originarie del tutto» A. SCUDERI, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Il Lunario, Enna, 1997, p.33. 63V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, cit. p.239. 64Ivi, p.246. 65Ivi, p.248. citato l’indovino Tiresia, personaggio mitologico sia uomo che donna per sette anni, alter ego di Consolo. E se narrare vuol dire inventare un mondo altro66 , dunque narratore e indovino finiscono per coincidere. L’attività del narrare così è paragonabile alla magia e meritevole delle peggiori condanne dantesche («Grande peccatore, che merita una pena, come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni […]. Ed anche “di maschio femmina”, diviene, come Tiresia, il narratore67 »). Dunque se Tiresia è l’indovino cieco sia uomo che donna, se indovino è anche il narratore, Consolo diviene il custode della metafora femminile. Altra figura importante è quella del castrato, che si ritrova in Retablo, nei panni del personaggio di Don Gennariello. Figura apparentemente secondaria e marginale, il castrato è anche l’artista. Infatti è proprio Don Gennariello a scrivere la malinconica e poetica lettera di Rosalia/Ortensia. E proprio in un’affermazione di questo personaggio si manifesta un’importante chiave della poetica consoliana: “Siamo castrati, figlia mia” aggiunse, “siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pittore… Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti”68 Ed è castrato anche l’Ulisse moderno de L’Olivo e l’olivastro, uomo senza nome e ormai senza via. A Scheria, dinanzi a Nausicaa si copre i genitali e mediante l’inconscio gesto manifesta la propria privazione69 . Ulisse ha toccato il punto più basso dell’impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e martoriata, trova riparo in una tana, tra un olivo e un olivastro […], si nasconde sotto le foglie secche per passare la notte paurosa che incombe. È svegliato al mattino dalle voci, dalle grida gioiose e aggraziate di fanciulle, di Nausicaa e delle sue compagne. Esce dal riparo e si presenta a loro, il sesso schermato da una 66Per Consolo, scrivere e narrare sono due attività differenti. Egli si definisce un narratore e questo vuol dire aver la capacità di inventare un mondo nuovo, altro. Vedi: V. Consolo, Un giorno come gli altri, in Id., La mia isola è Las Vegas, cit. pp.87-97. 67Ivi. pp. 92-93. 68V. Consolo, Retablo, cit. p. 473 69«Il capitolo II del libro rievoca il tremendo viaggio di Ulisse fino a Scheria, il suo naufragionostos come segno di una colpa storica: lo scempio della guerra ma anche l’abbandono colpevole della Terra-madre. Troviamo qui – nella rievocazione del racconto omerico dell’approdo dell’eroe, nel suo coprirsi i genitali dinanzi alla vergine Nausicaa il segno di “simbolica autocastrazione” – una completa psicologia del nòstos: luttuoso; l’espiazione consiste nel doloroso passaggio attraverso “quell’utero tremendo di nascita o di annientamento: Scilla e Cariddi”, simboli della “metafora dell’esistenza” che diventa quel braccio di mare, metafora di una vera ordalia in cui il soggetto può perdere la ragione o recuperare l’utopia, la sua felice Scheria, la sua Itaca; infine l’autocastrazione e la remissione colpevole nel ventre materno, nel ventre-Sicilia» A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, cit., pp.95-96. fronda, come per simbolica autocastrazione, per non allarmare le vergini, come umile supplice, dimesso70. 3.7. La madre, stanca Nessuna Penelope attende l’eroe. Vi è solo una madre stanca, dimentica, irriconoscibile, che sonnecchia indifferente sulla poltrona71. Approda a questo la matriaconsoliana. Diventa vecchia la donna regale di un tempo. Non più Demetra, non più dea. Ora solo Euridice. Non basta più la poesia. Resta solo il silenzio. Un «mah» emesso tra i denti, a labbra strette. Il viaggio all’interno della matria, delle metafore femminili e materne si conclude con l’immagine più forte, più vera. Questa matria è antica, questa madre stanca… Dopo anni, anni d‟assenza, lontananza, dopo sconfitte, perdite, follie, afflizioni, ritornava sovente, rimaneva nel paese. Ritornava e stava chiuso nella casa, seduto a parlare con la madre. Parlare… era lei, quando non chiudeva gli occhi e s‟assopiva. Lui rispondeva alle domande. – Chi sei? – Tuo figlio. – Mah… Pensava fosse quella la vecchiaia, quello sfilacciarsi, rompersi di legami, allontanarsi a poco a poco, procedere a ritroso. […] La guardava, ne studiava la faccia, la pelle sottile e bianca, le venuzze azzurre, il neo sulla tempia, i capelli fini e lisci fermati dietro con la crocchia, la bocca a grinze, le orecchie trasparenti, i buchi allungati dei lobi da cui pendevano gli orecchini. Ma presto provava imbarazzo, distoglieva lo sguardo, gli sembrava di violare l‟intimità indifesa di quella donna ch‟era stata sempre candida, innocente, il suo privato e lento allontanarsi. […] La madre s‟era addormentata. […] Pensava ch‟era stato lui per primo a rompere gli ormeggi, allontanarsi, via per tanto tempo. Cosa credeva? Che quella donna, sua madre, fosse rimasta sempre lì, uguale, come il giardino, le barche, le isole, con il ricordo di lui sempre acceso? Il dolore sempre vivo per gli altri figli andati, scomparsi? Aveva mollato pure lei (ma quando, come?) e s‟era messa a camminare per la sua strada. Voleva annullare quel tempo, ritornare, lui, al punto di partenza, far tornare lei, la vecchia Euridice, di là dall‟ombra dell‟oblìo? – Mamma, o ma‟… – Chi sei? – Tuo figlio. – Quale figlio? 70V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit. pp.767-768. 71«Il ritorno alla vera patria, al paese natio, potrebbe essere allora un rimedio allo scempio, anche perché comporta il vero e proprio ritorno vittoriniano, alle madri. E l’ulisside […] incontra la madre, che però è una presenza attonita: sonnecchia, lo riconosce appena, non fa altro che evocare la propria madre, giusto sul filo della continuità matriarcale. Un ritorno inutile, che provoca sola la rievocazione dell’antico bisogno di partenza» G. Traina, Vincenzo Consolo, cit., pp.101-102. […] Cos‟era quel sostare nella casa della madre? Era per cancellare un insopportabile presente, la Tauride dell‟esilio e dell‟offesa, saldare la frattura, colmare l‟incolmabile voragine. […] Osservò ancora quella faccia, quegli occhi vivi, ma lontani. I quali poi si chiusero e diedero al volto l‟aspetto d‟una maschera severa72 . 72V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit. pp.848-850, c.n.

«Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo.

Copertina Rosalba Galvagno (a cura di),«Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo
Consolo, introduzione di Antonio Di Grado, Biblioteca di Sinestesie, Avellino 2015.
«Giravo e giravo, per strade, vicoli, piazze dentro la città nera, nell’intrico dell’ossidiana, nella
spirale d’onice, giravo nella scacchiera di lava e marmo folgorata da una luce incandescente»: così
Vincenzo Consolo descrive il capoluogo etneo in un suo breve e rarissimo scritto, intitolato “I libri
di Catania”, ora pubblicato in appendice a un pregevole volume dal titolo “Diverso è lo scrivere.
Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo”, recentemente edito per la collana “Biblioteca
di Sinestesie” (Avellino 2015) per le cure di Rosalba Galvagno, docente di Letterature Comparate e
di Teoria della Letteratura presso l’Ateneo catanese, e prefato da Antonio Di Grado.
Il libro riunisce gli interventi di una giornata di studi dedicata a Consolo tenutasi nel marzo del
2013 presso il Monastero dei Benedettini, nell’ambito delle iniziative culturali promosse dal
Dipartimento di Scienze Umanistiche: in quell’occasione alcuni tra i più validi studiosi dell’opera
consoliana (Nigro, Cuevas, Galvagno, Trovato, Messina, Stazzone), si sono confrontati intorno al
tema della “scrittura”, declinandolo da prospettive differenti.
Nella sua introduzione Di Grado si sofferma su “Catarsi”, definendolo “un testo di alta e
impervia poesia, memore addirittura dei tragici greci, di Hölderlin e di Pasolini”, composto per una
produzione del Teatro Stabile di Catania di grande spessore culturale, quel “Trittico” del 1989 (che
tanto successo riscosse), costituito da tre atti scritti dai tre maggiori letterati siciliani allora viventi:
Sciascia, Bufalino e appunto Consolo.
Nel contributo di Salvatore Silvano Nigro è rintracciata, nella prosa di Consolo, una fonte
secentesca, il “Récit du sol” di Bartoli; Cuevas si sofferma sapientemente sui riferimenti ecfrastici
presenti in un libro ancora inedito, “L’ora sospesa”, interpretando il senso delle “strategie di
ambiguazione della scrittura consoliana”, ad esempio nel caso dell’“escamotage dell’ecfrasi
nascosta”. Il saggio di Rosalba Galvagno individua le “figure della verità” presenti in quattro testi
dello scrittore siciliano: due articoli di cronaca degli anni Settanta da cui emerge “l’ambiguità della
verità effettiva, così diversa da quella processuale” e dai romanzi “Il sorriso dell’ignoto marinaio” e
“Retablo”, con un interessante riferimento all’iconografia dei “Disastri” di Goya.
Salvatore C. Trovato analizza le “Scritte” presenti nel capitolo IX del “Sorriso”, mettendone in
evidenza “i caratteri regionalmente marcati verso il basso” con opportuni rilievi sulla realtà
linguistica sanfratellana; Messina ripercorre il percorso editoriale e di scrittura del libro “La mia
isola è Las Vegas”; Stazzone dimostra come l’opera di Consolo sia attraversata dal tema del
silenzio e dell’afasia, insistendo sulla “volontà di alternare spazialità e temporalità dosando
citazioni letterarie e iconiche” nei romanzi consoliani fin dalla soglia paratestuale dei titoli.
In Appendice vi è anche un sentito saluto e ricordo dell’autore di Cetti Cavallotto unitamente a
un corredo iconografico e fotografico.
I vari saggi che compongono il volume ci mostrano, quindi, come la scrittura consoliana sia
un’immensa tessitura nella quale si mescolano gli elementi più diversi: la corposità della frase, la
trasfigurazione lirica della realtà, l’engagement, l’ecfrasi, la visione della storia e della letteratura
come combinazione e stratificazione “palincestuosa”, amalgama di elementi che producono infinite
sottoscritture e infiniti richiami.
Novella Primo
Articolo Consolo LaSicilia def