Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

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Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura

Roberto Andò

L’intervista postula tra chi pone le domande e chi le subisce il vago stagliarsi di un’impersonale vibrazione in cui aleggiano due voci in cerca di echi, pensieri, ricordi, probabili pudori intorno a un mestiere impossibile. Ci si accosta al rito teatrale dell’intervista con un certo senso paradossale di sfida alla nicchia invisibile di chi scrive, immemori al cospetto della condizione ideale che rende autorevole e senza un volto lo scrittore, intenti a violare il vero desiderio di ogni grande scrittore che è quello di sparire. L’amicizia, la conoscenza o la confidenza, nella concitazione rituale, vengono deposti per lasciare il posto enunciati in cerca di oggettività. Tuttavia ci si accorge, a intervista conclusa, che si è accennato un ritratto, in forma di catalogo, dove la malinconia e quella dimensione salvifica della memoria che è la letteratura fanno dello scrittore, ovunque e comunque, un esiliato irriducibile, perfettamente a proprio agio solo nell’esilio della scrittura.

Ho incontrato Vincenzo Consolo e ne sono diventato amico molti anni fa per il tramite di Elvira Sellerio e di Leonardo Sciascia, per parlare di poeti dimenticati o rimossi dalla civiltà letteraria del consumo, poeti della luna. Ci possono essere mille ragioni per il senso di un incontro o per il suo bilancio. Di quel primo incontro ricordo il piacere immenso di poter riferire la letteratura a ciò che sta fuori dalla letteratura, la possibilità di insediarla al centro di un’emozione da fronteggiare e distanziare senza tradirne il senso sacrale misterioso. E ricordo anche una certa cupezza del momento, identica, per ragioni diverse, al momento in cui si è svolta questa intervista, che essendosi teatralmente compiuta in due tempi, a distanza di poco più di un anno, presagiva nella latenza di certi motivi quanto è successo in Italia, ciò che rende oggi il nostro Paese irriconoscibile, sfigurato e, se possibile, persino più smemoratamente cialtrone. A segnare il tempo, da Nottetempo, casa per casa, vincitore del Premio Strega nel periodo del nostro primo incontro, Consolo è approdato nel suo personale viaggio a L’olivo e l’olivastro, vale a dire dalla malinconia del racconto al furore di chi sa che nel disastro le strategie del racconto non sono più bastevoli e la letteratura senza puntelli può affrontare il rischio di nuovi confini, di un nuovo tono di voce.

ll malinconico, con la sua segreta e dolorosa interiorità, è un esiliato in potenza. Leggendo i tuoi libri, e in modo accentuato Nottetempo, casa per casa, si assiste a uno sfaccettarsi di figure del dolore, malinconici più o meno furiosi, con gli altri, con sé. L’epigrafe della Kristeva, che attribuisce alla malinconia il ruolo del sacro nella nostra epoca, sembra avvertire che nei cicli della Storia I conti possono farsi e disfarsi incarnandosi nella singolarità del male, del dolore umano…

“Hai detto bene. Il protagonista di Nottetempo è un esiliato che rompe a un un tratto la condizione di esilio attraverso la scrittura, diversamente dagli altri, dal padre a esempio

che non può farlo. Il libro si apre con una scena notturna in cui si disegna una figura oggi rara della malinconia, desueta almeno, in cui la depressione si svela nel rapporto con la luna piena: quella del licantropo. La cultura popolare ci ha tramandato vari frammenti intessuti su questa figura dominata da un dolore insopportabile che equivale a un esilio. Come dice l’epigrafe della Kristeva posta all’inizio del libro, quel dolore equivale a vivere sotto un sole nero, che può anche stare per l’immagine della luna. È un tentativo di liberazione dell’angoscia attraverso l’animalità, la fuga, la corsa. Ma c’è un altro grado di follia, sotto forma di mania di persecuzione, di paranoia, che vive nel romanzo la sorella del protagonista, Lucia. E ancora un terzo grado di malinconia, di dolore, quello del personaggio intravisto nella penombra della stanza, racchiuso in un gesto meccanico, nello sgranarsi rigido di un rosario in cui la vita si pietrifica. Ho voluto rappresentare la follia dolorosa e innocente che questa famiglia ha pagato forse per una ragione atavica, esistenziale, di razza, e per ragioni storiche. È una famiglia infatti che ha attuato un passaggio, un salto di classe. La provenienza reale è quella del proletariato contadino. Li ho chiamati Marano, da Marrano, rinnegato. Si portano dietro un coagulo di razze. Oltre a essere ebrei il narratore dice che dentro, attraverso la madre, filtra una memoria di nomi greco – bizantini, spagnoli, insomma il crogiuolo della civiltà mediterranea. Ed è come se assommassero nel loro destino il peso di tanti esili diversi. Pagano il prezzo di un cambiamento, di un passaggio di classe: da contadini che erano diventano piccoli proprietari terrieri per un atto di generosità compiuto da un uomo a sua volta folle, in un gesto che è di distacco dalla propria classe. È il personaggio di Don Michele, lo zio dell’antagonista del romanzo, una figura tolstoiano, anch’egli esiliato. Un’antecedente di questa figura di autoesiliato in una famiglia potente lo si trova in De Roberto e nel Pirandello de I vecchi e i giovani. Nei Viceré è uno degli Uzeda che, folgorato dalla lettura dell’Isola del Tesoro di Stevenson, si esilia in una campagna dove fa il falegname. È chiamato dai parenti il Babbeo. In Pirandello è tratteggiato in Don Cosmo Laurentano, ritratto d’eccentrico che si confina nella tenuta della contrada Valsanìa. Lì il personaggio è quello di uno studioso d’astronomia; e in qualche modo lo cito nel romanzo in quel passaggio in cui le stelle sono chiamate “i chiodi del mistero”. Dicevo che questa famiglia Marano, nel proprio destino di follia, svela una condizione che è nostra, l’approdo a una informe identità alienante, ricca, abbiente, in continuo movimento nel proprio delirio. Lo sfondo storico è quello della follia ideologica, collettiva, gli anni Venti dell’avvento inquietante del fascismo”.

Insomma, ci sono le fughe nella follia che non possono raccontarsi e quelle che possono trovare forma nel racconto. Il silenzio, l’afasia o l’esilio della parola chiara, delle ragioni per fronteggiare il dolore, del dolore che sa raccontarsi senza altri compagni di strada che la propria solitudine. In mezzo c’è la falsificazione, i contorcimenti e le parodie dell’ inautentico: Crowley, Don Nenè, D’Annunzio, Schicchi…

<< Si, è l’inautentico,la perdita della veritàil decadentismo. Nel romanzo ho usato molto la disgressione.Queste digressioni hanno un po’ la funzione del coro. In una di queste digressioni, quando c’è l’episodio Crowley conil suo seguito adorante che scende verso la spiaggia e sorprende il pastore Janu con la ragazza, questa discesa notturna con le torce in mano ricorda al narratore certa pittura vascolare in finzione, la sostituzione della verità con una sua rappresentazione, l’incidersi di una cesura, di un distacco definitivo dalla verità.  Quando il protagonista si allontanerà dal paese in  una sorta di eco dell’abbandono di Renzo e Lucia,  c’è la dolorosa consapevolezza di questa frattura insanabile e inaccettabile. La sua gente si allontanata dalla realtà, quella realtà con cui  intratteneva un rapporto armonico. E’ uno stato di sfasamento, di follia generale in cui gli è possibile volgere le spalle al paese senza rimpianto>>.

L’altro scacco viene subito dalla nozione mitica di ragione …

<< Sì, la ragione viene sconfitta.  Un barlume resta in quello che è Il deuteragonista del racconto, Cicco Paolo. C’è un dialogo significativo che s conclude con questa battuta: “ la fantasia è più bella della ragione “.  L’ irrazionale, la violenza, la falsificazione sono le modalità cui la ragione viene sconfitta, e dalla sconfitta fa capolino la follia. Questo  tema della follia d’altronde mi ha accompagnato in tutti i miei libri. Nel segno della follia si apre libro che non a caso si svolge anch’esso a Cefalù,  Il sorriso dell’ignoto marinaio. La prima azione di quel romanzo è un gesto di follia rintanato n antefatto in un’ azione  in limine alla narrazione, che in qualche modo la prec ede e l’orienta. E’ la comparsa di Catena, che sfregia quel quadro che sta li a simboleggiare il discorso della ragione, acquattato nelle pieghe di quel volto. Dalla ragione può uscire dal basso per corruzione, in modo speculare al gesto della ragazza, ed è Il caso del monaco pazzo personaggio della corruzione e della disgregazione che compare nel terzo capitolo in cui si narra dello stupro praticato nei confronti di una ragazza morta, o dall’alto, come fa Caterina sfidando la creazione, l’atto creativo. Lei è un’intellettuale, una che ha letto gli illuministi napoletani francesi  protosocialisti, e che ha vagheggiato una sorta di nuovo assetto sociale: la sua uscita dalla ragione è nelle pieghe dell’ utopia politica. In questo libro, invece, che accanto al  Sorriso un dittico, c’è la sconfitta, lo scacco storico – sociale: e l’unica luce è innocenza dell’umanità è la scrittura come possibilità di raccontare il dolore>>.
Questa possibilità di raccontare il  dolore ha modelli e antecedenti in cui si mescolano letteratura e solchi personali inevitabilmente …
<< In questo  libro c’è il rovesciamento di un rovesciamento. Quando  parlavo del Sorriso del Ritratto d’Ignoto di Antonello,  dicevo di uno segnato dal dolore della conoscenza. Avevo rovesciato la cognizione del dolore di Gadda.  Qui, in Nottetempo c’è veramente l’esposizione della conoscenza del dolore, non più il dolore della conoscenza >>.
A un certo momento del libro il protagonista il parla così: << Non so adesso … Adesso odio il paese,l’isola odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole … odio finanche la lingua che si parla >>. Mai adesso la scrittura si ritaglia come il luogo di una distanza difficilmente colmabile in cui ci sono luoghi cui dedicare una  presunta fedeltà…
<< Dietro queste parole scopertamente riferite all’oggi  c’è il risentimento personale di chi scrive verso un luogo che ha dovuto lasciare. C’è risentimento verso una patria perduta e le persone che non si accorgono della perdita. E qui non parlo solo di un confine siciliano, ma di un oggi che comprende anche altri luoghi. Certo, il discorso della  lingua è chiaro, qui. Io ho sempre cercato di scrivere in un’altra lingua,ed è quello che ha sempre irritato i critici, il fatto di uscire dai codici, il  disobbedire ai di codici>>.
Questa  disobbedienza ai codici, nelle cose che scrivi, ha però un segno opposto  a quello dei percorsi linguistici dell’avanguardia, nei cui confronti hai sempre provato insofferenza e ostilità …
<< Pasolini, nelle sue invettive, ha detto tutto quello che si può dire contro l’avanguardia. Bisogna distinguere tra sperimentazione e avanguardia. lo credo che ogni vero scrittore dovrebbe essere sperimentatore dentro l’alveo di una tradizione. L’avanguardia è qualcosa di stupidamente in quietante, che io rigetto. Mi sembra un azzeramento e una ricostruzione artificiale, un atto di violenza. Ne ho avuto sempre Il sospetto,non  solo dal punto di vista letterario, ma  direi principalmente in senso etico, o se preferisci politico. Gli azzeramenti preludono sovente alla mediocrità o all’orrore. La tradizione non si può cancellare, e chi  pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa  la vera funzione della letteratura , nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria >>.

C’è una figura fondamentale nel tuo tragitto. Per rispetto alle origini più o meno casuali degli incontri mi piace ricordare che è una persona che ha fatto da tramite al nostro primo incontro che molte volte abbiamo frequentato insieme. La distanza di generazione e Il momento in cui l’ha incontrato e si è stabilita un’amicizia fa sì che io lo consideri , con tutte le zone ambigue del termine, un maestro. Per te potrei dire con più forte ambiguità che si delinei, cosi lontana nel tempo dei tuoi primi passi nella letteratura e cosi ingombrante, come un  figura paterna. Parlo di Leonardo Sciascia.

<< La Presenza di uno scrittore come Sciascia mi ha permesso, in  un certo senso, per un tratto della mia attività, di  concedermi delle divagazioni, delle pause, dei tempi di scrittura molto lunghi, o se si vuole delle vacanze. Perché lui aveva una metafora certa – era la sua impostazione letteraria della vita storico-sociale del nostro paese. I Suoi libri erano tutti metafore e letture della contemporaneità politica scavate in una scrittura di tipo illuministico, dentro le strutture del giallo. La sua azione di scrittore civile consentiva  a scrittori come me, che muovono cioè da tutt’altro codice di germinazione labirintica e fantastica, di divagare, prendere tempo. Alla sua morte ho sentito di non avere più tempo e  Nottetempo, casa per casa nasce anche da un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e Italiana. In quel momento  mi sono  accorto che avevano tirato un respiro di sollievo volevano sbarazzarsi della sua forza letteraria, che avevano fretta di fare i conti, di neutralizzarne l’eco. Il fenomeno paradossale è nel fatto che coloro che stanno producendo la barbarie , i detentori della comunicazione, i giornalisti scrittori, si sono sentiti liberati della presenza di uno che batteva sul loro stesso terreno d’investigazione loro, con ben diversi risultati letterari,  tra i più alti della letteratura contemporanea. Anche la mia presenza li irrita, proprio perché invece non combatto nello stesso terreno. I miei  libri, che sono anch’essi profonda mente metaforici, vengono invece attaccati sul piano formale,  mentre cresce il  fastidio per questa  querimonia sicula che continua ancora. Questa  voce siciliana che non si estingue li irrita>>.

Qual è Il tuo rapporto con la società letteraria, ammesso che ne esista una, con la più giovane leva di scrittori?

Una società letteraria non esiste più. Ai giovani  rimprovero la facilità con cui si sottopongono alla proposta omologante delle aziende editoriali . Lo scrittore come oggetto coltivato in serra è una evidenza. Piango la scomparsa delle eccentricità letterarie. Lo scandalo che alcuni hanno sollevato intorno alla Storia della letteratura di Giulio Ferroni è consequenziale alle dimensioni di libertà di quel libro, libertà dalle aziende che invece riflettono il loro messaggio sulla cosiddetta critica militante dei giornali. In questo senso l’Università come luogo di ricerca di spiriti liberi può ritrovare una funzione liberatoria.

Perché nutri un interesse cosi esclusivo per la Sicilia?

Prima o poi finirò anch’io per scrivere un mio Per le vie. La tentazione di sottrarmi alla Sicilia c’e, ma il meccanismo memoriale della mia narrativa me lo impedisce sino in fondo, è connaturato un uno stile che ingloba la memoria  attraverso il linguaggio. Un linguaggio si abita, nostro malgrado. Anche se non ho avuto la stagione mondana di Verga, a Milano mi sono ritrovato Nella sua stessa condizione di spaesamento, a contatto  con un mondo che non riuscivo capire. Verga lo scrittore  gigantesco c è, nasce da una regressione da una  paura, da un’impossibilità. Anch’io quando  mi sono trasferito a Milano avevo intenzione di raccontare quella Milano dei contadini siciliani che diventano operai. Ben presto capii che per farlo avevo bisogno della distanza della metafora storica. E’ quello che acutamente ha sottolineato come peculiarità del mio modo di scrivere un critico come Cesare Segre: è il distanziamento, il bisogno di distanziarsi, anche geograficamente.

Che cosa ti interessa della letteratura Europea  contemporanea?

Quando parliamo di letteratura dobbiamo circoscrivere discorso alla narrativa; la poesia ci porterebbe altrove. La narrativa resiste nei luoghi periferici, non colonizzati, se vuoi nei  terzimondi. Nel mondo post-industriale essa è  seriamente minacciata da un linguaggio che somiglia alla letteratura, un po’ come accade in politica: appaiono linguaggi copia, surrogati,imposture. Milan Kundera è uno degli scrittori più interessanti e di resistenza. I frutti più vitali del romanzo contemporaneo sono legati infatti a questo senso incombente di fine. La poeticità sta sparendo dal mondo e da solo il romanzo può raccontare questa fine. Una certa vivacità la si trova anche nella letteratura araba, come sino a qualche anno fa la si trovava nella letteratura sudamericana.
Il cosiddetto crollo delle ideologie ha ridefinito Il ruolo dell’ intellettuale, o piuttosto quella figura e quel ruolo sembrano stagliarsi piccoli e sperduti in un paesaggio in continuo cambiamento. Senza grandezza senza avventura

L’intellettuale ha avuto sempre angoscia di rimanere fuori dalla storia. Angoscia della cancellazione, oscillando fra opportunismo, cinismo ed entusiasmi. Questa storia del crollo delle ideologie è in conflitto con i nodi irriducibili dell’esistenza: il povero e il ricco esistono senza possibili equivoci e il postulato ideologico che s’è sostituito all’ideologia – la ricerca della felicità e del godimento –   è continuamente attraversato da un’inquietudine insanabile. Ingiustizia, Invenzione di nuovi confini, ritorno dell’orda tribale poveri che premono ai  cancelli, enormi frange di gente che si sposta alla ricerca di mezzi di sussistenza: il panorama reale che viene incontro a noi è questo. Le ideologie dei conservatori e degli esteti non mi sono mai piaciute. Preferisco l’ideologia degli esiliati che alita sul nostro benessere.

Il fatto indubbio è  la continua esibizione di aspetti miserabili della vita intellettuale.

E’ la televisione, la bomba atomica permanente che distrugge i linguaggi dopo avere già avuto distrutto la poesia del cinema. Attraverso la televisione si attua una perdita continua di pietas. E’ Il campo di sterminio della coscienza e dell’intelligenza del dolore. Ne ho orrore, e una certa e sinistra vi ha concorso a pari merito con il dilagare tronfio della conservazione.

L’olivo e l’olivastro un libro Importante, un libro indignato che fruga in quel male che la televisione cerca di divorare quasi sempre in modo avvilente,perfettamente intercambiabile con la posizione opposta.  E un libro dolente che piega la scrittura a un un tono che sta dentro e fuori dalla letteratura senza rinunziare alle tensioni del linguaggio muovendosi a zig zag Tra ciò che resta di un luogo, la Sicilia, dopo e durante il disastro. Il tono e quello della disillusa e intelligenza evocata dal viaggiatore del libro, disperata ma non rassegnata. Almeno cosi mi pare di averla avvertita, o mi sbaglio?

Ricordo una drammatica fotografia scattata da Ferdinando  Scianna dopo Il terremoto della valle del Belice; si vedeva un uomo sopra un cumulo di macerie di quella che forse era stata la sua casa, lo sguardo, un pugno chiuso rivolti contro il cielo; certo è l’immagine di un’imprecazione, di una bestemmia mossa dal dolore, dalla disperazione.

Ne L’olivo e l’olivastro il viaggiatore tra le rovine di Sicilia. o l’io che narra, se vuoi, è mosso, negli urli, nelle invettive, dallo stesso dolore, dalla stessa disperazione.

Ti è capitato sempre più spesso di dover far sentire la tua voce pubblicamente, di rimettere nelle mani di chi te  l’aveva consegnato il mandato di Presidente di un teatro, a esempio. Perché  il ruolo dell’intellettuale in Sicilia rischia di essere sempre più di dimissionario o di scomunicato?

Ho accettato quell’incarico per ingenuità, con l’illusione che cosi avrei potuto portare sul piano della prassi  un contributo immediato alla cultura palermitana. Delusione e quindi tristezza. All’intellettuale non è ancora permesso nessun tipo di rapporto col potere.

Quali sono le cose che ti irritano maggiormente nelle vicende di potere in Sicilia e qual è lo spazio d’azione dell’Intellettuale? Parlo di uno spazio d’azione comune, che sfugga alla barbarie della duplicazione della guerra civile che si nota nelle relazioni tra intellettuali e a tutti i livelli della vita sociale.

Mi irrita l’aggressione costante che i mediocri mettono in atto nei confronti di persone o enti che hanno saputo realizzare qualcosa di valido: l’aggressione alla casa editrice Sellerio, l’unico fenomeno culturale vero venuto fuori dal l’Isola dal dopoguerra a oggi, è un esempio al di là di ogni vicenda politica o giudiziaria. Gli aggressori dovrebbero sentire una grande vergogna. Azione comune? Com’è difficile! Siamo, noi Intellettuali vanitosi e superbi, ferocemente individualisti, distruttivi e autodistruttivi .

Qual è il libro che ti racconta meglio e perchè?

Tutti: li considero capitoli di un unico libro. Ma più strettamente legati tra loro che più mi raccontano sono ll Sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo casa per casa timo libro casa per casa, e quest’ultimo libro L’olivo e l’olivastro
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Conversazione con Vincenzo Consolo

A colloquio con lo scrittore siciliano

Conversazione con Vincenzo Consolo

Ho sentito il bisogno di incontrare Vincenzo Consolo dopo aver letto uno a poca distanza dall’altro, due dei suoi romanzi, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976 e Nottetempo casa per casa del 1992. Lo spazio di tempo che ho lasciato tra i due libri mi è servito per gustare appieno il piacere e l’emozione per la scoperta de Il sorriso, nel timore forse che un secondo libro avrebbe potuto smorzare il grande entusiasmo che mi era nato.

   “Perché li hai letti uno di seguito all’altro? – mi chiede Consolo – Io li considero un dittico, potrei metterli accanto, questi due libri, perché oltre a svolgersi nello stesso luogo (Cefalù), sono complementari proprio perché partono da una concezione diametralmente opposta: nell’uno c’è il racconto di un’utopia politica,  nell’altro c’è il racconto del crollo di questa utopia, di una sconfitta. Sono due momenti storici diversi: il primo è il 1860, quando si erano accese le speranze per le classi emarginate; il secondo è attorno agli anni Venti, quando c’è l’arrivo del fascismo.”

   Non so neppur io perché abbia letto proprio quei due libri e in quell’ordine. Lo considero un segno benevolo del destino mentre mi guardo attorno, seduta nel suo studio milanese:

   Non avevo voluto sapere nulla di lui, tranne quel poco che avevo letto sui giornali durante l’infuocata campagna elettorale della primavera passata per le amministrative a Milano, quando era intervenuto, provocatoriamente contro la Lega.

   Dolcevita di lana e golf (vestito allo stesso modo, avevo incontrato un altro siciliano, qualche anno fa, in una fredda giornata d’inverno, Giuseppe Migneco), si scusa: “Perdoni se qui fa caldo, ma noi teniamo il riscaldamento un poco alto”.

   Allora penso subito al calore della sua terra, al sole, mentre fuori piove e Milano, è immersa nell’intenso, intimo grigio dell’autunno lombardo. (Questa grande città deve avere esercitato un fascino profondo, seppure non facile, su tanti grandi siciliani, da Verga a Vittorini, da Quasimodo a Guttuso e Migneco…)

   Le pareti della stanza sono coperte da semplici scaffali di legno chiaro pieni di libri; un poco ovunque, attorno, segni del suo gusto, della sua storia: dall’antica incisione della pianta di Messina alla raccolta di letteratura francese (è figlio della ragione illuministica, Vincenzo Consolo, rinato però alla speranza nella visione marxiana della storia, oggi naufragata); dalla maschera di morte di Giacomo Leopardi (dietro lo scrittoio, un poco di lato) ai tanti libri, librini e libroni sulla Sicilia; dai preziosi volumi di letteratura italiana della Ricciardi e dei classici Mondadori e Bompiani all’ antica piastrella di maiolica e al grande piatto con limoni, di Migneco. Il lampadario, in legno dorato, è di gusto barocco; ceramiche dalle forme e dalla patina antica (in Nottetempo descriverà accuratamente l’arte del costruire una giara, come segno di conoscenza e di rispetto della cultura dei vinti, dai potenti, della storia…)  si accompagnano a stampe di gusto simbolista ( ce n’è una di Max Klinger, autore già amato da Sciascia, che lo cita in Una storia semplice); due piccoli divani, bianco e verde-mare, completano il mio ricordo della stanza. (Mi perdoni professore ho cercato di conoscerla anche attraverso le sue cose). Tutto è come calato in una precisa misura, dove chiara è la predilezione per la semplicità; non ci sono esagerazioni. La stessa compostezza è in lui, gentile davvero, il volto sereno ed espressivo, animato da passioni certo vive che non devono però amare gesti plateali, radicate come sono nel profondo, nell’antico.

       Tra novembre e dicembre due sono stati gli incontri: il primo fatto di un lungo colloquio un po’ su tutta la sua vicenda letteraria; il secondo, divenuto necessario per chiarire e precisare un paio di punti rimasti in ombra. Ascoltarlo è stato un piacere: la voce calda e profonda, il parlare piano e semplice, attento sempre all’interlocutore.

      Il titolo di questo articolo è, naturalmente, un omaggio al grande libro di Vittorini Conversazioni in Sicilia e ad una terra anche da noi conosciuta e tanto amata.

Dove è nato, professore? A Cefalù?

      C.: Sono nato in un paese vicino a Cefalù, a Sant’Agata di Militello, sulla costa tirrenica. Per ragioni di ordine letterario, diciamo, nella mia immaginazione mi sono spostato più verso il mondo occidentale, perché il mondo occidentale siciliano è quello più strutturato dal punto di vista storico, mentre il mondo orientale (Messina e tutta la costa ionica) è un mondo meno strutturato da questo punto di vista, perché lì la storia è stata cancellata dai disastri umani, è più invasa dalla natura (il terremoto di Messina e la presenza di un fenomeno come quello dell’Etna). Questo ha fatto si – almeno io, nella mia immaginazione, l’ho potuto constatare – che ci siano in Sicilia due letterature, diametralmente diverse e opposte: quella della Sicilia orientale e quella della Sicilia occidentale. Quella orientale è contrassegnata da una sorta di propensione al canto, al lirismo e soprattutto alla forma. Il caso eclatante è quello di Verga. Uno scrittore come Verga non poteva che nascere sulle falde dell’Etna, con la presenza di questo fenomeno naturale che toglie ogni speranza. Un discorso storicistico da quella parte è difficile che nasca.

     Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni, come De Roberto, però lì sono nati i poeti. Quasimodo è nato da quella parte. Vittorini stesso, che era impegnato sul piano della storia, quando scriveva era estremamente lirico.  D’Arrigo, per esempio, è un altro caso di lirismo, come lo stesso Bufalino, con impegno formale più accentuato.

     Dalla parte occidentale, invece, gli scrittori sono più logici.

All’inizio, quando mi sono trovato a scrivere, ho avuto lo svantaggio di vivere alla confluenza di questi due mondi; ero al centro. E poi ho capito che avrei potuto trovare la mia identità cercando di far unire questi due mondi:  partire da un presupposto storicistico, razionale e poi spostarmi verso la zona poetica, verso la zona lirica e formale.

Lei ha compiuto studi classici, immagino. In Sicilia?

       C.:  Sì, sono cresciuto in Sicilia, ma sono venuto a Milano per fare gli studi universitari. E poi, quando ho capito che volevo fare lo scrittore, me ne sono tornato in Sicilia. Ma L’idea che avevo di fare lo scrittore era di tipo sociologico, perché allora le letture erano proprio di tipo meridionalistico. Scrittori per me centrali erano il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli…

Quando è arrivato a Milano?

        C.: Era il 1952, una Milano molto diversa da quella che avrei ritrovato più tardi.

Una città però molto viva, allora.  

     C.: Sì, erano gli anni della ricostruzione. Io sono venuto per frequentare l’Università Cattolica; avevo trovato alloggio nel collegio universitario. Avrei voluto iscrivermi a lettere, ma per l’opposizione della mia famiglia ho scelto legge come via di compromesso.

     In quegli anni, in quell’ateneo, c’erano tante persone che poi sarebbero diventate classe dirigente italiana: c’erano i De Mita, i fratelli De Mita; c’erano Riccardo Misasi e Gerardo Bianco; c’era Fanfani che insegnava ad Andreatta; e molti altri ancora!

     Io approdai lì casualmente, seguendo l’esempio di un mio compaesano. Il convitto costava poco, garantendomi una stanza e una mensa, ma non è che avessi una particolare convinzione di tipo ideologico o religioso; la mia era una famiglia laica.

     L’Università Cattolica era allora frequentata sia dai rampolli della borghesia milanese e lombarda di tipo cattolico, per i quali era una scelta, sia da una gran massa di meridionali (e tra questi i nomi che ho citato), gente modesta per lo più, mandata lì dai parroci e dai vescovi della provincia italiana, molto spesso con un certificato di povertà, grazie al quale studiavano gratuitamente.

     Mentre vivevo lì, ho visto una cosa che mi ha colpito molto. Nella piazza Sant’Ambrogio c’erano allora due realtà importanti: una era l’Università, il luogo degli studenti; l’altra era il Centro Orientamento Emigrati, così si chiamava. Era ospitato in un vecchio convento, una sorta di casermone, dove adesso c’è la Celere e anche un posto di Polizia. In quegli anni, quando andavo nella piazza, vedevo masse di meridionali che, prelevate alla stazione su appositi tram, venivano scaricate lì.

Portate in questo Centro Orientamento venivano poi sottoposte a visite mediche e avviate in seguito nei vari luoghi di emigrazione. Da Milano partivano per andare in Francia, in Belgio, in Svizzera, nell’Europa centrale, insomma; quelli che andavano in Germania. Venivano raccolti a Verona.

    A noi studenti poteva capitare di incontrare dei compaesani che emigravano oppure dei compaesani vestiti da poliziotti, che per bisogno si arruolavano nella cosiddetta polizia di Scelba.  Io ho incontrato un compaesano che giocava con me all’oratorio, si chiamava Giacomino, era vestito da poliziotto, col manganello.  Io non so se quelli che sono diventati poi uomini politici abbiano visto, abbiano osservato la realtà che io osservavo.

     Allora sarei potuto rimanere a Milano, perché in quegli anni il lavoro si trovava.

Erano gli anni in cui a Milano c’era anche Marotta, e c’erano naturalmente Vittorini e Quasimodo…                

       C.: Io ero venuto proprio sulla scia di questa mitologia milanese della letteratura siciliana. Amavo molto la letteratura e inconsciamente ero venuto anche per quello, sapevo della presenza loro e di altri artisti.

Li conosceva già? 

     C.: No, assolutamente. L’unica persona che avrei desiderato conoscere in quegli anni era Vittorini, però ero talmente timido che non osavo…

     Al finire degli studi, poi, me ne sono tornato in Sicilia, per scrivere.

     Per vivere mi misi ad insegnare, in scuole agrarie, in paesi di montagna, sui Nebrodi, alla confluenza con le Madonie, con paesi a 1000 metri di altezza. Andavo ad insegnare a San Fratello, a Caronia; erano luoghi quanto mai lontani. Insegnavo diritto, che allora si chiamava Educazione Civica e Cultura generale (significava italiano, storia e diritto). Però poi mi accorsi che quella scuola era una finzione perché i ragazzi erano destinati all’emigrazione; l’agricoltura stava chiudendo e quindi… I loro padri erano già emigrati.

Lei parla degli anni a cavallo tra il 1950 ed il ’60. I contadini venivano spesso trattati ancora come servi della gleba. Da ragazzina io ho vissuto non pochi mesi, proprio allora, in Sicilia e ricordo bene quella realtà.     

     C.: Era una realtà tremenda. Non era ancora stata fatta la riforma agraria (che fu poi una beffa, che non approdò a niente perché le terre migliori se le appropriarono gli amministratori e ai contadini diedero le pietraie, in luoghi irraggiungibili). C’era allora il processo di industrializzazione del paese, quindi questa gente era costretta ad emigrare.

     Comunque io avevo preso questa decisione di raccontare il mondo contadino nel momento in cui questo spariva. Nel ’63, però, quando mi misi a scrivere, misi da parte le intenzioni che avevo, che erano fortemente politiche e sociologiche; l’istinto mi portò a scrivere in un altro modo, che è quello proprio della forma prettamente letteraria, con una connotazione stilistica molto, molto accentuata. Sentivo quest’impegno della storia, ma amavo e seguivo molto la letteratura.

     Nel primo libro parlavo degli anni di me adolescente: ho voluto raccontare il dopoguerra in Sicilia, la caduta del fascismo, l’arrivo degli americani, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni del ’47 e poi la strage di Portella delle Ginestre e quindi le elezioni del ’48, con questa sorta di pietra tombale che cadde su questo paese. Voleva essere una storia emblematica di quello che era successo, raccontando delle ennesime speranze che s’erano accese in Sicilia nel secondo dopoguerra e del come queste speranze finirono quando arrivò quel grande partito, che è durato cinquant’anni da noi…

     E il libro narrava proprio questo, ma visto con gli occhi di un adolescente, quindi con un linguaggio molto trasgressivo. Io mi rifiutavo di scriverlo in italiano e allora mi sono costruito, come cifra stilistica di estrema opposizione, un dialetto. Mi sono immaginato di un paese vicino al mio, che si chiama San  Fratello ed è un’antica colonia lombarda, un’isola linguistica. È una cifra che mi ha accompagnato anche per altri libri, anche nel Sorriso, in Lunaria e, in modo più accentuato, nelle Pietre di Pantalica e questo per dire, appunto, di una estremità linguistica da cui io sempre parto per approdare poi alla lingua, al toscano.

     Istintivamente, allora mi collocai proprio come un ragazzo che veniva da quel paese dove si parla un antico gallico, che era la lingua che si parlava nella pianura padana (la diversità linguistica nell’estrema diversità siciliana quindi).  Fu una forma istintiva di trasgressione, di opposizione al codice linguistico dei grandi, che era quello paterno. C’era già, in quel primo libro, questa sorta di impasto linguistico.

Che è già la ricerca di quel «nuovo significato delle parole»? Lei ha scritto, in un passo bellissimo del Sorriso, a proposito di tutti quelli «che mai hanno raggiunto i diritti più sacri ed elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione»: «…tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose».

     C.: Sì, e queste parole nuove sono parole antiche, nel senso che sono parole seppellite dal codice imperante, dal codice della comunicazione, che io cerco di disseppellire, di «rimettere» in circolo… Non è solo un gioco formale, è un gioco anche di contenuti, perché la letteratura è scrittura. C’è stato in me questo rifiuto di adottare il solito codice comunicativo, per praticare un codice fortemente espressivo; si tratta di un bisogno «oppositivo» per così dire: poiché i contenuti vogliono essere così, la forma deve corrispondere ai contenuti.

     Poi ho lasciato la Sicilia, nel ’68, perché lì non c’era più niente da fare, perché, appunto i giochi erano stati fatti. Quando sono andato via avevo 35 anni, non c’era più spazio per uno che non poteva vivere di rendita, isolato e che aveva bisogno di lavorare; l’alternativa per un giovane intellettuale come me era o aggregarsi al potere, e al potere mafioso, o fare le valigie e andarsene.

     Quindi sono andato via.

     Negli anni vissuti in Sicilia, le uniche due persone che ho frequentato sono stati due archetipi, due persone emblematiche della mia formazione.  Uno era Lucio Piccolo, un poeta; era cugino di Lampedusa questo grande poeta, purtroppo poco conosciuto. Era un poeta straordinario; ha avuto il torto di morire presto. Lui è apparso sulla scena letteraria prima di Lampedusa; lo scoprì Montale, poi fu pubblicato nello «Specchio» di Mondadori, però non riuscì a completare il suo ciclo poetico perché morì abbastanza giovane, schiacciato dall’esplosione del fenomeno Gattopardo.  Lui veramente, quando lo nominavano come il cugino di Lampedusa, si dispiaceva. Una volta ebbe a dire: «È Lampedusa che è mio cugino» rimettendo le cose nel giusto senso.

     L’altra persona che ho frequentato è stato Sciascia, che ho conosciuto dopo aver pubblicato il mio primo libro. Glielo mandai, e lui poi mi invitò ad andarlo a trovare (allora stava a Caltanissetta); poi siamo diventati amici.

     Quando l’uno era il poeta puro, un barone, con questa poesia terribilmente ermetica, difficile ma affascinantissima, di tipo spagnolo, una poesia molto accesa, tanto l’altro era invece logico, limpido, cristallino, storicistico, di impegno civile.

     Per me sono stati veramente come due maestri, due poli.

     E nel ’68, anche su consiglio di Sciascia, presi le valigie e ritornai a Milano.

Non a Roma?

     C.:  No. Perché io credo che dalla Sicilia ci sono due modi per uscire: uno è romano e l’altro milanese. C’è una corrente milanese che è fatta soprattutto di scrittori che hanno vagheggiato una sorta di utopia politica, perché Milano era l’antitesi della Sicilia, era la città dove c’era la trasparenza amministrativa prima di tutto, e poi dove si era realizzata in qualche modo, una certa equità sociale. Quindi approdavamo a Milano come al luogo antitetico alla Sicilia.

     A Roma invece approdavano degli scrittori a cui interessava il discorso del potere, e quindi Brancati e Pirandello.  Un Pirandello che, con quella sua scrittura, aveva illustrato, aveva raccontato quello che era la crisi della piccola borghesia italiana, di una borghesia fascista, non poteva che andare a Roma. A Milano sarebbe stato fuori posto.

     E poi Sciascia, naturalmente, con il suo discorso sul potere, sul «palazzo». È quello che fece Pasolini e, in un certo senso, anche Moravia.

Torniamo un momento alla letteratura siciliana. Abbiamo parlato di Verga, di Vittorini, dei poeti della costa orientale, ma non degli autori della parte occidentale.

     C.:  Per la parte occidentale, a fronte dei Verga, dei Brancati o Quasimodo, o Vittorini o dello stesso Bufalino, il primo nome che viene in mente è il Pirandello dei romanzi storici, soprattutto di un romanzo, I vecchi e i giovani. In Pirandello, come dice anche Gramsci, tutte le novelle sono prese da storie locali, da racconti che lui sentiva fare nel mondo girgentano, agrigentino. Ma forse, dopo l’uscita de I Viceré di De Roberto, che è questo grande affresco storico – perché erano i temi dell’epoca, erano i temi storicistici della grande letteratura francese – anche lui si è cimentato nel grande affresco storico con I vecchi e i giovani. E questo romanzo, che può essere manchevole in qualche parte, è però un grande tentativo di restituire una realtà storica siciliana (come nessuno fino ad allora aveva tentato), soprattutto di una Sicilia occidentale, la Sicilia delle solfare. Lui parte da che cosa è successo dopo l’Unità d’Italia in Sicilia proprio in quella zona. Il centro del racconto sono i moti socialisti del 1893, con tutte le rivolte contadine, con l’occupazione delle miniere e quindi con lo scontro tra operai delle solfare e i proprietari delle medesime.

     È la rappresentazione amara, da parte di Pirandello, di quello che era il malinteso «sicilianismo» da cui poi vengono tutti i mali siciliani della mafia, del potere politico mafioso e via discorrendo.

Prima che andasse a Roma, l’ha scritto.

     C.:  Prima che andasse a Roma, prima che facesse la grande svolta di proiettarsi cioè sul piano della crisi dell’identità, di tutte le scoperte che vanno sotto il nome di pirandellismo, del dramma dell’essere e dell’apparire, di proiettarsi dal piano dello storicismo, della contingenza al piano dei valori dell’esistenza, dell’inquietudine dell’esistenza. D’altra parte Pirandello ha operato in antagonismo, per così dire, allo stesso Verga. Verga ha immaginato un mondo immobile, dominato dal fato, dove l’uomo inutilmente si agitava perché tanto il suo destino sarebbe stato segnato per il solo fatto di esistere, quindi era impossibile, in questa esistenza, ogni possibilità di riscatto.  E tutta la tematica verghiana è la tematica dell’immobilità e del fato, che blocca l’uomo nella sua vicenda umana.

     Pirandello ha cercato, ha tentato di ribellarsi a questa legge dell’immobilità e del fato, a questa legge quasi metafisica verghiana, operando, attraverso la dialettica, quello che era un contrasto verbale con l’entità destino.  E, quindi, attraverso il sofisma, la dialettica ha cercato di smuovere questa condanna del fato sull’uomo. Però, naturalmente, il mondo di Pirandello diventa forse ancora più atroce e più tragico; è quello che Giovanni Macchi chiama «la camera della tortura» : i personaggi non fanno altro che tormentarsi, che torturarsi, con queste verità sfaccettate, una verità contro l’altra: con queste identità che si perdono e continuamente si inseguono, in una ricerca continua dell’ identità.

È poi anche, se si vuole guardare, un modo d’essere del siciliano, questa ricerca d’identità, perché noi siamo dilaniati continuamente da questa perdita di identità continua dovuta anche alla nostra storia.

      Noi siamo tante culture messe insieme, siamo questo crogiuolo di culture, per cui da noi il rischio è un continuo vacillare dell’ identità e dell’io; questo io è l’Uno, nessuno, centomila del Pirandello che si moltiplica all’infinito, come vivere sulle sabbie mobili, senza una consistenza.  E in questa incertezza sta il nostro dramma, ma sta forse anche quella che è la grandezza (adesso uso un termine retorico): in questa dialettica, in questa ricerca continua dell’identità sta forse il nostro essere più umani e quindi più comprensivi, quando si prende coscienza di tutto questo.

     Pirandello attinge proprio al modo d’essere siciliano, al mondo siciliano per costruire quella che era la sua filosofia, la sua concezione. Nel Mattia Pascal, per esempio (che è il libro dove è messo subito in luce questo dramma, dell’identità), quando parla di Mattia (e parla di se stesso) dice di questa «maturezza» (lui usa il termine «maturezza») a cui è arrivato da piccolo a furia di ammaccature.

     L’io siciliano è ammaccato, e quindi arriva a questa maturità molto prima e con più dolore degli altri, forse. Il rischio però è di non maturare assolutamente e di perdere la ragione; il crinale su cui si cammina pericolosamente è quello di annientarsi, di perdere la ragione, oppure di avere un consapevole dolore di questa maturità a cui si arriva con le ammaccature.

     Quelli che precipitano da questo crinale sono quelli che più straziano, in questo lasciarsi andare in questa specie di vortice e di perdita della ragione… Mantenere la ragione, in Sicilia, è estremamente difficile ed è una fatica continua.

      Ma, per tornare al romanzo storicistico, oltre Pirandello c’è stato Lampedusa e poi Sciascia. Sciascia è lo scrittore storicista per eccellenza, di uno storicismo critico, oppositivo. Tutta la letteratura della parte occidentale dell’isola è segnata da questo impegno con la storia.

      Sciascia ha fatto di più. Ha rinunciato a quelli che erano i grandi temi illuministici e manzoniani (il grande tema del Manzoni era la giustizia) che inizialmente aveva scelti ( e che poi sono cristiani), quindi il tema della verità e della menzogna, dell’impostura, il tema della pena di morte, della tortura, del rispetto della dignità dell’uomo.

     Quando vede, in Sicilia, quello che era il grande rischio della nostra società, la mafia, abbandona questi grandi temi e affronta il tema della mafia, che era un tema contingente ma che lui fa diventare un tema assolutamente metaforico e quasi assoluto. E quindi scrive tutta questa serie di gialli politici, dove rovescia quella che era la tecnica del giallo, cioè si parte dalla verità e si arriva al mistero: il mistero è il rispecchiamento del mistero, del potere mafioso, che è sempre misterioso. Oggi stiamo constatando, attraverso i giudici, quali erano questi misteri; ancora non li conosciamo tutti, ma Sciascia ci ha fatto intuire qual era l’enigma del potere mafioso.

Quando ha conosciuto Sciascia?

     C.: Dal punto di vista biografico, avevo conosciuto Sciascia sin dal primo libro che aveva pubblicato: Le parrocchie di Regalpetra. Allora le mie letture erano di indirizzo sociologico. Siamo nel ’56, credo. Quando sono tornato in Sicilia dopo essere stato a Milano, non osavo importunarlo.  Sapevo che c’era questo scrittore, che a me è sembrato subito uno scrittore importante in questa Sicilia desertica. E quando io pubblicai il mio primo romanzo (La ferita dell’aprile) nel ’63, ho avuto subito l’avventura di mandarglielo con una lettera dove gli dichiaravo il mio debito nei suoi confronti: perché era lui che mi indicava la strada che avrei dovuto seguire, oltre a Lucio Piccolo, di avere cioè di fronte questi due mondi, lo storicismo e la poesia, e di farli finalmente unire, di fare da trait-d’union fra questi due mondi, quello che era il substrato storicistico da una parte e la poesia piccoliana dall’altra parte. E lui mi rispose con una bella lettera, invitandomi ad andarlo a trovare a Caltanissetta, e poi siamo diventati amici.  Questa amicizia durò quanto lui è vissuto; è stato un continuo dialogo.

Parlavate di letteratura? Anche di impegno civile? 

     C.:  C’era uno strano pudore; non parlavamo delle nostre cose, solo molto raramente, ma si parlava dei fatti politici, dei libri degli altri, soprattutto dei fatti che accadevano in Italia. E poi così, nelle pieghe del discorso, si lasciava cadere il titolo di un libro che si era letto… 

     Un suo rammarico era che io scrivevo poco. Voleva che scrivessi di più.

Adesso lei sente su di sé l’impegno che è stato di Sciascia?  

     C.:  Sento il dovere di continuare su questa linea con lo stesso impegno, per essere degno di questa tradizione, anche perché vedo che da ogni partesi cerca di distruggere la letteratura siciliana.

     Il mio diventa quindi un impegno con la letteratura e spero di mantenerlo perché nel mondo d’oggi si ha questa volontà di abbassare tutti i valori, di distruggere quelle che sono le verità con le imposture. E queste cose non sono sopportabili…

Lei aveva citato prima Pasolini. Mi chiedevo se anche questo non sia stato uno scrittore di riferimento nel suo percorso letterario e civile.    

     C.:  Lui era fondamentalmente poeta; l’impegno sociale lo estrinsecava attraverso una scrittura di intervento, sui giornali.  Scritti corsari, Lettere luterane, Empirismo eretico: era questo suo bisogno di intervenire direttamente, al di là del romanzo e della poesia.

Mentre lei ha sempre sentito la necessità della letteratura come mediazione?

     C.:  Non sempre. Anch’io… I tempi letterari, i tempi della metafora sono dei tempi lunghi e la storia diventa qualche volta più impellente e quindi si sente il bisogno, veramente, di intervenire, per cui anch’io – certo non con quella forza e con quella assiduità con cui lo fece Pasolini, e con l’autorità con cui lo fece Pasolini – ho sempre scritto sui giornali.

Lei appare come un signore pacato, ma la passione con cui scrive denuncia una…

     C.:  No, non lo sono. Per esempio, quando sono arrivato nel ’68 a Milano, io subivo una sorta di spaesamento e di blocco anche creativo. Ero venuto a Milano perché desideravo raccontare questa grande trasformazione italiana, parlare di queste masse di meridionali che arrivavano nel nord industriale, in una città come Milano e che poi, da contadini che erano, si sarebbero trasformati in operai.

Lei era venuto come insegnante?

     C.:  No. Avevo fatto un concorso in una azienda; il primo di gennaio del ’68 (ho viaggiato in treno la notte di San Silvestro) ho dovuto presentarmi al posto di lavoro.

Quindi ha fatto una scelta anche in questo campo.

     C.:  Sì. Allora c’era una rivista letteraria, diretta da Vittorini e Calvino

(“Il Menabò”), che dibatteva proprio questi temi: del rapporto tra industria e letteratura, di questo nuovo mondo, della rivoluzione industriale italiana (questa grande trasformazione sociale), soprattutto nel processo di inurbamento. E poi c’era un’altra rivista, che si chiamava «Questo e altro», che sollecitava appunto a lasciare le vecchie professioni, cosiddette liberali, degli scrittori (insegnamento e altro) e ad entrare nell’industria. Io feci questa scelta: Feci un concorso, lo vinsi e mi presentai a questo posto di lavoro.

     Vittorini, per esempio, invitava a studiare i nuovi linguaggi che si sarebbero formati qui, nell’area industriale, dall’incrocio dei dialetti   coi dialetti del nord: Questi linguaggi lui li chiamava le «koiné», le nuove «koiné». Queste non si sono formate, ma si è formata una «superkoiné», che poi sarebbe l’italiano che ha analizzato Pasolini, nel ’64 mi pare, che era la lingua dei media e che si sarebbe  sovrapposta…

Insomma l’Italia è un paese veramente singolare nel contesto europeo, perché nessuno ha avuto così rapidamente e radicalmente le vicende italiane.  È un paese terremotato; era un vecchio paese ancora agricolo e contadino, ha avuto questa rivoluzione. E poi questo grande spostamento di masse di meridionali dentro queste città che sono esplose, con tutto quello che è successo e di cui, forse, paghiamo le conseguenze. È stata la dannazione di Pasolini, questo…

     Quando si fanno questi discorsi, sembra che uno abbia nostalgia del vecchio mondo contadino. Quello che rimproveravano a Pasolini era: «Ma come?».

     No, nostalgia del mondo contadino credo non ce l’abbia nessuno, perché il mondo contadino era un mondo di sofferenza, di ignoranza, era un mondo un po’ anche di conservazione; non era un mondo progressivo, insomma, perché i contadini erano portati ad una sorta di atteggiamento passivo, di rassegnazione. Quello che portava la novità e il senso di presa di coscienza di classe era il mondo operaio, perché i temi politici che si dibattevano erano del mondo operaio.

Perché c’era aggregazione, mentre il contadino era un isolato.

     C.:  Sì, erano isolati. Soprattutto, poi nel latifondo siciliano, questi contadini erano angariati, vessati. Quindi la rivoluzione culturale che è avvenuta in Sicilia si è realizzata nel mondo sotterraneo, proprio perché quella era l’unica forma di operaismo siciliano, quando da contadini si trasformarono in minatori nelle solfare. Lì c’è stata una sorta di rivoluzione culturale, che sfociò nei «fasci siciliani», nelle rivolte del 1893 in Sicilia.

     Io non ho nostalgia del mondo contadino (questo l’ho anche raccontato nelle Pietre di Pantalica); volevamo però uno sviluppo diverso da quello che abbiamo avuto, con più rispetto nei confronti dell’uomo.  

Qui, invece, i valori umani sono stati distrutti, per non parlare di tanti altri valori. È quello che Pasolini chiamava «sviluppo senza progresso», lo chiamava semplicemente «sviluppo» e non «progresso»; molto spesso è stato un regresso. In Sicilia questo l’abbiamo sofferto sulla pelle, con l’industrializzazione attraverso le raffinerie di petrolio. Queste hanno distrutto città, Gela, Siracusa, Priolo…, che erano innanzi tutto ecologicamente sane, belle, luoghi arcaici, antichi.

     In mezzo alle raffinerie di Priolo ci sono ancora i resti di Thàpsos Megàra Iblea, dove sono sbarcati i Greci (nel 739 a.C.).  Io sono andato a rivederli, ancora questa estate, in mezzo a tralicci, a ciminiere. Erano patrimoni culturali che appartenevano a tutti e che sono andati distrutti.

      Città come Gela e Licata sono diventate degli inferni, delle cose tremende; hanno subito questa trasformazione e sono diventate degli orrori.      Non c’è idea di che cosa è un paese come Gela! È una cosa che toglie il fiato…  Hanno portato le raffinerie ma non hanno risolto i problemi: la gente ha continuato a emigrare; hanno assorbito poca manodopera, i tecnici venivano dal Nord.  I petrolieri venivano lì, rastrellavano soldi dalla Regione, dalla Cassa del Mezzogiorno, dall’Erario e poi, dopo aver fatto i loro affari, regalavano gli impianti allo Stato. Il signor Moratti, tanto per non fare nomi, ha fatto questo a Milazzo, una città ora distrutta e sconvolta dal punto di vista paesaggistico, ed ecologico, a causa delle raffinerie.  La Sicilia, il meridione sono diventati luoghi spopolati, in cui sono arrivati i profittatori, luoghi di rapina e di sfruttamento.

     Poi, quando ci si chiede dei mali meridionali, di tutte le cose tremende che sono successe, si deve sapere che le responsabilità sono di ordine storico, di ordine politico.

     Non si deve pensare, come fanno certi signori di certe Leghe, come fa il signor Miglio, che sia un fatto genetico, quasi noi, nel sangue, avessimo il gene della delinquenza, della mafia, della ‘ndrangheta. Ci sono responsabilità ben precise.

     Nel dopoguerra c’era un sovraccarico di manodopera sulle terre e, quindi, bisognava «alleggerire»; le leggi del mercato sono le leggi del mercato. Però tutto poteva avvenire in un modo più rispettoso, più organico, non in questo modo selvaggio.

     Al potere politico interessava soltanto fare di queste zone del Meridione delle riserve di clientelismo politico, dei feudi dove racimolare voti. Le masse meridionali erano quelle che dovevano dare il voto democristiano (perché nel Nord, operaistico, erano forti le sinistre), con tutte le trame di malcostume e di corruzione che adesso stanno emergendo.

Ancora poco nel Sud, mi pare.

     C.:  Perché ci sono state delle cose più gravi nel Sud, ci sono stati i cadaveri, le strade piene di cadaveri e, quindi, si è prima pensato a quello. Io spero che si passi al secondo sipario, il sipario del malaffare.

Io spero che vengano coinvolti un poco tutti davvero, dai magistrati agli imprenditori, alla stampa, perché non è possibile pensare che solo i politici siano i grandi colpevoli.

     C.:  C’è ora nella gente, anche in quella che era passiva, che in un certo senso aveva avuto anche vantaggi (spero che non sia retorico quello che dico, io l’ho constatato), c’è un bisogno di riscatto, di riconquistare la dignità perduta. Io l’ho visto a Palermo, quest’estate. Credo che le prossime elezioni siano estremamente importanti.

     Questo è un momento molto, molto delicato, per tutto il paese, ma per la Sicilia e il Meridione soprattutto.

Delicato, ma, lei dice, di speranza.

C.:  Di speranza, sì. È un momento di passaggio, dove si può tornare indietro, ma… Credo che ci sia nella gente un bisogno di togliersi questa vergogna e quest’ipoteca del malaffare, della mafia, del delitto. Questa è stata veramente una perdita d’onore e c’è un bisogno, nella gente, di riconquistare quest’onore perduto, un onore sociale, non privato, e c’è volontà di togliersi dalla soggezione del potere politico da cui era ricattata. Questo si vedeva bene alle elezioni: ogni volta che c’erano referendum, per esempio, il risultato era di un tipo, quando si tornava alle elezioni politiche il risultato era un altro.

Anche noi, al Nord, abbiamo perduta una intiera classe di amministratori e, per tradizione, avevamo gente che davvero amministrava.

     C.:  Sì. È saltato anche questo, c’è stato un processo di degenerazione.

     Poi, al Nord, è venuta fuori anche la Lega, per un bisogno di pulizia, per cui adesso ci sono questi revanscismi, del resto molto semplici, schematici e pedagogici. Come sempre capita nei momenti in cui crollano i regimi, vengono fuori forme scomposte.

     Io queste forme, queste rivendicazioni locali, le ho viste da ragazzo, in Sicilia, nel ’47, con il Movimento Indipendentista Siciliano. E capivo, anche se ero molto giovane allora, che cosa significava: significava ancora una regressione, un passo indietro.

     Quando, dopo tutti i disastri democristiani e socialisti, in questo campo di macerie, si presenta qui al Nord un movimento che si chiama Lega Nord (e già la denominazione stessa mi sembra che escluda una parte del contesto italiano) mi sono preoccupato. Io non sono un politico, sono uno scrittore,: la spia, allarmante l’ho avuta quando si sono visti i primi segni, nelle traduzioni – diciamo così – sulle strade delle scritte in italiano in dialetto lombardo. Questo mi ha messo subito in allarme perché so, proprio da scrittore che usa il linguaggio, so che cosa significano questi ritorni verso le forme dialettali. Sono modi di regressione e anche di aggressione e di esclusione, messi in atto, per di più, in un contesto come quello lombardo che, proprio per la sua storia e per la sua economia, ha cancellato il dialetto.  Questo rifugiarsi di nuovo nel dialetto per escludere la lingua politica (uso «politica» nel senso etimologico, lingua cioè della comunicazione) ha voluto dire passare da una afasia e una impraticabilità del linguaggio proprio del potere (perché il potere usa sempre una lingua impraticabile, non volendosi far capire, una lingua di tipo aziendale e tecnologico, che Pasolini ha studiato) al vecchio dialetto che non esiste più, quindi alla chiusura e alla incomunicabilità totali.

     (Il dialetto si può scandagliare in letteratura, per tornare alle radici e approdare poi alla comunicazione, ma il linguaggio politico deve essere sempre quello della comunicazione).

     Ora, queste considerazioni, secondo me, sono importanti, significano molto. Vogliono dire che dietro non c’è ideologia. L’ideologia liberale o socialista sono delle ideologie!  Che poi ci siano stati dei mascalzoni, che le hanno degenerate, questo è un altro discorso.

     Queste forme regressive sono le «vandee» di cui ha parlato Benedetto Croce, e anche Vittorini, a proposito dei Vespri Siciliani.  Vespro Siciliano che, sulla scorta del melodramma verdiano, è stato sempre visto come un fatto progressivo e che invece è un fatto assolutamente regressivo, perché la Sicilia abbandonava i legami con la Francia e si rifugiava in una conservazione di tipo spagnolo.

Il problema degli intellettuali in Italia è un triste problema, mi pare.

     C.:  È un triste problema, si. C’è sempre questa nostra viltà. L’intellettuale, in questo paese, è stato sempre considerato un ornamento del potere, ragion per cui l’intellettuale «disorganico» viene subito additato, messo ai margini. È sempre successo. Da Dante in poi, quelli che non si sono voluti piegare al potere e che hanno adempiuto a quella che è la funzione dell’intellettuale, essere coscienza critica, sono stati esclusi. Non può essere il cantore alla mensa del principe, altrimenti diventa un cortigiano e l’intellettuale che non vuole essere cortigiano viene naturalmente bandito: questa è la sua sorte.

     È successo sempre, fino a Pasolini, a Sciascia e altri.

Tanti altri no.

     C.:  Durante il fascismo, i professori che non hanno prestato giuramento sono stati sei in tutta Italia. Tra questi, lo dico con orgoglio, c’era Giuseppe Antonio Borgese, che stava qui a Milano, un siciliano, un grande scrittore: se n’è dovuto andare in America. Non so quanti fossero allora i professori universitari ma soltanto in sei non hanno prestato giuramento al fascismo.

Lei ricordava gli anni intorno al ’68: la sua posizione è sempre stata isolata o ha partecipato direttamente a quegli avvenimenti?

     C.:  No, guardi, quando sono arrivato qui mi sono trovato talmente spaesato che non ho avuto legami con i movimenti politici e neppure con quelli intellettuali. Era un mondo che osservavo per la prima volta, perché mi portavo dietro un’altra memoria, la memoria del mondo contadino. Mi mancava la memoria del mondo industriale, mi mancava quel linguaggio soprattutto.  E quindi sopperivo a questa afasia letteraria facendo attività giornalistica. Scrivevo su «L’Ora» di Palermo e poi su «Il tempo illustrato», un settimanale molto vivace, molto bello e devo dire anche molto libero, dove ci scrivevano in quegli anni Pasolini, Giorgio Bocca, Padre Turoldo. Ho pubblicato parecchie inchieste su quel giornale.

     Poi ho capito che per tornare a scrivere e raccontare Milano sarei dovuto tornare di nuovo in Sicilia, non fisicamente ma almeno con la memoria, ritornare al mio linguaggio, alla mia matrice culturale. E per questo, ho scelto il romanzo storico; lo sentii proprio come una necessità, questo di riandare indietro con il tempo per poter raccontare il presente. 

Il suo gusto di reinventare la parola, il linguaggio?

     C.:  A parte Gadda, Pasolini, Mastronardi e altri di allora, io avevo un grande sperimentatore che mi era più congeniale: Verga, il primo che ha compiuto la rivoluzione linguistica attuata abbassando a livello dialettale quello che era il codice toscano.

     La sua conversione è avvenuta proprio a Milano. Anche lui, se questo mi è permesso, quando arrivò a Milano nel 1872 venendo da Firenze (fino a quel punto aveva scritto dei libri, i cosiddetti romanzi «mondani»), trovò questa città in preda alla prima rivoluzione industriale; era una città che stava subendo uno sconvolgimento: nuove stazioni ferroviarie, nuovi cantieri. C’era poi anche il movimento operaio e c’erano i primi conflitti.

A Lodi si faceva un giornale che si chiamava «La plebe»; c’erano i primi scioperi, quindi, da una parte, c’era la rivoluzione industriale, e dall’altra la presa di coscienza delle masse popolari. Il tutto culminò con la esposizione universale dell’81, con il Ballo Excelsior. E lui abitava proprio vicino a questa esposizione.

     Verga subì una sorta di spaesamento e da questo venne la sua conversione. Tornò con la memoria alla Sicilia. Ma quella di Verga era una Sicilia della sua infanzia; Sapegno dice «ferma e intatta».  Era una Sicilia un poco cristallizzata, mitizzata nella sua memoria, seppure di un mito negativo, quella della irredimibilità del destino umano.

     Per esempio, quando uscì la prima inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino del 1876, dove si cominciò a parlare di mafia e della malavita siciliana, dei rapporti fra il potere politico e la mafia, Verga si ribellò.Diceva che era una diffamazione della Sicilia, non lo voleva ammettere…Come poi non ammise i movimenti dei solfatari e dei contadini siciliani del ’93.

     Verga, nella vita, era considerato un reazionario e ciò è dovuto a questa sua idea di una Sicilia mitica, quella, ripeto, della sua infanzia. Però questo gli permise di scrivere dei capolavori.     La sua rivoluzione avvenne prima con i. racconti, con le Novelle rusticane e poi con quel poema straordinario che è I Malavoglia.

La follia ha un ruolo preciso nei suoi romanzi. Nel Sorriso, per esempio…

     C.:  Ci sono due forme di follia, per la verità: il libro si apre con un gesto di follia, compiuto nell’antefatto dalla ragazza Atena (che non è una folle, è un’intellettuale), fidanzata con Giovanni Interdonato, che è questo capo risorgimentale rivoluzionario. Lei sfregia il quadro di Antonello da Messina proprio per una sorta di impazienza, perché era animata dal desiderio di uscire fuori della ragione dall’alto, attraverso la fantasia creatrice, che può essere anche una fantasia politica (lei aveva immaginato un nuovo ceto sociale).

     E quindi l’assunto dal quale io sono partito è che dalla ragione – che è rappresentata da questo quadro, da questo sorriso ironico – si può uscire dall’alto, attraverso appunto la fantasia creatrice, l’arte, attraverso questi furori che sono furori positivi.

     Oppure per la disgregazione della ragione, dal basso, Il monaco – un monaco allucinato – è proprio l’altra faccia di questo gesto di insania della ragazza. Poi lei non compare più come personaggio, però è quella che muove tutta l’azione, è una specie di Annunciazione.

     L’ambizione mia è stata di dare una struttura originale al libro; non ho voluto scrivere il romanzo storico di tipo ottocentesco, sapienzale, con l’autore che dall’alto dirige le fila della vicenda.  Il mio romanzo parte dall’assunto dell’inattendibilità della storia, della responsabilità di chi scrive la storia, di chi ha il potere della struttura, anche di chi scrive letteratura insomma; e quindi ho voluto far vedere due aspetti della struttura e cioè quello storiografico e quello letterario.

Si è anche tolto da una cronaca di denuncia, quale può aver fatto Vassalli con la sua ricostruzione del Seicento.

     C.:  Sì. Vorrei dire che non è che io scelga gli argomenti di carattere storico casualmente. Non è che mi interessino tanto i personaggi collocati nella storia, mi interessano le epoche storiche, che siano anche metaforiche. C’è la lezione del Manzoni, insomma. Ci sono dei momenti storici che somigliano ai nostri; si scandaglia il passato per poter capire questo nostro presente. È quello che ci ha insegnato il Manzoni.

     Altrimenti diventano storie romanzate e allora si possono prendere infinite storie.

Basterebbe prendere spunti d’archivio, lei dice. In questo non si differenzia da Sciascia, che ha fatto invece un recupero davvero d’archivio, di lettura documentale?

     C.:  Ma i romanzi storici di Sciascia erano estremamente metaforici; scaturivano proprio dalla lezione manzoniana. Il suo Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore erano nati soprattutto dalla lettura della Colonna Infame: niente di più attuale, di più eternamente attuale, purtroppo, dell’impostura, delle menzogne, della violenza. L’assillo del Manzoni era la giustizia e ha scelto il Seicento perché era un secolo estremamente ingiusto. E ha preso questa distanza storica per poter raccontare l’Ottocento.

Dopo di che lei prende l’Ottocento per poter raccontare…

     C.: A me interessavano altre cose oltre la giustizia, altri tipi di ingiustizia; oltre ai principi generali della dignità dell’uomo, della libertà, mi interessavano anche la sorte delle classi emarginate, di tutti quelli che non hanno il potere della scrittura.

     Quello di Manzoni e di Sciascia è chiaramente un assunto più di tipo illuministico; il mio, se vuole, è un assunto di tipo marxiano: questa forse è la differenza: Io faccio un discorso anche di classe.

E di speranza nella storia.

     C.:  Di speranza nella storia e di ammettere che nella storia ci sia giustizia per tutti gli strati, soprattutto per quelli socialmente più deboli. Questa è la mia utopia, l’utopia da cui parto io.

E che scrive, mi pare benissimo, nel capitolo introduttivo alla relazione sui fatti…

     C.:  Sì. Il libro parla della crisi di un intellettuale, che era chiuso nella sua scienza, nella sua torre d’avorio: era un privilegiato, questo barone Mandralisca! Quando poi sbatte il naso contro la storia, siccome è un uomo di coscienza, non un cinico, entra in crisi. La sua soluzione è quella di donare tutti i suoi beni al Popolo di Cefalù. Può sembrare retorica demagogica, però il personaggio era un personaggio ottocentesco, quello che poteva fare lui, era questo.

C’è un po’ di autobiografia in questo?

     C.:  Io sono tutt’altro che un barone. Tuttavia negli anni Settanta, quando ho scritto quel libro, uno dei temi che si dibattevano era proprio il ruolo dell’intellettuale di fronte alla storia. Rappresentando un intellettuale ho inteso rappresentare anche me stesso nel momento in cui scrivo e cosa significhi questo mio scrivere un romanzo storico.

Nottetempo, casa per casa è ambientato invece negli anni Venti.  

     C.:  Questo libro l’ho concepito veramente non solo come un poema, ma anche come una sorta di tragedia. Ogni capitolo è come una scena di una rappresentazione tragica. Dentro poi ho aperto delle pause con delle digressioni, dove l’autore viene in prima persona (è la funzione del coro) a commentare i fatti che accadono man mano, con un tono un po’ più alto, più lirico.

     Certo ci sono anche dei capitoli di sarcasmo, di ironia, di comicità… Ci sono dei personaggi negativi che cerco di connotare anche beffardamente, come il dannunziano barone Cicio. Però il tema è la follia: la follia privata, esistenziale, e la follia della storia, questa perdita di razionalità. Mentre quella privata è una follia tragica, pietosa, quella della storia è una follia colpevole, perché stiamo insieme e abbiamo il dovere della razionalità. Io sono convintissimo (leopardianamente, diciamo, io non ho fedi di sorta, non credo ai mondi al di là di questa vita) che la vita, che l’esistenza sia dolorosa, anche se è una cosa meravigliosa, però è dolore, e che questo dolore si possa correggere soltanto «con la confederazione degli uomini tra loro» diceva Leopardi, si possa correggere con il contesto storico, con lo stare civilmente assieme. 

     Se, però, questo non avviene, allora abbiamo infelicità sui due fronti: abbiamo l’infelicità dell’esistenza e l’infelicità della storia, come succede al protagonista di questo libro, a Marano.  Ci sono tanti significati, insomma. Il nome Marano viene da «marrano».

«Marrani» in Sicilia, come in Spagna del resto, erano quelli di origine ebraica, che avevano dovuto abdicare alla propria identità religiosa e culturale e convertirsi al cristianesimo per non essere cacciati via. Quindi c’era, da parte di questa famiglia, la memoria di perdita di identità, di marginalità, di persecuzione. Poi questa famigliola di contadini era diventata una famigliola di piccoli proprietari terrieri grazie a questo suo protettore eccentrico che la fa cambiare di classe. Questo cambiamento comporta da parte dei componenti l’abbandono della loro cultura e il dover adottare leggi di classe che non erano le loro. E quindi il sacrificio da parte della sorella, che non può sposare il pastorello di cui è innamorata e rinunzia alla vita, impazzisce, per l’impazzimento dovuto proprio a questo cambio di classe, a questa negazione all’amore.

     E il senso, e qui è metaforico, il senso è che noi tutti abbiamo perso il contatto con quella che è la nostra identità di classe, di cultura. Oggi abbiamo perso tutti i legami con la nostra classe e siamo diventati «massa».

     E, quindi, in questa civiltà di massa abbiamo perso quella che è la nostra cultura e la nostra identità e soffriamo di questa forma di follia, di alienazione.

     Questo voleva essere, non so se ci sono riuscito…

     Il ragazzo Marano è un piccolo intellettuale di paese, che, di fronte a questo carico di dolore famigliare, aveva creduto di poterlo distribuire nella società e per questo si era impegnato politicamente. Anche lui viene deluso, poveretto, e quindi trova anche la follia fuori casa. Poi fa questo gesto estremo, di mettere la finta bomba ed è costretto a scappare, ad andare via.  L’unica cosa che gli rimane è quella di scrivere tutto quello che aveva sofferto, che aveva visto.

Dopo il crollo dei regimi dell’Est la sua speranza marxiana nella storia è ancora in vita?

     C.:  C’è stato il crollo delle ideologie, il crollo di tante utopie, di tante speranze che ci eravamo costruiti in questi anni. Ci è crollato tutto, e io vivo in questa grande angoscia, di vedere questi orizzonti che si sono fatti bui.

     Non c’è ancora un lume di speranza.

Le uniche cose che vedo, di questo lume che la fanciulla tiene in mano, sono certe forme di solidarietà spontanea, come il volontariato dei giovani…  E anche certi ecologisti, che cercano di salvare questo nostro patrimonio, che è l’unico che abbiamo, di rendere vivibile questo nostro pianeta.

     Queste sono cose che veramente mi lasciano sperare molto, però il ceto politico…

   A cura di Lia De Pra Cavalleri
Dalla rivista “Verifiche” gennaio febbraio 1994

La poesia e la storia

III. La poesia e la storia.

Qui arriviamo a uno dei punti focali della sua ultima produzione: sempre più diventa preponderante il ruolo svolto dalla poesia nella struttura del romanzo.
Naturalmente, non si tratta in sé di una novità assoluta; è una cosa che appartiene a tutto il Novecento, ma nelle sue ultime opere questo elemento acquista un peso nuovo. Se è vero – come lei dice – che Nottetempo, casa per casa è la continuazione del Sorriso dell’ignoto marinaio, io vedo nell’opera più recente un notevole stacco sia di poetica, sia di epoca storica.
È vero che il modello che sta dietro al Sorriso dell’ignoto marinaio, come si è detto prima, è Manzoni; ma rispetto a Manzoni c’è una rottura, anche dal punto di vista epistemologico, notevole. L’altra questione fondamentale è la rottura col populismo, da una parte, e con il continuum storicistico dall’altra. Lei ha detto testualmente, in una recente intervista, che «la prosa non è più in grado di narrare la nostra realtà»; addirittura, ha detto che i veri grandi scrittori di prosa della nostra epoca sono i giudici che inquisiscono i politici e così via. Sembra insomma che l’ultimo serbatoio di conoscenza per lo scrittore possa essere solo La poesia. Non crede che in questo ci sia il rischio di ricadere nel lirismo? Nella sua stessa prosa si vede il segno dei tempi, il segno che qualcosa è cambiato dal 68, dall’epoca della politica, dell’opposizione; che siamo ormai in un epoca limita per rimanere all’opposizione, come credo lei voglia fare, ci si deve «rifugiare» nella poesia. Quando, per esempio, nel gruppo della neo-avanguardia, per dirne una, la poesia era l’obiettivo polemico principale.

Non so se c’è concessione al lirismo nel mio ultimo romanzo. C’è, sì, una maggior diffidenza verso la scansione prosastica, che vuol dire una maggiore ritrazione rispetto alla comunicazione.
In confronto al Sorriso, questo libro è più compatto, più chiuso in una sua gabbia ritmica, in una sua densità segnica. Ho voluto scrivere una tragedia – niente è più tragico della follia – con scene-capitoli, con intermezzi del coro, che sono le frequenti digressioni lirico-espressive in cui il narrante s’affaccia e commenta o fa eco in un tono più alto, più acceso. Perché questo compattare, perché l’eliminazione dalla scena del messaggero, dell’anghelos, del personaggio-autore che si rivolge agli spettatori-lettori e narra in termini non espressivi ma assolutamente comunicativi il fatto che è avvenuto altrove, in un altro tempo?
Perché è caduta la fiducia nella comunicazione, nella possibilità, ora, in questo nostro presente, della funzione sociale, politica della scrittura.
Non rimane che la ritrazione, non rimane che l’urlo o il pianto, o l’unica forza oppositiva, alla dura e sorda notte, la forza della poesia, della tragedia, la prima, la più alta delle arti secondo
Hölderlin.

Esimi studiosi, soprattutto nel campo letterario, parlano a proposito del post-moderno addirittura di rottura epocale: fra il 1950 e il 1960 il costume delle popolazioni  nel mondo, i modi di vita, i rapporti tra le persone sono profondamente mutati per effetto della terza rivoluzione industriale. Lei crede invece che sia una sostanziale continuità? 

No, credo che ci sia più rottura che continuità, in campo politico-sociale, economico, industriale e quindi in campo letterario. Il romanzo sta avendo un doppio destino. Da una parte, sta degenerando (nel senso che sta mutando di genere), sta diventando, rispetto a quello che conoscevamo come romanzo, qualche cosa d’altro che non so ancora definire. A questa degenerazione si possono ascrivere romanzi-fiume di estrema comunicazione e fruizione, come si dice, scritti nella nuova lingua tecnologico-aziendale o mass-mediale e quindi di immediata traducibilità: le masse sono uguali in tutto il mondo e parlano tutte la stessa lingua. Sono romanzi d’intrattenimento, didascalici, ludici e di gratificazione mondana. Dall’altra parte, avviene una sorta di revanchismo letterario, di recuperi di vecchie estetiche che erano state sepolte: neo-rondismi, neo-formalismi, nuove prose d’arte, psicologi-smi, esistenzialismi…
Si stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario penso sia quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da «felici pochi». Pensare a un romanzo letterario che sia largamente e immediatamente letto è assolutamente illusorio o utopico.

A proposito di Retablo, di cui non abbiamo ancora parlato, si può dire che lei nell’87 già prefigurasse un po’ la situazione dei nostri giorni. Anche in quel caso un intellettuale si allontanava da Milano…

Un intellettuale, un artista anzi, Fabrizio Clerici, si allontanava da Milano e andava in Sicilia, alla ricerca della matrice culturale e umana della donna di cui era perdutamente innamorato, Teresa Blasco, che nella realtà, nella storia, è stata la madre di Giulia Beccaria. Teresa Blasco al pittore Clerici preferirà insomma Cesare Beccaria. La metafora del racconto è ancora una volta nel rischio di tener separate ideologia e poesia. Clerici si allontana da una Milano illuminista, dalla città dei Verri, e del Beccaria, del Lambertenghi, da un luogo fortemente ideologizzato in cui crede che non ci sia spazio per la poesia (ma la poesia la porta in grembo Teresa Blasco, che tramite la figlia genererà Manzoni), si allontana per andare in una Sicilia mitica, dei templi greci, dell’Arcadia, delle ninfe e dei satiri, e sbatte invece il naso contro una realtà di miserie, violenze, piaghe, orrori, ma anche di bellezze e ricchezze umane.

In Retablo il livello metaforico è molto elevato: Milano è una città pseudo-settecentesca, ma in effetti è molto novecentesca. In essa già si consumava una specie di rito che in questi giorni per lei è stato oggetto di critiche, quando ha adombrato l’idea di abbandonare questa città.

Siamo tornati al punto di partenza, alla prima domanda, alla mia dichiarazione di lasciare Milano in caso di vittoria della Lega Nord. Avevo iniziato col dire che sono stato vittima di mitologie. Ecco, a Milano mi s’era infranto il mito della civiltà industriale, urbana, della città del Politecnico, del luogo cioè dove in qualche modo esisteva la probità e la trasparenza amministrativa e una certa equità sociale s’era realizzata. Lasciamo gli anni bui e tragici degli autunni caldi, della strategia della tensione, gli anni di piombo, gli anni manzoniani di rivolte, assalti ai forni, di peste, di follia e di desolazione, e arriviamo alla Milano pacificata e trionfante degli anni ottanta, alla Milano craxiana: un orrore!
Non può immaginarlo chi non ha vissuto quegli anni a Milano. C’era un clima spensierato, cinico, di ottuso scialo: un carnevale o un paese di cuccagna alla Breughel. Si era passati dalla tragedia alla volgarità. Voglio qui leggervi un passo di Retablo. Si tratta di un’invettiva di Clerici rivolta alla sua città, affidata a una lettera per Teresa Blasco. I personaggi che egli cita sono riconoscibilissimi, uno per uno. Devo avvertire che la parola arasso significa lontano.
«O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involu-to! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, 1l ciarlatan, 1l falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via via, lontan!». Ecco, nell’87 scrivevo questo. C’era disamore e furore nei confronti di una città che era diventata inospitale. Inospitale come la Tauride di Euripide. In quel deserto, in quel campo di macerie succeduto allo scialo, sono spuntati i leghisti. Non il movimento politico in sé m’interessa, ma il clima culturale e morale da cui i leghisti sono sbucati, un clima, una couche che mi allarma. Una regressione, ripeto, esprime la Lega, una Vandea. Mi aveva allarmato, fin dal loro primo apparire, il ripiegamento linguistico, la ritrazione nel dialetto, il revanchismo e l’aggressività: no, non mi sembra che siano portatori di idee, di un progetto politico, ma di velleitari e pericolosi risentimenti. La mia dichiarazione ha voluto essere un’opposizione, solitaria e donchisciottesca quanto si vuole,  alla loro intolleranza, al loro chiasso assordante. Opposizione soprattutto a quegli intellettuali – gli stessi di sempre – che dal carrozzone democristiano e socialista s’erano affrettati a salire sul carro o carroccio leghista, agli altri che, zitti e prudenti, stavano ad aspettare lo svolgersi degli eventi.

 Tornando al rapporto tra letteratura e storia e alla metafora, non si può non rimanere colpiti dalle considerazioni che lei faceva a proposito dei sensi di colpa di Ulisse e dell’umanità di questo secondo dopo guerra. E anche dalla considerazione che faceva sulla necessità del romanzo storico. Ci si può chiedere però di cosa si deve occupare e si occupa di fatto la letteratura, e di cosa per necessità di statuto deve continuare ad occuparsi la storiografia. Perché se non c’è letteratura, se non c’è romanzo senza metafora si mette a rischio l’efficacia della storiografia e del romanzo storico; se la metafora è sempre metafora di una condizione umana necessariamente alienata, come io credo che sia la condizione umana, la storia che ne risulta è una storia immobile: il rischio, insomma, è che non si colgano più le differenze, non si colgano più le trasformazioni di questa alienazione, e lo dico alla luce delle sue parole di oggi, ma sono le stesse impressioni che ho avuto leggendo Le pietre di Pantalica. Il racconto delle occupazioni delle terre nel secondo dopoguerra e il racconto delle manifestazioni pacifiste a Comiso danno la stessa emozione, che è poi quella dell’impossibilità di coniugare l’individuale e il generale, il percorso soggettivo e l’oggettivo, l’individuo che si scontra sempre e comunque con qualcosa di troppo grande: è certo una riflessione sulla condizione umana, ma le contraddizioni di oggi sono ben più gravi di quelle di ieri, il pericolo dell’incubo atomico è ben peggiore del problema dell’occupazione delle terre nel dopoguerra, e così si perdono le dif-ferenze. Mentre prima di questa conversazione pensavo che anche per lei il compito dello storico e del romanzo storico – che ha in più lo stile – fosse proprio quello di cogliere l’essenza di queste trasformazioni, invece adesso ho l’impressione che colga l’essenza delle permanenze. Gli storici, e anche i migliori tra essi, hanno speso anni a raccontare anche la parte «normale», non solo drammatica, del Mezzogiorno; ma forse è in questo che si differenziano storia e letteratura. Ma allora, mi chiedo, il romanzo storico in che cosa è «storico», se suo compito è quello di raccontare la permanenza delle sofferenze umane?

Tante domande in una. E difficili anche. Tento di rispondere. La letteratura non so di cosa deve occuparsi. La mia, intanto, non si occupa di assoluti, di Dio o di dei, di esistenza, di miti, di utopie o di mondi fantastici. Si occupa di relativi: dell’uomo, qui e ora, nella sua dimensione privata e nella sua collocazione pubblica, civile, storica. Certo, una letteratura, un romanzo siffatto dà l’immagine di una storia immobile, perché è critico, oppositivo, e non può lamentare e denunziare le «normalità». Queste, se mai sono esistite, forse è meglio chiamarle differenze, gli storici hanno il compito di registrare. Ho sempre detto
 anche in una ipotetica società perfetta, il romanzo (diciamo storico), non la poesia, ha sempre il dovere di stare all’opposizione, proprio perché quella coniugazione che lei dice, dell’individuale e del generale, è un’aspirazione, un’infinita approssimazione. Leopardianamente penso che la vita sia infelicità e dolore, che l’unico mezzo per «aggiustare» la vita sia la «confederazione» tra gli uomini, l’unico luogo quello civile, politico.
Il romanzo storico è tale in quanto utilizza la storia per i propri fini, per fare cioè di una storia, metafora.
Ho scritto un racconto dal titolo Un giorno come gli altri (pubblicato in Racconti italiani del ‘900, nei Meridiani di Mondadori), in cui immagino o sogno di trovarmi nella città di Ebla, l’antica città dove l’archeologo Matthiae ha rinvenuto un intero archivio di stato su tavolette d’argilla, in compagnia di Giovanni Pettinato, lo scopritore della lingua eblaita.
Il glottologo ricompone alcune tavolette sparse a terra, legge i segni cuneiformi sopra incisi, e mi dice: «È un racconto, un bellissimo racconto scritto da un re narratore… Solo un re può narrare in modo perfetto, egli non ha bisogno di memoria e tanto meno di metafora: egli vive, comanda, scrive e narra con-temporaneamente…».
Noi non siamo, ahimè, re, neanche viceré, non siamo Clinton né Agnelli, abbiamo dunque, scrivendo romanzi storici, il dovere dell’opposizione e della critica al potere.
Alcuni racconti, come quelli pubblicati su «Linea d’ombra», sono quasi a livello cronachistico…
Sono racconti scritti in una prosa quasi referenziale. Sono spesso ambientati a Milano, nel presente, e quindi non smuovono la mia memoria, non m’impegnano sul piano della ricerca linguistica. La loro valenza letteraria, se mai ce l’hanno, bisogna cercarla al di là dello stile, in altre implicazioni. Ad un altro tipo di scrittura sono stato obbligato, ad esempio, nella sezione di Le pietre di Pantalica intitolata Eventi. Racconto lì appunto l’estate del 1982 in Sicilia, partendo da Siracusa, passando per Comiso e arrivando a Palermo. Nella Palermo della peste e dei massacri, del centinaio di morti dall’inizio dell’anno, dell’assassinio di Pio La Torre e dei coniugi Dalla Chiesa. Racconto in prima persona, con una immediatezza da reportage giornalistico. Fu tale allora per me l’urgenza di dire, dire della Sicilia di quel momento, che abbandonai il romanzo storico, lo stile, i tempi lunghi della metafora.
L’urgenza, l’impellenza provocata dall’atrocità del fenomeno della mafia e del potere politico portò Sciascia, ad esempio, dopo il Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore, a fare la grande svolta verso il romanzo poliziesco, il giallo politico. Costruendo storie che erano una parodia della realtà, ma di una tale penetrazione e di una tale restituzione della verità che riuscivano ad anticipare lo svolgimento della realtà stessa, ad essere profetiche. La stessa cosa fece Pasolini, fuori dalla finzione letteraria, della parodia, con i suoi interventi sui giornali, con la forza dei suoi jaccuse, delle sue provocazioni e delle sue requisitorie, dei suoi Scritti corsari. Non li rimpiangeremo mai abbastanza questi due scrittori civili italiani.

 C’è qualcosa di letterario, di intellettuale in questo suo pendolarismo tra la Sicilia e Milano? La seconda domanda si collega alla prima: alla fuga corrisponde un altro polo di aggregazione che evidentemente non è solo fisico ma di fazione letteraria e se vogliamo anche metaforica?


C’è, prima di tutto, la mia vicenda umana, la mia storia di vita, che poi forse diventa vicenda intellettuale e letteraria. Dicevo che mi sono trovato, fin dal mio muovere i primi passi, nella piccola geografia siciliana, alla confluenza dei due mondi, tra due poli, e sono stato costretto al pendolarismo nel tentativo di trovare una mia identità. I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo dell’attuale mondo milanese. Voglio dire che continuo sempre a scrivere della Sicilia, ma con la consapevolezza, spero, della storia di oggi, del nostro mondo postindustriale, come lo colgo e leggo a Milano. Anche Verga – si parva… – da Milano cominciò a scrivere della sua Sicilia, a Milano tornò con la memoria alla Sicilia, a quel mondo «solido e intatto della sua infanzia», come dice Sapegno. Girando le spalle a quella città in piena rivoluzione industriale e sociale che non capiva e che lo «spaesava», alla Milano in cui rimase per diciotto anni, ma girando contemporaneamente le spalle alla Sicilia di allora, quella della corruzione e della mafia che avevano messo in luce Sonnino e Franchetti, dei contadini e degli zolfatari che in nome del socialismo cominciavano a chiedere giustizia. Scrisse insomma Verga i suoi capolavori su una Sicilia fuori dalla storia, mitica, del mito negativo della «ineluttabilità» del male, su una Sicilia solida e intatta appunto, cristallizzata. Fuga da Milano significa ritorno e aggregazione all’altro polo da cui avevo a suo tempo preso le distanze, significa ritorno reale e letterario? No so, credo di no. Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo prigionieri, a Milano, a Roma, à Palermo, della tessa realtà, afflitti tutti dallo stesso male. La mia dichiarazione di lasciare Milano aveva un valore linguistico, era un gesto simbolico di protesta. E ha irritato o inquietato tanta gente. Un vecchio critico milanese, un uomo compromesso col potere democristiano, è arrivato a insultarmi. Non voglio apparire megalomane, ma temo di esser diventato inviso a certi gruppi di potere culturale milanese, a certi cronisti di grandi testate giornalistiche. Ho ricevuto però anche tantissimi messaggi di consenso, di solidarietà. «Il Giornale» di Montanelli, all’indomani delle elezioni, così scriveva in un corsivo improntato al rispetto e alla civiltà: «Un’ombra ha turbato ieri le coscienze di non pochi milanesi, la decisione dello scrittore Vincenzo Consolo, siciliano di nascita e milanese d’adozione, di lasciare il capoluogo lombardo in seguito alla vittoria della Lega…». «L’indipendente» invece, in un ignobile corsivo, mi invitava a fare le valigie e ad andarmene. Me ne andrò sì, quando vorrò io, ma non so dove. So solo che ora, alla mia età, essendone Stato privato per tanti anni, sento il bisogno di rivedere le albe, i tramonti, di stare in un luogo dove il paesaggio fisico e quello umano non mi offendano. No so se esiste questo luogo, lo devo cercare. E forse sarò vittima di un’altra utopia.

 Un’ultima domanda: si può ancora parlare di una componente mitico-utopica dell’attività dello scrittore, del letterato?

Mi sono sempre sforzato di essere laico, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è 1l romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico – anche quelli che scrivono di Dio o di miti fanno ideologia, coscientemente o no -, cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.

Vincenzo Consolo
Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993

Fuga dall’Etna. La Memoria.

II. La memoria

Spesso la ricezione di un’opera d’arte passa attraverso dei filtri letterari, e nel caso del ritratto di Antonello da Messina un filtro importante è stato, per la nostra generazione, senz’altro il suo libro. Tra l’altro, l’impressione che si ha nel vedere l’ignoto del quadro è che le somigli molto. Quale è stato il suo rapporto con il ritratto di Antonello, quando lo ha visto per la prima volta? E come ha immaginato le sue vicissitudini: si tratta di una fantasia che risale all’infanzia, all’adolescenza, o ha più a che fare con un’esperienza di maturità?

Ho visto quel quadro in anni lontani, non riesco a ricordare quando. Da ragazzino, certo. Lo vidi poggiato su un cavalletto, senza cornice, vicino a una finestra, illuminato dalla luce solare. Mi sembrò un quadro grande, e invece è di piccole dimensioni, 30×25 (adesso sembra più piccolo, ed è diventato quasi invisibile per ragioni di sicurezza è stato relegato in un angolo, distante da chi guarda, imprigionato dietro un vetro che fa da specchio e schiacciato da una mostruosa cornice aggettante). Il personaggio effigiato mi appari familiare e insieme lontano, enigmatico. Era uno che «somigliava» a tante persone che avevo conosciuto o che mi vedevo intorno. Quegli occhi, quel sorriso ironico, quella forza realistica, concreta dell’aspetto

(Cesare Brandi dice che ha la consistenza di un cristallo), rappresentava certo l’archetipo dell’uomo siciliano, con tutte le componenti etniche e culturali dietro, giunto, dopo la tempesta della giovinezza o la precarietà sociale, alla sicurezza della maturità, della cultura e del censo.

Quando cominciai a scrivere il romanzo, il quadro si caricò di vari significati, fra cui questo.

Il viaggio del Ritratto d’ignoto, nel simbolico tracciato di un triangolo avente per vertici Messina, Lipari a Cefalù voleva dire: un’altissima espressione di cultura e di arte sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per il terremoto abbattutosi sulla città dello Stretto distruggendola, cacciata in quel cuore della natura qual è un’isola vulcanica come Lipari, scoperta da un uomo sapiente e appassionato come il barone di Mandralisca, viene infine salvata e riportata nella sicurezza di Cefalù, preambolo, porta del gran mondo palermitano. E non questo, tra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, passaggi perigliosi tra gli scogli di Scilla  e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Tornava nel libro l’essermi trovato alla confluenza di due mondi siciliani, all’ incrocio della  natura e della storia. E ho voluto rappresentare questo movimento, questo arrivare dal mare e approdare alla terra, dall’esistenza alla storia (c’è più volte nel romanzo l’arrivo in porto di un veliero).

Il movimento poi, verticalmente, dal basso verso l’alto, è simboleggiato dal carcere a forma di chiocciola, di spirale, dalle scritte che i carcerati hanno lasciato col carbone sulle pareti: in una progressiva e ascendente presa di coscienza sociale e politica.

Ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. «Questo libro è la storia di un parricidio» ha detto, riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra (mi pare che sia Sklovskij a dire che la storia della letteratura è una storia di parricidi). Lo sfregio è fatto da un personaggio, Catena Carnevale, che appare in limine, nell’Antefatto, ma che muove tutto il racconto, tutta l’azione. La ragazza, un’intellettuale, figlia dello speziale di Lipari, sfregia l’uomo del ritratto al quale perfettamente somiglia il fidanzato, Giovanni Interdonato, fuoruscito, clandestino per ragioni politiche, indignata perché la «rivoluzione» tarda a venire. All’uomo del ritratto somigliano anche il vescovo, il capo della polizia, lo stesso barone Mandrali-sca.. Non somigliano invece i cavatori di pomice o i contadini rivoltosi di Alcara. Il gioco delle somiglianze, circolare e chiuso, col ritratto vuol dire che dalla ragione si può uscire dall’ alto con il disordine e il furore della fantasia creatrice. La faccia contrapposta di Catena è quella dell’eremita allucinato, simbolo dell’uscita dal basso per disgregazione della ragione, per annientamento.

L’aspetto saliente del libro, da un punto di vista meno formale, è che per la prima volta viene scritto un romanzo storico il cui tema centrale è proprio la messa in questione della storia, la ricerca di una nuova scrittura della storia. E tutto ciò viene ottenuto mediante un montaggio fra i capitoli di invenzione, che pure parlano di personaggi storici, e i documenti posti in appendice, straniati dal contesto per creare un mutuo dialogo fra queste varie visioni del mon-do. Il che è anche un modo di dire che non esiste una storia, ma che le storie possono essere tante.

Anche la storiografia non ha più ormai da parecchio tempo la presunzione di descrivere fatti oggettivi, ma cerca di far interagire diverse prospettive nel tentativo di darne una ricostruzione attendibile. Eppure, nel libro, c’è una sorta di sfiducia nella possibilità di avvicinarsi al verosimile, se non al vero, anche attraverso questo metodo: alla fine si ricorre alla «tan-gente» utopica, all’affermazione della speranza che i protagonisti della storia, soprattutto quelli dei cet! subalterni, trovino da soli le parole per raccontarsi.
C’è, perciò, una contraddizione tra il tentativo di altissima mediazione intellettuale e il ricorso alla speranza in una immediatezza espressiva, che appare come una caduta un po’ demagogica…

Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni «possano scrivere da sé la storia». Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica. A parte il fatto che gli acculturati quasi sempre fatalmente, passano dall’altra parte… Ma lasciamo andare questi discorsi pericolosi. Il punto è la responsabilità di chi ha il potere della scrittura (parliamo ancora dell’arcaica scrittura. Pensiamo alla pericolosità di chi ha oggi in mano il potere dei media, di giornali e della televisione). Dire che quelli che non  hanno questo potere sono le vittime,sono quelli che più soffrono l’ingiustizia, può sembrare populista. Sì, questo è il rischio, ma io l’ho affrontato mettendo in scena nel romanzo mille dubbi.

Piazza Armerina il 5 giugno 1966

Il libro è scritto nella prima parte in forma parodistica, mimetica, sarcastica se si vuole, quindi in negativo: faccio il verso a un erudito dell’Ottocento recluso nella sua mania antiquaria, che scrive i suoi saggi scientifici, che si occupa di malacologia, una materia quanto mai curiosa, eccentrica. L’erudito cozza suo malgrado contro la storia e entra in crisi: si trova davanti a un massacro, ed essendo un uomo di coscienza, non cinico, perora la causa dei rivoltosi che stanno per essere condannati a morte, scrive lettere al presidente del tribunale, Giovanni Interdonato. Questo è un espediente per un cambio di persona o di voce. L’altro scarto o frattura totale arriva alla fine, con le scritte sul muro del carcere. Naturalmente, nel primo cambio di voce, la scrittura non è più parodistica, cambia segno, si fa positiva, di adesione dell’autore alla voce del personaggio (è il gioco ambiguo della letteratura). La struttura del romanzo è spezzata. Non ho voluto scrivere il romanzo storico di matrice ottocentesca, compiuto, rotondo, sapienziale o pedagogico, d’intrattenimento o di consolazione (avrei contraddetto i presupposti da cui ero partito). Ho fatto così vedere l’ordito che sta sotto l’invenzione letteraria, ho esibito, fra un episodio e un altro, dei documenti storici. Ho tolto insomma i colori all’affresco (e quello storico, per la distanza temporale, come dice Leopardi, è quanto mai seducente).

Finora abbiamo girato attorno ad un nome, tra quelli che è possibile intravedere dietro la sua scrittura, e che non è siciliano, ma milanese, e cioè Manzoni. Qual è il suo rapporto, se c’è, con Manzoni! Perché le parole che lei ha usato sono quasi una filigrana manzoniana: il palinsesto, l’erudito, l’ironia e insieme il rapporto-scontro tra la realtà dello scritto e quella della storia, e poi la storia intesa come problema, come dramma. Siamo d’accordo sul suo rapporto con i siciliani, e anche forse con Gadda e Pasolini, ma Manzoni come lo sente?

Si sa, Manzoni è il nome fondamentale sacramentale forse dovrei dire, della letteratura italiana moderna, del romanzo storico. E noi scrittori siciliani, «inclini» alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. Nell’adolescenza avevo letto altri autori, D’Azeglio, Guerrazzi, Grossi, il siciliano Luigi Natoli, i cui romanzi, privi di metafora, e di tante altre cose, erano solo delle ponderose e soporifere storie romanzate. La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile.
Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi storici (ne sento sempre più la necessità).
L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni venti, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi…
Il sorriso e Nottetempo formano un dittico.
Ho sottolineato questo legame fra loro non solo con il luogo dell’azione, Cefalù, ma anche con altri segni. Gli incipit dei due racconti cominciano con la congiunzione «e»; il primo si apre con un’aurora, col sorgere del sole; il secondo con un notturno, col sorgere della luna. Nel primo ho voluto insomma raccontare la nascita di un utopia politica, della speranza di un nuovo asseto sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la follia della storia, il dolore e la fuga. Il protagonista, Pietro Marano, fugge dalla Sicilia, dal caos, dal fascismo che arriva (fugge da Milano, da Palermo), da un tempo atroce e allarmante.
Ho studiato gli anni venti, soprattutto in Sicilia, su libri, riviste, su un giornale che si stampava a Cefalù, «L’idea». Mi sono imbattuto, in quel paese, in personaggi veri, storici, interessanti, fra cui il mago satanista inglese Aleister Crowley, e li ho fatti muovere insieme a personaggi di invenzione, come sempre avviene nei romanzi storici. Del resto Manzoni nel suo famoso saggio sul romanzo storico chiarisce bene il concetto: sono i personaggi della storia che vanno insieme, camminano insieme ai personaggi di invenzione letteraria, e corrispondono e somigliano gli uni agli altri. Tutti devono avere la luce del loro tempo, e insieme devono riflettere il nostro.

Tornando al Sorriso dell’ignoto marinaio, questo ragionare da letterati sulla storia ha una precisa contestualizzazione, nel senso che avviene all’inizio degli anni settanta quando trova altri momenti di espressione letteraria, per esempio nel romanzo alla Morante. Naturalmente la storia di cui lei parla è qualcosa di più della storiografia, della storia quale disciplina, è una specie di controaltare denso e composito di quello che è il portato delle forme razionali della cultura, è la storia come rappresentazione complessiva che gli intellettuali danno di un mondo e dei suoi poteri. Qui forse c’è qualche punto di vicinanza con la Morante, nonostante le differenze che vi separano, e sarebbe interessante sentire da lei quale era il clima degli anni settanta rispetto a questo tema.

Ho trovato allora interessanti le teorie messe in campo dal Gruppo 47 tedesco, quello di Enzensberger, di Kluge, di altri. I tedeschi venivano da un’esperienza tremenda, quella del nazismo e dei campi di sterminio, e in Germania era in atto una sorta di rimozione di quella grande colpa che li schiacciava, che non li faceva vivere. Il Gruppo 47 voleva ostinatamente ricordare quello che era successo attraverso la storiografia, additare le colpe, parlarne, invece di seppellire tutto, nel tentativo di provocare una sorta di catarsi collettiva. Ci sono ad esempio due libri di Alexander Kluge, Descrizione di una battaglia e Biografie, di un realismo freddo, lucido, di puntigliosa scientifica documentazione che lasciano Senza fiato. Di quella logicità spietata che spesso hanno i tedeschi. Quegli scrittori per me (non ridano i germanisti) si possono dividere in pasticceri (Günther Grass, ad esempio, altri espressionisti) e in analisti. Kluge, Schmidt, Johnson, Enzensberger appartengono a questa seconda categoria. Quello della Morante non è un romanzo storico-metaforico, piuttosto è una rivisitazione della storia narrata attraverso una sotto-storia, quella dei vinti, degli umili. I capitoli si aprono con la storiografia ufficiale e quindi, in opposizione, l’autrice racconta la storia ignota degli innocenti, degli emarginati, delle vittime. La storia è mossa dalla pietà, dall’amore per gli umili, gli indifesi, per quelli che hanno pagato più di tutti per il fascismo e per la guerra. Ricordate il vecchio Brecht? «…Roma la grande / è piena d’archi di trionfo. Su chi / trionfarono i Cesari?… / Ogni dieci anni un grand’uomo. / Chi ne pagò le spese?…».
Per me c’era l’esigenza della metafora, l’esigenza cioè di rappresentare gli anni settanta attraverso lo schema storico.
Credo sempre più alla necessità e alla validità di quella scelta, della scelta cioè del romanzo storico, che vuol dire critico, vuol dire ideologico, per le ragioni cui sopra ho accennato, che sono interne alla letteratura, di ordine diciamo estetico, ma anche, soprattutto, per ragioni di ordine etico. Il più grande romanzo della civiltà occidentale, l’Odissea, è diviso in due parti: la Telemachia e l’Odisssea vera e propria. La prima è narrata in terza persona è quello il romanzo d’iniziazione, di formazione); la seconda parte è narrata in prima persona.

Il passaggio dalla terza alla prima persona, dal racconto oggettivo al soggettivo, avviene nella terra dei Feaci, quando il re Alcinoo invita l’ignoto naufrago a dire chi è e da dove viene.
«Io sono il figlio di Laerte, Ulisse, / tra gli uomini famoso per le astuzie; / la mia gloria va fino al cielo. / Abito nella chiara Itaca…» risponde l’eroe (cito nella bella traduzione di Giovanna Bemporad). E comincia quindi un lungo flash back, un racconto quasi onirico, fantastico, che si svolge in mare, dal momento che le navi hanno doppiato il capo Malea, un racconto di mostri, giganti, sirene, maghe, maliarde, di oblii, metamorfosi, tempeste, perdite, follia e morte. Sembra, quello di Ulisse, un racconto di tipo psicoanalitico, in cui il narratore fa riemergere dalla profondità del mare o della sua coscienza tutti i mostri che si portava dentro, i mostri generati dai suoi rimorsi. Ulisse infatti era il più colpevole degli eroi greci, perché il più astuto e il più consapevole, il più umano (Agamennone pagherà con la morte e con la maledizione nella sua stirpe la grande colpa iniziale). Ulisse aveva inventato la macchina sleale, il cavallo di legno che aveva determinato La sconfitta dei Troiani, aveva seminato morte e distruzione. Ulisse dunque si porta dentro questa grande colpa e compie un viaggio di dolore e di espiazione.
Finito il racconto in prima persona, soggettivo, riprende quello in terza persona. Ulisse raggiungerà, con la nave dei Feaci, Itaca, dove, per ritrovare l’armonia perduta, riprendere il suo posto familiare e sociale, dovrà combattere i nemici reali, i Proci.
Ecco, credo che nel nostro tempo, i mostri individuali, del nostro subconscio, sono emersi dagli abissi, si sono oggettivizzati, sono diventati mostri reali. Dopo Hiroshima e Auschwitz, dopo Stalin e Sarajevo, dopo tutti gli orrori di oggi, quei mostri profetizzati da Kafka o da Musil, da Eliot, da Joyce o da Pirandello, sono diventati mostri della storia. Questi mostri credo che la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità.

Anche per questo, per questa sostanza metaforica, si è parlato, a proposito della sua prosa, di un carattere teatrale, che del resto appartiene molto anche alla tradizione siciliana. Retablo, il romanzo successivo al Sorriso dell’ignoto marinaio, è la dimostrazione lampante di questa dimensione teatrale della sua scrittura, della composizione per quadri, di una propensione a scomporre l’unità della scena.

Più che a quella teatrale, credo che appartenga alla tradizione della narrazione orale. La narrazione epica dell’antica Grecia era orale. Ma anche nella tradizione araba, passata poi in Sicilia, la narrazione era orale. Nei romanzi di Tahar Ben Jelloun, in Creatura di sabbia, Notte fatale e nell’ultimo, A occhi bassi, ci sono sempre personaggi che in traduzione vengono chiamati cantastorie ma che in effetti sono contastorie, narratori orali che narravano nelle piazze (ancora ci sono nella piazza Jama el Fna di Marrakesh), come in Sicilia, fino a pochi anni fa quelli che narravano dei Paladini di Francia. I poemi narrativi credo che siano nati così, dall’oralità, avevano bisogno di un ritmo, proprio per un fatto mnemonico. Nella tradizione araba c’è uno stile che si chiama makamet, che consiste in una sorta di prosa ritmica, nata per ragioni pedagogiche. Nella mia scrittura c’è uno slittare della prosa verso un ritmo poetico.
Sento la necessità di far questo perché credo che la lingua della narrativa ha bisogno di «risacralizzarsi» (non solo, certo, attraverso l’espediente esterno del ritmo), di ritrovare dignità. La lingua oggi è talmente privata di identità, talmente appiattita, quotidianamente incenerita dai media, che è terribilmente difficile trovare una lingua per narrare. D’altra parte in Italia non c’è una grande tradizione di lingua narrativa. La nostra vera tradizione è quella dei poemi narrativi, popolari o aulici come l’Orlando furioso o la Gerusalemme liberata Gli scrittori italiani hanno dovuto sempre andare all’estero per poter scrivere in prosa, da Manzoni a Calvino, a Sciascia, mutuare cioè la loro dalla prosa francese o adottare una sorta di koiné funzionale di tipo transnazionale come Pirandello o Moravia. Penso che quando uno scrittore ha scoperto qualcosa di nuovo, di importante e ha urgenza di comunicarlo, allora la lingua diventa strumento del messaggio. Pirandello ha fatto questo, Svevo… Altrimenti, per rimanere nel campo letterario, si ha l’obbligo dello stile.

Volevo chiederle qualcosa proprio a proposito della lingua. Leggendo i suoi romanzi, ho sempre avuto la sensazione che si trattasse di un lingua quasi completamente inventata. Mi dicevo: adesso vado a vedere sul Devoto-Oli se esiste questa parola e sono quasi certa di non trovarla. Devo dire che non ho mai tentato questa ricerca, però mi piaceva molto quest’idea… e immagino anche che sia difficile per lei rispondere alla domanda che sto per farle perché è difficile razionalizzare il processo attraverso il quale nasce questa creazione, questa invenzione della lin-gua. Lei ha parlato di memoria storica, cioè della necessità per chi scrive, soprattutto per chi scrive romanzi storici, di fare una ricerca storica sull’ambien-te, il contesto, la situazione, i personaggi di cui si tratta; ha parlato anche di una memoria personale, di una lingua che evidentemente deriva da una formazione personale, familiare. Credo che per quanto la riguarda ci sia di mezzo anche il dialetto, il dialetto siciliano: ecco, l’alchimia di tutto questo come succede, come nasce?

No, le parole non si trovano nel Devoto-Oli né nel Fanfani o nel Tommaseo. Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. È quella particolarità storico-linguistica avvertita da Sciascia.

Questa cifra linguistica estrema mi ha accompagnato poi negli altri libri, nel Sorriso, in Lunaria… C’è un racconto ne Le pietre di Pantalica intitolato I linguaggi del bosco, in cui metto a fuoco proprio la mia «ideologia» linguistica.
Quelle parole, irreperibili nei vocabolari italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…
Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati.
Faccio qualche esempio. Nel Sorriso, di avvoltoi che si librano sopra cadaveri, dopo una strage, dico che stavano «arraggiati in cielo a volteggiare». Arraggiati voleva significare a forma di raggiera e insieme arrabbiati, famelici. In Nottetempo la sorella del protagonista, Lucia, ha un attacco di follia durante una gita a Bàida, un villaggio sopra Palermo. Bàida in arabo significa bianca, di bianco era vestita a sua volta la ragazza, cioè del colore-simbolo della follia. Superata la barriera sonora, quella sorta di ron ron ruffiano, credo che il lettore potrebbe essere stimolato a scoprire questi significati nascosti.

Vincenzo Consolo
Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993

Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano.



Il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la letteratura.
 H. M. Enzensberger,

Letteratura come storiografia

La Sicilia e Milano
Partiamo dalla fine: in una delle sue ultime dichiarazioni pubbliche, che ha suscitato particolare clamore, lei ha affermato di voler abbandonare Milano, dopo la vittoria elettorale della Lega Nord. Una rottura che segue un lungo amore: in effetti, Milano sembrava aver rimpiazzato, nella sua vita presente, la Sicilia da cui era andato via tanti anni fa. Cosa è successo? Che cosa si è spezzato, nel suo rapporto con Milano?

Voglio premettere, prima di rispondere alla domanda, che le interviste obbligano a mettere in campo continuamente un io che rischia di apparire ingombrante e irritante, se non ridicolo. Io non ho mai amato la prima persona (ecco che mentre affermo questo mi contraddico), ho sempre scritto, dopo il racconto d’esordio o di formazione, in terza persona. L’intervista, d’altra parte, mi dà l’occasione o offre il pretesto per riesumare personali ricordi, per estrinsecare pensieri e convinzioni. Credo che questo in qualche modo la giustifichi. La domanda parte dalla dichiarazione, in occasione delle elezioni amministrative del 20 giugno 1993, che, se avesse vinto la Lega Nord di Bossi, avrei abbandonato Milano. Rileggo qui, per una migliore comprensione di chi ascolta la mia dichiarazione apparsa su «I Messaggero», lo stesso giorno delle elezioni, col titolo un po’ melodrammatico Tu non mi avrai, città di leghisti. «Se nell’odierno secondo turno delle elezioni comunali dovesse vincere a Milano il candidato della Lega Nord Formentini, io mi sentirò costretto ad andarmene da questa città dove risiedo da venticinque anni, dove lavoro, dove, è naturale, ho intrecciato relazioni affettive, professionali, culturali. Mi sentirò costretto a sradicarmi da questa città, come venticinque anni fa m’ero sradicato dalla mia Sicilia, e a scegliere un’altra città, un’altra regione in cui andare a vivere e a lavorare. Me ne andrò da Milano, voglio chiarire, non in quanto meridionale che teme di essere minacciato, schiacciato nella sua identità culturale, nella sua collocazione sociale, nei suoi diritti civili da forze politiche al potere che trovano la loro genesi e la loro ideologia nell’esprimere bisogni e Istanze di popolazioni di una zona geografica – il Nord di questo Paese – ma in quanto cittadino di Milano, in quanto lavoratore, in quanto, è la parola che si usa – intellettuale. Me ne andrò, voglio chiarire, non in quanto militante dell’altro schieramento politico che aveva nel candidato Dalla Chiesa il suo rappresentante e che dalle elezioni uscirebbe sconfitto. Me ne andrò quindi non come un ghibellino cacciato dai guelfi vincitori (credo di avere abbastanza ironia per non vedermi tale). Mi rendo conto intanto che questa mia dichiarazione, che ho già fatto altrove, potrà apparire a chi legge, come è apparsa a Giorgio Bocca, insensata, carica di esibizionismo, di prevenzione e presunzione, inopportunamente provocatoria, ma credo che essa possa trovare una sua motivazione e legittimità nel fatto che altri intellettuali milanesi – editori, scritori giornalisti ben più autorevoli e famosi di me – hanno dichiarato la loro simpatia e adesione politica allo schieramento della Lega Nord e quindi, implicitamente, la loro soddisfazione e felicità nel trovarsi a vivere in una Milano amministrata da domani dai leghisti.
Mi rendo conto che non c’è proporzione, non c’è confronto tra il risultato di una elezione che esprime convinzioni e volontà di migliaia e migliaia di cittadini e la parola e il gesto di un sin-golo, di un individuo politicamente insignificante, di uno scrittore isolato, e solitario, sciolto cioè da legami politici, quale io sono, quali credo dovrebbero essere gli scrittori: liberi da impegni partitici, ma legati da impegni ideali, morali, storici. Il probabile futuro sindaco di Milano, il Formentini, potrebbe, sarcasticamente, sferzatamente, pronunciare, calcolando diversità e distanza tra i personaggi in causa, parodiandola, la famosa frase che Togliatti indirizzò all’eretico Vittorini concludendo la polemica sul “Politecnico”: “Consolo se n’è juto e suli ci ha lasciati” Assai dubitando che Formentini, il quale dichiara di frequentare, nella raffinata collezione della Pléiade, classici come Flaubert, con lo stesso sussiego con cui un ricco dichiara di nutrirsi a caviale e champagne, abbia una qualche contezza di uno scrittore di estrazione meridionale, di stampo paesano, di tono dialettale quale io sono. E potrebbe ripetere Formentini quelle famose parole della canzonetta napoletana o dire altro di meno sarcastico ma di più diretto e violento, ricorrendo a quel linguaggio antieufemistico, esplicito, di aggressività metropolitana che i leghisti sanno usare. Non sono esperto di partiti, non studio i loro programmi, non conosco la morfologia e la sintassi della lingua politica della contingenza e della prassi, ma credo di conoscere la paratassi di una metalingua politica che parla non di Lega Nord o Lega Sud, ma di uomini in un contesto storico e civile, di qualsiasi città o regione, ricca o povera che sia, di una lingua che parla della loro dignità, dei loro diritti, parla di apertura verso i socialmente deboli, di giustizia, di solidarietà, di cultura, di libertà. So che questo Paese non si è unito perché un eroe di nome Garibaldi, sbarcando a Marsala, l’ha liberato da vecchi poteri fatiscenti  e consegnato a una “borghese” monarchia  come quella dei Savoia e a un economista accorto come Cavour, ma si è unito effettualmente nel 1945, dopo aver sofferto per un ventennio la dittatura fascista, aver subito morte e distruzione per una guerra folle, aver combattuto per riconquistare libertà e dignità. E dunque subito mi mette in sospetto un movimento politico di nome Lega Nord (come ieri in Sicilia mi metteva in sospetto il movimento indipendentista sostenuto dai ricchi agrari), che è nato in regioni opulente, privilegiate dalla politica di quasi cinquant’anni del governo, centrale, che, per risentimento verso quel governo, verso un regime politico che ha consegnato questo Paese alla mafia e alla corruzione politica, propugna una nazione di regioni confederate. In cui – mi sembra chiaro – quelle del Nord, separando da quello delle altre il proprio destino economico e politico, si possano agilmente spostare verso un cuore dell’Europa forte e chiusa dalle sue mura e dai suoi baluardi di fabbriche e di banche. E viene chiamato, questo progetto politico della Lega Nord, rivoluzione. Mi ricorda, questa rivoluzione, quella del Vespro siciliano – sì, abbiamo quasi sempre la tendenza, noi intellettuali siciliani, a misurare tutto con i nostri metri – spacciato dagli storici dell’Ottocento come rivoluzionario (ma gli storici, si sa, lavorano per il loro tempo) e scoperto nella sua realtà reazionaria da Benedetto Croce. “Il Vespro siciliano, che ingegni poco politici e molto rettorici esaltano ancora come grande avvenimento storico, laddove fu principio di molte sciagure e di nessuna grandezza”, scrive il filosofo nella sua Storia del Regno di Napoli. E quindi ancora Vittorini, che introduce la Storia del Vespro dell’Amari con un saggio dal titolo Di Vandea in Vandea: “Per questo il Vespro era vitale e ostinato; perché Vandea locale, nasceva concorde con la reazione ghibellina in tutta l’Italia…”. I nuovi movimenti, i nuovi partiti, Leghe o Reti o quant’altro, si muovono oggi, certo, su un campo di macerie. Ma come sempre sulle macerie, di terremoti o guerre o crolli di regimi, possono nascere nuove utopie, progetti di nuove società aperte e progressive. Ma possono anche nascere, per paura di perdere conquiste e privilegi, Vandee di reazione, di regressione». La domanda da voi posta, dicevo, parte dalla fine. E dunque sono costretto a fare un lungo flash-back, una lunga digressione, sono costretto a partire dall’inizio, a narrare di fatti ormai remoti (che sia questa la letteratura, la narrativa: una infinita digressione affabulante per sfuggire a una risposta logica e immediata?). A questo punto della mia vita sono costretto a fare un bilancio e devo concludere amaramente che sono stato fino adesso vittima di miti, e forse lo sarò ancora nei giorni che mi restano. Sono stato vittima del mito della realtà meridionale contadina, e successivamente del mito del Nord, di Milano, della realtà industriale. Ho compiuto gli studi universitari a Milano negli anni cinquanta abbandonando una Sicilia che conoscevo poco. Sono nato in un paese sulla costa settentrionale dell’Isola, alla confluenza delle province di Palermo e di Messina con alle spalle quella muraglia cinese che è la catena appenninica siciliana dei Nèbrodi, delle Madonie e dei Peloritani. Chi nasce in quella costa tende sempre a scivolare avanti e indietro, verso Palermo o verso Messina, e ignora la realtà che sta dietro quella barriera montuosa, la realtà della Sicilia interna; tende a prendere il treno, salire sul traghetto, attraversare lo Stretto e andare in Continente. C’è tutta una letteratura sul traghetto, sul traghetto che va e su quello che torna, da Verga a Vittorini, a Stefano D’Arrigo. Ho fatto gli studi a Milano, all’Università Cattolica e non per ragioni religiose o ideologiche (ero uscito dal liceo Valla di Barcellona di Sicilia, dove avevo conosciuto e frequentato Nino Pino Ballotta, professore di veterinaria, poeta e grande anarchico, con profonde convinzioni socialiste e libertarie), ma perché volevo conoscere il Nord e perché in quella Università c’era andato un anno prima un mio compaesano. Una mattina velata di nebbia del novembre del 1952 arrivai a Milano ed entrai nel convitto universitario Augustinianum di via Necchi, accanto a piazza Sant’Ambrogio. Il compaesano mi disse subito che dovevo «ruffianarmi» – disse proprio così – il direttore del convitto, don Mario Giavazzi. Lo stesso compaesano era indeciso se dopo la laurea entrare nella Polizia, fare il doganiere o darsi alla politica (che voleva dire far carriera nella Democrazia Cristiana). La Cattolica era allora frequentata dai figli della buona borghesia milanese e lombarda e da tutta una massa di meridionali, in gran parte mandati qui dai parroci e dai vescovi, spesso muniti di un certificato di povertà che permetteva loro di alloggiare gratuitamente nel convitto. Io non avevo il certificato, pagavo 20 mila lire al mese per la stanza-cella e per i pasti. Dal Meridione erano approdati alla Cattolica in quegli anni i due fratelli De Mita, Ciriaco e En-rico, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi e tanti altri che poi sarebbero entrati a far parte della classe dirigente italiana, del grande potere democristiano. Sprazzi di ricordi: padre Gemelli, il frate fondatore e rettore della Cattolica, con una grossa testa e gli occhi terribilmente saettanti, immobilizzato su una sedia a rotelle, spinto da un valletto per i corridoi e i bellissimi chiostri bramanteschi dell’Università, che incuteva soggezione e imponeva silenzio al suo passaggio agli studenti e soprattutto a quelle studentesse che per caso avevano dimenticato di indossare l’obbligatorio grembiule nero. Padre Gemelli si vantò una volta, durante una predica, di aver scoperto lo scultore Giacomo Manzù, al quale aveva commissionato, per la cappella dell’Università, per il collegio maschile e per quello femminile, un Cristo e dei santi dai piedi e dalle mani incredibilmente lunghi. Una volta, in occasione della Giornata dell’Università Cattolica, in cui si raccoglievano soldi in tutta Italia per l’ateneo, venne in visita il cardinale Schuster. Apparì, etereo e magico come una figura onirica, in piazza Sant’Ambrogio, scivolò leggero e benedicente, nelle pieghe della sua porpora, nel suo viso gotico e diafano ricamato di venuzze, nei suoi occhi cerulei, tra due ali di studenti plaudenti. Prima di varcare il portone d’ingresso dell’Università, si fermò, si volse verso noi giovani e disse, ispirato, convinto e convincente: «Cosa fate qui, cosa fate? Andate, andate per il mondo a convertire le genti!…». E venne pure un giorno all’Università, per una conferenza nell’aula magna, l’onorevole Oscar Luigi Scalfaro, fresco di scandalo per la scenata in un ristorante romano alla signora scollacciata. Ciriaco De Mita, ch’era allora già un capo, organizzò una protesta con gli studenti meridionali, connotati come «di sinistra». Nell’anfiteatro dell’aula, non appena Scalfaro cominciò a parlare, noi contestatori, a uno a uno, ci alzammo e platealmente uscimmo, passando sotto l’alta cattedra dell’oratore. Il quale, imperturbabile, continuò a parlare, con la sua bella dizione scandita, con le sue erre molli. Nella piazza Sant’ Ambrogio, oltre alla fabbrica in cotto con i due campanili della celebre basilica romanica (qui ho assistito una mattina, per caso, al matrimonio di Dario Fo e Franca Rame, allora poco noti: lui in tight, magro, con dentoni sporgenti, lei bionda e rosea come una bambola di lenci, il bel corpo fasciato in un abito bianco, la testa coperta da un romantico cappello a larghe tese), oltre alla basilica «là fuori di mano», c’era, in un grande fabbricato, un convento sette-centesco, il Centro Orientamento Immigrati. Era in atto in quegli anni la grande emigrazione italiana, il grande esodo dal Sud verso il Nord, verso il centro Europa. Gli emigranti venivano prelevati alla Stazione Centrale, caricati su appositi tram e scaricati in piazza Sant’ Ambrogio. Accolti nel Centro erano sottoposti a visita medica da parte di delegazioni straniere, francesi, svizzere, belghe (per gli emigranti che andavano in Germania il Centro di smistamento era a Verona). Al Centro di piazza Sant’ Ambrogio restavano tre o quattro giorni. Quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, a Milano venivano equipaggiati di casco, lanterna e mantellina cerata. I minatori siciliani passavano così dalle zolfatare del Nisseno o dell’Agrigentino, che allora chiudevano per la crisi dello zolfo, alle miniere del Belgio. E alcuni di loro avrebbero trovato lì la morte, nell’esplosione della miniera di Marcinelle. Il poeta dialettale Ignazio Buttitta avrebbe scritto un poema su quella tragedia, evocando uno di questi emigrati. «Turi Scordu, surfararu, / abitanti a Mazzarinu / cu lu trenu di lu suli / s’avvintura a lu distinu…».
In piazza Sant’Ambrogio, accanto al Centro degli emigranti, c’era una caserma della Celere. A noi studentelli privilegiati poteva capitare d’incontrare in quella piazza o nelle latterie e trattorie delle vicine via Terraggio e via Nirone il compaesano che emigrava o quello in divisa da poliziotto, col manganello alla cintola (c’erano scioperi in quegli anni e la polizia del ministro Scelba caricava gli operai che protestavano). A me è capitato d’incontrare, vestito da poliziotto, Giacomino, uno che giocava con me al pallone all’oratorio. Non so se gli studenti meridionali che poi diventeranno potenti uomini politici, quelli che, dopo la laurea, venivano mandati da don Mario Giavazzi a Bologna, al Centro di studi sociali diretto da Dossetti, non so se hanno visto allora in piazza Sant’ Ambrogio gli emigranti e i poliziotti. Durante gli anni alla Cattolica avevo deciso di fare lo scrittore, di tornare in Sicilia a scrivere Volevo raccontare la realtà contadina siciliana, con una scrittura di tipo sociologico, di estrema comunicazione. Le mie letture erano allora soprattutto storico-politiche, di autori meridionali e meridionalisti. Carlo Levi del Cristo e de Le parole sono pietre mi sembrava lo scrittore esemplare, oltre ad altri scrittori di memorie e di testimonianza. Ma seguivo anche, con passione mista, devo dire, a senso di colpa, le vicende letterarie in Italia e all’estero. Ricordo che lessi, con un senso di trasgressione, di peccato, se pure per ragioni diverse, libri come La mia Africa della Blixen e come i due Tropici di Miller, pubblicati da Feltri-nelli, ma che non erano venduti in Italia. A me li acquistò un amico a Parigi. In Sicilia, nel 1958 mi misi a insegnare educazione civica e cultura generale nelle scuole agrarie. Andavo in sperduti paesi di montagna, partendo in treno la mattina presto, passando poi su corriere, tornando la sera con mezzi di fortuna. Insegnai a Mistretta, a Caronia, grossi centri sopra i Nèbrodi che una volta erano vivi e fiorenti e che in quegli anni si andavano svuotando. I padri dei miei alunni erano emigrati, i figli avrebbero seguito la stessa sorte. A Caronia mi colpì il gran numero di suicidi che si verificarono nell’arco di un anno. Quando mi accinsi a scrivere il primo libro, le intenzioni e le convinzioni andarono da una parte e l’istinto o la passione mi portarono da un’altra. Il racconto non era di tipo realistico-testi-moniale, ma memoriale e metaforico, la scrittura non era di tipo logico, referenziale, ma fortemente trasgressiva ed espressiva.
Il libro è La ferita dell’aprile, pubblicata nel 1963 nella collana «Il Tornasole» di Gallo e Sereni, che è un libro straordinariamente nuovo, un’assoluta novità rispetto al realismo sociale. Non so se a quell’epoca aveva già letto Gadda o meno, ma la prosa che ne viene fuori è sicuramente di tipo espressionista.

Avevo letto Gadda, avevo letto le sperimentazioni pasoliniane di Ragazzi di vita e di Una vita violenta. In letteratura non si è innocenti.

Non credo nell’innocenza in arte. Bisogna avere consapevolezza di quello che è avvenuto prima di noi e intorno a noi, bisogna sapere da dove si parte e dove si vuole andare. Ritenevo che fosse conclusa la stagione del cosiddetto neorealismo e avevo l’ambizione di andare un po’ oltre quell’esperienza. Mi sono trovato così fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria, una vera spinta oppositiva, la consapevolezza che le cancellazioni, gli azzeramenti avanguardistici, la loro impraticabilità linguistica, che si può rovesciare nel conservatorismo più bieco, sono speculari alla impraticabilità linguistica o all’afasia del potere. La nuova lingua italiana, tecnolo-gico-aziendale-democristiana era uguale a quella del Gruppo 63.  Nel solco della sperimentazione linguistica di Gadda e Pasolini dicevo. Senza dimenticare il solco per me più congeniale di Verga. La mia sperimentazione però non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettal-gergale di Pasolini o la deflagrazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico e una «plurivocità», come poi l’avrebbe chiamata Cesare Segre, che mi permettevano di non adottare un codice linguistico imposto. Tutto questo m’era permesso dall’argomento del racconto: corale, di personaggi adolescenti (l’adolescenza è la stagione trasgressiva ed inventiva per eccellenza).

Queste ascendenze di tipo culturale (Pasolini, Gadda) hanno avuto qualche mediazione di tipo scolastico, universitario? C’è stato qualche studioso che l’ha indirizzato in questa direzione? Come è arrivato alla letteratura? Che importanza hanno avuto nella sua formazione due scrittori siciliani come Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo?

Nessun maestro, nessun professore. Quella di scrivere è stata una scelta solitaria. Solitaria e avventurosa era del resto allora la scelta di scrivere, era il mallarmeano «coup de dés». Oggi credo che ci sia meno azzardo. Gli scrittori oggi vengono allevati in serra, nascono e crescono nel terreno dell’Azienda, dell’Accademia, del Salotto, del clan, della confraternita, sono curati e assistiti fin dalla nascita, sono docili e bravi, non si sorprendono e non danno sorprese.

A Milano avevo visto una volta sola Vittorini, avevo conosciuto Vittorio Sereni. La comunicazione avveniva attraverso le riviste e soprattutto attraverso le collane letterarie. Allora gli editori avevano collane di ricerca letteraria che non erano indirizzate al profitto. Mi riferisco ad esempio alla einaudiana Gettoni di Vittorini e alla mondadoriana Tornasole di Sereni e Gallo. Credo che quel lavoro di ricerca lo svolgano oggi le piccole case editrici. In Sicilia cercai di mettermi in contatto con persone che parlassero la mia stessa lingua, che avessero i miei stessi interessi.

(Un poeta, mio amico, Basilio Reale, col quale m’ero confrontato e insieme al quale avevo mosso i primi passi, era rimasto a Milano). Presi a frequentare Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

Il primo, di Capo d’Orlando, un paese a pochi chilometri dal mio, lo conoscevo fin da ragazzino. Era un barone, per me inavvicinabile. Ma un giorno lo incontrai per caso in una tipografia dove era andato per farsi stampare le poesie, mandate poi a Montale, che gli valsero il premio San Pellegrino e che lo fecero conoscere nel mondo letterario.

L’anno scorso, a Natale, ho avuto in regalo quel prezioso e ormai introvabile libretto, dal titolo 9 liriche, dal figlio del signor Zuccarello, il proprietario della tipografia Progresso di Sant’Agata di Militello. Frequentai assiduamente Piccolo, questo grande poeta di sconfinata cultura, cugino e antagonista di Tomasi di Lampedusa. Fu lui a insegnarmi la vera letteratura, la poesia e, insieme, a farmi amare certi libri di erudizione provinciale, ottocentesca, storie, guide, cataloghi, «pieni di insospettabile poesia» diceva, che furono miniere lessicali per me.

Ma presto non mi bastò più il solo mondo piccoliano: il fantastico, l’onirico, l’esoterico, 1l senso panico della natura, quello visionario, magico della vita, la poesia lirica, barocca, tesa e accesa fino alla preghiera, al rapimento estatico.

Cercavo, per arginare e contrastare quella malia, una scansione prosastica, razionale, una dimensione storica, critica, civile.

La trovai nel cuore più caotico e tenebroso di Sicilia, nel regno delle divinità ctonie, nell’inferno dell’aridità e dello zolfo. Lo trovai a Caltanissetta, in Leonardo Sciascia.

Avevo scoperto questo scrittore sin dai suoi primi libri: Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia, Morte dell’inquisitore, Il Consiglio d’Egitto. Quella sua prosa cristallina e tagliente, di stampo agrigentino, di vibrazione francese e insieme di corposità spagnola, mi sembrò che per la prima volta nella letteratura siciliana, chiusa tra la poematica dialettale stagnazione verghiana e la vittoriniana stilizzazione tosco-americana (certo, bisogna considerare le eccezioni di De Roberto, di Pirandello, di Borgese eccezioni dati e quindi di Lampedusa, ma apriremmo qui un lunghissimo capitolo), mi sembrò, dicevo, che spalancasse un balcone da cui irrompeva luce e ossigeno.

Non conoscevo personalmente Sciascia e non osavo scrivergli. Lo feci soltanto quando pubblicai il mio primo libro e glielo mandai con una lettera in cui gli dichiaravo la mia riconoscenza per quello che mi aveva insegnato. Mi rispose: «Caro Consolo, proprio il giorno in cui ho trovato qui la sua lettera, e il libro, a Palermo avevo infruttuosamente cercato La ferita dell’aprile, di cui avevo letto recensione su “Paese

sera”

…». E alla fine aggiungeva: «Mi piacerebbe sapere quali sono i luoghi del suo racconto: per documentarmi su quelle particolarità storico-linguistiche che insorgono nel libro, e che hanno, a me pare, peculiare carattere». Dopo altri scambi di lettere e dopo un invito, andai a Caltanissetta a trovare Sciascia. Non ci andavo dagli anni della mia infanzia.

Era il settembre del ’43 quando feci il mio primo viaggio in Sicilia. Dico viaggio in Sicilia come se mi fossi mosso da un’altra terra, da una qualche regione al di là dello Stretto o al di là del Faro, come si diceva una volta. E in effetti era, la zona da cui partivo, il Val Dèmone, la Sicilia ai piedi dei Nèbrodi, tutt’affatto diversa dall’altra, sconosciuta, che si svolgeva al di là dei monti; la Sicilia delle vaste terre, del latifondo, dei grandi altipiani, della nudità e della scabrosità, delle solitarie masserie, dei paesi fittamente aggrumati sulle alture, dei cieli bassi, infiniti. Su un camion sgangherato, mio padre ed io percorremmo strade dissestate dalla guerra (l’occupazione degli Alleati s’era conclusa a Messina verso la metà dell’agosto appena scorso), strade che si interrompevano sopra i torrenti e le fiumare dove i ponti erano stati fatti saltare (bisognava proseguire per alvei pietrosi e polverosi o sopra traballanti ponticelli di legno), strade con ancora ai margini carcasse di carri armati, di camion, di cannoni, d’altri ordigni: i segni della guerra erano ancora là, in quei simulacri squarciati e affumicati dei giorni bui e tremendi della storia. La nostra meta era l’interno dell’Isola, alla ricerca di frumento, di fave, di lenticchie, di cicerchie, che da noi, terra di agrumi e di olive, mancavano del tutto.

Per quelle terre assolate e desolate, s’incontrava ogni tanto un contadino che con un cenno della mano ci invitava a fermarci per offrire, a noi viandanti, grappoli d’uva. Era ancora, quella, l’antica Sicilia contadina che neanche l’uragano della guerra era riuscito a cancellare.

Lasciato il bosco della Miraglia, per Troina, Nicosia e Leonforte, dopo Vallelunga, Villalba e Mussomeli, arrivammo un tardo pomeriggio a Caltanissetta.
Nella piazza Garibaldi, affollata di gente, contadini, zolfatari (forse la piazza dove, nell’alba silenziosa, alla partenza della corriera, si diffondeva la voce «implorante e ironica» del venditore di panelle de Il giorno della civetta), un uomo vendeva un giornale. «La forbice, La forbice!» strillonava l’uomo. Nella mia scienza di diligente scolaro di terza elementare, stigmatizzai dentro di me quel nome di giornale al singolare, non sospettandone l’allusione: Forbice come discussione critica, come fronda sui e ai fatti pubblici, i fatti nati nello spazio breve di quella piazza, tra la Cattedrale e il Municipio, e che riguardavano tutta la comunità. Una conversazione pubblica e democratica subito ripresa dopo il periodo fascista e l’interruzione della guerra.
Vent’anni dopo compivo il secondo viaggio a Caltanissetta, in un giorno di luglio del 64. Da Termini Imerese la littorina s’inoltrava in mezzo a un deserto di stoppie, di rocce, di colline nude e vaporanti, sostava davanti a stazioncine solitarie che portavano nomi di paesi invisibili – Roccapalumba, Fontanamurata, Marianopoli, Xirbi… -, dove c’era un solo ferroviere che agitava la sua paletta.
Caltanissetta sembrava costruita sulle pareti d’una miniera o di una cava, una sorta d’infernale imbuto dantesco. Era una città priva di monumenti, di bellezze, se si fa eccezione di due chiese barocche e d’un massiccio seicentesco palazzo Moncada. I fumi delle numerose zolfatare vicine, spinti dal vento sulla città, ingrigivano pietre e piante, scolorivano finanche gli abiti delle donne. Eppure Caltanissetta è stata da sempre la città degli zolfatari più consapevoli della loro condizione di operai e più combattivi, degli intellettuali, degli ingegni più vivaci dell’Isola. A Caltanissetta s’era rifugiato, lasciando Roma, Vitaliano Brancati. A Caltanissetta, durante la guerra, era giunto in treno, la valigia piena di stampa clandestina, Elio Vittorini. Viene prelevato alla stazione da un compagno operaio che lo porta a casa sua e gli fa mangiare, alle quattro del mattino, un fumante piatto di spaghetti.
A me sembrò, quella città, a confronto con la quieta zona del Messinese, col mio sonnolento paese, una piccola Atene. Attorno a Sciascia ruotavano poeti, pittori, saggisti, narratori, l’omonimo editore Salvatore Sciascia, per il quale Leonardo dirigeva una bella rivista letteraria, Galleria, e una collana di poesia. In questo sperduto centro zolfifero siciliano, in quegli anni pubblicavano i loro versi poeti che si chiamavano Paso-lini, Roversi, Romano, Caproni, Leonetti, Bevilacqua, Bodini, Fortini, Compagnone…
A me sembrò, Sciascia, un uomo che corrispondeva perfettamente al grande scrittore che era. Quella sua parca misura di gesti e di parole, quel suo controllato ma intenso disporsi verso gli altri, quella sua serena dimensione familiare – la moglie, le due figlie, quel suo modesto appartamento di maestro, nel girone alto della città, in via del Redentore – mi sembrarono, nella Sicilia turbinosa, vociante, istintiva e spesso isterica, un approdo, un’oasi di ragione e d’armonia.
Ma si capiva, nella vigile attenzione verso il mondo, nello sguardo acuto sugli uomini e le cose, che per lo scrittore quell’isola era una conquista, un approdo di salvezza dopo essersi lasciato alle spalle la tempesta. Quale? La Sicilia, certo.
La Sicilia della piazza, ma anche la Sicilia della casa.
Intuì forse che io, immerso nella tempesta, non avevo trovato ancora rifugio, terra d’approdo; che forse mai, leggendo quelle mie pagine di scrittura torbida ed espressiva, l’avrei trovata; che forse il mio destino, sulla pagina, nella vita, sarebbe stato quello della latitanza, della continua fuga dal marasma: della fuga dall’Etna.
La conversazione tra me e Sciascia s’interruppe solo con la morte nell’89 dello scrittore. Parlavamo di politica, di storia, di letteratura, del destino della Sicilia, del malaffare politico e della mafia.
Questo uno dei ricordi più belli, che riprendo da Le pietre di Pantalica: «L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una domenica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano. Sciascia arrivò da Caltanissetta al mio paese e insieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”. “C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone». Sciascia era rimasto affascinato da quel poeta, da quel gran personaggio che era Piccolo. Erano, i due scrittori, quanto di più diverso, di più lontano si potesse immaginare, eppure nutrivano, l’uno per l’altro, stima e ammirazione. Sciascia scrisse sul poeta delle pagine dal titolo Le soledades di Lucio Piccolo, incluse ora in La corda pazza.
Intanto, il mondo contadino che avevo pensato di raccontare continuava a dileguarsi, a sparirmi sotto gli occhi. La scuola in cui insegnavo, in cui gli alunni, una volta diplomati in agraria, sarebbero stati costretti ad emigrare e a trasformarsi in operai, a Torino, a Sesto San Giovanni, in Svizzera o in Germania, mi sembrava una finzione, un’impostura. La Sicilia era ormai chiusa nelle strettissime maglie d’un potere mafioso, criminale. L’alternativa per me era quella di consegnarmi nelle mani di quel potere, farmi complice, accettando un qualsiasi incarico di tipo culturale, dei suoi furti e dei suoi assassinii, oppure fare le valigie, salire sul Treno del sole e emigrare. Decisi di partire.
 «Vai , mi disse Sciascia, «vai. Qui non c’è, niente da fare. Fossi più giovane, senza famiglia partirei anch’io.
 C’era anche la sollecitazione di una rivista letteraria come Il menabò, diretta da Vittorini e Calvino, che dibatteva sul rapporto tra industria e letteratura, a conoscere la nuova realtà industriale italiana, la nuova realtà sociale delle grandi città del Nord, in seguito all’immigrazione meridionale, a rappresentarla; e l’invito anche, da altra parte, agli scrittori a lasciare le vecchie professioni cosiddette liberali ed entrare nell’industria: era nato insomma il mito industriale, della fabbrica a misura d’uomo come l’Olivetti di Adriano.

Rimaniamo per un momento a Sciascia e Piccolo.
Una sua peculiarità è quella di avere individuato in questi due scrittori quasi due archetipi della condizione siciliana: quella di Piccolo è una condizione lirica, legata alla società agraria; quella di Sciascia, anche per filiazione da Pirandello, è piuttosto legata a una realtà siciliana paesana e cittadina, si potrebbe quasi dire operaia. Come si sono composte, o incrociate, o sovrapposte nella sua esperienza letteraria queste due sensibilità?

Lo stare a metà, al confine o alla confluenza dei due mondi, la Sicilia orientale e quella occidentale, era per me rischioso. In quella quiete o idillio in cui mi trovavo, in cui i segni della storia S’erano fatti labili, sfuggenti, e quelli della natura benigni, materni, il rischio era di scivolare nel sonno o nella malinconia, perdermi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti. Dalla mia Finisterre potevo muovere verso il centro del caos, verso il Vulcano, o verso lo iato dello Stretto, verso le fate morgane e i terremoti; o muovere verso l’occidente dei segni della storia profondi e affollati.
I due mondi avevano generato due letterature differenti: mitica, affabulante, lirica, fortemente segnata dalla forma l’una; l’altra, storicistica, civile, logica, dialettica, fino al sofisma pirandelliano e alla requisitoria sciasciana. Sì, Piccolo e Sciascia erano per me gli archetipi di quei due mondi.

Capii che quella mia rischiosa marginalità, quella mia incerta posizione poteva diventare punto di partenza nella costruzione di una identità. La quale poteva consistere nel far da ponte di passaggio fra quei due mondi, di composizione di quei due opposti. Poteva, quella identità, consistere in un movimento continuo dalla natura alla cultura, dal mito alla storia, dalla fantasia alla ragione, dalla poesia alla prosa. E mi sembrò poi questo movimento, questo partire ogni volta da lontano, dal profondo, e approdare al presente, alla superficie, l’essenza della narrativa: un ibrido, un incrocio di comunicazione ed espressione, di logico e di magico.

La novità più significativa del suo primo libro, La ferita dell’aprile, sta forse nella prosa: una prose che le permetteva di afferrare le cose, oltre che le parole, diversamente dallo sperimentalismo di Gadda e Pasolini. Vi è per esempio una corposa presenza, che ritornerà poi anche nel Sorriso dell’ignoto marinaio e soprattutto ne Le pietre di Pantalica, degli oggetti della tradizione contadina e popolare. Che cosa vuol dire l’evocazione di questa memoria della civiltà materiale?

Mi sono trovato, dicevo, nella dimensione spaziale, in una situazione di confine, di passaggio; nella dimensione temporale, in un momento di profonda trasformazione, di radicale cambia-mento: della fine del mondo contadino e della nascita di un altro mondo, di un’altra civiltà («Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione: stiamo calmi, pazienza…» ho scritto da qualche parte). Parlo degli anni a cavallo tra il ’50 e ’70. C’era stato il grande esodo verso il Nord, i contadini avevano buttato via i loro oggetti, le loro memorie e quindi avevano abdicato alla loro identità per potersi inserire nella civiltà urbana e industriale. Vittorini, proclamando diffidenza, giustamente, verso i dialetti, e soprattutto verso quelli meridionali, portatori di rassegnazione e conservazione, invitava linguisti e scrittori a studiare le nuove koiné, i nuovi linguaggi che si sarebbero
 formati dall’incontro dei dialetti meridionali con quelli
settentrionali. Nessuna nuova koiné è sorta, lo sappiamo, ma una superkoiné, una sopra-lingua, un nuovo italiano generato dal nuovo assetto economico e sociale e imposto dai media, quell’italiano tecnologico-aziendale che ha studiato e illustrato Pasolini nel 1964 in Nuove questioni linguistiche (ora in Empirismo eretico). Trovandomi dunque nel momento del grande passaggio, ho sentito la necessità di conservare la memoria di quel mondo finito, trapassato. Questa credo che sia la funzione della letteratura, quella di memorare. E una lotta, quella della letteratura, contro il potere, che cerca sempre di cancellare la nostra memoria per non farci avere consapevolezza del presente e non farci immaginare il futuro. Il nome del primo narratore della nostra civiltà, di Omero, significa ostaggio: di chi, di che cosa? Della memoria, della tradizione.
Non si può scrivere sulla frattura, sulla cancellazione, sul vuoto. Da qui nasce forse la mia necessità di riesumare un certo patrimonio lessicale, di nominare gli oggetti, di evocare personaggi emblematici di quel mondo scomparso. Il poeta-etnologo Antonino Uccello è il personaggio centrale e simbolico de Le pietre di Pantalica. L’uomo che materialmente (e l’avverbio qui prende una doppia significazione) ha fatto – raccogliendo gli oggetti buttati via dai contadini, custodendoli in un museo, il museo della memoria – ciò che dovrebbe fare sulla pagina lo scrittore.

Questo è un fatto di grande drammaticità, su cui forse non abbiamo riflettuto abbastanza…

Neanche la sociologia se ne è occupata abbastanza. In Europa, nessun paese come l’Italia ha subito un cambiamento così radicale e repentino, con le tremende conseguenze: culturali, linguistiche, politiche, etiche… Conseguenze che ancora oggi paghiamo.


Ad un certo punto della sua biografia sembra che avvenga una rottura rispetto a questo mondo siciliano, di cui ci ha tracciato fin qui tutte le coordinate, sia dal punto di vista letterario, che da quello sociologico: è il momento dell’emigrazione a Milano nel 1968, data cruciale che cambia le cose al punto da portarla a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio, un romanzo che sembra una dichiarazione d’amore finale, ma anche una presa d’atto rassegnata della fine irreversibile di un mondo.
Vincenzo Consolo a Sant’Agata Militello, 1967- piazza Duomo.

Sì. Come ho raccontato prima, quando ho visto che quel mondo che volevo rappresentare era finito, che dal punto di vista politico in Sicilia non c’era più speranza, ho fatto la valigia e sono ripartito per Milano, per quella Milano che avevo lasciato poco più di una decina d’anni prima. Voglio qui ricordare un episodio significativo del clima politico che s’era instaurato in Sicilia, e non solo lì. Nel marzo del ’66, a Tusa, un paese sopra i Nèbrodi, dalla mafia dei pascoli, comandata da maggiorenti democristiani, viene ucciso un sindacalista, Carmine Battaglia (ho scritto poi su «L’Ora» di Palermo un racconto dal titolo Per un po’ d’erba al limite del fendo). Vado al funerale. Arriva, con una macchina di rappresentanza, con autista e segretario, un assessore socialista appena entrato nel governo regionale di centrosinistra, scende, va incontro deciso al gruppo dei comunisti che aspettavano con le loro bandiere di mettersi in corteo, e dice, minaccioso: «Non facciamo scherzi. Il morto è nostro!». No, non c’era più speranza.

Una curiosità, a questo punto: lei parla sempre del potere, però non esprime mai critiche nei confronti delle forze di sinistra…

Se per forze di sinistra intendiamo il partito comunista, sì, gli si possono fare infinite critiche. Ma mi sovviene d’una frase di Brancati che Moravia amava citare: «In Sicilia, per essere almeno liberali bisogna essere comunisti». Frase che può sembrare paradossale, ma in Sicilia i paradossi sono di casa. L’unica speranza laggiù era dunque il partito comunista, con tutte le sue ipoteche, con tutti i suoi errori. Prima di emigrare a mia volta, andavo spesso alla stazione ferroviaria del mio paese a vedere quei treni, provenienti da Palermo e diretti in Continente, che venivano letteralmente assaliti – scene tremende – dagli emigranti che lì convergevano dai paesi dell’entroterra. Una volta una donna, con tutte le sue valigie e i suoi fagotti, disperata, si mise a insultare la sua terra, come se fosse stata una persona: «Porca Sicilia, puttana Sicilia!» urlava. C’era quel giorno alla stazione un deputato regionale del Pci, un intellettuale, uno ché poi a Roma avrebbe diretto la rivista Critica marxista. Lo affronto e gli chiedo: «Cosa avete fatto voi per evitare tutto questo?!». Mi risponde qualcosa che non sento neanche. Che risposta poteva mai darmi? Gli giro le spalle e vado via. I comunisti, certo, di fronte alla decisione del governo credo che abbiano potuto far poco; spero che non siano stati d’accordo nella decisione di spostamento o deportazione di braccia da lavoro dal Sud al Nord. Ma forse l’hanno voluto anche loro. C’era, anche nei marxisti, la mitologia operaia e operaista. Voglio comunque ribadire che il comunismo e il socialismo erano in Sicilia una grande speranza, l’unica speranza.

Era una speranza rivolta soprattutto alla Sicilia agraria, o c’era anche altro?

Lo scontro tra contadini e agrari o fra contadini e potere politico espresso dagli agrari si giocava sulla riforma agraria, sullo scorporo dei feudi, sull’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate, e aveva radici lontane: nei Fasci socialisti.

Ci furono morti nel 1893-94, nel 19-20, negli anni 43-50. Quando infine la riforma agraria si attuò, non aveva più senso: l’economia agricola stava cominciando a morire e, in più, ai contadini erano state assegnate pietraie o terre irraggiungibili, impraticabili, prive d’acqua. Quella democristiana fu uguale alla riforma agraria attuata nel ’39 dal fascismo, passata guerrescamente sotto il nome di «Assalto al latifondo»: una burla, una beffa. Credo che il partito comunista abbia potuto far poco in tutto questo. Credo che le decisioni siano state prese fuori d’Italia, a Bruxelles.

A riguardo però bisogna anche considerare alcuni meccanismi economici «spontanei». C’era un problema, stando ai parametri delle agricolture occidentali più progredite: c’era una forte sovrappopolazione, un carico eccessivo di braccia sulla terra. Naturalmente con un altro governo il processo poteva essere fisiologicamente regolato; così non avvenne, e ci fu invece l’esodo più drammatico…

Certo, arrestare la storia non si può. Se l’agricoltura a un certo punto non ha più funzione… Ma da questo a far diventare le regioni meridionali terre di conquista e di rapina… In Sicilia sono arrivati i petrolieri del Nord ad impiantare le loro raffinerie ad Augusta, a Melilli, a Priolo, a Gela, a Milazzo (qui, ancora nel giugno del ’93, sette uomini morivano carbonizzati per lo scoppio di una caldaia), rastrellando sovvenzioni dallo stato, dalla regione, sconvolgendo il paesaggio fisico e quello umano. Hanno deturpato e degradato città come Augusta (in mezzo ai tralicci e alle miriadi di ciminiere di fuochi e di fumi vi sono le antiche rovine di Tapsos e di Megara Iblea, dove arrivarono i primi coloni greci), come Siracusa, che sono patrimoni culturali che appartengono a tutti; hanno fatto diventare orrendi inferni, paesi da Far West, giungle di degrado e di violenza cittadine come Gela o Licata. Quel mito industriale si è rivelato appunto un’illusione (anche Vittorini ha creduto in quel mito scrivendo quel romanzo, uscito postumo, dal titolo Le città del mondo): i frutti che si sono raccolti sono stati ben miseri e sono stati pagati a caro prezzo, in sconvolgimenti e in veleni (a Melilli le donne partorivano bambini deformi). La gente in quei paesi ha continuato ad emigrare e i tecnici arrivavano lì dal Nord, rimanendo, con le loro famiglie, separate dal resto della popolazione, come i tecnici americani nel Kuwait.

Sono i temi di un saggio di Enzensberger che a lei piace spesso citare e che ha un titolo programmatico: Letteratura come storiografia: da una parte una pratica accademica della storia, tesa a trovare una ragione «oggettiva» dei fenomeni; e dall’altra parte la letteratura, che cerca di trovare le ragioni individuali, di compiere una descrizione particolare, specifica di quello che accade, una descrizione, soprattutto, filtrata dalla coscienza dei singoli individui. Ma torniamo a Milano, al 68 a Milano.

Ritorno a Milano. Non è stato facile. Avevo trentacinque anni e andavo incontro a una nuova avventura. L’emigrazione poi è una tale violenza: verso il proprio ambiente, gli amici, i parenti, se stessi. Ho viaggiato la notte di San Silvestro del 67.
Nei pressi di Salerno, ho dovuto trattenere, afferrandolo per la giacca, un uomo completamente sbronzo che voleva scendere dal treno in corsa. Il giorno di Capodanno del 68 sono arrivato in una Milano fredda, piena di neve. L’indomani mi sarei dovuto presentare al posto di lavoro, alla Rai. Che mi si rivelò subito, come e più di qualsiasi ente pubblico siciliano, completamente ipotecata dal potere politico, dalla mafia partitica (dall’Opus Dei, ai fascisti, ai democristiani, ai socialisti, ai comunisti). Era il regno dell’ignoranza, dell’impostura, della stupidità. Mi ci trovai subito male, naturalmente, e l’azienda si trovò male con me. Subito mi emarginò, cercò in tutti i modi di farmi fuori, di licenziarmi: non avevo un partito dietro, ero senza tessera. Mi vergognavo di lavorare alla Rai, la consideravo nefasta come una fabbrica di armi. Così dicevo: «Lavoro in una fabbrica di armi» a chi mi chiedeva.

Un principe siciliano, nella sua bella casa di corso Magenta, mi diceva che qualche anno prima di me era arrivato a Milano con trecentomila lire in tasca. Io ne avevo cinquecentomila di lire in tasca, ma non avevo certo le sicurezze del principe, non avevo il palazzo a Palermo e la villa settecentesca a Bagheria. Quei soldi erano tutto il mio patrimonio, quanto ero riuscito a risparmiare negli anni d’insegnamento. Ero comunque sempre con la valigia sotto il letto, subito a tornare indietro. Per fortuna conobbi subito la donna che poi diventò mia moglie, che era ricca di concretezza, e di ottimismo. Era poi una delle cinque o sei persone che avevano letto il mio primo libro, che l’editore s’era affrettato a mandare al macero.
Dal 68 al ’76 subii una sorta di blocco, non riuscii a scrivere, mi resi conto che non avrei mai potuto raccontare in forma letteraria la realtà milanese: mi mancava la memoria del mondo industriale, mi mancava il linguaggio. A Milano mi si presentò subito una realtà sociale in conflitto, drammatica. Quindici giorni dopo il mio arrivo, avvenne il terremoto nella valle del Belice. Avevo fatto, l’estate prima, un giro per quei bellissimi paesi che non conoscevo: Partanna, Santa Ninfa, Gibellina, Montevago, Santa Margherita Belice… Il cuore d’un antico mondo contadino. Mi sembrò quindi quel viaggio come una sorta di ricognizione di congedo, da quei paesi materialmente cancellati dal disastro naturale, dalla Sicilia che sarebbe stata cancellata in altro modo.
Andai alla Stazione Centrale con un fotografo siciliano a vedere gli scampati che arrivavano, che dovevano raggiungere parenti nell’hinterland milanese. Giornalisti radiotelevisivi, con la Promessa di accompagnarli in macchina nei vari Paesi, carpivano frasi, singhiozzi, lacrime e poi li abbandonavano lì nei sotterranei d’accoglienza della stazione. Spaesamento e blocco, dicevo, a Milano. Riuscivo soltanto a scrivere sui giornali, a raccontare quello che accadeva su «L’Ora» di Palermo, in una rubrica settimanale che si chiamava pateticamente Fuori casa (ma Fuori di casa era pure il titolo d’una raccolta di corrispondenza dall’estero di Montale), e su Il Tempo illustrato, un settimanale dove allora scrivevano, tra gli altri, Pasolini, Bocca, padre Davide Maria Turoldo. Ho pubblicato varie inchieste su quel giornale, ne ricordo una sulle cave di pomice dell’isola di Lipari. Erano cave di proprietà di Sindona. Forse da lì mi venne l’idea del secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nel vedere quei cavatori di pomice ammalati di silicosi muoversi fra i cunicoli della montagna bianca e abbagliante, in una dimensione di condanna metafisica; e anche, forse, da altre cose che m’ero portato dentro dalla Sicilia: la memoria di un paese come Cefalù, il Ritratto d’ignoto di Antonello che avevo visto al museo. Capii insomma che per poter raccontare Milano, il momento storico che stavamo vivendo, sarei dovuto ripartire dalla Sicilia, dalla mia memoria, dal mio linguaggio. Potevo raccontare in modo metaforico, ricorrendo al romanzo storico. Per questo sono riandato indietro nel tempo, arrivando a un topos storico frequentato da quasi tutta la letteratura siciliana, da Verga a De Roberto, a Pirandello, a Sciascia, a Lampedusa: il 1860. Si parte sempre da lì, dall’Unità d’Italia, per cercare di capire le ragioni del malessere siciliano, meridionale, e quali siano stati gli errori, i problemi che ci siamo portati dietro e che si sono perpetuati nel tempo. Va da sé che a me non interessava né Garibaldi né Bixio, ma altro; erano i temi che si dibattevano allora, negli anni settanta, che mi interessavano: l’intellettuale  di fronte alla storia, il valore della scrittura, la storiografia e la letteratura, la sorte di chi non ha la capacità e la possibilità di esprimersi, di chi ha sempre pagato le spese della storia, il superamento della ragione e dell’ironia con la fantasia creatrice… Questi erano i temi del romanzo, che voleva essere nuovo, originale dal punto di vista strutturale e linguistico. Dal ’63 al ’76 erano passati tredici anni: una pausa scandalosa, da latitante o da dilettante.

Si tratta, comunque, solo parzialmente di una pausa, perché nel ’69 uscì un’anteprima del Sorriso dell’ignoto marinaio pubblicata su «Nuovi Argomenti»,

Sì, il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti», L’avevo mandato prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna Banti, perché il tema che faceva da Leitmotiv era il ritratto di Antonello. Longhi, in occasione della mostra del 53 a Messina di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico siciliano. Nessuno mi rispose. Nel 69 venne a Milano Longhi Per presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Lo avvicinai. «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto a Paragone…». Mi guardo con severità, mi rispose: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinato mai avrebbe potuto pagare Antonello.
Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il racconto a Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Il romanzo uscirà nel ’76 da Einaudi.

È significativa la sua vicenda: lei torna a Milano e pur avendo tutti gli strumenti razionali per analizzare quella realtà urbana e industriale non riesce a raccontarla. Dunque, per rappresentare in  scrittura  letteraria una realtà non bastano gli strumenti razionali, ma bisogna poter disporre di qualche altra cosa.

Beh, l’altra cosa è lo stile. Lo stile, il linguaggio sono quello che si spera faccia nascere la poesia, perche altrimenti non vedo come la letteratura possa distinguersi dalla storiografia, dall’indagine sociologica. La letteratura e tale in quanto è scrittura, in quanto è stile.

E lo stile e la scrittura sono inscindibili dall’attraversamento personale di una esperienza storica. Inscindibili dalla memoria. Memoria lontana di cose viste e udite, di cose lette, con cui la memoria vicina, il ricordo si fonde e prende forma e senso.

Vincenzo Consolo
Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993

Da oriente verso occidente alla ricerca dell’ignoto



“ .,. In un paese ai piedi dei Nebrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia,
in vista delle Eolie celesti e trasparenti sono nato e cresciuto.,.”.


In una finesterre, alla periferia e confluenza di province, in un luogo dove i segni della storia – segni bizantini: chiese, conventi, romitori arroccati su picchi inaccessibili – s’erano fatti labili, sfuggenti, dove la natura, placata – immemore qui dei ricorrenti terremoti dello Stretto, immemore delle eruzioni del Vulcano -, s’era fatta materna, benigna – nelle piane, nelle valli, sopra i monti erano oliveti agrumeti noccioleti, erano fitti boschi di querce elci cerri faggi -, in un paese ai piedi dei Nebrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle Eolie celesti e trasparenti sono nato e cresciuto.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione, malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi accenti di parole, gesti – erano qui pescatori d’alici e sarde assolti da condanne del fato, alieni da disastrosi negozi di lupini; erano contadini proprietari minimi, ortolani, innestatori e potatori, erano carrettieri di carretti monocromi, gialli o verdi -, in tanta sospensione o iato di natura e di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, pendersi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E poiché, sappiamo, nulla è sciolto da cause e legami, nulla è isola, né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva necessità che m’assali di viaggiare, uscire da quella stasi ammaliante, dal confine estremo, potevo muovere verso oriente, verso il luogo tremendo del disastro, il cuore del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura, l’esistenza. Ma per paura di assoluti e infiniti, di stupefazioni e gorgoneschi impietrimenti, verghiani immobilismi, scelsi di viaggiare verso occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena, verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i sup e le giudecche, le tombe porfido di Ruggeri, di Guglielmi e di Costanze, le cube, le zise e le favare, la reggia mosaicata di Federico di “Soave”, il divano dei poeti, il trono vicereale di corone aragonesi e castiglione; muovere verso l’incrocio dei Quattro Canti d’ogni punto cardinale, dei venti della Rosa, delle culture e favelle più diverse. Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così a Cefalù. E non so dire quando, tanto lontano ciò avvenne nel tempo. Ricordo che mi meravigliava, man mano che m’ apprestavo a quel paese, l’alzarsi del tono in ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nella gente, nei visi, gesti, accenti d’essa, il farsi, il tono, più colorito e forte, più netto ed eloquente di quello che avevo lasciato dalle mie parti. Aspra, scogliosa la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fino alla gran Rocca tonda sopra il mare – Kefa o Kefalé -, al Capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù; adorni di nastri, specchietti, borchie e piume, risonanti di campanelle e búbbole cavalli e mule aggiogati ai carretti variopinti coi retabli alle sponde delle gesta d’Orlando e di Rinaldo; alta, chiara, dai capelli colore delle messi, la gente, o scura e riccioluta, camusa, come se, dopo secoli, ancor distinti, uno accanto all’altro scorressero i due fiumi, normanno e arabo, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. M’innamorai di Cefalù.

Di questo bellissimo paese che sembrava anticipare o rispecchiare in forma più domestica, ridotta, in corpo più leggibile e abbracciabile – anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto saraceno la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la Cappella Platina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa o il Borgo -, sembrava anticipare la grande capitale, rispecchiare Palermo.


E presi a frequentare Cefalù, ad abitare in quel paese durante le vacanze. Mi sembrava, ed era, quello, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi che volevano essere letti, interpretati. Ma certo era me stesso che volevo leggere, decifrare la mia trama, leggendo e decifrando insieme la gente con cui mi trovavo a vivere quell’ Isola, in quel paese, leggendo il suo muoversi sotto quella luce, in mezzo a quelle pietre, il suo agire, il suo parlare. E l’ansia d’ uscire dal mio dolce pantano “naturale”, di viaggiare verso l’occidente, verso i luoghi della storia, era certo quella d’ogni uomo che vuol trovare la chiave per capire e giudicare il mondo suo, il mondo.
Trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal mare verso la terra, dall’ esistenza alla storia, dalla natura alla cultura: Enrico Piraino barone di Mandralisca. “Nasceva Enrico Piraino dei baroni di Mandralisca il dì 3 dicembre 1809 da Michelangelo e da Carmela Cipolla, e fu educato in Palermo nel Regio Convitto Carolino d’ onde usciva all’ età di 16 anni appena compiti, fornito di quella superficiale istruzione che era propria dei tempi, e del luogo in cui era stato recluso. Fatto sposo dopo un anno con Maria Francesca Parisi, non solo abbandonò il mondo e le sue futili illusioni, ma essendovi veramente persuaso, che l’ uomo fu creato per lavorare e produrre; e che vive nel proprio merito; ed avendolo la natura dotato di una non comune intelligenza, e di una operosità senza pari, si diede con tutta lena allo studio delle scienze naturali ed archeologiche che formarono la passione più spinta della sua vita, e per le quali si sobbarcò a spese e fatiche non comuni; e divenne infatti in pochi anni naturalista ed archeologo valentissimo come le memorie da lui scritte, le raccolte da Lui eseguite, ne fanno pienissima fede”.
Così scrive il sodale ed estensore dell’Elogio Gaetano La Loggia.. Ci colpisce, in quelle note biografiche, il matrimonio dell’adolescente Enrico con l’adolescente cugina di Lipari Maria Francesca Parisi. E sarà stato, questo del Mandralisca, uno di quei matrimoni combinati dalle famiglie subito alla nascita dei loro rampolli, suggello formale di sottostanti e reali accordi economici. Ma poteva capitare che in quei matrimoni come fiore raro e prezioso in un arido terreno, sbocciasse anche l’amore. Speriamo che questo sia capitato ai coniugi Mandralisca. Fatto è che, dopo il matrimonio, Enrico, insieme alla consorte, comincia a far la spola tra Cefalù e Lipari, fa la spola tra il cuore della “storica” Cefalù, tra il centro, la piazza Duomo, dov’ era nato, e quindi la strada Badia, dove eleggerà la sua dimora, e il cuore della “naturale”, mitica, preistorica e antica Lipari, il quartiere più antico di quella città, detto Supra ‘a Terra, a ridosso di Marina Corta, dov’era il palazzo dei baroni Parisi. Cefalù e Lipari sono quindi i due poli fra cui si muove il Mandralisca fino alla fine dei suoi giorni. Spinto dalla sua passione archeologica e antiquaria, scava in quell’ isola, scava in quell’ ònfalo profondo della storia e del tempo che è la contrada Diana, scopre trasporta nella sua casa di Cefalù statuette, lucerne, vasi, monete, maschere, arule. Rinviene il cratere attico del Venditore di tonno, che sembra riprodurre nella scena dipinta sulla sua superficie un mimo dal medesimo titolo del Siracusano Sofrone. Una scena, rara su quegli antichi vasi, di vita reale, quotidiana, qui deformata in chiave caricaturale, comica. Recupera in una spezieria di Lipari il famoso Ritratto d’ ignoto di Antonello da Messina, dipinto sul portello di uno stipo.

Il viaggio del Ritratto, sul tracciato di un simbolico triangolo avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di cultura e di arte sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata, per la catastrofe naturale che per molte volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, in quel cuore della natura qual è un’ isola, qual è la vulcanica Lipari, che viene infine scoperta da un uomo sapiente e appassionato come il Mandralisca, viene salvata e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi tra gli scogli di Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Quel Ritratto poi, il suo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà” era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della ragione. Il Mandralisca destinerà per testamento la sua casa alla Strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue e di vasti antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e museo, a liceo per i giovani di Cefalù. Fu questo piccolo, provinciale, polveroso e cadente museo Mandralisca il mio primo museo. Varcai la sua porta al primo piano, non ricordo più quando, e mi trovai in un vasto ingresso dalle mattonelle di maiolica sconnesse e rumorose sotto il passo, mi trovai tra “monetari di ebano e avorio, i comò Luigi sedici, i canapè e le poltrone di velluto controtagliato, i tondi intarsiati, i medaglioni del Malvica (…) le consolle con piani di péluche che sostenevano vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina. E porcellanne di Meissen e Mennecy, la frutta d’alabastro, fagiani chiocce e gallinacci di jacopetit, orologi di bronzo dorato e fiori di cera sotto campane di vetro”, mi trovai in mezzo a un gustoso, tenero bric-à-brac di un signorotto di provincia dell’Ottocento. Nella seconda sala, dove alle pareti erano Madonne e San Giuseppi, Santi Cosma e Damiano, Costantini e Sant’Elene, Sacre Famiglie, Maddalene e Malinconie, era, senza cornice, poggiato a un cavalletto, vicino alla finestra che dava sulla strada, da cui irrompeva violento il sole, la tavolozza del Ritratto d’ignoto di Antonello, detto comunemente dell’Ignoto marinaio.

Mi trovai di fronte a quel volto chiaro, a quel vivido cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana, enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare? “Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso.(…) Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà”
Ragione, ironia: equilibrio difficilissimo e precario. Anelito e chimera in quest’Isola dov’è stata da sempre una caduta dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio, locura, pirandelliana camera della tortura, sonno, sogno, ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del Sordo. ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o dice di questo nostro mondo di oggi?

Vincenzo Consolo


Sant’Agata Militello, 17 agosto 1993 per Valdemone

Viaggi dal mare alla terra.

Viaggi dal mare alla terra

Vincenzo Consolo

« Nasceva Errigo Piraino dei Baroni di Mandralisca il dì 3 dicembre 1809 da Michelangelo e Carmela Cipolla, e fu educato in Palermo nel R. Convitto Carolino d’onde usciva all’età di 16 anni appena compiti, fornito di quella superficiale istruzione che era propria dei tempi, e del luogo in cui era stato recluso. Fatto sposo dopo un anno con Maria Francesca Parisi, non solo abbandonò il mondo e le sue futili illusioni, ma essendo veramente persuaso, che l’uomo fu creato per lavorare e produrre, e che vive nel proprio merito, ed avendolo natura dotato di una non comune intelligenza, e di una operosità senza pari, si diede con tutta lena allo studio delle scienze naturali ed archeologiche che formarono la passione più spinta della sua vita, e per le quali si sobbarcò a spese e fatiche non comuni; e divenne infatti in pochi anni naturalista ed archeologo valentissimo, come le memorie da Lui scritte, le raccolte da Lui eseguite, ne fanno pienissima fede. »

In queste esigue righe, nelle sue scarne notizie, nelle sue poche date (al 1809 della nascita e al 1825 del matrimonio bisogna solo aggiungere il 1848 della nomina a rappresentante di Cefalù al General Parlamento di Sicilia, il 1861 dell’elezione a deputato al Primo Parlamento del Regno d’Italia, il 1864 della morte) è compendiata la vita del Mandralisca. Righe che abbiamo tratto dall’ « Elogio funebre – di Enrico Piraino – barone di Mandralisca – detto – dal Prof. Gaetano La Loggia», stampato a Palermo nella tipografia di Francesco Lao.

Ora, dentro queste righe guardando, come col microscopio la particella di un organismo o, in modo più sereno, col telescopio la luna, scorgiamo e conosciamo – per segni certi e anche per congetture l’intensa, ricchissima vita, l’affascinante personalità di un uomo della prima metà dell’Ottocento, in Sicilia, in uno straordinario paese di nome Cefalù.

L’estensore e declamatore dell’Elogio intanto, il professor Gaetano La Loggia, cospiratore dei moti del ’48 e del ’60, fu ministro del governo provvisorio di Garibaldi e quindi senatore del Nuovo Regno d’Italia; valentissimo medico, stese un umanitario «Catechismo e Istruzioni popolari sul colera. »

Col Mandralisca certo il La Loggia avrà stabilito una profonda e duratura amicizia in quel «reclusorio » che era il Regio convitto Carolino. Dove convenivano i rampolli delle più cospicue famiglie di Palermo e della Sicilia, i quali, giovani com’erano e quindi ricchi di slanci e armati di risentimento per l’oppressione che il potere esercitava, concepivano azioni affrancatrici, nutrivano comuni ideali di riscatto, stabilivano tra loro connivenze, duraturi legami, patti di solidarietà. Erano luoghi insomma, i convitti o collegi di quell’epoca, se non di vera istruzione (“superficiale” la qualifica il La Loggia ), di cultura e coltura cospirativa, scuola di educazione sentimentale e politica. Per i giovani.

Per le fanciulle invece i convitti o educandati erano spesso strutture di perenne segregazione, di condanna di innocenti: le storie di mal monacate sono state materia di famosi romanzi, ma sono stati anche reali drammi, consegnati a struggenti confessioni ( si legga per esempio «I misteri dei chiostri napoletani » di Enrichetta Caracciolo Forino).

Nasce dunque, Enrico, nel cinquecentesco palazzo Piraino ( perastro: sullo stemma al colmo dell’arco dell’imponente portale, proprio quest’umile e selvatico albero dispiega i suoi rami, a cui anela, con una zampa puntellata al suo tronco, un rampante leone) che s’affaccia sulla piazza del Duomo (Chiaru Signuruzzo), a fare da quinta, assieme al palazzo Maria, al Vescovato e al Seminario, al palazzo Martino, al convento di Santa Caterina, alla quadrata piazza, a fare da accolito alla maestà del Duomo, che al centro, in cima all’alta scalinata, domina palazzi e piazza, domina il paese. E Duomo e piazza e paese sono poi dominati, sono anzi protetti da quel gran promontorio, da quella rocca, dalla Rocca, la Kefa o Kefalé che accoglieva in sé l’antico borgo, che ha dato il nome, sonoro e musicale, a Cefalù.

Privati educatori, preti pedagoghi saranno stati i primi maestri del Piraino fanciullo, fino a che non venne mandato a Palermo al « Carolino». Da qui esce a soli sedici anni per sposare subito una cugina di Lipari, Maria Francesca Parisi. Sarà stato, questo del Mandralisca, uno di quei matrimoni combinati dalle famiglie subito alla nascita dei loro eredi, e da famiglie spesso tra loro imparentate, matrimoni che erano il suggello formale di reali accordi economici, dei modi di rimettere insieme patrimoni. Ma in questi matrimoni, come un fiore raro e prezioso in un arido terreno, poteva anche nascere l’amore. Che crediamo sia nato fra i due sposi adolescenti Enrico e Maria Francesca. Per i quali, subito fiorita, la vita era costretta in un codice di rigidi doveri, obblighi, regole, discipline, com’era per tutti il quel paludato Ottocento e soprattutto per persone della loro classe. E’ dunque, supponiamo, per superare questo impasse, per uscir da questa prigione che l’intelligente Mandralisca (al contrario di tanti suoi coetanei e di tanti nobili come lui, di Cefalù e d’altrove, che s’immeschiniscono e spengono nella noia della quotidianità, nell’agio e nello sperpero, nell’ossessione dell’accumulo e della conservazione della roba) si abbandona alle avventure dello spirito,  alla passione della ricerca, alla febbre degli ideali: si consegna allo studio e alle esplorazioni naturalistiche e archeologiche, si nutre di ideali risorgimentali.
Dopo il matrimonio, assieme alla consorte, comincia a far la spola, Enrico, tra Cefalù e Lipari, riallacciando o rinsaldando così i legami fra le due città, che per le vie del mare, per ragioni di pesca o di commerci avranno sicuramente avuto origini remote (le vicende minime, ignote, i rapporti sconosciuti, le microstorie tra l’isola maggiore e le minori, tra paesi e città di coste opposte, nel piccolo teatro del basso Tirreno o nel più vasto teatro del Mediterraneo, sono quelle che più aiutano a capire l’essenza di un’epoca, di una civiltà).

Fa la spola, il Mandralisca, tra il cuore della «storica» Cefalù, tra il centro, il Chiaru Signoruzzo, e quindi la Strada Badia o Strada del Monte, dove poi eleggerà la sua dimora, e il cuore della «naturale», mitica, preistorica e antica Lipari, il quartiere più antico di quella città detto Supra ‘a Terra, a ridosso di Marina Corta, dov’era il palazzo dei baroni Parisi.

Cefalù e Lipari sono dunque i due poli fra cui si muove il Mandralisca fino ai suoi ultimi giorni. Poli per me – e qui mi permetto di introdurmi, forte del solo titolo d’aver scritto un romanzo storica, Il sorriso dell’ignoto marinaio, il cui ispiratore e protagonista è questo gran personaggio del Mandralisca – poli carichi di significati, di simboli, di metafore, entro cui si racchiude il cammino della vita del Mandralisca. Cerco di spiegare.

Cefalù, così rocciosa e solida, così affollata nel suo tessuto urbano di segni storici, così emblematicamente intrisa di auree arabe e normanne – è da qui che nasce la vera storia nostra, la storia che si chiama siciliana – Cefalù mi è sempre sembrata la porta, il preludio, la soglia luminosa del gran mondo palermitano (finanche la sua Rocca sembra il pròdromo del Monte Pellegrino), della Sicilia occidentale, del mondo maschile della regione e della storia.

Lipari, così vulcanica e marina, così mitica e arcaica mi è sembrato il luogo femminile della natura, dell’esistenza, dell’istinto, della discesa nell’oscurità del tempo, della risalita verso la fantasia creatrice.

C’è dunque in Mandralisca questo continuo movimento da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia (movimento, passaggio sintetizzato nel simbolo della chiocciola, che ho cercato di riprodurre nel mio romanzo). In questi viaggi, il Mandralisca trasporta «antichità », statuette, lucerne, vasi , monete recuperate nei suoi scavi in quell’onfalo profondo della storia e del tempo che è la contrada Diana di Lipari. Recupera, salva dalla minaccia della natura, riporta alla terra quel «Ritratto d’ignoto» di Antonello, già sfregiato dal gesto irrazionale d’una donna (ma segno, lo sfregio, di volontà di superamento della ragione verso la creazione di un nuovo assetto politico e sociale), che sarà il gioiello più splendido della sua raccolta, del suo futuro museo.

Ma tanti altri significati, tanti altri valori, tanti altri insegnamenti mi ha regalato, ci regala la figura del Mandralisca, questo personaggio più generoso del gattopardo principe di Salina, più preoccupato delle sorti comuni, generali, soprattutto delle sorti di quelli socialmente più fragili, indifesi. E questa sua nobile preoccupazione non è un’invenzione letteraria, ma la si può realmente leggere nel suo testamento. «Voglio dell’annua rendita di tutti i miei beni…si fondasse e mantenesse nella mia patria Cefalù un liceo… », così dispone. E legati assegna al Collegio di Maria «con l’obbligo di mantenere una Scuola Lancasteriana per le fanciulle», all’Ospedale degli infermi… E nel testamento dispone ancora della Biblioteca e del Museo installati nella sua dimora.

Nel libretto dell’Elogio, stilato da La Loggia, vi è anche un bel ritratto litografico del Mandralisca, disegnato da un tal Tambuscio. Vi appare, il Nostro, come un maturo signore dal viso scarno di studioso con baffi e pizzo, dalla fronte ampia, dallo sguardo severo, acuto, penetrante. A chi somiglia questo Mandralisca? Somiglia forse all’ «ignoto» di Antonello? Somiglia certo al barone Pisani, a Michele Amari, a Napoleone Colajanni… Agli uomini vale a dire di più alto sentire, di più nobili e generosi slanci a cui la Sicilia abbia dato i natali.

Uomini di cui, in questo nostro tempo di meschine chiusure, di feroci egoismi, di stravolgimenti morali, si sta rischiando di perdere la memoria, l’insegnamento.

Milano, aprile 1991.
Vincenzo Consolo, Viaggi dal mare alla terra, in Aa. VV., Museo Mandralisca, Palermo, Edizioni Novecento, Palermo 1991

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Paesaggi di luce

di Vincenzo Consolo

Non sappiamo se esiste o possa mai esistere una scienza che studia la luce in rapporto ai luoghi (topofotologia?). Speriamo che non esista, che non possa mai esistere. Perché vogliamo (noi che temiamo le razionalizzazioni, la distruzione delle fantasie, la loro riduzione in mappe, grafici, numeri: ah quella luna profanata, la sua caduta, il suo mito, la sua fantasia frantumata! Ah le sue misure, i nomi dei suoi “mari”. “. dei suoi monti, dei suoi crateri!) vogliamo che luoghi e luci – luoghi bruciati, smaterializzati dalla luce – rimangano pur sempre mari o cieli su cui navighi solo la poesia.
 Luogo di luce, di incroci o giochi di luce è ad esempio quell’isola del Mediterraneo che si chiama Sicilia. Luce che si modula, cambia da capo a capo, da costa a costa, da montagna a montagna, da pianura a pianura. Abbiamo potuto constatare (o è stato un abbaglio?), percorrendo l’isola, che, oltrepassato il capo Gallo, improvvisamente la luce cambia, si fa diversa da quella del Tirreno; che aggirato il capo Peloro, a torre Faro, sopra il gorgo di Cariddi, diversa è la luce dello Jonio; e ancora diversa oltre gli Iblei, da Siracusa a Pachino, all’Isola delle Correnti; che luce sua è, diversa dalle luci dei mari e delle coste, quella della sconfinata landa desolata dell’interno, oltre la barriera delle Madonie e dei Nébrodi. E non è altra la luce rossastra, infuocata, fenicia o africana, di Mozia, del Lilibeo o Selinunte, da quella bianca e cristallina di Taormina, di Megara o di Ortigia, altra dalla luce nera di Catania e dell’Etna? La luce terrosa di Palermo da quella marina, acquorea di Messina? La luce delle Egadi da quella delle Eolie, delle Pelagie? Messina, la spirale del suo porto, lo iato, la fenditura dello Stretto…
 Visto dalla platea di Paradiso, o dalle acque stagne di Ganziri, visto dai palchi dei colli di San Rizzo, dal Faro Superiore o Castanèa delle Furie, è un teatro unico, fantastico, una rappresentazione senza fine dove si spiegano velari, si squarciano, s’involano; dove rifrazioni di lastre immateriali, d’invisibili specchi sciabolano, s’incrociano, si spezzano; dove piovono, s’ammassano gravi cascami d’astri sfaldati; dove sorgono illusioni, sortilegi, fate morgane, allucinazioni; dove a volte il mondo crudamente e crudelmente si denuda, mostra tutta la sua desolazione, la sua angoscia (il dolore assoluto, senza scampo dello sfondo d’una qualche Crocefissione d’Antonello).
E allor mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico, e affisso a un’eterna luce o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminabili e vani, scale, tra mezzo a cattedrali, regge di nuvole e di raggi. Mi pare quando che ho l’agio e il tempo di staccarmi d’ogni reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi nomi belli di villaggi o pel mio levarmi presto, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che mi fuga infine l’ombre i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, lo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo.
E se dallo Stretto andiamo  oltre il golfo, il capo di Milazzo, altro teatro, più vasto e più fantasioso vi si spiega: quello di Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi, Alicudi …  Isole ora sfumate, lontane, fuggenti dietro cortine, velari, vapori, illusorie come Sirene; ora corpose, evidenti, reali, prossime e avanzanti sulle acque, con ali di meduse, pomici, alghe, fluttuanti come le Simplegadi. Andiamo verso il Tindari, i ricami delle rene, le acque morte, i giunchi velieri marciti sotto la sua rocca prominente. Questo il teatro che mi si parò davanti appena aperti gli occhi, questo il quadro, la memoria più antica e indelebile.
E cos’è allora la memoria d’un pittore nato sopra lo specchio di sommo sortilegio e sommo inganno, sopra l’occhio verde e tremendo di Gorgona, sopra la lastra versicolore, il vetro di Murano, sopra quel Mar Morto e quello Stige, quel cielo rovesciato, quel ceruleo abisso che è la Laguna, la natura più intima, la segreta sorgiva di quel mare che scorre e che si mesce allo Jonio, all’Egeo?
 Nato in una città invisibile, Stambul e Samarcanda riflessa dentro l’acque, madrepora vagante, sargasso stralucente, mamona che si dona e che si nega?
Nato in Venezia e lì imprigionato, nella marea che sale, nel cielo che s’abbassa, nelle acque e nelle brume smemoranti, che celano splendori, miracoli, potenze, ogni beltà, ogni arte? Nella città che sorge all’orizzonte, oltre le soglie, s’erge nei cieli della Luna, di Venere, del Sole, nel cielo delle Stelle, nel centro dei cerchi luminosi?

 Quali nei pleniluni sereni
Trivia ride tra le ninfe eterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vidi sopra migliaia di lucerne… (1)

 E possibile ancora memorare, dire, riportare tanto abbaglio, tanta viva sorgente d’ogni luce, d’ogni trasparenza? Solo per allusioni, per astrazioni, per ritmi, per intermittenze, per pulsazioni, per fotoni, per piani e fasci di luce, per accenni d’infinito, per tagli, lame di giallo, bianco, per fuochi intensi, per vermigli, per modulazioni di cieli, e di acque, per azzurri profondissimi, per altre arti e per altre nostalgie, per inusitate visioni forse è possibile.
Possibile, meravigliosamente ardita e luminosa fu la parola d’un Poeta fra luci e visioni d’altro mondo che ad ogni altro avrebbe tolto il passo, il fiato.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
  non si profonde che i fondi sien persi,
  tornan de’ nostri visi le postille,
debili sì, che perla in bianca fronte… (2)


(1) Dante,Paradiso, canto XXIII
(2) Dante, Paradiso, canto


Confini – Visività e configurazione nel reale.
1990 Fabbri Editore

Isole Eolie

Vincenzo Consolo per Enzo Sellerio.


Bisogna superare ostacoli d’intimidatorie citazioni, stagni di brucianti ironie (e già temo l’ironia di questa metafora ippica) per parlare di un fotografo come Enzo Sellerio.
Un signore che, costretto a dire di sé in rapporto alla fotografia, mette subito le mani avanti, sfodera una figura retorica come la preterizione attraverso un autorevole citazione di Rudolf Arnhcim che lapidariamente afferma: «L’arte rischia di venir sommersa dalle chiacchiere», a cui egli stesso, Sellerio, cementa altra pietra, o altra intimidazione, con la frase: «E la fotografia pure, qualunque cosa sia». Ma io temerariamente parlo perché non sono, come si dice, un addetto ai lavori, non sono un critico, e quindi spero che il mio parlare, al di qua o al di là dell’oggetto in parola, o dell’oggetto parlato, non si sommi alle chiacchiere sommergitrici (le attuali chiacchiere che, afferma sempre il Nostro, facilmente possono sgorgare dalla lettura delle 537 paginette – notare l’esattezza del conto – a cui assommano i saggi di Barthes, Benjamin, Freund, Sontag); io parlo perché, contro ogni dubbio di Sellerio, sono convinto che la fotografia — la sua fotografia — sia arte (cd ecco che questo giudizio mi mette in contraddizione con quanto ho detto sopra); parlo perché ho da sempre nutrito profonda ammirazione per quest’arte di Sellerio (le prime sue foto che vidi furono quelle pubblicare da Michele Gandin su •Cinema Nuovo- e che avrebbero dovuto illustrare Banditi a Partinico di Danilo Dolci: era il 1955, mi pare, ed io ero studente a Milano; l’anno in cui usciva, in volume, Le parole sono pietre di Carlo Levi; qualche anno prima era uscita l’edizione illustrata dalle foto di Crocenzi di Conversazione in Sicilia di Vittorini; immagini, libri che mi facevano conoscere o riconoscere la mia Sicilia lontana, che mi avrebbero indotto a tornare nell’Isola della quale volevo scrivere, volevo testimoniare); parlo infine, ma primieramente come motivo, per consonanza: perché, voglio dire a me narratore, il genere fotografico di Sellerio mi sembra simile al genere narrativo: la sua fotografia simile al racconto. «La qualifica di fotografo-giornalista esiste, ma non quella di fotografo-letterario: perché non è lecito fare un lavoro di ricerca simile a quello dello scrittore?» si chiede Sellerio (intervista a Maurizio Spadaro per la sua tesi al DAMS, 1988-89). Ma questo lavoro di ricerca Sellerio l’ha sempre fatto, sin dalla sua prima fotografia. Perché la sua è stata, è fotografia «letteraria» (ma metto tra virgolette questa parola ambigua, pericolosa), è fotografia narrativa. E cerco di spiegarmi. Ho sostenuto in altri luoghi che lo scrittore ha due modi di esprimersi: scrivendo, appunto, c narrando. Che il narrare, operazione che attinge alla memoria, è uno scrivere poetico; che è un rappresentare il mondo, ricrearne cioè un altro sulla carta. Gravissimo peccato detto tra parentesi, che merita una pena, come quella dantesca degl’indovini, dei maghi, degli stregoni (Inferno, XX canto):

| Come ‘I viso mi scese il lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso;
chè dalle reni era tornato il volto,
ed in dietro venir vi convenia,
perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.

Sì, il narratore, attingendo alla memoria, procede sempre con la testa rivolta indietro (e il suo narrare può quindi apparire operazione inattuale, regressiva). Ha però, il narratore, al contrario dei dannati dell’Inferno, una formidabile risorsa, compie, dal passato memoriale, quel magnifico salto mortale che si chiama metafora: salto che lo riporta nel presente e qualche volta più avanti, facendogli intravedere il futuro. Si narra, io credo, riportando, nell’operazione del narrare, la propria memoria esistenziale e la propria memoria culturale. Perché noi siamo, si, figli della natura, ma siamo anche — dirci soprattutto – figli della cultura. Nasciamo, e subito veniamo incisi dai segni culturali. Lo scrivere invece, al contrario del narrare, può fare a meno della me- moria, è un’operazione che attinge al pensiero, alla logica. «Che cos’è per lei la fotografia?» chiedeva il critico Diego Mormorio 1983). E Sellerio: «Non le risponderò certo tentando una definizione. lo credo, e l’ho verificato più volte, che nell’atro di fotografare, in certi stati di grazia, scatti una specie di telemetro interiore che fa coincidere quello che si vede con quello che si sa». E, questo che si sa, cos’è, se non la memoria, la memoria culturale? Quindi, il fotografo enumera casi in cui memorie pittoriche, memorie letterarie sono riemerse nell’atto del suo fotografare. E Malata, Partinico 1954 rimanda a Femme au lit di Vuillard, Monastero di clausura di Santa Caterina, Palermo 1967 rimanda a Vermeer, Quartiere della Kalsa (o Fucilazione dei bambini), Palermo 1960, rimanda a Goya, Musica sacra al Duomo, Monreale 1959 rimanda alla America di Kafka, e c’è ancora Brueghel, c’è Millet, c’è Antonello, c’è Picasso, c’è Conversazione di Vittorini; e Chaplin e Bufuel, e tanto cinema francese degli anni ’40, e Cartier Bresson e Robert Capa… Non si finirebbe mai, con i rimandi, le citazioni volute e non volute, consce ed inconsce. Insomma, la fotografia, come ogni altra espressione d’arte non è innocente, la naïveté è un’illusione, quando non è impostura. Non è innocente l’obiettivo fotografico. Non è obiettivo. Neanche l’obiettivo di Giovanni Verga. Né quello della macchina a cassetta avuta in eredità dallo zio Salvatore, né quello della Kodak e quello della Express Murer acquistate a Milano, né quello della Aestman acquistata a Londra. L’impassibilità dell’obiettivo di Verga rimase solo una fede, una credenza. Ho avuto occasione di vedere le 400 e più foto, in massima parte fino ad oggi indite, scattate da Verga, e ho potuto constatare che in esse c’è naturalmente tutta la concezione letteraria dell’autore dei Malavoglia, c’è la sua estetica, la sua cultura, la sua ideologia. Quasi tutti i personaggi ritratti, pescatori e contadini, proprietari, popolani o borghesi, parenti o amici, uomini o donne, bambini o vecchi, tutti sono sempre in posa davanti al muro di una casa, accanto a una porta o a una finestra: come pronti, dopo quella uscita al sole per la posa, a rientrare nel conforto, nell’illusoria protezione delle mura domestiche, perché il fuori è sempre minaccia, è ineluttabilmente perdita, è iattura. Sono, quelli di Verga, come si sa, personaggi isolati e soli davanti al destino e la fissità della stampa fotografica sembra certificare, confermare questa immutabilità. «Mektoub» («E scritto»), dicono gli Arabi, e quindi è immutabile; sono, quelli di Verga, personaggi irrigiditi in una epopea tragica. I personaggi di Sellerio, al contrario, sono usciti, si sono staccati dalle case (negli interni sono rimasti solo i vecchi, i malati, le monache di clausura), si sono sparpagliati per le vie, le piazze, i vicoli di città e paesi, per i sentieri di campagna, per le montagne, per i giardini di aranci: un’umanità che pullula, che lavora, che gioca, che fa festa… formano questi personaggi, l’umana compagnia, tutti fra sé confederati, per dirla con Leopardi: un contesto storico, insomma, una società. E qui dunque non siamo più nella poesia tragica, ma siamo, come dicevamo sopra, nel racconto. Racconto laico, moderno. Racconto che nasce da  una società, essa rappresenta e ad essa si rivolge. E il suo linguaggio, quindi, non è solo d’espressione, ma è anche di comunicazione. È linguaggio critico. E la critica, assieme alla poesia, ha certi acuti lirismi, ha certo struggente dramma, nasce dalla metafora.
 No, la fotografia di Sellerio, come ogni vera arte, non è naturalistica, ma è allusiva, è metaforica. Cadono nel ridicolo certe sperimentazioni linguistiche cosiddette concettuali, come quella, per esempio, di un fotografo che avrebbe voluto fotografare, in tutta la sua estensione, il muro di Berlino, e, incollando fotogramma a fotogramma, riprodurlo naturalisticamente. Siamo alle incomprensibili sperimentazioni cinematografiche di uno Straub che mette la cinepresa al centro della Piazza della Bastiglia o davanti a una fabbrica del Cairo e vuole riprodurre naturalisticamente tutto quanto si presenta davanti al suo obiettivo. «Chiedo perdono se proprio in un libro sulla Sicilia manca la violenza che qui, se non l’unico, resta un modus vivendi fondamentale scrive il Nostro nella nota introduttiva al suo Inventario Siciliano. Manca quindi nel suo Inventario la lupara, mancano i morti ammazzati dalla mafia, manca l’urlo, manca l’espressionismo traboccante di tutta l’infelicità sociale di Palermo e della Sicilia. Ma lo stile di Sellerio, il suo linguaggio, non è espressionistico. Esso si regge sul difficile equilibrio tra la parola e la cosa, tra il significato e il significante, tra l’informazione e l’espressione; tra la storia e la poesia, infine. Non c’è la violenza, non c’è la lupara. Ma c’è l’umano, il troppo umano. C’è amore, pietas, verso tutte le creature ritratte: verso i bambini, le donne, i lavoratori. In contrappunto, fuori dall’impaginazione della foto, sono la violenza, il crepitare del fucile; c’è l’offesa alle nobili creature ritratte. Ecco, dal momento che questo suo stile, questo suo linguaggio non è stato più capito o egli ha pensato che non fosse più capito, io credo che Sellerio abbia voluto smettere di scrivere il suo «E qui, forse, con queste fotografie di Robert, uomo di trentatré anni in terra di Sicilia, come con quelle della Spagna e della Cina, incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvio quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali e impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature umane sofferenti. E ti vedrai quindi sfilare sotto gli occhi, a mille a mille, scene di guerre e di disastri, di morti e di massacri, d’intimità violate, di dolori esposti all’indifferenza e al ludibrio. L’abitudine, si sa, tannino che s’incrosta, nerofumo di camino, cancro che divora e che trasforma, ricopre, spegne la ragione, e l’idiozia è madre della degradazione e delle crudeltà. .Monsieur Guy de Maupassant va s’animaliser…. Scusate l’autocitazione. Questo è un brano di un mio racconto intitolato Il fotografo, in cui parlo di Robert Capa. Ma quando lo scrivevo, pensavo anche ad Enzo Sellerio. Il Sellerio che così dichiarava: «La professione di fotografo, come io la intendevo, cominciava ad andare in crisi. Sotto l’incalzare della televisione i periodici di maggior prestigio, anche negli USA, chiudevano via via i battenti: destino che non fu risparmiato qualche anno dopo a “Life”». E ancora: -Io avevo fotografato essenzialmente i luoghi della mia città che mi erano più cari e dove la vita era la continuazione della sua storia. Oggi quel paesaggio è completamente mutato… Non mi interessa la città nuova con i suoi mostri di cemento armato, né la nuova fauna umana che vi abita, dimentica del suo passato e incapace di immaginarsi un futuro… Questa città e quest’Isola le lascio ai giovani che possono fotografarle con minore angoscia». Ma non è solo la mutazione del paesaggio intorno che gli ha fatto cadere la penna di mano. È anche la mutazione dei linguaggi, che si son fatti sempre più urlanti, scomposti, sgrammaticati, sopraffacendo la poesia. È la rivoluzione tecnologica che ha ucciso il rigore, lo stile. E più aumentano gli oggetti, i materiali, i supporti (grandangolare, occhio di pesce, automatismi elettronici ecc…), così, come nella classifica che dava Kant delle arti a seconda della maggiore o minore materia che esse contenevano, sempre meno appare l’arte nella fotografia. «C’era una volta un fotografo. Fotografava moltissimo: profili e primi piani, ritratti dalle ginocchia in su e figure intere; sapeva sviluppare e fissare, dare i toni e riprodurre. Era una meraviglia! Ma non era mai contento, perché era un filosofo, un grande filosofo e un inventore…. Questo è l’attacco di un raccontino di Strindberg. Ecco, quel fotografo scontento, quel filosofo deluso che è Sellerio ha smesso – o dice di avere smesso — di narrare fotografando e s’è messo a praticare un’altra scrittura: l’editoria. I suoi splendidi libri — dal primo del 69, I veleni di Palermo, fino agli ultimi due Cristalli di quest’anno, Zolfare di Sicilia e La storia dei Whitaker, e ancora tutta l’impostazione grafica dei libri di narrativa, di saggistica, di storia dell’altro settore della Casa editrice Sellerio, quello di Elvira, dicono ancora e sempre del suo rigore, del suo stile. Stile che gli viene ancora una volta dalla sua cultura, dalla frequentazione delle più prestigiose riviste internazionali, di grafici come il grande Fleckhaus. Sono libri troppo noti e finanche largamente imitati, questi libri, per parlarne qui ampiamente. E voglio quindi tornare al Sellerio fotografo, al grande reporter, al maestro di quella scuola fotografica palermitana, o più estesamente siciliana, di cui prima o dopo bisognerebbe scrivere la Reporter. Viene da riportare, referre, riferire. È il messaggero del teatro greco che assiste alla tragedia che si è svolta in altro luogo e arriva sulla scena a riferire: ricreando il fatto, colla sua sensibilità, colla sua memoria, colla sua cultura, con il suo stile. Dipende da noi, da noi spettatori, se non abbiamo ancora perso il senso delle parole, intendere il linguaggio, la metafora di quell’anghelos. L’anglo-angelo melvilliano Billy Budd, nell’impossibilità di farsi capire, di dimostrare la sua innocenza, reagisce gestualmente alla sopraffazione del potere e ne paga le conseguenze. Ma nell’impossibilità di farsi capire oggi, nell’assordante chiasso, nell’urlante totalitarismo dei media, la reazione può essere l’afasia scandita da un’amara intelligente ironia. Quella che, per esempio, nel dilagare del baconiano «mosso» di tanta fotografia di oggi, di fronte al ritratto di una massaia contro le sue casseruole, fa dire: «Il messaggio è chiarissimo: la donna è mobile, le pentole no». «Fotografare significa scegliere e senza scelta non può esservi stile» dice Sellerio. Il fatto è che tanti fotografi oggi non scelgono. ma sono scelti; ridotti a passivi strumenti, come la camera che tengono in mano, a media dell’impero delle merci.

Vincenzo Consolo

28 ottobre – 18 novembre 1989 – Messina
Testo di Vincenzo Consolo

La ferita dell’aprile

Introduzione
di Gian Carlo Ferretti


Una voce di ragazzo irriverente, con un disincanto e un’ironia (e sarcasmo) già matura, racconta esperienze di umili affascinanti lavori presto vietati, di piccole e più o meno innocenti avventure antistituzionali, di calde solidarietà giovanili, all’interno di una struttura educativa cattolica chiusa e repressiva. La realtà narrata è quella di un paese siciliano all’indomani dell’ultima guerra, con un passato e un presente di vita stenta, dolorosa: tra lavori duri, poveri svaghi, refezioni della San Vincenzo, e potenti locali, clientele, omaggi servili. È questa la trama immediata ed esterna della Ferita dell’aprile, pubblicato per la prima volta nel’63, nella collana mondadoriana del Tornasole diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Una trama che potrebbe far pensare frettolosamente a un romanzo di ritardata tradizione neoverista. Mentre esso è molto di più e di diverso: anche nel senso che la linea narrativa isolana (De Roberto-Pirandello-Brancati-sciascia) cui Consolo sembra rifarsi, al tempo stesso con partecipazione e distacco critico, è quella più profondamente segnata dalla crisi e dal superamento della tradizione naturalista e verista; ma soprattutto nell’altro senso, che in quella trama Consolo immette con forza fin dall’inizio una carica problematica e sperimentale di non provvisoria modernità (che può richiamare perciò, rispettivamente, Sciascia e Gadda). Riletto oggi, questo suo romanzo non si conferma soltanto come uno tra gli esordi più promettenti degli ultimi decenni, ma altresì come l’avvio di una ricerca (nel clima delle sterili dicotomie tradizione-avanguardia degli anni Sessanta) di grande futuro. Un romanzo, insomma, che affronta già consapevolmente il problema del potere, considerato in tutte le sue più vistose e sottili implicazioni: l’insensatezza mascherata da formalismo (l’Istituto con le sue regole), il privilegio e la privazione del sapere (gli «alletterati » e gli altri, il Nord e il Sud), la carica liberatoria della diversità (soprattutto giovanile), e un impasto plurilinguistico sempre funzionale al discorso, tra una registrazione del parlato con intento deformante e caricaturale e un’intensa contaminazione di dialettalismi e gergalismi (e detti popolari) siciliani. Mentre sembra addirittura preannunciarsi il motivo centrale di Lunaria: Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte, femmine, correte, prima che si squagliano. Nella Ferita dell’aprile dunque, l’Istituto, la funzione religiosa, il cappellano militare appena tornato dalla campagna di Russia, la veglia funebre, e via via le altre vicende e feste e cerimonie paesane vengono osservate e descritte con un atteggiamento irridente, insofferente e caricaturale, come proiezioni o rappresentazioni di un mondo adulto di vuoti e fastidiosi doveri, di rituali senza senso, di inerti faziosità e dogmatismi, di colpevoli ottusità e ipocrisie, che già allude a un sistema di poteri e storture, subalternità e divieti ben più diffuso e feroce. Consolo si avvale di una discriminante giovanile, fondata sulla disobbedienza demistificatoria o sull’avventura trasgressiva, per impostare un discorso di ben più alte ambizioni e obiettivi. Il rapporto tra adulti educatori e giovani educati si vien configurando sempre più come un conflitto tra repressori e ribelli tout court, in un crescendo di spietata e cupa durezza. Ecco allora che la rappresentazione ironico-divertita diventa via via deformazione comico-tragica, come nella pagina sulla camera ardente di Squillace padre, con il Seminara che si prende «pure lui le condoglianze coi baci per lo sbaglio che il morto avesse un altro figlio», e con «la vecchia strologa» che provoca sinistri scoppi di ilarità. I giochi non sono soltanto una discriminante tra piccoli e grandi, ma arrivano quasi a segnare una sorta di confine tra la vita, l’allegria, e l’immobilità, la morte: «un passovolante fermo, fa caso come un uomo allegro che muore d’un solo colpo […], come un amico andato in seminario e lo ritrovi chiuso e distaccato». Le fantasticherie ribelli e liberatorie dei ragazzi si fanno sottilmente vendicative, quasi perverse: fino a immaginare i superiori imprigionati per il collo da un tagliente filo d’acciaio. Anche la politica, le elezioni del 18 aprile 1948 vengono sentite e rappresentate come “cosa dei grandi”, come esperienza fondamentalmente estranea rispetto alla discriminante giovanile della vera trasgressività e libertà. Certo, Consolo manifesta una trasparente e intensa solidarietà per i caduti di Portella della Ginestra, o per le umili vittime dell’ingiustizia e sopraffazione proprietaria, ma tende a investire il livello istituzionale della lotta politica di una sostanziale sfiducia, all’interno di una storia che gli appare immutabile e insensata, mentre la sua simpatia per i Mùstica padre e figlio, comunisti emarginati, prefigura piuttosto il motivo di una diversità rintracciabile a tutti i livelli della vita sociale e intellettuale. Il Mùstica figlio, del resto, è l’unico che non chiami «zanglé»* Scavone (il protagonista e io narrante del romanzo), che non lo rifiuti in quanto diverso; viene scelto insieme a lui per la parte di selvaggio nella recita dell’oratorio («danzavamo il peana di morte per i preti legati ai tronchi di banano») in una versione satirico-grottesca di quella diversità e di quella tensione vendicativa; è l’amico più amato da Scavone e il principale suo compagno di avventure e di ribellione; e ne viene mitizzato come «un condottiero, di quelli delle storie d’Omero». Dove Consolo riprende con tratti di nuova efficacia il motivo novecentesco del grande amico, ragazzo o adulto, ma caratterizzato sempre da una consapevolezza protettiva, intrinseca maturità, spregiudicata saggezza. Non è certo un caso che nel romanzo le eccezioni adulte riguardino personaggi in qualche modo anomali, e in quanto tali visti con simpatia: come lo zio-padre e convivente della madre vedova, o il prete-ragazzo don Barrajo, o la donna orba frequentata segretamente dal giovane Mùstica figlio. Figure amorevoli o protettive nei confronti del mondo giovanile, e comunque estranee al mondo adulto del divieto e dell’oppressione, se non addirittura trasgressive
esse stesse. Ma nel rapporto di forze, nella guerra mascherata tra adulti e ragazzi, educatori e educati, normali e diversi, si vien delineando una vulnerabilità di fondo dei secondi rispetto ai primi, una insidiosa inesorabile prevalenza del potere in sostanza rispetto ai suoi piccoli oppositori: Consolo spiega altrove che «Zanglèi erano chiamati […] gli abitanti di San Fratello », e definisce «il sanfratellano, l’antico gallico o medio latino di quella colonia lombarda» (Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 20129, pp. 122 e 121). Ero capace di sfuggire ai grandi, stare diffidente, muto, chiuso nel mio guscio e fare il morto come la tartaruga stuzzicata con la verga, ma poi, solo che uno mi parlava buono, mi faceva un sorriso, subito m’aprivo, parlavo più del giusto, col risultato amaro, costante, di pentirmene, rimproverarmi per aver parlato. Più precisamente, l’inevitabile ingresso del ragazzo nel mondo adulto sottintende la sconfitta di ogni ribellione e trasgressività, la fatale caduta di ogni specificità e diversità (gli stessi adulti anomali scompaiono silenziosamente dalla scena, dopo più o meno brevi apparizioni: quasi figure transeunti e sconfitte anch’esse). “Diventare grande”, insomma, nonostante tutto significa snaturarsi in un mondo estraneo e nemico. Il passaggio coincide con l’uscita dall’Istituto, che segna appunto la fine della giovinezza e al tempo stesso l’abbandono di un luogo nel quale era pur possibile battersi e disobbedire, mentre nel mondo di fuori la discriminante giovanile-trasgressiva non avrà né senso né forza: anzi, si svuoterà di fatto.
Dice infatti il protagonista narrante, dopo la cacciata del Mùstica dall’Istituto e la partenza di Vittorio Seminara per il seminario: Ancora un altro aveva varcato il cancello ed era uscito sulla strada per non tornare mai più all’Istituto. E non pensavo, no, che guardando sul portone quel vestito grigio che spariva a palmo a palmo per la scalinata, dopo Filippo e Vittorio sarei stato io a lasciare l’Istituto: così carusi ancora, la vita ci tracciava già le vie. Il titolo del romanzo allora, più che riferirsi alla emblematica “ferita” politica del 18 aprile, sembra alludere alla ferita della giovinezza come esperienza vulnerabile nel suo necessario passaggio alla maturità, o invece come ferita aperta dal mondo giovanile nel mondo istituzionale adulto, ma ben presto rimarginata e cancellata. Il finale è dunque segnato dal pessimismo e dalla sconfitta. Consolo riaprirà il discorso all’interno stesso del mondo adulto e al di là di una discriminante giovanile oggettivamente sconfitta (con un processo di approfondimento e superamento, anche, di un certo autobiografismo). Il discorso sul potere e sulle sue implicazioni, anzi, andrà ben oltre, fino a investire alle radici il rapporto tra insensatezza e ragione, normalità e diversità, privilegio e privazione del sapere: in una rivisitazione (dopo il secondo dopoguerra novecentesco della sua opera prima e il Risorgimento ottocentesco del Sorriso dell’ignoto marinaio) di quel secolo dei lumi nel quale nascono alcune di queste fondamentali contraddizioni, e in un sottile ritornante contrasto con alcune fasi di facile ottimismo collettivo degli ultimi decenni. Il leitmotiv del suo successivo romanzo del ’76 è quello del sorriso «pungente, ironico, fiore d’intelligenza e sapienza » dell’Ignoto di Antonello da Messina, nel quale si specchiano sia l’intelligenza e azione rivoluzionaria del fuoruscito quarantottesco Interdonato, tornato in Sicilia a combattere
i Borboni, sia l’intelligenza divisa del barone di Mandralisca, liberale cospiratore e al tempo stesso cultore di studi scientifici del tutto disinteressati, trasgressore della sua classe e al tempo stesso accomunato
a essa da rituali vuoti e segrete follie. Proprio nel Mandralisca matura ed esplode (coinvolgendo poi lo stesso Interdonato) la crisi di una razionalità
e cultura nonostante tutto privilegiata, anche quando si schiera dalla parte degli oppressi e analfabeti, e la consapevolezza di una sostanziale impotenza dell’intellettuale aristocratico-borghese illuminato a interpretare i loro problemi e bisogni. Rispetto ai quali perciò, il sorriso dell’Ignoto rivela un distacco tanto profondo e incolmabile, da somigliare addirittura
a quello degli oppressori, da trasformarsi cioè in un ghigno «grave, sardonico, maligno». Il privilegio e la privazione della scrittura diventano così, inevitabilmente, esercizio del potere ed esclusione delle masse subalterne. Il processo investe lo stesso livello linguistico ed espressivo del romanzo.
Il sorriso lucidamente ironico, parodistico, sarcastico esercitato da Consolo su una ricchissima gamma di sperimentazioni e acquisti, in una rifusione
di straordinaria modernità e vivezza (il romanzo ottocentesco e la divagazione erudita, il canto dialettale e la citazione latina, e in generale
il discorso popolare e colto), alla fine del romanzo smuore, di fronte alle povere scritte sgrammaticate di denuncia e di collera contro i padroni. L’«alletterato» insomma sembra tacere e interrogarsi sulla «storia vera» raccontata dall’oscuro semianalfabeta, e sembra approdare al rifiuto nei confronti dell’ufficialità insensata della «Storia», e all’autocritica nei confronti della propria scrittura privilegiata. Anche in Lunaria (1985) Consolo conduce un discorso di sottile politicità, sviluppando con nuovi apporti la sua sperimentazione plurilinguistica, tra tenerezza evocativa
e contemplazione incantata, gioco parodistico e finzione oratoria, all’interno di una favola allegorica dialogata che tende a farsi struttura poetica e riaffermazione di un mito poetico, la luna, contro il potere. In una Palermo dai tratti settecenteschi in sostanza, la caduta della luna evidenzia la diversità di un viceré che non crede nel potere, lo avvicina ai villani suoi sudditi e smaschera la falsa scienza rispetto alla scienza capace di audacia
e concretezza, e rispetto alle generazioni di poeti e di umili diversi capaci
di capire veramente la luna e la forza del suo mito. C’è dunque la negazione di ogni menzognero privilegio del potere e del sapere, e l’affermazione di un sapere comune nel segno di una disarmata eppur vincente diversità.
E c’è, in generale, la valorizzazione di tutte le presenze marginali, dimesse, malinconiche, umbratili, notturne, dentro un universo di ufficialità vistosa, presuntuoso ottimismo, sfacciata solarità. Con Retablo (1987) Consolo torna al romanzo, esercitando la sua sperimentazione, la sua passione storico-erudita e il suo gusto figurativo su un intreccio serrato di scoperte e avventure, meraviglie e pericoli. In particolare, attraverso una Sicilia settecentesca sontuosa e miserabile, abbagliante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e sordida, si viene delineando un radicale conflitto tra l’avere e l’essere, tra le pretese virtù e valori che si fondano sulle ricchezze, sul nome e sul potere, e quelle che si affermano per se stesse, e che si possono ritrovare negli umili campioni di una diversità gentile o rude: pastori poeti o nobili vegliardi, briganti generosi o mercanti disinteressati. Con i quali simpatizza il cavalier Clerici, intellettuale illuminista e illuminato, soprattutto trovando un ideale compagno nel facchino Isidoro: entrambi innamorati sfortunati di due donne vittime dell’avere, prigioniere della ricchezza e dello status. Tornano perciò i temi dell’insensatezza di una storia nata sotto il segno della ragione, delle attive potenzialità dei diversi, del rapporto tra intellettuale privilegiato (e illuminato) e mondo subalterno. Ma c’è qui anche, da parte di Consolo, l’elaborazione quasi teorizzata di un impasto di forme linguistiche alte, colte, preziose, e basse, dialettali, gergali, le une e le altre intatte dall’usura della corporazione e del mercato letterari; la costruzione cioè di un romanzo che si proponga e affermi come autentica letteratura dell’essere contro le oscurità interessate e le banalità rumorose dell’avere. La raccolta di racconti e ritratti pubblicata con il titolo Le pietre di Pantalica copre un arco storico che va dalla Liberazione ai conflitti sociali del dopoguerra, dal boom degli anni Sessanta ai veleni e guasti del degrado di oggi. Vi si ritrova fra l’altro, la critica alla cultura del privilegio e
del potere, che si manifesta anche nella contrapposizione polemica tra la «poesia» di maniera sul fascino selvaggio del latifondo e le nude, schiaccianti cifre sul «regime fondiario»; e ancora il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso e endemico» di una Sicilia
emblematica. E vi si ritrova altresì la visione di una storia immobile e immutabile nelle sue prevaricazioni e inganni, ingiustizie ed esclusioni:
i «baroni, proprietari e alletterati» che vanno incontro agli americani liberatori (e vincitori) «per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere i villani»; e i pastori e contadini che assistono «indifferenti» da secoli a guerre e liberazioni estranee e incomprensibili: E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo. Anche le pagine che raccontano di lotte combattute o di contestazioni organizzate sono segnate da questo senso di immutabilità della storia.
Tipico il testo intitolato Comiso, nel quale si può seguire il passaggio quasi inavvertibile, come da un punto all’altro di uno stesso quadro unitario, dalla manifestazione pacifista alla repressione poliziesca al paesaggio archeologico-naturale. Ma si dovrà ricordare a questo proposito anche un saggio del 1985 dove, attraverso la storia dello zolfo, delle zolfare e degli zolfatari, Consolo ricostruisce una lunga vicenda di sopraffazioni e di lotte che non arriva mai a modificare i rapporti di fondo: La Regione siciliana, l’Ente minerario siciliano, assumendole, s’incaricava di liquidare e smantellare le zolfare. Mettendo la parola fine su questa realtà economica, sociale siciliana, che tanti morti era costata, tanta pena, tanto strazio. Altrove, lontano, in altri paesi gli zolfatari, i loro figli avrebbero continuato la loro fatica, la loro pena. Si può concludere, parafrasando una dichiarazione dello stesso Consolo, che in tutta la sua produzione egli (come il viceré di Lunaria), proprio perché non crede nel potere e non accetta la logica del privilegio, «riesce a vedere più degli altri una realtà di degradazione e di sopruso […] al di sotto dell’ottuso livello» di esibita vitalità della società contemporanea. Perché è sempre all’oggi che Consolo mira, sia che parli di intellettuali illuministi o di analfabeti ottocenteschi, e perché è tanto «notturno, malinconico, innocente» quanto ostinato, acuto, impietoso nei suoi dolenti e vivaci disvelamenti.

settembre 1989