Le parole (non) sono pietre: la scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo

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Le parole (non) sono pietre: la scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo Sperimentalismo ed eticità: l’(in)attualità di Consolo Può destare sorpresa, vista la loro estrema complessità linguistica, ma i libri di Vincenzo Consolo sono stati tradotti in molte lingue: francese, inglese, tedesco, olandese, polacco, portoghese, spagnolo, catalano. In spagnolo addirittura alcune opere sono state tradotte due volte: in castellano continentale e nello spagnolo dell’America Latina; lo stesso è accaduto per il portoghese, con una seconda traduzione in portoghese brasiliano. Il sorriso dell’ignoto marinaio 1 è stato tradotto persino in arabo. Consolo è insomma scrittore di indubbia caratura internazionale, conosciuto in molti paesi. Per avviare il discorso su di lui, mi appoggerò all’auctoritas di Cesare Segre, autore di Un profilo di Vincenzo Consolo che precede l’edizione dei Meridiani Mondadori da me curata: un profilo che è stata l’ultima fatica del grande critico e filologo saluzzese, scomparso nel 2014. Scrive Segre: « Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione » 2 , quella degli anni Trenta (Consolo è nato nel 1933 ed è scomparso pochi anni fa, nel 2012). Non voglio contraddire ciò che dice Segre, che ha certo ragione, ma dire che « Consolo è lo scrittore più grande della generazione degli anni Trenta » soltanto rischia di essere un po’ riduttivo. Diciamo allora, senza mezzi termini, che Consolo è, in assoluto, uno dei massimi scrittori italiani del Secondo Novecento. Proviamo a restare ancora un poco sulle generali. Consolo è anzitutto un autore di altissima qualità artistica. Il suo stile, di straordinario spessore, ha un’immediata riconoscibilità, un inconfondibile marchio di fabbrica, ed è dotato di una densità, complessità e originalità straordinarie. Spesso Consolo ha parlato di una lingua in qualche modo « inventata », e addirittura di una sua ferma intenzione di «non scrivere in italiano», di allontanarsi dalla piattezza della lingua comunemente parlata, mescidando lingue, registri e sottocodici, in un amalgama che si distende lungo una gamma amplissima di varianti diacroniche e diatopiche. Nel racconto autobiografico I linguaggi del bosco 3 , tratto da Le pietre di Pantalica, Consolo racconta di quando, a cinque anni, per leggeri problemi di salute – era infatti troppo magro e un po’ malaticcio – era stato portato per qualche mese in montagna, nella casa di famiglia al bosco della Miraglia. Qui egli vive un’amicizia, che è quasi una infantile ma serissima storia d’amore, con Amalia, una ragazzina dodicenne del posto: non si può certo parlare di amore in senso stretto, però i due si piacciono, e, per farla breve, sono sempre in giro insieme. Consolo racconta di come Amalia gli rivelasse il bosco, facendogli scoprire un mondo variegato e coloratissimo, fatto di cose, ma anche di parole: gli insegna come si chiamano gli alberi, gli arbusti, le erbe, i fiori, gli animali, e glielo insegna, fatto molto importante, non solo in siciliano, ma anche in sanfratellano, una lingua provenzale parlata in alcuni paesi del nord della Sicilia,
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1 V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino, Einaudi, 1976 (1a ed.); Milano, Mondadori, 1987 (2a ed., introduzione di C. Segre); ora in V. CONSOLO, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. TURCHETTA e uno scritto di C. SEGRE, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2015, pp. 123-260. 2 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. XI. 3 V. CONSOLO, I linguaggi del bosco, in V. CONSOLO, Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988 (1a ed.); 1990 (2a ed. Oscar , a cura e con introduzione di G. TURCHETTA) ; ora in in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 606-612. 2
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nella zona dei monti Nebrodi, subito a ridosso della costa di Sant’Agata di Militello, dove Consolo è nato. In molti casi, però, Amalia inventava le parole, costruendo un proprio personale linguaggio: Dietro i porci e le capre al pascolo, fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava. Ma Amalia poi conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, allitterato con cui parlava alle bestie; conosceva il sampieroto, col quale comunicava con la famiglia; conosceva il sanfratellano e il siciliano coi quali comunicava cogli estranei. In quella sua lingua d’invenzione, che s’era forgiata nelle lunghe ore del pascolo, nella solitudine del bosco, chiamava per esempio sossi i maiali, beli le capre, scipe le serpi, aleppi i cavalli, fràuni gli alberi, golli le ghiande, cici gli uccelli, fèibe le volpi, zimpi le lepri e i conigli, lammi le mucche…4 In questo modo Consolo delinea evidentemente una sorta di mise en abyme della propria poetica e della propria scrittura, mostrandoci appunto la costruzione di un linguaggio altro, analogo in qualche modo al suo: come Amalia dava alle cose “altri” nomi, anche Consolo costruisce una lingua che « chiama » sempre le cose in modo diverso da come le « chiamiamo » nella lingua di tutti i giorni. Prima di tornare a parlare del suo stile e della sua scrittura, voglio sottolineare che Consolo è molto importante anche perché ha un eccezionale spessore intellettuale. Si rileggano per esempio i saggi del suo volume Di qua dal faro 5 , che chiude il Meridiano. Il titolo evoca polemicamente un modo di dire dei Borboni, che con l’espressione «Di là dal faro» designavano appunto la Sicilia, vista dal continente, e più specificamente da Napoli, come la parte del loro regno collocata al di là del faro di Messina: una regione a cui guardavano evidentemente con sufficienza e distacco. La prospettiva «di qua dal faro» implica invece uno sguardo partecipe, ma al tempo stesso, mentre sottolinea la centralità della Sicilia, intende sottolineare anche la necessaria apertura verso il Mediterraneo tutto: la Sicilia, dunque, in qualche modo come mondo “altro” e però anche emblematica di un mondo più vasto. Si tratta di un libro di saggi dove si trovano anche tante “storie” straordinarie: come per esempio la ricostruzione della storia dell’estrazione dello zolfo, una grande vicenda economica e antropologica della storia italiana, o quella della pesca del tonno. Ma questo libro è solo una piccolissima parte della vasta produzione del Consolo saggista, poiché ci sono ancora decine di saggi che non sono stati mai raccolti in volume: nel prossimo futuro mi piacerebbe lavorare a un’edizione degli altri scritti saggistici di Consolo. Pensiamo per esempio ai numerosi saggi dedicati alla storia dell’arte, di cui era un grande conoscitore: a Antonello da Messina, a Caravaggio, ma anche a innumerevoli artisti contemporanei, per i quali in numerosi casi ha scritto prefazioni per i cataloghi delle loro mostre. Consolo, grande intellettuale, ha avuto anche un’attività giornalistica di straordinaria ampiezza e intensità: rimando per questo alla bibliografia da me
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4 V. CONSOLO, I linguaggi del bosco, cit., p. 610. Corsivi nel testo. 5 ID. Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 987-1260. 3 curata per il Meridiano 6 .
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E pensare che alcuni critici hanno scritto che Consolo era “pigro”: una insostenibile falsità! È vero solo, semmai, che egli ha scritto un numero relativamente limitato di libri propriamente di letteratura: ma questo è avvenuto proprio perché, quando scriveva « letteratura » impiegava anni a costruire quelle prodigiose macchine espressive, che chiameremo ora, assai provvisoriamente, i suoi “romanzi”. Ma mentre si dedicava alle scritture letterarie, egli scriveva anche pezzi giornalistici, a un ritmo che ha dell’incredibile. Nella bibliografia del Meridiano Mondadori ho cercato di fare un censimento (quasi) totale di tutti i suoi scritti, anche « militanti » e d’occasione: le bibliografie, si sa, non sono mai complete, ma spero di essermi avvicinato abbastanza all’ esaustività. Ma che cosa si vede da quest’attività? Si guardi per esempio al volumetto pubblicato da Sellerio, Esercizi di cronaca 7 , che raccoglie solo una selezione degli articoli pubblicati sul quotidiano di Palermo « L’Ora » . Possiamo cogliere già come Consolo fosse costantemente presente nella vita pubblica e nella vita politica, ma ben salvaguardando la sua specificità di intellettuale, secondo un modello che, a ben vedere, deriva proprio dalla cultura francese: pensiamo per esempio a Émile Zola o allo stesso Jean-Paul Sartre. Consolo era un intellettuale sempre pronto a parlare della realtà, del presente, della quotidianità. Vorrei fra l’altro segnalare che nel 2017 uscirà presso Bompiani, per le cure di Nicolò Messina, un volume che raccoglie un’ampia selezione degli scritti di Consolo sulla mafia: per un siciliano, certo, scrivere sulla mafia è un grande dovere morale. In questo grande scrittore c’è quindi sempre una straordinaria tensione etica, che è anche, dato senso, a una tensione politica. A suo modo Consolo ha sempre fatto politica, per quanto in maniera molto diversa e lontana da quella dai politici… Il suo eccezionale spessore artistico e intellettuale rende sempre più necessaria sua una più stabile e più percepibile «canonizzazione» – per usare un termine classico della storiografia e della teoria letteraria -, che gli consenta di diventare parte integrante e ben riconosciuta del senso comune della letteratura. Anche per questo era necessaria un’edizione come quella dei Meridiani Mondadori, che, oltre a raccogliere tutti i suoi libri principali, fosse corredata di ampie note e di apparati critici capaci di aiutare nella comprensione dei testi. Ma degli apparati parleremo più avanti. In prima approssimazione vorrei dire che Consolo è, un po’ paradossalmente, uno scrittore « attuale » anche e proprio per la sua « inattualità », e che questa sua (in)attualità ha a che vedere con la sua idea di letteratura. Consolo è ossessionato, da un lato, dalla necessità di dire la storia – perché per lui bisogna parlare della storia, del passato, del presente, della storia tutta -, ma dall’altro mostra anche la fine della fiducia nell’engagement, cioè proprio di un modo di essere intellettuale che Sartre ha reso poco meno che proverbiale. Anche questo è un paradosso, e apparentemente una contraddizione; ma nella scrittura di Consolo le contraddizioni sono vitali, e prendono avvio da un’irriducibile contraddizione di partenza: bisogna parlare, ma sapendo che le parole hanno limiti così severi che diventa quasi avere la tentazione di tacere. Proprio su questa irrisolvibile duplicità Consolo costruisce quella sua originalissima unione di sperimentalismo ed eticità che ne rappresenta la più acuta e flagrante specificità. Vi sono tanti scrittori sperimentali e tanti scrittori etici – per dirla in un modo un po’ rapido e sommario – ma è quasi impossibile, trovare una così stretta congiunzione tra due atteggiamenti
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– 6 In V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 1481-1517. 7 V. CONSOLO, Esercizi di cronaca, a cura di S. GRASSIA, Prefazione di S. S. NIGRO, Palermo, Sellerio, 2013. 4
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che non vanno molto d’accordo. Detto in modo ancora molto sommario: di solito lo sperimentatore sembra sempre proiettato soprattutto verso le forme, laddove lo scrittore etico, e tanto più lo scrittore « politico », verso i contenuti. Spesso Consolo è stato accusato di “formalismo”: un’accusa veramente ingiusta e poco fondata. Come si evince anche dal sottotitolo di questo intervento, Consolo è, da un lato, uno scrittore che attinge alla tradizione meridionalistica, cioè agli scrittori, ai saggisti e agli studiosi, a volte anche ai politici, che hanno scritto del Meridione d’Italia, della sua storia, della sua miseria, dell’oppressione, della distanza tra l’Italia del Sud e le altre parti più ricche d’Italia; ma al tempo stesso è uno scrittore molto vicino a quello che possiamo chiamare il “modernismo”, cioè, in tre parole, allo sperimentalismo non avanguardistico: questo è un altro suo tratto forte, che serve anche a ricordarci quanto egli sia stato, nonostante la convergenza di date (il suo romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile, è del 1963), lontano dalla Neoavanguardia, con cui anzi polemizzava aspramente, in riconoscibile sintonia con le critiche ad essa rivolte da Pier Paolo Pasolini. Vi proporrò ora un esempio molto caratteristico della forza di Consolo, della sua originalità e della sua irriducibile, e produttiva, duplicità. Tutti abbiamo presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, tragicamente, soccombono nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. Ecco, Consolo, in tempi molto lontani, ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali in discussione nell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla tutti i giorni, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e ricatti di Erdogan, gli imbarazzi politici della Merkel. Consolo ha capito prestissimo la rilevanza assoluta del fenomeno incombente delle migrazioni nella tarda modernità, anche e proprio nell’area mediterranea: già negli anni Ottanta ha scritto infatti spesso di migranti che morivano in acqua, specie nord-africani. Ecco così che possiamo ben percepire il Consolo che guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo con eccezionale profondità quello che sta succedendo, prima di tanti altri. Ma se guardiamo a questa sua percezione da un altro lato, ci accorgeremo che Consolo ha anche un’ossessione letteraria, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 19578 ) e poi ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”, non solo perché ha davanti una certa realtà, ma anche perché ha sempre in mente l’immagine della Death by water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. L’ossessione letteraria (formale, se volete), fa insomma tutt’ uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale (dei “contenuti”): Consolo è anche questo, con un’intensità che ben pochi possono vantare. E ci sarebbe peraltro da insistere – la critica non l’ha fatto abbastanza – sulle radici propriamente modernistiche, in senso letterario, di Consolo, e quindi non solo su quelle meridionali, di cui si parla più spesso. Vorrei ricordare, ad esempio, che il suo primo romanzo, un
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8 Ora in V. CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, a cura di N. MESSINA, Mondadori, Milano 2012, pp. 7-10. 5
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romanzo di formazione, La ferita dell’aprile 9 , parla di un ragazzo che cresce in una scuola di preti del Nord della Sicilia, in un luogo mai nominato ma che assomiglia molto alla Barcellona Pozza di Gotto dove Consolo effettivamente frequentò le scuole medie, e in un mondo che parla una lingua che non gli appartiene. Il protagonista viene infatti da San Fratello, e ha come lingua madre il già citato sanfratellano: egli impara il dialetto siciliano, l’italiano e anche un po’ di francese, che studia a scuola. Intravediamo quindi una questione della lingua, in cui prende corpo una questione d’identità. Ma anche, e questo certo non è stato sottolineato abbastanza dalla critica, in La ferita dell’aprile è evidente ancora una volta il richiamo alla letteratura modernista: non solo nel vistoso richiamo ancora ad Eliot, al suo April is the cruellest month (celeberrimo attacco di The burial of the dead, sezione I di The Waste Land), attraverso la mediazione di Basilio Reale, ma anche e soprattutto a Joyce, il cui A portrait of the artist as a young men presenta non poche analogie tematiche e narrative, a cominciare proprio dal tema principale, l’educazione di un giovane in una scuola di preti. D’altra parte, già in questo primo Consolo c’è molto dialetto, e, per farla breve, non è per lui possibile rinunciare a nessuna delle due componenti, ovvero il Meridione e la grande letteratura modernista europea, o limitarne il peso. Resta inoltre tutta da studiare un’altra interessante questione, ovvero il ruolo di Pavese nella formazione di Consolo. Pavese, significativamente citato nell’ epigrafe del capitolo finale, poi espunto, di La ferita dell’aprile 10 , fa da mediatore, come traduttore e non solo, per molti scrittori italiani verso la letteratura di lingua inglese e americana. Sicuramente, ad esempio, ha un peso importante nell’avvicinare Consolo e tanti altri scrittori italiani a William Faulkner. Sono ancora tutti da approfondire i rapporti tra Faulkner e la letteratura italiana (ma anche di altre nazioni, a cominciare da quella Sudamericana: si pensi per esempio a quanto di Faulkner arriva a Garcia Marquez). Tutto ciò conferma l’eccezionalità della congiunzione, in Consolo, tra la dimensione meridionale costante, ossessiva, e una non meno costante, rigorosa prospettiva di sperimentalismo modernista, non avanguardistico. Fatte queste premesse, nel mio discorso seguirò quattro piccole tappe: la Sicilia; la poetica di Consolo – perché nella sua poetica risiedono le radici e le ragioni della sua grandezza -; alcuni aspetti formali della sua scrittura, delle strutture dei suoi testi e della lingua; infine spiegherò a grandi linee com’è articolata l’edizione delle sue opere da me curata per i Meridiani Mondadori. L’ossessione della Sicilia Consolo ha sempre in mente la Sicilia, ne parla sempre. Ma che Sicilia è? Ancora una volta la contraddizione è vitale: da un lato è una Sicilia costruita con un’attenzione documentaria, storica, e una cura di una severità rara: possiamo dire, da questo punto di vista, che Consolo è un vero storiografo. Frequentando per tanto tempo le sue carte ho potuto vedere bene in che modo arrivava ad ogni sua scrittura letteraria, raccogliendo documenti e materiali vari per anni. Per esempio nel Sorriso dell’ignoto marinaio (la cui costruzione ha richiesto tredici anni
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9 V. CONSOLO, La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963 (1a ed.); Torino, Einaudi, 1977 (2a ed.); Milano, Mondadori 1989 (3a ed., con introduzione di G.C. Ferretti).; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 3- 122. 10 Cfr. G. TURCHETTA, Da un luogo bellissimo e tremendo, introduzione a V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. XXXVIII, e Id., Note e notizie sui testi, ivi, p. 1293. 6 di lavoro)
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si parla della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, del maggio 1860, repressa poi nel sangue, ma a sua volta assai cruenta. Consolo l’ha ricostruita non solo studiando i libri di storia, ma andando in archivio, ritrovando tutte le carte di quella vicenda: tant’è vero che, per fare un esempio concreto, si è procurato tutti i certificati di morte di coloro che furono fucilati alla fine della prima parte del processo contro i rivoltosi. Alla fine del Sorriso dell’ignoto marinaio troviamo infatti proprio un certificato di morte, quello del bracciante Peppe Sirna: è anzitutto un documento autentico, ma certo ha anche la funzione simbolica di farci percepire il contrasto terribile fra la nuda povertà di un certificato di morte, che è quasi un nulla, e la vigorosa intensità della vita in corso, che abbiamo percepito quando, nel cap. V, la rappresentazione passa proprio attraverso la focalizzazione interna su Peppe Sirna. Consolo lavora così sempre: da un lato lavora come un vero storico, che mette insieme i documenti con un’attenzione ligia al rigore della ricostruzione; dall’altro, la Sicilia che egli rappresenta è sempre “altro”, nel senso che è una metafora dotata di una profonda forza di generalizzazione. Secondo me, si potrebbe dire della Sicilia di Consolo qualcosa di simile a ciò che è stato detto da Italo Calvino a proposito della Lucania rappresentata in Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, un libro peraltro fondamentale per la formazione di Consolo. Nel romanzo di Levi si parla della miseria, dell’oppressione dei più deboli e della rabbia contadina che a volte esplode in rivolte selvagge e sanguinose. Calvino sostiene che la Lucania di Carlo Levi è servita da modello per tanti altri Sud del mondo: non a caso questo romanzo è stato tradotto e letto in America Latina, in Asia, ed è diventato un libro di riferimento per altre lotte, per altre rivoluzioni 11 . Ma anche la Sicilia di Consolo è una grande rappresentazione del Sud del mondo, di ciò che succede attraverso i processi di modernizzazione che distruggono il mondo contadino e che vediamo all’opera in Italia ma anche in tante altre nazioni, soprattutto extra-europee. C’è un avvenimento che si ricorda poco e che apparentemente ha poco o nulla a che fare con la letteratura: nel 2008, per la prima volta, gli abitanti del mondo che vivono in città sono diventati più numerosi di quelli che vivono nelle campagne. Si tratta di un cambiamento enorme, epocale: in tutta la storia dell’uomo gli abitanti delle campagne sono sempre stati di più rispetto a quelli delle città, mentre ora assistiamo al fenomeno inverso. Consolo ci parla proprio di come i processi di modernizzazione stiano distruggendo molte civiltà e mettano a rischio la sopravvivenza del pianeta stesso, ma in lui non vi è, come spesso accade negli intellettuali, il pianto, la nostalgia, la lamentela su un mondo che era più bello, anche se egli costantemente critica senza nessuna indulgenza questa modernizzazione. Ricordiamo che l’idea di Consolo di scrivere mescolando tante lingue è anche l’idea di conservare, attraverso le parole, le culture, i punti di vista sul mondo, i modi di vita che sono dentro quelle parole. Nella scrittura di Consolo vi è una grande preoccupazione, oltre che storica, anche antropologica: egli desidera mostrare come cambia la cultura e, cogliendo i processi di cambiamento della Sicilia, coglie emblematicamente anche i cambiamenti del mondo tutto. Come molti altri intellettuali siciliani, Vincenzo Consolo ha rappresentato la Sicilia andando a vivere al Nord, e in particolare a Milano, come Verga, Vittorini, Quasimodo e tanti altri. Rappresentare la Sicilia da lontano ha significato anche vivere l’ossessione della Sicilia nei termini, consapevolmente contraddittori (un’altra contraddizione produttiva) di necessità
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11 I. CALVINO, La compresenza dei tempi (1967), in C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1945, poi 2010, p. XI. 7
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del ritorno, ma anche di impossibilità del ritorno. Significativamente, egli ha reinventato il mito di Ulisse alla sua maniera, parlandoci di un Ulisse che non ha più un’Itaca dove tornare, della quête ormai impossibile di una patria essenziale che non esiste più: questa impossibilità ha come causa evidente proprio i processi di modernizzazione. A questo allude, per esempio, una delle più celebri poesie di Giuseppe Ungaretti, Girovago: «in nessuna parte di terra / mi posso accasare». Consolo è ossessionato da questa sua patria che non è più quella di prima, che non è più patria: ma, una volta di più, parlando della Sicilia ci parla di noi tutti, di come ci spostiamo e di come non riusciamo più a ricostruire la nostra identità: perché ormai la nostra identità è un processo che si costruisce giorno per giorno, e non è più possibile affidarsi a un’appartenenza originaria. Parlando della Sicilia Consolo ci racconta una storia drammatica, anche perché molte volte i cambiamenti sono parsi offrire delle possibilità di rinnovamento, di liberazione, che poi però sono andati perdute, che hanno deluso. Nelle sue opere egli ha messo a fuoco tre momenti fondamentali di questa parabola storica in tre romanzi storici, che a posteriori ha collocato in una trilogia. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) parla del Risorgimento italiano, di quello che ha rappresentato, come grande speranza ma anche grande delusione, straordinaria occasione perduta. Il Risorgimento infatti ha rappresentato l’illusione di un grande cambiamento non solo politico, ma anche sociale ed economico: il potere, infatti, non si sposterà di molto rispetto al periodo precedente. In Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega 12) Consolo parla dei primi anni Venti e della nascita del fascismo, in un periodo caratterizzato dall’irrazionalità e dalla violenza, che hanno segnato non solo la storia italiana ma anche gran parte della storia europea. E nel romanzo Lo spasimo di Palermo (199813) ci racconta un terribile presente, quello dei primi anni Novanta del Novecento, delle stragi di mafia del 1992, ovvero il presente dalla mafia (non soltanto siciliana), della corruzione, della complicità fra potere politico e potere criminale, della necessità di denunciarlo e anche della difficoltà di uscire da una situazione sempre più drammatica. Al di qua e al di là della Storia, per Consolo la Sicilia è però anche una densa metafora dell’ambivalenza della vita. La Sicilia è infatti, lo sappiamo, una terra bellissima, dove, per farla breve, c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per essere felici: straordinari monumenti, della Magna Grecia e della romanità, del Medioevo, del Barocco; una natura rigogliosa; e inoltre la Sicilia è pure un posto, perdonate la banalità, ma… perché non dirlo?, dove si mangia benissimo. In Sicilia c’è tutto, e quindi da un lato potrebbe essere il migliore dei mondi possibili; ma per altri versi è un mondo esemplarmente e tragicamente violento e corrotto, pieno di orrori, addirittura proverbiale, nel mondo intero, per la mafia, quella criminalità organizzata così importante che tutte le criminalità organizzate del mondo vengono chiamate «mafie», in analogia con quella siciliana. Pensiamo ora al romanzo Retablo 14 , in cui vi sono dei meravigliosi incontri tra amici, e nuove amicizie che nascono, e al tempo stesso assistiamo alla rappresentazione di un orrore senza fine: leggiamo per esempio la scena delle prostitute a
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12 V. CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 647-755. 13 V. CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1992; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 873-975. 14 V. CONSOLO, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 365-475. 8
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cui per punizione viene tagliato il naso 15. Una violenza atroce, quella delle mutilazioni come pena legale, che si praticava nel mondo passato, certo: ma anche che continua ad accadere ancora oggi in non poche parti del mondo… La Sicilia appare dunque in Consolo come un luogo in cui vi è tutto il male e tutto il bene, ed è di conseguenza anche per questo un’immagine della vita tutta, un luogo «bellissimo e tremendo», per riprendere un’espressione di Consolo stesso 16 . La Sicilia è metafora della vita, della sua bellezza straordinaria e della sua terribile violenza, che convivono; ma è importante aggiungere che Consolo non cade mai in un vizio tipico dei letterati – non solo italiani, ma di quelli italiani di sicuro: quello di mettere tutto in «un tempo senza tempo», di parlare della violenza e della tristezza come di qualcosa di eterno, di un destino senza fine. In questo Consolo è davvero radicalmente diverso dal Tomasi di Lampedusa del Gattopardo, che consapevolmente contestava: egli non dice mai che la storia non cambia, che «cambia tutto» perché «non cambi niente». Tutt’al contrario, Consolo ci ricorda in continuazione che i cambiamenti sono sempre storicamente determinati, che non c’è un male metafisico eterno. E che quindi noi dobbiamo continuare a combattere. Sempre. La poetica di Consolo Partendo da lontano potremmo farci una domanda molto difficile a cui darò, di necessità in modo rapido, varie risposte: «Che cos’è la letteratura?» O meglio: «Che cos’è questo discorso così particolare, che continuiamo a sentire come un discorso così fragile e allo stesso tempo così necessario?» Il grande sociologo francese Pierre Bordieu ha scritto un libro straordinario, Les règles de l’art (1992), per mostrare che cosa ha significato nella cultura dell’Occidente definire una specificità del «campo» della letteratura. Quello che noi sentiamo come «letteratura», infatti, lungi dall’essere una tipologia testuale ben delimitata da millenni, come di solito crediamo, nasce e si definisce nel secondo Ottocento, da un movimento che mette radici già nel Romanticismo. Qualcuno ha tentato di definire la letteratura secondo i suoi tratti linguistici: è stato il sogno degli Strutturalisti e, ancora prima, dei Formalisti russi, che hanno aspirato ad un’identificazione e a una definizione scientifica della specificità della letteratura; ma non ce l’hanno fatta, perché la letteratura può essere scritta in tutti i modi possibili, come mostra ad abundantiam il romanzo. C’è poi una definizione che potremmo chiamare di tipo retorico, quella di un grande teorico italiano, purtroppo scomparso abbastanza giovane, Franco Brioschi (1945-2005): egli mette a fuoco la letteratura come un linguaggio, o meglio delle pratiche discorsive legate ad una situazione comunicativa particolare, spiegando che «la letteratura è ciò che chiamiamo letteratura». A prima vista si tratta di una tautologia, ma in realtà non lo è, perché rinvia ad una specificità comunicativa, al fatto che i discorsi che noi identifichiamo con l’etichetta generica “letteratura” sono una varietà dei discorsi di “riuso” (un termine che Brioschi riprende dal grande filologo tedesco Heinrich Lausberg), che assume la sua qualità specifica, la sua letterarietà, in virtù di un contesto comunicativo, e storico, che gliela attribuisce. Il grande sociologo della letteratura francese Robert Escarpit, invece, pensava – in modo molto vicino alla definizione di Brioschi –che ciò che noi intendiamo come letteratura è
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15 Ivi, p. 400. 16 V. CONSOLO, Viaggio in Sicilia, in Id., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; in Id., L’opera completa, cit., p. 1224. 9
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l’immagine sociale che una certa epoca si fa della letteratura: un’immagine che ci viene consegnata dai testi che definiscono il canone condiviso. Nel suo sempre illuminante Qu’est-ce que la littérature? (1947) Jean-Paul Sartre afferma che «écrire est dévoiler le monde, et en même temps le proposer comme un devoir à la générosité du lecteur». È un’immagine profondamente etica della letteratura, secondo la quale la letteratura non solo svela sempre qualcosa al lettore, ma anche gli impone, nel disvelamento, la necessità di tentare di cambiare quel mondo. E per Consolo, che cosa significa «letteratura»? Cerchiamo di capire dov’egli si collochi, perché in questa collocazione sta molto della sua grandezza. Per lui, da un lato la letteratura esiste solo come letteratura stricto sensu, nel senso che è importante distinguere tra le scritture giornalistiche e la scrittura d’invenzione, appunto la “letteratura”, ovvero fra gli articoli ch’egli stesso scrive quasi tutti i giorni e i libri costruiti attraverso una fatica di molti anni. Per Consolo la “letteratura” è il linguaggio spinto sino alle sue estreme possibilità. Si ha “letteratura” quando, cioè solo quando vi è una pressione sul linguaggio, una tensione, un’aspirazione violenta, che è al tempo stesso formale e morale. Consolo cerca sempre di dare al linguaggio il massimo di densità formale, attraverso quella che io chiamo la pluralizzazione del linguaggio, cioè la moltiplicazione, esibita, dei suoi vari strati, ai quali si sforza di attribuire sistematicamente una speciale densità linguistico-retorica una speciale intensità. Da un altro lato però questo linguaggio preme verso una verità, una capacità di dire il reale che, unita alla densità formale, vorrebbe far sì che le parole fossero dense, al limite, come le cose. Quindi da un lato Consolo vuole che le parole siano come cose, magari addirittura, per citare ancora una volta Carlo Levi, che le parole siano come pietre. En passant, Le parole sono pietre 17 è il libro di Carlo Levi sulla Sicilia: tre narrazioni di storie vere siciliane, che Consolo cita spesso e a cui fa spesso riferimento esplicito, o implicito, come nel titolo Le pietre di Pantalica. Da un lato quindi le parole vogliono essere come cose e, per renderle più dense, Consolo le “moltiplica”, le pluralizza in tanti modi; ma le parole non sono cose, non sono pietre: e quindi Consolo ci dice allo stesso tempo che la “letteratura”, perdonate la citazione molto mainstream, è per definizione una «mission impossible». È infatti necessario caricare le parole sino a farle diventare più che parole, azioni e cose: ma bisogna farlo sapendo che non è possibile… Proprio qui, a ben vedere, sta la grandezza di Consolo: cioè sia in questo sforzo di caricare all’estremo le parole, ma anche nella costante, coesistente consapevolezza dei limiti invalicabili della parola. Sono pochi gli scrittori che come Consolo hanno spinto verso la grande letteratura, che comunque resiste come ideale di riferimento, ma continuando al tempo stesso a rivelarci la miseria della letteratura stessa, anche della più alta. In Consolo è costante la coscienza e la problematizzazione dei limiti della parola. Proprio perché la parola ha dei limiti irriducibili, che vanno sottolineati, si genera nelle sue opere un discorso che è anche costantemente meta-linguistico, in cui le parole non sono solo quello che sono, ma diventano anche discorso su se stesse. In Consolo, percepibilmente, c’è inoltre anche una costante tensione meta-letteraria: la sua è una letteratura che si domanda sempre «che cos’è la letteratura?»; e la sua narrativa è meta-narrativa, e mette costantemente in discussione la narrazione e le sue strutture ingannevolmente continue. Il sorriso dell’ignoto 17 C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Torino, Einaudi, 1955; poi ivi, 1979, con prefazione di V. Consolo, e anche, col titolo Carlo Levi, in Di qua dal faro, cit., pp. 1227-1233. 10 marinaio, per esempio, è un romanzo ma anche un anti-romanzo, così come è un romanzo storico e un anti romanzo-storico: è quindi, se vogliamo, sia ciò che vuole essere sia ciò che sa di non poter essere. Mentre sta scrivendo un romanzo-storico, inoltre Consolo sa bene che il romanzo-storico è già di per sé una contestazione della Storia, come ben sapeva Alessandro Manzoni, nume tutelare indiscutibile dell’idea consoliana del romano storico-metaforico; ma intanto egli contesta il romanzo-storico che sta facendo insieme alla storiografia ch’esso mette in discussione: come dire che in ogni momento egli fa un certo tipo di discorso, ma intanto gli toglie subito il terreno da sotto i piedi, lo svuota, lo demistifica. Se la parola è sempre problematizzata, proprio mentre egli la spinge verso le sue massime capacità espressive, ciò accade anche perché Consolo ci dà la percezione profonda e costante del fatto che ogni discorso è detto da qualcuno, che la parola è radicata in un soggetto e che quindi non esistono discorsi che si fanno ‘da soli’, perché la lingua è sempre «in situazione», come ci ha insegnato Michail Bachtin, e dopo di lui la pragmatica e la linguistica degli Speech Acts. Non esiste una lingua astratta, perché le parole derivano da persone che le hanno dette o scritte, e questo significa che le parole sono dotate di una capacità di verità legata, e non è una contraddizione, proprio al fatto che derivano da qualcuno che le utilizza in relazione ad una specifica esperienza di vita. In altri termini, in ogni parola c’è un vissuto che si afferma: e quindi per Consolo anche il più cattivo, il più stupido e il più infame degli uomini ci dirà delle verità perché ci parlerà di qualcosa che ha davvero vissuto; e la sua verità farà tutt’uno con i limiti invalicabili della sua parzialità, della sua non-verità. Nel terzo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, per esempio, c’è la rappresentazione dall’interno di un personaggio terribile, Frate Nunzio: un reazionario, un violento, un maniaco sessuale, che appartiene alla Chiesa ma al tempo stesso ne fa di tutti i colori, arrivando addirittura ad uccidere una ragazza e a stuprarla dopo morta… Nelle narrazioni, in genere, come ha spiegato Wayne Booth, raramente si rappresenta il punto di vista dei personaggi spregevoli, perché quando si presenta il punto di vista di qualcuno ci si avvicina alle sue ragioni, alle sue motivazioni. Ma Consolo ci mostra anche il più cattivo, il più infame, ci mostra che è possibile metterlo in scena, perché così svela e offre alla nostra comprensione una realtà esistenziale. L’ossessione di radicare il discorso dentro qualcuno che parla è anche un modo di mettere in scena la concreta verità nell’esistenza. Da un altro lato però, proprio perché le parole sono sempre di qualcuno, Consolo ci mostra che le parole sono sempre una mistificazione; qui sta l’altro lato della mission impossibile consoliana: «devo dire la verità, ma se la verità è sempre di qualcuno, non potrà mai essere una verità assoluta, e quindi devo anche criticarla, demistificarla». La complessità del discorso che Consolo fa sulla parola è grandissima, come possiamo vedere bene nel capitolo VI del Sorriso dell’ignoto marinaio, in cui troviamo la voce del protagonista principale, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, figura storica realmente esistita, che si dedicava ad attività intellettuali nobili, disinteressate, e forse anche inutili, o comunque di utilità assai limitata: egli era infatti un grande studioso di lumache, un malacologo, e la lumaca diventa simbolo portante del libro, come figura di inutile complicazione, di mescolanza di geometria e caos, come equivalente del labirinto. Mandralisca si trova a confrontarsi con la violenza della Storia ed è chiamato in qualche modo ad impegnarsi, ma non riesce a farlo sino in fondo o, quanto meno, coglie i limiti della propria azione. Consolo rappresenta il barone mentre mette in discussione il proprio discorso, che si presenta anche e proprio come 11 discorso di un intellettuale, che non riesce ad incidere sulla realtà storica. Consolo fa così quindi chiaramente una mise en abyme, mettendo in discussione anche il proprio discorso di intellettuale e di scrittore. Al tempo stesso egli imita lo stile di un erudito dell’Ottocento, uno stile un po’ retorico, pomposo, complicato, con una sintassi e un lessico complessi e un po’ involuti. Il passo a cui faccio riferimento è una lettera (un testo di fiction che ha l’apparenza di un genere di non fiction) in cui il barone Mandralisca, di Cefalù, che è anche colui che nella realtà storica ha acquistato il Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, conosciuto anche come Il ritratto dell’ignoto marinaio, scrive a Giovanni Interdonato, a sua volta personaggio storico reale e militante molto attivo nella vicenda Risorgimentale. Mandralisca scrive dopo la rivolta di Alcàra Li Fusi, dove la rabbia dei contadini era esplosa al punto da portarli a massacrare tutti i “notabili” che si erano trovati sulla loro strada: i padroni, le autorità locali, i benestanti, i preti, ma anche i bambini… Siamo di fronte quindi a una violenza terribile, da un lato giustificata da secoli di oppressione, ma dall’altro assurda e cieca, come succede spesso in queste rivolte (come accadeva nelle jacquéries, ovvero nella contro-rivolta contadina e realista degli anni della Rivoluzione francese). Ecco le parole di Consolo, che imita uno stile in cui non crede e ci fa vedere, anche nello stile, la necessità di demistificare: Nelle more del giudizio che dovrà emettere codesta Corte nei riguardi degli imputati, villani e pastori , scansati alla fucilazione cui soggiacquero tredici d’essi in Patti, dietro sentenza di quella Commissione Speciale, il dì 18 dell’agosto scorso, quali in catene e quali latitanti, questa memoria non suoni invito istigativo a far pendere i piatti della bilancia della Giustizia sacra da una parte o dall’altra, ma sia intesa quale mezzo conoscitivo indipendente, obiettivo e franco, di fatti commessi da taluni che hanno la disgrazia di non possedere (oltre a tutto il resto) il mezzo del narrare, a voce o con la penna, com’io che scrivo, o Voi, Interdonato, o gli accusatori o contro parte o giudici d’essi imputati abbiamo il privilegio. E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. A codesta riflessione sono giunto dopo d’aver assistito a’ noti fatti. Or io invoco l’Esser Supremo, l’Intelletto o la Ragione o Chiunque Altro ci sovrasti, a che la mente non vacilli o s’offuschi e mi regga la memoria nel narrare que’ fatti per come sono andati. E narrar li vorrei siccome narrati li averìa un di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti, non dico don Ignazio Cozzo, che già apparteneva alla classe de’ civili e quindi sapiente nel dire e nel vergare, ma d’uno zappatore analfabeta come Peppe Sirna inteso Papa, come il più giovine e meno malizioso, ché troppe sono, e saranno, le arringhe, le memorie, le scritte su gazzette e libelli che pendono dalla parte contraria agli imputati: sarà possibile, amico, sarà possibile questo scarto di voce e di persona? No, no! Ché per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizzi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo. Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci son le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta. Poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata, dire le ragioni nella parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare. S’aggiunga ch’oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima… E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia, riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiamo veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno interamente riempiti dalle cose. 12 Che vale, allora, amico, lo scrivere e il parlare? La cosa più sensata che noi si possa fare è quella di gettar via le chine, i calamari, le penne d’oca, sotterrarle, smetter le chiacchiere, finirla d’ingannarci e d’ingannare con le scorze e con le bave di chiocciole e lumache, limaccia, babbalùci, fango che si maschera d’argento, bianca luce, esseri attorcigliati, spiraliformi, viti senza fine, nuvole coriacee, riccioli barocchi, viscidumi e sputi, strie untuose… » 18 . Ci sono coloro che hanno il diritto di prendere la parola e coloro che non riescono a raccontare la propria storia: e la letteratura sarà quindi anche un modo di dare voce a chi non può parlare. Ma è importante notare il lato critico dei personaggi consoliani, ossia mettere in discussione il loro discorso proprio nel momento stesso in cui lo pronunciano. Appare anche, sì, il sogno di dire le cose come stanno, ma è un sogno impossibile, perché il barone di Mandralisca parlerà fatalmente come un barone, anche se barone progressista, “di sinistra”. Ricordiamo che Peppe Sirna, detto Papa, è un bracciante agricolo, analfabeta, di cui, come accennato, si rappresenta nel cap. v il punto di vista, contrapposto poi alla sua morte, e di cui Consolo inserisce nell’ultima Appendice il vero certificato di morte. Significativamente, «impostura» è un termine che ricorre spesso in un’opera di Leonardo Sciascia a cui Consolo guarda sovente, e soprattutto per Il sorriso: Il consiglio d’Egitto. Le parole non sono solo parole, dice anche chiaramente Mandralisca, che da questo piunto di vista è un porta-parola dell’autore, ma rinviano ad una situazione culturale, ad un modo di sentire e ad emozioni che sono culturalmente e socialmente determinate. Il barone Mandralisca sogna un giorno in cui «le parole siano intieramente riempite dalle cose»: ma Consolo ci fa intuire che questo è un sogno impossibile». Allo stesso tempo, bisognerebbe scongiurare il rischio di smettere di scrivere, di parlare. In Consolo c’è insomma sempre una tensione verso l’assoluto della parola che confina con l’afasia: qualcosa che, mutatis mutandis, lo avvicina al rischio dell’afasia e della pagina bianca in Mallarmé, o alla tentazione di buttar via la penna, di smettere di scrivere, perché non ce n’è più bisogno o comunque non serve a niente, come ha fatto a Rimbaud, che smise di scrivere poesie, andando a fare il mercante di cannoni. Può parere strano questo accostamento per il “meridionalista” Consolo: eppure egli fa stare insieme, fa convivere l’impegno e la tentazione del silenzio, proprio perché mette in discussione il senso delle parole, di qualsiasi parola. Per lui è quindi necessario essere consapevoli dei limiti della parola e però anche combattere contro questi limiti. E come? Proprio con la strategia di moltiplicazione, di pluralizzazione: cui è dedicata la terza parte del mio discorso. La parola plurale È possibile combattere i limiti della parola o, meglio, provare a combatterli – perché questi limiti comunque resteranno -, ma bisogna spingerli oltre se stessi, in un certo senso «lanciare il cuore oltre l’ostacolo»: lo lanceremo, non ce la faremo, ma è necessario, bisogna farlo, altrimenti non ci sarà letteratura. Consolo si pone il problema dei limiti della parola, facendoci capire che esso è intimamente legato alla questione degli intellettuali. In lui c’è infatti, non a caso, una presenza molto profonda del pensiero di Gramsci, un autore che ha posto costantemente la «questione degli intellettuali», ovvero del loro ruolo storico, specie in rapporto alle peculiarità della storia italiana, e alla necessità di abbandonare la posizione
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18 Cfr. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio (cap. VI), in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 215- 217. 13
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dell’intellettuale tradizionale, orgoglioso di far parte di una casta, per diventare intellettuale organico, partecipe di un progetto politico. Ma torniamo alla strategia consoliana di pluralizzazione, cercando di capire la complessità di Consolo, che opera a tanti livelli, non solo al livello stilistico. Per esempio a livello di genere, poiché i generi nei suoi testi (salvo forse in La ferita dell’aprile) sono sempre rimescolati. Lunaria, ad esempio, è un libro che parla nuovamente della Sicilia, in particolare di Palermo, di una Palermo settecentesca un po’ storica e un po’ inventata, di una Palermo bellissima e corrotta. Quest’ambivalenza, lo sappiamo, vale per tutta la Sicilia: e poi anche per la vita tutta, «bellissima e terribile» allo stesso tempo. Lunaria è la storia fantasiosa di un momento drammatico, in cui cade sulla terra un pezzo della luna. La luna, ammalatasi a causa della corruzione del mondo, perde un pezzo, che cade in una remota contrada, lontana dalla corte di Palermo, dove è ambientata inizialmente la rappresentazione: una contrada dove vivono dei contadini che portano in sé ancora un’autenticità emotiva, sentimentale; quindi non a caso la luna sceglie di cadere proprio lì: è un segnale proprio dell’intima verità dei suoi abitanti, dell’autenticità di questi contadini, in qualche modo riconosciuta da un evento cosmico emblematico. Il viceré, allo stesso tempo uomo di potere e intellettuale problematico, porterà la propria corte proprio lì dov’è caduto il pezzo di luna, che verrà raccolto e riappiccicato al suo posto. La contrada verrà allora chiamata Lunaria. Ma ecco invece un’immagine della bellissima e corrotta Palermo: Ecco il più bel promontorio del mondo, corona di Ruggeri e di Guglielmi, ecco la grotta ove s’adagia l’Odalisca santa, la vergine romita, avida d’omaggi, d’allusioni, di maschili moventi sfigurati, sospiri, ardori, ceri esorbitanti… Declina, si scioglie quella roccia all’Arenella, all’Acquasanta: ed ecco il feudo senza barone, il regno di nessuno, la piana che palpita di scaglie, mobile strada per le Spagne, per le Afriche, per oltre le Colonne, la porta delle Nuove Indie… Da dove vengono, dove vanno tanti uccelli bianchi, tanti fiocchi, tanti vascelli del sogno? Che predano, quali speranze portano? (Esce dal suo nascondiglio e si sposta davanti al terzo balcone.) E qui è il corpo grande, la maschera della giovine disfatta, la rossa, la palmosa, la bugiarda… Ah la processione di cupole smaglianti, giare andaluse, lozas doradas, le facciate di zuccheri, cannelle, mandorlate, la pampillónia dei marmi nelle chiese, e i monasteri d’ombre, bocce ove crescono lieviti malsani, e i conventi turpi, Ostérii di supplizi, cani ch’alimentano roghi disumani, vampate di barbarie… E i superbi palazzi de’ superbi, in gara eterna col Nostro, con Noi, con gli Dèi… E i giardini, le fontane, le peschière, impensabili ville sopra i Colli, alla Bagarìa, pietrificazioni d’orgogli, d’incubi, follie, sonni, echi snaturati di Cube, di Zise, di Favàre… Ah città bambina, ah vanità crudele, ah fermento cieco, serpaio, covo di peste, di vaiolo, esplosione di furie, ribellioni! Ah carnezzeria feroce, stazzo di lupi, tana di sciacalli!… Ignorancia, altaneria, locùra, tumba de verdad, cuna de matanza!» 19 La struttura del testo è teatrale, con le dramatis personae, le scene e le didascalie; ma, al tempo stesso, siamo davanti a una fiaba, che però è anche un testo molto poetico, in gran parte scritto in versi20. Quindi Lunaria è teatrale e non è teatrale, è una fiaba, ma allude anche alla storia, è poesia e allo stesso tempo ha una dimensione saggistica, che la rende affine a un conte philosophique. E qui gli esempi potrebbero continuare. Si pensi a un libro come L’ulivo e l’olivastro: è un saggio o una narrazione? A che genere appartiene? I testi di Consolo sono quindi caratterizzati quasi sempre da un’alta complessità a livello di genere, da un addensamento, una pluralizzazione anche sul piano macro-strutturale. Vi è poi, ma lo sapevamo già,
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19 V. CONSOLO, Lunaria, Torino, Einaudi, 1985; ora in Id., L’opera completa, cit., pp. 276-277. 20 Recentemente Etta Scollo, una cantante siciliana che vive e lavora in Germania, ha musicato i testi in versi di Lunaria, facendone un disco bellissimo: Nella gioia luminosa dell’inganno, Jazzhouse, 2013. La Scollo si occupa di repertorio siciliano classico, come quello di Rosa Balistreri, per esempio. 14 una grande complessità a livello di lingua, tanto che si è parlato di «plurilinguismo» per la lingua di Consolo; ma Cesare Segre obiettava giustamente che «plurilinguismo» – come ci ha spiegato anzitutto Bachtin, che Segre riprende – è anche «polifonia», cioè pluralità di prospettive, e dunque non si tratta soltanto di molte lingue, ma di diverse prospettive sul mondo. Per questo «raccogliere le parole», come fa Consolo, significa cercare di preservare la «biodiversità» del linguaggio, la sua varietà, e dunque quella delle culture che lo impiegano. In Consolo vi è una moltiplicazione anche a livello di tono: di solito si è insistito sul lato tragico di Consolo, che si fa più unilaterale nelle ultime opere, quando il suo linguaggio e la sua prospettiva hanno iniziato a farsi più cupi. Però mi sembra importante sottolineare quanto c’è di ironico e persino di comico in Consolo e quanto la sua rappresentazione mescoli continuamente l’alto e il basso: come per esempio nel personaggio di Vito Parlagreco, un contadino che parla solo dialetto, a dispetto del suo cognome…. Vito fa una riflessione d’intonazione leopardiana, e si chiede: «Ma che siamo noi? Che siamo?» si chiedeva Vito Parlagreco, masticando pane e pecorino con il pepe. «Formicole che s’ammazzan di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo.» 21 Una riflessione altissima, metafisica ed esistenziale, fatta da un personaggio di modestissima condizione e di ancor più modesta caratura intellettuale, mentre mangia pane e pecorino: ma il suo formaggio e la sua condizione di persona ignorante, di bracciante, si mescolano visibilmente con le sue nobili interrogazioni, cambiandone profondamente il tono. Ancora: in Consolo vi è una costante mescolanza di poesia e di prosa. Qui la critica ha lavorato molto ed è stato notato spesso che i testi di Consolo possono essere riscritti mettendo in molti luoghi gli ‘a capo’ e quindi creando dei versi, che sono già presenti nella ritmica, anche ‘per l’occhio’. Spesso, significativamente, si hanno delle sequenze di endecasillabi e settenari, che certo alludono proprio al modello della canzone leopardiana. Ma questi versi, comunque, non sono propriamente versi, tranne in Lunaria o in qualche altro luogo, perché a rigore restano comunque prosa. In questo senso penso che Consolo condivida l’aspirazione a fare una prosa narrativa che sia completamente poesia, aspirazione che era di Vittorini, per certi versi un maestro per Consolo: anche se, absit iniuria verbis, la qualità della scrittura di Consolo è a mio avviso superiore a quella di Vittorini. Ancora: spesso Consolo fa entrare in conflitto, in calcolata contraddizione, diverse voci. Citerò qui soltanto Retablo, in cui si raccontano e s’intrecciano più storie d’amore. Retablo è un termine spagnolo che indica una «pala d’altare»: e il libro è costruito proprio come una pala d’altare, con un capitolo breve all’inizio e uno breve di analoghe dimensioni alla fine, e con in mezzo una parte molto più ampia, proprio a simulare la proporzione fra le parti di un polittico. Nel primo capitolo, il primo “quadro” del retablo, vi è il racconto di Isidoro, disperato, che rimpiange la sua amata Rosalia; alla fine troveremo il racconto speculare di Rosalia, che ci rivela come, anche se si prostituiva, ha sempre amato solo Isidoro. Deve lasciarlo, ma lo ama. Al centro vi è un altro romanzo d’amore, assai più ampio, che ha come protagonista Fabrizio Clerici, che è anche il narratore principale. Abbiamo quindi tre protagonisti e tre narratori, che si alternano e alludono anche a una struttura pittorica: ma Fabrizio Clerici era anche un pittore vero, contemporaneo e amico di Consolo, di cui nell’edizione Sellerio sono 21 V. CONSOLO, Filosofiana, in Le pietre di Pantalica, cit., p. 541. 15 anche riprodotti dei quadri. Bisogna ammettere che un difetto serio del Meridiano è quello di non aver potuto aggiungere le immagini e le copertine di tutti i libri, che erano parte integrante dell’operazione artistica, e che inoltre ribadiscono l’interesse di Consolo per la storia dell’arte e la pittura in particolare, che si fanno spesso parte integrante della sua scrittura. Ma c’è ancora un’ulteriore complicazione, perché in realtà Fabrizio Clerici dà costantemente la parola ad altri personaggi che, a loro volta, raccontano delle lunghe storie e diventano, come direbbe Genette, narrateurs de deuxième dégré, quindi ancora altre voci. Inoltre, se c’è la Rosalia numero uno, ovvero quella dell’ultimo capitolo, l’amata di Fra’ Isidoro – un frate che poi deve allontanarsi dal convento -, c’è anche un’altra Rosalia, Rosalia Granata, che pure, nel capitolo Confessione 22 , racconta una storia in cui si parla di amori controversi con preti e che viene presentata come se fosse fisicamente scritta sul retro, sul verso delle pagine che Fabrizio Clerici sta scrivendo. Quindi c’è una pagina scritta in carattere tondo e una, dietro, scritta in carattere corsivo, come un secondo racconto, perché Fabrizio dice che sta usando una carta che è già stata usata: dove si assiste a uno sfondamento del testo nella realtà, a un’uscita nella materialità della scrittura e della costituzione fisica del testo, che è poi un’altra maniera di cercar di andare oltre i confini della parola, di segnalarceli e, allo tempo stesso, di vincerli. La mescolanza tra scrittura e pittura è un’altra forma di pluralizzazione, di sfondamento, come per esempio il riferimento costante nel Sorriso dell’ignoto marinaio al Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, a cui assomiglia in modo incredibile uno dei personaggi, Giovanni Interdonato, di cui conosciamo l’aspetto fisico, appunto perché scopriremo, assieme a Mandralisca, che è identico al ritratto di Antonello da Messina. Consolo ci sta così spingendo, con una sorta di “violenza” semiotica, al di fuori del testo, che pure resta fatalmente un testo. E potrei citare ancora come ne Lo spasimo di Palermo si parli del cinema, mettendo in gioco un altro codice semiotico. Consolo continua quindi a mescolare i vari codici e a fare questo gioco teatrale in molte sue opere, come in La ferita dell’aprile o in Retablo, in cui si parla di spettacoli teatrali e se ne mostra la messa in scena, ricordando intanto, con una prospettiva barocca, molto spagnola ma non meno siciliana, che la vita è un teatro, e forse addirittura che «la vita è sogno». Il richiamo a Calderón de la Barca e a Cervantes è esplicito: infatti in Retablo viene messo in scena un intermezzo (un entremés) di Cervantes, mentre il resoconto narrativo dice esplcitamente che la vita in qualche modo è recitazione e illusione. L’edizione di Consolo nei Meridiani In questa edizione dei Meridiani ho cercato di dare il più possibile la parola a Vincenzo Consolo e negli apparati ho usato tutto quello che ho potuto trovare di sue dichiarazioni. L’ho anche intervistato e interrogato per circa tre mesi, nell’autunno del 2011: e qui vorrei ricordare con grande affetto e intensità la sua generosità e il suo coraggio, poiché persino negli ultimi mesi di vita continuava a rispondere senza sosta alle mie sollecitazioni, ai miei dubbi. Anche per me è stato difficile, e non nascondo che quel lavoro mi dava una grande angoscia: ma Consolo era anche certo contento che stessimo lavorando insieme all’edizione completa delle sue opere. Sono stati mesi affascinanti e terribili, durante i quali sino a poche settimane prima della morte egli continuava a riflettere sul suo lavoro e a spiegarlo; e anche, voglio sottolinearlo, sino a pochi giorni prima della morte continuava a scherzare. 22 V. CONSOLO, Retablo, cit., pp. 416-422, alle pagine pari. 16 Certo, negli ultimi anni si era incupito; ma Consolo certo non è, come ho già sottolineato prima, solo uno scrittore che sa adoperare esclusivamente il tragico: egli è stato un uomo molto spiritoso e vivace, e anche la sua scrittura, a ben guardaare, ce lo mostra così. Così ho potuto dargli la parola anche attraverso le molte risposte che mi ha dato direttamente, soprattutto domande su singole parole. In seguito ho raccolto le numerose lettere che ha scritto ai traduttori, rispondendo alle loro infinite domande: perché Consolo, certo, è difficile e i traduttori avevano tanti dubbi. Gli scrivevano moltissimo e Consolo rispondeva con lettere che vanno dalle due alle venti pagine circa, in cui rispondeva una per una a tutte le loro domande, di nuovo con cortesia e generosità straordinarie. Nel Meridiano si trova spesso la sigla LT, che significa «lettere ai traduttori», senza però l’indicazione ogni volta del nome del traduttore a cui Consolo aveva risposto, perché sarebbe stata una scelta editorialmente troppo macchinosa. Però ho raccolto tutte queste sue risposte, in modo che la stragrande maggioranza delle questioni poste dal testo al lettore è di fatto chiarita dalle sue stesse parole, in modo da non lasciare dubbi. Ho poi costruito, con la Cronologia, una biografia di Consolo, che prima mancava totalmente: la sua vita forse non ha grandissimi eventi, ma ci sono tantissime cose interessanti. Qui vorrei anzitutto ricordare che Consolo si è laureato in Giurisprudenza. È comprensibile che abbia scelto questo corso di laurea, certo, perché in Meridione, dove non ci sono grandi industrie, moltissimi studiano per ottenere una laurea in Giurisprudenza, così da fare poi l’avvocato o il magistrato o il notaio. Ma per Consolo è stato un po’ diverso, forse un po’ più complicato: perché il padre, il nonno e il bisnonno di Consolo, da tre o quattro generazioni, erano commercianti di alimentari. Essi raccoglievano un eccellente olio di Sicilia, che veniva usato per ‘tagliare’ e integrare la scarsa produzione di un olio ligure di una grande azienda, quella dei Fratelli Costa, che fingevano di vendere olio di Liguria. La Sicilia, quindi, come spesso accadeva, era sfruttata da quelli del Nord, che ne traevano lauti guadagni. La famiglia Consolo raccoglieva dunque l’olio che andava alla grande azienda Costa, che peraltro esiste ancora. Però ad un certo punto i Consolo hanno pensato di creare la loro l’azienda invece di far guadagnare tanti soldi a industriali liguri: e a quel punto hanno deciso che il settimo dei nove figli di Calogero, Vincenzo, avrebbe dovuto seguire studi universitari di chimica. Ma questi voleva studiare Lettere e poiché la famiglia, soprattutto gli zii, avrebbero voluto impedirgliele, perché li consideravano «studi da femmine», alla fine Giurisprudenza viene scelta come una mediazione: Vincenzo avrebbe dovuto diventare l’esperto legale dell’azienda di famiglia. Mi permetterò ora di raccontarvi ancora qualche aneddoto divertente della vita di Consolo e dei suoi familiari. Ecco il primo: a Sant’Agata di Militello, cittadina del Nord nella provincia di Messina, in realtà un po’ più vicina a Palermo che a Messina, davanti alle isole Eolie, i Consolo avevano un negozio di alimentari, dove vendevano olio, granaglie varie e pasta, che allora veniva venduta sfusa. C’era la pasta di prima, di seconda e di terza qualità, quest’ultima comprata dai più poveri. Al negozio dei Consolo si recava sempre il barone Lucio Piccolo, poeta, diventato molto noto per un articolo su di lui scritto da Eugenio Montale, anche se la sua notorietà sarebbe poi stata superata di molto da suo cugino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. I Piccolo erano molto ricchi, avevano una proprietà straordinaria e anche una grande, bellissima villa a Capo d’Orlando, Villa Vina: proprietà che poi gli furono praticamente rubate da amministratori disonesti. Il barone Piccolo andava a far la spesa dai Consolo, o 17 meglio faceva andare il suo autista, Peppino, poiché lui non usciva mai dall’auto imponente con cui si faceva portare in giro, una Lancia Lambda, forse perché noblesse oblige… o forse anche perché c’era la puzza di pesce che lo disturbava – dice Consolo stesso. Peppino comprava cinquanta chili di pasta di seconda qualità, e il nonno di Consolo continuava a domandarsi perché il barone Piccolo, così ricco, acquistasse pasta di seconda qualità; era scandalizzato, perché gli sembravano troppo tirchi. Un giorno chiese a Peppino il perché e questi rispose: «Ma no, quella è per i cani…». Secondo scandalo: allora i baroni Piccolo erano troppo spendaccioni…, e sprecavano pasta comunque buona che sarebbe stata più opportunamente da dare ai cristiani! Un altro aneddoto divertente della biografia di Consolo e della Cronologia riguarda l’acquisto del primo televisore. I Consolo non erano ricchi, però stavano bene in quanto commercianti e quindi acquistarono presto un televisore, e, come accadeva allora, invitavano spesso amici e parenti a guardare i programmi RAI. Una sera la famiglia era riunita intorno alla tavola e tutti mangiavano con la televisione accesa: tranne la zia Rosina, di anni novanta, che non mangia quasi nulla e se ne resta tutta triste ed intimidita in disparte. Alla fine della serata esclama: «Ma che vergogna! Mangiare davanti a tanti estranei… ». Un altro aneddoto. Un giorno Vincenzo e sua moglie Caterina – che voglio ringraziare infinitamente per l’ospitalità e la generosità, perché per tre anni e mezzo mi ha accolto con affetto e disponibilità impareggiabili – hanno finalmente ospite a cena Leonardo Sciascia, che era il migliore amico di Vincenzo. Caterina vuole fare bella figura, e, essendo originaria della zona di Bergamo, in più residente a Milano, decide di preparare una cena alla milanese – risotto con lo zafferano e cotoletta alla milanese -. Sciascia mangia tutto con appetito e gusto e alla fine sentenzia: «Però se non mangio la pasta mi sembra di non aver mangiato…! ». Per tornare agli apparati dell’edizione, e per terminare, nella parte finale del Meridiano c’è anche un Glossario, ovvero una raccolta lemmatica delle parole ricorrenti che possono creare delle incomprensioni; anche in questo caso una buona parte delle parole mi è stata illustrata e chiarita dallo stesso Consolo. Le Note e notizie sui testi, che sono frutto di un lavoro davvero molto lungo e approfondito, forniscono una ricostruzione ampia e sistematica della storia di tutti i testi del Meridiano. Voglio segnalare, fra le altre, la ricostruzione della storia redazionale ed editoriale di La ferita dell’aprile, il libro d’esordio, attraverso cui Consolo assume piena consapevolezza di essere davvero uno scrittore e combatte contro chi vuole fargli cambiare troppo, snaturando il suo stile, così laboriosamente costruito: è una battaglia importante e decisiva, di cui ora ho ricostruito tutto il percorso, attraverso le varianti e attraverso le lettere. Un’altra sezione delle Note e notizie sui testi che ci offre dati finora non conosciuti è quella in cui mostro la genesi di Le pietre di Pantalica, un libro nato come reportage storico-giornalistico sul processo ai frati estorsori di Mazzarino, per una collana sui processi celebri diretta da Giulio Bollati e Corrado Stajano, e poi diventato in corso d’opera un progetto di romanzo-storico sulla cittadina di Mazzarino: ma anche questo progetto è stato nuovamente riorganizzato, anche se è stato in parte compiuto, e ancora se ne percepiscono le linee portanti nella struttura del libro così come lo leggiamo ora, specie nelle prime due parti. L’edizione Mondadori è poi corredata da una vastissima Bibliografia. In conclusione, vorrei comunque sempre ricordare, financo con insistenza, come in Consolo troviamo una continua tensione verso la vita, per il gusto del vivere: forse non è così banale ricordare quante volte egli parli di cibi, di dolci; per me, curatore, è stato fra l’altro un grande e non sempre facile lavoro trovare tutte le spiegazioni dei diversi dolci, dei vari formaggi, dei materiali per preparare e cucinare. Sono convinto che tutto ciò ha a che fare con una percezione sensuale, piena di godimento della vita. Consolo è uno scrittore problematico, drammatico, ma dobbiamo anche sentire in lui tutta questa vitalità, questa voglia di farci sentire appunto che questo luogo che è il mondo è tremendo, ma è anche bellissimo. Vorrei finalmente davvero chiudere, leggendo l’inizio di Retablo, in cui il fraticello Isidoro parla della sua Rosalia. Due brevi commenti linguistico-letterari prima di leggere il testo. Consolo costruisce un attacco di romanzo in cui c’è un nome di donna a partire dal quale produce vari giochi linguistici: si tratta di una reinvenzione, non certo solo una riscrittura, dell’attacco di Lolita in Nabokov, dove c’è tutta una serie di giochi linguistici sul nome di Lolita. Qui Consolo gioca su Rosalia, che è Rosa, il fiore, e Lia, che cioè “lega” (dal verbo “liare” che significa “legare”); ma va aggiunto che Rosalia è la Santa Patrona di Palermo e di Rosalia si parla ricordando non solo lei come santa, ma anche la cripta, la grotta di Santa Rosalia, a Palermo, dove c’è una teca di cristallo con una sua statua molto venerata. Di questa grotta parla a lungo Goethe nel suo Viaggio in Italia, cui Consolo fa chiaramente riferimento: il che ci ricorda anche che Retablo è anche un libro di viaggio, che riprende la grande tradizione della letteratura di viaggio Sette-Ottocentesca: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi! con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei? T’ho cercata per vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai Colli a la Marina, per piazze per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare. Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo pieno, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo… Rosalia, diavola, magàra, cassariota, dove t’ha portata, dove, a chi t’ha venduta quella ceraola, quella vecchia bagascia di tua madre?
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23 23 V. CONSOLO, Oratorio, (incipit) di Retablo, cit., pp. 369-370. 19
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Riflessioni e domande del pubblico : Laura Toppan : Nello Spasimo di Palermo il personaggio di Gioacchino afferma : « invidiava i poeti, e maggiormente il veneto, rinchiuso nella solitudine di una Pieve saccheggiata, tu possa del Montello questo mondo, le tue egloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vibrava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante, la tua seconda scoscesa, questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sponda del suo Mediterraneo devastato”. « Il veneto » è Andrea Zanzotto, rinchiuso nella sua Pieve di Soligo, attento ai cambiamenti epocali e alla trasformazione del paesaggio, come Consolo che, da Milano, è attento alle trasformazioni della ‘sua’ Sicilia. È interessante notare che Consolo si definiva un « archeologo della vita » e Zanzotto « un botanico di grammatiche ». In queste espressioni possiamo ritrovare uno stesso modo di concepire il lavoro letterario. E lo sperimentalismo linguistico e di generi che Consolo attua in prosa, Zanzotto lo raggiunge in poesia. L’affinità tra i due grandi autori la si riscontra anche nella loro apertura europea e sarebbe interessante forse andare più a fondo di questa consonanza. Giorgia Bongiorno : D : Un altro « meridonialista europeo » è Gesualdo Bufalino. Che tipo di rapporto o di contrasto c’era tra Consolo e Bufalino? R : Non si amavano molto, non c’era molta simpatia. Consolo sentiva Bufalino come uno scrittore un po’ troppo professore. C’è un apprezzamento abbastanza tiepido, anche se c’è una foto che gira molto con loro due e Sciascia che ridono: +una foto scattata in occasione della collaborazione per il volumetto Trittico. Complessivamente era un autore che Consolo non riusciva ad amare; ma non penso che vi fosse competizione. Anche Bufalino è certo testimone della forza della tradizione siciliana: qualcuno ha detto che è la regione d’Italia che ha prodotto la miglior letteratura del Novecento; altri hanno invece detto « sì, ma la Sicilia non è Italia; la Sicilia è la Sicilia». Secondo me è vero e allo stesso tempo non è vero: pensiamo per esempio al titolo di una raccolta di racconti di Consolo, La mia isola è Las Vegas, dove il racconto eponimo racconta di un siciliano mafioso che dopo la seconda Guerra Mondiale spera che gli americani si prendano la Sicilia e ne facciano la 51esima stella degli Stati Uniti, così si potrebbe farne finalmente una specie di immensa bisca, come Las Vegas. Consolo era consapevole dell’importanza di molti scrittori siciliani e quindi anche di Bufalino, ma lo avvertiva come troppo «letterato», nel senso che in lui non avvertiva così tanta pressione verso la vita. Secondo me è importante insistere su questo punto per capire sino in fondo Consolo. Egli ha avuto infatti una vita intellettuale ricchissima, anche dal punto di vista dei contatti e delle amicizie, come per esempio José Saramago o Milan Kundera. Sébastien Ortoleva (studente) : D : Dal punto di vista dei rapporti con altri autori, com’era il rapporto che Consolo aveva con Sciascia ? R : Consolo ha sempre avuto un’ammirazione grandissima per Sciascia, sia come intellettuale che come persona, però ha sempre pensato che il modello di letteratura di Sciascia non fosse quello ‘giusto’, perché troppo comunicativo, più vicino alla saggistica, più denotativo, e che invece fosse necessario fare ‘altra’ letteratura. Dal punto di vista della pratica letteraria quindi 20 Consolo ha sempre contestato il suo grande amico, in modo esplicito, ma sempre ‘amoroso’, perché l’affetto per lui è sempre rimasto grande. L’ha difeso infatti anche nei momenti più difficili, per esempio all’indomani dell’uscita dell’articolo I professionisti dell’anti-mafia (gennaio 1987 sul « Corriere della Sera ») – un articolo molto problematico di cui si discute ancora oggi – in cui Sciascia parla male dei magistrati anti-mafia, del pool di Borsellino e di Falcone, e soprattutto di quest’ultimo. Sciascia parlava, in modo un po’ sprezzante, di coloro che hanno fatto carriera occupandosi di mafia… Sciascia fu difeso da Consolo, ma altri non furono d’accordo e in effetti bisogna dire che l’articolo fece fare dei passi indietro al lavoro del pool. Questo dimostra che Consolo difendeva Sciascia anche nei momenti in cui sarebbe stato meglio non difenderlo, però lo contestava anche, ovvero contestava quel modello di letteratura troppo comunicativa, rappresentata appunto da Sciascia e anche da Calvino. Per Consolo infatti questo tipo di letteratura non riusciva a «caricare» abbastanza il linguaggio come lui voleva fare, tanto che Il sorriso dell’ignoto marinaio, il suo secondo romanzo, il suo massimo libro, forse il suo capolavoro, di eccezionale complessità, comincia proprio con una polemica con Sciascia. Si ricorda il quadro di Antonello da Messina e un episodio che Consolo reinventa ma che in qualche modo è storicamente vero, ossia quello di una ragazza che ha sfregiato con un punteruolo un po’ di questo sorriso (e questo danno è ancora visibile). Forse l’ha fatto, come racconta Consolo, perché era innamorata di colui che assomigliava proprio al ritratto dell’ignoto, cioè Giovanni Interdonato, e forse perché il suo amato si faceva vedere troppo poco, dato che era sempre a combattere per il Risorgimento e l’unificazione d’Italia. Ma lo stesso Consolo ha affermato che quell’attacco al quadro di Antonello – quadro di cui parla anche Sciascia in un famoso saggio, L’ordine delle somiglianze, e che viene citato all’inizio del Sorriso – e in quel sorriso sembra poter riconoscere qualcuno che conosciamo, anche se si tratta di una persona che non sappiamo chi sia… Consolo cita Sciascia, ma poi, quando vuole citare il ritratto sfregiato di cui parla Sciascia, fa un’ironia sul Sorriso che è nel ritratto dell’Ignoto, polemizzando proprio con Sciascia. Ancora una volta Consolo ha scelto, programmaticamente, una via lontana da quella di Sciascia, e l’ha fatto anche quando lo cita, poiché nel Sorriso ci sono molti rinvii a Il Consiglio d’Egitto e a Morte dell’inquisitore. Consolo non voleva una letteratura tutta razionale, e l’idea di sfregiare il quadro per amore corrispondeva alla vitalità, alla passione che Consolo in Sciascia non trovava poi tanto. Il progetto di stile di Consolo è, se non opposto, molto lontano quindi da quello di Sciascia. Nell’Archivio ho ritrovato tutte la corrispondenza relativa all’edizione del primo romanzo: essa mostra un processo molto importante di questo giovane scrittore che sta acquisendo la consapevolezza di essere uno scrittore e combatte per difendere la propria opera. Consolo si rivolge anzitutto a Basilio Reale, un importante intellettuale – a sua volta poeta e soprattutto psicanalista – cha è stato colui che ha portato il manoscritto alla Mondadori, e attraverso questo carteggio e anche altre lettere – per esempio gli interventi dei lettori editoriali – si può ricostruire tutto l’iter della pubblicazione. Ma c’è ancora molto da fare, perché per il momento mi sono limitato a fare solo una sintesi per spiegare lo stato di questi dattiloscritti: possediamo non soltanto il dattiloscritto della prima versione, che possiamo confrontare con quella finale, ma anche due dattiloscritti uguali: in uno ci sono le note dell’amico Basilio Reale che suggeriva cambiamenti, nell’altro ci sono sia gli interventi suggeriti da Raffaele Crovi, editor alla Mondadori, sia le controcorrezioni di Consolo. Questi a volte cambiava in base alle richieste dell’editore, a volte effettuava delle scelte ancor più radicali. C’è quindi il dattiloscritto, ci sono le varianti interlineari, quelle a margine e quella sul verso dei fogli dattiloscritti, dove Consolo riscrive il pezzo a penna. Attraverso questi documenti preziosi si può vedere com’egli costruisse piano piano la misura ritmica, perché alle volte scrive un testo quasi identico: copia alcune righe ma cambia qualche pezzetto, cerca la misura giusta: è lo spettacolo del “farsi in diretta” della scrittura. 21 Inoltre nelle carte delle Pietre di Pantalica ho trovato un racconto totalmente inedito, di cui anche Caterina Consolo ignorava l’esistenza: un racconto che è un segno del progetto cambiato e di una parte di questo progetto, un racconto che c’è nell’apparato del Meridiano e si intitola L’emigrante. C’è un certo Vito – probabilmente il Vito Parlagreco di cui parlavamo prima – che sta emigrando a Milano. Poi forse Consolo ha ritenuto che spingere anche verso l’emigrazione lo allontanava troppo da quel territorio siciliano in cui doveva restare la rappresentazione. Però questo ritrovamento è davvero molto interessante: c’è un racconto, non dimenticato ma messo da parte, dell’emigrante che arriva a Milano e vede dal suo punto di vista soggettivo la città.


Conférence du Professeur Gianni TURCHETTA de l’Université Statale de Milan qui s’est tenue à Nancy, le 8 Mars 2016 sous invitation et organisation de Laura Toppan, MCF en Italien (transcription de la conférence enregistrée et du dialogue avec le public par Laura Toppan)

Il ponte sul canale di Sicilia

Gostanza, di nobile e ricca famiglia di Lipari, ama, riamata, il povero pescatore Martuccio. Per l’impossibile amore, il giovane abbandona l’isola, si fa corsaro per il Mediterraneo. Gostanza, avuta notizia che Martuccio era morto, disperata, sale su una barca per andare alla ventura e lasciarsi morire, ma il vento la sospinge e la fa approdare sulla costa di Barberia, nei pressi di Susa. Sulla spiaggia la fanciulla s’imbatte in una donna che parla latino e che è al servizio di pescatori cristiani. Questo è l’argomento della Novella Seconda della Giornata Quinta del Decamerone di Boccaccio. In cui, al di là della storia d’amore che poi felicemente si concluderà, ci colpisce il fatto che pescatori cristiani, trapanesi, tranquilli soggiornassero e pescassero nelle acque della musulmana Tunisia, di Susa, oggi Sousse. E ci conferma nella consapevolezza che ancora nel medioevo quel canale, quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane, libiche tunisine algerine, non fosse ancora frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio, che quelle acque anzi venissero allora percorse solo in un senso, dai lavoratori di Sicilia, di Calabria, di Sardegna, che volendo sfuggire alla fame cercavano fortuna in quelle ricche terre degli “infedeli”. Provetti “tonnaroti”, lavoratori delle tonnare, pescatori di alici e di sarde, di spugne e di coralli, da Trapani, da Pantelleria, da Lampedusa, s’avventuravano sulle loro esili barche per quel canale, e insieme contadini, pastori, murifabbri, minatori da ogni parte del nostro Meridione.
S’ interruppe questa comunicazione, questa provvidenziale emigrazione, con la dominazione turca sulle coste africane e quella spagnola in Sicilia, con l’insorgere delle guerre corsare. Carlo V si spinse fino in Tunisia per combattere e umiliare il nemico. La battaglia di Lepanto significò lo scontro più alto e simbolico fra le due fedi, i due imperi, quello cristiano e quello ottomano. Vittoria di Lepanto che però non riuscì a domare, a scemare le incursioni barbaresche nelle nostre contrade. E corsari si fecero anche ammiragli e principi cristiani, incursioni praticarono sulle coste africane, razziando uomini e cose, riducendo in schiavitù. Ai mercati di schiavi di Algeri o di Tunisi corrispondevano quelli cristiani di Livorno o di Genova. Scrive Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari'”.
Prigionia in Algeri patirà Miguel de Cervantes, che già aveva pagato il suo tributo alla guerra nella battaglia di Lepanto con l’amputazione di una mano. Lascerà memoria di quella sua triste esperienza nel Don Chisciotte e in altre sue opere.
Si hanno notizie ancora dettagliate, precise, di quel mondo di allora sulle coste africane nel secentesco libro del frate Diego de Haedo Topographia e Historia Generai de Argel. Dal quale si apprende, fra l’altro, che una nuova, massiccia emigrazione avveniva allora di italiani nel mondo ottomano. Erano, costoro, emigranti della fede, cristiani vale a dire rinnegati, che si facevano musulmani, “turcos deprofesión”, che divenivano capi corsari, razziatori nelle loro stesse terre d’origine, mercanti di schiavi.
Finisce questa pagina tremenda, questa lunga guerra corsara fra le due sponde del Mediterraneo, nel 1830, con la conquista di Algeri da parte dei francesi. Ma si apre anche in quella data, nel Maghreb, la piaga del colonialismo.
Riprende l’emigrazione italiana nel Maghreb nei primi anni dell’Ottocento. È un’emigrazione questa volta intellettuale e borghese, di fuoriusciti politici, di professionisti di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”.
E ancora negli anni ’30, ’40 e fino all’Unità, reduci da congiure, moti rivoluzionari repressi, qui si rifugiano. Dopo i falliti moti di Genova, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 49 ancora si fa esule a Tunisi.
A Tunisi s’era stabilita da tempo una nutrita colonia di imprenditori, commercianti, banchieri ebrei provenienti dalla Toscana, da Livorno soprattutto, primo loro rifugio dopo la cacciata del 1492 dalla Spagna. Conviveva, la nostra comunità, insieme alla ricca borghesia europea, un misto di venti nazioni, che s’era stanziata a Tunisi. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Tra-pani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno sulle coste maghrebine. Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali.
Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Susa, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e  di Gafsa. Nel 1880 nel Consolato italiano erano registrate 12.000 presenze italiane, ma molti sfuggivano alla registrazione, e fra questi, naturalmente, gli irregolari, renitenti alla leva o colpevoli di reati.
Nel 1911, le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri che erano chiamati “Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. Si aprono scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale (i collegamenti marittimi nel Canale di Sicilia erano di compagnie italiane, italiana, dei Rubattino, era la compagnia che costruiva la ferrovia Tunisi-Algeria), fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria, per togliere all’Italia questa supremazia. Tutto questo portò al Trattato del Bardo del 1881 e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilirono il protettorato francese sulla Tunisia.
“L’Italia non è abbastanza ricca per pagarsi il lusso di un’Algeria” aveva dichiarato il ministro degli Esteri Visconti Ventosa dell’allora governo di Benedetto Cairoli. La Francia, con il protettorato, iniziò la sua politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti la cittadinanza francese. Anche sotto il protettorato, l’immigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale su mezzi di fortuna. La reggenza francese, di fronte a quel continuo affluire di diseredati, ricorse ai rimpatri. Nei primi cinque anni del Novecento ben 13.000 furono rimpatriati. Quelli già inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti. Nel 1914 giunge a Tunisi Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte”.
I riflessi che la guerra di Libia, la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale e il dopoguerra poi hanno avuto sulla comunità italiana di Tunisia è storia molto complessa per poterla qui riassumere. Rimandiamo perciò al libro di Nullo Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia, libro dal quale abbiamo attinto per stendere questa memoria.
La fine degli anni ’60 segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra. A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.
A Mazara, una comunità di 5.000 tunisini riempie quei vuoti, nella pesca, nell’edilizia, nell’agricoltura, che l’emigrazione interna italiana aveva lasciato. Questa prima emigrazione maghrebina nel nostro paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la quarta guerra punica, la ” guerra” del pesce, il contrasto vale a dire fra gli armatori siciliani e le autorità libiche e tunisine. In questi con-fitti, quelli che ne pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi, i quali, oltre ad essere sfruttati, venivano di tempo in tempo perseguitati. Odiosi episodi sono avvenuti, in quella parte meridionale della Sicilia, di “caccia al tunisino”.
“. Su questa prima emarginazione maghrebina in Sicilia, un giovane sociologo di Mazara, Antonio Cusumano, ha scritto un libro documentato, preciso, Il ritorno infelice, pubblicato nel 1976 da Sellerio.
Sono passati trent’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con improvvisati metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.
Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato…”.

Mediterraneo
Viaggiatori e Migranti

” Ratumemi ” Vincenzo Consolo e Filippo Siciliano

“Filippo Siciliano ha preso parte alle lotte contadine in Sicilia per
l’occupazione delle terre incolte:

“…da sopra un masso che affiorava nel punto più eminente, le mani a
imbuto sulla bocca, così Filippo parlò: La terra a chi lavora! Questa terra
incolta è terra nostra”

Filippo era un giovane universitario.
Ora,  dopo una lunga vita operosa, senza mai tradire i suoi ideali di
giustizia e libertà, manda a tutti noi questo messaggio.

Caterina Consolo


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Ratumemi

I
Nuvole nere vagavano nel cielo, dense come sbuffi di comignolo,
da levante correvano a ponente, e nel loro squarciarsi e dilatarsi,
rivelavano occhi azzurri e cristallini, lunghi raggi del sole
che sorgeva, stecche incandescenti d’un ventaglio, giù dal fondo
del Corso, dal quartiere Màzzaro, dal Borgo, d’in sul triangolo
del timpano della chiesa gialla di Santa Lucia.
Il largo del mercato era affollato, d’asini muli giumente leardi,
luccicanti di specchietti, sgargianti di fettucce nappe piume,
scroscianti di campanelle e di cianciàne. E cristiani erano a cavallo,
a terra, aste di bandiere nelle mani, trùsce e cofìni pieni
di mangiare, ridenti nelle facce azzurre rasate quel mattino.
Aspettavano, gli occhi puntati sulla porta della Casa, l’uscita
dei capi dirigenti.
Dai balconi dei palazzi prospicienti lo spiazzo, detto in altro
modo l’Arenazzo (luogo di sosta de’ carrettieri venuti da Butèra,
Riesi o Terranova, sfregatoio di bestie a zampe in aria, riposo
dentro il fondaco, tanfo di corno arso per la ferratura nella
forgia, cardi bolliti e bicchier di vino dentro la potìa), dai
balconi del palazzo Accardi e del palazzo Alberti, dalla farmacia
Colajanni, financo dalla canonica di San Rocco, guardavano
a questo assembramento di villani, a questo cominciamento
di processione, a questa festa nuova, fuori d’ogni usanza e
d’ogni calendario.
E nel vocìo sommesso, nel mormorio di saluti e di discorsi,
nello stridere del ferro di zoccoli e di chiodi, nel tintinnìo di
campanelle, nel fumo di trinciati e toscanelli, trillarono i banjo, i
mandolini infiocchettati de’ barbieri che, lustri più di tutti nelle
facce, nelle lune e nei capelli, con le loro dita magre dall’unghie
coltivate attaccarono a suonare l’Internazionale. E subito Bandiera
rossa, l’Inno di Garibaldi e di Mameli. Staccarono dalle corde le
stecche a cuore di celluloide quando s’aprì la porta della Casa
del Popolo e uscirono La Marca, Cardamòne, Siciliano, Pirrone
e altri ancora, che traversarono tutto lo spiazzo, si portarono
in testa, verso l’imbocco della via Bivona, e salirono in groppa
alle bestie. Guardinghi, ché non tutti avevan confidenza con gli
animali, questi giovani mazzarinesi usciti dalla guerra, ch’avevanù
studiato, ma studiato, contro i libri di carta e di parole della
scuola, sopr’altri libri, e di più con passione sopra il libro del
paese, in cui avevan letto chiaramente la lunga offesa, la storica
angheria, la prepotenza dei baroni. Eredi ma diversi d’altri precedenti.
Come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava
al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco
Colajanni, il farmacista, ateo inveterato, che sul letto di morte,
la figlia terziaria e le monache assistenti esulcerate, volle da leggere
il suo Decamerone. O come il medico Giunta, che andando
sul Corso per le visite, alzando gli occhi ai balconi dei palazzi,
sputava e imprecava: «Ah porci, ah baroni!».
Questi giovani ch’avevan determinato il successo del Blocco
del Popolo alle elezioni, e che ostentatamente, dopo la vittoria,
uno accanto all’altro, ostruendo la strada, andavano avanti e
indietro lungo il Corso per dispetto agli avversari. «Una sventagliata
di mitra, ecco quel che ci vorrebbe! Guardateli!… Proprio
ora che sono a tiro tutti quanti… Ta-ta-tatà e, in un attimo,
ci si potrebbe liberare di questi scalzacani» vociava don Turiddu
Bàrtoli da sopra il suo balcone coi campieri schierati alle sue
spalle. In testa, angelo custode, mignatta e protettore, don Peppino,
Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione, compare
dello Scebba, altro capo di Butèra.
Quando tutti furono assettati sopra le cavalcature, il trombettiere
della cooperativa “L’Agricoltore” suonò il motivo della
sveglia, come da soldato. Il La Marca, da sopra il suo cavallo,
si girò verso la folla, alzò il braccio e urlò:
«Avanti!»
E tutti mossero, in un corteo festoso e vociante, coi barbieri
che attaccarono a suonare la marcia d’Orsomando, il maestro
della banda.
Mossero per via Bivona e Castelvecchio, su per la mulattiera
al bordo della vallata del Canale, lasciarono le ultime case sul
poggio Immacolata, arrivarono all’eremo di San Corrado, già
convento dei padri Carmelitani e lazzaretto in tempo di colera
e di vaiolo arabo, ma luogo di sepoltura anche di morti impenitenti
e di morti per morte di coltello o di lupara. Furono subito
sotto le mura e la torre superstite dell’antico castello dei Branciforti,
Carafa e Santapau, principi di Butèra, della Roccella e
del Sacro Impero, conti di Mazzarino e di Grassuliato, eccetera
eccetera. Castello, mura e torri così eminenti in cima a questo
poggio sulle falde del monte Diliàno, evidente d’ogni luogo e
d’ogni parte, tutti, che in quel momento vi passavano di sotto,
avevano negli occhi, la fantasia e la memoria, fin dalla nascita,
come una cosa che minaccia, di legatura o magarìa, di maledizione
antica. “Sempre ce lo portiamo appresso questo peso del
castello” diceva dentro di sé il La Marca. E capiva, capiva que’
due operai della diga che un giorno, alla vigilia delle elezioni,
erano andati da lui col tritolo dicendo che volevano far saltare
Castelvecchio. «Ma siete pazzi?!» li apostrofò La Marca.
Ma ora anche Totò pensò a un gesto, a qualcosa che servisse
a vincere la figura, come fosse la torre degli scacchi.
«Oh,» gridò verso i compagni «chi è tanto valente da piantare
sopra la torre una bandiera?»
«Jeu!»
«Jeu!»
E si fecero avanti due giannetti.
Presa una bandiera, corsero su pel montarozzo, tra le troffe
di disa e di rovetto, sparirono dietro la quinta del muro diruto
del castello. Riapparvero subito in cima a quella torre, tra due
merli, e infilarono in un pertugio l’asta della bandiera rossa, che
si sciolse e si mise a svolazzare.
Oltrepassarono il poggio Gambellina, il monte Caruso, si
buttarono nella piana Sanghez, raggiunsero la valle di Braèmi.
Superata questa, giunsero a Ratumemi ch’era già passato
mezzogiorno.
Sullo spiazzo d’erbe da cui affioravano rocce come groppe
d’animali della grande masseria di don Ercole.
Un muro alto, con buche per le canne del fucile, cocci di bottiglia
sopra lo spiovente, la circondava tutta.
Oltre il muro, oltre il portone sprangato, spuntava la chioma
d’un carrubo, si vedevano le inferriate davanti alle finestre, la
loggia in alto con colonne di pietra e archi di mattoni. Sembrava
tutto chiuso, deserto, silenzioso. Ma dalle stalle si levavano
i muggiti delle vacche. E nitriti da dentro il baglio, abbaiar di
cani, tubare di colombi dai buchi della muratura.
Si sparpagliarono sopra l’altopiano, legarono gli animali alle
boccole di ferro infisse al muro, scaricarono la roba da mangiare.
Fecero tannùre con le pietre, accesero frasche e legna, formarono
la brace, arrostirono sopra le gratiglie le sosizze, costole e
stigliole d’agnello e di maiale.
Fumi grassi si levarono da tutta la spianata nell’aria stagna
di dopo la caduta della brezza, in quella calma sopraggiunta di
meriggio, compatti e netti come tronchi. Che in alto sbocciavano,
s’aprivano in onde, in rami, s’univano tra loro per le cime
a formare una volta, un cielo di promesse saporite e sazianti.
Zi’ Ciccio Arcadipane, due palme d’uomo, era dei cucinieri
il più sapiente. Rivoltava con le mani rocchi e tocchi che colavano
di grasso, spargeva sale, pepe, finocchio, rosmarino. E nel
mentre lavorava, sentiva quel bruciore in fondo alle ganasce, il
riempirsi la bocca di saliva come ogni volta ch’aspettava di mangiare
e c’era qualcosa che molto l’appetiva.
Così tutti i compagni del suo gruppo: Vito Parlagreco, ch’era
magro, ma capace di mangiarsi per scommessa una madia di
pasta con il sugo; Turi Trubbìa, Santo Brucculèri, Croce Vitale
e Petro Grassiccia, un omone alto, rosso nella faccia, la panza
prominente.
Stavano torno torno alla tannùra, fumavano e nasavano con
certe facce lunghe e occhi a bramosìa.
Così Rocco Grassiccia, un bambinello d’appena cinque anni,
che sembrava partorito là per là, sorto all’istante dalla panza
di suo padre. Ché del padre era la copia: faccia tonda e rossa,
gran capelli biondi e occhi chiari affossati sopra le gote. Gli stava
sempre accanto e ne imitava movenze e positure, mani in tasca,
braccia conserte, dita intrecciate dietro la schiena. Ma per
il padre era come non ci fosse, tant’era abituato ad averlo sempre
appresso, sul lavoro e fuori, la domenica in piazza, come
un’ombra rimpicciolita del suo corpo.
E quando fu il momento di mangiare, Roccuzzo, come gli altri,
s’appressò alla gratiglia, afferrò il suo pezzo di carne fumante
e si mise a strappare coi denti di lupotto. Poi qualcuno gli porse
pure il bombolo del vino, ch’egli, serio, afferrò e portò alla
bocca tenendolo in alto come una tromba. Il padre glielo tolse.
«Ma levati di qua! Ma guarda ’sto delinquente!» gli fece. Tutti
sbuffarono in una gran risata. Rocco s’offese, s’alzò e se n’andò
presso la sua bestia, s’accovacciò con gli occhi umidi di pianto
contro il muro. Scagliò a terra per dispetto un osso che gli era
rimasto nella mano. Subito un cirneco, randagio o venuto dal
paese appresso a qualche mulo, fu lesto ad afferrarlo e a correre
lontano. Zi’ Ciccio Arcadipane andò per riportarlo nella comitiva,
ma Rocco fece no, no, testardo.
Dopo, molto dopo, tornò in mezzo agli altri, ch’erano sazi e
avevano bevuto. E più di tutti Petro Grassiccia, la cui faccia per
natura rossa s’era fatta colore sanguinaccio. Sfotteva Arcadipane
per via delle quattro figlie femmine. Zi’ Ciccio rispondeva
che a fare femmine ci voleva più potenza, prova ne è che campano
più a lungo. Ma ribatteva l’altro che l’uomo si consuma
nel travaglio e ancor di più in quel travaglio dolce ch’è il pestare
senza posa col battaglio. E lei che fa, ah?, sta là a pancia
all’aria e non si sforza.
«Non si sforza? Non si sforza?» sbottò Arcadipane. «Ma tu
allora di quella cosa non hai capito niente!»
O cefaglione, cefaglione, o palma e giglio, o fiore di giummàrra!
Tutti risero, ma accortosi zi’ Ciccio di Roccuzzo, ch’ascoltava
attentissimo e voleva che vincesse suo padre in quella disputa,
disse ch’era ora di finirla, basta. E si mise mormorando a disporre
ancora carne sulla brace. Nell’attesa, il bombolo del vino
ripassava per le bocche.
Anche dagli altri gruppi, prossimi, lontani, le colonne di fumo
continuavano a salire; giungevano voci, risate, motti di complimento
e di sfottò. E le musiche ogni tanto, sommesse o accennate,
dei barbieri.
Grassiccia, già ubriaco, s’era attaccato a Vito Parlagreco, un braccio
sopra la sua spalla, e gli offriva mangiare, bere, chiamandolo
compare, baciandolo ogni tanto sulle guance.
«Mangiate,» gli diceva «bevete! Siete così afflitto!»
Vito, col suo aspetto magro d’affamato, era quello invece che
aveva divorato più di tutti.
Roccuzzo li guardava, e vedendo che suo padre pensava a
nutrire il suo compare, correva alla gratiglia, afferrava tocchi e:
«Pa’, o pa’,» faceva «tieni.»
E Petro offriva la carne a Vito. Che, sazio, per secondare l’altro,
faceva finta d’azzannare e subito la passava a Trubbìa o Brucculèri. Parimenti faceva col bombolo del vino.
Sfatti, si distesero lunghi, i gomiti a puntello sopra l’erba. E
fu come s’ognuno ritornasse solo, solo coi suoi pensieri, i suoi
affanni. Lo sguardo perso per quella nuda piana, a cui succedevano
colline, appena verdeggianti per gli spruzzi di pioggia
dell’ottobre in corso, o bianche e aspre, fortezze alte e puntute
di calcare. Vedevano da una parte un lembo col castello del paese, e giù la Piana, e la Montagna, e poi in giro, in quell’infinito che smarriva, in direzione di Riesi o Barrafranca, i feudi di Contessa, Mastra, Mercatante. E niuno d’essi, niuno, spersi tutti, affogati in quello spazio di dimenticanza, sotto quel cielo fermo, niuno s’era accorto che da sopra il muro bianco
della masseria, sopra i vetri di bottiglia, da dietro le finestre inferriate, sotto gli archi della loggia in alto, erano sbucati baschi neri e colorati sopra facce impassibili, occhi che scrutavano, nasi e bocche che fumavano. Che sulla loggia, sotto l’arco di centro, erano don Ercole in paglietta, Peppuzzo Bàrtoli
suo figlio e don Peppino Falzone il mafioso, attorniati d’altri che immobili guardavano quell’assembramento di villani sopra Ratumemi.
«Pa’, o pa’,» fece Roccuzzo scuotendo il padre per la punta del gilè «guarda, là.» Ma Petro non si scosse, rimase con gli occhi semichiusi e a fiatare col suo fiato grosso. Si scosse invece e saltò su zi’ Ciccio Arcadipane, guardò la
scena della masseria, guardò i galantuomini e rimase sospeso, come un allocco. Lo smosse, lo risvegliò Totò La Marca, che, sopraggiunto, gli diede ’na manata e cominciò a gridare: «Zi’ Ciccio, forza! Oh, voialtri, al lavoro! Basta col riposo. Siamo venuti qua a lavorare. Forza!» E gridando guardava a sfida su verso la loggia. Poi i suoi occhi caddero sul figlio di Grassiccia, su Roccuzzo: gli s’accostò, gli posò la mano sopra la lana arruffata della testa.
«E ’sto caruso,» chiese «a chi appartiene?» «È mio!» rispose il Grassiccia con orgoglio. «Deve tornarsene subito in paese, coi barbieri.» E rivoltosi a Rocco: «Te ne torni da tua madre. Tuo padre resta qua». Rocco, serio, fece sì con la testa. Totò gli sorrise e se ne andò. In uno con La Marca, s’erano mossi e sparsi, correndo per ogni direzione di quel piano, gli altri capi, vociando ai gruppi, ordinando di procedere svelti ai travagli. Andarono allora tutti verso le bestie, slegarono dai basti zappe picconi badili, aggiogarono i muli agli aratri. Si formarono le squadre, si segnarono confini con le pietre in quel feudo vasto, a schiere si disposero con gli attrezzi in mano. E Filippo Siciliano, da sopra un masso ch’affiorava nel punto più eminente, le mani a imbuto sulla bocca, così parlò: «La terra a chi lavora! Questa terra incolta è terra nostra. Da qui non ce n’andremo. Qui faremo le trincee.,. Al lavoro, compagni, al lavoro!» Si levò un urlo da tutta la spianata. Poi, dopo il suono della tromba, tutti si chinarono e cominciarono a colpire quella terra. S’alzò davanti a ogni schiera, ai raggi del sole che inclinava ormai verso le zolfare, verso il Salso e Gallitano, un polverone,
che subito avvolse e nascose i lavoranti.

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da Le pietre di Pantalica
Vincenzo Consolo
Oscar Mondadori

Un remoto e un recente presepe

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UN REMOTO E UN RECENTE PRESEPE
 
Voci bianche di fanciulli e voci scure d’adolescenti, sopra le note dell’organo, là dalla cantoria come dall’alto del cielo, precipitavano tra le navate, cadevano sopra i fedeli. I cherichetti, in tunica rossa e cotta bianca, si muovevano sul presbiterio a passo di danza, facevano oscillare il turibolo, spandevano fumi azzurri d’incenso. Tuonava con voce grave l’officiante là all’altare, sotto il drappo che nascondeva il presepe, sotto la faccia di saraceno del santo eremita che troneggiava dentro il catino dell’abside: “Praecursor pro nobis ingreditur … Ipse est Rex iustitiae, cuius generatio non habet finem … “
Sera dopo sera la cerimonia in chiesa, il rito affollato di suoni, luci, odori, figure, colori. Si snodava in questo modo la novena, si procedeva atto dopo atto, verso la conclusione del gioioso dramma, verso il Natale, l’apertura del sipario, l’apparizione del Bambino, il fulgore d’ogni luce, il dispiegamento d’ogni canto, il concerto delle campane.
Diciamo d’un remoto Natale in un paese ai piedi dei Nebrodi, nella piana fitta d’ulivi e d’aranci, il mare di fronte con le Eolie fantasmatiche all’orizzonte e le boscose colline alle spalle, l’immenso Etna in fondo di nevi e caligini.
C’era stata, già prima, tutta l’ansia, c’era stato il travaglio per preparare in casa il presepe. La ricerca di sugheri, legni, pietre, vetri, stagnola, cartoni, tutta l’ossatura del favoloso teatro, l’apparato di monti, valli, anfratti, fiumare, gole, grotte, la primigenia, la nuda creazione di un ritaglio del mondo
E quindi, sopra il deserto, i segni dell’uomo, recinti d’ovili, casupole sparse, villaggi, masseria, casali, mulini, e la città sullo sfondo, alta incombente, la fortezza con mura merlate di un potere nefasto, di un re spietato che avrebbe introdotto nel quadro serafico la lama del male, la tragedia d’una Strage. La pelle poi sullo scabro apparato, il tenero muschio, smeraldo, raccolto lungo gli argini dei torrenti, sopra gli orli di gèbbie e lo spino pungente che diveniva nimbo sopra la Grotta, su cui si sarebbe adagiata, a fiocchi, la neve, avrebbero volteggiato in Gloria gli angeli.
E prati, siepi, alberi – ginestre, fichidindia, corbezzoli, ulivi, palme -, cascate d’acqua, laghi d’argento. Nel notturno cielo di carta, stelle infinite, vie lattee, tenebrosi sprofondi e vividi sprazzi, l’arco della cometa che sovrasta e attraversa tutto il teatro. Il mondo animato infine, animali, uomini, divine presenze.
I pastori. Giungevano da santo Stefano di Camastra, il paese vicino dei “cretari”, sortivano dalle fornaci dei Gerbino, dei Frantatonio, in cui si cuocevano giare alte e panciute come badesse (la giara di don Lolò dell’omonima commedia di Pirandello), scifi, brocche, piatti, mafarate, càntari, lucerne … Tutto vasellame d’uso, ma il solo oggetto di “delizia”, d’ornamento che gli “stazzonari” si concedevano era la mastrangela, la madre degli angeli, un’ottocentesca damina bianca con sulle spalle le ali spiegate.
Ed erano di delizia anche i pastori a Natale, per cui erano delegati i “carusi”, gli apprendisti. Che modellavano con mano grande, maldestra, come quella del ragazzo “aspro e vorace” di Saba, ma che spalmavano i pastori con colori soavi, rosa, pistacchio, celeste, giallo, i colori dei “pupi” di zucchero, del marzapane, dei gelati. Si disponevano sul presepe prima i pastori dei margini, delle baide ignare, quiete, non ancora investite e sconvolte dell’improvvisa Novella: la vecchia che fila, il contadino che zappa, il garzone tra le pecore al pascolo, il mugnaio, il maniscalco, il pescatore, il dormiente, l’infreddolito davanti al braciere …
Al centro poi la luce e il moto, la danza degli angeli sospesi, il procedere in terra verso il luogo del prodigio, del richiamo, il convergere alla Grotta del miracolo: gli zampognari, gli offerenti, lo “spaventato”, i Magi e, sulla soglia dell’antro, in piena luce, come sorti dal profondo, dal buio, l’asino, il bue, i due attori supremi, Giuseppe e Maria, chini, adoranti accanto alla mangiatoia ancora vacante. Un tempo lungo, di nove giorni, doveva trascorrere perché si concludesse il trionfo, con l’apparizione del bambino rosato, questo spettacolo.
 
In questo tempo, dopo il rito liturgico, c’era la notte l’attesa di un’altra Novena, quella cantata sotto il balcone dai ciaramiddari, cantata dal cieco:
 
 Quannu Cesari jittavu lu gran
 bannu ‘mpiriusu.
 ’nta la piazza si truvav
a San Giuseppi gluriusu.
 
questo il Natale di un paese ai piedi dei Nebrodi, il favoloso presepe della remota innocenza.
 
Tanti altri presepi poi vedemmo, con occhi ormai di disincanto, dai più preziosi del museo di Trapani ai popolari della Casa di Uccello. Ma ritrovammo per caso l’incanto, già carichi d’anni e malizia, grazie a un presepe di Angela Tripi, questa erede incantata di Giovanni Matera.
Avvenne a Parigi, sulla piazza del Municipio, in un padiglione dove ogni anno s’appronta il presepe d’un paese diverso.
La crèche de Sicile era un fantastico assemblaggio dei monumenti, dei luoghi più suggestivi dell’Isola. C’erano le chiese e i mercati di Palermo, i mosaici di Monreale, i templi greci di Segesta e di Agrigento, l’Etna fumante e il mare di Aci Trezza … E i pastori, loro d’argilla e di stoffa, in umili panni o sfarzosi, ripetevano fisionomie, gesti, azioni, mobile com’era il presepe sonoro, di quel crogiolo di razze e di voci che è ancora la Sicilia.
“Ma dove siamo, in Oriente o in Occidente, siamo in Arabia o in terra cristiana? Cos’è questa confusione di monumenti, questa babele di epoche, lingue?” declamava la voce narrante. Eravamo in Sicilia, e la Natività era posta sotto le vele dell’abside, tra le colonne di una chiesa barocca diruta.
Concludeva la voce narrante: “Ecco il prodigio: è il riso del Bambino di Betlemme, dei bambini di Palermo e d’ogni luogo del mondo. E’ l’amore, la pace, il messaggio antico e sempre nuovo del Natale”.
Vincenzo Consolo

Il barone magico , Vincenzo Consolo

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Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo

Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia “Progresso”. Entra, seguito dall’autista don Peppino. «Ecco qua» dice Piccolo. «Queste sono le poesie» e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri (vecchi libri che scovavo qua e là sulle bancarelle), ne lesse i titoli: Almanacco perpetuo di Rutilio Benincasa, Guida del monte Pellegrino, Patti e la storia del suo vescovado. Rise, guardò me, s’accorse che ero come contrariato, e si scusò. «Gli almanacchi, le guide, le storie locali, ah, sono pieni d’insospettabile poesia. Senta quest’attacco» aggiunse, aprendo la Guida del monte Pellegrino alla prima pagina; e si mise a leggere, con quella sua voce chiara: «Quando, mio caro lettore, ti trovi in quella grande pianura, alla quale i moderni diedero il nome di piazza del Campo, e che comunemente, da antichissimo tempo, si chiama Falde, gira lo sguardo a te attorno, e per quanto la tua vista si estende, di fronte, fino alle grandi prigioni, ed a sinistra fino al mare…». (Avrei ritrovato poi lo stesso attacco, la stessa cadenza, in Guida per salire al monte, inclusa in Plumelia: «Così prendi il cammino del monte: quando non / sia giornata che tiri tramontana ai naviganti, / ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola / e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento…».) Ero rimasto lì incantato, quando Lucio Piccolo sorrise ancora, mi tese la mano e: «Ho un’intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa» e sparì con Don Peppino dietro.
Venne stampato quel libretto che fu inviato a Montale per il premio San Pellegrino. E quando Mondadori pubblicò i Canti barocchi con quella prefazione di Montale che diceva: «Il libricino, intitolato: 9 liriche, stampato da una sola parte del foglio e impresso in caratteri frusti e poco leggibili, non aveva dedica ma conteneva una lettera d’accompagnamento. Proveniente da Capo d’Orlando (Messina), i tipi erano quelli dello stabilimento “Progresso”, quel «caratteri frusti e poco leggibili» fu un affronto per Don Ciccino Zuccarello. «Io lo denunzio questo Pontale, lo denunzio!» si mise a urlare.
Alla casa dei Piccolo si arrivava per una ripida stra­detta a giravolte, bordata di piante, iris, ortensie, che fi­niva in un grande spiazzo dove era la porta d’ingresso su una breve rampa di scale. Oltrepassata questa, ci si tro­vava subito nell’unica sala che per tanti anni conobbi. Era una grande sala dalle pareti nude, senza intonaco, e il pavimento di cotto. Sulla destra, vicino a una finestra, tre poltrone di broccato e velluto controtagliato dai braccioli consumati attorno a un tavolinetto. Al muro, un monetario siciliano di ebano e avorio; più in là, un grande tavolo quadrangolare con le gambe a viticchio e con sopra panciuti vasi Ming blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina, draghi, galli e galline di Jacobpetit. Di fronte, sulla sinistra, una grande vetrina con dentro preziose ceramiche ispano-sicule, di Deruta, di Faenza. Negli angoli, colonne con sopra mezzibusti di antenati. Sopra le porte che si aprivano verso il resto della casa, medaglioni del. Màlvica, basso­rilievi in terracotta incorniciati da festoni di fiori e di frutta a imitazione dei Della Robbia. E ancora, per tut­te le pareti, ritratti a olio di antenati o quadretti a rica­mo o fatti delle monache coi fili di capelli. Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta, che sede­va con le spalle alla finestra sempre chiusa, anche d’e­state (la luce filtrava fioca nella sala attraverso le liste della persiana). Lì, due, tre volte la settimana si faceva « conversazione», ch’era un lungo monologo di quel­l’uomo che «aveva letto tous les livres», come scrisse Montale, ch’era un pozzo di conoscenza, di memoria, di sottigliezza, di ironia. Le interruzioni erano solo quan­do nella stanza irrompeva Puck, la sua cagnetta, un grifoncino di Bruxelles, brutta e spelacchiata, ringhiosa. «Vieni qua, vieni qua dal tuo padrone, scimmietta, co­sa vuoi, ah, cosa vuoi?» la vezzeggiava facendosela saltare sulle gambe. O quando a tin certo punto entrava Rosa, la cameriera, col vassoio del caffè o delle granite. Ogni tanto appariva anche il fratello, il barone Casimi­ro, bello fresco rasato ed elegante come dovesse uscire per qualche festa. Era invece, come mi rivelò una volta in gran confidenza, ch’egli dormiva di giorno e vegliava di notte, e nel tardo pomeriggio, quando s’alzava, faceva toilette perché più tardi sarebbe cominciata la sua grande avventura dell’attesa notturna delle apparenze, delle materializzazioni degli spiriti. Il barone era un cul­tore di metapsichica e studiava trattati e leggeva riviste come «Luci e ombre». Mi spiegò una sua teoria sulle materializzazioni, non solo di uomini, ma anche di cani., di gatti, mi disse che a quelle presenze, per lo sforzo nel materializzarsi, veniva una gran sete ed era per questo che per tutta la casa, negli angoli, sotto i tavoli, faceva disporre ciotole piene d’acqua.
Di tanto in tanto arrivavano a villa Vina (Vena, in ita­liano: vena d’acqua, vena poetica?) in visita i «conti­nentali». Arrivò Piovene, Quasimodo, la Cederna e tanti e tanti altri, letterati e giornalisti.
L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una do­menica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano. Sciascia arrivò da Cal­tanissetta al mio paese e assieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali».
Avevo deciso di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Milano. «Non parta, non vada via » mi diceva Piccolo. «A Milano, con tutti gli altri, rischia di annullarsi. La lontananza, l’isolamento danno piùn fascino, suscitano interesse e curiosità». Non potevo rispondergli che non ero ricco, che dovevo guadagnarmi la vita. Non potevo dirgli, soprattutto, che lì in Sicilia mi sembrava tutto fi­nito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia.
Partii in gennaio. Quando tornai, in estate, andai an­cora a trovare Piccolo. «Cosa dicono di me a Milano, co­sa dicono?» mi chiese subito. Niente, non dicevano nien­te. Piccolo, dopo la curiosità suscitata al suo esordio, e dopo essere stato trascinato nel ciclone del Gattopardo, era bell’e dimenticato: altri miti, altre scoperte andava fabbricando per più rapidi consumi l’industria culturale.
Lo vidi l’ultima volta un anno dopo. Trascrivo da un mio diario: «Entro in casa Piccolo a Capo d’Orlando nel momento in cui la televisione trasmette l’arrivo sulla Terra dell’Apollo 8. Il fratello del poeta mi chiama e mi fa accomodare davanti al televisore. Il poeta non viene. È sera. Nelle grandi, stanze della villa, poche e fioche lu­ci negli angoli e la luce lattiginosa del video sulle nostre facce. Fuori, il vento e la pioggia sferzano le campagne. Il fragore delle onde penetra la casa attraverso le persia­ne. Di quel mare di Capo d’Orlando che qualche giorno prima ha devastato il litorale. Vicina, la fiumara di Zap­pulla in piena trascina macigni, sbatte contro i piloni del ponte della ferrovia già incrinato. I treni che giungono dal Continente carichi di emigrati si fermano e quindi attraversano il ponte lentissimamente. La voce dello speaker alla televisione, man mano che passano i minuti, è sempre più forte, ansiosa, concitata. Piccolo è sprofon­dato nella poltrona, silenzioso e immobile, in un’altra stanza piena di penombra. Non ha visto gli astronauti fi­nalmente giunti a bordo dello Yorktown, non ha sentito la voce di Frank Borman che saluta il mondo. Lo rag­giungo. “Per la Teoria delle ombre” , mi dice “la mia prossima raccolta, ho preso spunto dagli studi di pro­spettiva che ho fatto nella mia giovinezza…”».
Una mattino di maggio mi trovavo in assemblea nel­l’azienda dove lavoravo. Era un’assemblea accesa, con­citata, tumultuosa: c’era in ballo il rinnovo del contrat­to di lavoro. I sindacalisti litigavano con quelli del Cub, il comitato unitario di base. Fu lì che mi vennero a chiamare e mi dissero di telefonare in Sicilia. Così appresi della morte di Lucio Piccolo, ch’era avvenuta durante la notte. Provai dolore, ma dolore anche per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne an­davano. Mi tornavano in mente i suoi versi, e questi so­prattutto: «…spento il rigore dei versetti a poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco». Ma i versi, gli infiammati versi di Piccolo, tornato in assemblea, furono fugati, sopraffatti dalle voci, dalle grida, da quel linguaggio per me in­comprensibile.

***

Lo sentivo sempre favoleggiare d’una Naso Illustrata per Carlo Incudine, in cui gran parte aveva il santo me­dievale Conone Navacita. Mi bastavano allora quei tre nomi, Naso, Incudine, Conone, disposti su tre piani, in una luce d’oro sospesa di meriggio mediterraneo, per restare rapito a contemplare un sibillino quadro surrea­le. Mi favoleggiava del libro Lucio Piccolo, e di grandi che per quelle contrade eran passati lasciando impron­te, segni poetici e regali. Come Ruggero il Normanno che, dopo vittoriosa battaglia contro i saraceni, lascia per voto al convento di Fragalà il suo stendardo. O Fe­derico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi («biondo era e bello e di gentile aspetto »). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?». Ironizzava poi su quel santo dal geometrico nome, Cono, Conone, la cui particolarità era quella di restar sempre in estasi sospeso (si può immaginare un santo più metafisico?) o su un altro secentesco, frate Perlongo, fatto beato per l’avversione dimostrata in tut­ta la sua vita verso le donne, al punto che da bambino si rifiutava di baciare la madre per non commettere pec­cato. E sorrideva Piccolo, sorrideva malizioso, scher­mendo le labbra con quel suo gesto di portarsi il polli­ce sotto il naso e carezzarsi i baffi.
Quel libro introvabile mi restò per molti anni miste­rioso, come quell’imprecisato Libro del Cinquecento da cui traevano divinazioni, profezie i maghi e le maghe di queste parti. Fino a quando il neoproduttivismo e la tec­nologia non m’hanno portato finalmente tra le mani la ristampa anastatica del libro. E vi ho letto allora ch’era Naso una città fondata da popolazioni greche venute da Naxos e chiamata Naxida, da cui Naso, che quindi niente aveva a che fare con l’organo che sta al centro del volto, rincagnato o ciranesco. Che fu poi, quella città, dal medioevo fino al ’700 dominio di conti. Dei quali l’ultimo, e più dispotico, un certo Sandoval, spodestato, per amor di giustizia, da un barone Piccolo. Così l’In­cudine: «Ed ecco tin bel dì fars’innanzi un giovane: ve­stiva un mantello azzurro alla spagnola, calzone nero stretto a ginocchio da sfarzose frange di argento, cotur­ni dalle fibbie d’oro, e toccava i ventiquattro anni.
Ricchezze godea di poderi estesissimi, perocché con l’ala dell’occhio, meno poche interruzioni, ci poteva domi­nare liberamente quasi dal Timeto al Fitalia, il più bel tratto dell’agro nassense, dicendo: è mio! Nobili i nata­li e per le armi e per scienza di leggi, allegoricamente si­gnificati con araldica bizzarria dallo stemma di famiglia; nobilissime le tradizioni. Egli era Gaetano Piccolo». Un antenato di Lucio Piccolo di Calanovella. E tra il Time-to e il Fitalia, nel più bel tratto dell’agro nassense, v’era, di proprietà dei Piccolo, Capo d’Orlando, il paese e il territorio sulla costa tirrenica della Sicilia. Su una pianura di fitti limoni, un cupo tappeto verde trapuntato di frutti d’oro, sovrastato dalle snelle, altissime palme con la cascata a fontana del fogliame, scandito dai filari di cipressi spartivento. In mezzo, invisibili, le casupole d’a­renaria e calce dei contadini. Una pianura stretta tra i colli, folti d’ulivi grigioargento, e il mare. Di fronte, gal­leggianti sulla linea dell’orizzonte, le isole Eolie. Nei giorni in cui il vento fuga i veli dei vapori, si scorgono le casette bianche di Lipari e Salina, il faro di Vulcano.
Il paese è adagiato sotto il promontorio, il Capo, un perfetto cono a picco sopra il mare, un ammasso d’are­naria sopra cui crescono, a macchia, il ficodindia, il len­tischio, l’acanto, il selino, l’euforbia, il cappero. In cima al Capo, i ruderi d’un castello e un santuario della Ma­donna dei pescatori pieno d’ancore, timoni, ex-voto di caicchi, gozzi, velieri in balìa di fortunali. Il Capo pren­de il nome da Orlando, il più «furioso » dei paladini di Carlo Magno. Doppiato il Capo, v’è la cala di San Gregorio, il villaggio dove di notte sbarcavano i pirati, «Terrore a la riva: la furia dei ratti trae fra gli strilli la gonna come bandiera / e il corsaro dagli occhi di nera porcellana, / da la barba serpentine: / la scimitarra stride con l’arma paesana… ».
Qui abitava zia Genoveffa, la vecchia fattucchiera the tagliava col coltello dal manico bianco le trombe marine, toglieva il malocchio con fumigazioni di ramet­ti d’alloro, erica, rosmarino. Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena, Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai pri­mordi, alle origini della civiltà. Ma qui s’intrecciano an­cora e si confondono mito e storia, natura e civilizzazio­ne, poesia e realtà, simboli e metafore, vita e morte: qui gli uomini venivano sepolti dentro giaroni di terracotta, accovacciati in posizione fetale, come dentro l’utero materno.
Sopra un poggio che domina la pianura di Capo d’Orlando, il Tìndari e Cefalù ai due poli dell’orizzon­te, era la villa dei baroni Piccolo di Calanovella. Erano tornati nel 1930 su queste loro terre. Il padre era fuggi­to con una ballerina, se n’era andato a vivere a San Re­mo. La moglie, una principessa Tasca Filangeri di Cutò, sorella della madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, offesa nel suo orgoglio, aveva detto addio alla vita mon­dana di Palermo, dominata allora dai Florio, alle estati al castello di Santa Margherita Belice, la Donnafugata de Il Gattopardo, e s’era ritirata qui, coi suoi tre figli, Casimiro, Lucio e Giovanna, in esilio volontario, impo­nendo a sé stessa e ai figli, una vita austera, monacale.
Morta la madre, i tre fratelli, quasi ubbidendo a un segreto patto, a un giuramento, continuano fino alla morte la loro vita solitaria. In questa villa bianca, tra palme, pini, glicini, buganvillee, stipata di mobili, arazzi, porcellane antiche, lontani dal mondo, distaccati d’ogni preoccupazione d’ordine pratico (pensavano i tre ammi­nistratori alla conduzione delle terre; l’autista, il cuoco, le cameriere a quella della casa). Uniche frequentazioni, qualche amico o parente che ogni tanto veniva dalla Ca­pitale a fare visita. Più frequente quella di Tomasi di Lampedusa che qui a lunghi periodi soggiornava, e qui aveva concepito e scritto gran parte del suo romanzo (il nome dato a don Fabrizio, lo prende senz’altro dall’isola che ogni mattino si vedeva apparire di fronte, celeste e trasparente all’orizzonte, affacciandosi al ter­razzo-giardino pieno di piante esotiche, di ninfee galleg­gianti nelle vasche).
I tre fratelli, in questo buon ritiro, coltivavano le lo­ro segrete passioni. Calsimiro il primogenito, l’occulti­smo, la fotografia e la pittura. La baronessa Giovanna la passione della floricultura. Sperimentava innesti, inse­minazioni inusitati. Coltivava ortensie, iris, orchidee. Ma il suo orgoglio era l’aver fatto attecchire qui, in que­sta sua terra, una delicata e rara pianta tropicale, la puja, che dava un fiore blu come di porcellana, un fiore mallarmeano. Lucio, terzogenito, aveva la passione della letteratura, della poesia. Aveva fin da giovane scritto, scritto e distrutto. Finché non compose i Canti barocchi, in uno stato di incandescenza, di raptus, e non decise d’esporsi, di pubblicare: a cinquantadue anni. Fece stampare un piccolissimo libretto, dal titolo 9 liriche.
Liriche purissime, singolari, inedite nel panorama italiano, in cui convergevano tutta l’esperienza poetica europea vecchia e nuova. Una poesia dove vi è la natu­ra dolce e panica, misteriosa, concreta ma mutevole della campagna di Capo d’Orlando; dove vi sono le chiese barocche, gli oratori, i vecchi conventi, e le «anime ade­guate a questi luoghi», della Palermo della sua infanzia­-adolescenza; le passate stagioni, i trapassati che ritorna­no, in amorosa evocazione, in notturna processione, in febbrile ansia, in struggente flusso di memoria.
Lo frequentai per tanti anni, fino a quando non deci­si di lasciare la Sicilia. Ma ogni volta che ritornavo nel­l’Isola, non mancavo d’andare a trovare il poeta. Fu in uno di questi ritorni che insieme scendemmo dalla villa per andare in paese, a Capo d’Orlando. Da lì, alla cala di San Gregorio. Era una giornata d’aprile, chiara, cri­stallina. Al villaggio ci venne incontro zia Genoveffa, la maga delle trombe marine e dei fumi di rametti aroma­tici. «Bacio le mani, barone» salutò la vecchia. Piccolo si staccò da me e le andò incontro. Vicini, si parlarono.
Il sole calava verso le Eolie, il mare era fermo.
«I giorni della luce fragile, i giorni / che restarono presi ad uno scrollo / fresco di rami… / oh non li ri­chiamare, non li muovere, / anche il soffio più timido è violenza / che li frastorna… ».

ITALY,Sicily, Capo d'Orlando: The italian Poet Lucio PICCOLO. (c) Ferdinando Scianna/Magnum Photos

Vincenzo Consolo, Il barone magico
Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988

La Sicilia e la cultura araba



Si sa che, con la fine del latino, nel medioevo italiano, si è imposto in letteratura, sulle altre realtà linguistiche e regionali, il dialetto toscano. Questo è avvenuto grazie ai tre grandi padri della letteratura italiana: Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma si sa anche che il primo nucleo della nuova lingua italia-na, o volgare, come si chiamò, si formò in Sicilia, che i primi poeti in lingua italiana furono siciliani, quei poeti della cosiddetta Scuola Poetica Siciliana che si trovarono raccolti nella palermitana corte dell’imperatore Federico II o che attorno ad essa ruotavano. E questo afferma Dante nel De vulgari eloquentia. In lingua siciliana poetavano in quella corte, in una lingua cioè che era mistilinguismo, in cui vi erano echi anche della lingua araba. Ma arabo era soprattutto lo stile di quei poeti: uno stile lirico, un po’ manieristico, nella costruzione di complicate metafore. Le rime, i sonetti, i contrasti di Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Re Enzo, Pier delle igne, di altri, non molto si discostano dalle qaside dei poeti siculo-a-rabi che con l’avvento dei Normanni avevano lasciato l’isola. E basta ricordare tra tutti il siracusano Ibn Amdis. Dal suo esilio maghrebino cosi cantava:

 Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo. Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore di nobili ingegni. Se son stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia? Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso… O mare, di là da te io ho un paradiso, in cui mi vestii di letizia, non di sciagura!…

La cultura araba ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana. “Indubbiamente gli abitanti dell’isola di Sicilia cominciano a comportarsi da siciliani dopo la conquista araba” dice Sciascia. Il quale, mutando da Américo Castro lo schema che il grande storico aveva applicato alla Spagna, chiama descrivibile la vita siciliana prima degli Arabi, narrabile quella sotto la dominazione araba, storicizzabi-le quella che viene dopo. Sciascia fa quindi iniziare quello che egli chiama il modo d’essere siciliano proprio dalla dominazione araba. La cultura araba ha inciso nell’isola soprattutto in quella parte occiden-tale che ha per vertici Mazara e Palermo. I segni arabi sono durati in quella parte per un millennio e più, nel carattere della gente, nelle fisionomie, nei costumi, nell’architettura, nella lingua, nella letteratura, popolare e no. Durati per un millennio fino a ieri. “Ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini”. E i Barberini questa volta, anche qui, in questa remota plaga dell’Italia e dell’Europa, sono i messaggi della civiltà di massa che tendono a distruggere le vere, autentiche culture, per tutto livellare, miseramente omologare. Ma torniamo all’inizio della conquista musulmana di Sicilia. In una notte di giugno dell’827, una piccola fotta di musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egi-ziani, Siriani, Libici, Maghrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furt, partita dalla fortezza di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte sorprendenti incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica lasciato nell’isola dai Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta la Sicilia, dall’occidente fino all’oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia, dopo la conquista, un emirato dipendente formalmente dal califfato di Baghdad. I musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le spoliazioni del Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della chiesa, dei monasteri, i musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre Valli: Val di Mazara, Val Dèmone e Val di Noto; rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove tecniche agricole, a nuovi sistemi di irrigazione, di ricerca e di convogliamento delle acque, all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il sommacco e il cotone…); rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della tonnara; rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana e lo spirito di tolleranza, la convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Di questa società arabo-normanna, di cui ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi, Ibn Hawqal, sono segni evidenti quelle chiese, quei monasteri, quelle cappelle, quelle residenze reali, quei giardini che ancora oggi si possono vedere a Palermo o in altre località vicine. Così scrive Ibn Giubayr di Palermo: “In questa città i musulmani conservano traccie di lor credenza; essi tengono in buono stato la maggior parte delle loro moschee e vi fanno la preghiera alla chiamata del muezzin… Vi hanno un qadì al quale si appellano nelle loro divergenze, e una moschea congregazionale dove si radunano per le funzioni, e in questo mese santo vi fanno grande sfoggio di luminarie. Le moschee ordinarie poi sono tante da non contarsi; la più parte servono di scuola ai maestri del Corano”. Non voglio, né so fare qui tutta la storia del periodo musulmano di Sicilia. Voglio però qui rimandare a La Storia dei Musulmani di Sicilia scritta da un grande siciliano del secolo scorso: Michele Amari. Quest’apostolo della cultura e della libertà (egli combatté contro la dominazione borbonica nell’Italia meridionale e per l’Unità d’Italia) scrisse questa monumentale opera in cinque volumi durante il suo esilio politico in Francia, a Parigi. Nelle biblioteche di quella città, dopo aver imparato l’arabo, Amari reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia. “La storia dei Musulmani di Sicilia è una delle più suggestive opere d’intenti storici che da un secolo circa siano state scritte in Europa” scrive Elio Vittorini. E aggiunge: “La storia dei Musulmani di Sicilia voleva essere, forse, solo un frammento della storia patria, ma sembra che abbia avuto per punto di partenza, da come è scritta, una seduzione del cuore, qualche favolosa idea che l’Amari fanciullo si formò del mondo arabo tra le letture dei vecchi libri e i ricordi locali”. E come poteva non scrivere con la “seduzione del cuore”, cioè con rigore scientifico, ma anche con visionarietà e poesia, Michele Amari, nato e cresciuto a Palermo, in quella Palermo che ancora nel secolo scorso conservava non pochi vestigi, non poche tradizioni, non poca cultura araba? Basti pensare al castello della Zisa (restaurato, sembra destinato ora a museo islamico), alla Favara, ai bagni di Cefalà Diana, alla Cuba, alla Cubula, al quartiere della Kalsa, ai suq, ai mercati della Vucciria, di Ballarò o dei Lattarini, a San Giovanni degli Eremiti, alla Martorana, alla stessa cattedrale… Ultimi splendori della Palermo araba dalle numerose moschee, dai giardini, dai bagni innumerevoli, con cui poteva stare a confronto soltanto Cordova. Dopo l’Unità d’Italia, dopo il 1860, Amari, nominato ministro della Pubblica Istruzione, non smise di coltivare i suoi studi di arabo. Così, oltre La storia dei Musulmani di Sicilia, ci ha lasciato una Biblioteca Arabo-Sicula, Epigrafi, Sulwan al-mutà di lbn Zafir, Tardi studi di storia arabo-mediterranea. Per lui, nel suo esempio e per suo merito, si sono poi tradotti in Italia scrittori, memorialisti, poeti arabi classici. Per lui e dopo di lui è venuta a formarsi in Italia la gloriosa scuola di arabisti o orientalisti che ebbe le sue eminenti figure in Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi Della Vida, Leone Caetani, Carlo Alfonso Nallino, Celestino Schiaparelli, Umberto Rizzitano e il famoso Francesco Gabrieli. Il quale ultimo, idealmente continuando l’opera di Michele Amari, pubblicava nel 1980, in collaborazione con altri, un poderoso e documentatissimo volume dal titolo Gli Arabi in Italia. E scriveva, nel 1983, nel volume collettivo Rasa’il, in onore di Umberto Rizzitano, un capitolo dal titolo Attraverso il canale di Sicilia (Italia e Tunisia). Capitolo in cui fa la storia dei rapporti fra i due paesi, dall’antichità e fino a oggi. Ma più che della Tunisia con l’Italia, della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli, che già sul finire della dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese, all’Imaàm al-Màzari. E ancora: “Nella scuola di lingue Bu Rqiba, i nostri giovani studenti dell’arabo e dell’Islàm han trovato da molti anni il più efficiente centro di iniziazione linguistica, in un diretto contatto con la terra dell’Islàm ispirato da puro interesse scientifico e spirituale”. Per merito di questi valorosi arabisti italiani si sono tradotti i classici arabi, a partire da una splendida edizione, curata proprio da Gabrieli, de Le mille e una notte. Ma della letteratura, del romanzo e della poesia maghrebina contemporanea gli editori italiani solo da qualche anno han cominciato a pubblicare qualcosa. Negli anni ’50 si svolse a Roma un convegno di scrittori arabi in cui si esaminarono i mezzi per una migliore diffusione delle loro opere in Italia. Questa non può avvenire che attraverso le traduzioni e quindi di una maggiore diffusione della lingua araba. In questi anni ciò è avvenuto, la lingua araba è sempre più studiata. Riallacciandoci allo scritto di Francesco Gabrieli, ripartiamo da quel porticciolo siciliano che si chiama Mazara in cui sbarcò la flotta musulmana di Asad Ibn alFuràt. Partire da lì per dire, in uno con quelli letterari o oltre essi, anche di altri sbarchi, di siciliani nel Maghreb e di maghrebini in Sicilia.

Vincenzo Consolo

Armonia perduta, Il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario

Le onde tremende lo spingono, quasi lo sbattono, sfracellandolo, contro l’alta costa di basalto. Il naufrago riesce ad afferrare lo spuntone d’una roccia, ne viene subito staccato dal risucchio dell’acqua e, ferito nelle mani, è ancora in balia, fragile uomo, della furia del mare. Nuota disperato sottocosta fino a che non si trova di fronte a una insenatura piana, alla foce di un fiume. Prega la divinità fluviale d’arrestare lo scorrere rapido delle sue acque perché possa finalmente approdare, uscir dal mare, salvarsi dalla tempesta, da sicura fine. E così, spossato, ferito, i polmoni pieni di salmastro, tocca finalmente la spiaggia, avanza sopra una solida superficie, tra alberi e arbusti. È l’uomo più solo sulla terra, senza più un compagno, un oggetto, l’uomo più spoglio e debole, in preda a smarrimento, panico, in una terra estrema, sconosciuta, che come e più del mare può nascondere ancora pericoli, violenze. Ulisse ha toccato il punto più basso dell’impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e martoriata, debole, trova riparo in una tana, fra un olivo e un olivastro (spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di sentiero o di destino, della possibilità di salvezza dentro un consorzio umano), si nasconde sotto le foglie secche per passare la notte paurosa che incombe. È svegliato nel mattino dalle voci, dalle grida festose e aggraziate di fanciulle, di Nausicaa e delle sue compagne. E si presenta a loro, la nudità schermata, l’organo sessuale occultato da una fronda simbolica per non allarmare le vergini, come il più dimesso, il più umile dei supplici. Così Ulisse entra nella terra dei Feaci, nel luminoso regno di Alcinoo, nella ricchezza, nel seno di una altissima civiltà, l’utopia, regno appartato, remoto, incontaminato (tutto qui è opposto al desolato, periglioso, infecondo, all’oscuro mare, opposto a tutti i passati approdi infidi e disastrosi: il rigoglioso giardino di Alcinoo, la fastosa reggia, la saggia moglie regina, i figli belli e valorosi, l’accogliente corte, il popolo amichevole). Entra in questo regno, Ulisse, e noi, lasciata la cornice dell’epica e la narrazione in terza persona, entriamo nel cuore del poema, nella narrazione testimoniale in prima persona svolta dal protagonista, dall’eroe. Narrazione a ritroso, in un lunghissimo flash-back. Che comincia, come nel passaggio di una soglia magica, di un confine iniziatico, nel momento in cui Ulisse, con i suoi compagni, le sue navi, lascia la distrutta Ilio e intraprende il viaggio di ritorno verso Itaca. È un viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella sfera marina, è come se fosse, quello di Ulisse, un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, atroce, mostruoso (il mostruoso “naturale” sembra che faccia qui da contrappunto a quel “mostruoso” artificiale, tecnologico, progettato da Ulisse, a quel cavallo di legno, arma estrema, infida e dirompente, che ha segnato la fine di Troia, della guerra), e a grado a grado sono smarrimenti, inganni, oblii, allucinazioni, perdite tremende fino all’estrema solitudine, all’assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e per la vita. Il romanzo di Ulisse non poteva che svolgersi in mare, perché il mare, questo cammino mobile e mutevole, è il luogo dove avviene il distacco dalla realtà, dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico, la fascinazione, l’ossessione, dove la ragione si oscura e trovano varco i mostri. Attraversate tutte le perdite, le follie, concluso il vagare per l’infido mare, divenuto più consapevole, più sapiente, più umano, Ulisse potrà finalmente raggiungere Itaca, affrontare i nemici reali, storici, installatisi nella sua casa; con l’aiuto del figlio, di Telemaco, ricolmare la lunga assenza, ricongiungersi con Penelope, rinsaldare lo squarcio della sua vita. Purgato d’ogni colpa, dopo il viaggio penitenziale, ritrovare l’armonia perduta.

Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola



 La polivalenza della forma, del genere e del linguaggio testimoniano la volontà di resistere, tra l’altro, contro reificazioni di senso. La forma elicoidale delle lumache illustra in modo convincente il carattere indefinito delle potenzialità allegoriche nascoste nei testi consoliani. Nel romanzo Sorriso dell’ignoto marinaio questo segno è stato posto ad emblema della bellezza della natura, dell’enigma della storia e dell’oscurità umana60. Le contaminazioni “storiche” di Consolo sono stratificate a più livelli. Esattamente come il simbolo della chiocciola (o spirale degli eventi) che è il culmine del libro Il sorriso dell’ignoto marinaio61. La figura della chiocciola costituisce, come anche quella dell’“ignoto marinaio”, una specie di Leitmotiv; è la metafora dell’ingiustizia sociale dovuta alla distanza fra i privilegiati della classe colta (ai quali appartiene anche il barone Mandralisca che nelle sue ricerche scientifiche si occupa proprio di chiocciole)
 59 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 10. 60 Cfr. F. Di Legami: L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 53. 61 Cfr. A. Giuliani: Edonismo…
e la gente senza cultura e senza voce, e alla distanza fra la classe dei possidenti e quelli che, come i contadini d’Alcàra, si sono mossi “per una causa vera, concreta, corporale: la terra” (SIM, 93). Alla fine del testo Mandralisca s’immagina una nuova scrittura storiografica, una riscrittura che procede dal fondo della chiocciola: “conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene” (SIM, 112). Sotto il segno della chiocciola si condensano più livelli: a chiocciola è l’architettura del carcere in cui si conclude il racconto, architettura che riproduce “il vorticare” della storia; a chiocciola ossia a spirale è la lettura delle scritte che ne tempestano le pareti. Ma il termine “chiocciola”, in cui si condensa tutta la passione di ricercatore del barone Mandralisca, la sua scienza, viene finalmente degradato a esprimere l’astrazione degli “ideali” di fronte alla spinta concreta della rivolta popolana: “una lumaca!”. Alla chiusa del romanzo la figura fisica, il simbolo, la struttura linguistica e narrativa, coincidono con un effetto intenso e felice; quanto basta per sigillare l’intelligenza e la validità di un libro 62. Anche i pensieri nel Sorriso dell’ignoto marinaio sono raffigurati in una inarrestabile scesa spiraliforme dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui si congiura contro i Borboni (primo e secondo capitolo) all’eremo di Santo Nicolò, fino ai villici e ai braccianti di Alcara Li Fusi (terzo e quinto capitolo); le volute diventano gironi infernali con la strage dei borghesi perpetrata ad Alcàra (settimo capitolo). Questa discesa è anche linguistica: al sommo c’è il linguaggio vivido e barocco dei primi capitoli; negli inferi (nono e ultimo capitolo) le scritte compendiarie dei prigionieri, emerse dall’odio, dal rimorso, dalla nostalgia di libertà. Ulla Musarra-Schrøder scopre anche che il dialetto siciliano è sommariamente italianizzato; e quello gallo-romanzo di San Fratello, nella scritta XII, prende già movenze di canto. Ma questi due estremi linguistici e le realizzazioni intermedie non si sovrappongono a strati, bensì si alternano o si mescolano, sempre secondo uno schema elicoidale63. 62
Cfr. G. Gramigna: Un barocco… 63 Cfr. U. Musarra-Schrøder: I procedimenti di riscrittura nel romanzo contemporaneo italiano…, pp. 560—563. 112 Capitolo III:
L’idea della struttura per frammenti Secondo Sebastiano Addamo il simbolo della lumaca64 va analizzato nel modo in cui risulta più utile ai fini dell’interpretazione. Soggettivamente, cioè rispetto al personaggio maggiore del romanzo, il barone Enrico Pirajno de Mandralisca, la lumaca può rappresentare la classica attività dell’intellettuale tradizionale. Ma oggettivamente è ben altro, dato che il medesimo barone Pirajno paragona le lumache da un lato al carcere, che è un simbolo del potere, e, dall’altro, alla proprietà, che è il potere medesimo, e sotto tale aspetto la proprietà viene infatti definita come “la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo”65. Il sesto capitolo del romanzo è tutto attraversato dalla metafora della chiocciola, metafora plurima che designa successivamente i privilegi della cultura, l’ingiustizia del potere, e la proprietà come usurpazione 66. La metafora realizza una sorta di autocritica, dato che di chiocciole si occupa principalmente Mandralisca nelle sue ricerche scientifiche; diventa poi schema descrittivo, nel capitolo ottavo, quando si parla del carcere di Sant’Agata di Militello, in cui sono rinchiusi i colpevoli dell’eccidio di Alcàra. E proprio alla fine del capitolo, che è anche l’ultimo da attribuire ufficialmente al narratore (dato che il nono raccoglie senza commenti le scritte dei prigionieri) troviamo una sezione dei sotterranei a chiocciola nel castello, con un’ulteriore metafora: 64 Consolo ha attribuito il ruolo plurisignificante alla chiocciola nelle sue narrazioni, servendosi anche dei motivi della spirale o del labirinto. Senz’altro si può interpretare la presenza della chiocciola secondo la chiave proposta da Mircea Eliade sempre dove Consolo parla della fine, della morte, della devastazione o della metamorfosi: le civiltà antiche riconoscevano nelle lumache il simbolo del concepimento, della gravidanza e del parto. Similmente, i cinesi, associano i molluschi con la morte, e con i rituali funebri che dovrebbero garantire la forza e la resistenza dell’uomo nella sua futura vita cosmica.
Cfr. M. Eliade: Obrazy i symbole. Warszawa, Wydawnictwo KR, 1998, pp. 156—159. 65 S. Addamo: Linguaggio e barocco in Vincenzo Consolo. In: Idem: Oltre le figure. Palermo, Sellerio, 1989, pp. 121—125. 66
Il concetto di “fortezza — labirinto” prende avvio dalle teorie sviluppate sia da Kerényi che da Eliade e riguardanti il fenomeno della costruzione a chiocciola come archetipo biologico di origine e di percezione. Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola  Ma ora noi leggiamo questa chiocciola per doveroso compito, con amarezza e insieme con speranza, nel senso d’interpretare questi segni loquenti sopra il muro d’antica pena e quindi di riurto: conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire. SIM, 139 Lo schema elicoidale della chiocciola può servire bene per analizzare il romanzo, come ci autorizza a fare Consolo, citando all’inizio di questo capitolo ottavo una frase di Filippo Buonanni, da Ricreatione dell’Occhio e della Mente nell’Osseruation’ delle Chiocciole (Roma, 1681)67: […] sempre più vi accorgerete, che Iddio, compreso sotto il vocabolo di Natura, in ogni suo lavoro Geometrizza, come dicean gli Antichi, onde possano con ugual fatica, e diletto nella semplice voluta d’una Chiocciola raffigurarsi i Pensieri. Alla metafora quindi dell’ironico sorriso, effigiato nel quadro di Antonello da Messina, si associa, opposta e complementare l’immagine della lumaca, emblema di un percorso oscuro in cui si trovano sofferenze e dolori non testimoniati. “V’è una inarrestabile discesa spiraliforme — ha scritto Segre — dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui i congiura contro i Borboni all’eremo di Santo Nicolò, alla combriccola di Santa Marecùma, sino ai villici e braccianti di Alcara Li Fusi; le volute diventano gironi infernali con la strage di borghesi perpetrata ad Alcara, e bolgia ancora più fonda quando nelle carceri sotterranee di Sant’Agata vengono racchiusi i colpevoli”68. Anche se presentato in modo molto dettagliato, questo luogo di isolamento rappresenta uno di tanti luoghi opachi, utopici e incantati. 67
Cfr. C. Segre: Intrecci di voci…, p. 81. 68 F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 26.

Il tema dell’ingiustizia come violazione del tabù L’esigenza dell’impegno

„Scrittore isolato, e solitario, sciolto cioè da legami politici [quali crede] dovrebbero essere gli scrittori, liberi da impegni partitici, ma legati da impegni ideali, morali, storici”. Con queste parole Salvatore Mazzarella definisce l’atteggiamento ideologico di Consolo1 . Parlare dell’ingiustizia, della sofferenza e dell’umiltà nella cultura occidentale significa addentrarsi in una zona pericolosa. Di solito questi argomenti vengono sviluppati in un discorso dedicato alle radici cristiane della nostra civiltà e quando si espone la nozione di sofferenza in una dimensione universale. Il divieto, l’esteticità, l’inopportunità e la convenzione — tutti i concetti indicati appaiono quando si parla del tabù. Esso diventa una sempre più diffusa zona che interessa l’esperienza morale al pari di quella concettuale e da cui l’uomo di cultura si sente attratto e nello stesso tempo deluso. I critici e i lettori sono convinti che lo scrittore sia caratterizzato da “una profonda tensione etica che lo avvicina ai grandi moralisti del passato, tesi ed attenti al compito di descrivere l’uomo nella sua mutevole, e pure,
1  S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 65. 38
eterna storia”2 .
E non basta dire che lo scrittore è propenso a fare del suo stile “un mezzo di intervento e di rivolta, ma anche di proposta umanistica” 3 . Per tale ragione, l’esortazione a non fargli mancare “l’impegno per la giustizia e il risalto netto della voce dei deboli” diventa l’elemento fermo della sua narrativa 4 . Nati spesso dalla suggestione delle letture, degli incontri e delle polemiche dell’attualità, i dilemmi che muovono la riflessione del narratore siciliano relativo alla distinzione tra lo scrivere e il narrare si avvicinano nella loro forma e contenuto all’esercizio scrittorio “capace di incidere sul reale in senso conoscitivo e trasformativo”5 , ideati nei turbini della realtà estranea e vergati su molteplici esperienze, fino a costruire una congerie omogenea e ordinata di sequenze. Dice Consolo: Dopo Hiroshima e Auschwitz, dopo Stalin e Sarajevo, dopo tutti gli orrori di oggi, quei mostri profetizzati da Kafka o da Musil, da Eliot, da Joyce o da Pirandello, sono diventati mostri della storia. Questi mostri credo che la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità6 . Considerando la genesi della scrittura consoliana, è necessario sottolineare lo stretto legame che intercorre fra la complessità delle cose e le vibrazioni affettive e razionali che costituiscono il tratto distintivo della sua scelta di scrittura.
2  F. Di Legami: Vincenzo Consolo. La figura e l’opera. Marina di Patti, Pungitopo, 1990, p. 28. 3  Ibidem, p. 6. 4  Cfr. C. Ternullo: Vincenzo Consolo: dalla Ferita allo Spasimo. Catania, Prova d’Autore, 1998, p. 30. 5  F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 6. 6  V. Consolo: Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia. Roma, Donzelli Editore, 1993, pp. 51—53. (Dalla nota dell’editore: l’intervista a Vincenzo Consolo raccolta in questo volume è stata effettuata il 25 giugno del 1993 a Roma. L’incontro era stato organizzato dall’Imes (Istituto meridionale di storia e scienza sociali), nall’ambito di una iniziativa intitolata “Percorsi di ricerca”, tesa a indagare l’interazione tra la vicenda umana e l’itinerario intellettuale di alcune figure particolarmente significative della cultura del nostro tempo).
L’esigenza dell’impegno.  A ben vedere i tratti che segnano le opere consoliane sono caratterizzati da una propria articolazione della realtà attraverso una comunicazione più immediata e da una responsabilità etica e civile: la presenza di ciò che ha contraddistinto la maggior parte della sua esistenza. Non sarà un caso che all’interno dell’opera il pensiero sul ruolo della produzione letteraria si presenti con frequenza: accompagnato dal senso di una necessità naturale e spesso corretto da una speranza nella capacità della scrittura di mettere ordine e di “portare armonia là dove c’è caos e quindi impossibilità di comunicare”7 . Si pensi alla confessione dello scrittore stesso: “La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo”8 . Le allusioni a David e a Don Chisciotte mettono in rilievo la consapevolezza che la riflessione e la scrittura, e soprattutto una scrittura eticamente e politicamente impegnata, sono una missione. All’atteggiamento di una tale consapevolezza sono dedicate tutte le narrazioni consoliane. Secondo Vincenzo Consolo la narrativa dovrebbe esprimere una responsabilità civile e prendere posizione davanti agli avvenimenti. L’accostamento della scrittura e della responsabilità testimonia la sua personale forma di opposizione o di impulso verso qualcosa di migliore. Quello che conta nelle opere consoliane sono la verosimiglianza dell’osservazione morale, la consapevolezza ritradotta in disincanto e in frustrazione delle speranze, la ribellione, e infine, l’indagine. È possibile comprendere più a fondo le scelte espressive di Consolo confrontando il presente frammento: […] lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare. Narrare oggettivamente in terza persona dei mostri, delle mostruosità che abbiamo creato, con cui, privi ormai di memoria, di rimorso, pri
7  L. Canali: Che schiaffo la furia civile di Consolo. “L’Unità” 1998, il 7 ottobre, pp. 1, 19. 8  V. Consolo: Fuga dall’Etna…, p. 70. 40
vi dell’assillo di raggiungere una meta, da alienati, felicemente conviviamo 9 . Per accrescere la forza espressiva della riflessione, Consolo aggiunge al generico e spoglio verbo “narrare” l’avverbio: “oggettivamente” che non solo mostra la direzione dell’accurato lavoro di chi scrive ma rivela la stretta connessione fra il messaggio e la responsabilità dell’esistenza altrui. La preoccupazione dell’avvenire, che interessa scarsamente l’uomo mentre gode dei piaceri mondani, è infatti sollecitata dall’acre percezione del dolore subito nel passato. Il frammento sopraccitato indica il coinvolgimento degli intellettuali nell’ordine etico, determinando gli accessibili modelli della presentazione. Molte volte viene sottolineato il fatto che quello che sconcerta il lettore è che non vi è stata giustizia in passato e non vi è nemmeno nel presente. Fortunatamente esiste ancora chi non si arrende. Il protagonista del capolavoro consoliano Il sorriso dell’ignoto marinaio, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca dichiara la crisi irreversibile del suo ruolo di intellettuale organico alla classe dominante: la consapevolezza di una “Storia come scrittura continua di privilegiati” (SIM, 112), di un’impossibilità delle classi subalterne a far sentire la loro voce e il loro giudizio, si salda alla consapevolezza dei “vizi” e delle “storture” che gravano sui pensieri e sulle parole degli stessi aristocratici e borghesi “cosiddetti illuminati”, dell’oggettiva incapacità dei loro “codici” a “interpretare” i problemi delle masse oppresse10. Dunque l’attaccamento all’esperienza della giustizia deve affrontare continuamente il pensiero della frustrazione e con la temibile insidia della debolezza. Se il pensiero della sconfitta può essere solo attenuato dal grido e dal pianto, sempre pronto a svelare gli indegni comportamenti umani, il rimedio all’impotenza va cercato altrove. Si legga l’ampio pensiero di Giuseppe Amoroso: Nella prosa di Vincenzo Consolo, quello che appare e percuote e grida e geme è una presenza vera di lacrime e certezze e anche
9 Ibidem, p. 22. 10 Cfr. G.C. Ferretti: L’intelligenza e follia. “Rinascita” 1976, il 23 luglio. L’esigenza dell’impegno 41 un assiduo riprendere, del tempo, ciò che si è smarrito, non del tutto, non per sempre, portandosi dentro anche i gloriosi cascami della storia […], questa prosa mostra una solennità intangibile, pure dove si china sulle frange, sui refoli, sui margini, in cerca di colori e oggetti e riti di una volta11. Dopo aver constatato che l’espressività di questa prosa è dovuta all’argomento analizzato, Amoroso prosegue con la descrizione della scrittura consoliana marcata da una funzione inconfondibile. Il vuoto e l’insoddisfazione dovuti all’avanzare dell’ingiustizia si placano nella convinzione che “la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare i mostri creati dai potenti. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità”12. Tramite l’analisi presentata il critico vuole decisamente sottolineare l’atteggiamento spirituale piuttosto romantico dello scrittore e l’espressione dei pensieri come studiata e ripensata. Nell’insieme, la produzione consoliana, secondo Amoroso, ha una sua solida struttura, e fa presagire le future ampiezze di respiro lirico. I cinque romanzi sottoposti alla presente analisi sono stati scritti nell’arco di oltre trent’anni. La circostanza, ad avvalorare l’immagine di instancabile ribelle che Consolo ha lasciato di sé, non manca di presentare traccia nella varietà degli argomenti, e dei punti di vista che sono diventati i motivi costanti nella sua scrittura. Spesso si ha l’impressione che l’omogeneità della sua prosa risponda a un’intima esigenza di impegno etico, civile, ideologico e sperimentale. Queste considerazioni, se non illustrano organicamente la poetica della sua prosa, meritano di essere tenute in conto per comprendere, se non altro, i tempi adombrati dai fantasmi delle oppressioni descritte dallo scrittore siciliano. Con Nottetempo, casa per casa in Consolo subentra una rimeditazione, una sosta pensosa sui fatti, sui luoghi, la denuncia. Il testo si basa sulla deliberata ricerca del clima apocalittico, preannunciato dal titolo, e sul resoconto mai banale della pena più antica del tempo, della storia, dell’esistere. Come con
11 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea. Narrativa italiana 1996—1998. Caltanissetta—Roma, Salvatore Sciascia editore, 2000, pp. 464—467. 12 V. Consolo: Fuga dall’Etna…, pp. 51—53. 42
stata Antonio Grillo, abbiamo la forte affermazione della necessità di un impegno da parte degli scrittori13. E Consolo, parlando delle questioni di moralità, vuole sensibilizzare la percezione dei lettori. Silvio Perella, accortosi di tale valenza etica, aggiunge: “il fatto è che, giustamente, l’aspetto etico della sua letteratura sta molto a cuore a Consolo”14. Sa bene lo scrittore che la forza e l’incisività del suo messaggio stanno nell’immediatezza del comunicato espressa dalle narrazioni nei suoi frammenti più drammatici. Il che costituisce, se non una prova del rivolgere la sua attenzione alle sorti degli emarginati, certo una riflessione eloquente sul bisogno di narrare, di raccontare le vecchie e le nuove pene. E nella torre ora, dopo le urla, il pianto, anch’egli stanco, s’era chetato. Si mise in ginocchio a terra, appoggiò le braccia alla pietra bianca della macina riversa di quello ch’era stato un tempo un mulino a vento, e cercò di scrivere nel suo quaderno — ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento. N, 53
La caratteristica principale di quest’articolazione non è la spontaneità peculiare piuttosto dei romantici, ma lo sforzo di trovare le parole più adatte. Grazie al potere di nominare i fenomeni, precedentemente impossibili da esprimere, acquistano l’esistenza, e in conseguenza la propria identità. La forma lirica invece assume una responsabilità che rende possibile l’esistenza di un soggetto e la cognizione di esso. L’anticlimax: “catrame — lava — ossidiana — polvere — cenere — nulla” sottolinea la vanità dello sforzo artistico nei confronti della prepotenza e del dolore che ostacolano il processo creativo. Vengono qui evidenziati, quindi, un appassionato attacco
13 Cfr. A. Grillo: Appunti su Odisseo e il suo viaggio nella cultura siciliana contemporanea: da Vittorini a Consolo e a Cattafi. In: Ulisse nel tempo. La metafora infinita. A cura di S. Nicosia. Venezia, Marsilio, 2000, pp. 593—597. 14 S. Perella: Tra etica e barocco. “L’Indice” 1992, maggio.
all’ingiustizia che assume valore universale, la contradditoria asistematicità di un ricerca esistenziale che non esita a dar voce anche alle pulsioni inconsce e persino alle più inconfessabili, confermata nell’elenco degli espedienti retorici che precedono direttamente l’espressione finale dell’impotenza di “raccontare la vita, il patimento”. Si potrebbe dire che la scrittura si ponga piuttosto come terreno di conflitto che come luogo della sua soluzione. L’esigenza di messaggio è indubitabile15. La caustica riflessione dello scrittore sigla l’amara ricognizione sulle cause della caduta delle forti e generose illusioni riguardanti le facoltà comunicative. Infatti, in una delle sue interviste Consolo dichiara: È necessario scrivere in una forma non più dialogante e comunicativa, ma spostarsi sempre più verso la parte poetica, perché la poesia è un monologo e quindi ti riduci nella parte del coro dove non puoi che lamentare la tragedia del mondo. Per questo la mia prosa è organizzata in senso ritmico, come se fossero dei versi16. Nottetempo, casa per casa è, in confronto al Sorriso dell’ignoto marinaio, più compatto, più chiuso in una sua forma ritmica, densa di significati e piuttosto ermetica. E continua: Ho voluto scrivere una tragedia — niente è più tragico della follia — con scene-capitoli, con intermezzi del coro, che sono le frequenti digressioni lirico-espressive in cui il narrante s’affaccia e commenta o fa eco in un tono più alto, più acceso. Perché questo compattare, perché l’eliminazione della scena del messaggero, dell’anghelos, del personaggio-autore che si rivolge agli spettatori-lettori e narra in termini non espressivi ma assolutamente comunicativi il fatto che è avvenuto altrove, in un altro tempo?
17 15 Cfr. L. Canali: Che schiaffo…, pp. 1, 19. 16 Intervista con Vincenzo Consolo. A cura di D. Marraffa e R. Corpaci. “Italialibri” 2001, www.italialibri.it (data di consultazione: il 28 dicembre 2006). 17 Ibidem.
Infatti, lo spunto questa volta è tragico; ma quell’antica ispirazione malinconica diventa antitetica, forse per reminiscenze classiche di simile allegoria a sfondo politico. E specialmente nella sua espressione contiene l’eco della giovinezza povera, triste, ma fiera e disperatamente fiduciosa. Sullo sfondo, per di più, è impossibile non intravedere la forza di questo progetto. La presa di posizione dello scrittore a favore della poesia potrebbe essere interpretata come un attacco a un preciso bersaglio critico. Se la scienza fornisce un’immagine del mondo in cui non c’è posto per le antiche credenze metafisiche, gli strumenti proposti attualmente si rivelano inutili, se non addirittura fuorvianti. L’obbligo di dare ragione Nati sul filo della conversazione del passato con il presente, i romanzi consoliani sono intessuti di quella curiosità intellettuale che si pone l’obiettivo di raccontare la realtà. Le narrazioni dello scrittore concorrono ad elaborare il comune problema delle vicende dell’uomo di cultura nel quadro della società odierna. Un compito arduo, tanto che molti scrittori di oggi assistono alla progressiva riduzione del proprio spazio in una società che vive accanto, al di fuori delle loro possibilità. Sembra concentrarsi all’efficacia di testimonianza e di verifica e alla partecipazione dell’individuo all’esistenza comunitaria. Secondo Grazia Cherchi “il narratore intellettuale del nostro tempo non ha altro scampo che la parodia”18, e l’autore è d’accordo con lei: lo scrivere in negativo, usare tutti gli abrasivi e corrosivi: l’ironia, il sarcasmo testimoniano il valore delle opere19. Consolo stesso ammette:
18 G. Cherchi: Mille e una notte. “L’Unità” 1987, il 11 novembre. 19
Come verrà verificato nelle analisi successive, Vincenzo Consolo valorizza la prospettiva intertestuale e la parodia come forma specifica di un dialogo tra i testi che è diventata una delle sue tecniche preferite a cui ricorre. Lo scrittore nella maggior parte dei casi realizza questo ‘dialogo’ intertestuale riprendendo la voce altrui e reinterpretandola antiteticamente rispetto al testo di origine.
Cfr. M. Billi: Dialogo testuale e dialettica culturale. La parodia nel romanzo
Costruendo storie che erano una parodia della realtà, ma di una penetrazione e di una tale restituzione della verità che riuscivano ad anticipare lo svolgimento della realtà stessa, ad essere profetiche. La stessa cosa fece Pasolini, fuori della finzione letteraria, della parodia, con i suoi interventi sui giornali, con la forza dei suoi j’accuse, delle sue provocazioni e delle sue requisitorie, dei suoi Scritti corsari. Non li rimpiangeremo mai abbastanza questi due scrittori civili italiani. Nel mio pendolarismo tra la Sicilia e Milano c’è, prima di tutto, la mia vicenda umana, la mia storia di vita, che poi forse diventa vicenda intellettuale e letteraria 20. Questa coscienza estetica e letteraria nell’ambito della quale l’autore cerca di delineare la funzione e il significato delle componenti della cosiddetta “poetica negativa”21 si inscrive nella specificità della letteratura moderna. I protagonisti dei romanzi consoliani rappresentano un catalogo di atteggiamenti diversi orientati verso la lotta contro l’ingiustizia: l’angustia di Gioacchino Martinez ha accanimenti feroci: trovare un senso, placare un malessere, imboccare una “cerchia confidente”22, invece la presa di coscienza del Mandralisca, in realtà, manifesta la sua interna fecondità e incidenza a un livello diverso e anche più profondo 23. Prende così corpo una vicenda romanzesca non organicamente distesa ma articolata in alcuni episodi emblematici, funzionali del protagonista: un aristocratico di provincia, sincero ma cauto patriota, innamorato dell’arte e dell’archeologia, dedito soprattutto agli studi di erudizione scientifica. Proprio a costui accade di trovarsi spettatore degli eccidi di Alcara Li Fusi; ed è appunto la sua vocazione umanistica a consentirgli di capire la giustizia profonda contemporaneo di lingua inglese. In:
Dialettiche della parodia. A cura di M. Bonafin. Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997, p. 213. 20 V. Consolo: La poesia e la storia. In: Gli spazi della diversità. Atti del Convegno Internazionale. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992. Leuven — Louvain-la-Neuve — Namur — Bruxelles, 3—8 maggio 1993. Vol. 2. A cura di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bossche. Roma, Bulzoni, 1995, pp. 583—586. 21 R. Nycz: Literatura jako trop rzeczywistości. Kraków, Universitas, 2001, p. 17. 22 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea…, pp. 464—467. 23 Cfr. G.C. Ferretti: L’intelligenza e follia…
che anima la rivolta contro una legge di oppressione 24. Degna di nota è, senza dubbio, l’attenzione alla dimensione simbolica dei contenuti narrativi riguardanti gli atteggiamenti dei protagonisti, aspetto che lo scrittore non trascura, data la sua conoscenza delle questioni letterarie non solo dell’età antica ma anche della moderna. Ma Consolo collega l’aspetto simbolico e reale del problema nella convinzione che la letteratura dovrebbe conoscere il mondo e dare ragione e nome ai disastri dei nostri tempi. E secondo Giulio Ferroni dovremmo essergli grati “di questi lumi che vengono a rischiarare il nostro tempo cupo e notturno, la nostra notte fantasmagorica e telematica”25. Anche nello studio del passato la curiosità ha un peso considerevole, tanto da costruire un originale canone. Secondo Andrea Zanzotto la narrazione in questo caso non è un soliloquio, è sempre un rivolgersi ai molti che sicuramente partecipano ad una passione; anzi è quasi una preghiera rivolta a non si sa chi o che cosa, mormorata e insistente, interrotta da pause legate ad un loro tempo musicale, e in essa pare si salvaguardi almeno l’unità dell’io, di ogni “io” minacciato dall’oscura follia che irrompe fin dal primo stralunante racconto 26. I romanzi consoliani danno degno compimento a un’attività vissuta all’insegna della convinzione basata sul senso di giustizia, confermando quanto fosse ancor viva e inappagata nel loro autore la naturale propensione a parlare al posto altrui, al posto degli oppressi perché estranei al mezzo linguistico usato negli strati acculturati, il quale, precisa Christophe Charle “non permette loro di esprimere le proprie ragioni, e nemmeno le proprie speranze e la propria disperazione”27. I romanzi di Consolo costituiscono una traversata dei luoghi dell’impostura e cioè delle istituzioni: chiesa, scuola, famiglia, amministrazioni della giustizia, partito. L’argomento ricorrente è quello di fare conti con le credenze imposte o che s’impongono.
24 Cfr. V. Spinazzola: Un discorso facile e difficile. “L’Unità” 1976, il 4 luglio. 25 G. Ferroni: La sconfitta della notte. “L’Unità” 1992, il 27 aprile. 26 Cfr. A. Zanzotto: Vincenzo Consolo: ‘Le pietre di Pantalica’. In: Scritti sulla letteratura. Aure e disincanti nel Novecento italiano. Vol. 2. A cura di G.M. Villalta. Milano, Oscar Mondadori, 2001, pp. 308—310. 27 Per le idee di Consolo sull’impegno letterario si veda la sua introduzione a C. Charle: Letteratura e potere. Palermo, Sellerio, 1979.
Scrittore — testimone — osservatore  Scrittore — testimone — osservatore Senza dubbio gli scritti di Consolo continuano a evidenziare la tensione fra l’autore e il testo, a sottolinearla, a tal punto che, tutta l’opera sembra apparire come una metafora dell’impossibilità di padroneggiare in modo assoluto del proprio testo. Questa inquietudine percorre l’opera di Consolo e unifica i suoi aspetti tematici. Se si scorrono i romanzi consoliani non si tarda ad accorgersi dei frutti dolceamari dell’esplorazione di larga parte della storia italiana. Nello sguardo mobile, accorto, pungente che lo scrittore volge al mondo contemporaneo c’è un relativismo prospettico, non nuovo nel suo pensiero, ma nutrito nello scrittore siciliano di affabile cultura e sostenuto da esperienze vissute. Nelle narrazioni di Consolo le funzioni di scrittore e di interprete si sono trovate accomunate nella medesima situazione. Non ci sono più le garanzie che consentono un’indipendenza e un’autenticità alle funzioni indicate o se sia possibile il ritorno ad un loro ruolo spirituale e umanistico. La diretta esperienza dei variegati costumi umani aiuta a comprendere la labilità dei parametri di giudizio. Consolo ha sempre agito come una memoria attenta e sensibile del passato che viene accostato agli avvenimenti più recenti di cui egli è testimone e interprete. In Nottetempo, casa per casa Consolo stabilisce implicitamente un nesso tra l’Italia degli anni Venti e quella degli anni Settanta, così come nel Sorriso dell’ignoto marinaio tra il Risorgimento e gli anni Sessanta e nello Spasimo di Palermo tra gli anni Trenta e l’inizio degli anni Novanta, con le morti di Falcone e Borsellino. Rossend Arqués parla direttamente delle fasi storiche, tutte segnate da successive cadute della società isolana e continentale in un pozzo senza uscita e senza possibilità di riemersione 28. Ma è proprio la prospettiva questo fattore decisivo da cui si guarda alle opinioni degli uomini a mettere in crisi le false certezze. La testimonianza di Consolo ha un significato particolare se inserita nel
28 Cfr. R. Arqués: Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia: “Nottetempo, casa per casa” di Consolo. “Quaderns d’Italià” 2005, n. 10, p. 80. 48 
coevo dibattito sull’identità della cultura moderna e l’importanza del contributo del passato. L’oggettività è per lo scrittore un’autentica misura dell’impegno, in letteratura come nelle belle arti, e discrimina la percezione fenomenica e i processi cognitivi sottolineando la dimensione “forte” della letteratura. Questa convinzione trova la sua conferma nella constatazione consoliana secondo la quale lo scrivere diventa un confronto con la materia viva e la materia morta. Lo scrittore non vuole esclusivamente accettare l’immagine convenzionale della realtà conservata nelle abitudini e nei rituali. Tale punto di vista determina l’obiettivo fondamentale che, secondo Consolo, si realizza solo nella scrittura come l’unica possibilità di testimonianza, di protesta, e persino di riscatto. L’artista, attraverso l’arte della parola, registra la realtà inafferrabile fino ai tempi odierni, mostrandone la forma e l’importanza. L’ibridazione dei generi e dei codici serve a moltiplicare i punti di vista. Uno sguardo nostalgico alla memoria dei linguaggi in via d’estinzione vuole sottolineare una relazione tra stabilità e movimento, tra parola e immagine, tra superficialità e profondità simbolica. Il segno distintivo di un vero artista è proprio la facoltà di cambiare la parola in un elemento più sostanziale, più tangibile. Dunque la scrittura per Consolo può assumere diverse funzioni, anche quella confortativa, come nel caso di Petro, protagonista del romanzo Nottetempo, casa per casa. “Uuuhhh…” ululò prostrato a terra “uuhh… uhm… um… umm… umm… umm…” e in quei suoni fondi, molli, desiderava perdersi, sciogliere la testa, il petto. Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza. Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno…” scandì come a voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento in cui nulla era accaduto, nulla perduto ancora, la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo. N, 38—39
Scrittore — testimone — osservatore
Questo frammento parla del grido, o meglio dell’urlo della Sicilia dolente che soffre di un male antico, raccolto da sempre da Consolo, tenuto sempre dentro, prima fatto vedere, ora esploso irrimediabilmente, anche se momentaneamente stemperato, alla fine del frammento, da questo chiasmo “la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo”29. L’espressione artistica che trova la realizzazione nella scrittura diventa nella narrativa consoliana la testimonianza di una realtà che non è più trasparente e che di conseguenza genera una sensazione di incertezza e di mancanza di stabilizzazione. Il conforto è sempre la scrittura: raccontare può essere cedimento, debolezza, mentre ritirarsi in se stesso e tacere forse più vale. È la parallela alla lontananza geografica che a Petro sembra essere necessaria per avere dentro sé la chiarezza del dolore, e per riuscire a raccontarne30. Una forte credenza nell’ordine nascosto dei valori rende la scrittura consoliana responsabile ed eticamente stabile. Grazie a questa denotazione assiologica delle sue narrazioni, Consolo viene considerato lo scrittore dei campi esclusi dalla realtà non solo storica ma anche presente. I momenti delle narrazioni che riflettono sulle vicende umane evocano la pluralità delle circostanze in cui si verificano diversi atti abusivi. Il ridimensionamento della dignità umana imposto dagli sconvolgenti avvenimenti degli ultimi due secoli è analizzato con lo sguardo limpido e disincantato dell’uomo di ragione: il permanere di una giustizia-fiducia insiste nel fatto stesso dello scrivere, che colma, secondo Andrea Zanzotto, fa spazio, fa riapparire radici e racconta di una realtà siciliana divenuta, nonostante le molte sue luci, sempre più emblematica di una delle più devastanti malattie della società e della storia31. Ma l’intellettuale che spoglia l’universo del fascino della sicurezza superficiale pare consapevole dell’irreparabile perdita delle “favole antiche”. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio il punto di vista narrante nonché la voce etico-politica sono affidati non ad un personaggio del popolo ma ad un nobile siciliano, il barone Enrico Pirajno di 29
C. Ternullo: Vincenzo Consolo…, p. 56. 30 Cfr. S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro…, p. 64. 31 Cfr. A. Zanzotto: Vincenzo Consolo…, pp. 308—310.
Mandralisca. Questi, pur essendo un aristocratico, non è “un pazzo allegro o un imbecille”, né tantomeno un intellettuale scettico e malinconico come, per esempio, il principe di Salina nel Gattopardo. Consolo polemizza idealmente con il modello proposto da Tomasi di una cultura “della crisi”. Flora Di Legami aggiunge che anche il barone di Mandralisca è animato da un criticismo smagato, ma non rinuncia alla fiducia in possibili trasformazioni sociali a favore degli oppressi32. Consolo, come autore moderno, è autonomo e il suo sapere non lo si può staccare dalle sue primarie condizioni linguistiche, culturali, empiriche e soggettive. Rendendosi conto delle conseguenze di questa dislocazione, lo scrittore cerca di stabilire il nesso tra il ruolo dell’intellettuale e l’importanza della cognizione. Rimanendo dunque ben conscio della varietà delle impressioni umane e della loro incongruenza Consolo, attraverso la narrazione dei fatti esclusi dalla versione ufficiale della storia del Risorgimento italiano, vuole mettere in rilievo l’importanza del fondamento gnoseologico e dei principi della conoscenza. Per precisare la definizione dell’atteggiamento ideologico di Consolo, vale la pena rievocare la constatazione di Linda Hutcheon che la sua “è una riscrittura consapevole e autoriflessiva della scrittura storiografica tradizionale”33. A ribadire questa sembra valido ricorrere a Vittorio Spinazzola che rievoca Consolo stesso: “Non siamo innocenti, questo è certo; si cerca di evitare, per quanto possibile, la malafede e la menzogna”. Sarebbe difficile non essere d’accordo con Sebastiano Addamo, che vede in Consolo la continuazione di una preminente direzione verso l’esterno, verso il mondo e l’uomo, dato che il suo punto di partenza è una fede disperata, “una fede a onta di tutto e nonostante tutto”34. Però è altrettanto vero che, anche se lo scrittore usa la terza persona per narrare, si immedesima con i suoi protagonisti parlando dei problemi del mondo attuale 35.
32 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, pp. 23—24. 33 Cfr. L. Hutcheon: A Poetics of Postmodernism, History, Fiction, Theory. London, Routledge, 1988. 34 S. Addamo: Linguaggio e barocco in Vincenzo Consolo. In: Idem: Oltre le figure. Palermo, Sellerio, 1989, pp. 121—125. 35 Ibidem.
In questa riflessione, oltre che un rifiuto alle deduzioni spesso ostentate dai critici di professione, vi è percepibile anche la fiducia nelle risorse della facoltà autocritica. Lo conferma la constatazione seguente di Vittorio Spinazzola, tale da indurre a un sensibile ottimismo sulla disponibilità emotiva degli intellettuali illuminati a schierarsi dalla parte del proletariato 36. Nella prosa consoliana vi è un aspetto edificante privo dell’amarezza provocatoria peculiare degli scrittori siciliani. Lo spostamento verso il Nord costituisce la condizione indispensabile dell’avventura culturale di Consolo, necessaria all’acquisizione e alla comunicazione del sapere. Il motivo dello spostamento nei suoi romanzi si rivela, allora, il luogo privilegiato per raccogliere testimonianze sulla relatività, l’incongruenza, la sproporzione, la fragilità delle categorie umane nel tempo circoscritto. Elena Germano osserva acutamente che la Sicilia rappresentata nel primo romanzo di Consolo, intitolato La ferita dell’aprile non è “una dimensione geografica: essa è soprattutto la dimensione morale che caratterizza l’esistenza dei personaggi di questa storia, che ne condiziona i rapporti con la realtà e le reazioni”37. Il relativismo prospettico in cui Consolo si mostra esperto non impedisce, dunque, di stabilire un rapporto fra le discordanze, perché dal parallelo e dalla comparazione nasce la curiosità, la conoscenza e la comprensione. I testi consoliani diventano strumenti della critica della modernità, delle sue illusioni e della cultura moderna. Tale poetica può riprendere la problematica dell’esperienza sia esteriore che interiore servendosi della metafora dello sguardo. L’osservazione dei costumi e degli stereotipi del carattere regionale si congiunge alla massima efficacia espressiva in alcuni frammenti della prosa consoliana. La pratica degli uomini, l’interesse per l’esplorazione e gli scambi si organizzano in sequenze collegate fra loro come nelle parti dedicate alle dolorose sorti dei protagonisti, e una ricca panoramica delle scoperte di diverse abitudini. Giusta
36 Cfr. V. Spinazzola: Un discorso facile e difficile… 37 E. Germano: Politica e Mezzogiorno, I, 2 (aprile—giugno 1964). In: A.M. Morace: Orbite novecentesche. Napoli, Edizioni Scolastiche Italiane, 2001, p. 193.
mente si accorge di questa caratteristica Elena Germano: “La seduzione della scrittura consoliana agisce soprattutto sull’aspetto visivo, gioca con l’immagine, lo stimolo ottico38”. Consolo pone al centro del suo secondo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, una rinnovata inchiesta sul rapporto potere— classi subalterne e sul conseguente nodo fra scrittura e oralità, che egli presenta come espressione di un divario sociale. Flora Di Legami constata addirittura che all’acutezza della ragione, esemplata metaforicamente nell’ironico sguardo dell’ignoto marinaio, il narratore affida il compito di denunciare le “imposture” della storia39. In un osservatore così acuto e aggiornato è forte la consapevolezza dell’integrazione esistente ormai fra i mondi diversi, tale da creare persino una certa conformità nell’atteggiamento mentale. Nel suo primo romanzo, La ferita dell’aprile lo sguardo memoriale del narratore e quello reale dell’adolescente che osserva e filtra la realtà degli adulti (con i suoi problemi e contrasti), conferiscono alla narrazione un timbro favoloso e insieme vivido40. Il mese di aprile, ferito e dolente, diventa metafora di una giovinezza difficile e sofferente. Questo espediente retorico della “natura che sente” non è originale, dato che l’hanno già adottato i romantici e poi, tra gli altri, Eliot a cui Consolo ha attinto direttamente41. L’obiettivo principale era quello di conserva
Si veda ad esempio il contributo già citato di Geerts sui sapori della cucina consoliana e i numerosi passi del romanzo dedicati ai piaceri culinari (fra l’altro, pp. 45, 51, 56—57). Cfr. W. Geerts: L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo. In: Soavi sapori della cultura italiana. Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.P., Verona/ Soave, 27—29 agosto 1998. Ed. B. Van den Bossche. Firenze, Cesati, 2000. 39 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 22. 40 Ibidem, p. 14. 41 Oltre al titolo del romanzo di debutto La ferita dell’aprile, pure nell’ultimo romanzo Lo spasimo di Palermo vi è evidente una forte presenza della poetica di T.S. Eliot: “Let us go then, You and I, / When the evening is spread out against the sky…” [Allora andiamo, tu ed io, Quando la sera si stende contro il cielo…] (T.S. Eliot: Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock. In: Idem: Opere 1904.1939. Milano, Bompiani, 2001, pp. 277—285).
Consolo introduce, nell’originale inglese, il verso eliotiano alla fine del quinto capitolo del romanzo per mettere in rilievo la scomparsa di ogni speranza, la mancanza della ragione e la conclusione del nòstos (non vi mancano i riferimenti al capolavoro omerico), del ritorno alla terra di origine. 53 l’influsso della natura di cui parlava anche Walter Benjamin42. Tale esperienza poetica ammette il fenomeno della “reciprocità sensuale” e trasgredisce i limiti di una semplice antropomorfizzazione e tende a rovesciare la prospettiva e la percezione. L’uomo viene percepito da un punto di vista non più umano, tuttavia non “disumano”. Le descrizioni penetranti si realizzano grazie alla lingua che non parla ma guarda e con l’occhio ammassa diversi elementi componendone un mosaico variopinto. Angelo Guglielmi costata che i romanzi di Consolo assomigliano a una sorta di magazzino che non conserva esemplari scelti o in qualche modo preziosi ma semplici cose gravi di tutta la materialità del quotidiano43. A paragone di molte osservazioni di costume, sfruttate dallo scrittore per la sua indagine morale, non sono poche nei romanzi le descrizioni di paesaggi legati alla memoria autobiografica, come ad esempio quella presente nel romanzo intitolato Retablo che è un autentico elogio della Sicilia, terra di nascita dello scrittore. Questo testo è permeato dalla presenza di chi apprezza la bellezza e le sue rappresentazioni nelle arti figurative. La retorica dello sguardo, e in particolare lo sguardo del pittore, legge la realtà nel corso del viaggio. Il protagonista del romanzo è un pittore, che vede uomini, palazzi, rovine e paesaggi con spiccata sensibilità visiva e professionale. Dato che non si tratta di un pittore immaginario ma di uno dei più vivaci esponenti del surrealismo e della pittura metafisica e visionaria italiana contemporanea, Fabrizio Clerici, fatto rivivere indietro nel tempo, per virtù fantastorica, in un’età carica di accensioni barocche e romantiche, la narrazione assume una dimensione più verosimile44. Attento osservatore dei costumi, Consolo dedica un’ampia parte della sua narrazione alla riflessione sulla natura umana. piamento eseguito da Consolo tra il protagonista e la voce narrante interrompe il necessario distacco perché possa instillare l’autobiografia intellettuale nella finzione romanzesca.
Cfr. W. Benjamin: O kilku motywach u Baudelaire’a. Przeł. B. Surowska. „Przegląd Humanistyczny” 1970, z. 6, p. 113. 43 Cfr. A. Guglielmi: A cuore freddo. “L’Ora” 1978, il 12 maggio. 44 Cfr. R. Ceserani: Vincenzo Consolo. Retablo. “Belfagor” [Firenze] 1988, anno XLIII, p. 233. 54 
Mentre andavo, al vespero, per la strada Aragona, col mio passo spedito, sudato per il cammino lungo e per il peso grave delle bisacce, le campane della Magione sonarono l’Avemaria. M’impuntai e dissi l’orazione. Quando, alla croce, mi sentii chiamare: “Frate monaco, frate monaco, pigliate”. E vidi calare da una finestra un panaro con dentro ‘na pagnottella e un pugno di cerase. “Pe’ l’anima purgante del mio sposo”. Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei. R, 21 La descrizione del primo incontro del frate Isidoro con Rosalia assume caratteri antitetici e ugualmente positivi. Due sono le indicazioni che si possono trarre dal raffronto presentato nel frammento scelto. Da un lato, l’osservazione morale muove da una persuasa e matura consapevolezza delle contraddizioni e dei limiti dell’uomo. Il frate rimane assorto nelle preghiere e dedito alla sua vocazione fino al momento in cui vede, per un istante solo, una bellissima fanciulla. Le sue qualità riferite a quelle di un angelo rievocano un modo di paragonare peculiare per gli stilnovisti. Dall’altro, Consolo è portato a credere che le qualità morali si manifestino con maggiore chiarezza e in modo positivo solo nell’interazione sociale. L’abbandono del servizio spirituale a favore di quello secolare, mostra la figura di Isidoro nella sua umanistica pienezza. Se fra i romanzi si prendono in esame i momenti in cui si riflette sugli ambiti morali, sui sentimenti e sui comportamenti umani, s’impone con evidenza una costante significativa: il ricorso al linguaggio della pittura e a formule enciclopediche per esprimere i risultati dell’analisi etica. Il che, naturalmente, non stupisce in uno scrittore così intimamente permeato dalla forma mentis logica, ma indica quanto sia importante conservare uno sguardo limpido e rigoroso nell’osservare anche i fenomeni morali. Quanto più Consolo concepisce come ambigua, volubile e sfuggente la psiche umana, tanto più prova a definirla con l’aiuto di immagini semplici, essenziali, analitiche.

Si pensi al paragone fra le proprietà dell’elenco naturalistico e le facoltà dei fenomeni uditivi: “mare che valica il cancello”, visivi: “nel cielo appare la sfera d’opalina”, olfattivi: “spande odorosi fiati, olezzi” e infine tattili: “che m’ha punto, ahi!”, presenti nel brano seguente: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi, distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. R, 17 A tale esigenza di chiarezza si presta particolarmente la struttura logico-espressiva dei paragoni, che è modello molto frequente nella narrativa di Consolo. Come nel caso del protagonista del romanzo intitolato Retablo, Fabrizio Clerici: la sconfinata facoltà visionaria, la capacità di fare esplodere attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia diventa il mezzo diretto della rappresentazione della realtà45. “All’artista non rimane che guardare da lontano” — come afferma in Retablo don Gennaro, maestro di canto: “Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta con invidia, con nostalgia struggente allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti” (R, 197). Non è la prima volta che Consolo sceglie un quadro per dare l’avvio a un romanzo: nel Sorriso dell’ignoto marinaio si trattava di un dipinto di Antonello da Messina, qui, al centro della vicenda si trova il dipinto a scomparti, a scene,
45 Cfr. L. Sciascia: Cruciverba. Milano, Adelphi Edizioni, 1998, p. 43. 56
questo quadro delle meraviglie che incanta i popolani e che è poi una citazione da Cervantes. Come la parola stessa “retablo” suona misteriosamente, così anche i quadri dipinti da Fabrizio Clerici risultano misteriosi perché sembra che rappresentino sogni e incubi. In questo contesto bisogna essere d’accordo con Paolo Mauri, secondo cui, in effetti, il pittore diventa narratore di un’altra realtà46. Sotto lo splendore del clima barocco è molto visibile la trama drammatica dell’amore insoddisfatto. Basta affinare lo sguardo e osservare senza pregiudizi l’intreccio per comprendere le reali motivazioni dell’agire, le ragioni o i torti della morale. La scrittura per quadri, per scene successive, facilita all’occhio indagatore una penetrazione ai margini dei fatti che costituiscono la vera e propria prassi della narrazione. L’adottata da Consolo retorica dello sguardo viene rafforzata dal procedimento straniante. Nel frammento sopraccitato il richiamo all’atteggiamento distante enfatizza le inconciliabili: “invidia” e “nostalgia”. Sintomo delle ambivalenze radicate nella morale è anche l’uso disinteressato dell’espressione: “ai margini, ai bordi della strada”. La distanza che domina in questo caso il comportamento conduce a conseguenze paradossali: secondo la convinzione comune l’artista, e specialmente il pittore dovrebbe avvicinarsi all’oggetto, qui invece la meta risulta inafferrabile. Per questa ragione Consolo, studioso e appassionato divulgatore di pittura, cerca di conciliare le argomentazioni della “logica comune” con i procedimenti delle “arti figurative”, accreditando ad ambedue la propria fiducia. Invece nel quadro tracciato dal romanzo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio la doppiezza della morale e l’inautenticità della vita risaltano con netta evidenza grazie all’espediente formale della sproporzione, nuovamente fondata sullo snodo del paragone nel frammento seguente: Entrò nello studio assieme a Interdonato e chiuse la porta dietro le spalle. […] “Sto solo attendento adesso a un’opera che riguarda la generale malacologia terrestre e fluviatile della Sicilia che da parecchio tempo m’impegna fino in fondo e mi procura 46
Cfr. P. Mauri: Consolo: sognando il passato. In: Idem: L’opera imminente. Diario di un critico. Torino, Einaudi, 1998.
affanno…” spiegò il Mandralisca buttandosi a sedere come stanco sopra la sedia dietro la scrivania. “E voi pensate, Mandralisca, che in questo momento siano tutti lì ad aspettare di sapere i fatti intimi e privati, delle scorze e delle bave, dei lumaconi siciliani?” “Non dico, non dico…” disse il Mandralisca un po’ ferito. “Ma io l’ho promesso, già da quindici anni, dal tempo della stampa della mia memoria sopra la malcologia delle Madonie…” “Ma Mandralisca, vi rendete conto di tutto quello che è successo in questi quindici anni e del momento che viviamo?” “Io non vi permetto!…” scattò il Mandralisca. SIM, 43 Al centro del dialogo, che procede in toni acri e pungenti, è il contrasto tra una cultura aristocratica e separata, “la malacologia terrestre e fluviatile”, di cui il barone siciliano si sentiva fiero e pago, e un’attualità di eventi (i moti risorgimentali del ’56 a Cefalù e poi l’insurrezione di Alcara nel ’60) rispetto ai quali non si poteva non prendere posizione. Qui la frase pronunciata dal barone si sostanzia di un paragone con la moderna ottica, per sottolineare l’illusorietà degli studi se rimangono distanti dalle questioni ordinarie della realtà. Al modello di necessità ed obbligo si affiancano alcune riflessioni di diverso tono, che correggono l’eccesso di autocritica del protagonista e incitano a seguire l’impulso delle passioni. L’inclinazione verso l’approfondimento del sapere e il fascino dell’avventura possono unirsi, in effetti, con l’attrazione per la giustizia e la dominazione della ragione. Attraverso il discorso del Mandralisca con l’Interdonato Consolo esibisce una convinzione morale rilevata dal rapido ammonimento e nello stesso tempo dalla domanda retorica. La lezione di Consolo va qui al di là dell’esempio stilistico: si tratta di un’affinità nell’indagare l’uomo con acume e ironia. Seguendo ottica adottata, con lo stesso spregiudicato realismo psicologico Consolo sostiene che nessun’azione è veramente pura, disinteressata e schietta allo sguardo di chi con la luce della mente vede addentro le cose. È il caso del padre di Petro, protagonista del romanzo Nottetempo, casa per casa sofferente di licantropia che attraverso questa forma di teriomorfismo rappresenta il dolore universale. Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la campagna. Un’ombra rotolò sotto la luna, tra i rovi e le rocce di calcare. Corse, uomo o bestia, come inseguito, assillato d’altre bestie o demoni invisibili. Ed eccitò col suo lamento, col suo latrar dolente, uccelli cani capre. Fu un concerto allor di pigolii di guaiti di belati quale al risveglio del mondo sull’aurora o al presentimento, per onde d’aria o il vibrare sommesso della terra, d’un diluvio rovinoso, d’un tremuoto. N, 6 Il padre del protagonista diventa vittima di forze incontrollabili causate da uno stato di depressione permanente e l’espressione terrificante del lato scuro della sua psiche viene accompagnato da una facoltà di ipersensibilità che gli permette di vedere e sentire le cose in un modo ben più profondo. Seguendo le ricerche di Julia Kristeva in merito, si può azzardare la constatazione che il depresso sia un osservatore lucido, che vigila notte e giorno sulle sue sventure e sui suoi malesseri, e l’ossessione di vigilanza lo lascia perennemente dissociato dalla sua vita affettiva nel corso dei periodi “normali” che separano gli attacchi melanconici47. Così assegnando allo sguardo un ruolo demiurgico, Consolo crede nell’efficacia dei buoni ammaestramenti e non dubita che il senso della vista possa indirizzare alla giusta percezione. Dall’accostamento fra morale e pittura risulta più chiara l’esigenza di consolidare la “purezza” e la “forza” di un’azione con la “libertà” e la “disinvoltura” della libera creazione. Un atteggiamento morale di natura può derivare da un’assidua applicazione che solo nell’uomo veramente abile si muta in una seconda natura.
47 Cfr. J. Kristeva: Sole nero. Depressione e melanconia. Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 52—53

Consolo e la Spagna

Cervantino contro i padri illuministi: Consolo e la Spagna

Sciascia, Moravia, Calvino, usciti dal fascismo e dalla guerra, avevano scelto la Francia dei lumi come cultura di elezione: Vincenzo Consolo opponeva loro il dissesto del mondo e la dolce follia rappresentati dai classici spagnoli, in primis Cervantes

Vincenzo Consolo nel 1998
 Vincenzo Consolo nel 1998 foto Giovanna Borgese

Vincenzo Consolo aveva il viso levigato come un ciottolo marino. Un viso bello e lucente. Nel parlare la statura della sua persona, certo non alta, aumentava. E un sorriso pieno di sottintesi si faceva strada, e tu lo guardavi e ne eri contagiato. Forse Vincenzo sorrideva per gioco, e quel gioco veniva voglia di farlo anche a te.
Se gli stavi vicino, seduto con lui allo stesso tavolo, non potevi non sentirne l’energia; così tanta che ti sembrava a volte che il suo corpo tremasse, soprattutto le mani. I suoi furori civili emergevano netti. E capivi che oramai non si sentiva a casa da nessuna parte. Però la sua vera casa era chiaro dove fosse: in Sicilia, non c’era nessun dubbio. Ma lui si era fatto maestro dei dubbi, e per anni aveva viaggiato come se fosse stato in una fuga continua.
Ma non si pensi solo alla fuga di chi scappa, di chi non riesce a stare in nessun luogo; si pensi anche alla figura musicale della fuga. Quella che lui cercava era una polifonia geografica, dentro la quale i luoghi si versavano l’uno nell’altro, e il Nord e il Sud perdevano i loro connotati primari e ne assumevano altri, dai quali lo scrittore traeva una vasta gamma di sonorità e di ritmi. Manzoni e Verga si davano la mano.
Il viso di Consolo somigliava al ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Si tratta di un piccolo quadro, piccolo come spesso piccole sono le pitture di un artista che aveva tutte le qualità per esser considerato anche un miniaturista. Il quadro se ne sta a Cefalù, nel museo Mandralisca; ha una sala tutta per sé, e quando gli capiti dinanzi ti guarda con occhi ambigui; sembra che ti segua; forse sta prendendoti per i fondelli.
Per arrivare dinanzi al suo sguardo malandrino, hai attraversato alcune sale, e soprattutto ti sei fermato ad ammirare la collezione di conchiglie che il barone Mandralisca, fervente malacologo, era stato capace di radunare in pochi metri quadri. Mandano barbagli nella stanza in cui sono esposte, e gli occhi si perdono nel gioco di curve che li movimenta. La figura della spirale si fa avanti con prepotenza e la linea retta deve retrocedere (si tratta, si sa, di temi cari al saggismo e alla narrativa di Consolo).
È tale l’identificazione visiva che lo scrittore stabilì tra sé e il ritratto di Antonello che a volte viene il ghiribizzo di lasciarsi trasportare nel flusso di un anacronismo fruttuoso e pensare che sia stato proprio lo scrittore di Sant’Agata di Militello a posare per lui.
Parlando di Antonello e del barone Mandralisca siamo già entrati, quasi senza volerlo, tra le pagine del secondo libro di Consolo, quel Sorriso dell’ignoto marinaio che fu il frutto di una lunga elaborazione e che venne definito da Leonardo Sciascia come un parricidio.
Eh sì, da qual momento Consolo aveva scelto una sua strada che lo distanziava dall’illuminismo linguistico del suo maestro: punto di vista plurimo, stratificazione linguistica, prosa ritmica, inserti di materiali documentali, e soprattutto un modo di considerare la Storia come un’enorme cava dalla quale estrapolare materiali da sottoporre alla traduzione della letteratura.
Tutto questo era anche il risultato di uno spostamento dello sguardo: dalla Francia prediletta da Sciascia (ma anche da Calvino, che fu sempre un altro suo punto di riferimento) alla Spagna. L’irrequietezza geografica di Consolo lo aveva fatto approdare al paese del Chischiotte; i suoi pendolarismi tra l’illuminismo milanese (a Milano era andato a vivere quando aveva deciso di spostarsi dalla Sicilia) e il ribollire paesaggistico di una Sicilia girata in lungo e in largo durante i periodici ritorni, lo avevano portato a un’esplorazione fatta per strati ellittici.
Un incontro a Messina
Della sua predilezione per la Spagna, Vincenzo parlò anche durante un lungo incontro pubblico che avemmo a Messina. Sentiamo cosa disse a proposito.
«Devo dire che gli scrittori della generazione che mi ha preceduto, parlo di scrittori di tipo razionalistico, illuministico, come Moravia, come Calvino, come Sciascia, avevano scelto la strada della Francia. Erano passati attraverso la Toscana rinascimentale, soprattutto dal punto di vista linguistico, e oltrepassando le Alpi, com’era già avvenuto a Manzoni, erano approdati alla Francia degli illuministi. La loro concezione del mondo rifletteva proprio questo reticolo della lingua, e non solo della lingua, quella che Leopardi chiama la lingua geometrizzata dei francesi. Questo lo si vede nella lingua cristallina, limpida, che hanno usato questi scrittori. Io mi sono sempre chiesto del perché questi scrittori, che hanno vissuto il periodo del fascismo e il periodo della guerra, abbiano optato per questo tipo di illuminismo, di scritture illuministiche e di concezione illuministica del mondo. Io ho pensato che appunto, avendo vissuto il fascismo e la guerra, speravano, era una scrittura di speranza la loro, speravano che finalmente in questo paese si formasse, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una società civile con la quale comunicare. Era la concezione utopica anche di Manzoni, quando immagina che in questo paese finalmente si potesse parlare un’unica lingua. I panni che sciacquava in Arno erano panni che aveva portato già umidi dalla Senna, e mentre li sciacquava in Arno, immaginava una lingua ideale, la lingua attica che era l’italiano comune.
Quelli della mia generazione, che hanno visto succedersi al regime fascista un altro regime, quello democristiano, hanno dovuto prendere atto che questa società non era nata, che la società civile alla quale lo scrittore poteva rivolgersi non esisteva, quindi la mia opzione non è stata più in senso razionalistico, ma in senso, diciamo, espressivo. E quindi il mio itinerario mi portava non più alla Francia, ma verso la Spagna.
La Spagna, appunto, partendo dalla dolce follia, dalla follia simbolica, dalla follia metaforica del cavaliere errante del Don Quijote, e quindi attraverso tutti i poeti del Siglo de Oro, e quindi anche la letteratura spagnola che Vittorini ci indicava in quegli anni, scrittori non solo sudamericani come Rulfo, o scrittori spagnoli come Cela, o come Ferlosio, tanti altri scrittori del secondo dopoguerra che avevano vissuto il periodo del franchismo. Quindi la mia educazione, sia di contenuti che stilistica, è di tipo spagnolo».
Le segrete dell’Inquisizione
La Spagna in Sicilia significa anche Inquisizione. Consolo lo sapeva benissimo. E anche lui, come Sciascia, aveva voluto ficcare i suoi occhi nelle segrete di Palazzo Steri a Palermo. Era lì che aveva avuto sede il terribile tribunale e lì erano stati incarcerati i prigionieri. Alle pareti rimangono i loro segni, e spesso sono molto più che segni o semplici graffiti. Si tratta infatti di narrazioni murali, di poesie, di piccoli affreschi monocromi, di grida silenziose.
Consolo non poteva non essere attratto da quello che può considerarsi il documento più sconcertante di come si provi a mantenersi umani in un regime disumano. Basta riaprire Retablo – e riaprirlo seguendo la pista spagnola che già il titolo mette in rilievo in modo così palese – per imbattersi nelle prime pagine in una duplicità di sguardo: da una parte c’è la descrizione dell’arrivo del pittore lombardo Clerici nel porto di Palermo: «In piedi sul cassero di prora del packet-boat Aurora, il sole sul filo in oriente d’orizzonte, mi vedea venire incontro la cittade, quasi sognata e tutta nel mistero, come nascente, tarda e silenziosa, dall’imo della notte in oscillìo lieve di cime, arbori, guglie e campanili, in sfavillìo di smalti, cornici e fastigi valenciani, matronali cupole, terrazze con giare e vasi, in latteggiar purissimo de’ marmi nelle porte, colonne e monumenti, in rosseggiare d’antemurali, lanterne, forti e di castell’a mare, in barbaglìo di vetri de’ palagi, e di oro e specchi di carrozze che lontane correvano le strade».
Dall’altra, nel bel mezzo di quest’incanto, la presenza inquietante di «istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rivelano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di ferro lustro e legno fresco e unto». Tra questi spicca il «più tristo»: «lo stipo d’una gran porta issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i capi ch’ogni piccola onda o buffo facea sinistramente cigolare».
Incanto e tormento: parole che si slanciano a carezzare il paesaggio e parole che sono costrette a documentare l’orrore macchinale di questi obbrobriosi oggetti atti alla tortura. Mai come in Retablo, che usci nel 1987 come numero 160 della collana di Sellerio intitolata a «La memoria», lo scrittore si abbandona al fluire giocoso e serissimo delle parole, al loro sommovimento sintattico, al gusto per la spirale che il barone Mandralisca aveva esaltato nel suo museo di Cefalù. E sempre al centro della narrazione c’è un viaggio, un andare e un cercare insieme dei due protagonisti: Fabrizio Clerici (i disegni del «vero» Clerici adornano il libro) e Isidoro. E di nuovo si rinnova il tacito modello duale di Don Chischiotte e del suo scudiero Sancio Panza, in un processo di «infinita derivanza», che mescola le epoche e che mette le persone le une dinanzi alle altre, e tutte alla ricerca de El retablo dela maravillas cervantino, usato alla stregua di un velo di Maya: «velo benefico, al postutto e pietoso, che vela la pura realtà insopportabile, e insieme per allusione la rivela; l’essenza, dico, e il suo fine il trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii».
Amore e movimento
Entrambi i viaggiatori consoliani sono innamorati di donne che non li corrispondono: Isidoro, addirittura, vive in una sorta di deliquio continuo per la sua Rosalia. L’amore li spinge al movimento, a un ennesimo attraversamento della Sicilia, in parte coincidente con quello di Goethe, in parte dissimile. E anche ne L’olivo e l’olivastro avverrà qualcosa di simile. Ma non più in un tempo retrodatato, piuttosto tra le rovine della contemporaneità; e tali sono, in alcuni casi, queste rovine, che lo scrittore decide di «saltare» a piè pari Palermo, la capitale corrotta, il luogo del delitti, lo sprofondo del paese. Ma ci tornerà, ci tornerà con Lo Spasimo di Palermo. E di nuovo saprà individuare il luogo emblematico, quella chiesa senza tetto, dove gli alberi sono cresciuti cercando il cielo. Chiesa di grande bellezza, a segnare un confine dentro il quartiere della Kalsa.
Ogni volta è così: Consolo si «consola» proiettando se stesso in un manufatto esterno a lui; ne cerca le rassomiglianza; ne estrapola il dna visivo e se lo inocula.
In questo senso fa pensare al grande scultore che compare in Retablo, al «cavalier Serpotta». Chi abbia visitato i suoi oratori palermitani, sa bene di che genio si tratti. Bianchissime figure danzano le loro forme in sequenza. Sono modellate all’infinito, con una tecnica che disdegna il marmo, e fa uso di un materiale più malleabile. Si tratterebbe di stucchi, ma il Serpotta è stato capace di rafforzarli facendo cadere nei punti nevralgici una polverina di marmo.
Ma non fa solo figure umane, santi e sante; raffigura anche la battaglia di Lepanto, nella quale aveva combattuto Cervantes. Le navi hanno le vele fatte d’oro, e sembrano anticipare le svelte e filiformi figure di Fausto Melotti.
La battaglia viene rappresentata «in discesa», rendendo possibile all’occhio dell’osservatore di gustarne i dettagli e di avere una visione d’insieme. A ben pensarci, Consolo adotta nella scrittura una tecnica simile a quella del Serpotta. Modella la lingua con agilità, conoscendone le verticalità, usando i depositi di lessico scartati dal tempo. E quando è necessario fissa il tutto con una polverina marmorea.
Ma torniamo a Cervantes. Per lo scrittore siciliano contava non solo l’opera; lui considerava Cervantes «una figura straordinaria, oltre alla grandezza dello scrittore e del poeta, perché era quello che aveva sofferto la prigionia nei Bagni di Algeri. Aveva scritto due opere, I Bagni di Algeri e Vita in Algeri, proprio mentre era prigioniero, e poi anche nel Don Chisciotte c’è un lungo capitolo intitolato “Il prigioniero”, che è autobiografico, dove racconta la sua esperienza. Lì era stato prigioniero con un poeta siciliano, si chiamava Antonio Veneziano. Si erano incontrati, questi due ingegni, questi due poeti, nella prigione di Algeri, e Veneziano era stato riscattato prima perché pensavano che fosse un uomo di poco valore, mentre avevano intuito che Cervantes doveva costare molto e quindi il suo riscatto avvenne successivamente. In seguito i due ebbero uno scambio di versi, e lo spagnolo scrisse le Ottave per Antonio Veneziano. Cervantes, che aveva partecipato alla battaglia di Lepanto, ed era stato a Messina, si era imbarcato a Messina, mi era caro anche per questa congiunzione tra Sicilia e Spagna».
Leggere Cervantes significava anche spostare il baricentro della narrazione. Dai racconti marini, «dove la realtà svanisce, e dove c’è l’irruzione della favola e del mito», che avevano visto nascere i poemi omerici, al romanzo del viaggio. «Cervantes sposta il viaggio, fa dell’andare, del peregrinare, una cifra che poi adottò Vittorini con Conversazione in Sicilia. Ecco, Cervantes è stato quello che ha spostato il viaggio dal mare alla terra, ed è una terra di desolazione, di dolore – la Mancia – che diventa metafora del mondo».
Gli anni ammutoliti
E quella terra di desolazione, con il tempo si estende, e lo stesso Mediterraneo che per lo scrittore era stato «uno dei luoghi civili per eccellenza, dove c’era stato un grande scambio di cultura, una grande commistione, una reciproca conoscenza», si contamina, diventa guerresco, riaffiorano le guerre di religione, risorgono i nazionalismi.
Sono gli anni in cui lo scrittore si ammutolisce. Continua a viaggiare, ma il suo sguardo ha perso in prensilità. L’arte della fuga perde i suoi caratteri musicali e diventa un andare da una Milano che si desidera abbandonare a una Sicilia che si fa sempre più fatica a riconoscere. Il mondo è diventato casa d’altri. Il velo di Maya gli è stato levato per sempre, pensa tra sé e sé. Forse comincia a dubitare della stessa letteratura, che vede prostituirsi in facili commedie di genere.
Però è sempre dalla letteratura che trae i suoi esempi; è da lì che riparte. A Messina, alla fine del nostro colloquio – che ho poi trascritto in un mio libro di viaggi siciliani, intitolato In fondo al mondo. Conversazione in Sicilia con Vincenzo Consolo, ed edito da Mesogea – disse con il sorriso da ignoto marinaio affiorante sul volto levigato come un ciottolo marino: «Mi piace sempre ricordare una frase che Calvino mette in bocca, ne Il castello dei destini incrociati, a Macbeth». La frase suona così: «Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro».

Silvio Perrella
Il Manifesto Alias Domenica Edizione del 30.08.2015