Vincenzo Consolo, dal sorriso allo spasimo: l’impossibile romanzo


Lise Bossi

Lo Spasimo di Palermo può essere considerato l’ultimo romanzo di Vincenzo Consolo, anche se può sembrare «abusivo» classificarlo in questo genere letterario dato che l’opera si presenta come la conclusione di una riflessione e di un lavoro di scrittura che non riconoscono alla narrazione romanzesca, nella sua accezione e nella sua forma classica, la capacità di rendere conto del mondo, di ordinarlo e di dargli un senso. Nelle sue opere precedenti, grazie a un nuovo logos, Consolo ha tentato di sostituire un nuovo epos alle Grandi Narrazioni individuali e collettive – confiscate dai Padri, e più generalmente dal potere – allo scopo di porre le basi di un nuovo ethos. Qui si è voluto esplorare l’ipotesi secondo la quale Lo Spasimo di Palermo sarebbe insieme la forma più estrema di tale tentativo e l’ammissione del suo fallimento, almeno in questa forma. Forse perché non basta uccidere i Padri – siano essi simbolici, politici o letterari – perché i figli si possano salvare.


Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto,

impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in

una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale

ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio.

(Consolo 2000: 105)

2 «Si tratterebbe del racconto dei tre fallimenti della storia unitaria. Nel primo, sarebbe rappres (…)

1 Abbiamo scelto di incamminarci sulle orme di Consolo, lungo la traiettoria esistenziale e letteraria da lui percorsa, seguendo i titoli delle tre opere che costituiscono quello che egli stesso ha chiamato «Il ciclo dell’Italia unita» (De Gregorio 2013)2, una traiettoria che va quindi dal sorriso risorgimentale allo spasimo degli anni Novanta attraversando la notte buia del Ventennio fascista. Ci è parso ovvio infatti che, alla stregua di tutte le scelte stilistiche di Consolo, la scelta di quei titoli non fosse e non potesse essere gratuita: attraverso quei titoli ci veniva offerta una strada per arrivare fino all’ultima sua opera, Lo Spasimo di Palermo (Consolo 2000), cioè fino all’ultima tappa di un lungo e doloroso viaggio, fino agli ultimi frammenti, alle ultime parole troncate e stroncate di una conversazione nostalgica e metaforica con e sulla Sicilia.

2 Allo stesso modo, non poteva essere e non è gratuito il fatto che Consolo apra Lo Spasimo di Palermo, quel libro che porta quindi il dolore iscritto nel proprio titolo, con una citazione tratta dal Prometeo incatenato di Eschilo, in cui Prometeo, colui che viene martoriato per aver portato la luce, ossia, metaforicamente e ulissianamente, virtute e conoscenza al genere umano, dichiari che «il racconto è dolore ma anche il silenzio è dolore» (Consolo 2000: 7). Questo incipit fa sorgere un certo numero di domande poiché, com’è risaputo, un incipit – e Consolo, autore di un saggio sulle Epigrafi (Consolo 1999b), più di ogni altro lo sa e lo mette in pratica – fornisce indicazioni sul significato, se non sul contenuto, dell’opera che apre.

3 Una domanda, per cominciare, sull’ambiguità della dichiarazione di Prometeo, prima delle tante e senz’altro volute ambiguità che troveremo nel testo di Consolo non appena si tratterà di racconto o, meglio, di narrazione. Tale dichiarazione significa infatti che il raccontare è doloroso quanto o più del tacere, oppure che, quando si tratta di esprimere il dolore, il silenzio è efficace quanto o più del racconto?

4 Nella prima ipotesi, l’incipit ci induce a pensare che il racconto sia una specie di male minore al quale per lo scrittore sia stato giocoforza rassegnarsi pur di non incorrere nel dolore maggiore che sarebbe potuto derivare dal silenzio. Nella seconda ipotesi, lo stesso incipit ci porta a pensare che il silenzio non sia meno adatto del racconto a dire il dolore, ma anzi, possa esserne l’espressione più alta e compiuta. Se accolta, questa seconda interpretazione implica che il dolore, lo spasimo, che, come la sciasciana linea della palma, si dilata «da Palermo, alla Sicilia, al mondo» (Consolo 2000: 112), si può dire facendo a meno del racconto. Ovvero, se proseguiamo fino in fondo con il ragionamento, ciò significa che Lo spasimo di Palermo è un non-racconto nei cui silenzi viene detto il dolore prima dell’opera, e il dolore espresso nell’opera s’inabissa definitivamente nel silenzio. Il che, se guardiamo alla bibliografia di Consolo, corrisponde esattamente alla realtà, giacché, dopo Lo Spasimo, egli non ha effettivamente più scritto nessun racconto, romanzo o anti-romanzo.

5 Queste prime constatazioni ci permettono, tra l’altro, di capire perché Lo Spasimo di Palermo si configuri insieme come un testamento e un tombeau letterario. Un testamento, perché l’opera si chiude proprio con una lettera in forma di bilancio personale e intellettuale scritta dal protagonista al proprio figlio; ma anche di bilancio dall’autore al proprio lettore, prima che chi scrive scompaia con le sue ultime parole ancora nella penna, in una di quelle esplosioni al tritolo che ricorrono in un crescendo ossessivo negli ultimi racconti di Consolo, proprio come nei giorni e nelle notti di Palermo. E Lo Spasimo è anche un tombeau poetico-letterario perché, posto fin dall’inizio sotto il segno di un’oscillazione tra i due poli opposti e complementari del racconto e del silenzio, quest’ultimo opus sembra destinato a spiegare le ragioni di tale oscillazione, offrendo al lettore una specie di compendium di tutti i precedenti tentativi stilistici attraverso i quali Consolo ha cercato di proporre un epos alternativo che, partendo da una lingua poematica, lo ha portato fino all’urlo panico, per poi riportarlo alla narrazione. In effetti, si tratta di un doppio tombeau, i cui piani sovrapposti entrano in relazione attraverso una serrata rete intra- ed intertestuale, poiché quella specie di sopralluogo personale e letterario si combina con un paradossale omaggio parricida di Consolo a tutti gli auctores che egli ha ammirato per poi rinnegarli, come fanno tutti i figli quando intraprendono una crociata contro i propri padri, nella vita e nella letteratura; perché i padri sono stati giudicati troppo spesso «imbell[i], ipocrit[i] o impotent[i]» (Consolo 2000: 89); perché le loro parole non hanno saputo essere l’ultimo baluardo contro il sonno della ragione e il caos.

6 Sembra, infatti, che quest’ultimo libro, alla stregua di quanto dichiara l’incipit dell’ultimo romanzo di Sciascia, sia un modo per «ancora una volta […] scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia» (Sciascia 1989: 7) e, vorremmo aggiungere, alla letteratura. Sennonché tale ricerca ha portato Sciascia a scrivere Una storia semplice mentre, per Consolo, è venuta fuori una storia maledettamente complicata, condotta come un’analisi retrospettiva, alla maniera delle inchieste politico-filologiche dello scrittore di Racalmuto, ma senza ricorrere fino in fondo ai suoi strumenti di investigazione della realtà e del discorso; quelli di Pausania, tanto per intenderci, il saccente geografo che ne L’olivo e l’olivastro sentenziava: «a me è affidato il dovere del racconto: conosco i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio» (Consolo 1999a: 39).

7 Come il suo protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, Consolo si è infatti rifiutato di entrare nella logica «fiduciosamente comunicativa, di padre e fratelli – confrères – più anziani, involontari complici, pensav[a], dei responsabili del disastro sociale» (Consolo 2000: 127). Da allora, per lui, ha trovato «solo senso il dire o ridire il male, nel mondo invaso in ogni piega e piaga dal diluvio melmoso e indifferente di parole atone e consunte, con parole antiche o nuove, con diverso accento, di diverso cuore, intelligenza. Dirlo nel greco d’Eschilo, in un volgare vergine come quello di Giacomo o di Cielo o nella lingua pietrosa e aspra d’Acitrezza» (Consolo 1999a: 77). Fino a Lo Spasimo di Palermo. Fino al momento in cui, dopo un ultimo tentativo per lottare contro il disordine, il silenzio sostituisce il coro che, poc’anzi ancora, «in tono alto, poetico, in una lingua non più comunicabile, commenta[va] e lamenta[va] la tragedia senza soluzione, il dolore senza catarsi» (Consolo 1999b: 262).

8 Come la maggior parte dei libri precedenti di Consolo, Lo Spasimo di Palermo è la storia di un viaggio, quello dello scrittore Gioacchino Martinez. Un viaggio nello spazio, da Parigi a Milano e da Milano a Palermo, e un viaggio nel tempo, quello dell’infanzia durante la Seconda Guerra Mondiale, dei primi trasporti e del matrimonio con Lucia, che diventerà sua moglie e la madre di Mauro, il figlio rifugiatosi appunto a Parigi per sfuggire alla repressione politica della fine degli “anni di piombo”, mentre Lucia sprofonderà a poco a poco nella follia per sfuggire all’insopportabile realtà della violenza mafiosa degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, prima di scomparire nel buio. Un viaggio a misura d’uomo dunque, chiuso e concluso, almeno in apparenza, nei limiti di una vita d’uomo, con gli inevitabili punti di contatto con il mondo che gli sta attorno, cioè con la Storia con la S maiuscola i cui disordini e le cui convulsioni si ripercuotono sull’esistenza dell’individuo e la possono travolgere senza remissione.

9 Però, anche se l’invocazione liminare è quella di un Omero-Consolo a un Ulisse-Consolo la cui commistione-confusione sarà nel libro un’ulteriore fonte di ambiguità, non si tratta più, proprio per lo spasimo, del solito nostos ulissiano di cui L’olivo e l’olivastro è forse l’espressione più compiuta e dichiarata, ma si tratta piuttosto di un percorso di anamnesi dalle coordinate incrociate e sovrapposte, che trasforma l’effettivo ritorno a casa del protagonista e il suo tentativo di ricongiungersi con il proprio passato, in viaggio penitenziale (Francese 2015: 66 e 104; Consolo 1999a: 19). Un viaggio per espiare colpe insite nelle confessate manchevolezze di chi scrive attraverso la di nuovo paradossale, nonché scaramantica, trasformazione della scrittura/lettura di questo libro in una complessa operazione di cifratura e decodifica storico-letteraria.

10 La principale fonte di complessità sta nella frammentazione o variazione della voce narrante. Il procedimento non è nuovo e Consolo lo ha ampiamente sfruttato fin dal Sorriso e anche in Nottetempo (Consolo 1994). Solo che allora si trattava di dare alle «‘voci’ dei margini» (Consolo 1997: 182) una possibilità di farsi sentire pur riconoscendo l’inadeguatezza della scrittura, dotta per definizione, nella restituzione di un’oralità per così dire primitiva, nonché «l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento» (Consolo 1994: 53) per colui che scrive. Il dilemma sembrava si fosse risolto in senso sperimentalista con l’«adottare […] moduli stilistici della poesia, riducendo, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio della narrazione» (Consolo 1997: 183); e l’intento di far combaciare logos, epos ed ethos pareva fosse stato raggiunto ne L’olivo e l’olivastro come dimostrano l’omogeneità di tono e la stabilità dell’istanza narrativa (Bossi 2012).

11 Ma con Lo Spasimo di Palermo si sgretola quel fragile equilibrio nella frantumazione dei punti di vista e nella variazione dei toni e dei gradi della diegesi. Più conturbante ancora: vengono di nuovo sfruttate soluzioni narratologico-espressive da tempo dichiaratamente abbandonate e, nel libro stesso in cui ricompaiono, presentate come detestabili (Consolo 2000: 105).

12 Il corifeo-narratore de L’olivo e l’olivastro – che cantava la storia del nuovo Ulisse in una specie di discorso indiretto libero intriso di quella tragicità antica che per Consolo è «l’esito ultimo […] della

ideologia letteraria, l’espressione estrema della [sua] ricerca stilistica» (Consolo 2007: 21) e in cui si intercalavano registrazioni/restituzioni di voci testimoniali – è ancora presente nel prologo in corsivo, ma solo per un ideale passaggio di testimone narrativo ed esistenziale allo stesso Ulisse. E nel suo augurio per il viaggio da compiere sta senz’altro la spiegazione delle contraddizioni e dei paradossi che abbiamo segnalati fin qui: «Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza. In my beginning is my end» (Consolo 2000: 9).

13 Solo attraverso la volontà di tornare al punto di partenza, geografico ed esistenziale, si può infatti spiegare il metaforico ritorno a una specie di autobiografismo letterario che si palesa attraverso una fitta rete di autocitazioni più o meno esplicite come, ad esempio, quella testuale tratta da Le pietre di Pantalica (Consolo 1988: 166): «Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido esala odore dolciastro di sangue e gelsomino». Messa in bocca al giudice che ne Lo Spasimo di Palermo (con la S maiuscola) viene omaggiato in quanto uno tra i pochi difensori della polis e del vivere civile, quella citazione già parlava dello spasimo (con la s minuscola) di Palermo e, anche se Gioacchino-Consolo si schermisce dicendo che «sono passati da allora un po’ di anni», il giudice – di nuovo sciascianamente, come conferma il paragrafo successivo – profetizza: «Ma nulla è cambiato, creda. Vedrà, il prossimo luglio sarà uguale… o forse peggio» (Consolo 2000: 115).

14 Allo stesso modo, questo appellarsi di continuo a Sciascia come pure a Manzoni con riferimenti espliciti – oltre che alla peste che allora infettava Milano come ora infetta Palermo – anche al famoso manoscritto manzoniano (Consolo 2000: 106), ossia alla finzione letteraria destinata a conferire verosimiglianza al testo fondatore dei Componimenti misti di storia e d’invenzione, delinea una specie di autobiografia non più o non solo personale, bensì familiare, nel senso di una famiglia spirituale, un omaggio intertestuale in forma di metaromanzo di formazione «ai suoi» (Consolo 2000: 36), come egli chiama i suoi autori prediletti.

15 Sembra infatti che Consolo si chieda se proprio nel tornare alle origini, alle fonti e, quindi, a quei «linguaggi logici, illuministici», «alla loro serena geometrizzazione» (Consolo 1997: 182) non risieda la possibilità di dire il male e di sanarlo. Ragion per cui egli conserva effettivamente, ad inizio capitolo, quei paragrafi che segnano «l’interruzione del racconto e il cambio di tono della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica», che sono per lui «le parti corali o i cantica latini» (Consolo 2007: 35); quei paragrafi che dicono il male come rottura, alla stregua di quel passaggio dalla luce all’ombra che spaventa la Lucia di Gioacchino (Consolo 2000: 65 e 117) come segno precursore di un’irrimediabile condanna alla follia, con «lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri» (Consolo 2000: 45). E quelli sono i nessi, tra afasia e urlo, che, soli, la poesia, il linguaggio poematico, possono dire.

16 Ma allo stesso tempo Consolo, come Gioacchino, ha la tentazione di riannodare il discorso interrotto, di riprendere il film dell’infanzia, rappresentato metaforicamente dalla storia di Judex, nel punto in cui è stato tagliato, e farlo ripartire con «la sutura, l’acetone sulla memoria, il nastro che s’attacca, lo scintillio dei carboni, il ronzio che riprende, la storia che prosegue e si conclude». Pena però la riscoperta dei «fotogrammi segreti della sua storia, della vita sua oscura e inconclusa, della frana, delle colpe sepolte e obliate» (Consolo 2000: 47). In altri termini, sembra che Consolo si chieda, in un libro che insiste sull’interruzione della comunicazione tra padri e figli a causa delle compromissioni e dei tradimenti rimproverati dai figli ai padri, se non si dovrebbe compiere una sutura tra gli uni e gli altri, tra passato e presente, ricorrendo ai pure ripetutamente rinnegati strumenti di Pausania – il geografo che, come si diceva prima, conosce «i nessi, la sintassi, le ambiguità, le malizie della prosa, del linguaggio» (Consolo 1999: 39). Ed è proprio a quel lavoro di sutura personale e letteraria che si accinge Gioacchino, confrontato al falso ordine della sua biblioteca risistemata “cromaticamente” dalle incolte persone di casa:
Giorni trascorsi a rimettere ordine fra i libri. Da questi doveva ricominciare, dalla chiara geografia, dai confini certi, dal conforto loro, per potersi orientare, riprendere la strada. Oltre, non era che mutamento, cancellazione d’ogni segno, realtà infida, landa d’inganno, sviamento. (Consolo 2000: 102)
A partire dai libri della sua biblioteca, egli comincia dunque a ricostruire una mappa letteraria della propria città, uno di quei Cruciverba (Sciascia 1983) che tanto piacevano a Sciascia, come quello dedicato dal racalmutese a Parigi dove egli si recava, come ricorda lo stesso Consolo (Consolo 2016: 124), compiendo un viaggio le cui tappe erano Palermo-Milano e poi Milano-Parigi, ovvero l’esatto rovescio, quasi a specchio, del viaggio raccontato dalla doppia, se non dubbia, figura di Empedocle-Pausania e compiuto dall’ambiguo Ulisse de Lo Spasimo di Palermo. Infatti l’Ulisse consoliano ha avuto bisogno di attingere di nuovo ai valori civili e letterari della Francia illuminista tanto amata da Sciascia. Questo spiega perché, per la prima volta, non lo vediamo approdare fin dall’inizio del libro alla sua Itaca-Sicilia come invece succedeva nei precedenti racconti: è dovuto prima andare a cercare a Parigi, nella città in cui «tutto parla di letteratura» e dove si parla «quella che Leopardi chiamava una lingua ‘geometrizzata’» (Consolo 2016: 132), quei pezzi mancanti, quelle colpe sepolte e dimenticate della propria storia, prima di intraprendere il suo nostos espiatorio (Traina 2001: 43).

17 A quell’Ulisse, costretto quindi a usare quasi simultaneamente due lingue diverse, una poematica e l’altra geometrizzata, viene assegnato il compito di riannodare i fili spezzati per tentare non solo di dire, poeticamente ed espressivamente, ma anche di denunciare, razionalmente e comunicativamente, i mali passati e presenti e la loro diffusione-dilatazione. Infatti essi hanno ormai da tempo varcato lo Stretto, come mostra la cantica dedicata a Milano, che fu «approdo della fuga, quell’asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza». Ormai Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dalle acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità. (Consolo 2000: 91) Una Milano reificata attraverso la soppressione di tutte le maiuscole, una Milano al cui quadro orrifico corrisponde, “di qua dal faro”, quello di Palermo. Non la Palermo dell’approdo – e siamo già oltre i tre quarti del libro – di Ulisse-Gioacchino-Consolo al porto che fu anche il loro comune punto di partenza, ancora ingentilita dalla memoria dell’esiliato e dal ricordo dei passati splendori: Nella luce bianca, vaporosa, apparivano il piano di Sant’Erasmo, la foce melmosa dell’Oreto, le palazzate nuove del sacco mafioso, la Flora e le possenti mura, la Porta dei Greci, la passeggiata delle Cattive, gli antichi palazzi dietro nobiliari, le cupole e i campanili delle chiese, il Càssaro Morto e la Porta Felice, Santa Maria della Catena, la conca stagna affollata d’alberi di lussuose barche della Cala. (Consolo 2000: 98)
Ma la Palermo della banalità secolare del male. «L’amata sua odiata» che non nasconde più il proprio vero viso: Intrigo d’ogni storia, teatro di storture, iniquità, divano di potenti, càssaro dei criadi, villena degli apparati, osterio di fanatismo, tribunale impietoso, stanza della corda, ucciardone della nequizia, kalsa del degrado, cortile della ribellione, spasimo della cancrena, loggia della setta, casaprofessa della tenebra, monreale del mantello bianco. (Consolo 2000: 122)
Oltre alle scelte stilistiche illustrate da questi due cantica speculari, la cui espressività, non sempre compensata dalla comunicatività dei fatti e delle date, costringe il lettore a indovinare situazioni ed epoche, nonché bersagli della denuncia, il cambiamento maggiore portato dall’ambiguità della nuova istanza narrativa poematico-geometrica sembra risiedere nel filtro che una specie di stream of conciousness di stampo quasi gattopardiano impone alla rimemorazione, come pure nello sfasamento che tale rimemorazione provoca tra tempo e spazio ricordati rispetto ai tempi e allo spazio della narrazione e a quelli della Storia, con la conseguenza di appiattire e concentrare tempi ed epoche diverse nello stesso movimento narrativo. Come quando, ad esempio, a partire dal vivido ricordo della peste manzoniana (Consolo 2000: 85) e senza nessuna rottura temporale apparente, il narratore ci parla del «tempo febbrile delle pesti, del colera di Palermo» (Consolo 2000: 113), giocando peraltro sull’ambiguità tra tempo meteorologico e tempo cronologico, in una sovrapposizione allucinata in cui diventa impossibile discernere in quale epoca vivano i «ciechi vaiolosi storpi appestati d’ogni sorta che dallo Spasimo si recavano ogni giorno per mangiare alla Dogana» (Consolo 2000: 32).

18 Infatti, se Consolo, fedele alla sua definizione dello scrittore siciliano come uno per cui «il romanzo storico, e in specie in tema risorgimentale [è un] passo obbligato» (Consolo 1997: 181), ci presenta con Lo Spasimo di Palermo «un ulteriore fallimento delle speranze italiane» per cui «[le] speranze di una rinascita crollano di fronte alla pervasività del potere mafioso, e alle sue infiltrazioni nello Stato repubblicano» (De Gregorio 2013), nelle modalità pratiche sembra invece che egli aspiri, da un lato a cancellare e distruggere la rete cronologica, dialogica e narrativa di cui necessita la storia per essere detta o per raccontarsi, dichiarando di «aborri[re] il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile» (Consolo 2000: 105) e, dall’altro, a ristabilire i nessi logici atti a rendere conto dell’orrenda realtà palermitana e italiana di quegli anni.

19 L’operazione di distruzione non è nuova: Consolo aveva infatti rivendicato che Il sorriso dell’ignoto marinaio, primo opus del ciclo, fosse classificato nella categoria degli antiromanzi storici, in una formulazione peraltro già ambigua poiché, se è antiromanzo, non può essere racconto e, se non è racconto, non può essere storia, per cui non si vede come un antiromanzo possa essere storico. Infatti sembrava degno della quadratura del cerchio il tentativo da allora condotto da Consolo di raccontare una storia e, addirittura, la Storia, che è la Grande Narrazione per eccellenza senza gli strumenti del racconto, col solo spostare il problema della scrittura «dalla comunicazione all’espressione» (Consolo 2007: 35). Questa è probabilmente la ragione dello scarso effetto di tali scelte sulla società civile e del conseguente mea culpa di Gioacchino-Consolo a destinazione dei figli che, alla stregua di Mauro Martinez, «si nega[no] a ogni confidenza, tentativo di racconto, chiarimento» (Consolo 2000: 42), esattamente come lo stesso Gioacchino Martinez confessa di averlo fatto con i propri padri intellettuali e letterari (Consolo 2000: 129).

20 Quello che è nuovo, invece, e diretta conseguenza di quanto precede, è la costruzione filologico-letteraria in puro stile sciasciano avviata da Consolo-Gioacchino a partire da fatti diversi di storia letteraria e civile (Sciascia 1989b), organizzati e ramificati in modo da costituire quello che Sciascia, ancora, chiamava un “teatro della memoria”, cioè un sistema di «oggetti eterni […] che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità» (Sciascia 1979: 231) poiché, come ha scritto lo zio Mauro di Gioacchino nel suo testamento, là si trova, «negli assoluti libri, la verità umana» (Consolo 2000: 73). Infatti, proprio dai libri di botanica e dal giardino dello zio scatta il primo “teatro della memoria” inscenato da Gioacchino, giacché, per lui come per lo zio, il giardino è «luogo platonico, ordine del mondo […], immagine del giardino interiore, sogno del ritorno, ripristino». Sotto il segno di questo ritorno e di questo ripristino, che però possono anche portare «offesa, patimento» (Consolo 2000: 49), nasceranno gli ulteriori elementi del suo sistema di “oggetti eterni” destinati a comporre una specie di antistorica – perché sorta dall’eterna e quindi atemporale verità letteraria – Storia delle storie: messe insieme, la storia delle tonnare (Consolo 2000: 59), quella del codice di San Martino – di nuovo di sciasciana ascendenza – e quella del Libro intorno alle palme di Abu-Hâtem-es-Segestâni (Consolo 2000: 64) tracciano i confini storico-geografici della Sicilia araba; quella poi, già più complessa e ricorrente, della «prigionia in Algeri di Cervantes e [di] quella insieme, d’un poeta [palermitano], dialettale, Antonio Veneziano» (Consolo 2000: 41, 105, 115, 118) disegna i contorni della Sicilia dei tempi dell’occupazione spagnola e conduce a sua volta alla scoperta, nella topographia e historia general de Argel (Consolo 2000: 107), di una parola che permetta a Consolo di collegare gli oggetti letterari già messi in risonanza con la più recente storia siciliana e italiana e, a Gioacchino, di seguire uno dei fili più dolorosi della sua personale storia umana. La parola è “marabutto”, e il filo che da essa dipana Gioacchino va dal massacro di suo padre e della madre di Lucia nel Marabutto di Rassàlemi per arrivare all’ultima scena del libro, quella dell’esplosione, in cui, mentre scrive a suo figlio, egli scompare insieme al giudice, figlio della sua vicina di casa: una scomparsa preannunciata da una specie di predizione dell’amico fioraio: «Ddiu ti scanza d’amici e nnimici, e di chiddi chi ti manciunu lu pani. Ddiu ti scanza di marabutta» (Consolo 2000: 124). Tutta questa intricata storia di fili e di figli permette inoltre al lettore di ricostruire, pure se a volte faticosamente, i famosi nessi grazie ai quali Gioacchino-Consolo spera di «scrivere di una storia vera […] fuori da ogni invenzione, finzione letteraria» (Consolo 2000: 105), insomma, fuori dall’aborrita scrittura romanzesca.

21 Tuttavia intento alla (per lui) illuminante, salvifica e lenificante ricostruzione letteraria e culturale di un passato comune a sé e, a una seppur «devastata» (Consolo 2000: 105) civiltà mediterranea nella quale riaffondare le proprie radici per ripartire verso un futuro riconciliato, Gioacchino non presta abbastanza attenzione ai messaggi sempre più cupi che provengono dall’altro “teatro della memoria”, concorrente del primo, che si sta costruendo quasi suo malgrado a partire da altri elementi anch’essi perfettamente collegati: un altro “teatro” che ha le stesse radici del primo, ma si sviluppa in modo subdolo e morboso esattamente come, a partire dallo stesso tronco, quello dell’olivo in cui Ulisse ha intagliato il proprio letto, si possono sviluppare sia l’olivo che l’olivastro. E infatti, dalla sua stessa casa, anzi dal suo stesso letto appunto, «sporcato ignobilmente» (Consolo 2000: 119) ad opera dei nuovi Proci, dei sempre rinnovati Proci della mafia e della politica, seguendo poi quella strada intitolata al musicista Emanuele d’Astorga da cui Gioacchino credeva di poter cominciare a riprendere possesso della sua città inseguendo memorie storiche e civili, proprio da lì ricomincia invece a proliferare la mai sanata peste, il cui nome, le cui immagini, i cui manzoniani echi percorrono tutto il libro al ritmo sempre più serrato di un’allucinata cavalcata mortifera per le strade, i monumenti della città, per poi proseguire, alla stregua del quadro di Raffaello, la sua anti-Odissea «da Palermo, alla Sicilia, al mondo» (Consolo 2000: 112), a celebrare il Trionfo della Morte (Consolo 2000: 117), della Follia (Consolo 2000: 111) e del Caos (Consolo 2000: 117). Il “teatro della memoria”, messo in moto dalla vita, ossia dalla vita di d’Astorga, si ramifica generando un’escrescenza cancrenosa che fagocita progressivamente gli “oggetti eterni” positivi che si stavano sviluppando serenamente sull’altro ramo, quello della riconciliazione, fino a mettere in una luce sinistra, di malaugurio, le notizie sulla chiesa di Santa Maria dello Spasimo «per cui Raffaello aveva dipinto La caduta di Cristo sul cammino del Calvario, chiamato qui Lo spasimo di Sicilia», ma chiamato dal suo artefice «sgomento della Vergine e Spasimo del mondo» (Consolo 2000: 112). Come anche la notizia secondo la quale il pezzo più conosciuto di d’Astorga era uno Stabat mater. Quello Stabat mater le cui note, la cui grafia diversa da quella della scrittura, la cui espressività che mai la scrittura potrà raggiungere, anche se cerca di farsi pura espressività e puro suono, bucano ad un tratto la pagina di Consolo a sostituire le parole (Consolo 2000: 125), preannunciando sia lo strazio, lo spasimo della madre del giudice di fronte alla morte del figlio in veste di laico redentore di tutte le colpe dei padri, sia «la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna» (Consolo 2000: 127), confessati da Martinez nella sua lettera al figlio e quindi da Consolo al suo lettore.

3 Basterebbe seguire le tracce lasciate dall’uomo dalle scarpe gialle, dal falso ragioniere, dal ma (…)

22 Ci si può chiedere se sarebbe stato possibile evitare tale sconfitta, una sconfitta che ha portato Consolo a riconoscere, con la metafora della lettera interrotta, l’impossibilità di un sereno passaggio di testimone tra le generazioni, per poi chiudersi nel silenzio dopo la morte del suo doppio letterario. Ci si può chiedere se, rifiutando i nessi razionali, la comunicazione dialogica propria del romanzo e in particolare la lettura ipotetico-deduttiva propria del romanzo poliziesco che gli avrebbe permesso di collegare gli indizi, pur presenti nel testo, della proliferazione del male3 e, limitandosi a scrivere «solo di cultura, storia, vicende curiose del passato, di questa città com’era un tempo» (Consolo 2000: 74), Consolo-Gioacchino non si sia precluso ogni possibilità di analizzare correttamente il presente e di riformarlo. Ci si può chiedere se non sarebbe stato opportuno approfittare di quel «varco che conduceva nel passato, nel racconto, in cui tutto era accaduto, tutto sembrava decifrabile» (Consolo 2000: 69), per scrivere, a dieci anni dalla morte dell’amico Sciascia, una storia finalmente semplice, invece di considerare che la volontà di riannodare i fili della propria storia personale e civile, di riprendere il film della lotta di Judex contro i cattivi laddove si era interrotto era, per finire, «uno sbaglio» (Consolo 2000: 53).

23 Quello che possiamo dire è che Consolo ci ha provato. Con Lo Spasimo di Palermo è infatti giunto a quanto di più vicino al romanzo – al, per lui, “impossibile romanzo” – fosse lecito spingersi, senza rinunciare completamente alle scelte e agli impegni di tutta una vita, in quanto scrittore e in quanto cittadino. Lo ha fatto cercando di ibridare la sua abituale scrittura poematica con quella geometrica comunicazione presa in prestito dal «castoro ligure; [dal] romano indifferente, [dall’]amaro [suo] amico siciliano», ma anche da quelli che, come loro, «hanno la forza […] della ragione, la chiarità, la geometria civile dei francesi» (Consolo 2000: 88): Pasolini, Vittorini, Manzoni, e tanti altri, i cui nomi, i cui libri, compongono a poco a poco un superiore “sistema di oggetti eterni”, una specie di borgesiano Aleph letterario.

24 Sennonché, anche quest’ultimo tentativo per dire il male, seppur condotto sotto l’alto patrocinio di sì autorevoli padri, si conclude con la morte di quelli che, almeno per Consolo, sono, erano, gli ultimi difensori dell’umana civiltà, il giudice e l’intellettuale. E con la loro morte non solo scompare la possibilità di una redenzione civile, ma viene anche dimostrata, attraverso quella specie di suicidio parricida, l’impotenza della letteratura – i cui rappresentanti sono pur stati convocati in schiere compatte – ad arginare, con qualsiasi mezzo o strumento, il dilagare del male.
4 «Questo di oggi è un libro sul presente, ma anche un ripercorrere gli anni Sessanta, con il terro (…)
25Il che non ci deve stupire, poiché neanche Judex, che pure «giudica e sentenzia fuori dalle leggi» (Consolo 2000: 129), ci può riuscire: ovunque e comunque «la nera sagoma trionfa del giustiziere» e «si conclude il feuilleton fuori da leggi, tribunali, si scioglie la vendetta precivile nel sentimento, si ricompone l’ordine del denaro e del potere» (Consolo 2000: 47) 4.

Bibliografia
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Consolo, V., 1999a, L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori.
Consolo, V., 1999b, Di qua dal faro, Epigrafi, Milano, Mondadori, «Oscar».
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Consolo, V., 2016, Passi a piedi, passi a memoria in Sciascia e Parigi, Catania, Passim Editore.
Consolo, V., 2007, La metrica della memoria, in Vincenzo Consolo, éthique et écriture, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle.

De Gregorio, F., 2013, In ricordo di Vincenzo Consolo in: Eidoteca, https://eidoteca.net/2013/04/30/in-ricordo-di-vincenzo-consolo/
Francese, J., 2015, Vincenzo Consolo: gli anni de «l’Unità» (1992-2012), ovvero la poetica della colpa-espiazione, Firenze University Press.
Sciascia, L., 1979, Nero su nero, Torino, Einaudi.
Sciascia, L., 1983, Cruciverba, Torino, Einaudi.
Sciascia, L., 1989, Una storia semplice, Milano, Adelphi.
Sciascia, L., 1989b, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Palermo, Sellerio.
Traina, G., 2001, Vincenzo Consolo, Firenze, Cadmo.

Note

2 «Si tratterebbe del racconto dei tre fallimenti della storia unitaria. Nel primo, sarebbe rappresentato il fallimento risorgimentale, il naufragio delle speranze democratiche e garibaldine nella Sicilia dei Gattopardi; e con esso, è descritta anche l’eclissi dell’intellettuale: inattuale, inconsapevole, passivo, non ancora engagé, per così dire. Nel secondo romanzo, Nottetempo, casa per casa, anche qui un intellettuale, maestro elementare, è travolto dal secondo e drammatico fallimento dell’Italia unitaria, quello dovuto all’avvento del fascismo. Per la seconda volta, le speranze degli italiani naufragano in un gorgo storico, nel Ventennio del buio novecentesco. E infine il terzo romanzo, Lo Spasimo di Palermo, ci presenta un ulteriore fallimento delle speranze italiane, quello repubblicano. Le speranze di una rinascita crollano di fronte alla pervasività del potere mafioso, e alle sue infiltrazioni nello Stato repubblicano».

3 Basterebbe seguire le tracce lasciate dall’uomo dalle scarpe gialle, dal falso ragioniere, dal mafioso delle Falde…

4 «Questo di oggi è un libro sul presente, ma anche un ripercorrere gli anni Sessanta, con il terrorismo vissuto a Milano e anche con quello che è il male della Sicilia, con le atrocità delle stragi di mafia. Infatti, il libro si conclude con la strage di Via d’Amelio e con la morte del giudice Borsellino. Questo è stato il mio progetto letterario. Poi, naturalmente, accanto a questi libri, ci sono dei libri collaterali, ma tutti convergono su questa idea, cioè, sul potere, sulla corruzione del potere» in Intervista inedita a Vincenzo Consolo, a cura di Irene Romera Pintor, http://vincenzoconsolo.it/?p=1299 poi pubblicata in Vincenzo Consolo, “Autobiografia della lingua” – Conversazione con Irene Romera Pintor http://books.openedition.org/res/318.

Autrice
Lise Bossi
Université Paris-Sorbonne

Rcherches
Culture et historie dans l’espace Roman

“Un sogno perso” por PASQUALE SCIMECA


“Un sogno perso” è il mio secondo film, ed è un film che deve molto a Vincenzo Consolo, ma questo lui non lo sa. Nel 1988, io facevo l’insegnante. Come spesso accadeva a tanti della mia generazione, dopo la laurea, sono andato a lavorare nelle regioni del nord Italia; perché lì c’erano più possibilità.
Durante l’estate tornavo al mio paese per stare un po’ con i miei e ritrovare i vecchi amici. Quella estate del 1988, al mio paese, avevano indetto un concorso di fotografia. Il mio è un piccolo paese con poco più di mille abitanti, nel centro del feudo della Sicilia. I miei amici, che sapevano della mia passione per la fotografi a, mi esortavano a presentare le mie foto a questo concorso. Io, sinceramente, non ero molto interessato alla cosa e non volevo farlo; però quando mi dissero che il Presidente della giuria era Vincenzo Consolo, ho deciso di partecipare per avere così la possibilità di conoscerlo. Il primo premio, per chi vinceva questo concorso, consisteva nella solita “targa”, e cosa più importante, in un milione di lire (circa cinquecento euro di oggi). Così cominciai ad andare in giro per le campagne a fotografare i pastori e i contadini, (quelli che ancora resistevano a quella vita di stenti). Alla fi ne fui io che vinsi il primo premio, e con i soldi mi comprai una cinepresa Arriflex 16 mm di seconda mano. Il possesso di questa cinepresa stimolò la mia antica passione per il cinema; e fu così che iniziò la mia carriera cinematografica. Vincenzo Consolo, suo malgrado, ha dunque una responsabilità molto grande per quello che poi sarebbe diventato il mio lavoro. Anche perché senza quel milione del premio non avrei mai comprato quella cinepresa (che conservo ancora come un cimelio) e non avrei mai iniziato a fare cinema.
I miei due primi film (La donzelletta e Un sogno perso) li ho fatti con quella cinepresa, e questo mi ha permesso, soprattutto, di sviluppare la mia idea di cinema autoriale; dalla scrittura alla fotografia, dal montaggio alla produzione. Eravamo un gruppo di amici ai quali piaceva il cinema e abbiamo coinvolto altre persone, e così abbiamo fatto, a bassissimo costo, La donzelletta. Poi questo fi lm è stato comprato da Enrico Ghezzi per Fuori Orario che andava (e va ancora) in onda su Rai Tre. E sempre Rai Tre ci ha dato i soldi (cento milioni di lire —cinquantamila euro circa di oggi—) per il secondo film: Un sogno perso.
Dopo questa piccola parentesi, vorrei tornare a parlare dei temi, che in questi due giorni di convegno, hanno affrontato l’opera di Vincenzo Consolo, partendo proprio dal mio secondo film Un sogno perso.
I due primi episodi del film sono tratti dalle opere di due grandi scrittori siciliani: Elio Vittorini e Vincenzo Consolo. Dico scrittori siciliani e non italiani, perché una parte importante della letteratura italiana del secolo scorso è stata opera di autori siciliani (Pirandello, Brancati, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, per citare solo i più noti). Una cosa, questa, che mi ha sempre colpito; perché fi no alla metà del secolo scorso, in Sicilia, l’ ottanta per cento della popolazione era analfabeta. Mi sono sempre chiesto; come è possibile che da un popolo di analfabeti siano potuti uscire questi grandi scrittori? Io credo, che in qualche modo, questo abbia a che fare col fatto che l’arte del racconto, il gusto e il piacere del racconto
(che purtroppo oggi si è perso) è un qualcosa di insito nell’animo del popolo siciliano. In tutti i paesi c’erano delle persone: artigiani, contadini, pescatori, minatori, ecc., che erano stimati e amati solo perché avevano il dono del racconto. Da bambino passavo anch’io il mio tempo seduto nelle botteghe dei barbieri o dei calzolai a sentire i loro racconti. E poi c’erano i Cantastorie con le loro chitarre e i loro cartelloni dipinti, e i pupari, questi artigiani dell’arte che intrattenevano il pubblico, non una sera o due, ma trecento sessanta sere all’anno, ogni sera c’era una puntata, con racconti straordinari che assomigliavano molto a quelli delle Mille e una notte. Un sogno perso è un film di tanti anni fa: del 1992. Un film su un sogno, perso per l’appunto. Il sogno di un mondo, quello della mia infanzia, della civiltà contadina spazzata via da una nuova forma di civiltà che P. P. Pasolini chiamava del consumismo, dove ci sono tutte quelle cose che dicevo prima, ma c’è soprattutto la letteratura. Il primo episodio è tratto da Filosofiana di Consolo e il secondo dall’ultimo romanzo (incompiuto) di Vittorini Le città del mondo.
Quello che ho fatto, rispetto al racconto di Consolo, è un’ opera, diciamo così, di tradimento. Perché dal momento che faccio un film tratto da uno scrittore è chiaro che lo tradisco. Lo tradisco nella forma e nella sostanza. Per me, l’episodio del libro di Consolo Filosofiana è anche un modo per raccontare un’altra cosa (che poi, credo, sia insita, sostanzialmente anche in Consolo), ma per me è una cosa più esplicita. Nel mio caso è una scusa per raccontare qualcosa di questo mondo che andava scomparendo; della Sicilia vista come metafora della civiltà contadina, questa millenaria civiltà contadina che si è riprodotta quasi uguale nel tempo. Per secoli e secoli ha riprodotto se stessa, con pochissime innovazioni, però anche con una pratica culturale e sociale, con un’idea del rapporto con la natura, con la cultura, l’educazione, e che nell’arco di qualche decennio è stata completamente annientata, distrutta. E questo in Sicilia è avvenuto anche fisicamente attraverso l’ emigrazione. Milioni di contadini, che avevano iniziato ad andare via già verso la fi ne dell’Ottocento, quando partivano a migliaia e migliaia, sui piroscafi che li portavano in America, in Argentina, in Brasile e perfino in Sudafrica. Ma negli anni cinquanta del secolo scorso, la cosa è diventata una vera e propria desertificazione, di una civiltà, di una cultura ma anche di una terra che cambiava. Prima di partire in massa i contadini, a dire il vero, avevano tentato una qualche forma di resistenza, disperata, folle, eroica. L’ultimo tentativo di resistenza, sono state le lotte contadine. Negli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di contadini hanno tentato di cambiare se stessi, di cambiare le cose, di scardinare quelle forme di potere feudale che si basavano sulla mafia, sulle classi aristocratiche, sulle gerarchie ecclesiastiche, sulle burocrazie del nuovo Stato unitario. Purtroppo queste lotte sono fallite, e il movimento contadino non si è più ripreso. Non solo il movimento contadino, ma l’intero popolo siciliano ha perso la sua identità e la sua anima. Ho parlato di popolo, ma in realtà, in Sicilia vi erano almeno tre popoli: quello dei pescatori, quello dei minatori e quello dei contadini. Erano mondi separati che spesso non avevano alcun rapporto fra di loro. Il minatore la mattina scendeva in miniera e non sapeva se la sera sarebbe tornato in superficie. Questo fatto determinava un modo di essere, una caratteristica esistenziale che lo distingueva da tutti gli altri. I contadini, ad esempio, si vestivano a festa soltanto in rarissime occasioni (funerali, matrimoni, battesimi, ecc.), mentre i minatori, ogni fi ne settimana si vestivano di modo elegante e andavano ad ubriacarsi nelle taverne, spendevano tutti i soldi che avevano guadagnato e che rimanevano, dopo le spese per la famiglia, perché tanto poi, chi sa se sarebbero tornati vivi dalle viscere della terra, l’ indomani tornando al lavoro. Per non parlare dei pescatori, che spesso parlavano dei dialetti propri, incomprensibili agli altri. Erano veramente tre mondi diversi l’uno dell’altro, ma accumunati da un’ unico destino; quello dell’estinzione. Questi popoli, scomparendo, hanno lasciato un deserto, ed è di questo che si parla nel mio film “Un sogno perso”, che poi è anche il mio sogno perso. Io vengo da un piccolo paese contadino… Per qualsiasi ragazzo del mio paese, Cefalù (la stessa Cefalù dove Consolo ha ambientato II sorriso dell’ignoto marinaio) era la civiltà, era il mondo. Sono andato a studiare a Cefalù dopo le scuole elementari, e quando uscivo per strada, spesso rimanevo sbalordito da questo nuovo mondo: i negozi, le ragazze in costume che si vedevano in estate, la cattedrale imponente, i palazzi signorili… Questo film mi ha aiutato a cercare un sogno che non esiste più. Un sogno che non potrà più ripetersi e qual è il modo migliore di cercare i sogni? Cercare nella letteratura; ecco perché Consolo, ecco perché Vittorini. Questi due episodi che i due grandi scrittori raccontano nei loro libri, mi sembravano fossero molto importanti perché in qualche modo erano degli episodi che seguivano in un arco di tempo (dalla fi ne della guerra fi no agli anni cinquanta), la delusione provocata dal fallimento delle lotte contadine. Vito Parlagreco che cerca di rifarsi una vita comprando questo pezzetto di terra pieno di pietre, perché erano delle vere e proprie pietraie le terre che una falsa riforma agraria dava ai contadini. Così come Vittorini in Le città del mondo ci racconta di quello che succede dopo. L’incomunicabilità tra padri e figli, la paura dei padri per l’ignoto e il desiderio dei figli di partire, di cancellare le orme dei padri. La rottura del Mito, l’inutilità della parola e della scrittura che caratterizzeranno gli ultimi anni di vita di Vittorini, e la ricerca spasmodica, quasi maniacale che Consolo dedica alla scrittura, sono le due facce della stessa medaglia. Si può scrivere di un mondo che sta scomparendo? Si può scrivere con parole che per le generazioni future non avranno più alcun significato? Lo si può fare a condizione di guardare alla storia come fosse l’anima del popolo, a condizione di rinunciare a qualsiasi forma di verismo e di andare all’essenza; “Eschilo, è nato qui, in terra di Sicilia” fa dire Consolo a don Gregorio, l’imbroglione che leva a Parlagreco l’ultima vana illusione. Eschilo il grande tragico… Chissà attraverso quale associazione d’idee mi viene in mente Verga. Forse perché penso che Verga è anche lui un grande tragico. Vittorini non è stato un grande tragico, ma tendeva in qualche modo alla tragedia attraverso la costruzione del mito. Consolo cerca la tragedia attraverso la parola, attraverso questo altro modo di lavorare la parola, di alzare il livello della realtà alla metafisica, scavando le parole come un minatore. Io quando sento parlare di letteratura regionalistica provo un po’ fastidio perché penso che la letteratura siciliana non ha niente di regionale, è pura metafora. È un caso che parla di Sicilia, anche se senza Sicilia non potrebbe esistere. Come diceva Vittorini (in Conversazioni in Sicilia) “È per caso che questa storia si svolge in Sicilia”. Dunque la Sicilia —come diceva un altro grande: Leonardo Sciascia— è una metafora del mondo. Quindi è una bella miniera per uno scrittore, dalla quale poter estrarre i minerali che si sciolgono nella lingua, che tra l’altro è una lingua molto ricca (c’è dentro qualcosa della lingua araba, di quella greca, spagnola, francese, italiana). Una lingua profonda che ha radici, che si nutre della terra. Questo è un po’ l’origine di questo film. Dove non c’è solo un riferimento letterario, ma un processo che parte dalla letteratura e diventa altro – perché il cinema è altro – Un bisogno esistenziale, un tentativo di raccontare la desertificazione di un mondo, la scomparsa di un popolo che può tornare a vivere solo nel sogno. Perché senza questo sogno non c’è letteratura, ma non c’è neanche il cinema. Grazie.

La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
(Homenaje por sus 75 años)
Irene Romera Pintor (Ed.)


foto di Marino Ciardi

Vincenzo Consolo, Cochlias Legere

Nello spirito informale di questo convegno preferisco esprimere pensieri “spettinati”, come diceva il polacco Stanislaw Jerzy Lec. Le mie esperienze di letture infantili sono state profondamente diverse da quelle ricordate da alcuni dei relatori di oggi. Non ho avuto l’opportunità di incontrare personaggi straordinari, professori, scrittori nell’estrema provincia siciliana in cui sono cresciuto. Sono vissuto nel vuoto, in una solitudine assoluta sino a un’età matura. Nessuno, durante l’infanzia, mi ha letto I promessi sposi e tanto meno La Divina Commedia. Anzi, mio padre, che era un piccolo borghese commerciante con otto figli, e con l’assillo di mantenerli decorosamente, non concepiva proprio che al mondo ci fossero dei libri. Io dormivo in una stanza accanto a quella dei miei genitori, la sera da ragazzino, leggevo con un’abat-jour accesa fino ad ora tarda, clandestinamente. Mio padre vedeva filtrare la luce sotto la porta della sua stanza, allora si alzava e veniva a spegnerla. Non lo faceva per avarizia, ho capito solo dopo che questo bambino che leggeva era per lui motivo di inquietudine. Vedeva in me un deviante, probabilmente si chiedeva «ma questo chi è? di che razza è uno che legge?». Naturalmente mi voleva uomo pratico, commerciante come lui, o magari piccolo industriale, perché l’ambizione del mio clan – la famiglia Consolo era una sorta di clan – era quella di diventare piccoli industriali dell’olio. Quindi questo ragazzino che leggeva libri di letteratura appariva anomalo, diverso dai fratelli più grandi. In casa non avevamo una biblioteca, c’erano solo i libri di scuola delle mie sorelle e dei miei fratelli, neanche in paese c’era una biblioteca pubblica, e i preti, presso i quali studiavo, conservavano solo opere rare, libri ecclesiastici, vite di santi.,. La mia grande voglia di sapere, di conoscere, di leggere restava immancabilmente inappagata. Avevo sviluppato, in quegli anni, una sorta di ossessione per la lettura, che sola mi avrebbe permesso di conoscere il mondo, di sapere chi ero, da dove venivo, dove volevo andare. Mi venne in soccorso un cugino di mio padre che viveva davanti a casa nostra: don Peppino Consolo, proprietario terriero e originale figura di scapolo, forse un po’ folle, Possedeva una grande biblioteca, molto partigiana. Tolstojano e vittorhughiano, aveva libri fondamentali, come Guerra e pace, I miserabili. Quando capì che questo ragazzino era un deviante, mi chiamò, dicendomi: «Vincenzino, vieni qua ho dei libri, se tu vuoi leggere». Allora io presi l’abitudine di attraversare la strada e di andare da lui. Mai mi diede un libro in prestito, mi faceva leggere solo a casa sua, in cucina, su un tavolo di marmo: questo fu il mio impatto con il mondo dei libri (non prendo in considerazione quelli di scuola che, oltre ad essere noiosissimi, erano contrassegnati dal marchio della dittatura fascista). Il primo che lessi fu I miserabili, mi sconvolse la vita, mi aprì straordinari. orizzonti. Don Peppino Consolo, ripeteva spesso «Victor Hugo, non c’è che lui!». La seconda biblioteca in cui mi sono imbattuto, all’epoca delle scuole medie – gli americani erano già arrivati – è stata la biblioteca del padre di un mio compagno che si chiamava Costantino. Era il figlio dell’ultimo podestà del mio paese, diventato, ovviamente, sindaco democristiano. Io andavo a casa sua a fare i compiti, cioè ero io a fare i compiti a Costantino. Nello studio con le poltrone di pelle, suo padre aveva una biblioteca ricchissima, i libri erano tutti rilegati. Costantino, di nascosto, in cambio dei compiti che io facevo per lui, me li prestava. Lessi dei libri importanti che a quell’età, undici, dodici anni, non riuscivo a capire nella loro profonda verità, nella loro bellezza. Quei libri mi sono serviti moltissimo, per il mio nutrimento adolescenziale e per diventare un uomo con un’ossatura abbastanza accettabile, per non restare gracile. Quando in età adolescenziale ci si imbatte in libri importanti come Guerra e pace, La Certosa di Parma di Stendhal, Shakespeare, Don Chisciotte, anche se non si coglie il loro significato profondo, li si attraversa come quando da giovane si attraversa un bosco e senza rendersene conto si incamera l’ossigeno che serve per la costruzione dello spirito e del corpo. Quindi, in qualsiasi modo la lettura dei libri importanti, di quelli che si chiamano classici. in ogni caso e a qualsiasi età può servire per formare la struttura del pensare. Leggere e scrivere sono per me elementi inscindibili, e in parte sono la stessa cosa. Credo che derivino dalla consapevolezza o dalla sensazione che noi uomini siamo persone fragili, finite, esposte a qualsiasi tipo di insulto e qualsiasi tipo di offesa. Io credo che da questa stessa debolezza e impotenza sia nato il bisogno del metafisico, siano nate 1e religioni. Forse sarò blasfemo, ma credo che le religioni scaturiscano da questa esigenza che ci sia altro, al di là di noi che possa soccorrerci, da qui nasce anche quella che Leopardi chiama <<da confederazione degli uomini fra di loro», perché proprio a causa di questa fragilità l’uomo sente il bisogno di mettersi insieme e darsi delle regole per un reciproco aiuto. La stessa esigenza genera le società, la storia, la letteratura. I grandi scrittori sono i teologi che hanno elaborato per noi il sistema religioso della letteratura. Perché la letteratura è una religione, l’ho sentito e capito da adolescente, raggiungendo uno stato febbrile di piacere della lettura, di incandescenza dello spirito, paragonabile all’estasi dei santi. La lettura di quegli anni felici era assolutamente gratuita e disinteressata, disordinata, caotica, poteva capitare il capolavoro come il libraccio orrendo e sbagliato. Ma anche il libro peggiore, non quello falso ma quello mancato, serviva. In quell’età irripetibile dell’adolescenza, nessuno può consigliarti cosa devi leggere, è uno stato di assoluta libertà. Virginia Woolf ha detto: <<l’unico consiglio che si può dare ad un giovane lettore è quello di non accettare nessun consiglio». Ma il tempo della lettura disinteressata e gratuita, come diceva Pavese «della libera fame», si riduce sempre di più, soprattutto per noi che abbiamo scelto il mestiere di scrivere. Siamo obbligati a letture che chiamiamo professionali, fatte con razionalità, consapevolezza, funzionali al lavoro. Certo ci sono anche le riletture, grazie alle quali scopri delle cose che ti erano sfuggite: attraversare per la seconda volta La ricerca del tempo perduto, Don Chisciotte, Shakespeare, sono esperienze straordinarie che, in età matura, nell’età della consapevolezza, nell’età del lavoro, danno un’altra felicità, diversa da quella adolescenziale, assolutamente inconsapevole, gratuita, anarchica e libera. Del resto, si parte quasi sempre dai libri per scrivere un altro libro, che si configura come una sorta di palinsesto costruito sull’esperienza di altri libri. Pensiamo al Don Chisciotte, il più grande libro della letteratura occidentale: tutto comincia con la lettura dei libri di cavalleria per cui don Chisciotte impazzisce, diventa quell’hildalgo dalla trista figura che noi conosciamo. C’è un episodio chiave, a proposito di libri; al ritorno di don Chisciotte dal primo viaggio, la nipote e la governante cercano di eliminare tutti i libri rischiosi e pericolosi che 1o avevano indotto a credere di essere un cavaliere. Come Minosse, le due donne destinano questi libri al Paradiso, al Purgatorio o all’Inferno. Alcuni infatti vengono salvati, altri vengono tenuti in sospeso, quelli condannati, vengono subito eliminati e buttati via. Un criterio di ripartizione molto saggio, a mio avviso. Tutti abbiamo avuto i nostri libri dell’inferno, nel senso dell’erotismo, dell’enfer francese, i libri dannati, da eliminare, da bruciare. Anche se i libri non si dovrebbero mai bruciare, purtroppo oggi il loro livello si abbassa sempre di più, in quest’epoca della visualità in cui si tende ad intrattenere piuttosto che a far capire che cosa è la bellezza della poesia, la bellezza della parola scritta. A ragione Aldo Bruno ha parlato di libri da supermarket, che ci vengono propinati dall’industria editoriale le cui scelte sono sempre di più all’insegna del profitto e non della qualità. Ho dedicato al tema dei libri utili e dei libri inutili, alcune pagine di un mio romanzo, che io chiamo narrazione, nel senso in cui la intende Walter Benjamin. Credo che il romanzo oggi non sia più praticabile, perché non è più possibile fare appello a quello che Nietzsche, a proposito della tragedia greca, chiama lo spirito socratico. Lo spirito socratico è il ragionamento, la riflessione sull’azione scenica. Parlando del passaggio dalla tragedia antica alla tragedia moderna, dalla tragedia di Sofocle e di Eschilo a quella di Euripide, Nietzsche sostiene appunto che in quella di Euripide c’è l’irruzione dello spirito socratico, cioè l’irruzione del ragionamento e della filosofia. Nel romanzo tradizionale settecentesco-ottocentesco l’autore usava interrompere il racconto con le sue riflessioni. Pensiamo alle celebri riflessioni manzoniane sull’azione scenica. Io credo che oggi questa riflessione non si possa più fare, lo spirito socratico non può più esserci nelle creazioni moderne perché l’autore non sa più a chi rivolgersi in questa nostra società di massa. Ho teorizzato perciò lo spostamento della narrazione verso la forma della poesia; la narrazione non è più un dialogo ma diventa un monologo, con l’aspetto formale di un’organizzazione metrica della prosa. La pagina che vi propongo è tratta dal mio romanzo che si chiama Nottetempo, casa per casa, dove narro dell’imbattersi in libri inutili, in libri fasulli e di un’erudizione che non appartiene alla cultura, non appartiene alla letteratura e che forma quella che è La zavorra del sapere, a volte l’errore del sapere. Il protagonista è un giovane intellettuale socialista, nel periodo de1’avvento del fascismo, che per il suo impegno politico, sarà costretto ad andare in esilio in Tunisia. Il suo antagonista è un barone decadente dannunziano che, nella ricca biblioteca di famiglia, cerca insistentemente un libro sui mormoni che non trova e allora dice:
Erano primieramente libri ecclesiali, per i tanti monaci, parroci, arcipreti, canonici, ciantri, provinciali, vescovi dentro nel suo casato, dalla parte dei Merlo e dei Cìcio. Erano controversie storiche, teologiche, vite di santi, di  missionari martiri, dissertazioni, apologie, come ad esempio, e solo fra quei in volgare, Delle azioni eroiche, virtù ammirabili, vita, morte e miracoli del B, Agostino Novello Terminese capi dieci, Apologia dell’Accademico Tenebroso fra i Zelanti intorno alla nascita di santa Venera in Jaci contro gli argomenti del p. Giovanni Fiore, L’ardenza e tenacità dell’impegno di Palermo per contendere a Catania la gloria di aver dato alla luce la regina delle vergini e martiri siciliane S.Agata, dimostrate nell’intutto vane ed insussistenti in vigor degli stessi principi e dottrine de’ Palermitani scrittori.

Il barone tirava fuori dagli scaffali i volumi con disgusto, 1l fazzoletto al naso per la polvere che s’alzava da quelle carte. E c’era poi tutto quanto riguardava Cefalù, il suo Circondario, da Gibilmanna a Gratteri, a Castelbuono, a Collesano, fino a Làscari, a Campo Felice, a Pòllina… E copia del Rollus rubeus dei diplomi del Re Ruggero, degli atti del processo al vescovo Arduino, le storie di Cefalù del Passafiume, dell’Aurìa, del Pietraganzili… Libri di scienza come la Flora palermitana, la Stoia naturale delle Madonie, I Catalogo ornitologico del Gruppo di Malta, il Catalogo dei molluschi terrestri e fluviali delle Madonie e luoghi adiacenti, il Catalogo dei Crostacei del Porto di Messina, il Trattato sui novelli pianeti telescopici… E ancora le istruzioni per adoperare gli specchi inclinati, i rimedi contro la malsanìa dell’aria, la memoria intorno ai gas delle miniere di zolfo… Che puzza, che polvere, che vecchiume! Ne avrebbe volentieri fatto un grande fuoco don Nené, per liberare, ripulire, disinfestar la casa. E pensò ad altre case del paese in cui v’erano simili libri. Alle antiche case di tutta la mastra nobile, da la guerra fino ad oggi serrate, fredde come tombe, abitate da mummie, da ombre, da cucchi spaventati dalla maramaglia dei reduci, dei villani, che di questi tempi s’eran fatti avversi, minaccianti. Pensò alla casa del Bastardo con tutti quei libri i, ogni stanza, di filosofia, di politica, di poesia, alla villa a Santa Barbara che lo zio don Michele, un pazzo! aveva lasciato a quel Marano, al figlio della gna Sara. Pensò ai gran, palazzi di Palermo, alle canoniche, ai monasteri, ai reclusori, agli oratori, ai conventi. Pensò a Monreale, a San Martino delle scale, all’Arcivescovado, allo Steri, all’Archivio Comunale, ad ogni luogo con cameroni, studi, corridoi, anditi tappezzati di stipi traballanti, scaffali di pergamene scure, raggrinzite, di rìsime disciolte, di carte stanche, fiorite di cancri funghi muffe, vergate di lettere sillabe parole decadute, dissolte in nerofumo cenere pulviscolo, agli ipogei, alle cripte, alle gallerie sotterranee, ai dammusi murati, alle catacombe di libri imbalsamati, agli ossari, allo scuro regno r6so, all’ imperio ascoso dei sorci, delle càmole dei tarli degli argentei pesci nel mar del1e pagine dei dorsi dei frontespizi dei risguardi. E ancora alle epoche remote, ai luoghi più profondi e obliati, ai libri sepolti, ai rotoli persi sotto macerie, frane, cretti di fango lave sale, aggrumati, pietrificati sotto dune, interminate sabbie di deserti. Oh l’incubo, l’asfissia! Dalla sorda e inarrestabile pressura di volumi inutili o estinti, dai cumuli immensi di parole vane e spente sarà schiacciato il mondo, nell’eloquio demente d’una gran Babele si dissolverà, disperderà nell’universo. Per fortuna, don Nené aveva come antidoto, contrasto, il suo segreto enfer, aveva per sollazzo il suo Micio Tempio, e aveva soprattutto, per nutrimento d’anima, di vita, il suo D’Annunzio.

E dove siete, o fiori

strani, o profumi nuovi?

Don Nenè, l’eccentrico pazzo tolstojano – ecco il cugino di mio padre che ritorna
nella narrazione – lascerà in eredità la sua preziosa biblioteca a Pietro Marano, il protagonista, figlio di contadini. Il ragazzo attingerà a questi libri, realizzando la sua educazione sentimentale: <<E i libri, tutti quei libri in ogni stanza lasciati dal padrone don Michele, ‘Vittor Ugo”, diceva ‘Vittor Ugo…” e “Gian Valgiàn, Cosetta…” “Tolstòi” e ‘Natascia, Anna, Katiuscia…”, e narrava, narrava le vicende, nell’inverno, torno alla conca con la carbonella. Narrava ancora di fra Cristoforo, Lucia, don Rodrigo… dei Beati Paoli, Fioravanti e Rizziere, Bovo d’Antona…>> (ecco che ritorna il nostro Manzoni). Ci si può imbattete talvolta nei falsi libri, nei libri ammuffiti, pietrificati, che non significano nulla ma si può avere la fortuna, di incontrare, di attraversare i libri che Harold Bloom chiama canonici. Certo si leggono i libri per la trama, per quello che rappresentano; si legge Stendhal per la passione d’amore, per la sua visione di energia del mondo; si legge Proust per la rappresentazione di un mondo che stava declinando; si legge Kafka per quanto Kafka abbia di profetico, di entusiastico. L’entusiasmo viene da en-theòs, si dice quando si è posseduti dal Dio e molto spesso gli scrittoti sono entusiasti, sono quelli che riescono attraverso la metafora ad essere profetici. A proposito, io ho capito il senso della parola metafora una volta, mentre mi trovavo  ad Atene, invitato dall’Istituto Italiano di Cultura, e mi sono visto sfilare davanti agli occhi un camion su cui c’era scritto netaforòi, cioè trasporti! I libri che hanno questa vita – Vittorini diceva che sono libri arteriosi -, che hanno la forza della metafora, riescono ad essere profetici perché con il passare degli anni diventano veramente interpreti del tempo che stiamo vivendo. Don Chisciotte o I promessi sposi, o le opere di Pirandello diventano sempre più attuali in quest’epoca in cui stiamo smarrendo la memoria, l’identità, in cui il potere ci costringe a vivere in un infinito presente, privandoci della conoscenza dell’immediato passato, impedendoci di immaginare l’immediato futuro. Ho intitolato questo mio intervento Cochlias legere, in antico si diceva questo quando si andava per i lidi a raccogliere le conchiglie come un gioco dilettoso. Io credo che la parola “leggere” significhi andare dentro i libri per raccogliere conoscenza, raccogliere raccogliere, sapienza, bel1ezza, poesia; noi leggiamo queste chiocciole che raccogiamo sulla spiaggia, che ci portano dentro il labirinto dell’umanità., dentro il labirinto della storia, dentro il labirinto dell’esistenza. Capire questo significa esorcizzare la nostra consapevolezza della finitezza, la nostra paura, perché io credo che le aggregazioni umane, le società, nascano proprio da questi sentimenti di insicurezza, dalla debolezza della nostra condizione umana. La lettura dei classici ci conforta, ci arricchisce, ci apre nuovi orizzonti. Oggi, in questa epoca della visualità, sembra che i libri non siano più tanto praticati, soprattutto in questo nostro paese che ha avuto una storia particolate. II nostro è un paese culturalmente terremotato che ha avuto una storia diversa da ogni altro paese europeo. La nostra cultura era una cultura in cui affluenti venivano da una cultura alta e da una cultura popolare. L’incrocio di questi due affluenti formava quella che era la cultura tout court. La trasformazione radicale, profonda e veloce del nostro paese – Pasolini ce l’ha spiegato a chiare lettere – da plurimillenario contadino a paese industriale, lo spostamento di masse di persone dal meridione ai settentrione, verso le zone industriali, ha generato uno sconvolgimento culturale: la cultura popolare è stata cancellata: nessuna nostalgia, ma era comunque una ricchezza. Il mondo contadino era un mondo di pena, di sofferenza, di ignoranza, però la cultura popolare era una vera cultura. Poi c’era la cultura alta. Oggi viviamo una cultura media che è stata sicuramente appiattita dall’ossessione per la comunicazione, per la velocità. Io credo che oggi i classici, da Cervantes a Shakespeare a Dante, siano veramente, come dire, i segni, i monumenti di una gande civiltà che nel nostro contesto, nel contesto occidentale è al tramonto. Non sappiamo cosa avverrà dopo questa nostra epoca. Bill Gates ha profetizzato già che il libro sparirà e questo mi ricorda una frase di Victor Hugo in Notre-Dame de Paris, che riguardava l’invenzione della stampa: «ceci tuera cela», questo ucciderà quello, cioè il libro avrebbe ucciso l’architettura. Questo non è avvenuto,
 l’ architettura ha continuato ad essere insieme al libro, una delle grandi espressioni umane dell’arte; ma oggi con la comunicazione assoluta, con i mezzi di informazione di massa (internet, televisione) non so quello che avverrà, se la tecnologia, l’elettronica uccideranno il libro, la carta stampata. Ci auguriamo che questo non avvenga e che ci saranno ancora, come diceva Stendhal, «i felici pochi» che possano attingere a questi monumenti dell’umanità che sono i libri di letteratura e la poesia, i romanzi, il teatro. Speriamo che le nuove generazioni, voi, possiate continuare, come i monaci del medioevo, a trascrivete i codici importanti della nostra cultura, della nostra civiltà, del nostro sapere e della nostra poesia.

estratto da Sincronie VII,13
Rivista semestrale di letterature, teatro e sistemi di pensiero
Vecchiarelli Editore 2003




Roma 18/2/2003
Università Tor Vergata