In una recensione del 5 maggio 1985 pubblicata su «Il Messaggero» alla favola teatrale Lunaria di Vincenzo Consolo il poeta Giovanni Raboni scriveva: Ciò che il testo, nella realtà delle sue risultanze espressive, lascia affiorare, è piuttosto un’iperletterarietà elusiva, elegante e malinconica, una stravaganza capace di conciliare liricità ed erudizione, un’ossessione verbale alleviata da una sorta di pietas ironico-illuministica1
1 G. Raboni, E nevicò con cocci
lucenti di luna, «Il Messaggero», 5 maggio 1985, p. 5. .
Nel giro di una frase Raboni riesce a condensare alcune delle caratteristiche salienti della scrittura consoliana. Per iperletterarietà in questo contesto si intende una scrittura che si configura come spiccatamente letteraria. Tale risultato è raggiunto da Consolo principalmente attraverso due vie: da una parte una scelta linguistica caratterizzata dal plurilinguismo, volta al recupero della ricchezza della lingua a livello geografico, temporale e diastratico; dall’altra c’è l’ipertestualità, definita da Gérard Genette come «ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto)»2
2 G. Genette, Palinsesti. La letteratura di secondo grado, Einaudi, Torino,
1997, pp. 7-8. . Nelle sue pagine Consolo riesce a incastonare tutta, o quasi, la tradizione letteraria: vi ritracciamo Omero, Dante, Eliot, Leopardi, Manzoni – l’elenco sarebbe davvero lungo. La pagina di Consolo è un distillato di letteratura: lo scrittore seleziona dalle pagine degli altri scrittori e dalla storia linguistica ciò che gli sembra utile o degno di essere salvato e lo 4 passa attraverso un filtro che ci restituisce una scrittura pura, che a tratti si fa eterea, nella sua smania di nominare le cose e nella sua difficoltà di farlo.
I tre aggettivi scelti da
Raboni per definire l’iperletterarietà consoliana appaiono quanto mai esatti:
essa è elusiva, i rimandi alla tradizione infatti si inseriscono all’interno di
un contesto in cui i riferimenti si confondono, si amalgamano con la
scrittura, diventano allusione, tonalità di un racconto; è elegante, perché
spesso sceglie i registri alti della comunicazione e anche quando vira verso
quelli più bassi (come il dialetto o il gergo), riesce a conferirgli un’aura di
particolare ricercatezza; infine, l’iperletterarietà di Consolo è malinconica,
perché fa riferimento a qualcosa di perduto, che sia il distacco dalla terra
natale, la fine del mondo contadino, il livellamento operato dalla lingua dei
media.
La letteratura di Consolo è
una letteratura dal limite, ci regala lo sguardo sulla cosa un secondo prima
che essa decada nel non essere. È proprio questa malinconia ciò che collega
l’iperletterarietà all’altro elemento centrale, e apparentemente discordante,
della scrittura di Vincenzo Consolo: l’etica, la compromissione costante della
scrittura con il contemporaneo e dunque l’impegno. Consolo affida ai suoi
romanzi una funzione “metaforica”: parlare della storia per parlare del
presente. In realtà c’è più di questo: attraverso il racconto degli eventi del
passato Consolo scandaglia i mali imperituri della storia, la sopraffazione
dell’uomo sull’uomo, il dolore e la tentazione dell’annientamento. «La storia
è sempre uguale»3
3 V. Consolo, Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 2013, p. 5. ,
scrive Consolo nella prima pagina de Lo spasimo di Palermo, romanzo che fin dal titolo ci fa percepire lo strazio e che in epigrafe riporta significativamente una battuta di Prometeo dal Prometeo incatenato di Eschilo: «Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore». La letteratura di Consolo si fa carico di questo dolore, decide di rompere la barriera del silenzio per cercare una via di comunicazione che interrompa il male.
In un’intervista rilasciata a
Irene Romera Pintor, Vincenzo Consolo ha parlato in questi termini delle
ragioni profonde delle sue scelte narrative:
Credo di avere
un progetto letterario che perseguo da parecchi anni. Consiste nel cercare di
raccontare quelli che sono i momenti critici della nostra storia: momenti
critici in cui c’è stato uno scacco, una sconfitta, un’offesa dell’uomo.4
4 V. Consolo, Autobiografia della
lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor, Ogni uomo è tutti gli
uomini, Bologna, 2016, p. 13.
In un’altra intervista, Consolo lega tale scelta al conferimento di una funzione alta ed etica alla letteratura:
Io credo che la letteratura debba […] imporsi appunto come contro-storia, come qualcosa di diverso rispetto alla cronaca ufficiale. In ogni epoca sono sempre esistite e continueranno ad esistere, oggi più che mai, le zone anonime della marginalità, le sacche di maggior dolore, umiliazione e sfruttamento (isolate ed estranee al flusso principale della storia). Supremo compito della letteratura è proprio quello di rappresentare e dar voce a questo perenne ghetto di esistenze.
In questa propensione verso
gli offesi e gli sconfitti c’è la valenza etica della scrittura consoliana.
Ancora nell’intervista rilasciata a Irene Romera Pintor, parlando del suo
sguardo sul Risorgimento siciliano espresso nel romanzo Il sorriso
dell’ignoto marinaio, Consolo affermava di aver narrato «con gli occhi
degli emarginati, dei contadini, autori di una rivolta popolare e di una
strage, e poi condannati e fucilati» (p. 13). Il sorriso dell’ignoto
marinaio racconta, tra le altre cose, la rivolta contadina di Alcara Li
Fusi, terminata tragicamente con l’uccisione dei ricchi del paese e con una
serie di altri crimini, che saranno poi condannati all’arrivo delle truppe
garibaldine. Da questa scelta notiamo come lo sguardo di Consolo sia più
complesso di quanto potrebbe sembrare: non è una difesa delle vittime, ma una
condanna della storia, in cui meccanismi millenari di sopraffazione determinano
un circolo vizioso di violenza e dolore. In una delle pagine finali del
romanzo, il barone Mandralisca si fa portatore di quello che possiamo
considerare il pensiero dell’autore: «E cos’è stata la Storia sin qui, egregio
amico? una scrittura continua di privilegiati»6
6 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1987, p. 88. .
La scrittura di Consolo, allora, cerca di ridare voce a chi ne è stato privato. Il codice linguistico pare però inappropriato a questa restituzione, perché costruito dagli oppressori a loro uso e vantaggio. La
5 riflessione è
ancora veicolata dal personaggio di Mandralisca: «Ed è impostura sempre la
scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi
e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta»7 7 Ibidem. .
Si nota insomma come la
questione della lingua non sia per Consolo un fatto neutro; ma viene comunque
da chiedersi come si concili la scelta di una lingua iperletteraria con
l’impegno professato dallo scrittore. A spiegarcelo è Consolo stesso,
nell’intervista a Irene Romera Pintor (pp. 8-11). La scelta linguistica di
Consolo pare connotata storicamente, è il risultato dell’epoca: scrittori come
Sciascia, Moravia e Calvino – appartenenti a una generazione precedente, quella
che aveva vissuto direttamente il fascismo e la guerra – scelgono «uno stile di
tipo razionalistico, di assoluta comunicazione […] uno stile alla maniera
illuministica di stile francese». Consolo si colloca cronologicamente e
idealmente dopo di loro, quando «la speranza nei confronti di una nuova società
che si sarebbe dovuta formare, di un nuovo assetto politico e di un maggiore
equilibrio sociale, […] era caduta» a causa dell’instaurarsi «di un potere
politico che replicava esattamente quello che era crollato». La scelta
stilistica di Consolo, dunque, non è più «nel segno della speranza», ma è «nel
segno dell’opposizione» e rappresenta «la rottura con il comune codice
linguistico, con l’adozione di un altro codice che rappresentasse anche le
periferie della società». Le motivazioni della scelta linguistica di Consolo
non sono «solo di tipo estetico», ma anche «di tipo etico e politico». «Il
grande deposito linguistico» lasciato in Sicilia dallo stratificarsi di popoli
diversi è così diventato il primo repertorio della scrittura di Consolo, uno
stile di opposizione, contro l’appiattimento della lingua della comunicazione,
che rappresentava un importante ingranaggio di quella macchina di integrazione
e asservimento che negli stessi anni Pasolini andava descrivendo, con concetti
e parole assai simili a quelli consoliani. La consonanza con Pasolini si nota,
d’altronde, anche nell’insistenza sul concetto di mutazione antropologica, sul
racconto della fine del mondo contadino sopraffatto dalla nuova realtà
industriale, che è una delle fonti di quella malinconia che pervade la
scrittura consoliana. La perdita delle radici, la cancellazione del passato,
che sia storico o linguistico, è ciò che angoscia maggiormente Consolo. Se il
mutamento non si può fermare, tuttavia ci si deve sforzare per conservare la
memoria di ciò che era prima:
Credo che sia proprio questo
il dovere della letteratura, il dovere della memoria. Non perdere il contatto
con le nostre matrici linguistiche, che erano anche matrici etiche, matrici
culturali profonde. Perdere questo contatto significa perdere identità e
perdere anche la funzione della letteratura stessa, perché la letteratura è
memoria e soprattutto memoria linguistica. (Autobiografia della lingua,
p. 12)
La trasmissione della memoria, fine ultimo della scrittura, che in essa trova il suo valore etico, non vuol dire per Consolo solamente raccontare i fatti del passato, ma vuol dire anche inglobare all’interno dell’opera la tradizione linguistica e letteraria, in protesta contro il livellamento della lingua italiana sul linguaggio dei media e la perdita dei valori che l’arte ha saputo esprimere nel corso dei secoli. Per questo possiamo affermare che l’iperletterarietà in Consolo è prima di tutto una missione etica, uno strumento per incidere sul presente, una voce di protesta. Consolo è insomma uno di coloro che meglio hanno saputo inserirsi nell’etichetta di “scrittore impegnato”, riuscendo a rendere pienamente onore a entrambi i termini del sintagma. 6
Giugno 2022 Editora Comunità Rio de Janeiro – Brasil
Per quanto le pagine di Vincenzo Consolo siano disseminate di figure femminili, per alcune di esse non è facile delinearne i contorni o il profilo secondo i moduli tradizionali del ritratto o del personaggio a tutto tondo, anche perché spesso tali figure sono metaforizzazioni di oggetti naturali o culturali. La Sicilia ad esempio (e con essa il Mediterraneo tutto), nella sua complessità di «esistenza» e di «storia», di bellezza e di orrore, di attrazione e di repulsione, di natura e di cultura, di storia e di arte, di guerra e di pace, di mafia e di eroi, è sicuramente l’oggetto femminile più emblematico della scrittura di Consolo. Tutti gli altri non sono che degli avatars, dai più orridi ai più teneri, di questo oggetto fondamentale che egli ha inseguito durante tutto il suo percorso di uomo e di artista, approssimandosi forse di più ad esso e perfino attingendolo (immaginariamente, s’intende) nei resti archeologici, nelle pietre antiche. I personaggi femminili consoliani consistono sovente in semplici nomi di figure mitologiche o di sante, in mere elencazioni caotiche di questi nomi, che si configurano come delle vere e proprie antonomasie. Nomi di divinità o ninfe mitologiche talvolta accompagnati da un predicato (Afrodite, Artemide, Aretusa, Ciane, Demetra, Persefone, Hera, Athena, Venere celeste, Diana delle cacce, Cerere delle messi siciliane, Malophòros, Ecate, Medusa, Core, Sfinge, Europa, Scilla, Antigone, Circe, Sirene ecc.); di sante o comunque di figure cristiane (Giovanna d’Arco, Santa Rosalia, Santa Lucia, la Madre, Annunziate, Maddalene, sante Caterine, Immacolate, sante Ninfe o Susanne ecc.). Ora, queste semplici citazioni onomastiche non sono certo delle eccedenze barocche, dei meri ornamenti retorici, ma sono appunto delle antonomasie che vanno lette come autentici significanti, cioè nomi. 1 Tutti i romanzi di Consolo sono citati da questa edizione. attraverso i quali il testo veicola ed evoca una pluralità, spesso contraddittoria, del femminile, come accade ad esempio col termine Malophòros al quale è accostato, tra gli altri, il termine mele (miele), che ricorre in altre due pagine dello stesso capitoletto (In Egesta degli Elìmi) del romanzo Retablo, in particolare nel contesto fortemente erotizzato della Confessione di Rosalia Granata: «come fa l’apa sopra la corolla dove al fine s’insinua e suscita il suo mele»1. Questo significante della dolcezza, specie quella erotica e materna, si riverbera anche nel capitoletto successivo (In Selinunte greca), nella mirabile descrizione della dea Malophòros, descrizione generata di fatto dalla prima parte del nome della dea: «e il tempio sacro in fondo e segretissimo in cui nel recesso più interno e proibito era Lei, la Molle, l’Umida, la dèa che porta la mela e che la dona, l’inconoscibile, insondabile padrona» (p. 437), dove a «Molle» si affianca qui il termine «mela», l’attributo proprio della dea, che designa il frutto e connota al contempo la fertilità. Accanto a questi nomi propri femminili appartenenti alla nostra tradizione mitologica e cristiana, incontriamo anche dei nomi comuni di parentela come madre, moglie, sorella, figlia, signora, fidanzata, i nomi cioè dei legami familiari più intimi spesso dolorosamente drammatici, come ad esempio il termine «sorella» riferito all’anonima fanciulla portata in corteo funebre sempre nel capitoletto intitolato In Selinunte greca del romanzo Retablo. O le sorelle di Petro Marano, Lucia e Serafina, intaccate anch’esse dal male catubbo (dalla melanconia) nel capitolo IV, La torre, del romanzo Nottetempo, casa per casa. D’altronde il capitolo VIII, la cui epigrafe è una citazione tratta dalla Nedda di Verga2, si intitola significativamente Le donne, mentre il capitolo X, Pasqua delle rose, introduce la tenera figura di Grazia la Piluchera, l’accogliente amante (prostituta?) di Petro (pag. 731 ss.). Da L’olivo e l’olivastro preme ricordare almeno la Lucia del Seppellimento di Santa Lucia del celebre dipinto di Michelangelo Merisi: Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente […]. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. (pp. 828-829) E la stessa madre dello scrittore, toccante e indimenticabile «vecchia Euridice»: La guardava, ne studiava la faccia, la pelle sottile e bianca, le venuzze azzurre, il neo sulla tempia, i capelli fini e lisci fermati dietro con la crocchia, la bocca a grinze, le orecchie trasparenti, i buchi allungati dei lobi da cui pendevano gli orecchini. Ma presto provava imbarazzo, disto- glieva lo sguardo, gli sembrava di violare l’intimità indifesa di quella donna ch’era sempre stata candida, innocente, il suo privato e lento allontanarsi. […] Cosa credeva? Che quella donna, sua madre, fosse rimasta sempre lì, uguale, come il giardino, le barche, le isole, con il ricordo di lui sempre acceso? Il dolore per gli altri figli andati, scomparsi? Aveva mollato pure lei (ma come, quando?) e s’era messa a camminare per la sua strada. Voleva annullare quel tempo, ritornare, lui, al punto della partenza, far tornare lei, vecchia Euridice, di là dall’ombra dell’oblio? (pp. 848-849) Accanto a queste due ultime figure (Santa Lucia e la madre) delle quali, a differenza delle precedenti antonomasie, lo scrittore ci consegna un ritratto rapido ed essenziale, sono anche presenti nei suoi testi delle metaforizzazioni del femminile, come quella, notissima, della «chiocciola» del Sorriso dell’ignoto marinaio (pp. 233-238), o in Retablo quella dell’«arancio » (p. 427) o del «corallo» (pp. 454 ss.) e persino del tempio: il tempio di Segesta all’occorrenza, nella cui descrizione insistono le «madri» e la gran «Madre» (p. 414). Ma, tra gli oggetti inanimati, o più precisamente cosmici, bisogna annoverare la luna disseminata ovunque nelle pagine consoliane, 20 al centro, segnatamente, della splendida favola teatrale Lunaria. La luna come figura per eccellenza del femminile («Deh madre, sorella, sposa, guida della notte, méntore, virgilia, dimmi, parlami, insegnami la via») 3 ha una lunga tradizione nella nostra letteratura, basti qui citare l’esempio massimo del Canto di un pastore errante dell’Asia, e anche delle altre numerose lune di Leopardi, come quella dell’Odi Melisso e del Tramonto della luna letteralmente evocate in Lunaria. Dopo questa rapida rassegna di figure femminili, vorrei soffermarmi sul capolavoro di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, che si apre su una interessante figura di donna, Catena Carnevale, un personaggio dal nome altamente simbolico, per quanto lo scrittore si sia ispirato a una donna reale di Lipari di nome Maria Maggiore. Se il nome proprio Catena rinvia immediatamente alla scrittura, alla catena significante, il cognome Carnevale non può non evocare una straordinaria eroina popolare immortalata da Carlo Levi in Le parole sono pietre: Francesca Serio madre di Salvatore Carnevale, una donna che non aveva paura di pronunciare, per ottenere giustizia per il sacrificio del figlio ucciso dalla mafia, «parole di pietra»4. Il ritratto di Catena viene presentato dapprima nell’Antefatto del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e quindi ripreso e arricchito di ulteriori tratti, nel secondo capitolo intitolato L’albero delle quattro arance. Di Catena sappiamo che è bella e irraggiungibile, la sua bellezza però non s’incarna in un corpo reale di donna, piuttosto in una sorta di raggio luminoso che al tempo stesso la vela e la svela «al rapido saettar d’occhi traversi […] dei giovani che passano e ripassano per la strada di San Bartolomeo » (p. 127)5. Ricama e sa decifrare la scrittura barocca delle ricette, sicché torna utile al padre speziale in Lipari. È «un’intellettuale»6, nervosa, irritabile, meteoropatica, un mistero quanto all’amore. A tal punto furiosa, da infierire sul ritratto dell’Ignoto perché somigliante al suo fidanzato lontano, con 3 Lunaria, p. 315 4 Cfr. C. Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino, 1955, pp. 138-152. Consolo ha dedicato allo scrittore torinese un denso saggio raccolto nella settima e ultima sezione di Di qua dal faro (Milano, Mondadori, 1999, pp. 251-257) intitolata significativamente Le parole sono pietre. 5 Vincenzo Consolo ha svelato, nel corso di un Convegno a lui dedicato e tenutosi a Capo d’Orlando nell’ottobre del 2006, che l’immagine alla quale questa descrizione di Catena rinvia è quella di una Annunciazione. 6 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Donzelli Editore, Roma, 1993, p. 43. 7 Ivi, p. 46. 8 «il povero esclama / al fondo di tanto abisso / terra pane / l’origine è là / la fame senza fine / di libertà» (pp. 250-251). quel sorriso che l’affascina tanto quanto la perseguita, un sorriso inafferrabile che potrà incatenare, lei già incatenata da quel sorriso, solo sfregiandolo col punteruolo d’agave da ricamo, solo lasciandovi sopra, tale un’erinni, il segno della sua passione assoluta (p. 127). Vorrei ancora, prima di passare a Rosalia, forse la figura princeps della ricca galleria di figure femminili consoliane, soffermarmi sull’ultimo capitolo (IX) del Sorriso dell’ignoto marinaio, che contiene le famose scritte graffite sui muri del carcere dai rinchiusi colpevoli dell’eccidio di Alcara Li Fusi. Paradossalmente e perfino scandalosamente, questo carcere a forma di chiocciola rappresenta forse il luogo per eccellenza del ‘femminile’, della scrittura autentica, corale e acefala, «indipendente da un corpo o da una mente» (p. 222), una scrittura capace di tradurre in linguaggio il trauma originario del Soggetto e della Storia. Un trauma che, nel punto finale della riscrittura storico-metaforica degli eventi riportati nel romanzo, si mostra quasi allo stato puro senza i «colori dell’affresco»7, graffito di carbone e messaggio poetico per chi può leggerlo e intenderlo. L’ultima strofe dell’ultima scritta sul muro è infatti in lingua sanfratellana, incomprensibile per lo stesso Mandralisca e per noi lettori: U pauvr sclama Suogn ‘nta u mar Au Faun di tant abiss Terra pan L’originau è daa La fam sanza fin Di Libirtaa 8 Di questa strofe in sanfratellano la prima edizione del romanzo non forniva alcuna traduzione. Ora, proprio gli ultimi cinque, poeticissimi versi rinviano ad una parola mancante (propriamente la parola muta del desiderio), una parola fondamentale perché generatrice dell’intero canto. Si tratta della parola ‘lontananza’ intesa come separazione dall’oggetto d’amore, vera e propria parola ombelicale che si iscrive nell’ordine silenzioso della lettera, e che coincide con quello che Freud nell’Interpretazione dei sogni chiama ‘ombelico del sogno, kern-punkt, punto opaco e non più decifrabile del desiderio del sogno, ma anche punto di generazione plurima e sovradeterminata della scrittura del sogno. Ma c’è di più. Soggetto di questa ‘lontananza’ è una fanciulla, una figura femminile dunque. È stato possibile risalire a questa parola ombelicale grazie all’eccellente studio di Salvatore Trovato sulla presenza del sanfratellano nel Sorriso. Lo studioso afferma che il verso: au faun di tant abiss, rigo 28 della scritta, è ripreso dall’ottava num. 19 (dal titolo La lontananza) della raccolta di Luigi Vasi (p. 286), un’ottava d’amore che tratta appunto il tema della lontananza (Suogn ‘nta u mar au faun di tant abiss ‘sono nel mare al fondo di tanto abisso’ piange la fanciulla per la lontananza dell’amato nell’ottava popolare) da cui Consolo sa trarre elementi per la costruzione di un testo che tratta il tema della rabbia sociale, dell’odio di classe e del desiderio di vendetta9. D’altronde l’intera strofe è costruita con versi presi da varie altre ottave del Vasi e abilmente intrecciati dallo Scripteur, al fine di trasmettere un messaggio innanzi tutto etico-sociale, rivoluzionario, rivendicativo. Ma, mi permetto di postillare, questo messaggio è strutturato poeticamente e per di più in una lingua ‘altra’. Inoltre la voce che emana dal fondo dell’abisso, frammento di corpo staccato dal soggetto che la enuncia, è quella di una fanciulla innamorata e separata dal suo amato, la stessa voce profonda, anonima ed enigmatica che modula il canto della strage, del trauma, della separazione, della lontananza. E passiamo infine alla figura di Rosalia nel romanzo Retablo, un romanzo diviso, com’è noto, in tre parti: due portelli laterali Oratorio e Veritas, e un portello centrale, Peregrinazione. Esso narra il 9 S. Trovato, Valori e funzioni del sanfratellano nel pastiche linguistico consoliano del «Sorriso dell’ignoto marinaio» e di «Lunaria», in Dialetto e letteratura a cura di Giuseppe Gulino ed Ermanno Scuderi, Pachino 1989 (Atti del 2° Convegno di studi sul dialetto siciliano – Pachino 28/30 aprile 1987), p. 135. 10 «Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei» (p. 371). viaggio e le peripezie dell’artista milanese Fabrizio Clerici e della sua guida Isidoro, un monaco del convento della Gancia, nella Sicilia del XVIII secolo (1760-1761 circa). Fin dal celebre prologo di Retablo da me chiamato Inno a Rosalia, la figura femminile non si riduce a una mera rappresentazione realistica. Essa soggiace piuttosto a delle figurazioni metamorfiche, che vanno dal ritratto a tutto tondo della protagonista Rosalia all’«ottuso vortice» (p. 422) del corpo del godimento. Non a caso Rosalia è esattamente definita in due luoghi, e fuori da ogni figurazione possibile, come «la causa di tutto, il motore primo» (p. 372) secondo le parole di Isidoro, e «il motore primo del miracolo» (p. 420) secondo le parole dell’altra Rosalia, perché di «Rosalia» ce ne sono almeno due in Retablo. Il romanzo non farà che dispiegare dall’inizio alla fine ciò che il prologo annuncia: la perdita e quindi la quête di Rosalia, cioè dell’oggetto del desiderio e dei suoi avatars, che si incarna nelle figure di Rosalia Guarnaccia, l’amata di Isidoro; Teresa Blasco, l’amata di Fabrizio Clerici; alle quali bisogna aggiungere Rosalia Granata, la donna sedotta da Frate Giacinto da Salemi e salvata da Vito Sammataro, un frate costretto a farsi brigante. O, infine, «solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore» (p. 423). Accanto a queste vi sono altre importantissime figure femminili come quelle mitologiche e religiose già citate all’inizio di questo saggio o altre figure minori come Luzìa o Lucia Barraja (p. 467), che fa parte anch’essa della galleria delle Rosalie. E se si volesse delineare un ritratto fisico, esteriore (secondo la terminologia dei teorici del Rinascimento italiano) di Rosalia10, è vero che esso consiste soltanto di alcuni tratti quali l’età (ha 15-16 anni), lo sguardo acceso da lampi d’un fuoco di smeraldo, i capelli colore del rame, i denti di cagnola, mentre il suo ritratto interiore è fissato dall’ossimoro angelo/ diavolo, permanendo inestricabili i tratti angelici e diabolici. È anche fresca, odorosa, bella di sette bellezze ecc., ma soprattutto ha un bel nome, infatti l’inno inaugurale del romanzo è una variazione attorno 22 al nome di Rosalia. Isidoro, d’altronde, risponderà a Fabrizio Clerici che Rosalia «È solamente il nome» (p. 386). Ciò che sembra emergere dall’analisi testuale dell’Inno a Rosalia11 è la scrittura dello slancio di un desiderio verso un oggetto femminile forse del tutto inedito nella tradizione letteraria italiana ed europea. Alle due donne – Venere celeste e Venere terrestre – celebrate da questa tradizione si sostituisce in Retablo una sola donna dalle molte sfaccettature, che è al contempo idealizzata e concupita (sogno o incubo di ciascun uomo forse). Ciò che il lavoro dello stile, della prosodia specialmente, rivela grazie all’accordo stabilito da un certo ritmo tra elementi verbali appartenenti a ordini linguistici differenti e perfino opposti, è l’ibridazione di queste due figure di donna, ottenuta attraverso la coalescenza della corrente tenera e della corrente sensuale dell’amore, che fa sì che i tratti ideali e i tratti erotici di questo oggetto femminile divengono interscambiabili. Le figurazioni del corpo di Rosalia vanno dunque dal ritratto della giovane adolescente paragonata per la sua bellezza al corpo della statua di Santa Ro- 11 Per questa analisi dettagliata cfr. Rosalba Galvagno, «Hymne à Rosalia» dans «Le Retable» de Vincenzo Consolo, in «Revue des Études italiennes», dirigée par François Livi et Claudette Perrus, Varia, Tome 63, n. 3-4/2017, pp. 41-53. salia, all’allegoria della Veritas scolpita dal Serpotta, ad una panòplia di metonimie del corpo (sguardo, capelli, denti, ossa, reliquie, voce), alla ‘lettera’ e, per finire, al corpo del godimento difficilmente rappresentabile: si tratta piuttosto di una figura senza figura del reale, ma al quale Consolo riesce addirittura a dar voce e nella cui specifica e originalissima articolazione si situa la scrittura dell’eros. La mise en abyme di questa scrittura si situa nel bel mezzo del romanzo, in quell’eccentrico capitoletto intitolato Confessione, voluto in corsivo da Consolo. Ora, la grandezza e l’importanza letteraria di questa Confessione risiede proprio nella scrittura, difficilissima, dell’estasi mistica e al contempo arditamente sensuale del corpo di Rosalia ridotto qui a puro strumento del godimento, pura voce, pura onomatopea di una «gioia grande e senza nome»: «O bona, o bella, o santa creatura!» dissemi con quella sua voce flautata stringendo forte nelle sue le mani mie.
«O padre, o padre, per me pietate, vi chiedo abènto!…» riuscii a sospirare, e venni meno. Mi ritrovai, al risveglio, riversa su un giaciglio dentro un casalino ov’erano gli attrezzi per la selva, la testa sul grembo del mio frate, che la mano, ora con forza e ora lievemente, passava sul mio petto, mentre il core affannoso mi battea come del coniglio stanato dal furetto. E dal petto quindi in giuso si moveva, fin su la nicchia ove natura pose il nocciolo del caldo, il seme, il fomento d’ogni brama, godimento, levitando, sfiorando tratteggiando, come fa l’apa sopra la corolla dove al fine s’insinua e suscita il suo mele, mentre che l’origlier crescendo s’impetrava. O foco, foco! Foco che in segreto ardi su la lampa, fiamma che bruci e non consumi! Foco che avvampi il core, l’ossa, ardi il midollo, ogni fibra dell’anima, del corpo! […]. Ah il furore, il delirio, l’ottuso vortice, la danza, da cui sortiva sempre inappagata, sempre anelante all’amor di lui, di lui che a poco a poco si negava, di Lui che m’appariva irraggiungibile! E prona pecora belava, guaiva cagna cana, hau hau, lamentava, ma’, ma, tata cicia caca, ohu ohu, nerva rova urìca, ahi ahiahi, mala mele fima… (pp. 416-422) 23
1 V. Consolo, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre, Mondadori («I Meridiani»), Milano, 2015, p. 418. 2«… faceva altri lavori più duri che da quelle parti stimavansi inferiori al compito dell’uomo» (p. 710).
Congresso Internacional Organizzado por Irene Romera Pintor Departament Filologia Francesa i Italiana Facultat de Filologia Traducciò i Comunicacciò Universitat de Valencia.
Domani
rintoccheranno i dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, il quale era nato
a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio del 1933: il paese sul mare sotto i
Nebrodi con cui ebbe, per tutta la vita, un rapporto conflittuale, di quasi
rabbioso amore: lo stesso, del resto, che patì per l’Italia tutta. Morì infatti
a Milano: ove era approdato inseguendo un sogno vittoriniano di emancipazione, città
che, negli ultimi anni, voleva abbandonare, consegnata come gli sembrava a un
processo di preoccupante involuzione politica. Di lettura ardua, Consolo è
stato però uno scrittore consacrato presto dai lettori e dalla critica.
Basterebbe ricordare che, quando uscì il suo libro forse più bello, Il
sorriso dell’ignoto marinaio (1976), Sciascia gli dedicò un intenso saggio
ora raccolto in Cruciverba (1983). Senza dire di Nottetempo, casa per
casa (1992), il romanzo con cui vinse il Premio Strega. Epperò, io che gli
ho voluto bene non sono mai riuscito a vederlo smemoratamente sereno e soddisfatto
per quanto aveva ottenuto, se non raramente accanto alla moglie Caterina,
perché un tarlo lo rodeva sempre: si fa fatica, in effetti, a non pensare al
suo rapporto difficile con altri due scrittori siciliani di successo, Gesualdo
Bufalino e Andrea Camilleri. Ho detto della sua disposizione politica, che
viveva con un certo animoso risentimento, ma che connotava in profondità la sua
scrittura, in un modo tutt’altro che esornativo. Non si capirà mai fino in
fondo che tipo di scrittore sia, se non si riconoscerà un fatto: che quella civile
sia stata sempre, e talvolta parossisticamente, il rovescio esatto e perfetto d’una
oltranza della forma: sino al punto da non poter capire noi se fosse più
importante per lui -seppure nella declinazione d’un disincanto sempre più feroce-
un progetto di contestazione sociale o il sabotaggio d’una lingua sciattamente
comunicativa e globalizzata, del tutto coerente con la grammatica semplificata
e feroce del Potere, poco importa se, in questo suo antagonismo, Consolo abbia lavorato
per incielarsi nella lingua letteraria o per discendere nel ventre del dialetto.
Per questo decennale gli si rende giustamente onore con alcune pregevoli iniziative: a cominciare dalla ripubblicazione per Mimesis, con la nuova prefazione di Gianni Turchetta, dell’ormai introvabile La Sicilia passeggiata (pp. 176, euro 16.00), stampata nel 1990 con un corredo fotografico di Giuseppe Leone, che ritorna ora con altri scatti dell’artista: un testo «conosciuto quasi solo dagli specialisti», ma -per dirla con lo stesso Turchetta- capace di esercitare «sul lettore una seduzione intensa, fatta di leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione». Turchetta -uno degli studiosi a Consolo più fedele negli anni (fu lui a predisporre nel 2015, con un notevole saggio, il Meridiano dedicatogli)- è anche il curatore sempre per Mimesis del volume che raccoglie gli atti d’un convegno internazionale che si tenne tra il 6 e il 7 marzo 2019 presso l’Università degli Studi di Milano, ovvero “Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del Mediterraneo, fra conflitto e integrazione (pp. 236, euro 20.00). Tra i relatori mi piace ricordare il francese Dominique Budor, lo spagnolo Miguel Ángel Cuevas, che indaga il rapporto tra il nostro e il «tempestosissimo» Stefano D’Arrigo (l’aggettivo è di Consolo stesso), l’irlandese Daragh O’ Connell, concentrato -attraverso Nottetempo, casa per casa– sul grande tema della «notte della ragione» e sui già accennati rapporti tra poetica e politica. Ma non posso non nominare, tra gli italiani, Corrado Stajano, uno dei nostri più importanti intellettuali civili (che a Consolo era legato da forte amicizia), Carla Riccardi, che si misura con la questione fondamentale della Storia tra fughe e ritorni (su un arco cronologico che va da Lunaria alle Pietre di Pantalica), e infine Giuseppe Traina, il quale disquisisce intorno all’affascinante tema dell’influenza arabo-mediterranea. Ha ragione Turchetta, nella sua introduzione, a sottolineare il nesso tra sperimentalismo e eticità e a ricordarci che in Consolo la letteratura, nella sua «missione insieme impossibile e necessaria», resta sempre un «linguaggio speciale, tanto denso da sfidare la concretezza stessa del reale».
Non manca per il decennale il contributo dei
più giovani. Mi riferisco al libro Al di qua del faro. Consolo, il viaggio,
l’odeporica di Dario Stazzone, dottore di ricerca in Italianistica ma già
assiduo frequentatore della letteratura dell’Otto-Novecento non solo siciliana,
pubblicato da Leo S. Olschki Editore (pp. XVIII-114, euro 18.00). Il titolo
rievoca evidentemente quello della raccolta di scritti di Consolo del 1999, ma
con una variazione che ne svela il movimento, conducendoci al senso profondo
del libro: «in luogo della relativa staticità della locuzione Di qua dal
faro si è preferito l’uso del moto a luogo, per rendere l’idea del
movimento dei viaggiatori impegnati nel Grand Tour d’Italie che si
spingevano fino alle estreme propaggini meridionali d’Italia, fino alla Sicilia».
Il che individua da subito anche la fitta trama di rimandi tra testi consoliani
e contesto odeporico, obiettivo primo delle pagine di Stazzone: a documentare l’importanza
del rapporto che tutta l’opera di Consolo, non solo quella di vocazione
esplicitamente saggistica, ha con la letteratura di viaggio. Stazzone, del
resto, accoglie in pieno la definizione che dello scrittore aveva dato Stajano,
«eterno migrante del ritorno», convinto com’è che Consolo sia vissuto «sempre
in bilico tra il desiderio di rivedere i luoghi natali e la delusione che scaturiva,
volta per volta, nell’osservarli violentati da gretto interesse economico,
arroganza criminale e complicità politica», sdoppiato com’era nel simultaneo punto
di vista di nativo e di viaggiatore che arrivava da Nord. E sempre la Sicilia
come questione cruciale: per lui e per tutti i grandi siciliani, Sciascia in
primis, che lo avevano preceduto.
Viene ripubblicato oggi un libro a torto ritenuto
“minore” del grande autore siciliano, narrazione di un viaggio nello
spazio e nel tempo, nella leggenda, nella storia e nella cultura dell’isola,
accompagnato dalle foto di Giuseppe Leone
di Maurizio Di Fazio
Nel 1990, per il Premio Italia che si tenne a Palermo, la Rai affidò al grande scrittore siciliano Vincenzo Consolo, vincitore due anni dopo del Premio Strega, un testo che raccontasse la sua terra natia. Da par suo naturalmente. Ne venne fuori un’iniziativa editoriale di culto, divenuta presto irreperibile: “La Sicilia passeggiata”, accompagnata dalle foto dense e metonimiche di Giuseppe Leone. Non nuovo, quest’ultimo, alle collaborazioni insular-letterarie d’autore, da Sciascia a Bufalino. Oggi questo libro torna in libreria, per iniziativa di Mimesis Edizioni e col supplemento di nuove immagini. Distillato da un «titolo più svariante, più illusorio, infine più sognante”, è la narrazione di un viaggio nello spazio e nel tempo, nella leggenda, nella storia e nella cultura dell’isola «da oriente a occidente». Dal primo approdo dei coloni greci a Taormina alla Agrigento della Valle dei Templi e di Pirandello; dalle miniere di Zolfo alle tonnare. «Vogliamo partire per un nostro viaggio – scrive Consolo -, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione». Splendori e macerie, ferite e polvere divina. «Isola dell’esistenza pura e contrastante. Isola dell’infanzia, dei miti e delle favole. Isola della storia. Di storia dei primordi, degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri, di decadenze, di crolli, di barbarie – aggiunge -. Crogiuolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue. Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph, geroglifico consunto, alfabeto monco». Con la speranza che «questa terra, che è la mia terra, possa, in una prossima desiderata primavera, risorgere dalle tenebre dell’attuale inverno, dal fondo dell’inferno». Questa ristampa speciale è stata curata da Gianni Turchetta, titolare della cattedra di letteratura italiana contemporanea all’Università degli studi di Milano e tra i massimi esperti di Vincenzo Consolo, di cui ha cesellato l’opera completa per i Meridiani Mondadori.
Caro Turchetta, come è nata l’idea di ristampare questo libro 31 anni dopo?
«Da molti anni pensavo di proporre una nuova edizione di La Sicilia passeggiata. Avevamo cominciato a parlarne con Vincenzo Consolo stesso, nel 2011, quando fu colpito dal grave male di cui sarebbe morto nel gennaio 2012. Era un libro molto amato, in particolare, anche da Caterina (a sua volta mancata nel settembre 2020), sua moglie e compagna di una vita, che giustamente ne rivendicava la bellezza e l’importanza e con la quale spesso ci eravamo riproposti di ripubblicarlo, dopo che Vincenzo era mancato. Bisognava solo trovare un editore, perché non era stato possibile inserirlo nel Meridiano. L’occasione è venuta quando, pubblicando, sempre con Mimesis, il volume di Ada Bellanova Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, sono entrato in contatto con Giuseppe Leone, autore delle magnifiche foto che s’intrecciano con il testo di Consolo. Leone ci ha regalato la foto di copertina del libro appena citato. D’intesa con Francesca Adamo, caporedattore di Mimesis, gli abbiamo chiesto anche la disponibilità a fare una nuova edizione, arricchita di nuove foto, di La Sicilia passeggiata: Leone ha risposto con grande entusiasmo e disponibilità. Così, nei primi mesi del 2021, abbiamo avviato la realizzazione editoriale del volume e… eccoci qui».
Che peso specifico sprigiona La Sicilia passeggiata nella vicenda intellettuale e nella produzione narrativa di Vincenzo Consolo?
«La Sicilia passeggiata è solo a prima vista un testo minore
della produzione di Consolo. In realtà, riesce a ritagliarsi uno spazio molto
peculiare, come racconto di viaggio che allude a uno spostamento reale, ma
contemporaneamente viaggia avanti e indietro attraverso i millenni, dandoci una
serie di flash sul passato della Sicilia e sulle straordinarie
tracce che ha lasciato nel territorio siciliano. Consolo ha sempre narrato
della Sicilia. Ma nel corso dei tardi anni Ottanta e ancor più negli anni
Novanta il racconto della Sicilia è andato collegandosi in modo sempre più
esplicito all’esperienza personale dell’autore, a quel suo continuo ritornare
nel paese delle sue origini e della sua giovinezza. Ricordiamoci come suona
l’attacco del racconto Comiso: “Io non so che voglia sia questa,
ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare […] Una voglia, una
smania che non mi lascia star fermo in un posto”».
Qual è la sua forza, la sua seduzione maggiore? Forse (come annota lei nella prefazione) sta nell’«equilibrio tra narrazione, poeticità e saggismo»?
«La Sicilia passeggiata è il frutto di quella smania di cui
dicevo prima. Ma è un frutto che non lascia pesare più di tanto i sentimenti
negativi, l’angoscia davanti a una realtà che, oltre a essere la terra
d’origine di Consolo, mostra sempre più drammaticamente evidenti i segni del
degrado, della devastazione, dei lutti prodotti da una politica rapace e dalla
mafia. Se già in Le pietre di Pantalica (1988) molti racconti
parlano di quella devastazione e di quella violenza, La Sicilia
passeggiata riesce a raggiungere un miracoloso, diverso equilibrio,
trovando una misura che tiene conto della morte, ma continuamente la riporta
alla possibilità della vita e della rinascita. Si sente che è un viaggio vero,
o meglio che mette insieme tanti viaggi veri: questo viaggio ha un suo
procedere lineare, francamente narrativo, che diventa l’asse portante di
innumerevoli escursioni nella storia e nel mito, ognuna delle quali trova una
sua misura narrativa, dando energia e dinamismo alle molte informazioni che
Consolo immette in continuazione».
Il testo si situa tra il romanzo Retablo del 1987 e L’olivo e l’olivastro del 1994. E anche queste due opere erano incardinate, seppure in modo diverso, in un viaggio più meno trasfigurato in Sicilia. Quali sono le differenze più rimarchevoli?
«Come ho scritto anche nell’introduzione, Retablo è un
romanzo-romanzo, ambientato in un Settecento volutamente remoto e irreale,
mezzo storico e mezzo fantastico, in opposizione alla deludente realtà storica.
La polemica verso il presente si fa ben sentire, ma prevale la messa in scena
romanzesca, contesa fra momenti drammatici, con punte molto crude, e momenti in
cui prevalgono invece la dimensione dell’incontro fra gli umani e la stessa
valorizzazione delle bellezze della Sicilia. Invece L’olivo e
l’olivastro è un libro segnato proprio dalla volontà di criticare
aspramente un presente che tradisce la storia così ricca e preziosa dell’isola.
Prevalgono così nettamente da un lato uno stile tutto teso verso l’alto, da un
altro, e soprattutto, la deprecatio temporis, con la denuncia dei
“processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori”, che stanno distruggendo la
Sicilia. Con L’olivo e l’olivastro Consolo inclina
definitivamente verso il cupo pessimismo degli ultimi anni».
Che tipo di viaggiatore era Vincenzo Consolo? In questo libro, il viaggio è
un po’ qualcosa di extra-geografico: un oscillare nel tempo e nella leggenda,
nei tòpoi profondamente stratificati e contaminati della
sua terra natia.
«Era un viaggiatore incredibilmente attento al tessuto non solo storico dei
luoghi visitati, ma anche alle caratteristiche della natura: aveva per esempio
una conoscenza incredibilmente approfondita delle piante locali, anche nelle
varianti più peculiari di certe piccole zone. Conosceva poi in modo molto
profondo le diverse realtà artigianali, di cui era curiosissimo. Proprio queste
conoscenze, unite allo studio della storia (era, fra le altre cose, un
autentico cultore di libri di storia locale), lo rendono in grado di fare in
continuazione quelle escursioni, come dice giustamente lei, extra-geografiche,
da cui germogliano le continue oscillazioni verso il passato remoto e il mito».
Secondo lei La Sicilia passeggiata riesce anche nell’intento di promuovere l’arte, la cultura e il paesaggio siciliani, oltre che a ipostatizzarne, magistralmente, l’irriducibile complessità?
«Penso proprio di sì. Bisognerebbe trovare uno sponsor pubblico per
diffondere questo libro come strumento di promozione della Sicilia. Non è
facile trovarne di migliori…».
«Trovarsi nel centro meraviglioso, dove convergono tanti raggi della storia universale, non è cosa da nulla» scrive Goethe poco prima di partire per l’isola nel suo Viaggio in Italia. È per questo che gran parte dell’opera di Consolo ruota intorno alla sua Sicilia, letta soprattutto in prospettiva storica?
«In qualche modo sì: da un lato Consolo rappresenta la Sicilia lavorando come un vero storico, che mette insieme i documenti con un’attenzione ligia al rigore della ricostruzione; dall’altro, la Sicilia che egli racconta è sempre anche “altro”, nel senso che si fa metafora del mondo, una metafora dotata di una profonda forza di generalizzazione. La sua Sicilia riesce ad essere immagine del Sud del mondo, di ciò che succede attraverso i processi di modernizzazione che distruggono il mondo contadino e che vediamo all’opera in Italia ma anche in tante altre nazioni. Inoltre, per Consolo la Sicilia è anche una densa metafora dell’ambivalenza della vita. È infatti una terra bellissima, dove c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per essere felici: straordinari monumenti, una natura rigogliosa e, perché no?, una cucina straordinaria (Consolo ne parla spesso…). In Sicilia insomma c’è tutto, potrebbe essere il migliore dei mondi possibili; ma per altri versi è un mondo tragicamente violento e corrotto, pieno di orrori, addirittura proverbiale, nel mondo intero, per la sua mafia, tanto che tutte le criminalità organizzate del mondo vengono chiamate “mafie”, in analogia con quella siciliana. Nel bene e nel male, la Sicilia è un mondo intero: ma portato agli estremi…».
Lei è uno dei massimi esperti internazionali di Vincenzo Consolo. Perché ne consiglia la lettura a chi non lo ha ancora scoperto, magari per motivi anagrafici? Cosa resta, e resterà, del suo pensiero e della sua scrittura?
«Consolo costruisce una originalissima miscela di sperimentalismo e di eticità. Vi sono tanti scrittori sperimentali e tanti scrittori etici: ma è rarissimo trovare una così stretta congiunzione tra queste due dimensioni. Inoltre, affida alla parola letteraria un compito molto impegnativo di verità; ma allo stesso tempo continua a invitarci a diffidare di ogni parola. La sua letteratura spinge verso verità forti, per non dire assolute, ma pure a ogni passo ci impone la coscienza critica dei limiti di ogni parola: è una sfida impossibile, che sa di essere tale, ma solo a questo prezzo la letteratura può raggiungere la sua speciale verità».
Vincenzo Consolo, “La Sicilia passeggiata” Fotografie di Giuseppe Leone Mimesis Edizioni, Pagine 170
È il 1985 quando Vincenzo Consolo scrive la prefazione al saggio Sirene siciliane. L’anima esiliata di Lighea di Basilio Reale, uno studio che, seguendo i precetti del pensiero junghiano, analizza l’ultimo racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, La sirena. In poche pagine, Consolo delinea una sorta di geografia della letteratura siciliana, non prima però di espletarne un’altra: quella di alcuni suoi esuli. Ricorda infatti il suo primo incontro con Reale, avvenuto a Milano nel 1953: i due esuli dalla terra del mito, la Sicilia, provengono della stessa provincia (di Sant’Agata di Militello, Consolo, di Capo d’Orlando, Reale). Ma in questi esili ci fa ricordare quello di Vittorini e quello più antico di Verga.
“Scoprimmo subito, io e Reale, d’avere le stesse aspirazioni e ispirazioni, che da una parte si declinavano in prosa, dall’altra in poesia”.
Dal mito e dai vagheggiamenti sulla loro terra del mito, passano entrambi alla storia, alla necessità dell’impegno. Da qui parte la divisione ideale della letteratura siciliana in due indirizzi: “quello della storia e quello dell’esistenza (o della natura o del mito). Filoni che possono coincidere con le due parti dell’Isola”, dove a Occidente si riscontra il primo, a Oriente il secondo, con numerose e straordinarie eccezioni:
“E questa idealità è subito contraddetta fatalmente dalla realtà, da spostamenti di autori da una parte verso l’altra: di un poeta come l’abate Meli, per esempio, verso l’Arcadia, verso la mitologia dell’Oriente, o del grande De Roberto verso la storia e lo storicismo d’Occidente”.
E, da quella Finisterre, ‘di qua dal faro’, la Sicilia, Consolo intercetta un luogo, incrocio tra le due anime dell’Isola: Capo d’Orlando, che significa Lucio Piccolo. A lui è dedicata una sua opera, Lunaria, divagazione nel sogno con queste parole: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”.
Piccolo tra l’altro fu figura di riferimento anche per Reale, ed è individuato da Consolo come l’ispiratore della sirena per il cugino Tomasi di Lampedusa. Quest’ultimo alla storia aveva dedicato Il Gattopardo, ma si spostò nella Sicilia orientale per scrivere di Lighea e, appunto, per rivisitare il mito. La sirena di Piccolo appartiene più a quelle entità di “ninfe campestri, boscherecce, sia pure in apparenza stregonesche il senso panico della natura”. Ma certamente l’influsso di Piccolo determinò sul cugino la deposizione “dell’armatura teutonica del Principe Fabrizio di Salina” per l’approdo alla seduzione e a un ricongiungimento con lo spirito della Natura. Ma cosa è dunque Lighea per Consolo? Alla fine della prefazione al saggio ci dice che Lighea è un ipogeo, un profondo scavo archeologico. E tra questo andare e tornare tra storia e mito, Lighea è dunque la ricerca dell’originario, attraverso l’eterno femminino. Come i dialetti greci del professor La Ciura, protagonista del racconto La sirena di Tomasi, tutta l’opera consoliana è una ricerca continua dell’arcaico e dell’originario. Lo si riscontra anche nelle sue scelte linguistiche.
La ricerca di questo ipogeo, prima che nella Sicilia orientale de Le pietre di Pantalica – indimenticabile quell’incipit: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca” – possiamo riscontrarla nell’unica opera consoliana, pubblicata nel 1987, che ha come tema la seduzione erotica e conoscitiva: Retablo. La seduzione, in quest’opera ambientata nella Sicilia del Settecento – e che racconta due storie di amori infelici – è rappresentata da due donne: Teresa Blasco, nonna del Manzoni, amata da Fabrizio Clerici e Rosalia, la bella popolana per cui fugge il monaco Isidoro. Fabrizio Clerici, lombardo, discende in Sicilia per conoscere la terra degli antenati di Teresa, in un viaggio iniziatico che lo riporta al mito. Proprio le Sirene vengono evocate nell’ascolto del canto di alcune donne al bagno di Segesta nell’episodio centrale del romanzo tripartito:
“o chi si perse ascoltando una volta il canto stregato di Sirene, come mi persi anch’io nel vacuo smemorante, nel vago vorticare, nella felicità senza sorgente e nome, nel profondo jato che disgiunge il futuro dal passato”.
Ma è nella sezione iniziale e nella storia di Isidoro che l’eterno femminino prende forma. Da tensione irrazionale si fa monumento e si fa storia sotto l’effigie della bella Rosalia, prima presagita nelle forme muliebri della santa patrona palermitana, di cui la donna porta il nome: “Lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne”, poi nel riconoscimento (una vera e propria agnizione) che avviene nell’Oratorio di San Lorenzo di Palermo: la statua in gesso della Virtù della Veritas, realizzata da Giacomo Serpotta, viene riconosciuta da Isidoro come l’amata Rosalia, che dello scultore era stata modella: “Davanti a una di quelle dame astanti, una fanciulla bellissima, una dìa, m’arrestai. VERITAS portava scritto sotto il piedistallo. Era scalza e ignude avea le gambe, su fino a cosce piene, dove una tunichetta trasparente saliva e s’aggruppava maliziosa al centro del suo ventre, e su velava un seno e l’altro denudava, al pari delle spalle, delle braccia… Il viso era vago, beato, sorridente… Mi sentii strozzare il gargarozzo, confondere la testa, mancare i sentimenti”.
La figura archetipica e la tensione erotica si trasformano per sempre, passando dalla Natura alla storia e consolidando in Consolo ciò che aveva anticipato nella prefazione al saggio di Reale: “un andare e tornare, un perenne oscillare, è un sondare e riattivare il sepolto e riportarlo alla luce”. Diventa dunque sintesi di movimenti opposti e incontro tra il primigenio e istintuale mito e la storia.
Poi, quando sorge e sale nel cielo pallido e regale il faro familiare, lo schermo opalescente, il sipario consolante dell’infinito e dell’eterno, torna incerta, tremante la parola, torna per dire solo meraviglia …
1. Ripensare i luoghi in forma di idillio. Il
dramma di Ulisse e di Ifigenia.
Senza la letteratura
Itaca sarebbe semplicemente una piccola isola greca nel Mediterraneo. Invece
Omero, la tradizione, le invenzioni letterarie l’hanno resa il luogo per
eccellenza delle radici e della memoria, la patria ritrovata dopo un lungo
viaggio: l’hanno trasformata in simbolo[1].
Ulisse in viaggio,
intento ad affrontare pericoli, mostri e tempeste, porta con sé l’immagine di
Itaca luogo del cuore, patria perfetta, a cui desidera a tutti i costi tornare.
Una polarità netta si crea tra il mondo minaccioso – e avventuroso – e il
nucleo accogliente e protettivo della patria e della casa. Eppure Ulisse, una
volta sbarcato, è costretto a interrogarsi subito sull’identità della terra,
sullo scarto tra il sogno che ha cullato durante la lunga distanza e la realtà[2].
Molte cose infatti sono cambiate: lui non è più lo stesso e Itaca è mutata, non
solo per i soprusi dei Proci, ma anche perché il tempo ha segnato la sua
geografia a tal punto da conferirle un paesaggio nuovo, diverso. Per queste
ragioni, e non solo per l’intervento di Atena, Ulisse si guarda intorno e,
smarrito, si pone la domanda: «Dove sono capitato?». Sebbene il finale dell’Odissea
risulti confortante – l’eroe ottiene di nuovo il suo ruolo di re dopo la
sconfitta dei Proci e l’intesa del talamo con Penelope – sorge il dubbio che
l’Itaca ritrovata sia un po’ deludente rispetto al sogno e alla nostalgia.
Perché altrimenti Ulisse sceglierebbe, come insegna l’altra tradizione, di
ripartire? Non dovrebbe godersi la terra tanto amata? Il fatto è che, come
scrive Jankelevitch, la nostalgia, per l’esule – per qualunque esule –, è
insanabile, inestinguibile[3].
Già nel momento del primo distacco dalla patria ha inizio un cambiamento, nel
luogo e nell’individuo, che non permette di colmare la distanza, in alcun modo,
neppure nell’opportunità di un ritorno.
Ifigenia a sua volta,
la sfortunata figlia di Agamennone, salva ma costretta all’esilio tra i feroci
Tauri autori di sacrifici umani, non fa altro che sognare la sua Argo: una
reggia preziosa, in cui è stata bambina, principessa, ma ormai, senza che lei
lo sappia, luogo insanguinato dagli omicidi, la morte del padre per mano di sua
madre, quella di sua madre per mano di suo fratello. La Tauride – anche in
questo caso la responsabilità è della letteratura – assume la connotazione di
una terra selvaggia, priva di ogni forma di civiltà: la dolente sacerdotessa
greca, pur investita dell’autorità religiosa, non può far altro che sciogliere
il suo canto d’esilio, insieme alle schiave sue compagne. È la trama dell’Ifigenia
in Tauride euripidea: l’autore antico ha composto una tragedia che recita
il dramma della nostalgia, la stessa di Ulisse. La città lontana di Argo, nella
mente di chi vive l’esilio, ovvero la protagonista e, con lei, il coro, assume
i tratti di uno spazio desiderato e armonioso, un territorio caro, in cui
rispecchiarsi e ritrovarsi: è emblema della Grecia della civiltà. Eppure, come
dicevo, la terra lontana non è affatto così come l’esule se la dipinge e, anche
di fronte al lieto fine, mentre Ifigenia e il fratello ritrovato salpano dalla
Tauride ostile e si allontanano dai sacrifici, c’è da augurarsi che non ci sia
nessun ritorno a casa. Ritrovare Argo infatti non è possibile e il ritorno può
essere estremamente traumatico.
Il mito e la letteratura,
proponendo una caratteristica veste per certi luoghi reali, li trasformano in
simboli, metafore efficaci anche per la contemporaneità e per il nostro modo di
vivere gli spazi.
Ne sa qualcosa Vincenzo
Consolo che in tutta la sua opera pone l’accento sul suo esilio nel Nord e
sull’irredimibile nostalgia per la Sicilia lontana, patria del ricordo, e
perciò idealizzata nella distanza, come in un’odissea contemporanea, tra le
nebbie di una Milano grigia che ha più di un tratto in comune con la Tauride
euripidea. L’olivo e l’olivastro (1994) e poi anche Lo Spasimo di
Palermo (1998) descrivono un ritorno doloroso che ha i tratti di un incauto
procedere tra le rovine di una patria in fiamme. Nel primo libro, che reca già
nel titolo l’omaggio e la simbolizzazione degli spazi omerici – nell’Odissea
olivo e olivastro segnano lo spazio del naufragio di Ulisse sulla costa dei
Feaci – al giovane migrante siciliano che, fuggito dal terremoto di Gibellina –
ecco Enea che abbandona un’Ilio compromessa – prova a ritornare dopo tanti
anni, il nóstos è negato: Itaca non c’è più, fuor di metafora, perché la
vecchia città è scomparsa sotto il sudario di cemento del Cretto di Burri, e la
nuova, con la Stella texana che segna l’ingresso nel Belice, è, per dirla con
le parole di Consolo, «costruita dai Proci»[4],
non ha insomma molto a che fare con la tanto sospirata patria delle radici. Nel
secondo, poi, veramente amaro è il ritorno del protagonista, lo scrittore Chino
Martinez, a Palermo: la città degli anni Novanta, già compromessa dalla ferocia
della speculazione edilizia, dal sacco che ha cementificato la Conca d’oro,
deve fare i conti con la violenza mafiosa, esemplificata dalla drammatica
esplosione finale in via d’Astorga che allude in maniera netta alla strage di
via d’Amelio. A queste opere possono essere aggiunte moltissime pagine, come il
testo eponimo di Le pietre di Pantalica, che piange il degrado –
culturale, ambientale – dello scenario della bianca Siracusa, chiamando in
causa i simboli della tragedia euripidea[5],
tradotta tra l’altro proprio da Consolo con Del Corno[6],
che è messa in scena nel teatro antico. L’autore fa del suo vissuto il motore
dell’invenzione narrativa: la sua personale prospettiva interpreta gli spazi e
li reinventa sul piano letterario. In questo processo Itaca e Argo rimandano a
un mondo che non c’è più: un universo intatto, in armonia, cancellato da una
modernità incivile e snaturante, e divenuto un perenne labirinto fitto di
mostri e pericoli, una Tauride in cui si sacrificano gli innocenti. Nella
prospettiva consoliana allora non è solo la Milano affarista ad assumere i
tratti di luogo ostile: l’osservazione dell’intero spazio della contemporaneità
– l’Italia, il Mediterraneo con i suoi naufraghi e ogni luogo in cui il
migrante è perseguitato, ferito, il paesaggio mortificato dagli incendi,
dall’industrializzazione, da un turismo becero e superficiale – denuncia una
perdita irreparabile in termini di valori e identità[7].
La polarità non è più, o comunque non solo, tra lo spazio fisico dell’esilio e
la terra delle radici, ma tra lo spazio del presente, omologante e svilente, e
quello del passato, in cui è ancora possibile un equilibrio.
Eppure, affrontato il
rischio della rottura dell’idillio, si può scoprire che Itaca non è del tutto
allo sfacelo e che sulle colonne di Argo si può ricostruire. Conviene però
prendere coscienza del punto a cui siamo arrivati. Conviene ripartire dalle
radici, ritrovare angoli vivi del paesaggio, lasciarsi ispirare da quanto di
buono essi comunicano. Il che non vuol dire smettere di vedere le criticità di
ciò che è stato: significa valorizzare ciò che può essere valorizzato e trovare
una nuova via alternativa all’omologazione e allo sfruttamento.
La vera letteratura ha
questo di utile, ci svela a noi stessi, e le pagine di Consolo parlano a tutti
e di tutti, toccano le corde del legame doloroso o vivificante che abbiamo con
gli spazi e tentano di fare chiarezza su questioni grandi e urgenti: invitano
cioè ad una consapevolezza ambientale nel senso più ampio dell’espressione come
unica strada non solo per non perdere il luogo, ma anche per non perdere noi
stessi.
Trovo illuminante la sua
riflessione sulla Sicilia e sul Mediterraneo: nell’amarezza di fronte allo
scempio, di fronte ai facili stereotipi che semplificano lo spazio, lo
appiattiscono – il seducente paradiso a buon mercato da una parte, il degrado,
i sotterfugi dall’altro –, avvallati in maniera semplicistica da un certo tipo
di informazione e da un certo tipo di politica, l’autore rivendica il valore
della complessità. Lo spazio ha molte facce, molte sfumature, la bellezza ha
una sua indubbia fragilità.
Nella sua
rappresentazione dello spazio individuiamo la valorizzazione di alcune isole di
sopravvivenza: gli Iblei con l’arte intatta degli apicoltori e i Nebrodi coi
pascoli verdissimi non sono semplice idillio, Itaca e Argo del ricordo in cui
sarebbe meglio non tornare mai, ma un esempio di risposta concreta alla crisi
del paesaggio e dell’identità contemporanea. Descrivendo la miracolosa armonia
tra uomo e natura, la ricchezza ambientale – piante, animali –, tradizioni
gastronomiche e saperi antichi, che caratterizzano queste oasi di
sopravvivenza, Consolo valorizza una Sicilia quasi arcaica. In ciò non rifiuta
il progresso in sé, piuttosto evidenzia la necessità che esso non faccia
perdere all’uomo la sua identità storica e culturale, come è invece accaduto
nel caso della violenta industrializzazione dell’isola. Mette cioè in evidenza
che i luoghi non sono uno sfondo e che, se smettono di essere quello che sono –
fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di
barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani.
Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli
spazi.
La sua opera invita
dunque – e in ciò risiede, secondo me, la grande attualità del messaggio
consoliano – a conservare le radici, a prendercene cura, perché solo nella
salvaguardia di ciò che è rimasto possiamo sperare di non perdere noi stessi.
Il passato – come
insegnava anche Pasolini nella sua strenua definizione dell’ambiente storico e
umano come territorio composito e stratificato nel tempo, insieme universo
linguistico, identità dei luoghi, creazione artistica – può non essere un
ricordo perduto: può anzi configurarsi come forza a cui attingere.
Mi piace pensare che nei
versi di Accordi,con l’ignoto tu, Consolo alluda ad un’identità
sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione
vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi:
tolto tutto questo, cosa saremmo?
Solo se ripartiamo da
questo, allora, da ‘Itaca’, attraverso un cammino, senz’altro faticoso,
difficile, di consapevolezza degli spazi e della nostra relazione con essi, possiamo
avere qualche opportunità di sopravvivere anche noi. Possiamo avere qualche
speranza, se non per domani, almeno per dopodomani.
[1]A. Montandon,
Itaque au fil du temps, in B. Westphal (a cura di), Le rivage des
mythes. Une géocritique mediterranéenne. Le lieu et son mythe, Pulim, Limoges 2001, pp. 18-36.
[3]V.
Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1983,
pp. 370-371.
[4]V.
Consolo, L’olivo e l’olivastro, in Id., L’opera completa, a cura e con un
saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre,
Mondadori, Milano 2015, p. 869.
[5]V.
Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica,
in Id., L’opera completa, cit., pp. 615-621.
[6]Ifigenia
fra i Tauri, trad. di Vincenzo Consolo e Dario Del Corno,
Istituto Nazionale del Dramma Antico -XXVII ciclo di spettacoli classici (27
maggio-4 luglio 1982), INDA, Siracusa 1982.
[7]«Non si
ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi
che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo», V. Consolo, Fuga
dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma
1993, p. 69. Dello stesso tono sono le affermazioni di Consolo nell’intervista
con D. Calcaterra: «Una volta che si è partiti i ritorni sono impossibili.
Qualsiasi ritorno, anche quello di Odisseo, dopo l’allontanamento, non riesce a
colmare il distacco […] Nell’assenza si è consumato un duplice mutamento:
dell’individuo e del luogo d’origine. Si prova una gran pena quando non
riconosci più la tua terra, e la metamorfosi acquista la drammatica cifra
dell’inesorabile degrado, della perdita, dello smarrimento. Ogni ritorno è
dunque dolore. […] Oggi siamo tutti degli Ulissidi, degli erranti,
espropriati del proprio luogo della memoria. Viviamo nell’indefinito, senza
sicuri punti di riferimento, senza segni, intorno a noi c’è un mare da cui non
s’intravede alcun approdo possibile, e d’altra parte non vediamo più la sponda
da cui siamo partiti. Il destino dell’uomo contemporaneo è quello dell’errante,
che ha perso la propria identità, la propria patria» (D. Calcaterra, Vincenzo
Consolo, le parole, il tono, la cadenza, Prova d’autore, Catania 2007, pp.
20-22).
[8]P.P.
Pasolini, 10 giugno 1962, in Poesie mondane, in Poesia in
forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll.,
Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.
[9]Accordi. Poesie inedite, a cura di Claudio Masetta Milone e F. Zuccarello , Zuccarello editore, Sant’Agata di Militello 2015. pubblicato “La macchina sognante” (28 dicembre 2020)
Questo saggio intende analizzare il romanzo di Vincenzo
Consolo Nottetempo, casa per casa (1992) utilizzando il motivo della fine del
mondo come chiave interpretativa dell’opera ed elemento unificante i diversi
piani su cui la narrativa si sviluppa. Se da una parte La nascita della
tragedia di Friedrich Nietzsche costituisce un modello intellettuale di
riferimento e di confronto per il romanzo consoliano, dall’altra le
considerazioni dell’antropologo Ernesto De Martino sull’apocalisse ci
permetteranno di proporre Nottetempo come una risposta psicologica, culturale e
letteraria al rischio della “fine” esperito in questi tre diversi ambiti. Nel volume postumo che raccoglie gli appunti
preparatori all’opera rimasta incompiuta La fine del mondo, De Martino
approccia il tema dell’apocalisse derivando una connessione tra il senso di
fine del mondo vissuto nel disagio psicologico individuale e le grandi
apocalissi culturali elaborate dalle società o da singoli attori collettivi
operanti in esse. Anticipando i temi di questa ricerca in un articolo comparso
un anno prima della morte dell’antropologo su Nuovi argomenti, egli chiariva il
nesso tra apocalisse individuale e apocalisse collettiva nei seguenti termini:
“i caratteri esterni delle apocalissi psicologiche sembrano riprodursi anche in
quelle culturali, dato che anche le apocalissi culturali racchiudono l’annunzio
di catastrofi imminenti, il rifiuto radicale dell’ordine mondano attuale, la
tensione estrema dell’attesa angosciosa e l’euforico abbandono alle
immaginazioni di qualche privatissimo paradiso irrompente nel mondo” (De
Martino, 1964:111). Il compito delle apocalissi culturali sarà allora proprio
quello di scongiurare la fine, costituendosi come difesa e reintegrazione del
rischio della fine esperito nell’apocalisse psicopatologica: esse, cioè, hanno
il compito di rivalorizzare a livello collettivo e condiviso ciò che nella
crisi personale diventa perdita di senso, incapacità di dare valore e incapacità
di operare nel mondo quotidiano, decretandone così la sua fine. Tuttavia,
avverte De Martino, “se il dramma delle apocalissi culturali acquista rilievo
come esorcismo solenne, sempre rinnovato, contro l’estrema insidia delle
apocalissi psicopatologiche, è anche vero che questo esorcismo può riuscire in
varia misura, e di fatto può sbilanciarsi sempre di nuovo verso la crisi
radicale” (De Martino, 1964:113). Anche le apocalissi culturali, dunque,
possono incorrere nel rischio di essere “nuda crisi” senza possibilità di
rinnovamento, “senza escaton”, rischio che De Martino intravedeva
nell’apocalisse dell’occidente contemporaneo che “conosce il tema della fine al
di fuori di qualsiasi ordine religioso di salvezza, e cioè come disperata
catastrofe del mondano, del domestico, dell’appaesato, del significante e
dell’operabile” (De Martino, 2002:470). Il doppio piano della crisi
psicopatologica individuale e della crisi esperita dalla società nel suo
insieme è colta da Consolo in Nottetempo attraverso il dispiegamento di una
fantasmagoria di personaggi reali e fittizi e attraverso l’ambientazione
storica. Il contesto storico nel quale tali personaggi operano (i primordi del
Fascismo), infatti, è rappresentato e
interpretato secondo i modi di una apocalisse storica che rischia di essere
“nuda crisi”, catastrofe senza rinnovamento. Essa, inoltre, fa eco e diventa
metafora per il presente: l’inizio del Ventennio fascista, infatti, diventa
anche il mezzo per parlare dell’inizio della Seconda Repubblica1 – l’anno
di
*
1 Lo stesso autore, chiarendo come il passato
sia una metafora per il presente, evidenzia il carattere “apocalittico” di tale
passato e tale presente: “Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi
storici […]. L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni
**
pubblicazione del libro si colloca proprio nel passaggio tra la fine di un mondo e l’inizio di una nuova era per la società italiana, nonché pare profeticamente avvertire la crisi culturale che sarà presto inaugurata dall’ascesa di Berlusconi al potere. Come De Martino, Consolo avverte nel presente il senso di una fine che non prevede un nuovo inizio, mentre individua nel passato eventi apocalittici che hanno segnato un rinnovamento: ne è esempio concreto la rinascita della Val di Noto attraverso il barocco dopo il terremoto del 16932. Con Nottetempo siamo, dunque, nella Cefalù dei primi anni Venti e un uomo corre forsennatamente nella notte, in preda al “male catubbo”, una forma di depressione in cui l’interpretazione popolare riconosce il licantropismo 3, o “male di luna”, come aveva già mirabilmente descritto Pirandello in una sua omonima novella. Veniamo in seguito a sapere che egli è il padre di una famiglia tormentata dal male interiore, per cui il licantropismo cui è soggetto non può essere spiegato solamente con una diagnosi scientifica, ma ha ragioni ben più profonde. La moglie (“troppo presto assente”) è morta e le due figlie sono affette da problemi psicologici: l’una, Lucia (“che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada”), è mentalmente instabile e verrà rinchiusa in una clinica, l’altra, Serafina (“torbida, di pietra”, 106), vive in uno stato catatonico. Petro, il figlio eventi,
, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che
stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di
chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi […]
Il Sorriso e Nottetempo formano un dittico. […] Nel primo ho voluto insomma
raccontare la nascita di un’utopia politica, della speranza di un nuovo assetto
sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la
follia della storia, il dolore e la fuga” (Consolo, 1993:47-48). 2 Nel capitoletto La rinascita del Val di Noto
compreso in Di qua del faro, Consolo descrive il terremoto che distrusse la Sicilia
orientale alla fine del ’600 proprio usando il termine “apocalisse” e
riconoscendo nell’arte barocca un valore escatologico: “E però il Barocco non è
stato solamente il frutto di una coincidenza storica. Quello stile fantasioso e
affollato, tortuoso e abbondante è, nella Sicilia dei continui terremoti della
natura, degli infiniti rivolgimenti storici, del rischio quotidiano della
perdita d’identità, come un’esigenza dell’anima contro lo smarrimento della
solitudine, dell’indistinto, del deserto, contro la vertigine del nulla”
(Consolo, 2001a:99). 3 Spiega Consolo:
“Il padre si ammala di depressione, che nel mondo contadino arcaico viene
chiamata licantropia. Questo fenomeno è stato studiato dalla principessa di
Lampedusa, che era una psicanalista che ha associato la licantropia alla depressione:
nel mondo rurale questi poveretti che soffrivano terribilmente, uscivano fuori
di casa, magari urlavano e venivano scambiati per lupi mannari” (Consolo,
2001b). protagonista del romanzo, è affetto dalla malinconia, da una tristezza
le cui origini egli stesso rintraccia in un tempo primordiale, un tempo perso
nel tempo, di cui il nome della famiglia, Marano4, ne è spia: “‘Da quale
offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?’ si chiedeva
Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo
forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità
di ànsime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene” (42). E più oltre riflette
ancora che quel dolore sembra essere sorto “da qualcosa che aveva preceduto la
sua, la nascita degli altri” (106). La famiglia del protagonista e Petro stesso
rappresentano così un articolato inventario dell’apocalisse psicopatologica:
ognuno, chiuso nella propria incomunicabile individualità, esperisce solitariamente
il “delirio di fine del mondo”, cioè la perdita della “normalità” del mondo e
della possibilità dell’intersoggettività
dei valori che lo rendono un mondo possibile e umano. Del male che affligge la famiglia, tuttavia,
si intravede anche una motivazione più contingente e precisa in quel
cambiamento di status, peraltro non giustificato dalle convenzioni sociali, che
verghianamente aleggia sulla famiglia come una rovina: il padre ha ricevuto
infatti l’eredità di un signore locale che ha preferito beneficiare la famiglia
Marano piuttosto che suo nipote, il barone Don Nenè, legittimo erede. La
menzione di questo avanzamento sociale, all’origine anche dell’inimicizia fra
Petro e Don Nenè, viene lasciata cadere qua e là nel romanzo come fosse la
colpa da cui discende tutto il male che gravita sulla famiglia. La ragione
dell’impossibilità del matrimonio fra Lucia e Janu è quella verghiana5 che
impedisce
*
4 “Ho adottato questo nome perché ha due
significati per me. Marano significa marrano, cioè è l’ebreo costretto a
rinnegare la sua religione e a cristianizzarsi, perché in Sicilia con la
cacciata degli Ebrei nel 1492 – così come in Spagna, – ci furono quelli che
andarono via ma anche quelli che rimasero e furono costretti a convertirsi. È
stata una forma di violenza. Ho dato il nome di Marano a questa famiglia con
questa memoria di violenza iniziale e poi per rendere omaggio allo scrittore
Jovine che chiama il suo personaggio principale Marano ne Le terre del
sacramento, quindi è un omaggio a una certa letteratura” (Consolo, 2001b).
5 E Verga, non a caso, costituisce
modello forte e necessario per Consolo, non solo a livello tematico in quanto
“cantore” degli umili e ultimi, ma anche a livello stilistico in quanto
sperimentatore: “La mia opzione è stata sulla scrittura espressiva che aveva
come archetipo un mio conterraneo, Giovanni Verga, che è stato il primo grande
rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna. Da lui si passava,
attraverso altri scrittori, come Gadda e
**
inizialmente ad Alfio Mosca di prendere in moglie la Mena.
Lucia si innamorerà poi di un uomo il cui mancato ritorno dalla guerra le
procurerà la ferita fondamentale che la porterà alla pazzia; Petro riflette
allora che Janu “quell’uomo buono, schietto, avrebbe forse rasserenato la
sorella […], cambiato la sua sorte, e provò pena per lui, per Lucia, rabbia
per quell’assurdo vallone che s’era aperto fra loro due” (63). Ma su questo
motivo verghiano della condizione di classe si innesta quello della roba inteso
come voracità di accumulo sconsiderato di beni; si instaura il dubbio che la
vera causa della perdita della ragione, il dolore che porta alla
pietrificazione, possa trovarsi in quell’accumulo, in quella roba: “Petro si diceva
come sarebbe stato meglio per Serafina, per Lucia, non aver avuto nulla, essere
incerte nella roba, ma salde nella persona, nel volere, coscienti e attive”
(114). Si intravede qui, solo accennata, anche una critica al capitalismo
sfrenato e al consumismo, che è in definitiva accumulo di roba per la roba,
senza altra finalità. La condizione psicopatologica individuale, dunque, prende
forma e mette radice anche in una condizione di “malattia” più generale della
società feticizzata, che per questa ragione non è più in grado di generare
valori umani ma si accascia su se stessa senza rinnovamento e nuovo
significato. Accanto ai Marano, compare poi tutta una sfilza di personaggi che
ruotano attorno all’arrivo a Cefalù di un individuo alquanto eccentrico e realmente
esistito, il satanista inglese Alastair Crowley, il quale si insedia in una
villa poco fuori paese e lì celebra i propri riti coinvolgendo diverse persone.
Le proteste contadine e le azioni degli squadristi fascisti, infine, connotano
il clima storico e sociale all’interno del quale le vicende si muovono.
Pasolini” (Consolo,
2001b). Lo stesso concetto è ribadito qualche anno dopo in un’altra intervista:
“in generale mi sono sempre mosso nel solco gaddiano (solco tracciato per
primo, nella letteratura italiana moderna, da Verga)” (Ciccarelli, 2006:96). Si
veda anche il commento di Ferroni: “Il suo espressionismo tutto siciliano parte
da Verga, dal serrato confronto con lo scrittore verista con il parlato e con
la tradizione letteraria, e giunge come a rendere più densa e aggrovigliata la
miscela verghiana” (Adamo, 2007:7). Infine, si legga anche il capitolo
“Verghiana” in Di qua dal faro.
I tempi dell’apocalisse consoliana: moto e impetramento
Il senso della fine del mondo, cioè la caduta o perdita di
questo mondo possibile, si manifesta nel romanzo attraverso due movimenti tra
loro opposti che si estremizzano senza armonia: da una parte un moto vano e
dall’altra una stasi pietrificata. De Martino individua in questi due poli due
segni uguali e contrari della fine del mondo:
Il mondo che diventa “immobile”, il divenire che perde la
sua “fluidità”, la vita che si devalorizza costituiscono un momento vissuto
dell’ethos del trascendimento che muta di segno: l’altro momento è l’universo
in tensione, la onniallusività dei vari ambiti in cerca di semanticità, la
forza che travaglia questi ambiti e li sospinge ad andare oltre i loro limiti
in modo irrelato, e che li fa partecipare caoticamente a tutto il reale e a
tutto il possibile, senza sosta e senza offrire mai un appiglio operativo
efficace. La polarità di immobilità e tensione, di rigidezza e forza
onniallusiva, di crollo degli appigli operativi e di irrelata scarica
psicomotoria, porta il segno dell’alterità radicale e dell’essere-agito-da,
cioè il segno dell’alienazione nel senso patologico del termine: in tutti i
vissuti cui dà luogo, si manifesta infatti il diventar altro proprio di ciò che
sta alla radice dell’io e del mondo, l’annientarsi dell’energia valorizzante
delle presenza, il non poter emergere come presenza al mondo e l’esperire la
catastrofica demondanizzazione del mondo, il suo “finire”. (De Martino,
2002:631)
Tutti i personaggi di Nottetempo sono tesi ora verso un polo
ora verso l’altro, manifestando e vivendo in maniera diversa il disagio della
catastrofe imminente. Il movimento cui si abbandonano alcuni personaggi, tra
cui in primo luogo il satanista inglese – e che a livello sociale richiama
anche l’imperativo all’azione degli squadristi fascisti – diventa un’agitarsi
vano e inconcludente, un muoversi legato al caos e irrelato al mondo degli
oggetti, dunque privo di significato e incapace di crearne. Questo agitarsi
vano è anche un modo per nascondere e non dover fermarsi a fissare il dolore
che permea l’esistenza umana; infatti, fissare questo dolore può portare alla
pietrificazione, alla stasi completa, se non si riesce ad elaborare tale
sofferenza in maniera produttiva. Osservare questa profonda realtà in un
momento in cui l’individuo o la società nella sua interezza non riescono a
creare valore e significato per tale sofferenza può essere tanto rischioso
quanto guardare negli occhi la Gorgone: è un atto che conduce alla
pietrificazione, la stasi, che racchiude in sé tutto ciò che è mancante di
movimento, ma anche assenza di parola, impossibilità del dire, del
rappresentare e del comunicare. A questa condizione dell’esistenza umana
corrisponde in Consolo quella narrativa, sospesa tra il rischio di dire troppo
dicendo nulla – il vuoto della retorica6 – e la pagina bianca, il non scrivere
e il non dire. Nei poli dell’apocalisse
consoliana possiamo riconoscere una degenerazione dei due impulsi che concorrono
a formare la tragedia greca così come è descritta dal filosofo tedesco
Friedrich Nietzsche in La nascita della tragedia greca: il dionisiaco e
l’apollineo. Il dionisiaco, che dà origine al coro della tragedia, è l’ebbrezza
estatica in cui grazie all’annullamento della soggettività l’uomo può entrare
in contatto con l’“unità originaria” del tutto e riconciliarsi con la natura; è
movimento, danza, musica, scatenamento degli istinti e delle pulsioni vitali.
L’apollineo, invece, è contemplazione, sogno, creazione di immagini,
rappresentazione; nella tragedia è l’“oggettivazione dello stato dionisiaco”
(Nietzsche, 2003:122) del coro, dunque la scena, il dramma. Nell’apollineo si
intravede la qualità statica della contemplazione, di immagini nelle quali si
riduce l’azione; una staticità che Nietzsche definisce come “silenziosa
bonaccia della contemplazione apollinea” (Nietzsche, 2003:103). L’interazione e
l’equilibrio tra l’apollineo e il dionisiaco è ciò che dona forma alla tragedia
greca; Consolo, tuttavia, vede nella modernità la perdita di questo equilibrio
e la perdita della forza creatrice dei due impulsi nietzschiani: il dionisiaco
diventa disumanità, movimento falso, scatenamento di istinti bestiali che
invece di connettere l’uomo con una supposta unità originaria, lo
*
6 “La rottura del rapporto tra intellettuale e
società ha lasciato un vuoto di cui si è impadronita una comunicazione che è
sempre impostura; è la voce del più forte, la verità falsata del potere”
(Consolo in Papa, 2003:193).
**
disconnette dall’umano, dalla comunità e non lo lega né alla
dimensione del divino, né alla dimensione di una realtà o verità profonda; e
l’apollineo è pura stasi, è l’essere intrappolati nella contemplazione di
immagini di dolore. Questi due impulsi generano in Consolo un presente
caratterizzato da una tragedia degenerata, priva di catarsi, priva di
conclusione; egli stesso lo spiega a commento della propria opera: “l’anghelos,
il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota,
deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto,
lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia
senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi” (Consolo 1996:258). In un’opera successiva, L’olivo e l’olivastro
(1994), lo scrittore individuerà nella metafora dell’“olivo”, l’albero
innestato, l’albero che nasce dalla cultura e dalla civiltà, e
dell’“olivastro”, l’albero selvatico, un’altra metafora per esprimere il senso
di perdita dell’armonia di due opposti impulsi che, come l’apollineo e il
dionisiaco, dovrebbero formare il senso e il valore della civiltà, di un mondo
umanamente abitabile: “spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del
selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio di
una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sé,
dell’annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio
civile, una cultura” (Consolo, 2012a:13-14). Essi “non si combattono: al
contrario, si completano. Essi si uniscono in lui [in Ulisse] armoniosamente
come il ceppo materno e il ceppo paterno” (Consolo, 1999:25). Ma il dramma
della modernità, ciò che porta la civiltà occidentale a vivere la propria
apocalisse, è il sopravvento dell’olivastro sull’olivo: “Ecco, nell’odissea
moderna è avvenuta la separazione tra il selvatico e il coltivato. L’olivastro
ha invaso il campo” (Consolo, 1999:25). Come l’apollineo e il dionisiaco hanno
perso la loro forma rendendo la tragedia moderna priva di catarsi, così l’olivo
e l’olivastro non coesistono più armonicamente nel tronco della civiltà
portando questa verso il suo tramonto.
Primo tempo: il movimento artificioso
In Nottetempo, come già accennato, il polo del movimento è
rappresentato in primo luogo dall’inglese satanista e reso con particolare
efficacia in un capitolo, La Grande Bestia 666, che reca significativamente in
esergo una citazione dall’apocalisse di Giovanni. Aleister Crowley inscena un
allucinante e allucinato rito orgiastico che dovrebbe in qualche modo rifarsi
all’Arcadia greca, riproporne i miti, riconnettersi con un mondo antico e
aureo, ma che nella realtà non è che una degradata imitazione di forme vuote e,
soprattutto, una degradata riproduzione di un rito dionisiaco in cui l’ebrezza,
la musica, la danza dovrebbero portare alla visione estatica. Il capitolo
principia, infatti, con la descrizione di un ballo, che ci immette subito nella
sfera del movimento senza arresto, nonché nel regno dionisiaco. È Aleister,
immedesimato in una ballerina, a compiere prodezze sostenuto “nella felice
trascendenza dai vapori d’oppio, d’etere, di hashish, di cocaina” (85). Il
ritmo diventa sempre più incalzante, i lunghi elenchi che riempiono la pagina
riproducono il “suono della vibrante cetra, dei cembali tinnanti,
dell’acciarino acuto, del timpano profondo” (83) con cui si apre il capitolo;
si veda, a titolo di esempio, questa lista di nomi che connotano l’essenza
fittizia di Aleister, senza sosta, in un ritmo incalzante che toglie il fiato
alla lettura: In lui c’era stato il tebano Ankh-f-n-Khonsu, Ko Hsuan discepolo
di Lao-Tze, Alessandro VI Borgia, Cagliostoro, un giovane morto impiccato, il
mago nero Heinrich Van Dorn, Padre Ivan il bibliotecario, un ermafrodita
deforme, il medium dalle orecchie mozze Edward Kelley, il dottor John Dee,
l’evocatore d’Apollonio di Tyana, il gran cabalista Eliphas Levi, in lui, il
gentiluomo di Cambridge, Aleister MacGregor, Laird di Boleskine, principe Chioa
Khan, conte Vladimir Svareff, Sir Alastor de Kerval, in lui, la Grande Bestia
Selvaggia, To Mega Thérion 666, Il Vagabondo della Desolazione, Aleister
Crowley (dàttilo e trochèo). (84)
È un elenco dal ritmo vorticoso, che confonde in una sorta
di ubriacatura di parole: Consolo rende in tal modo, con un linguaggio che si
fa nietzscheanamente metafora del suono7, il senso di un vano agitarsi. Questo
moto, sostenuto dall’uso delle droghe, si connota come anormale e nella
collezione di identità in cui di volta in volta Aleister Crowley si identifica
possiamo vedere un sintomo di schizofrenia e psicopatologia connessa a uno
stato epilettico, analizzando il quale De Martino individua il principio del
moto distorto come una delle sue caratteristiche: “in tutto sta in primo piano
l’elemento del moto: l’alterazione del movimento, la perdita dell’equilibrio,
lo scuotimento della sicurezza e della tranquillità nel mondo delle cose,
conducono alla conclusione: il mondo crolla, sprofonda” (De Martino 2002:38). Ma quando Janu, “this sicilian caprone” (80)
– il satiro – rifiuta di prendere parte al rito, di consumare l’orgia, e
scappa, il movimento vorticoso si arresta; il cielo di carta pirandellianamente
si squarcia e la messa in scena rivela il proprio carattere fittizio, scoprendo
per un attimo la falsità della vita stessa che il rito attraverso il vortice
del ballo cercava di occultare: “Declamò ancora più forte la danzatrice in
terra. Restò immobile. Attese. S’era interrotta ogni musica, ogni nota, sospeso
ogni sussurro, fiato, il silenzio freddo era calato nella sala” (88). È
l’assenza di movimento e di parola a rivelare la realtà, a svelarla:
Sentì ch’era sopraggiunto quel momento, quell’attimo
tremendo in cui cadeva dal mondo ogni velario, illusione, inganno, si
frantumava ogni finzione, fantasia, s’inceneriva ogni estro, entusiasmo,
desiderio, la realtà si rivelava nuda, in tutta l’insopportabile evidenza, cava
si faceva la testa, arido il cuore. […] Guardava il mondo in quello stato, si
guardava intorno, e ogni cosa gli appariva squallida, perduta. (89)
7 Il linguaggio, secondo il filosofo tedesco,
nasce da un impulso nervoso che si trasferisce in immagine e poi in suono. Il
linguaggio della poesia del canto popolare è quello che meglio di qualunque
altro riesce “nella imitazione della musica” (Nietzsche, 2003:101).
È il momento drammatico della rivelazione. Il rischio è la
stasi, ma Aleister la scongiura chiedendo che gli venga data altra droga per
ridiscendere nella condizione di trance e ricreare un mondo fittizio. Il
capitolo, tuttavia, si chiude bruscamente con un altro svelamento, un altro
squarcio che irrompe in questa realtà: l’annuncio che l’infante, il figlio di
Aleister, è morto. Segue “tutto un trambusto, un irrompere all’aperto, un
correre nella notte” (99), ma ovviamente invano, perché la stasi suprema, la
morte, si è già impossessata della piccola Poupée. Nella scomparsa dell’infante è da leggersi,
metaforicamente, la morte di ogni speranza e del futuro. È anche presagio della
futura “apocalisse” che si abbatterà un ventennio dopo su tutta l’Europa nella
forma della Seconda Guerra Mondiale causata dai fascismi. Aleister, infatti,
rappresenta anche l’irrazionalità e la bestialità del fascismo, se è vero che
intorno a lui si convogliano personaggi simpatizzanti e legati al fascismo,
come il barone Nenè e la sua cricca, e che lo stesso inglese viene nominato
come Superuomo, “colui che aveva varcato ogni confine, violato ogni legge, che
aveva osato l’inosabile, lui, la Grande Bestia dell’Apocalisse” (90). Ed egli,
nel tentativo di ricreare un mondo antico attraverso una messa in scena
irrazionale, si fa simulacro del progetto di Mussolini e del Duce stesso, di
colui che ha “varcato ogni confine” umano, reale e metaforico. Per Consolo
apocalisse è anche questa: l’andar oltre il limite, il troppo, il movimento che
travalica il confine, come l’ultimo viaggio dell’Ulisse dantesco oltre le
colonne d’Ercole. In molti, infatti, hanno riconosciuto nei personaggi dello
scrittore siciliano dei moderni Ulisse condannati a una continua peregrinazione
dove non esiste l’Itaca a cui tornare8 – tema d’altronde, quello della perdita
di Itaca, comune a molta letteratura moderna italiana, per cui il ritorno è
sempre impossibile, a iniziare dal ‘Ntoni verghiano. E proprio i personaggi del
romanzo di Aci Trezza sono descritti da Consolo in
8 Si veda su tutti l’articolo di Massimo
Lollini “La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo.” Italica 82.1
(Spring 2005), in cui l’autore analizza le varie figure ulissiache di Consolo,
tra cui il personaggio inglese Alastair, il barone Nenè e Petro di Nottetempo.
Lollini arriva a far coincidere la figura di Ulisse con quella di Consolo
stesso, testimone dello spaesamento e del peregrinamento dell’uomo moderno,
descritto “in toni che a tratti si fanno apocalittici” (38), soprattutto quando
lo sguardo cade sulle odierne devastazioni che occorrono lungo il Mediterraneo.
L’olivo e l’olivastro come in continua preda di un
movimento, una frenesia che ha esplicitamente i caratteri dell’apocalisse: “[il
popolo di formiche] visse in quell’apocalisse del movimento rapido, nella
vitalità guizzante, nella ferocia del possesso, nel tetro accumulo, nel tumore
divorante” (Consolo, 2012a:40). L’Ulisse consoliano è privo di connotazioni
romantiche ed eroiche, divenendo anzi spesso simbolo non solo dello spaesamento
dell’uomo moderno ma anche della sua folle ricerca di un superamento dell’umano
e dei suoi limiti contingenti: “Il soggetto etico di cui i romanzi di Consolo
si fanno portavoce […] insiste sull’importanza di una riflessione sui limiti
stessi della scrittura, che poi sono i limiti della civiltà, del tentativo di
apprezzare e definire i contorni di una cultura della finitudine umana”
(Lollini, 2005:34). Il movimento e il
dionisiaco degenerato si connotano, perciò, in termini distruttivi e
apocalittici quando significano tentativo di superamento dell’umano, che è
anche sempre violenza disumana, bestiale. Il varcare le colonne d’Ercole si
pone dunque per Consolo entro una dimensione etica che non riguarda più
solamente l’individuo e il suo singolare confronto con la divinità, con
l’oltre, ma riguarda l’individuo in quanto parte di una comunità9: questo
Ulisse moderno senza possibilità di ritorno non è un eroe solitario in lotta
contro forze superiori, ma è uomo le cui scelte e le cui azioni sono e si
iscrivono sempre entro una dimensione etica che riguarda tutta la comunità
circostante. In questo vediamo delinearsi la responsabilità del satanista
inglese Alaister che non può essere circoscritta geograficamente e
temporalmente all’interno di ciò che avviene nella villa a Santa Barbara, la
villa appartata che egli sceglie come dimora. Alaister diventa emblema e
portavoce di un modello di ricerca che sfocia nel disumano e che ha come
vittima il più piccolo, nonché futuro, della comunità. La vittima, tuttavia,
non è prevista dal rito e perciò non è sacrificale; essa, rimanendo legati al significato
etimologico del termine, non entra nel regno del sacro e non si connette con
una spiritualità superiore, ma rimane ancorata al senso profano, alla
materialità terrena, non assume nessun valore superiore.
9 Così, d’altra parte, lo intende anche Dante,
collocando Ulisse nell’inferno non già perché ha sfidato gli dei, quanto
piuttosto perché si è allontanato dalla comunità degli uomini, trascinando alla
rovina anche i suoi compagni.
Diventa una morte disumana, legata al superamento del
limite, e non una morte sacra, una morte che può trascendere nel significato.
Secondo tempo: l’incedere umano
È, dunque, attraverso il recupero del senso dell’umano che
il movimento può ritrovare il suo giusto ritmo, la sua misura, e non eccedere
verso il limite dell’apocalittico, che è superamento dell’umano. Un passo del
capitolo successivo a La Grande Bestia 666 collega le tematiche del movimento
apocalittico e della stasi con la ricerca di una dimensione umana che possa
scongiurare i due estremi. La riflessione avviene in occasione dell’incontro
tra Petro e Janu, che per tanti mesi era scomparso e ora appare cambiato:
Pensò Petro a come si può cangiare in poco tempo, al tempo
che scorre, precipita e niente lascia uguale. Che solo la disgrazia, la pena
grave blocca il movimento, il cuore la memoria, come una bufera immota, un
terremoto fermo, una paura assidua che rode, dissecca, spegne volere gioia. E
sbianca e invecchia, mentre che dentro la ferita è aperta, ferma a quel
momento, nella sfasatura, nella disarmonia mostruosa. Una suprema forza
misericordia immensa potrebbe forse sciogliere lo scempio, far procedere il
tempo umanamente. (105, corsivo mio)
Petro, dunque, minacciato costantemente come i suoi
familiari dal pericolo dell’arresto del tempo, dell’immobilità, scorge dentro
sé una via diversa da quella del satanista inglese o del fascismo: movimento
sì, movimento che significa vita, ma che “proceda umanamente”. Appare evidente
il contrasto con il movimento vorticoso, ossessivo, ritmico e in definitiva
artificiale che ha animato il rito delle pagine precedenti. Solo nel tempo
umano c’è la possibilità di salvarsi dall’apocalisse. È questo il tempo della
memoria, il tempo che può essere articolato dalla coscienza umana, il tempo
entro cui può risiedere l’umano. È perciò anche progetto di scavo, archeologia del tempo, del passato da
cui recuperare frantumi, frammenti di umanità, come nota Bouchard: “Consolo
allows the ruins of the past to haunt the surface of his narratives with the
intent of making current the wounds and the lacerations of history. Since these
are wounds and lacerations that can no longer be abreacted by a successful work
of mourning, they give rise to an interminable writing of melancholy that
displaces the ontological certainty of our reality while pointing towards a
better future that can only be built out of the memory traces of the past”
(Bouchard, 2005:17).
Terzo tempo: “il male di pietra”
Il tempo che scorre umanamente è costantemente minacciato
dall’altra possibilità: dall’arresto. È questa la metafora più efficace e
pregnante in Consolo, poiché è il rischio che egli stesso in quanto scrittore –
e in quanto uomo – corre, è il pericolo che costantemente gravita sulla sua
scrittura e che ritorna quasi ossessivamente da una pagina all’altra: è il
pericolo che incombe su chi acquista la consapevolezza della realtà, chi sente
la sofferenza declinata sia come male di vivere dell’uomo sia nella sua
contingenza come male dell’epoca contemporanea. Consolo, rifiutando l’uso di un
linguaggio comune troppo abusato e vuoto, cioè la parola che danza ma non dice,
cede inevitabilmente il passo alla pietrificazione, alla stasi della parola. Ed
è dunque su questo punto che si arrovella, è questo il cruccio della sua
scrittura nonché quasi il paradosso dell’urgenza del dire in un mondo dove non
è più possibile dire. È questa la degenerazione apollinea di una
rappresentazione, qui propriamente intesa come drama, che si pietrifica in
un’unica immagine di sofferenza. Ben giustamente Arqués cita Calvino e il suo
saggio sulla leggerezza a proposito di Consolo, ma lo fa per stabilire un
parallelo tra la narrazione storica dello scrittore siciliano e Perseo, o,
meglio, tra la realtà presente e la Gorgone, che non può essere guardata negli
occhi, pena la pietrificazione. La metafora, tuttavia, acquista maggior
pertinenza se nella figura della Gorgone non proiettiamo semplicemente il
presente, ma il dolore, la realtà profonda che soggiace a ogni esistenza, quel
male di vivere che non può essere nominato se non con una descrizione e che a
seconda di chi parla e del momento può assumere forme diverse, ma che è anche
sostrato universale che accomuna l’uomo di tutte le epoche e i luoghi. È quel
senso di verità e dolore che, appunto, se viene fissato direttamente, scoperto
e guardato nella sua cruda interezza pietrifica, proprio come il mostro
mitologico. Calvino userà allora la leggerezza come specchio per guardare
quella pesantezza dell’esistere; Consolo, invece, sa che anche il linguaggio è
costantemente minacciato dal vano agitarsi di parole e perciò sente di non
poter più praticare una lingua troppo tarata da forme vuote; correrà perciò
sempre il rischio, come i suoi personaggi, di pietrificarsi fissando la medusa.
In Nottetempo il personaggio cui è assegnata la sfida di trovare la giusta
misura, il tempo umano, è Petro, che nel nome porta chiaramente il significato
di quel cadere nella contemplazione del male d’esistere. Il primo capitolo, nel
quale si svolge l’inseguimento notturno di Petro nei confronti del padre
affetto dal “male catubbo”, stabilisce il campo semantico entro cui ci dobbiamo
confrontare: il licantropismo, fenomeno dell’uomo tramutato in lupo, ci pone
nel regno delle metamorfosi. Qui il riferimento classico è ovviamente Ovidio10,
di cui la studiosa Galvagno riconosce una caratteristica fondamentale: “La
métamorphose ovidienne, soit humaine, animale, végétale, liquide ou minérale (y
compris les catastérismes), présuppose comme son moyau le plus intime une
pétrification, une immebolité, une fixité de l’être métamorphosé” (Galvagno,
2007:179). Ora tale tratto della pietrificazione dell’essere sarebbe presente,
secondo la studiosa, nella scrittura di Consolo – e abbiamo già citato, non
casualmente, il mito di Perseo. Tutto in
Nottetempo sembra essere sull’orlo della pietrificazione: personaggi, azioni,
eventi, il tempo, la scrittura. Pietrificazione
10 Esistono differenti possibilità di
interpretazione e stratificazioni di significato nella figura dell’uomo
trasformato in lupo, nonché naturalmente differenti storie e tradizioni e
appropriazioni di tali tradizioni da parte della letteratura, ma vale forse qui la pena ricordare il
racconto che fa Ovidio di Licàone, trasformato in lupo da Giove perché
progettava di uccidere il dio. Giove
racconta: “[…] io con fuoco vendicatore faccio crollare quella casa
indegna del suo padrone. Lui fugge, atterrito, e raggiunti i silenzi della
campagna si mette a ululare: invano si sforza di emettere parole” (Ovidio,
1994:15). E dopo Giove invocherà l’apocalisse: la distruzione del genere umano,
perché indegno, corrotto e criminale. Si legga, per confronto, il passo di
Consolo: “Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore
crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la
campagna” (6). E subito dopo l’episodio del lupo mannaro, comparirà sulla scena
il satanista Aleister. richiama sia la stasi, l’assenza di movimento, di
parola, sia il senso del peso, come aveva rilevato Calvino: la pesantezza
dell’essere. E infatti chi si pietrifica è chi fissa, immobile, e contempla
tale pesantezza, diventando egli stesso o ella stessa di pietra, avvertendo su
di sé tutta la pesantezza del male e sprofondando nel silenzio. Il silenzio e
l’impossibilità dell’esprimersi si associano all’assenza di movimento, alla
pietrificazione, divenendo l’uno spia dell’altro. Fanno da contraltare le urla
disumane, suoni che spesso non si articolano in parole intellegibili (come gli
ululati del lupo mannaro) e che esprimono al pari del silenzio il dolore umano;
molte volte l’urlo e il silenzio si ritrovano insieme come due espressioni
dello stesso concetto di sofferenza. Molti sono gli esempi sparsi nel testo che
esprimono il senso della stasi e/o del silenzio; si leggano questi: “il confine
del dolore fermo, del vuoto immoto” (9), “ma là era silenzio e stasi, era
riposo” (9), “Guardava il silenzio sulle case, ad ogni strada, piano, baglio,
il silenzio al meriggio” (13), “nella sublime assenza, nella carenza di
ragione” (37), “‘Uuuhhh…’ ululò prostrato a terra ‘uuhh… uhm… um…
mmm… mmm… mmm…’” (38, e questa volta è Petro che emette suoni
incomprensibili), “nell’attasso del cuore, canto del pendolo bloccato” (42),
“nella segreta sua torre d’urla, di lamento” (51), “Siamo un ribollìo celato
d’emozioni, un rattenuto pianto” (66), “E tu, e noi chi siamo? Figure
emergenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel
silenzio” (67), “la pena grave blocca il movimento” (103), “Serafina torbida,
di pietra” (106), “la pietra del dolore” (135). Sono tutte espressioni di
sofferenza e legate alla consapevolezza della sofferenza, alla sua contemplazione
che sottrae l’azione e la parola. Già nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976)
era presente l’idea della pietrificazione come espressione del male, essa però
era legata a una contingenza – i cavatori di pomice – che diventava metafora per una sofferenza
più generale, quella degli ultimi: “‘Male di pietra’ continuò il marinaio ‘È un
cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola.
Non arrivano neanche ai quarant’anni’” (Consolo, 2010:8). Ma successivamente in
L’olivo e l’olivastro la metafora “male di pietra” si approfondisce e diventa
l’ossessione costante con cui dire la sofferenza umana. Nelle pagine iniziali
ritornano i cavatori come a stabilire quel paragone, fondare quella metafora
della pietra che poi diventa il nucleo lessicale fondamentale per esprimere il
dolore: “[…] entrò nelle caverne della pomice, parlò con i cavatori
silicotici […] Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi dalla
polvere, prendevano anelettici, cardiotonici: cresceva dentro loro poco a poco
una corazza di pietra, il cuore s’ingrossava, si smorzava il fiato, si
spegneva” (Consolo, 2012a:26-27). E qui in questo testo allora abbondano non
tanto – o non solo – espressioni diverse che indicano l’impossibilità del dire
e del fare, quanto piuttosto in maniera più specifica lemmi legati alla radice
“pietra”: “Che arrestò al suo accadere, pietrificò illusioni, speranze, rese di
lava la vita” (34), “un vecchio poeta afasico, irrigidito nel giovanile errore,
pietrificato nella follia ribelle” (36), “Una barca di pietra, la pietra in cui
si mutò la barca feacica che aveva portato in patria l’eroe punito, l’eroe
assolto dopo il lungo racconto–che in pietra si muti la barca, si saldi al
fondale prima d’ogni ritorno, poiché nel ritorno, così nel racconto, consiste
lo strazio” (39), “si pietrifica per il dolore, perde vigore e ragione” (41),
“la Catania pietrosa e inospitale” (52), “la ferma maschera, quasi impietrita
del nobile vegliardo” (59), “la loro tragedia s’è svolta in un attimo lasciando
impietriti” (125). La pietrificazione è legata all’esperienza personale, alla
scrittura, ma anche alla società. In un articolo pubblicato sul Corriere della
Sera nel 1977, Paesaggio metafisico di una folla pietrificata, e che O’Connell
riconosce come uno degli avantesti di Nottetempo per quell’incipit del tutto
simile, Consolo attribuisce alla Sicilia, che sta sempre in rapporto
sineddotico con la società, quell’impulso alla pietrificazione come forma
generale e risposta alla consapevolezza del male: “c’è una depressione più
inclemente e disumana di questa, ed è quella che non arriva all’estremo
livello, ma si ferma al di qua, a un passo dall’insopportabilità. È lo stadio
che blocca la vita, la congela, la pietrifica” (Consolo 1977:1). E la Sicilia
sembra, per lo scrittore, bloccata “in questo limbo, in questa metafisica
paralisi”, unica reazione con cui ha controbattuto il movimento artificiale,
del quale ne diviene simbolo l’autostrada, “moderno feticcio dell’accelerazione
spasmodica”. E pure qui la contrapposizione si ritrova anche sul piano della
comunicazione, poiché in questa Sicilia “sequestrata e pietrificata” chi ha
cercato “di fare e di dire”, cioè di cambiare la situazione, è stato costretto
al silenzio e sulla lunga tradizione letteraria isolana, da Verga a Sciascia,
ora domina “la parola vuota, l’inutile incanto, la retorica” (Consolo, 1977:1).
In questo precedente di Nottetempo c’è dunque l’esplicitazione di come la
metafora dell’impetramento e del movimento, del silenzio e della “vuota parola”,
che permea il romanzo sia da leggersi anche sempre come condizione sociale
oltreché intellettuale ed esistenziale. Queste considerazioni ci riportano a De
Martino e all’associazione tra l’apocalisse psicopatologica e quella culturale.
Se gli stati epilettici e la schizofrenia sono caratterizzati da un senso di
moto che in ultima analisi veicola il senso della fine del mondo, lo stato
catatonico è l’insania che al contrario si lega all’assenza di movimento e
diventa negazione del tempo e della storia, cioè ancora del mondo: “Tutte le
cose sono diventate immobili, in uno stato senza tempo. Il corpo risponde a
questo mondo non muovendosi più: il catatonico sta fermo e dritto come una
statua in un museo di curiosità, mentre per noi, non catatonici, il mondo parla
così chiaramente di movimento, è così visibilmente in “moto”, che possiamo
rispondere al suo appello solo con i movimenti del nostro corpo” (De Martino,
2002:57). Se per il non catatonico il mondo può procedere secondo un tempo che
è umano, il catatonico bloccandosi come una statua rifiuta tale tempo e porta
il mondo al suo precipitare. In Petro e nella famiglia Marano l’arresto e la
catatonia concretizzano la metafora di “folla pietrificata” in una società
sull’orlo dell’apocalisse.
La torre dell’urlo e del silenzio
Le sorelle di Petro, come abbiamo già accennato, sono chiuse
e sprofondate nell’impetramento dell’anima e del corpo. Serafina, col nome
programmatico di chi non appartiene a questo mondo e di chi ha una pace che non
è terrestre, è immobile in uno stato quasi catatonico, persa in vagheggiamenti
religiosi che non hanno più alcun referente nel contingente: “E Serafina,
ch’aveva preso prima il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni
giorno, immobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita
che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza
sosta” (42). Serafina nella storia non c’è, è personaggio serrato in questa impossibilità
di essere e di comunicare; è solamente evocata e l’unica volta che compare è
un’immagine di chiusa pazzia: “Era prona la sorella, ai piedi del comò
acconciato come altare, pieno il marmo di fiori ceri avanti a quadri,
immaginette, duplicati nello specchio. Faceva un canto mesto, come un lamento”
(158); ma naturalmente le sue parole sono inintelligibili. L’altra sorella, invece, Lucia, cade in una
pazzia che prima ancora di essere assenza e distanza è urlo innaturale, parole
sconclusionate11, perse in un passato disordinato e non recuperabile. In Lucia,
infatti, si racchiude anche il tema fondamentale del recupero del passato, ma
un recupero che fallisce, poiché il disordine dei frammenti rimane un disordine
che non è in grado di tracciare nessuna via, per quanto precaria e labile. Il
ricordo delle ferite che riemerge in lei è un ricordo che riproduce
meccanicamente il trauma ma non lo supera mai; si legga la scena fondamentale
dove, dopo l’“oltraggio” subìto dalla famiglia Marano a causa dell’antagonismo
fra Petro e Don Nenè, Lucia farnetica pezzi di frasi che riportano alla luce un
passato non attinente all’evento appena accaduto e incapaci di produrre
conoscenza, comunicazione o presa sulla realtà: “‘Ah, tana di cani corsi, di
mastini […]’ riprese a dire la sorella ‘Ah, quanto piangere di madri,
d’innocenti […] Attento, Petro, non uscire!’ […] ‘Che fa Janu, non viene?
Dobbiamo andare o no alla mandra, a mangiare la ricotta? […] Si fece tardi
ormai […] No, no, aiuto! […]’ e indietreggiò, si portò le mani alle
orecchie” (158). Lucia, in un certo
senso, è andata oltre il limite umano, ha varcato un confine oltre il quale
l’uomo non può accedere rimanendo uomo, tanto che Petro osserva parlando all’amico
Janu: “Né io né tu possiamo più raggiungerla” (68). Ella rappresenta attraverso
l’urlo e il movimento irragionevole ciò che Serafina rappresenta attraverso la
stasi e il silenzio. Lucia, al contrario della sorella, è visibile, agisce, ha
una personalità forte e inquieta, va per la campagna con il fratello Petro e
l’amico Janu, è promessa sposa; ma il giovane che ha chiesto la sua mano non
torna dalla guerra. In quel dolore Lucia si chiude, si
*
11 Ancora con De Martino possiamo leggere: “In
generale il dominio della follia diventa comprensibile come caduta dell’ethos
del trascendimento, della presentificazione valorizzante, e come costruzione di
difesa fittizia che accentuano il recedere verso l’incomunicabile, il privato,
il senza-valore-intersoggettivo” (De Martino, 2002:85).
**
pietrifica, ma esplode in urlo piuttosto che cadere nel
silenzio, esplode in suoni che non possono articolare e razionalizzare quel
dolore: “Finché un giorno, un mezzogiorno che Petro tornava dalla scuola, non
si mise a urlare disperata dal balcone, a dire che dappertutto, dietro gli
ulivi le rocce il muro la torre la sipale, c’erano uomini nascosti che volevano
rapirla, farla perdere, rovinare” (46). E poco oltre: “Lanciò improvviso un
urlo e scappò via, si mise a correre, correre per il sentiero, come presa da
frenesia, da tormenti” (47). È la fuga di Lucia oltre il limite dell’umano,
eppure anch’ella è figura statica, immobile, figura che s’impetra nel dolore e
lo fissa perdendo la capacità di vedere altro e cioè anche la capacità di
creare e vedere altre visioni apollinee: rimane una sola visione senza drama e
in essa Lucia si ferma. Così ecco che anche il suo nome acquista pregnanza, nel
momento in cui il testo ci ripete insistentemente nello stretto volgere di un
paragrafo che Lucia – che vuol dire luce ma che è anche patrona dei non vedenti
e degli oculisti – non vede più, è diventata cieca nella fissità: “La portò via
da casa […] perché si dissolvesse in lei l’idea fissa. […] Ma era come lei
non vedesse […] era come se avesse gli occhi sempre altrove, fissi dentro un
pozzo” (47) – dove quel “pozzo” sta per la profondità del dolore. Lucia è anche
figura pietrificata in quel suo guardarsi continuamente allo specchio, atto
autoriflessivo che non comunica con il mondo esterno ma ricade sulla persona
medesima; ella fissa se stessa e la sofferenza che ha guardato con i propri
occhi ora riflessi allo specchio. Atto solipsistico e chiuso, come chiusa è lei
nella propria camera: “E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla
toletta a pettinarsi, in incantesimo, il guardo trasognato, perso nel guardo
suo di fronte dentro lo specchio” (46).
La sofferenza familiare si racchiude metaforicamente nella concretezza
della “torre”, ovviamente fatta in pietra (“la sua voce roca sembrava vorticare
per le pietre della torre” 37), che assurge a simbolo di chiusura e solitudine
– torre è quel tipo di edificio caratterizzato da una dimensione in altezza
nettamente maggiore rispetto alla dimensione della base e che dunque si isola
rispetto alle costruzioni circostanti; torre per antonomasia è quella di
Babele, dove regna il caos, il disordine e la confusione, principio delle
lingue diverse che impedirono all’uomo di comunicare l’uno con l’altro12. Nella
torre dove sono chiusi i membri della famiglia Marano la comunicazione non è
possibile, le parole non assumono un significato che possa essere compreso
dagli altri, decifrato: “‘Pietà, pietà’ implorò in quella solitudine sicura,
dentro quel rifugio della torre, quel segreto oratorio d’urla, pianto, sfogo”
(38). L’urlo è il simbolo di questo dolore, sfogo inarticolato, contraltare del
silenzio: “nella segreta sua torre d’urla” (51), “E nella torre ora, dopo le
urla, il pianto”. L’urlo, come il
silenzio, è una comunicazione bloccata. Petro allora si rende conto che è
necessario recuperare le parole per uscire dalla torre. È questo un momento
fondamentale del testo, che è sia riflessione sulla sofferenza umana sia sulla
scrittura cui è affidato il compito di esprimere tale sofferenza. Nottetempo è
allora anche e “innanzitutto la storia di una vocazione alla scrittura”
(Traina, 2001:92). Il tentativo di uscire dalla torre di pietra e scongiurare
l’afasia si pone come uno dei temi centrali del testo. Attraverso questo percorso
del protagonista, si assiste anche alla lotta che lo stesso Consolo conduce per
non cadere nell’impetramento della scrittura, nell’impossibilità del dire, del
parlare, nell’apocalisse della parola.
Afasia
Nottetempo è anche romanzo autobiografico, non tanto perché
ci siano elementi biografici dello scrittore che possano essere riconosciuti
nella vicenda di Petro, quanto piuttosto perché la storia di Petro, la sua
uscita dalla torre, è anche il viaggio intellettuale dello scrittore Consolo.
Riconosciuta l’oppressione del silenzio familiare e dell’esilio dalla ragione e
dalla parola delle due sorelle, nel protagonista del romanzo nasce il desiderio
di uscire dalla torre ricomponendo un linguaggio attraverso cui poter di nuovo
comunicare una realtà, riconnettersi con essa:
*
12 “Ma il Signore scese a vedere la città e la
torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un
solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e
ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo
dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua
dell’altro’” (Genesi 11:5-7).
**
Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia
estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere
vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di
cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa.
Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio.
Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza.
Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno […]” scandì come a voler
rinominare il mondo, ricreare il mondo. (38-39)
Questo elenco precede quello che poi ritroveremo nelle
pagine dedicate al rito satanico di Alaister e si pone su uno stesso piano di
complementarietà: come quello nasceva dal movimento artificioso del dionisiaco
degenerato, questo nasce dall’impetramento afasico dell’apollineo degenerato.
In entrambi la parola è mimesi del gesto: lì c’è la ricreazione del movimento,
in cui il segno della virgola dà il senso del ritmo della danza e della musica,
qui c’è la riproduzione della stasi, marcata dal punto che segue ogni parola e
che indica la pausa, una cesura di tempo e di spazio, la difficoltà
dell’esprimere una parola dietro l’altra, l’inarticolazione di un discorso. E
se là il vortice delle parole serviva a confondere, ad allontanare dalla
realtà, qui c’è l’avvicinamento, o per lo meno il tentativo di avvicinarsi a
qualcosa che si è perso da tempo – o mai avuto. È un elenco di parole semplici,
in cui tuttavia si può riconoscere una catena logica di riferimenti che dalla
terra vanno al cielo, dalla “pietra” al senso di libertà del volo degli uccelli
e alla luce del sole. Attraverso questo “rinominare il mondo” Petro cerca di
riattivare un legame con la realtà, o, per dirla ancora con Nietzsche, cerca
parole che non esprimono altro che “relazioni delle cose con gli uomini”
(Nietzsche, 1964:359); cerca dunque di ritrovare questa relazione con le
cose. Nel processo dell’elencare
riemerge una realtà frantumata, che si dà appunto solo in frammenti; ed è solo
così, in quei frantumi testimoniati dall’accumulo di lemmi che si può cogliere
una realtà la cui unità, come il discorso, come il narrare, non può essere (ri)composta. Anche la scrittura, infatti, si
arresta, si blocca sull’orlo dell’impossibilità di esprimere, di connettere
parole con realtà; così fallisce il tentativo di Petro: “cercò di scrivere nel
suo quaderno – ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del
vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di
polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza di ogni segno,
rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento”
(53). Petro è come l’uomo dionisiaco
descritto da Nietzsche: simile a lui cerca la salvezza nell’arte, cerca
un’“illusione” che lo salvi dallo sguardo che ha gettato sull’orrore delle
cose; egli ha la conoscenza del dolore e rischia per via di essa di rimanere
pietrificato, di perdere la volontà dell’azione e dire “no” alla vita. “In
questo senso” dice Nietzsche “l’uomo dionisiaco è simile ad Amleto: entrambi
una volta hanno gettato uno sguardo vero nell’essenza delle cose, hanno
conosciuto, e agire li nausea; poiché la loro azione non può cambiare niente
nell’essenza eterna delle cose, essi sentono come ridicolo o infame che venga
loro chiesto di rimettere in sesto il mondo uscito fuori dai cardini” (113).
Consolo, attraverso il personaggio di Petro, ci descrive allora il viaggio
verso l’esaltazione dionisiaca, che qui altro non è che volontà e capacità di
esserci ancora, di agire in questo mondo – e di scrivere, di dire. Assistiamo
così all’uscita metaforica di Petro dalla torre, alla sua presa di coscienza
politica (che passa tramite lo sputo al barone, l’amicizia con il Miceli, la
partecipazione alle manifestazioni di piazza, l’“oltraggio” subito e infine
l’attentato perpetrato) e alla promessa, a fine romanzo, di una nuova scrittura
attraverso cui sciogliere il grumo del dolore: “Pensò al suo quaderno. Pensò
che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe racconto,
sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore”
(171). Questa scrittura, sappiamo, sarà
il rifiuto delle parole cerimoniose e della falsa retorica, si distanzierà
tanto dal libro dell’anarchico lasciato cadere in mare quanto dalle “parole
rare e abbaglianti” di D’annunzio o quelle “roboanti” (112) di Rapisardi. La
vicenda di Petro si conclude perciò in quella dei satiri del coro, nel recupero
attraverso la scrittura di un dionisiaco non degenerato: Nella coscienza di una
verità, ormai contemplata, l’uomo adesso vede dappertutto soltanto l’orrore o
l’assurdità dell’essere […]. Qui, in questo supremo pericolo della volontà,
si avvicina, come maga che salva e risana, l’arte: soltanto essa può piegare
quei pensieri nauseati per l’orrore o l’assurdità dell’esistenza in
rappresentazioni con cui si possa vivere. (Nietzsche, 2003:114)
Questo è anche il percorso intrapreso dal Consolo scrittore,
che approda alla tragedia di Catarsi (1989) come simbolo di un modo di
scrivere; dice nel saggio Per una metrica della parola: “La tragedia
rappresenta l’esito ultimo della mia ideologia letteraria, l’espressione
estrema della mia ricerca stilistica. Un esito, come si vede, in forma teatrale
e poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto
estremo del personaggio, si ponga al limite dell’intellegibilità, tenda al
suono, al silenzio” (Consolo, 2002:250).
Come ultima possibilità in una società dalla lingua corrotta e
degradata, dallo sfaldamento della comunicazione, dalla rottura del rapporto
tra scrittore e suo pubblico, suo referente in tale società, come ultima
risorsa prima di cadere nell’afasia, nel silenzio, c’è il recupero dello
spirito dionisiaco (e apollineo) che si esprime più compiutamente nel coro
della tragedia, come si verifica nel Prologo a Catarsi:
La tragedia è la meno convenzionale, la meno compromessa delle arti, la parola
poetica e teatrale, la parola in gloria
raddoppiata, la parola scritta e pronunciata. Al di là è la musica. E al di là
è il silenzio. Il silenzio tra uno strepito e l’altro del vento, tra un boato e
l’altro del vulcano. Al di là è il gesto. O il grigio scoramento, il crepuscolo, il brivido del freddo, l’ala
del pipistrello; è il dolore nero, senza
scampo, l’abisso smisurato; è l’arresto oppositivo, l’impietrimento. (Consolo,
2002:13)
Allora in Nottetempo dobbiamo leggere questo approdo al
canto del coro della tragedia, approdo di Petro dietro cui non sarà difficile
riconoscere il percorso della scrittura e della poetica di Consolo stesso, teso
tra il rifiuto della parola vuota e l’attrazione per quel silenzio che
racchiude tutto il dolore. Petro è
dunque il personaggio che incrocia tutti e tre i piani tematici su cui si
dispone il romanzo e su cui si dispiega il senso dell’apocalisse: quello esistenziale,
quello storico-culturale e quello della scrittura. A livello narrativo egli
funziona come elemento unificatore di questi piani e, a livello contenutistico,
si configura come chiave per trascendere il pericolo dell’apocalisse nel valore
che possa rinnovare i mondi (quello interiore, quello sociale e quello
letterario) infondendo loro nuovo significato. Più che romanzo “apocalittico”,
dunque, Nottetempo è romanzo del “rischio della fine” e dell’inserimento di
tale rischio in un’ottica che ne accenni e ne indichi il superamento e la reintegrazione.
Bibliografia
Adamo, G. 2007 La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. Lecce: Manni. Arqués 2005 Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia: Nottetempo, casa per casa di Consolo. Quaderns D’Italià 10:7994. Calvino, I. 2000 Lezioni americane. Milano: Mondadori. Bouchard, N. 2005 Vincenzo Consolo and the Postmodern Writing of Melancholy. Italica 82.1:5-23. Spring. Ciccarelli, A. 2005 Intervista a Vincenzo Consolo. Italica 82.1: 92-97. Spring. Consolo, V. 1977 Paesaggio metafisico di una folla pietrificata. Corriere della sera: 1. 19 Ottobre. 1993 Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia. Roma: Donzelli. 1996 Per una metrica della memoria. Cuadernos de Filología Italiana 3 (1996):249-259. 2001a Di qua dal faro. Milano: Mondadori. 2001b Le interviste di Italialibri: Vincenzo Consolo. Italialibri. Web. 2002 Catarsi. In Oratorio. Lecce: Manni. 2010 Il sorriso dell’ignoto marinaio. Milano: Mondadori. 2012a L’olivo e l’olivastro. Milano: Mondadori. 2012b Nottetempo, casa per casa. Milano: Mondadori. Consolo, V. e Nicolao, M. 1999 Il viaggio di Odisseo. Milano: Bompiani. De Martino, E. 1964 Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche. Nuovi argomenti 69-71:105-141. 2002 La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali. Torino: Einaudi. Galvagno, R. 2007 “Male Catubbo”. Les avatars d’une métamorphose dans le roman Nottetempo, casa per casa. In Vincenzo Consolo, éthique et écriture. Ed. Dominique Budor. Paris: Presses de la Sorbonne Nouvelle: 177-91. Lollini, M. 2005 La testimonianza di Vincenzo Consolo, moderno Odisseo. Italica 82.1:24-43. Spring. Nietzsche, F. 1964 Su verità e menzogna in senso extramorale. Opere Di Friedrich Nietzsche. Vol. III. Milano: Adelphi. 2003 La nascita della tragedia. Milano: Mondadori. O’Connell, D. 2008 Consolo narratore e scrittore palincestuoso. Quaderns D’Italià 13:161-84. Ovidio, P. 1994 Metamorfosi. Torino: Einaudi.
Papa, E. 2003 Vincenzo Consolo. Belfagor 58.2:179-98. Pirandello, L. 1990 Novelle per un anno. Milano: Mondadori. Traina, G. 2001 Vincenzo Consolo. Fiesole (FI): Cadmo.
Abstract This essay aims to analyse the novel, Nottetempo, casa per casa (1992), by Vincenzo Consolo, considering the motif of the end of the world as a central and unifying element of the different levels on which the narrative unfolds. While The Birth of Tragedy by Friedrich Nietzsche is the intellectual reference for the novel, the considerations by the anthropologist Ernesto De Martino on the apocalypse allows us to interpret Nottetempo as a response to the psychological, cultural and literary risk of the “end” experienced in these three different areas.
Italian Studies in Southern Africa/Studi d’Italianistica nell’Africa Australe Vol 27 No 2 (2014)
La lumaca, l’andamento a spirale e la sfida al labirinto: una lettura di Vincenzo Consolo, di George Popescu Literatura Italiana
Prima di leggere i libri di Vincenzo Consolo, ho letto qualche recensione e soprattutto alcune sue interviste che tra l’altro sono vere e proprie arti poetiche, manifesti letterari e civili di una grande e acuta profondità del pensiero, capaci da se’ di far crescere l’interesse e la curiosità per la sua opera. E tutto questo devo dire, per quella straordinaria disponibilità con la quale si mette direttamente al centro della problematica e, poi, per la sincerità confermata da ogni frase, da ogni parola a parlare apertamente del suo lavoro, delle sue ossessioni estetiche e non solo. Mi ha sconvolto innanzi tutto la riflessione acutissima con la quale discute aspetti controversi di poetica narrativa in un momento in cui questi problemi sono diventati così complicati, fino a generare lunghe e spesso faticose, orgogliose dispute che finiscono per complicare ancor di più le cose. O amor, Jacopo Tintoretto – Museu de Colônia Quella disponibilità, quella chiarezza e sopratutto quella sincerità, la franchezza, il suo modo di dire le cose senza nessuna intenzione di lusingare oppure di offendere la sensibilità del lettore costituiscono alcune delle qualità portanti del suo profilo letterario, capaci di configurare un modello di scrittore impegnato con la sua vita, con la vocazione e l’ardore nella propria scrittura e nel destino assunto, e assunto fino in fondo. Se la letteratura è ancora come dev’essere un problema di carattere, oltre il talento, oltre la vocazione vera, allora si può sostenere senza nessun rischio di approssimazione convenzionale che Vincenzo Consolo, a parte la dimensione particolare della sua scrittura, appartiene, a mio avviso, a quella tradizione di artisti per i quali il binomio arte e vita rappresenta un punto fermo di partenza e un punto fermo di arrivo; un progetto che fa coincidere il fuori e il dentro, realtà e coscienza, il destino, parola e cosa, società e individuo. La ricchezza del suo lavoro, in tutti gli aspetti che riguardano il rapporto io-mondo, io-reale, e in particolar modo le scelte stilistiche, il problema linguistico così essenziale per uno scrittore italiano offrono una moltitudine di prospettive dalle quali si può partire nella valutazione della sua opera. Si è parlato ad un certo momento di un carattere “intellettuale” della sua scrittura; ho già usato le virgolette per questo aggettivo, perché in effetti ogni costrutto che assume l’intento di un prodotto artistico non lo può escludere, non lo può evitare. Tra l’altro perché – si sa bene oggi forse meglio di ieri – che purtroppo esiste una allucinante arte di consumo che si rivolge prevalentemente ad un fruitore pigro, andando sempre verso le sue aspettative più facili, verso la sua comodità. Da questo punto di vista Consolo procede in una maniera tutta contraria: perché ha scelto di scrivere alla realtà, di affrontarla, forse non per cambiarla – sarebbe soltanto un sogno da sempre – ma per portarla sul piano della coscienza per destare nel lettore la curiosità, il coraggio di assumere la realtà integrale con tutte le sue insidie, e le sue deformazioni. Detto questo, vorrei iniziare, sfogliando alcune mie pagine di appunti raccolti in presa diretta dai testi del Nostro. Sempre aperture di prospettive, di letture, di percezioni senza la preoccupazione, almeno per adesso, di articolare un discorso lineare dotato di quella coerenza che deve restare come prima condizione di una interpretazione, per dire così, organica. Con la pubblicazione del suo primo libro, l’autore afferma di aver avuto già la consapevolezza di cosa sarebbero stati gli argomenti della sua scrittura e cosa gli interessava di più: Mi interessava – afferma lui – il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo. C’è già tutto qui: la scelta della “tematica” e l’opzione stilistica, i due pilastri di ogni lavoro letterario. Ebbene, la Storia, ma quale Storia, della Sicilia, però la storia è già qualcosa di infinito, non solo per la durata, ma anche per la sua dialettica interna, per il modo in cui viene vissuta e, poi, scritta-descritta, da chi, per chi e di chi assunta e con tante sofferenze, con delle conseguenze purtroppo irreversibili e via discorrendo. E proprio qui che sento il bisogno di chiamare in causa la metafora ormai famosa che è quella beniaminiana dell’Angelus Novus. Ricordiamola.: …un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera. Una metafora, questa beniaminiana, dell’angelus novus, che tra l’altro non identifica un angelo nuovo, bensì ci può ricordare anche la figura della Medusa con il suo sguardo mortale per chi cerca di affrontarla in faccia; possiamo poi evocare anche la metafora del labirinto ove anche se non vi sono delle macerie – oppure non si fanno vedere – c’è sempre lo sguardo impegnatissimo nel trovare quel punto debole del percorso da dove sperare a trovare la via d’uscita o meglio una via d’uscita… Ritorniamo all’opera di Vincenzo Consolo, cercando di trovare un punto di riferimento in grado di farci avvisare su qualche via (non di uscita, ma di entrata nel suo mondo, nel suo labirinto) possiamo contare. Operazione assai difficile; innanzitutto perché ce ne sono molti, voglio dire, molti punti di riferimento, nuclei semantici, nodi referenziali che possono diventare vere e proprie chiavi di lettura e di approccio; e, poi, in un secondo luogo, operazione difficile perché, proprio nel caso speciale di uno scrittore che ignora, rifiuta, addirittura respinge qualsiasi metodo prestabilito, assumere un punto di partenza o un altro come una specie di filo conduttore nella esegesi della sua opera sarebbe ancor una volta una scelta in limine, ugualmente rischiosa. Apriamo un’altra strada: Ecco, prese casualmente, altre alcune citazioni dalle quali si potrebbe iniziare un percorso esegetico. Procediamo, questa volta noi, in maniera metodica così da identificare una linea, diciamo così, tematica: Quando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa fossero gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali…. Allora, la scelta tematica era già identificata, e anche assunta: raccontare la Storia e propriamente una Storia, non solo quella della Sicilia, ma anche una sua parte, alcune pagine scelte tra tante ma poi, vedremo qual era il criterio impegnato in quella scelta. Invece molto significativo mi pare qui far interferire questo orientamento tematico dello scrittore con la metafora di Beniamino: qui interviene per darci una conferma l’autore stesso quando afferma che ha cercato “di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese”. Cosa significherebbe pre-borghese non mi pare così difficile da capire ma solo riducendo il discorso, sempre in base alle affermazioni dell’autore, a quella tipologia sociale per la quale Storia non ha alcun senso di progresso e tantomeno una base giustificatoria. Quel mondo quindi situato tra una civiltà ancora contadina nei suoi aspetti superficiali, formali, apparenti e che ha perso la sua coerenza di una volta, quella parte di sapienza di cui parla ancora la letteratura orale, e il mondo borghese, che forse, se non sbagliamo noi, ha attraversato quello del sottoproletariato, nel senso che si è fatto sfruttare, abbandonandolo per poi strumentalizzarlo con il preciso scopo di approfittare del suo lavoro. In tutte queste due categorie si ritrova un punto comune: la povertà, è da essa che poi scatena sempre il tentativo di opposizione, di confronto, di lotta, con l’intera scenografia che si conosce: speranza, attesa, fede e diffidenza, l’impegno diretto, il tradimento da alcune parti, e, alla fine, le sconfitte; ma sconfitte che conferiscono sostanza alla storia, le danno la propria consistenza, nel bene e nel male… Esiste poi un altro punto di riferimento (e di partenza), quello che ci porta all’idea di labirinto.Ecco, parlando vent’anni dopo, su Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo avverte: I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcàra, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezza e rassegnato destino (…), a una terra di consapevolezza e di dialettica. Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale * . A proposito di Eliade, si può riflettere ad un’idea che potrebbe servire nell’operazione di decriptare alcuni significati portanti della letteratura consoliana e cioè quella indicata dal grande scienziato romeno con la formula l’incentramento del margine, o meglio il centrare del margine; come un massimo compito che Consolo assume così come intendiamo noi il suo operare sulla storia e sul reale e cioè quello riguardante strettamente la Sicilia, si potrebbe indicare almeno sul piano di un’ideologia letteraria, questo tentativo di far andare al centro (dell’interesse e della preoccupazione del lettore e non solo) ciò che si è chiamato il problema della Sicilia, la Sicilianità come quel modo di vivere difficile. Sempre con riferimento a Eliade, si deve invocare qui la sua metafora dell’eterno ritorno, che per l’altro è anche una metafora di estrazione romantica e, poi, in particolar modo, nietzscheana; tuttavia, in Eliade, la metafora si colloca puntualmente nel discorso sull’origine e sul dovere (quasi un segno di destino e di fatalità) di ritornare sempre nel punto di partenza, e così si genera, inculcata nella nostra vera e propria identità, una circolarità che alimenta, intrattiene, potenzializza la sofferenza, il dolore, una specie di pendant a quel male di vivere montaliano. Ecco come si colloca Consolo in funzione del motivo del ritorno all’origine, che infatti è un altro motivo ricorrente nelle sue meditazioni-riflessioni. Parlando del suo libro L’ulivo e l’olivastro, l’autore propone un aspetto particolare della sua Sicilia presente, ma sempre col riferimento al mito ulissiano e al tema del ritorno come un dovere antico, come destino. In Sicilia [afferma l’autore] si ritorna, non si può fare a meno. Così come Ulisse lascia la dolce terra dei Feaci per ritornare nella sua pietrosa Itaca. Non si può prescindere dai luoghi dove si è nati, dove si è cresciuti, dove si sono sentite le prime voci, dove si sono viste le prime luci. Sono luoghi che non si possono eliminare dalla nostra memoria. Si sente il sogno di tornare, malgrado tutto. E di qui che si va verso la metafora della lumaca, collocata anch’essa nel labirinto, vista come una rappresentazione di una’ascensione dal basso verso l’alto, e che può significare anche lo sprofondare e il perdersi all’apice di questa stessa spirale. E di nuovo la parola dell’autore: Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, …il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale… Conclusione, una fra tante, emblematica, direi, per il lavoro del Nostro. Inutile evocare a questo punto una parola-concetto, una parola spia della scrittura di Consolo e appunto la parola greca nostos, che vuol dire proprio l’origine, quel ipogeo come il dovere di partire sempre dalle radici, che non per caso si trovano nel sottosuolo, nel sottoterra, quel luogo che fa da controcanto, da contropartita alla Storia nella visione e nella rappresentazione di Vincenzo Consolo. E di cui le immagini (di questi luoghi sotterranei, di queste caverne), sono un po’ il corrispettivo, della profondità della lingua e della profondità della storia è già un altro punto di partenza nell’approfondire l’opera consoliana. Ma si può continuare con l’idea di labirinto come una metafora così produttiva nel campo esegetico. Oltre il suo vastissimo e diversissimo campo semantico, mi pare opportuno sottolineare un fatto della poetica narrativa di Consolo: il rapporto che stabilisce tra l’idea di viaggio come esplorazione dello spazio, più quello del mare che della terra, il viaggio come anche ritorno, di un Ulisse che si trasforma così in un prototipo dell’eroe universale, un archetipo della sapienza, del conoscere, un navigatore ideale e insieme singolare. Pare superfluo ricordare che per Consolo, come per Dante, per Pirandello, la vicenda dell’eroe omerico con la sua intera disperazione, riguarda lo spazio siciliano, e anche quello terribile e insieme affascinante Stretto di Messina che diventa anch’esso ricorrente nell’opera del Nostro. Il tentativo di Ulisse, sommariamente indicato qui, punta sullo spazio cosicché, attraversarlo per conoscerlo equivale ad assumerlo. Un tentativo compiuto col sacrificio liminare, non di una sua possibile fine, morte, ma, con l’allontanamento dalla sua Itaca, coll’affrontare il rischio di perdere tutto ciò che aveva prima, regno e soprattutto l’amore incorporato nella figura di Penelope. Qui interviene un altro possibile punto di partenza nell’interpretare l’opera di Consolo: quello che potrebbe omologare la sua scrittura sullo stesso piano con la tela su cui Penelope sta ricamando, non qualcosa di utile, ma proprio l’attesa stessa che subentra così nel destino, suo, di Ulisse, di tutti noi. La scrittura come ricamo non mi risulta fuori del progetto scritturale dell’autore di Le pietre di Pantalica. La invoca anche, se mi ricordo bene. Invece sul piano stilistico, espressivo, poetico, il labirinto si presenta davvero come un riferimento preciso, assolutamente non casuale, legato ad una scelta che Consolo identifica in Calvino. Ed è per questo che si può chiamare in causa, per la sua specificità di poetica, la famosa formula calviniana La sfida del labirinto; ma il riferimento non significa altro che un possibile percorso della critica nella ricerca di altre chiavi di lettura per poter dare effettivamente, se questo fosse possibile e plausibile, un senso al mondo che ci propone un autore che resta – in quanto deve restare – ancora un mondo da interrogare, tramite un confronto sempre aperto alla coscienza del lettore… Ma quale sarà a questo punto l’offerta indicata, più adatta, della ricca e lunga semantica del labirinto? Quel gioco che ha, come ricorda Kerenyi, un significato rituale e che come tale serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose? Rifacciamo in breve lo scenario di questo gioco che si presenta in due tempi, in due fasi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero, in cui gli attori sperimentano la perdita di se’; poi, il ritorno alla luce che rappresenti, diciamo, una nuova nascita, attestando la continuità della vita che di generazione in generazione rinnova se stessa. Fin qui, Kerenyi. Sono intervenute poi tante altre interpretazioni-soluzioni, come quella di Tagliaferri per il quale il labirinto potrebbe essere preso come una metafora di un utero materno e il filo di Arianna sarebbe allora un cordone ombelicale, il Minotauro diviene un embrione, un germoglio, un’ ombra inquietante con cui dobbiamo confrontarci. Per Calvino, si sa, si pone un altro tipo di richiesta, di interrogativo, di soluzione, tramite un’idea che l’abbiamo incontrata anche in Consolo, a proposito di un altro argomento, ma non così staccata, l’idea voglio dire, da questa prospettiva, torno a ripetere, di natura poetica e, se si vuole, di poiesis, come il far poetico. Per l’autore delle Cosmi-comiche, l’operatore interpretativo diventa un rapporto cartografico che include una distanza rispetto al labirinto: così, è facile trovare la via d’uscita quando il labirinto si osserva dall’esterno, quindi quando si dispone di una mappa totalizzante; invece, dal dentro e allorquando le mappe sono parziali e contraddittorie, succede che non solo sia possibile la salvezza, ma si va in una grave confusione, una specie di sostituzione dei topos, delle isole, appunto, perche’ coll’avvicinarsi il topos, l’isola cambia il nome, vuol dire anche l’identità. Ci fermiamo qui con la storia esegetica di un motivo-mito così complicato e insieme incitante. Ma non prima di focalizzare almeno una suggestione per la scrittura di Consolo: il labirinto per lui si presenta in veste di Storia, o meglio una sua pagina sempre della storia siciliana, identificata in alcuni momenti di rottura, di confusione, di sconvolgimento, e perciò necessitante di non una giustificazione, ma di una giusta ricostruzione in base alla quale sarà poi possibile denunciare quelle tracce, e quelle insidie, che ci provocano nel e dal presente. Angelus novusi, Paul Klee – The Israel Museum, Jerusalém Ed è per questo che rientra in scena proprio adesso la metafora beniaminiana dell’angelus novus; il quale, ricordiamoci, si trova fissato, prigioniero tra un passato per cui non basta la sua nostalgia a compiere il ritorno, ma non è possibile nemmeno andare avanti, nel futuro, per quella bufera che lo sconfigge. Ma il presente dov’è? Il presente non esiste, sulla linea di una dialettica elementare, è soltanto un passaggio, un passeggio, un limbo, quel purgatorio dantesco dove Virgilio ha quasi perso tutti i poteri e dove a Dante, come a tutti noi, è rimasto solo l’interrogarsi come la soluzione di orientamento. Ma l’idea di labirinto è un motivo di riflessione per il Nostro. Per Vincenzo Consolo, creatore di un’opera che non si impone ne’ per la quantità (dimensione, diversità di motivi, di argomenti), ne’ per l’imprudenza di lusingare i gusti, in gran parte pervertiti, corrotti dal consumismo, del lettore (un lettore che lo vuole, come sostiene, un po’ simile a se stesso), quindi per Vincenzo Consolo, la letteratura mi pare che sia una scommessa; e un riscatto: una scommessa con la Storia così come è sempre stata scritta-descritta, ma non vissuta; e un riscatto come tentativo di recupero per la mediazione della parola, diventata pietra, capace invece di esorcizzare il reale vero, quello vissuto, e mai tradito. In questa prospettiva, poetica, sento il bisogno di identificare la formula paradigmatica per il suo intero lavoro e che si può chiamare la testualizzazione del reale e che vuol dire un tentativo di trasmutazione, nel logos, quel ontos che possa essere preso come topos, ipogeo, nostos che dir si voglia.
19 maggio 2020 George Popescu Poeta, tradutor e professor de Literatura Italiana da Universidade de Craiova * Archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmi-comiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kérenyi e in Eliade.