Quando nel 1990, in occasione della 42ͣ sessione del Premio Italia della RAI, che si tenne in Sicilia, le edizioni ERI pubblicarono il volume di Vincenzo Consolo e del fotografo Giuseppe Leone Sicilia teatro del mondo, il testo dello scrittore fu accompagnato dalle traduzioni in francese e in inglese, poiché l’opera era destinata a decine di paesi e di organismi televisivi stranieri. Mancava, stranamente, data la diffusione mondiale e perciò l’importanza dello spagnolo, la traduzione in questa lingua. Ora la lacuna è stata colmata dalla traduzione accuratamente condotta da Miguel Ángel Cuevas, docente di Letteratura italiana all’Università di Siviglia, critico letterario, traduttore e raffinato poeta, particolarmente legato alla Sicilia, dove ha insegnato e risieduto lungamente, e alla sua cultura letteraria e antropologica. Cuevas ha tradotto dall’italiano allo spagnolo opere di Luigi Pirandello, Maria Attanasio, Angelo Scandurra e di altri. Ha anche tradotto dallo spagnolo all’italiano versi di José Ángel Valente nonché sue stesse poesie. Di Consolo è attento studioso e curatore per edizioni spagnole. Sull’opera dello scrittore siciliano ha scritto vari saggi e ne ha tradotto La ferita dell’aprile e Di qua del faro; ha tradotto, curato e pubblicato in Spagna e successivamente pubblicato anche in Italia Conversazione a Siviglia, volume nel quale sono raccolti i testi degli interventi che Vincenzo Consolo tenne nella città andalusa nel 2004, quando fu invitato a partecipare a delle giornate di studio sulla sua opera, organizzate dall’Università di Siviglia su iniziativa dell’Istituto di Italianistica.
Ora Cuevas ha tradotto, e curato per la pubblicazione, il testo consoliano del 1990 con lo stesso titolo che l’autore le diede nell’edizione economica del 1991, La Sicilia passeggiata, facendolo precedere da una nota introduttiva che spiega le ragioni e le connotazione che caratterizzano l’iniziativa (Sicilia paseada, Ediciones Traspiés, Granada 2016). L’intera operazione, infatti, è anche uno studio riguardante la genesi del testo e la sua evoluzione nelle due edizioni e negli appunti dattiloscritti lasciati da Consolo in vista di un’eventuale terza edizione, secondo l’abitudine, che lo scrittore aveva, di postillare e annotare i suoi lavori editi anche in relazione a riprese e riutilizzazioni di brani in armonico bilico tra testi saggistici e opere narrative. Sebbene si presenti come opera minore, legata a un evento occasionale, La Sicilia passeggiata riveste un ruolo importante nel rapporto tra Consolo e La Sicilia, lo stesso che è narrato e descritto nelle tre opere che — a parte una quarta che è il racconto La grande vacanza orientale-occidentale, pubblicato autonomamente in trentaduesimo a Napoli nel 2001 dalle Edizioni Dante e Descartes — si configurano come viaggio dello scrittore nell’isola. Scrive, al riguardo, Cuevas nella sua introduzione: La Sicilia passeggiata è in effetti, per quanto opera minore, un testo centrale, e non solo né principalmente sul piano cronologico, fra le altre due opere narrative: fra il sollievo erudito, il balsamo sentimentale di Retablo, e l’insanabile frattura, le contemporanee lande desolate dell’Olivo e l’olivastro. Nelle opere di Consolo si registra una tensione tra la volontà di intonare uno scongiuro propiziatorio e quella di svelare le atrocità. Nella Sicilia passeggiata è la prima pulsione a vincere. È lo stesso Consolo, del resto, a precisare, nella nota introduttiva all’edizione del 1991, che il libro era nato da una commissione e da una illusione… L’illusione mia, di mostrare – agli stranieri soprattutto! –, contro quella negativa e sconveniente che la cronaca ogni giorno ci consegna, una immagine positiva della Sicilia. Ho ripercorso così brevemente… una Sicilia onirica insomma, illusoria. Nell’illusione anche, prendendo a metafora il mito di Persefone o Kore, che questa terra, la sua storia, possa, in una prossima desiderata primavera, risorgere dalle tenebre dell’attuale inverno, dal fondo dell’inferno. Intenzionalmente e significativamente perciò egli intitolò il testo, nella prima edizione, Kore risorgente.
L’illusione suscitata nello scrittore da un fatto occasionale è in realtà l’aspirazione costante, dolorosa che Consolo si portò dentro sino alla fine; il desiderio, mai appagato, di vedere una buona volta in Sicilia l’ulivo crescere e fruttificare in pace senza le briglie soffocatrici dell’olivastro, di vedere la positività soppiantare la negatività, il bene trionfare sul male. Quella di Consolo era una tensione dolorosa che angustiava l’uomo e che si trasferiva tormentosamente nelle pagine dello scrittore con sempre maggiore intensità. I suoi frequenti ritorni nell’isola ne sono la spia evidente, come egli stesso lasciò chiaramente intendere dalle pagine delle Pietre di Pantalica: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove.
Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca (p.179).
Sono stato personalmente privilegiato testimone di questo suo disincanto, dell’amarezza che ne inficiava l’animo, della sua ansia di vita nuova per la Sicilia, della sua attesa speranzosa di una primavera, per così dire, “cerealicola” e “floreale”, che purtroppo puntualmente abortiva nel disincanto, fino a fargli dire, in una pagina dell’Olivo e l’olivastro, davanti a Palermo, centro aggregante e sintesi della Sicilia della storia, contrapposta a quella appagante del mito: Via, via, lontano da quella città che ha disprezzato probità e intelligenza, memoria, eredità di storia, arte, ha ucciso i deboli e i giusti (p.125).
Come sottolinea Cuevas, il segnale di questa tensione, di questa vocazione verso una Sicilia edenica, positiva, consapevole della sua storia, del suo ruolo civile nel mondo, e perciò responsabile sul piano memoriale e su quello culturale, è già nel rovesciamento del senso dato geograficamente al viaggio: da est a ovest, dalla Sicilia del mito a quella della storia, dalla greca alla punica; il viaggio ha inizio propiziatorio dalla Sicilia amata anche da quell’altro figlio accortamente vigile dell’isola che è stato Leonardo Sciascia, il quale, è risaputo, amava recarsi nel Siracusano e nel Ragusano, nella Sicilia un tempo dagli abitanti della parte occidentale dell’isola definita bbabba per la sua sana umanità e la sua civiltà adeguatamente radicate nella memoria collettiva della sua gente e praticate nelle consuetudini di vita. E non è certamente casuale che l’edizione spagnola abbia in copertina una bella foto di Ragusa Ibla, a rappresentare significativamente questa parte della Sicilia.
Ho avuto l’onore e la gioia di essere stato tra i suoi amici costanti lungo il tempo (L’olivo e l’olivastro, p. 107), di averlo accompagnato spesso in giro nel Siracusano tutto e di averlo visto intenerirsi fino alle lacrime sulle rovine della greca Eloro, che andava accarezzando lievemente con le mani, come stesse accarezzando delle persone, quelle che, ebbe a dirmi, andando via da quel luogo e scusandosi per le lacrime che gli erano spuntate agli occhi, erano passate e vissute tra quelle pietre. La Sicilia passeggiata testimonia, in tutta evidenza, l’amore di Consolo per la sua terra, il desiderio vivissimo di vederla diversa, redenta dal cancro del crimine, del malaffare e dell’inciviltà. Ha fatto bene, perciò, Miguel Ángel Cuevas a far conoscere in Spagna, terra amata dallo scrittore messinese, questo scritto, e ha potuto farlo perché tra gli studiosi stranieri della letteratura di Sicilia, e di Consolo in particolare, è uno specificamente attento ai dettagli, alle corrispondenze e alle sfumature dell’intera opera consoliana; ciò grazie, oltre che alla sua preparazione remota e ai suoi strumenti di ricerca scientifica, anche alla sua sensibilità di uomo, non a caso poeta raffinato, nonché, mi permetto di aggiungere, di “cittadino” dell’isola, nella quale ha abitato e lavorato e dove torna spesso, legato com’è alla sua cultura e ai suoi abitanti, tra i quali coltiva amicizie e collaborazioni culturali, come fosse uno nato in Sicilia. E siciliano, in un certo senso, egli lo è per vocazione e passione umana e culturale, come testimoniano i suoi lavori critici e le sue traduzioni di scrittori e poeti siciliani, tra i quali appunto spicca Vincenzo Consolo.
La traduzione spagnola di Cuevas è arricchita, e qui è evidente lo studio attento e analitico dell’originale, da un ricco apparato di note, che, integrando in grande misura quelle sinteticamente allegate all’originale da Consolo, chiariscono e contestualizzano bene, all’interno della produzione consoliana, la fisionomia e le caratteristiche dell’opera, nonché le ricorrenti interconnessioni tra narrativa e saggistica nell’intera produzione dello scrittore e, conseguentemente, l’importanza specifica della Sicilia passeggiata.
Un’ultima postilla va dedicata alla traduzione del testo, che conserva e mantiene tutta la bellezza dell’armonia musicale propria della prosa poetica di Consolo. Impresa non facile questa, come sa ogni lettore dello scrittore siciliano. A Cuevas l’impresa è riuscita felicemente per più d’un motivo. Uno è dato dalla musicalità propria della lingua spagnola, che di suo si presta benissimo a dare voce alle pagine di Consolo. Per constatarlo, basta soltanto la traduzione del titolo con la soavità di quel participio passato, che per di più nella pronuncia lascia sfumare la dentale sonora, e ci accorgiamo che la già musicale lingua italiana in questo caso deve cedere alla lingua di Cervantes e di Juan de la Cruz. Quello prevalente è però dato dal fatto che a tradurre la prosa poetica della Sicilia passeggiata è, oltre che un appassionato estimatore dell’uomo e dello scrittore messinese, un poeta vero, un poeta dall’orecchio sensibile e raffinato, capace di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda dei voli ad alta quota su cui veleggiano le pagine di Vincenzo Consolo.
foto: Copertina di Sicilia paseada
Vincenzo Consolo e Sebastiano Burgaretta
Vincenzo Consolo, Sicilia paseada, traducción y edición de Miguel Á. Cuevas, Granada, Ediciones Traspiés, 2016
Una pagina di Consolo dedicata a Comiso, patria di Bufalino e già location dei missili Cruise, inizia così:
“Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. // Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca” (V. Consolo, Comiso, in Le pietre di Pantalica (1988); ora in L’opera completa, Milano, Arnoldo Mondadori, 2015, p. 632).
In una circostanza, tuttavia, Consolo preferì la Sicilia passeggiata. In occasione del Premio Italia 1990, tenutosi a Palermo, la RAI affidò a lui, programmista RAI e scrittore di fama, e a Cesare De Seta, storico dell’urbanistica e del territorio, l’incarico di curare per la Nuova ERI un volume-omaggio, da destinare alle autorità e ai delegati dei trentasei Paesi invitati alla manifestazione. Un’edizione di lusso in formato quarto, Sicilia Teatro del Mondo, sponsorizzata da Banco di Sicilia e Sicilcassa, con versione inglese e francese del testo, stampata in milleduecento esemplari di cui cento “al nome”. Oggi il volume è una rarità bibliografica. A Consolo fu affidata la parte periegetica, intitolata Kore risorgente, illustrata con immagini di Giuseppe Leone. È la narrazione di un viaggio ideale tra mito e storia nelle due Sicilie, intese non in senso borbonico ma come due facce della stessa isola, l’orientale e l’occidentale. La seconda parte del volume, affidata a Cesare De Seta, presenta e illustra un Atlante del 1686, conservata in copia anonima nella Biblioteca Nacional di Madrid e in copia mutila presso il Ministero degli Esteri spagnolo: il Teatro Geográfico Antiguo y Moderno del Reyno de Sicilia. La denominazione del codice, commissionato dal viceré Carlos de Bonavides, richiama il famoso auto sacramental di Calderón de la Barca e dà il titolo all’intero volume, in cui il mito ha una parte di rilievo.
Le due sezioni furono edite distintamente dalla Nuova ERI l’anno dopo. Kore risorgente ebbe per nuovo titolo La Sicilia passeggiata, ispirato all’idea di un gesuita del Seicento, Francesco Ambrogio Maja, il cui manoscritto rimasto inedito – Isola di Sicilia passeggiata – era stato pubblicato a Palermo nel 1985 da Salvo Di Matteo per Giada editore. Nella Nota introduttiva, Consolo motiva la sua scelta: questo titolo “… più lieve, più svariante, più illusorio, infine più sognante” gli consente di tenersi alla larga da un banale Viaggio in Sicilia.
Sicilia passeggiata è stato ottimamente tradotto in lingua spagnola da Miguel Ángel Cuevas, con il ricorso a un’immagine di copertina più graffiante – uno splendido panorama della città di Ragusa – rispetto alle scontate cupole arabo-normanne di Palermo. Tra Consolo e Cuevas, fin dai tempi de La ferita dell’aprile, si era stabilito un rapporto molto cordiale, lo stesso che legò João Guimarães Rosa a Edoardo Bizzarri, traduttore italiano di Grande Sertão: Veredas. Tanto è vero che nell’edizione dei Meridiani compare questa postilla, voluta da Consolo: “Ringrazio Miguel Ángel Cuevas, curatore della traduzione spagnola, per le puntuali segnalazioni che si sono rivelate preziose nell’allestimento di questa nuova edizione della Ferita dell’aprile”.
Il taglio ‘passeggiato’ e non ‘smaniato’ di Kore risorgente dipende, com’è naturale, dal progetto editoriale e dai destinatari del volume. Inizia dal primo approdo dei coloni greci, a Naxos presso l’odierna Taormina, e di colonia in colonia procede fino alla necropoli preistorica di Pantàlica, luogo di “ombre trasvolate verso la notte”. Una volta Consolo si distese, quasi si immerse, in una di quelle grotte scavate nella roccia, volendo quasi fondersi in un rapporto panico e magico con il luogo, come aveva fatto a suo tempo l’archeologo roveretano Paolo Orsi, e in tempo di guerra Ungaretti in una dolina del Carso. L’itinerario prosegue nel Val di Noto, una delle tre partizioni storiche dell’isola in epoca araba, con Val Demone e Val di Mazara, un’area martoriata nei secoli da tremendi terremoti, il più spaventoso dei quali nel gennaio 1693. Da queste distruzioni, tuttavia, come nel 1755 accadde alla Lisbona di Pombal, il territorio e la sua gente si ripresero nel giro di pochi anni, con la fioritura di un barocco architettonico senza uguali. Consolo narra anche le feste religiose di quest’area, come quella in onore della Madonna delle Milizie, la Santa Madre guerriera di Scicli, in sella a un focoso cavallo, armata di spada e corazza, versione femminile del Santiago Matamoros di Compostela. Siracusa, vagheggiata come seconda patria da Consolo ragazzo, è al centro di un’attenzione speciale. Quando la passeggiata punta su Enna, si parla di Demetra e Kore, non ancora riemerse e risorte a Morgantina dopo il furto di alcuni clandestini, giusto negli anni di Kore risorgente. Le opere, uscite illegalmente dall’Italia, migrate attraverso e finite dopo la vendita in mano a personaggi eccellenti degli Stati Uniti, grazie alla tenacia di due archeologhe siciliane, sono trionfalmente rientrate alcuni anni fa per essere esposte nel Museo di Aidone. A Demetra e Kore si è aggiunta ora una testa di Ade, identificata e rivendicata grazie a un ricciolo blu conservato nei magazzini del Museo di Aidone, che combacia perfettamente con la capigliatura della testa. Il gruppo madre-figlia-genero si è così ricomposto, ma Kore, simbolo della primavera che torna, doppiamente risorgente, è il simbolo consoliano di una Sicilia che si riscatta agli occhi del mondo grazie ai suoi figli migliori.
Dal regno desolato del latifondo, punteggiato un tempo da miniere di zolfo e oggi conquistato per buona parte all’agricoltura razionale, la passeggiata continua nella parte occidentale dell’isola, dalla Agrigento della Valle dei Templi e di Pirandello, a Selinunte, a Segesta, al golfo di Imera, a Solunto, a Palermo, a Marsala, a Mozia, a Trapani, alle Egadi, luoghi questi ultimi celebrati in Retablo e illustrati da Consolo attraverso la corrispondenza immaginaria che il pittore milanese Fabrizio Clerici, controfigura del Clerici novecentesco, indirizza alla donna amata, poi andata sposa a Cesare Beccaria. Con in più le tonnare, i raìs, i loro sottoposti e la “camera della morte”, dove i tonni, intercettati nel pieno della loro migrazione da oriente a occidente, sono arpionati ed estratti dall’acqua con autentici corpo a corpo tra uomo e animale.
Ciò che mi ha incuriosito, come siciliano residente nell’entroterra di Cefalù da qualche anno, è l’assenza totale, in questa passeggiata, di riferimenti geografici, storici ed emotivi a questa cittadina tanto celebrata da Consolo, suo luogo di villeggiatura nell’adolescenza. Da qui è partito il suo Grand Tourletterario di Sicilia, durato una vita. In compenso Cefalù, con la sua Rocca e i suoi bastioni, compare in una delle tavole dell’Atlante di Bonavides, pubblicate in Sicilia teatro del mondo. Sembra quasi che Consolo, che era di Sant’Agata Militello, abbia trascurato di passeggiare tra le bellezze e i monumenti della sua cittadina del cuore, che considerava “sua” per esserne divenuto cittadino onorario (cfr. Note e notizie su Nottetempo, casa per casa, in L’opera completa, p. 1389: “Questo è un libro […] molto legato alla mia città, Cefalù”). Cefalù non rientra nella passeggiata forse anche per quell’inconfessato vezzo dei viaggiatori, che descrivono un bel luogo ma tacciono di proposito sulle locande in cui hanno mangiato meglio, sull’altura o la torre da cui hanno goduto il panorama più bello. Eppure, per Consolo, Cefalù segna il confine tra Sicilia punico-fenicia e Sicilia greca. È la terra, si aggiunga, in cui HERAKLES convive con l’Eracle dei Fenici, MELKART: se letti dai rispettivi alfabeti, sinistrorso il fenicio, destrorso il greco arcaico, i due nomi sono bifronti, quasi palindromi. La ragione del silenzio di Consolo risiede nella legittima riservatezza di autore di un romanzo in via di gestazione: Nottetempo, casa per casa. Di quella gente, di quelle case, Consolo non parla. Cefalù è terra di passeggiate e smanie aristocratiche, diurne e notturne, dove i baroni non sono tutti uguali: da una parte, l’apollineo Enrico Pirajno di Mandralisca del Sorriso dell’ignoto marinaio; dall’altra, i baroni smaniosi di Nottetempo casa per casa, dietro i quali si celano personaggi ancora ben presenti nel Gran Teatro della Memoria cefaludese, o cefalutana che dir si voglia.
Miguel Ángel Cuevas, poeta e docente di Filologia italiana all’Università di Siviglia, traduttore appassionato di altri grandi nomi della letteratura italiana come Pirandello, Pasolini, Tomasi di Lampedusa, si è dedicato intensamente a Consolo, privilegiando in quest’ultimo caso il rapporto tra arti visuali e scrittura. Ha trascritto e sapientemente ‘montato’ in Conversación en Sevilla, titolo vittoriniano (La Carboneria, 2014), il risultato di alcune giornate di studio celebrative del settantesimo compleanno di Consolo.
In questa Sicilia paesada c’è molto di Vincenzo Consolo, artista raffinato e proteiforme: scrittore, viaggiatore, filologo, programmista, sceneggiatore, giornalista, “orafo della parola”, come qualcuno lo ha definito. Come Vincenzo, anche Miguel Ángel, innamorato della Sicilia, è raffinato e proteiforme nel suo abbinare la docenza universitaria all’attività di poeta autotradotto, viaggiatore, editor e scrittore. Ben venga dunque la sua traduzione, prezioso contributo allo sviluppo dei buoni rapporti culturali tra Sicilia e Spagna attraverso l’opera consoliana, che all’Università di Valencia – dove di recente il volume è stato presentato in occasione di una giornata di studi sul Novecento letterario italiano – si studia e commenta da tempo, grazie a Nicolò Messina e a Irene Romera Pintor.
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Vincenzo Consolo, Cosa Loro. Mafie fra cronaca e riflessione. 1970-2010,
a c. di Nicolò Messina, Milano, Bompiani, 2017, pp. 315. Nel mantenere la visibilità di Vincenzo Consolo dopo la sua morte avvenuta nel 2012, il curatore del presente volume, Nicolò Messina, ha avuto un ruolo importante, anche grazie a La mia isola è Las Vegas (Milano, Mondadori, 2012), organica sistemazione di brevi scritti, racconti li chiamava lo scrittore (tra cui alcuni preziosi inediti), che coprono un arco di più di cinquant’anni. Un rapido censimento dei testi consoliani, pubblicati dopo il 2012, non può naturalmente prescindere dal Meridiano (L’opera completa, Milano, Mondadori, 2015) curato da Gianni Turchetta e con uno scritto di Cesare Segre. Ma vanno comunque citati anche gli Esercizi di cronaca, una raccolta di articoli pubblicati su L’Ora di Palermo, a cura di Salvatore Grassia, con prefazione di Salvatore Silvano Nigro (Palermo, Sellerio, 2013); gli Accordi, versi inediti, a cura di Claudio Masetta Milone (Sant’Agata di Militello, Zuccarello, 2015) e sempre in ambito poetico le 4 liriche, 77 esemplari numerati con acquaforte originale di Luciano Ragozzino (Milano, “Il ragazzo innocuo”, 2017). Oltre ad alcune interessanti conversazioni”: Conversazione a Siviglia a cura di Miguel Ángel Cuevas (Caltagirone, Lettere da Qalat, 2016) che rimanda a Conversación en Sevilla, sempre a cura dello stesso (Sevilla, La Carbonería, 2014) e Autobiografia della lingua. Conversazione con Irene Romera Pintor (Bologna, “Ogni uomo è tutti gli uomini”, 2016). Per finire, le prose brevi di Mediterraneo. Viaggiatori e migranti (Roma, Edizioni dell’Asino, 2016). Cosa loro consta di sessantaquattro articoli scritti tra il 1970 ed il 2010, due anni prima della morte, pubblicati su diverse testate giornalistiche (L’Unità, Il Messaggero, Il Corriere della Sera, L’Ora, L’avvenire), su riviste (Linea d’Ombra, Euros) e su pubblicazioni di diversa natura, libri collettanei, ecc. Chiude il libro un’appendice
nella quale il curatore dell’edizione, Nicolò Messina, fornisce utilissime informazioni storiche e filologiche sui diversi pezzi, alcuni dei quali ha potuto collazionare con gli originali, dattiloscritti o manoscritti. Il titolo, Cosa loro, intende apportare, mediante lo scambio del possessivo, una modifica, di certo non solo grammaticale, alla definizione vulgata di “Cosa nostra”, per segnalare, si legge in una nota introduttiva, «un sistema da cui prendere senza compromessi le distanze e da contrastare indefettibilmente ». Consolo lo ha fatto nel corso di tutta la sua vita in quanto, ammetteva, «non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo» («Memorie», ora in La mia isola…). In un articolo apparso su L’Ora nel 1982 («I nemici tra di noi», Cosa loro) proclama infatti che «la lotta alla mafia ha bisogno di noi, di ognuno di noi, nella nostra limpida coscienza civile, della nostra ferma determinazione; che è lotta politica, lotta per la nostra civiltà». Così Consolo “impugna” la scrittura per fare la sua parte. Scrive, come dice in «Un giorno come gli altri» (La mia isola…) perché la
scrittura «può forse cambiare il mondo». Con il narrare, invece, che è l’altro versante della sua ispirazione, il mondo non lo si cambia, lo si descrive soltanto. Negli articoli ora riuniti in Cosa loro, Consolo adotta quindi una “scrittura di presenza”, ossia una prosa militante che vibra fino ad innalzarsi alla liturgia indignata della riscrittura di un Dies irae da Requiem eseguito il 27 marzo 1993 nella cattedrale di Palermo per ricordare le stragi in cui persero la vita i giudici Falcone, Borsellino («soldati in prima linea » come li definisce), le loro scorte ed i congiunti («Dies irae a Palermo»). La “scrittura di presenza” assume, in certi scritti, la connotazione fisica dell’inviato speciale che segue “in diretta” le vicende che descrive: così ritroviamo lo scrittore al processo di Milano contro Michele Pantaleone nel 1975, querelato ma poi assolto, per aver denunciato un soggetto mafioso o a Comiso («Ero anch’io là, quella primavera del 1982, là a Comiso» – proclama con orgoglio – per protestare contro l’installazione di missili Cruise nella base della Nato. Ma l’intervento più solenne per un inviato speciale mandato in prima linea è quello al “maxiprocesso” del 1986: 475 mafiosi in gabbia. «Anch’io, in quel piovoso mattino del 10 febbraio del 1986, ero nella famosa, avveniristica, metafisica aula-bunker», afferma lo scrittore con
l’orgoglio di chi assiste, sono ancora parole sue, «al più grande psicodramma della storia siciliana, della storia nazionale». A cui seguirà purtroppo la tragica sequela di Capaci e di Via Amelio, nel 1992. Di Giovanni Falcone, a cui sono dedicati diversi articoli ed uno straziante necrologio, Consolo ha un ricordo personale: si conoscono ad una cena in casa di amici comuni e lo scrittore non può fare a meno di notare la tragica solitudine di quel commensale taciturno con «quell’aria triste di uomo “con toda su muerte a cuestas”», dice citando Federico García Lorca. Anche Falcone, come Ignacio Sánchez Mejía, era già avviato verso l’irreparabile destino. Consolo traccia la linea genealogica degli scrittori «siciliani e no» militanti: a cominciare dall’archetipo ottocentesco, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, i primi che denunciarono, nella famosa inchiesta del 1870, l’esistenza della mafia e l’arretratezza della Sicilia. Seguono, più vicino a noi, il già citato Michele Pantaleone che passò dalla scrittura all’azione, raggiungendo il record di quaranta querele mossegli da presunti mafiosi, Danilo Dolci, con i suoi scritti e le sue inchieste e soprattutto Leonardo Sciascia che «come Sherlock Holmes – è il titolo di un articolo del 1994 – scende nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Leonardo Sciascia è inevitabilmente per il nostro scrittore una sorta di nume tutelare. Ma anche per «quel grande illustratore dell’Italia di ieri e di sempre» che risponde al nome di Alessandro Manzoni, Consolo dice di nutrire una grande ammirazione. Del tutto diversi i giudizi di Consolo su alcuni prestigiosi scrittori siciliani; quali Luigi Capuana, Giovanni Verga, e soprattutto Giuseppe Tomasi di Lampedusa. All’autore de Il sorriso dell’ignoto marinaio non poteva naturalmente andare a genio l’affresco storico de Il Gattopardo, definito peraltro come un «sentenzioso romanzo» che cerca di occultare con l’enfasi delle famose parole pronunciate da Fabrizio Salina, («Noi fummo i Gattopardi
e i Leoni; quelli che ci sostituiranno […]» eccetera eccetera..), le complicità
dell’aristocrazia siciliana nell’avvento delle iene in futuro odore di mafia. Ma il
«principe di Salina – si legge ne I nostri eroi di Sicilia del 2007 – ignorava o voleva
ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si
erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermo a passare il tempo tra feste e balli. Vogliamo dire che la mafia dei gabellotti, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni. Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, ignorava questo?». Sotto la “scrittura di presenza” che cerca di «cambiare il mondo», circolano, nei diversi capitoli di Cosa loro, frammenti dell’altra vena, narrativa, dello scrittore, che il curatore del libro, profondo conoscitore dell’opera di Consolo, individua puntualmente nell’appendice. Il frammento più solido è, a mio avviso, quello relativo ad un episodio che prende forma in un articolo del 1991 per raggiungere poi l’elaborazione definitiva nel racconto «Le lenticchie di Villalba» del 2000 ( La mia isola…) e rientrare successivamente nella “scrittura di presenza” nel 2004 con il titolo significativo di «Prima educazione alla legalità». Nell’articolo apparso su Linea d’ombra nel 1991, troviamo infatti l’embrione del futuro racconto di un episodio che Consolo dice di narrare per la prima volta, «risalente –precisa – a poco meno di cinquant’anni or sono […]». C’è una colpa, confessa ironicamente lo scrittore, da cui intendo liberarmi: «io
sono stato in casa a Villalba, del famoso capomafia don Calogero Vizzini, [non solo] ho avuto in dono, dallo squisito personaggio, un torroncino di sesamo e un buffetto sulla guancia». «Racconto com’è andata», precisa, quasi per avvertire che dalla scrittura militante sta scivolando in quella narrativa della memoria. «Era l’estate del ‘43», così ha inizio l’episodio. Consolo, a quell’epoca aveva dieci anni, viaggiava in camion con il padre, commerciante di cereali, per racimolare generi alimentari che scarseggiavano. A Villalba, in provincia di Caltanisetta, riescono a rifornirsi di derrate tra cui le lenticchie per cui era famosa la cittadina. Dopo aver caricato il camion, stanno per partire ma vengono bloccati da un maresciallo dei carabinieri che proibisce loro di trasportare la merce. Gli consigliano di ricorrere a don Calò che in effetti sblocca la situazione, li fa partire ed in più regala il torroncino al piccolo Vincenzo. Seguendo la cronologia delle lenticchie arriviamo al racconto del 2000 che ha un finale da un punto di vista etico, più pertinente: niente dolci e buffetti sulle guance del bambino e soprattutto c’è il padre che rifiuta la protezione mafiosa di don Calò, fa scaricare il camion e durante il viaggio di ritorno fa notare al figlio che «in questi paesi ci sono persone che comandano più dei marescialli». E lo invita a raccontare l’episodio «in un bel copiato» che Consolo metterà per iscritto quasi sessant’anni dopo. Nell’articolo del 2004, intitolato, come si è appena detto, «Prima educazione alla legalità», l’episodio non può che riconfermare il finale sancito nel racconto del 2000, con una messa a fuoco piu ravvicinata del losco personaggio che il padre definisce senza mezzi termini “capomafia” ed ancora l’invito, quasi un lascito morale al figlio, a raccontarlo a scuola in un “copiato”. Una curiosità lessicale: il ritratto di don Calò attraversa diverse varianti iconografiche: nel 1991 («Mafia e media») è descritto come un «vecchio, imperioso, compassato»; nel 2000 («Le lenticchie…»), è semplicemente «un vecchio con gli occhiali e il bastone» mentre nel 2004 («Prima educazione alla legalità ») viene bollato definitivamente come «un vecchio laido e bavoso». In altre circostanze lo scambio tra scrittura e narrazione (anche di taglio saggistico) procede all’inverso, nel senso che è questa a fornire alla prosa militante, atmosfere, spunti o addirittura interi brani contenuti nei romanzi. Così l’«Invettiva» del 1992 nei giorni successivi all’assassinio di Giovanni Falcone («Adesso odio il paese,
l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… Odio finanche la lingua che si parla…»), è una citazione – è lo stesso Consolo a confermarlo – del coevo romanzo Nottetempo, casa per casa. Continuando questo rapido inventario, sempre sotto la guida attenta del curatore del volume, troviamo Al di qua dal faro come fonte ispiratrice dell’articolo «Sciascia come Sherlok Holmes nei sotterranei del potere di Cosa nostra». Per quanto riguarda la città di Palermo (in «I fantasmi di Palermo») essa è bersaglio di invettive, «Palermo è fetida» e «Questa città è diventata un campo di battaglia», che provengono rispettivamente da Le pietre di Pantalica e Lo spasimo di Palermo. Attraverso gli articoli di Consolo ripercorriamo quarant’anni di una tragedia nazionale di corruzione e di morti ammazzati che ha il suo apice con l’attentato a Falcone ed a Borsellino: dopo la loro morte, possiamo dire con lo scrittore che «non siamo stati più gli stessi». Ai registri usati da Consolo nei diversi capitoli del suo lungo “copiato”, si deve aggiungere anche quello comico-grottesco in cui agiscono personaggi come Salvatore (Totò) Cuffaro (governatore della regione siciliana), il suo successore, Raffaele Lombardo, e dulcis in fundo Silvio Berlusconi. I primi due sembrano maschere della commedia dell’Arte. A Cuffaro (rinviato a giudizio per «rivelazione di notizie riservate e favoreggiamento» che, sia detto per inciso, approfittò della reclusione per scrivere una tesi di laurea sul sovraffollamento delle carceri) Consolo attribuisce una illustre ascendenza, nientemeno che Sancho Panza: come il personaggio di Cervantes è, afferma lo scrittore, governatore dell’Isola di Baratteria e come lui potrà affermare, alla fine del suo mandato: «nudo son nato e nudo mi ritrovo». L’elemento farsesco è suggerito dalla sua ghiottoneria: nei diversi “cammeo” che gli sono dedicati nel volume, da «Totò il buono» (2004) fino a «Totò se n’è juto» (2008), è raffigurato come un cicciottello in estasi «davanti a una enorme cassata siciliana». Il menù della sua voracità comprende anche altre leccornie come «cannoli, cassate e mammelle di vergine». Anche il suo successore Raffaele Lombardo eredita il debole per la pasticceria ed in effetti, dice Consolo, scivola pure lui «su un vassoio di cannoli» e sull’accusa di concorso in associazione mafiosa. Lombardo inoltre si è fatto portavoce dell’annoso assioma
secondo il quale a parlare della mafia si infanga la Sicilia. E se la prende pure
con chi a suo avviso l’ha denigrata: la lista include persino Omero, per aver rappresentato lo stretto di Messina nelle fogge mostruose di Scilla e Cariddi, poi Garibaldi, Verga, De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa. Si salvano invece Camilleri e curiosamente lo stesso Consolo verso cui Lombardo manifesta una grande ammirazione. Al che lo scrittore in persona prende divertito la parola per esprimere la propria sorpresa: «Ohibò! […] se il Lombardo avesse letto qualche libro di Consolo, se ne sarebbe accorto che razza di denigratore della Sicilia è questo scrittore!». Il cast del grottesco si chiude con Silvio Berlusconi, «l’anziano uomo truccato, quello che secondo Pirandello susciterebbe, come la vecchia signora “goffamente imbellettata”, l’avvertimento del contrario il quale crea a sua volta la comicità». In un contributo ad un libro su don Pino Puglisi, sacerdote assassinato dalla mafia nel 1993, intitolato «La luce di don Puglisi nelle tenebre di Brancaccio», lo scrittore si chiede se la Sicilia e l’intero paese siano, per usare un’espressione di Sciascia, «irredimibili». La risposta è lui stesso a formularla in un intervento successivo in cui si sofferma, a mio avviso, in modo enigmatico sulla soglia della parola “utopia”: «Sì –risponde all’intervistatore che gli chiede un messaggio di speranza – come scrittore, devo dare speranza. E la do, credo la speranza, come gli altri, con la scrittura. Il grande critico letterario russo Michail Bachtin affermava che il romanzo critico nei confronti del contesto storico-sociale è romanzo utopico: vale a dire che esso, narrando il male sociale, fa immaginare il bene, indica la società ideale».
Cuadernos de Filología Italiana
Giovanni Albertocchi
Universitat de Girona
I libri di Consolo sono sempre nati da uno spunto di realtà e da un punto di vista. Poi prendono una via che può arrivare fino ad Ariosto. Nella sua officina letteraria convivono personaggi reali e diversissimi. E’ il caso di Pirajno di Mandralisca, concentrato sui realia, e di Fabrizio Clerici, attento ai surrealia. Come convivono nella sua officina queste due figure che peraltro sono storiche? Fanno a pugni? “Sono due personaggi – spiega Consolo – non accostabili, di matrice diversa, di esito diverso e anche di funzione diversa. Il barone di Mandralisca era il personaggio storico e romanzato che mi serviva per dimostrare cos’è la responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici. L’intellettuale non può estranearsi dalla storia altrimenti diventa complice di determinati misfatti. Mandralisca, che era chiuso nella sua erudizione di malacologo e antiquario, è stato costretto ad aprire gli occhi e vedere la realtà tragica e drammatica delle rivolte contadine nel 1860. Quando uscì, il libro fu chiamato ‘l’anti-Gattopardo’. Io non so se ne avevo consapevolezza tracciando questo personaggio, che modificai per quello che mi serviva. Non sapevo cioè di scrivere ‘l’anti-Gattopardo’, ma certo la mia concezione era assolutamente opposta a Lampedusa che vedeva nei cambiamenti storici una sorta di determinismo dove l’intervento dell’uomo sulla storia è, seppure con principi diversi, del tipo di quello di Verga: le classi nascono, si raffinano e tramontano come le stelle in un ciclo di ineluttabilità di cambiamenti epocali. Mentre Lampedusa giustificava anche quelle che chiamava ‘le iene e gli sciacalli’ dando loro una legittimazione deterministica, in me invece agiva una visione opposta della responsabilità dell’intellettuale nei confronti della storia, nel senso che deve dare un giudizio sulla storia e intervenire”. D. Clerici allora a che distanza sta dal Mandralisca?R. Quanto a Clerici, il gioco letterario è più scoperto. Avere spostato nel Settecento un personaggio contemporaneo mi è servito per rivendicare nei confronti della storia e del romanzo di cronaca il primato della letteratura, rendendole un omaggio nel senso che tra i sentimenti dell’uomo c’è l’amore e c’è la passione. La scelta di questi temi era dovuta alla contingenza di quei tempi. Ho scritto Il sorriso dell’ignoto marinaio in un momento di accensione storica qual è stato quello degli anni Settanta quando tutto era messo in discussione con il dibattito culturale e politico del momento. Negli anni in cui ho scritto Retablo c’era piuttosto un atteggiamento da parte di certi intellettuali e politici di disprezzo nei confronti della letteratura, vista come concezione borghese, sicché ho scritto quel libro per difendere la letteratura contro la storiografia. D. Lei ha frequentato generi disparati passando per esempio da una specie di introibocome fu Un sacco di magnolie, che è anche un bozzetto verghiano insieme con Il fosso, per arrivare a sponde rivali come nel caso dello Spasimo di Palermo. Ciò potrebbe fare pensare all’itinerario lungo e sofferto di una persona insofferente e smaniosa. R. Racconti come Un sacco di magnolie rappresentano il tributo che fatalmente deve pagare un esordiente a quelli che sono i padri sacramentali della letteratura siciliana. Sfido chiunque scriva a dire di non avere avuto un minimo di eredità brancatiana e verghiana. Quello era il momento della fascinazione verghiana, dopo la quale è venuta una presa di coscienza, la rivendicazione di una propria identità. D. Certo, ma passare da Verga a Eliot è come un “salto mortale”. R. Non c’è dubbio. Sono sempre stato affascinato dalla poesia di Eliotche ho scoperto attraverso Montale già al tempo de La ferita dell’aprile. Lo stesso titolo è di tipo eliotiano, perché Eliot dice che “aprile il più crudele dei mesi”, talché io ho identificato la crudeltà dell’aprile con l’adolescenza che era quella dell’io narrante, ma era anche l’ennesima adolescenza della Sicilia dopo la guerra, e dunque il momento della rinascita. Naturalmente questa ferita può rimarginarsi e diventare una “maturezza” come dice Pirandello oppure una cancrena. Io ho constatato che l’adolescenza in Sicilia è diventata una cancrena e che quella ferita è rimsta ancora aperta. Di Eliot mi affascinano i correlativi oggettivi, il passare da un’immagine a un’altra. E nello Spasimo di Palermomi ha accompagnato questa continua cifra eliotiana. D. Da un viatico verghiano passa dunque a un libro vittoriniano quale La ferita dell’aprile e chiude una sua prima stagione con Quasimodo e la Sicilia rimpianta. Ma c’è un secondo Consolo che ha ascoltato Dolci, Levi e Sciascia. Il salto è dall’empireo all’impegno. R. Io non vedo questo salto. È un processo di maturazione e di ricerca anche dal punto di vista linguistico e stilistico. Quando scrissi La ferita dell’aprile avevo consapevolezza piena di quello che facevo, della scelta di campo che operavo: avevo seguito la stagione del neorealismo, la memorialistica e tutto il meridionalismo, da Gramsci a Danilo Dolci fino poi a Carlo Levi e lo Sciascia delle Parrocchie. Voglio dire che l’esordio, a parte i racconti dei primi passi, è del tutto cosciente del contesto storico, sociale e stilistico perché questo libro è segnato da un forte impatto linguistico. Lo mandai a Sciascia e mi rispose chiedendomi spiegazioni su una particolarità linguistica che in effetti mi ha sempre accompagnato come diversità storica e sociale: cioè il dialetto galloitalico di San Fratello. Nella lettera che gli scrissi mi dissi debitore delle sue Parrocchie. D. La ferita dell’aprile sta a lei come Le parrocchie di Regalpetra stanno a Sciascia, con la differenza che Le parrocchie sono una prova di realismo storico mentre La ferita di realismo mitico. Perché allora si sente debitore di Sciascia e non di Vittorini? R. Perché i miei temi non erano di tipo esistenziale e psicologico, ma storico-sociale. Ho cercato di raccontare attraverso gli occhi di un adolescente cosa sono stati la fine della guerra, il dopoguerra, la ricomposizione dei partiti, la ripresa della vita sociale, le prime elezioni del ’47, la vittoria del Blocco del popolo, denunciando l’ennesima impostura che si perpetuava attraverso le vocazioni religiose, i “microfoni di Dio”, fino alla vicenda di Portella e la pietra tombale delle elezioni del ’48. Ho voluto rappresentare tutto questo con una cifra assolutamente diversa, prendendo le distanze da quella comunicativa di Sciascia e mettendomi su un piano di espressività. D. Perché se la corrente era in senso contrario? R. Ho le mie spiegazioni a posteriori di queste scelte. L’ho fatto perché non mi sentivo di praticare lo stile della generazione che mi aveva preceduto, Moravia, Calvino, Sciascia. C’era lo scarto di appena dieci anni con questi scrittori che avevano vissuto il fascismo e la guerra. Nel ’43, quando avevo dieci anni, loro nutrivano la speranza di comunicare con una società più armonica sicché la loro scelta illuminista e razionalista era nel senso della speranza. Quando io sono nato come scrittore questa speranza era caduta e ho cercato di raccontare perché si era restaurato un assetto politico che non era come si sperava, ancora una volta iniquo, che lasciava marginalità, oppressioni e sfruttamento. Ho scelto il registro espressivo e sperimentale non vedendo una società armonica con la quale comunicare. La speranza che avevano nutrito quelli che mi avevano preceduto in me non c’era più. D. Detto adesso sembra facile, ma allora lei aveva di fronte le ultime risacche del neorealismo e le prime correnti del Gruppo 63. R. Già, ma io avevo consumato questa esperienza. Il prete bello, Libera nos a Malo e la memorialistica di quanti erano reduci dalla guerra. Che non era diventata letteratura ma mera restituzione di un’esperienza. D. Ma quella sua prova fu fortemente innotiva e poco sciasciana. R. Senza dubbio. Ma è curioso che Sciascia sia stato impressionato dalla particolarità di questo libro. Poi, quando è uscito Il sorriso, a distanza di anni, con più consapevolezza e con la mimesi dell’erudito ottocentesco, Sciascia a Sant’Agata di Militello lo presentò e disse che quel libro era un parricidio. Voleva dire che avevo cercato di uccidere lui, come del resto avviene sempre. Dice Sklovskij che la letteratura è una storia di parricidi e di adozioni di zii. Debiti dunque sì nei confronti di Sciascia, ma la scelta di campo è stata diversa. La ricerca si inquadrava fatalmente sulla linea verghiana, gaddiana, pasoliniana della sperimentazione del linguaggio, della “disperata vitalità”, come la chiamava Pasolini. D. C’è un campo che è stato poco investigato circa la sua ricerca ed è quello del reportage. Penso a Il rito sulla morte di Rossi, o a Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, “pezzi” giornalistici che l’hanno impegnata per due decenni. Come ha fatto a scrivere reportage mentre scriveva La ferita e poi Il sorriso? R. Mi sembravano due scritture diverse, della restituzione di una realtà immediata nel modo più originale la prima, senza però arrivare allo stile sciatto giornalistico, dando significati altri alla cronaca raccontata. Quando Sciascia stava facendo l’antologia sui narratori di Sicilia con Guglielmino pensava di mettere un mio brano della Ferita, ma quando lesse il racconto su Carmine Battaglia lo scelse perché gli sembrò più consono come sigillo di una certa realtà siciliana. D. A me piacerebbe davvero fare chiarezza sui suoi debiti perché non si è capito se sia figlio di Sciascia o di Vittorini. È un fatto che, per quanto sia stata importante per lei l’Odissea, a un certo punto dice che ci è arrivato attraverso Vittorini e non Sciascia. E allora mi chiedo chi è il suo padre putativo. Sembra amare di più Sciascia, ignora Vittorini in Di qua dal faro ma in verità ha ben conosciuto Vittorini e lo ha molto osservato. R. Dunque. A proposito di parricidi, nella Ferita ho fatto morire all’inizio il padre dell’io narrante e ho adottato uno zio che poi è diventato padre avendo impalato la madre del ragazzo. Poi faccio morire anche questo patrigno. Io sono figlio di tanti padri che poi regolarmente cerco di uccidere. Certo, Vittorini l’ho ignorato nei saggi perché Vittorini mi interessava per certe sollecitazioni di tipo teorico che lui dava circa la concezione letteraria. Sciascia, a una seconda lettura di Conversazione in Sicilia, dice di essere rimasto deluso, e lo capisco perché il libro è contrassegnato da una forte implicazione di tipo rondista con innesti di americanismo. Però è vero che per la prima volta appariva nella letteratura siciliana il movimento, l’atteggiamento attivo nei confronti della storia, la fuoriuscita dalla stasi verghiana, insomma una grande lezione per me quella del movimento. D. Lei ha fatto la stessa cosa che ha fatto Vittorini e che racconta in un’intervista a Giuseppe Traina: ha disegnato per Il sorriso la carta topografica di Cefalù, vicolo per vicolo, come Vittorini fece con la Sicilia per Le città del mondo. R. Già. Un modo per entrambi di essere più siciliani possibile, più precisi e acribitici. D. In Un giorno come gli altri lei pone una questione non risolta: quella della scelta tra lo scrivere e il narrare, dove scrivere significa cambiare il mondo e narrare soltanto rappresentarlo, secondo una definizione di Moravia. È importante quel racconto perché segna la sua scesa in campo politico. E lei dice che è meglio scrivere. R. Pensavo che la scrittura di tipo comunicativo-razionalistica avesse più incidenza che quella di tipo espressiva che io praticavo e che chiamo “il narrare”, implicata com’è con lo stile e la ricerca lessicale. Lo stile non ha impatto con la società e il movimento è dal lettore verso il libro, mentre in quella comunicativa il movimento è al contrario. I libri di Sciascia hanno fatto capire cos’era la mafia, Moravia ha fatto capire cos’era la noia durante il fascismo. La scrittura espressiva ha un destino diverso, com’è per la poesia. La narrazione non cambia il mondo. D. Lei ha fatto una scelta a favore del coté espressivo. R. Ho organizzato la mia prosa attorno alla forma poetica, seguendo un procedimento che riporta alle narrazioni arcaiche, orali, dove il racconto prendeva una scansione ritmica e mnemonica. D. Vediamo la vicenda sotto un altro aspetto. Lei e Basilio Reale, entrambi messinesi, avete avuto uguali trascorsi: a Milano insieme e nello stesso periodo, però lei va verso la prosa mentre lui verso la poesia. E si chiede come succeda questo fenomeno. R. Lo trovo infatti inspiegabile. D. Mentre poi dice di essere più votato alla poesia quando Reale ha dato poi prova di essere buon prosatore. R. Se parla delle sue Sirene siciliane, siamo di fronte a strumenti psicoanalistici. Io non so perché uno nasce con la tendenza verso la musica e un altro verso la pittura. Con Reale ci siamo incontrati all’università di Milano giovanissimi. A Messina non ci eravamo mai visti. Quando ci siamo conosciuti c’era un altro confrére, Raffaele Crovi che frequentava Vittorini più da vicino. Mi raccontava Ginetta Varisco, che ho frequentato dopo la morte di Vittorini, che Crovi veniva da uno strato sociale povero e quando andava a casa loro Elio le diceva “Cucina molta pasta perché questi ragazzi hanno molta fame”. D. I suoi libri sono giocati in forma autobiografica. Il Petro Marano che lascia la Sicilia o il Gioacchino Martinez che viene in Sicilia sono sempre trasposizioni di sé. È sempre stato lei, sin dai reportage; e non ha parlato che di sé. R. Sì, ma in maniera molto mascherata. La mia esperienza personale mi serve come chiave di lettura della realtà e del momento storico che vivo. Ma nel Sorriso ci sto poco. Sciascia vi vedeva più Piccolo che me. D. Verga e Pirandello, anche loro andati via, sono però riusciti a scrivere di Milano, Roma e di salotti borghesi. Mentre lei, Sciascia, ma anche Vittorini, pur stando fuori non siete riusciti che a scrivere sempre della Sicilia. E c’è un motivo: perché bisogna conoscere il linguaggio e averne memoria, come ha osservato lei stesso. R. Di Milano io non so fare metafora mentre della Sicilia sì. Di Milano posso restituire una cronaca, l’ambiente vissuto da studente, mentre la Milano che ho vissuto dopo mi serve per leggere meglio la Sicilia e creare paralleli tra questi due mondi antitetici e opposti. Non sono caduto in crisi come Verga, se mi è permesso: vivendo in questa realtà milanese non mi sono ripiegato verso l’infanzia dorata. Ho scoperto invece un’altra Sicilia, quella più vera e infelice, la continua ingiustizia e perdita e smarrimento dell’identità. I miei libri sono contrassegnati da questa spinta a varcare la soglia della ragione per andare nella terra dello smarrimento. Vittorini dal canto suo ha scritto su temi non siciliani i libri meno riusciti, così come Verga ha scritto Per le vie che sono le novelle meno felici. Io di argomento non siciliano ho scritto solo qualche racconto come Porta Venezia. D. E’ dunque d’accordo che si può staccare un siciliano dalla Sicilia ma non si può staccare la Sicilia da un siciliano? R. Certo. Nel bene e nel male non si può strappare la Sicilia a un siciliano. D. Ma c’è un ultimo Consolo smaniato da intenti umoristici. Nerò metallicò ne è un esempio. R. Di più c’è forse Il teatro del sole. E’ il rovescio del tragico. Musco a chi dice “Domani il sole illuminerà il cadavere di uno dei due” domanda “E si chiovi?”. E se piove? D. Lei ha riflettuto lo stesso sentimento di Vittorini quando davanti al mondo industriale capiva di poter raccontare solo quello contadino. Le città del mondo nasce da questo stato d’animo. R. Vittorini aveva creduto generosamente in un’utopia. Pensava che l’industrializzazione della Sicilia fosse possibile. Aveva avuto l’esempio olivettiano dell’industria a misura d’uomo e riteneva che la scoperta da parte di Mattei del petrolio risvegliasse finalmente i siciliani. Ed ecco nelle Città del mondo i contadini a cavallo che convergono al centro della Sicilia. Ma la realtà ha infranto la sua mitizzazione. Gli esiti li abbiamo visti. Gela, Augusta, Priolo, obbrobriosi e nefasti. Ecco cosa ne è stato dell’industrializzazione della Sicilia. Ci fu una polemica tra Sciascia e un giornalista dell’Avanti: Sciascia, che scriveva su L’Ora, aveva cominciato ad avanzare dubbi sull’ industrializzazione e il giornalista gli contestò la mancanza di ottimismo concludendo “Benedetti letterati”. E Sciascia rispose: “Adesso si vede che anche loro, i socialisti, hanno la facoltà di benedire, come i democristiani”. Vittorini avrebbe voluto che la Sicilia uscisse dalla condizione di inferiorità e di soggezione incamminandosi verso un mondo di progresso. Non credeva nei dialetti individuali ma nella commistione delle lingue, ma non sapeva che gli immigrati siciliani a Torino la sera uscivano per imparare il piemontese e mimetizzarsi. D. Se lo sguardo di Vittorini è utopico, il suo è nella trilogia certamente molto amaro. R. Ero più avveduto e avevo gli strumenti per esserlo. Avevo constatato la realtà qual era. Io mi direi, ricordando Eco, un apocalittico realista, avendo visto la realtà italiana dal dopoguerra ad oggi: una continua deriva verso i valori più bassi di un mondo che non accetto sotto nessun punto di vista.
Sesto di otto figli, nacque a Sant’Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio 1933, da Calogero (1898-1962) e Maria Giallombardo (1900-88).
Il padre, commerciante alimentare e poi piccolo imprenditore con la nascita della ditta ‘Fratelli Consolo Cereali’ nel 1939, trasmise al figlio i tratti di un’etica rigorosa, dimostrata anche contro la mafia, la quale nell’immediato dopoguerra veniva organizzando in tutta la Sicilia il controllo delle attività economiche.
Anche evocando il celebre testo di Luigi Pirandello sulla propria nascita nella contrada del Caos, Consolo ricordò i luoghi d’infanzia, le sue origini e la sua prima educazione nel romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile (Milano 1963), dedicato «con pudore» a suo padre, scomparso proprio in quell’anno.
Iniziava una progressiva centralità della Sicilia nella sua personalità di uomo e di scrittore, di intellettuale al bivio tra saggistica e letteratura, in una contaminazione di ‘generi’ che ha sempre distinto le sue pagine e che trova in Leonardo Sciascia, maestro dell’ibridismo, un decisivo modello.
La sua terra di origine si rivela come presenza «ossessiva», con un forte valore identitario, storico ma anche simbolico, che segna in parte il destino di uno scrittore «anfibio», tra terra e mare, tra passato e presente. Sicilia come luogo, tema, personaggio, persino struttura narrativa; quasi ad annodare, in una profonda corrispondenza e circolarità, i fili dell’amplissimo e diversificato corpus letterario dello scrittore, da La ferita dell’aprile al postumo La mia isola è Las Vegas: «tutti i romanzi, se ordinati in base alla cronologia dei fatti descritti o allusi, compongono, per momenti decisivi, una storia della Sicilia degli ultimi duecentocinquant’anni» (C. Segre, Un profilo di V. C., in V. Consolo, L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, 2015, p. XIV). Questa sicilianità «ostinata» e «implacabile» (v. G. Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, ibid., pp. XXV-LXXIV, con partic. riferimento a p. XXV) emerge spesso nella declinazione, tematica e metaforica, del viaggio, che è spostamento fisico ma anche attraversamento di tempi e luoghi, sfida all’ignoto e continua tensione verso un altrove; nella duplice direzione della partenza e del nostos che richiama il grande archetipo omerico, l’Odissea, il «poema in cui per la prima volta si apre davanti ai nostri occhi lo spazio mediterraneo» (Lo spazio in letteratura, in Di qua dal faro, poi in L’opera completa, cit., p. 1239). Eppure, «nella modernità, le colpe non sono più soggettive, ma oggettive, sono della storia. I mostri non sorgono più dal mare, dalla profondità del subconscio, ma sono mostri concreti, reali, che tutti noi abbiamo creato […] Itaca non è più raggiungibile. Questo, secondo me, lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare» (in V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999, p. 22). Nel tragico confronto tra passato mitico e desolato presente, la sua terra gli appare aver perso tutti i connotati di un approdo. Si ripropone la sofferta diaspora, e il doloroso ritorno, degli scrittori meridionali; la «dolorosa saggezza» e la «disperata intelligenza» di cui Consolo ragiona ne Le pietre di Pantalica, come declinazione personale del paradigma della «intelligenza siciliana» di Vitaliano Brancati. Non è un caso se nel laboratorio della scrittura, oltre alla lezione di Italo Calvino o Cesare Pavese, affiora il realismo lirico-fantastico di Elio Vittorini o la prosa di cose di Giovanni Verga, Federico De Roberto, ma anche Pirandello.
Gli anni della guerra per il giovanissimo Vincenzo trascorsero relativamente tranquilli fino al 1943, quando gli americani, in preparazione dello sbarco, diedero avvio a massicci bombardamenti che coinvolsero la zona di Sant’Agata, sulla linea strategica Messina-Palermo, e che costrinsero la famiglia Consolo a ‘sfollare’ in campagna, nella contrada di Vallebruca. Dopo le scuole medie all’istituto salesiano Guglielmo Marconi, l’assenza di scuole pubbliche di grado secondario lo condusse nel 1947 al primo allontanamento da casa, per frequentare il liceo-ginnasio salesiano Luigi Valli a Barcellona Pozzo di Gotto, a ottanta chilometri da Sant’Agata. Era già chiara la sua passione per la lettura. Nelle pause scolastiche approfittava di un cugino del padre, Peppino Consolo, che possedeva una pur scarna biblioteca con alcuni classici della letteratura, da Manzoni a Hugo o Balzac, ai romanzieri russi.
Negli anni liceali si collocano i primi esercizi di scrittura, anche su suggestione di due letture che si rivelarono decisive: Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini e Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. Iniziava allora una lunga ricerca sulle lingue, anche antiche. La sperimentazione di nuovi codici, registri e linguaggi si veniva costituendo in una «ideologia» precisa e insieme fluida e mai conclusa, tradotta in racconto con I linguaggi del bosco (in Le pietre di Pantalica, poi in L’opera completa, cit., pp. 606-612).
Nell’autunno del 1952 giunse il primo trasferimento, «traumatico», a Milano, per frequentare la facoltà di giurisprudenza dell’Università Cattolica. Fu in quei primi anni universitari che conobbe Basilio Reale, l’amico Silo che lo introdusse alla casa editrice Mondadori (cfr. Sirene siciliane, Palermo 1986; poi in Di qua dal faro, cit.), e Lucio Piccolo, il «barone magico» delle Pietre di Pantalica: «grande poeta di sconfinata cultura, cugino e antagonista di Tomasi di Lampedusa. Fu lui a insegnarmi la vera letteratura, la poesia e, insieme, a farmi amare certi libri di erudizione provinciale, ottocentesca, storie, guide, cataloghi, ‘pieni di insospettabile poesia’ diceva, che furono miniere lessicali per me» (Fuga dall’Etna, Roma 1993, p. 18).
Costretto a interrompere gli studi per assolvere gli obblighi del servizio militare (dapprima a Orvieto e poi a Roma), riprese il percorso universitario nel 1957, stavolta a Messina, per laurearsi quindi nel 1960 discutendo una tesi in filosofia del diritto dal titolo «La crisi attuale di diritti della persona umana».
I PRIMI GRANDI ROMANZI
Il primo testo a stampa risale al 1957, Un sacco di magnolie, apparso a firma «Enzo Consolo» nella rivista La parrucca (poi in La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, Milano 2012, pp. 8-10) che vantava collaboratori come Umberto Eco, Giorgio Manganelli o Edoardo Sanguineti. Il suo esordio come romanziere è invece La ferita dell’aprile (cit.) che, dopo lunga gestazione, apparve nel 1963 per Mondadori nella collana «Il Tornasole» di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, con l’assistenza redazionale di Raffaele Crovi: «Mi sono ritrovato fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria» (Fuga dall’Etna, cit., p. 15). Forse anche per quella coincidenza cronologica con le spinte avanguardistiche, il romanzo quasi sfuggì all’attenzione di critica e di lettori. Suscitò invece l’interesse di Sciascia, al quale Consolo aveva inviato il libro allegando una lettera nella quale gli dichiarava il suo debito come scrittore. Era l’inizio di una salda e duratura amicizia, alla quale Consolo dedicò numerose pagine, molte delle quali raccolte nella sezione Intorno a Leonardo Sciascia del volume Di qua dal faro (cit., pp. 1161-1184).
La ferita dell’aprile, «poemetto narrativo» da leggersi anche come Bildungsroman autobiografico, costituisce un unicum nella carriera dello scrittore. Nel racconto della vita di un paese siciliano e delle lotte politiche del dopoguerra, la narrazione in prima persona (di cui Consolo non usufruì nei romanzi successivi) è impostata cronologicamente come diario di un anno scolastico e mette in scena i turbamenti dell’uscita dall’infanzia, nell’intreccio tra vicende personali dei protagonisti e storia d’Italia.
Sin dall’esordio emerge con forza, nella scrittura, quella centralità della parola che ha connotato fortemente l’intera sua produzione, fino a consacrarlo come ‘autore difficile’, ‘enigmatico’: «Mi ponevo […] sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’impasto linguistico» (in Adamo, 2006, p. 183).
L’attento lettore e saggista seguiva da vicino il dibattito sulla letteratura contemporanea. A segnare profondamente quella stagione fu anche la pubblicazione in Rinascita, del noto saggio di Pasolini, Nuove questioni linguistiche, apparso nel dicembre 1964, alla vigilia della pubblicazione del primo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, e anche della stesura di Il pane (1964), dei racconti Grandine come neve, Befana di novembre (1965) e Triangolo e Luna (1966), poi inclusi in La mia isola è Las Vegas (cit.).
Nel 1964 prese a scrivere per L’Ora di Palermo, giornale allora diretto da Vittorio Nisticò; era l’inizio di una lunga collaborazione che lo impegnò fino al 1975 e poi ancora dal 1977 al 1991, e che vide Consolo anche titolare di una rubrica di successo, «Fuori casa», inaugurata nel dicembre 1968. Nel racconto Per un po’ d’erba ai margini del feudo (in L’Ora, 16 aprile 1966, poi incluso da Sciascia nell’antologia Narratori siciliani curata per Mursia insieme con Salvatore Guglielmino), forte anche della lettura del fortunato saggio di Hans Magnus Enzensberger Letteratura come storiografia (in Il Menabò, 1966, n. 9), inaugurava un nuovo modo narrativo, fondato sull’intreccio tra fiction e storia, racconto e documenti, che avrebbe poi preso corpo nel suo maggiore romanzo.
Nello stesso 1966 si collocano per Consolo viaggi significativi: uno nella valle del Belice, che torna nel racconto del 1984, Il drappo rosso con le spighe d’oro, e la trasferta a Parigi con Sciascia, il quale nello stesso 1966 aveva dato vita al premio Brancati di Zafferana Etnea coinvolgendo, oltre ad Alberto Moravia, Dacia Maraini e Pier Paolo Pasolini, anche i siciliani Ignazio Buttitta, Lucio Piccolo e naturalmente Consolo.
Nel 1967, l’anno nel quale Pasolini pubblicava in Nuovi Argomenti la prosa poetica di Lucio Piccolo L’esequie della luna da cui nacque lo spunto per Lunaria, Consolo vinse un concorso per la RAI. Interruppe quindi l’insegnamento nelle scuole secondarie di secondo grado e, nel gennaio 1968, prese servizio presso la sede di Milano. Era un trasferimento destinato a essere definitivo, che segnò la vita e l’opera dello scrittore. Ad accoglierlo in azienda fu, tra gli altri, Caterina Pilenga, che aveva apprezzato il suo poco noto romanzo La ferita dell’aprile e che divenne compagna della vita, e moglie con rito civile dal 1986.
Quel trasferimento, in quel «momento di acuta storia», per l’acceso dibattito politico e culturale e per il duro conflitto sociale, fu una decisiva cesura, uno snodo sul quale spesso Consolo avrebbe riflettuto, non senza ripensamenti. Era una declinazione tragica del tema del contrasto di dimensione spazio-temporale, la sua protesta contro luoghi e tempi rispetto ai quali si sarebbe spesso sentito estraneo: la Milano di allora, l’«attiva, mercatora» città, e in particolare la RAI, «completamente ipotecata dal potere politico, dalla mafia partitica».
Pur mai rinunciando al suo carattere anarcoide, che lo portò non di rado ad aperte contestazioni, quella del servizio pubblico televisivo fu in effetti una postazione privilegiata per penetrare il paesaggio della letteratura contemporanea che Consolo lettore e critico ben conosceva; in una posizione insieme scomoda ma anche centrale di giornalista, che rivive nel personaggio Antonio Crisafi del racconto La pallottola in testa (poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 157-162).
Stabilitosi a Milano, Consolo prese a frequentare la casa sui Navigli della compagna di Vittorini, Ginetta Varisco, un cenacolo culturale animato tra gli altri da Carlo Bo, Italo Calvino, Paolo Volponi e Salvatore Quasimodo. Intanto lesse, destinati a incidere il suo percorso di scrittura, Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, pubblicato in Nuovi Argomenti, e Appunti sulla narrativa come processo combinatorio di Calvino, apparso in ‘Nuova Corrente’.
In quel ‘caldo’ 1968 aveva anche inviato a Paragone, la rivista diretta da Roberto Longhi e Anna Banti, un racconto intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio: si trattava del primo capitolo del futuro capolavoro, che tuttavia non venne accolto dalla rivista e apparve in Nuovi Argomenti, per volontà di Enzo Siciliano, nell’ultimo numero della stessa annata.
Nel 1975, dopo il rallentamento subìto negli anni precedenti, l’attività giornalistica s’intensificò. Nell’autunno del 1976 Consolo iniziò a collaborare anche con La Stampa e Il Corriere di Sicilia; dal dicembre 1977 con il Corriere della sera e, dal 1980, col Messaggero. Era un lavoro che non solo non si interruppe ma che, attraverso l’impegno profuso in numerosi quotidiani e periodici, anche stranieri, si prospettò infine come possibile impegno esclusivo: «Ho cercato di lasciare Milano nel 1975, perché non volevo più scrivere, non volevo più fare lo scrittore […]. Mi sono detto ‘farò il giornalista a vita’, perché mi sembra importante fare il giornalista, soprattutto in una città di frontiera com’era Palermo a quell’epoca» (in Pintor, 2006, p. 252).
Era la vigilia dell’uscita del romanzo, che avrebbe fatto conoscere Consolo al grande pubblico. Nell’autunno del 1975, infatti, all’insaputa dell’autore, apparve l’edizione Manusè del Sorriso dell’ignoto marinaio, per interessamento della compagna Caterina e di Sciascia, con un’acquaforte di Renato Guttuso. Dopo diverse proposte editoriali, e con un crescente interesse di pubblico e di critica, il romanzo apparve in versione definitiva nel 1979 per Einaudi, la casa editrice con la quale collaborava dal 1976 su proposta dell’amica Elsa Morante e dello stesso Giulio Einaudi; mentre già si diffondevano le traduzioni e mentre la RAI commissionò un progetto (mai realizzato) di sceneggiatura allo stesso Consolo e al regista Salvatore Maira.
Il romanzo richiama nel titolo il sorriso enigmatico raffigurato nel Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. L’intreccio prende corpo intorno a tre elementi, che si fanno nuclei narrativi: il fascino esercitato dalla preziosa tavoletta pittorica ammirata già nell’estate del 1949 presso la Casa-museo Mandralisca; l’interesse per la storia della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, innescata dall’arrivo di Garibaldi; l’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle isole Eolie ammalati di silicosi. Ne vien fuori una complessa architettura narrativa, più volte letta come anti-Gattopardo; pur con moduli espressivi e pur da postazioni ideologiche e artistiche molto differenti, al centro di entrambi i romanzi è la Sicilia percorsa dai moti risorgimentali, liberata (o occupata) dai Mille. In tale prospettiva, Il sorriso può intendersi come epigono della tradizione del racconto storico siciliano per ridisegnare l’epopea risorgimentale sullo sfondo del quadro storico-sociale negli anni dello sbarco garibaldino: una tradizione «sempre critica, antirisorgimentale», che da Verga, attraverso De Roberto e Pirandello, arrivava a Sciascia e Tomasi di Lampedusa. La complessità strutturale e stilistica giustifica la lunga gestazione del testo. La trasposizione del tempo storico all’immediato presente, la riflessione sulla lingua e la stessa tessitura linguistica, impastata di dialetti e gerghi tecnici, sembrano confermare la natura più autentica della narrativa di un autore che, sul modello di Zola, «abdica, per così dire, alla sua condizione di letterato per divenire intellettuale, ‘politico’» (Letteratura e potere, [1979], in Di qua dal faro, cit., p. 1168); la decisione di «non scrivere in italiano» era una forma di «ribellione alle norme» e alla storia, una «uccisione del padre» (in Sinibaldi, 1988, p. 12).
Nella contaminazione tra inserti documentari e narrazioni d’autore, in una costante sovrascrittura per la quale è stata richiamata la tecnica chirurgica del «trapianto» (O’ Connell, 2008, p. 165), il romanzo evoca le sperimentazioni novecentesche, il pastiche gaddiano o lo sperimentalismo pasoliniano, pur con una declinazione personalissima, a tratti neobarocca; in una raffinatezza strutturale, di carattere anche simbolico, che si rivela in una «costruzione a chiocciola», concentrica e labirintica, sulla quale ha insistito un fortunato saggio di Cesare Segre (Segre, 1987). A sostenere questo complesso impianto è, però, anche la grande tradizione del romanzo storico, e naturalmente il suo primo modello, il Manzoni dei Promessi sposi e della Storia della colonna infame.
Continuava intanto l’attività di scrittura come protesta e insieme documento, in quei caldi ‘anni di piombo’, di attentati e inchieste, che Consolo tradusse anche in racconto nel riuscito Un giorno come gli altri (1981) inserito poi da Enzo Siciliano nel «Meridiano» dei Racconti italiani del Novecento.
GLI ANNI OTTANTA E IL DITTICO BAROCCO DI LUNARIA E RETABLO
Anche sull’onda del successo del Sorriso, negli anni Ottanta Consolo intensificò l’attività di scrittura nella ricerca di nuove forme espressive, come mostra l’ampio ventaglio di progetti ai quali lavorò: un singolare romanzo giallo, Morte del giardiniere (1981); un libro saggistico sul Movimento indipendentista siciliano (1981); l’ipotesi di una sceneggiatura sulla vita di Giovanni Pascoli, alla quale si dedicò a Roma nel 1982 con Vincenzo Cerami per un film che avrebbe dovuto esser realizzato da Marco Bellocchio; il progetto di una inchiesta su una vicenda criminale degli anni Cinquanta (i frati estorsori di Mazzarino, primo nucleo narrativo di Le pietre di Pantalica); la traduzione, insieme con Dario Del Corno, di Ifigenia fra i Tauri di Euripide, che andò in scena nel 1982 al Teatro antico di Siracusa.
Nel novembre 1983 discusse con l’allora giovanissimo regista Roberto Andò il progetto di un testo teatrale tratto dal citato poemetto in prosa di Lucio Piccolo, Le esequie della luna; ne nacque invece Lunaria, favola teatrale ambientata nella Palermo settecentesca che apparve nei «Nuovi Coralli» di Einaudi (Torino 1985) e che gli valse il premio Pirandello.
La scrittura degli anni Ottanta sembra, almeno in parte, allontanarsi dalle ardite sperimentazioni formali e linguistiche del Sorriso. Tanto Lunaria (cit.) quanto Retablo (Palermo, 1987) sembrano aprirsi a forme più distese, costruite su vicende ambientate in un Settecento colmo di riferimenti storici e insieme estraneo a documentazioni rigorose, con una libertà di invenzione che mancava alle opere precedenti.
Nella profonda tensione etica, la scrittura si sarebbe liberata dallo scavo della realtà autobiografica e storica proprio con Lunaria, che può anche leggersi come semplice allegoria della solitudine dello scrittore. Nella Palermo settecentesca si muove il malinconico Viceré Casimiro, che sogna la caduta della luna, turbato da fantasmi di una diversa realtà, in una visione che si fa presagio che s’invera. Con un’apertura della prosa verso la poesia, quella poesia alla quale pure Consolo si dedicò (Accordi. Poesie inedite di V.C., a cura di F. Zuccarello – C. Massetta Milone, S. Agata di Militello 2015), ‘Lunaria’ vira decisamente in direzione del fantastico, ma anche del conte philosophique, che però attinge alla fortunata tradizione popolare del cuntu, come anche alle suggestioni del teatro barocco, Calderón de la Barca in testa (cfr. Di Legami, 1990, p. 28). Nel giugno 1986 l’opera andò per la prima volta in scena, a Roma, con la Cooperativa Quarta espressione, costituita da giovani diplomati dell’Accademia drammatica Silvio d’Amico.
Si moltiplicava, intanto, la rete di relazioni significative (da José Saramago ad Alberto Moravia), mentre proseguiva con Sciascia una salda amicizia, che lo spinse a pubblicare un articolo (Difficile mestiere scrivere da uomo libero, in Il Messaggero, 27 gennaio 1987), in difesa dello scrittore di Racalmuto travolto dalle polemiche suscitate da I professionisti dell’antimafia, apparso nel Corriere della sera il 10 gennaio 1987.
In seguito all’insistente invito di Elvira Sellerio, nell’estate del 1987 Consolo raggiunse Palermo per lavorare a Retablo, che apparve (dopo l’anticipazione di alcuni capitoli in la Repubblica) nell’ottobre 1987, con cinque disegni di Fabrizio Clerici. Retablo riscosse grande successo di pubblico e gli valse il premio Grinzane Cavour e il premio Racalmare. Nel 1997 Sebastiano Romano ne realizzò una lettura scenica a Milano, nella chiesa sconsacrata di San Paolo Converso, per la regia di Richi Ferrero e dello stesso Romano. Una versione teatrale, scritta da Ugo Ronfani, andò in scena nel 2001 al teatro stabile di Catania e poi a Milano.
L’opera segna per molti aspetti uno snodo all’interno della produzione di Consolo che, sensibile agli esiti della narrativa italiana e straniera (da Calvino a Manganelli, da Perec a Borges), pone al centro della narrazione romanzesca una stringente interrogazione sulla scrittura. Nella reiterata sovrapposizione tra storia e invenzione, persone e personaggi, Retablo, che richiama l’arte pittorica sin dal titolo, segue le vicende di un intellettuale e artista in fuga da Milano verso la Sicilia alla ricerca della matrice culturale e umana della donna che ama, Teresa Blasco (nella storia, la madre di Giulia Beccaria). Intorno al protagonista-pittore si dipana un intreccio tra letteratura e arti visive, ormai divenuto centrale nella scrittura di Consolo (Cuevas, Ut pictura: el imaginario iconografico en la obra de V. C., in Cuevas, 2005, pp. 63-77); fino a una immaginazione visiva che punta sulla centralità dei luoghi, in una personale geografia esistenziale. Retablo infatti è costruito sul modello odeporico, che richiama, per rinnovarla, la tradizione dei racconti del Grand Tour oltre che del modello classico del nostos, che utilizzò poi anche nelle narrazioni successive, nella opposizione geostorica Milano-Sicilia.
Il 1989 segnò per Consolo il ritorno alla forma tragica, con un testo redatto insieme con gli amici Gesualdo Bufalino e Leonardo Sciascia, Trittico appunto, andato in scena al teatro stabile di Catania il 3 novembre 1989 per la regia di Antonio Calenda (poi in volume, Catania 1989). L’atto unico di Consolo, Catarsi, si accompagnava a La panchina di Bufalino e a Quando non arrivarono i nostri, rielaborazione drammaturgica di una novella di Sciascia.
LA TRILOGIA DEGLI ANNI NOVANTA
La sincera passione civile, declinata spesso nel segno della protesta, non si tradusse mai nella partecipazione attiva alla politica – nonostante i ripetuti inviti a una sua candidatura avanzati dal Partito comunista italiano (PCI) di Achille Occhetto – ma certo animò la sua scrittura, nella battaglia ingaggiata tra le parole e le cose. All’indomani dell’assassinio del giudice Rosario Livatino, il 21 settembre 1990, in un acceso clima di rivendicazioni e polemiche, decise di dimettersi dalla giuria del premio Racalmare, che intanto era stato intitolato a Sciascia, scomparso l’anno precedente.
È nel segno di questa protesta che si inserisce anche lo studio e il racconto della Sicilia, che Consolo continuava a osservare e denunciare: l’isola tra mito e storia, la terra dalla quale idealmente non riuscì mai a separarsi, sul piano intellettuale e artistico, eppure nella quale non tornò mai a vivere. È in questa prospettiva che può leggersi quella che sembra configurarsi quasi come trilogia: Nottetempo, casa per casa (Milano 1992), L’olivo e l’olivastro (ibid. 1994) e Lo spasimo di Palermo (ibid. 1998), sotto il segno del definitivo tramonto dell’utopia, nell’accentuazione di una dimensione simbolica della storia e della realtà.
Dopo una serie di ritratti di scrittori lombardi realizzati in RAI nel 1991 con il titolo Tracciati (Piero Chiara, Carlo Emilio Gadda, Lucio Mastronardi, Ada Negri, Vittorio Sereni, Delio Tessa e Giovanni Testori), nel 1992 Nottetempo, casa per casa (cit.), che fu insignito con il Premio Strega, rappresentò un ritorno al romanzo storico, come già forse, in parte, Le pietre di Pantalica (Milano 1988), stratificato e multigenere, la cui struttura tripartita (Teatro, Persone, Eventi) rimandava ancora una volta al teatro.
Al progetto narrativo di Nottetempo Consolo lavorava almeno dalla fine degli anni Sessanta, quando aveva cominciato a raccogliere materiali e documenti sul risorgimento in Sicilia, sulla strage di Alcàra Li Fusi e sulla Cefalù degli anni Venti alle prese con il controverso caso del “santone” Aleister Crowley. L’opera sembra segnare il secondo tempo di una ideale lunga storia della Sicilia, una fase successiva al Risorgimento del Sorriso e precedente agli anni Novanta di Lo spasimo di Palermo (1998). «In Nottetempo ho voluto far vedere come il fascismo fosse figlio della follia, la follia privata del protagonista e quella pubblica della Storia, il ricorso al satanismo che voleva distruggere il cristianesimo di una società malata: tutti segni oscuri e premonitori, come quelli che vediamo oggi con il ritorno a queste ridicole forme di esorcismo, questi fondamentalismi, questi revanscismi» (in Parazzoli, 1998, p. 28).
Continuava la sua forte militanza civile: le proteste contro l’elezione di Formentini a sindaco di Milano, o le dimissioni, all’indomani della nomina, il 10 settembre 1993, dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione del teatro stabile di Palermo, in polemica con il direttore artistico Pietro Carriglio, ritenuto «intellettuale organico alla DC di Salvo Lima».
Questa forte militanza proseguì con maggiore libertà dopo il suo collocamento in pensione dalla RAI, nel 1993. In seguito alla vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni politiche, Consolo aderì al Forum Manifesto democratico 1994, promosso da Cesare Segre, Raffaele Fiengo e Corrado Stajano. Intanto, il 25 giugno di quell’anno partecipò a un dibattito coordinato da Renato Nisticò da cui sarebbe nato il testo Fuga dall’Etna (cit.), nuova testimonianza di una sicilianità che trovò riconoscimento anche nella cittadinanza onoraria di Cefalù, cui seguì, nel 1996, la stessa onorificenza da parte del Comune di Santo Stefano di Camastra. Ed è sempre la Sicilia al centro del volume del 1994, L’olivo e l’olivastro, che nel consueto superamento dei confini di ‘generi’ compiuto da Consolo, nell’intreccio tra poesia e prosa, narrazione e saggismo, che per alcuni richiama l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, si presenta come graffiante narrazione di viaggio. Il doloroso ritorno di Odisseo-Consolo verso l’Itaca-Sicilia è «un viaggio in verticale, una discesa negli abissi». Come Retablo, anche L’olivo e l’olivastro conduce il lettore attraverso la Sicilia di un presente degradato, che si confronta con il passato mitico.
Nel dicembre dello stesso 1994 ricevette per il complesso della sua opera narrativa e saggistica il premio internazionale Unione Latina da una giuria composta, tra gli altri, da José Saramago, Jorge Amado, Luigi Malerba.
In questi anni Novanta la presenza internazionale di Consolo si andò rafforzando. Nel 1995, su invito dell’allora presidente Salman Rushdie, divenne membro del Parlament international des écrivains (PIE) di Strasburgo. Tra dicembre 1995 e gennaio 1996 a Parigi andò in scena La crèche de Sicile, rappresentato anche a Palermo l’anno dopo. Il 15 febbraio 1996 il ministro della Cultura francese Philippe Douste-Blazy lo nominò chevalier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Ormai anche socio onorario dell’Accademia di Brera, nel 1996 fu inoltre in Argentina con una delegazione di scrittori italiani, su invito dell’Università di Buenos Aires; seguirono quindi viaggi a Strasburgo, Santiago del Cile e nella Bosnia-Erzegovina della guerra.
Alla Sicilia continuano a essere dedicate anche le sue opere mature. Il 19 giugno 1998 venne eseguita al teatro Verdi di Firenze, l’Ape iblea. Elegia per Noto, musicata da Francesco Pennisi (poi, insieme con Catarsi, raccolto nel volume Oratorio, Lecce 2002). Pochi mesi dopo apparve il suo ultimo romanzo, Lo spasimo di Palermo (Milano 1998) che, riprendendo elementi de La ferita dell’aprile, segna come un ritorno all’autobiografismo. La vicenda si svolge nell’anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, i tragici fatti del 1992 ai quali Consolo aveva già dedicato un testo-adattamento della Messa di requiem di Verdi: Dies irae. Requiem da questa Palermo (poi Requiem per le vittime della mafia), eseguita con musiche di vari artisti nella Cattedrale di Palermo il 27 marzo 1993. La vicenda del protagonista-scrittore Gioacchino Martinez e del suo nostos ai luoghi dell’infanzia e giovinezza riscosse grande successo di pubblico e di critica (premio Monreale per la narrativa nel 1998; nonché, l’anno successivo, insignito con il premio Flaiano e il premio Brancati).
La Sicilia è ancora protagonista dell’ampia raccolta di saggi per la quale ipotizzava il titolo Pane di zolfo o Per nascente solfo, che apparve invece con il titolo Di qua dal faro (Milano 1999; premio Nino Martoglio e premio Feronia). Ed è ancora alla cultura popolare isolana che si consacra una sua riscrittura delle Fiabe siciliane raccolte nel 1868-69 dall’etnologa siculo-svizzera Laura Gonzenbach (Roma 1999).
IL SILENZIO DELLO SCRITTORE
Gli ultimi anni di vita sono segnati per Consolo da una dolorosa afasia artistica, che si manifesta come ulteriore declinazione dell’impegno, nella presenza-assenza al suo tempo e nella difficile condizione di un intellettuale «solo perché libero» (Letteratura e potere, cit., p. 1172). Nel marzo 2000 partecipò a una conferenza in difesa di Adriano Sofri, organizzata dal citato PIE con Christian Salmon, Jacques Derrida, Jacqueline Risset e Antonio Tabucchi. Il mese successivo firmò la sua adesione al Manifesto in difesa della lingua italiana promosso tra gli altri da Luigi Manconi, Aldo Masullo, Vittorio Sermonti, nella convinzione che l’Italia «ha perso memoria di sé, della sua storia, della sua identità», e che «l’italiano è divenuta un’orrenda lingua, un balbettio invaso di linguaggi che non esprimono altro che merce e consumo» (Il lungo sonno della lingua, in Il Corriere della sera, 6 giugno 2000).
Dopo esser stato in Francia ospite d’onore dell’Académie française al Prix Italiques, dove lesse la relazione La patria immaginaria, (poi con il titolo I Vespri, i paladini e la patria immaginaria, in Stilos, 1° maggio 2001), nel 2002 si trovò a esprimere per motivi politici – insieme con Umberto Eco e Antonio Tabucchi – il suo rifiuto alla partecipazione al Salon du livre di Parigi come componente della delegazione ufficiale italiana. Nello stesso anno si recò in Palestina con il PIE, per consegnare un appello di pace ad Arafat (cfr. Madre coraggio, poi in La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 195-200) e firmò anche un Manifesto contro la islamofobia, che sarebbe stato presentato poi alla Fundación de cultura islámica di Madrid il 30 gennaio 2007.
Intanto, era ascoltato, letto e studiato all’estero: nel 2002 tenne un ciclo di conferenze negli Stati Uniti, mentre si avvicendavano convegni e volumi a lui dedicati: Siracusa, Siviglia e tre convegni all’Università di Valencia per iniziativa di Irene Romera Pintor, traduttrice di opere consoliane. Con il convegno Éthique et écriture tenuto il 25 e 26 ottobre 2002, con la direzione di Dominique Budor (ed. in volume, Parigi 2007), l’Università Sorbonne di Parigi dedicava per la prima volta un convegno a uno scrittore vivente.
Nel 2003 l’Università di Roma «Tor Vergata» gli conferì la laurea honoris causa in lettere: pronunciò una lectio magistralis (La metrica della memoria) che riprendeva una fortunata relazione del 1996. Nello stesso anno, dal Ministère de la culture et de la communication francese, fu insignito del grado di officier dans l’Ordre des Arts et des lettres. Una seconda laurea honoris causa, in filologia moderna, gli venne conferita, insieme con Luigi Meneghello, da parte dell’Università di Palermo nel 2007.
Mentre proseguivano le edizioni di romanzi e raccolte di saggi in Europa, negli Stati Uniti e in Canada, a settembre 2004 Consolo iniziò a lavorare a una raccolta di racconti, che apparve postuma nel maggio 2012, a pochi mesi dalla morte, con il titolo La mia isola è Las Vegas, a cura di Nicolò Messina. Dichiarava intanto di lavorare al suo ultimo romanzo, Amor sacro e amor profano, del quale però nell’Archivio Consolo non sono state rinvenute carte.
Nel 2010 Consolo avrebbe dovuto introdurre un’opera di Roberto Saviano (La parola contro la camorra, DVD, Torino 2010) ma, risentito per alcune non condivise dichiarazioni letterarie e politiche del giovane autore, ritirò il suo testo.
Mentre dunque Consolo testimoniava la sua presenza nel segno della denuncia, e spesso del rifiuto, si moltiplicavano le trasposizioni delle sue opere letterarie. Erano transcodificazioni, da intendersi anche come viaggio dei testi, che rispondevano a specifici interessi di un intellettuale sempre attento ai diversi linguaggi artistici, in particolare alla pittura – che tanto attraversava la sua scrittura –, al teatro e soprattutto al cinema, consumato quest’ultimo come rito collettivo, come rievoca nel racconto-saggio scritto in occasione della proiezione di Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore (Dal buio, la vita, in Di qua dal faro, cit., pp. 1179-1184). Mentre si arenava il progetto di una riduzione cinematografica dello Spasimo di Palermo, proseguivano adattamenti teatrali delle sue opere. Dopo la versione di Retablo al teatro stabile di Catania, per la stessa regia di Daniela Ardini, Ugo Ronfani scrisse nel luglio 2010 l’adattamento del Sorriso dell’ignoto marinaio, andato in scena a Genova. Al festival di Cannes dello stesso anno venne presentato il progetto cinematografico Vivre ou rien, di Maria Agnès Viala e Giorgio Arlorio, tratto da Lo spasimo di Palermo.
Il 5 giugno del 2011, nonostante fosse affetto da un tumore in stadio avanzato, Consolo si recò personalmente a Ostana (Cuneo) per ricevere il premio Lenga Maire, dedicato alle scritture in lingue minoritarie. Teneva molto al premio, che riconosceva il suo impegno per far rivivere lingue marginali e in via di estinzione.
Morì poco dopo, a Milano, il 21 gennaio 2012. Rifiutando cerimonie pubbliche in fede alla volontà dell’Autore, la moglie Caterina fece celebrare le esequie a Sant’Agata di Militello il 23 gennaio, dove fu seppellito nella cappella di famiglia.
OPERE
Gran parte dei volumi editi sono ora raccolti nel «Meridiano» L’opera completa, a cura di G. Turchetta con un profilo di C. Segre, Milano 2015, da cui si cita e cui si rimanda anche per una esaustiva bibliografia degli scritti (che include articoli, saggi in volume, traduzioni, riscritture e altri scritti sparsi), insieme con una dettagliata bibliografia critica.
Il volume comprende (nell’ordine delle prime edizioni): La ferita dell’aprile, Milano 1963; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Lunaria, ibid. 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988; Nottetempo, casa per casa, ibid. 1992; L’olivo e l’olivastro, ibid. 1994; Lo spasimo di Palermo, ibid. 1998; Di qua dal faro, ibid. 1999.
Ci si limita qui a segnalare i volumi non inclusi in quella edizione (anche postumi) e i saggi critici citati: Marina a Tindari. Poesie, Vercelli 1972; V. Consolo – N. Rubino, Fra contemplazione e Paradiso. Suggestioni dello Stretto, Messina 1988; Catarsi, in V. Consolo – G. Bufalino – L. Sciascia, Trittico, a cura di A. Di Grado – G. Lazzaro Damuso, Catania 1989; La Sicilia. Passeggiata, Torino 1991; Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma 1993; Neró metallicó, Genova 1994; V. Consolo – M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo, introd. di M. Corti, Milano 1999; Il Teatro del Sole. Racconti di Natale, Novara 1999; V. Consolo – F. Cassano, Lo sguardo italiano. Rappresentare il Mediterraneo, Messina 2000; Oratorio, Lecce 2002; Isole dolci del Dio, Brescia 2002; Reading and writing the Mediterranean. Essays by V. C., a cura di N. Bouchard – M. Lollini, Toronto 2006; Il corteo di Dioniso, Roma 2009; Pio La Torre, orgoglio di Sicilia, Palermo 2009; L’attesa, Milano 2010; La mia isola è Las Vegas, a cura di N. Messina, ibid. 2012; Esercizi di cronaca, a cura di S. Grassia, Palermo 2013; Accordi. Poesie inedite di V. C., a cura di F. Zuccarello – C. Masetta Milone, S. Agata di Militello 2015.
FONTI E BIBLIOGRAFIA
M. Sinibaldi, La lingua ritrovata: V. C., in Leggere, II (1988), pp. 8-15; C. Segre, Introduzione a V. Consolo, Il Sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987, pp. V-XVIII (poi in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino 1991, pp. 71-86); F. Di Legami, V. C. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; V. C., Nuove Effemeridi, VIII (1995/I), 29 (n. monografico); P. Farinelli, Strategie compositive, motivi e istanze nelle opere di V. C., in Italienisch, XXXVII (1997), pp. 38-45; F. Parazzoli, Il gioco del mondo, dialoghi sulla vita, i sogni, le memorie, Cinisello Balsamo 1998, pp. 21-33; G. Traina, V. C., Fiesole 2001; E. Papa, V. C., in Belfagor, LVIII (2003), 2, pp. 179-198; Per V. C., Atti delle giornate di studio… 2003, a cura di E. Papa, San Cesario di Lecce 2004; Leggere V. C. – Llegir V. C., a cura di M.A. Cuevas, in Quaderns d’Italià, X (2005), pp. 5-132; «Lunaria» vent’anni dopo, a cura di I. Romera Pintor, Valencia 2006; La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di V. C., a cura di G. Adamo, San Cesario di Lecce 2006; V. C. Éthique et écriture, Atti del Convegno… 2002, a cura di D. Budor, Paris 2007; L. Terrusi, L’onomastica nel «Sorriso dell’ignoto marinaio» di V. C., in Il Nome del testo, XIV (2012), pp. 55-63.
Il nome di Vincenzo Consolo è stato associato, ormai quasi definitivamente, a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale. Consolo è convinto che “non si possano scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, perciò le sue creazioni narrative sono protese al setacciamento dell’ovulo della parola, alle alchimistiche operazioni di orchestrazione lessemo–stilematiche e sintattico-ritmiche al fine di far sprigionare dalla solfeggiata andatura del periodo, il soffio segreto dell’elegia. Infatti la sua prosa riecheggia di sonorità liriche, ricca di figure retoriche, allitterazioni, assonanze, paronomasie che, nello scandire i momenti evocativi della memoria e i temi scottanti dell’attualità, particolarmente della storia siciliana, si innalza ai vertici della poesia, con una chiarezza razionale di stampo illuministico.
Vincenzo Consolo nasce a S. Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio del 1933 da padre borghese e da madre popolana. Visse l’infanzia durante gli anni della Seconda guerra mondiale, turbato dalle crudeltà del conflitto e dalla lotta partigiana, per cui insieme alla famiglia si trasferì in campagna, dove, tuttavia, continuò a riecheggiare l’eco dei bombardamenti, scompigliando anche gli incontri gioiosi dei bambini, compagni di gioco del nostro e vittime innocenti della guerra. Tornato al paese natale, dopo lo sbarco degli alleati, le dolorose vicende di quegli anni fornirono allo scrittore il materiale per comporre il suo primo romanzo. Dopo aver frequentato gli studi presso i salesiani, consegue la licenza liceale al “Valli” di Barcellona P.G. (ME). Quindi si iscrive alla Cattolica di Milano dove, dopo essere stato costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, si laurea in Giurisprudenza a Messina con una tesi in Filosofia del diritto; svolge poi encomiabilmente l’apprendistato di notaio tra il paese natale e Lipari. Presto, però, prevale in lui la vocazione letteraria, sfociata nella composizione del suo primo romanzo “La ferita dell’aprile”. Il testo è ambientato negli anni della “guerra fredda” in un paese della Sicilia settentrionale, e narra le lotte politiche del Secondo dopoguerra, filtrate nel racconto in prima persona del protagonista, un ragazzo che studia in un istituto religioso in un paese di contadini e di pescatori, dove i “carusi” spiano la vita della piccola comunità patriarcale, attraversata dalla tragedia esistenziale. Trasferitosi a Milano nel 1968, le acque del suo mare, tra le coste siciliane e le Eolie e il paesaggio e la storia delle vittime della civiltà contadina e dello stupro della tragedia siciliana, offrono le ragioni profonde della trama del suo capolavoro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), con cui Vincenzo Consolo è conosciuto dal grande pubblico. La genesi del libro non è stata continua; infatti la stesura, per volere dell’autore, fu interrotta dopo i primi due capitoli che furono pubblicati, in edizioni numerate, con un’iscrizione di Renato Guttuso, ma l’attenzione suscitata, indusse Consolo a completare l’opera, con l’aggiunta di altre sette sezioni, dopo dieci anni, su pressante invito dell’editore Einaudi. Il romanzo presenta una struttura complessa ed è ambientato nella Sicilia degli anni 1856 – 1860, cioè negli ultimi anni del regime borbonico, a ridosso della spedizione dei mille e della rivolta contadina di Alcara li Fusi (maggio 1860), repressa nel sangue dai garibaldini di Bixio. Il protagonista realmente esistito, é facilmente collegabile al contesto di una rigorosa storicità, in cui si dipana anche la vicenda del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il barone Enrico Piraino di Mandralisca, protagonista del romanzo di Consolo, e il principe Fabrizio Salina, protagonista del Gattopardo, sono entrambi aristocratici illuminati e assistono al passaggio dallo stato borbonico a quello unitario nazionale; al radicale pessimismo di don Fabrizio, di idee democratiche e patriottiche, ma lontano dalle vicende politiche e chiuso nelle sue ricerche scientifiche, si contrappone l’illusionistica speranza del Mandralisca, dapprima umbratilmente serpeggiante negli accadimenti ribellistici, ma progressivamente sempre più palese, fino all’epifania finale, paradigmata dalle epigrafi che scandiscono la tragedia dei martiri – eroi, innalzata e premessa ipotetica della redenzione della plebe siciliana. Il romanzo di Consolo è caratterizzato da due metafore fondamentali: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, ironico e pungente simbolo dell’apparente rifiuto aristocratico verso ogni forma di impegno, e la chiocciola, concretizzazione simbolica del labirinto della storia, dalle ampie entrate e dall’uscita sinuosa, speculare emblematicità del percorso delle vicende umane. L’opera è caratterizzata da moduli narrativi complessi, espressi in terza persona e con proiezioni in spazi neutri, la “lettura e la “memoria”, redatte e osservate dal protagonista, con scene corali, ora inflesse in enigmatiche articolazioni, ora riflesse sui tabulati della tragedia, sono declinate con contrapposti regimi narrativi, connotati dalla lingua brillante del Mandralisca, e dalle molteplici inflessioni popolari, sopra cui si staglia la cesellatura linguistica dello scrittore che dispiega galassie paesaggistico –naturali e implosive oscillazioni emotive, in scansioni descrittive di aureo impianto lirico – semantico. La scelta dei molluschi si traduce, come si è detto, in metafora della vita, in cui si condensano sia le tematiche del libro, che le strutture linguistiche e lessicali. Altro personaggio chiave è Giovanni Interdonato, come il Mandralisca realmente vissuto, protagonista gradualmente emergente da una sorta di baluginante ambiguità, fino alla chiarificazione del suo ruolo di mente nel movimento di liberazione della Sicilia.
Dopo aver chiarito le corrispondenze semantiche tra il sorriso di costui, incontrato su una nave diretta dalle Eolie a Cefalù, i rapporti con il Mandralisca e con altri elementi della nobiltà siciliana destinata al declino, affiorano alla ribalta della storia i contadini della sua terra, protagonisti della sanguinosa rivolta di Bronte, tutti processati per strage, ma alla fine tardivamente assolti per interessamento dell’Interdonato, con segrete interferenze plasmatiche del barone Mandralisca, rivelatosi determinante nell’indicazione e decrittazione dei documenti apposti in appendice, che imprimono chiarezza alle iniziali sinuosità della progressione storico – narrativa.
Enrico Mandralisca non è un nobile, ottusamente custode degli interessi di classe, è consapevole del nuovo corso della storia, non ripiega narcisisticamente nelle bolge della nostalgia, ma sostiene, con modalità correlate al sussulto degli eventi i rivoluzionari che intendono liberare la Sicilia dalle ataviche sedimentazioni di sudditanza, per renderli protagonisti del proprio destino esistenziale e storico.
Il barone sa che la storia è una “scrittura continua di privilegiati” e vorrebbe raccontarne una dove i contadini sono i protagonisti della stessa, ma si accorge che la scrittura dei “cosiddetti illuminati” è sempre “un’impostura”, perché questi si rifanno alle idee astratte di Libertà, Eguaglianza, Democrazia, Patria, che i vinti non sono in grado di capire; solo quando essi conquisteranno da soli quei valori, i discendenti saranno capaci di definirli con parole nuove. Il nobile intellettuale conclude con il riconoscimento dell’inutilità della scrittura e della necessità assoluta dell’azione, perciò, ritiene utile lasciare tutti i suoi beni a favore di una scuola, per i figli dei popolani in modo che imparino a scrivere e narrare la loro storia, per poterne capire gli orrori e coscientemente lottare contro le sopraffazioni subite per conquistare la libertà.
Anche nel romanzo successivo “Retablo” (1987) il racconto scivola su diversi piani narrativi e quadri storici staccati, come le scene variegate di una narrazione continua. Si narra dell’impossibile amore di due protagonisti, il pittore girovago milanese in viaggio in Sicilia, Fabrizio Clerici, e il prete siciliano Isidoro, per due donne, da cui rimarranno sempre lontani. Lo sfondo è una Sicilia lontana, preziosa, agreste. La lingua è ben studiata, con la strategica posizione di lessemi e stilemi idonea ad omogeneizzare lo spazio tra sequenze descrittivo – narrative e pause sono re con l’elencazione paesaggistico – oggettuale, in un intrico d’espressioni secondarie e subordinate condensate in una ampia tavolozza di immagini, situazioni e frammenti realistici, riprodotti con spiralizzante bulinatura neo – post – barocca, che imprime al romanzo una virtuosistica e profondamente vitalistica unità, al di là degli apparenti oscillamenti strutturali e nominali.
“Lunaria” (1985) è un originale testo dialogato, sotto forma di favola destinata al palcoscenico che nella Sicilia del ‘700, riscopre il mito della caduta della luna. Il testo inizia nel primo Novecento, quando un anziano barone, in odore di irreversibile declino storico, scrive poesie in cambio di pane, ispirandosi soprattutto alla lun. Dopo anni, il manoscritto del barone, attraverso il ritrovamento di un giovane di Palermo, perviene a Consolo che lo rielabora in testo teatrale, dove mito, storia e poesia, risultano riplasmati sincronicamente nella metrica e nell’ambientazione epocale della Palermo settecentesca, governata da un viceré. Il centro narrativo è caratterizzato appunto dalla “caduta della luna”, che richiama a “L’esequie della luna” di Lucio Piccolo e alle pagine leopardiane delle “Odi”. Ma in Consolo i ritagli testuali delle correlazioni si dispiegano nel ventaglio della teatralizzazione della vita che diventa ansia e vertigine, panico, terrore, di fronte all’eternità e all’iniquità fatuamente terapizzata dall’uomo con inganni e illusioni, che non cancellano il male della Storia. Per cui, alla fine, il vicerè, tra riecheggiamenti leopardiani e intonazione pirandelliana, è costretto, di fronte all’impossibilità della Materia a dischiudersi: “Non sono più il viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete rappresentato una felicità che non avete. Vero re è il sole, tiranno indifferente. E’ finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica solida la cangiante terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima […] sipario dell’eterno”.
Qui la lucreziana giostra dei mutamenti fonomenologici si fonde all’originario immobilismo aristocratico paradigmato dalla mobilità dei registri logico – strutturali, pirandelliani, e avvolti nell’angosciosa indifferenza del lirismo leopardiano. Il motivo della luna i rivela ora ingrediente logico del percorso narrativo consoliano; infatti, innalzato in aree di sublimità lirico – razionale in “Lunaria”, era già presente nella opera adolescenziale “Triangolo e luna”, distrutto dallo scrittore.
A differenza degli scrittori citati, la luna, nell’opera di Consolo, oltre alla insita accezione semantico – filosofica, diventa anche occasione di polemica contro ogni forma di imbrigliante istituzione, anche linguistica, utilizzata anche con l’obiettivo di creare un linguaggio letterario originale. Con tale opera, ridotta a forma dialogica di livello alto, e perciò non teatralmente rappresentabile, Consolo ha inteso rappresentare il tramonto di una cultura e di una civiltà.
Nelle “Pietre di Pantalica” (1988) la storia della Sicilia, riemersa dal sipario della preistoria, e indagata fino ai crudeli anni recenti, dove la scrittura, immersa a captare tracce esaltanti del passato, preme all’interno della sottile rifrangenza delle reliquie e lo scrittore, nella memorabile pagina de suo diario, risulta testimone straziato del precipitare della sua isola verso ogni forma di dissacrazione di carattere morale e umana, che assurge a metafora della crudeltà e dell’iniquità del mondo. Ritornano le riflessioni pessimistiche e una storica catena di sconfitte, ma anche una rinnovata sfida della ragione, a cui è riconducibile il nucleo sotterraneo dell’anima e l’identità genetica dello scrittore.
Un particolare successo ha riscosso la pubblicazione del romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). In questo romanzo, Consolo affronta la storia dell’Italia, alle origini del fascismo, nei primi anni Venti. Qui il giovane intellettuale Pietro Marano, turbato dalle tensioni del primo dopoguerra, aderisce al movimento anarchico – socialista e, dopo aver subito le violenze delle squadracce del regime, attenta con una bomba al palazzo del barone don Ciccio, corrotto sostenitore del fascismo. La dura repressione costringe Pietro ad allontanarsi dalla Sicilia e, lasciato il movimento anarchico, mentre abbandona la sua terra, in seguito ad una operazione di profonda riflessione, ripudia ogni forma di violenza, purtroppo generatrice in quel tempo di efferatezza, di crudeltà e di sopraffazioni. Nella quiete dell’esilio, recuperata una lucida razionalità, decide di ritrovare attraverso il racconto, le vere ragioni di tanto orrore. In questo nuovo romanzo, si registra in Consolo, una visione diversa della storia. Se la scelta finale del protagonista del “Sorriso dell’ignoto marinaio” era l’azione, ora lo scrittore ritiene che solo la letteratura può ricostruire, attraverso il disordine doloroso degli eventi, il vero senso della storia e dei suoi orrori. È il trionfo della letteratura, attraverso cui soltanto si può ridare senso alla morte e ad ogni forma di aberrazione e di irrazionalità. È il romanzo corale di una intera civiltà, dove nobili e contadini, artigiani, disertori ed emigranti, anarchici e squadristi, animano le umane vicende di una Sicilia che sta per essere travolta da tanto dolore e da tanto degrado umano. Lo scritto, anche se ambientato in un’epoca precedente, riflette anche la premonizione dello scrittore di un ritorno del crollo delle ideologie e il preludio di una nuova era di oscurantismo culturale, condizione da cui sono nate sempre nella storia le involuzioni istituzionali verso la tirannide.
“L’olivo e l’olivastro” (1994) è un libro al di fuori dei consueti canoni di scrittura. Il protagonista non ha un nome, ma può essere individuato, nonostante l’uso della terza persona, nell’Io narrante dello stesso Consolo. Due sono i grandi temi, apparentemente divergenti, ma che in realtà costituiscono un motivo unico del viaggio del narratore per la Sicilia, sulla scia del naufragio collettivo; come “L’olivo e l’olivastro”, nati dallo stesso tronco, hanno destini diversi, così il primo percorre i luoghi epici di Omero e dei Malavoglia, alla scoperta di civiltà millenarie, comunità immaginarie e mestieri perduti, e rappresenta l’ulivo (che richiama al mito dell’Odissea, quando Ulisse, distrutto dal vano peregrinare, si rifugia nell’isola dei Feaci e si ristora sedendosi sotto un albero di ulivo, accanto a cui cresce l’olivastro), simbolo di una Sicilia innalzata al sistema della ragione, che rievoca amori e passioni. L’olivastro (a volte scatenamento di matta bestialità) rappresenta, invece, quella moderna dello sfacelo architettonico, ambientale e sociale, la nuova Sicilia, flagellata da episodi di rimbarbarimento, di perdita di identità, di orrori, di inquinamento, come quello provocato dalla costruzione della raffineria di Milazzo, dove prima sorgevano sterminati campi di gelsomino. Ad una terra che soffre il dramma storico della disoccupazione e vive nell’eterna tensione della più assoluta precarietà e dell’inappagamento, si contrappone un Nord, dove la tendenza a ridurre l’uomo a mero strumento di produttività, ha ridotto gli spazi di libertà ed ha creato altre condizioni di infelicità, come traspare in questi anni, senza alcuna possibilità di finzione. La Sicilia dalle due anime, rappresentata tra viaggio della memoria e discesa nel labirinto della pietà, viene riscattata dall’immagine della negatività assoluta, nella riaccensione finale della straziante utopia, che fiorisce negli interstizi della catastrofe storica e della selvatica bestialità dell’isola mediante l’illusione della salvezza attraverso la cultura, creditata dalla civiltà greca e ancora viva nella forza del pensiero. Ora il linguaggio è percorso da una più accentuata tensione poetica che sembra accarezzare gli stupri storici e ecologici, con cui la Sicilia ha pagato il prezzo di un’illusoria industrializzazione, con lo scempio del suo incantevole paesaggio, che continua a vibrare nei ritmi del melodico periodare.
Il romanzo “Lo spasimo di Palermo” (1992) è un “nòstos”, il racconto di un ritorno, quello del protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, ai luoghi odioso – amati della sua infanzia e della giovinezza, Palermo e la Sicilia. Ambientato nel periodo dalla fine della guerra ai nostri giorni, su una linea di evoluzione cronologica del pensiero di Consolo, l’opera contiene al suo interno, il romanzo della Sicilia e dell’Italia – tra Milano e Palermo – dell’ultimo mezzo secolo, in un flusso della memoria tra i mali della storia individuale e collettiva fino alle ben note cronache, dell’assassinio di un giudice, a cui si contrappone la storia letteraria d’Italia, caratterizzata da tanta letteratura siciliana. Emblema del romanzo è la chiesa di S. Maria dello Spasimo, oltraggiata nei secoli ed ora restaurata, ed il quadro di Raffaello ivi dipinto, che mostra lo sgomento della Vergine di fronte a Cristo in ginocchio sotto la croce, in un simbolico atteggiamento di implorazione e di pietà per la perdizione dell’uomo di questi anni, che ha smarrito la rotta dell’identità di nobile creatura. C’è il romanzo di Gioacchino Martinez e suo padre, ucciso dai nazisti, il romanzo di Gioacchino e suo figlio, esule a Parigi per la sua adesione al terrorismo politico, c’è il romanzo d’amore di Gioacchino e Lucia, dolcissimo e disperato fino all’annegamento nella follia. C’è il fluire romanzesco della vita verso l’oblio, da cui si salva la voce immortale della poesia, ricantata nelle pagine dei più grandi scrittori, consegnati dalla memoria all’immortalità del futuro, in una sorta di utopistica sopravvivenza della sublimità della letteratura, di cui Consolo avverte di essere fibra consustanziale, già preannunciata in “Nottetempo, casa per casa”. Ne deriva una struttura, lontana da un prefissato schema narrativo, ma formatosi per sovrapposizione di circolari frammenti, disorganicamente ricomposto in una sfuggente dimensione spazio – temporale. Sui fotogrammi di violenze, sopraffazioni e fratture della storia di una pena lacerata, dilaga il regno del silenzio, in cui galleggia il protagonista – scrittore schiacciato dall’inefficienza pragmatica e dalla vacuità della parola, evirata di ogni vitalismo propulsivo. Emerge sul destino sociale e sul racconto del dolore e del silenzio, l’operazione della scrittura sperimentale del protagonista, che, però, si interrompe con l’ultima esperienza della sua vita. Allora decide di tornare alla sua isola, dove muore, come un Ulisse ucciso dai Proci, cioè dai pirandelliani “giganti della montagna”, senza volto e senza ragione, metaforicamente i sacri mostri del nostro tempo, che hanno devastato storia, memoria e tutto.
Sono gli anni straziati della violenza del terrorismo e della mafia, in cui Gioacchino, dopo aver tentato la rivolta, nell’ambito della scrittura distruggendo le convenzioni letterarie, responsabili dello “sfascio” sociale, è condannato alla sconfitta, anche della scrittura. Anche la chiusura del romanzo, con l’uccisione del giudice Borsellino, nel luglio del 1992, risulta desolatamente pessimistica e sancisce la sconfitta della ragione di fronte alle barbarie della società post – moderna.
La narrativa di Consolo, come quella di Sciascia, è pervasa da un forte sentimento civile che vede l’intellettuale misurarsi con i più sconvolgenti eventi della storia e misura la possibilità di incidenza della letteratura sugli ingorghi delle vicende della nostra Sicilia. Ma se lo scrittore nel suo ultimo romanzo abbandona l’intreccio del romanzo, rimpiange di non avere il dono della poesia, attraverso le cui forme di comunicabilità è possibile ritrovare ed esprimere la logica del mondo.
Dal punto di vista strutturale, i romanzi di Consolo risultano molto intrecciati sia sul piano spazio-temporale, che sulla linearità della fabula, su cui s’intrecciano documenti e citazioni, flussi di coscienza e lacerti di un intenso lirismo, in cui le oscillazioni interiori del personaggio diventano le occasioni poetiche dello scrittore.
Il lettore non è guidato da un trasparente filo conduttore, ma tra le geometriche rappresentazioni delle cose e dei sentimenti, nel sedimentarsi di fratture logiche e spiralizzazioni immaginifiche, sorrette da una straniante tecnica-linguistica orchestrata da un lucido razionalismo descrittivo di stampo illuministico, può trovare un collegamento tra spazio letterario e spazio comunicativo, tra procedimento logico e dialogico della narrazione, un modo di superamento delle diverse innovazioni artistiche, infarcite di stilemi e lessemi arcaico-letterarie-dialettali, che risentono della lezione di Gadda, sempre tesa al sublime e al tragico, binomio inscindibile che solo nella poesia ritrova la sua armonica funzionalità.
La vocazione intellettuale di Consolo si manifesta fin dal 1952 quando si allontana dalla Sicilia per andare a studiare Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, dove nella creazione letteraria affiora la cultura meridionalistica e neorealista come avviene per altri scrittori conterranei della diaspora.
Nel suo primo soggiorno milanese egli coltiva dentro di sé un modello di letteratura rappresentato dalla realtà contadina e una tipologia espressiva di stampo sociologico e di facile comunicatività ma già ne “La ferita dell’aprile” e nella produzione successiva, a partire dal “Sorriso dell’ignoto marinaio”, s’impone una scelta di scrittura iperletteraria, attraverso sui, da un lato lo scrittore si colloca accanto alla sperimentazione di Gadda e di Pasolini, dall’altro include l’utopia vittoriana di giustizia che rimarrà antagonistica con gli sviluppi involutivi della storia della sua Sicilia.
Allora incomincerà quella costante discesa di un siciliano nelle drammatiche pieghe dolorose della sua terra vilipesa nella sua dignità e nei suoi diritti dal sedimentarsi di regimi oppressivi, per cui il viaggio rappresenta il tema archetipico del “nostos” ricorrente anche nelle opere successive, come nelle “Pietre di Pantalica”, dove il viaggio si manifesta come immersione totale dell’anima fino alle più ataviche radici della storia siciliana, alla riscoperta di una identità italiana, eterna ed assoluta, fino all’“Olivo e l’olivastro” e alla storia disperata del popolo siciliano, scandita ne “Lo spasimo di Palermo”, dove la rivisitazione di una tragedia storica viene letta nei protagonisti, trucidamene seppelliti nei gorghi di un tempo di spaventosi orrori.
Come ha sottolineato lo stesso Consolo, la sua narrativa riveste “romanzi di ritorno all’isola” e deve essere interpretata come resoconto di un’esperienza di viaggio; “L’olivo e l’olivastro”, infatti, è un diario, tra narrativa e saggistica, in sintonia con la concezione estetica di Consolo, del ritorno doloroso in una Sicilia, “terra di tanti mali”, del passato, mescolati alla devastazione dei valori umani del presente, ma anche utero materno, in cui si agitano nuove ostinate speranze, assieme all’urgenza di nuovi doveri, ma dove l’ulisside consoliano conclude il suo viaggio, senza ritrovare più simboli per l’umana redenzione, perché la terra della memoria è stata radicalmente devastata dallo scempio di tanti Proci imbestialiti, che l’hanno ridotta a rovine.
La conclusione di una Sicilia irredimibile, dove l’isola può essere paragonata alla Troia incendiata di Omero, rappresenta anche l’incupirsi della visione consoliana, che coinvolge l’intera storia italiana, infatti, lo scrittore Gioacchino Martinez, per sfuggire allo sfacelo politico e socio-culturale di una invisibile Milano, dove si era recato alla ricerca di nuovi spazi di civiltà, come Vittorini di “Conversazione in Sicilia”, è ridisceso nella natia Palermo, ora mortalmente imprigionata nella spirale della violenza e del malaffare.
In questi ultimi anni lo scrittore tace. La sua vana creatività sembra essersi prosciugata nella inguaribile ferita della sua isola. Tuttavia, non si arresta la sua attività pubblicitaria, in cui continua a denunciare le devianze e la barbarie dell’Italia contemporanea.
La sua pena di vivere, tuttavia, scorre in maniera autobiografica nelle pagine del testo “Madre Coraggio” (in cui viene evocata idealmente la madre di Vittorini), Consolo scrive: “E qui, al sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate giornaliere con Piera un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la sproporzione tra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato e la grande tragedia che si stava svolgendo laggiù”[1].
Il suo negativismo storico si è esteso ai popoli dell’intero pianeta, ma la necessità di testimoniare sopravvive intatta per poter consegnare al futuro dell’umanità la memoria di un tempo apocalittico.
L’attuale silenzio narrativo dello scrittore è stato interpretato come convinzione dell’impossibilità della letteratura di poter redigere un’immagine credibile del mondo, per il fatale estinguersi dell’utopia che nella tradizione letteraria siciliana si è opposta all’omologazione delle riflessioni e della stessa scrittura, travolgendo gli eroi verghiani, vittoriniani e sciasciani. Infatti, nella nuova generazione di scrittori, sembra aprirsi ad un dialogo con le letterature nazionali e internazionali, dove dato esistenziale e denuncia disillusa del gattopardismo convivono armonicamente nell’attuale classe dirigente siciliana, verso la quale Consolo ha espresso, sia in letteratura, sia nella sua attività pubblicistica e nel suo impegno personale, il suo disgusto e la sua convinta condanna.
BIBLIOGRAFIA
Per quanto riguarda la bibliografia degli scritti di e su (anche stranieri) Vincenzo Consolo, si veda il numero monografico di “Nuove Effemeridi”, viii, 1995/i, 29, a lui dedicato, che contiene una foltissima e significativa antologia della critica.
Di seguito, diamo la prima edizione delle opere: La ferita dell’aprile, Milano 1963; Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, in AA.VV., Narratori di Sicilia, a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, Milano 1967; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Un giorno come gli altri, in AA.VV., Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano 1983; Lunaria, Torino 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988, Catarsi (1989), in AA.VV., Trittico, cit.; Nottetempo, casa per casa, Milano 1992; Neró metallicó, Genova 1994; L’olivo e l’olivastro, Milano 1994. Importante, il libro-intervista Fuga dall’Etna, Roma, 1993. Questi gli scritti critici più importanti, a esclusione dei tanti interventi giornalistici: G. Finzi Strutture metriche nella prosa di Consolo, in “Linguistica e Letteratura”, iii, 1978; M. Fusco, Questions à Vincenzo Consolo, in “La Quinzaine litteraire”, 31 marzo 1980; L. Sciascia, L’ignoto marinaio, in Id, Cruciverba, Torino 1983; G. Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983. Con vecchie e nuove varianti, Milano 1983; M. Fusco, Récit et histoire, Université de Picardie 1984; A.M. Morace, Consolo tra esistenza e storia.La ferita dell’aprile, in Id., Spettrografie narrative, Roma 1984; F. Gioviale, Vìncenzo Consolo: la memoria epico-lirica contro gli inganni della storia, in Id., La narrativa sicilianad’oggi, successi e prospettive, Palermo 1985; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze narrative della prosa contemporanea, in AA.VV., Storia della letteratura italiana. Il Novecento, tomo 2, Milano 1987; C. Segre, introduzione a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987; G. Amoroso, Vincenzo Consolo, in AA.VV., La realtà e il sogno. Narratoriitaliani del Novecento, a cura di C. Mariani e M. Petrucciani, vol. i, Roma 1987; N. Tedesco, “Retablo”: Consolo tra restauro della memoria e ira (1988), in Id., La scala achiocciola, Palermo 1991; N. Zago, C’era una volta la Sicilia. Su “Retablo” e altre cosedi Consolo (1988), in Id., L’ombra del moderno, cit.; N. Tedesco, “Le pietre di Pantalica”. L’irrequietudine e la carta della letteratura, in Id., Interventi sulla Letteratura italiana. L’occhio e la memoria, cit.; G. Amoroso, Narrativa italiana 1984-1988, Milano 1989; N. Tedesco, Ideologia e linguaggio nell’opera di Vincenzo Consolo, in AA.VV., Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, a cura di D. Perrone, Marina di Patti 1989; G. Turchetta, Consolo: Pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degliorrori, in “Linea d’ombra”, gennaio 1989; G.C. Ferretti, introduzione a La ferita dell’aprile, Milano 1989; N. Di Girolamo, Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo, in “Arenaria”, agosto-settembre 1990; F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id, Intrecci di voci, Torino 1991; S. Perrella, Tra etica e barocco, in “L’Indice”, maggio 1992; M. Onofri, Vincenzo Consolo: Nottetempo, casa per casa, in “Nuovi Argomenti”, 3a serie, 1992, 44, ottobre-dicembre; M. Onofri, L’umano e l’inumano nascono dallo stessoceppo, in “L’Indice”, dicembre 1994; J. Farrell, Metaphors and false histories, in AA.VV., Italian Writers of the Nineties, a cura di L. Pertile e Z. Baranski, Edinburgh 1994; J. Farrel, Translator’s afterword in Id., The Smile of the Unknown Mariner, Manchester 1994; A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna 1997.
[1] V. Consolo, Viaggio in Palestina, Roma, Nottetempo, 2003, p. 70.
Questo volume, concepito e voluto da Vincenzo Consolo ma pubblicato postumo,raccoglie cinquantadue brevi scritti narrativi che copronoun arco di più di mezzo secolo e ripercorrono il suo itinerario di scrittore toccando i temi a lui più cari. In un’intensa galleria sfilano quadri dell’infanzia in Sicilia e della giovinezza a Milano, ritratti ironici o feroci della società e del mondo culturale italiano; viaggi nella storia, nel paesaggio, nell’arte di una Sicilia amata con dolorosa consapevolezza; interventi che testimoniano un appassionato impegno civile.
(…) “Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni … ” dice di sé Pirandello. Sì, si può cadere su questo mondo per caso, ma non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo. Il quale, con gli anni, con l’inesorabile, crudele procedere del tempo, si fa per noi sempre più sacro. Sacro per i fili degli affetti che man mano si moltiplicano e ci sostengono; per i fili dei ricordi, l’accumulo di memoria che il luogo, come prezioso reliquiario, in sé racchiude; memoria dolce di quelli che non sono più con noi; assiduo, presente ricordo di quelli che assieme a noi procedono; simpatia profonda per quelli che ci seguono. Fin dal primo sguardo sul mondo, fin dai primi bagliori dei ricordi – e sono scene isolate, fotogrammi luminosi incorniciati dal nero dell’immemorabile – si è impresso, Sant’Agata, dentro di me per sempre.
Hieme et aestate et prope et procul, com’era scolpito nella stele fogazzariana, io porto in me questo punto unico del mondo, questo paese: nello spazio in cui esso s’adagia, in questa campagna bella alle sue spalle, piena di contrade, d’abitanti, nell’anfiteatro dei colli che vanno dalla punta dello Scurzi a San Fratello, dalla valle del Rosmarino o quella dell’Inganno; nel suo mare, spesso minaccioso, impraticabile, ch’era pericolo costante e fatica immane per i nostri pescatori: mi porto dentro fatalmente il reticolo delle sue vie, delle sue case, una folla di volti, un’infinita sequenza di gesti, e un concerto di voci, parole, frasi; mi porto dentro i suoi giorni e le sue notti, la sua luce e il suo buio. Avrei potuto, o potrei, giunto alla mia età, riempire pagine e pagine di ricordi, di memorie, ricostruire, al di là d’ogni validità letteraria, un tempo perduto, stendere una mia, un’umile, piccola recherche. Ma non è questo il moto e lo scopo del mio scrivere. E allora: perché scrivo? Ma perché scrivo in prosa? E perché scrivo romanzi o racconti di contenuto storico e sociale? Scrivo dunque di temi relativi, contingenti perché non sono poeta, perché non sono fanciullo, perché non sono re (non faccio parte, voglio dire, non sono detentore del potere). Solo i poeti infatti, i fanciulli e i re possono affrontare gli assoluti, immergersi, naufragare nell’infinito mare dell’esistenza. Esistenza che è irreparabile, crudele nella sua indifferenza. Riscattabile è al contrario il contingente, il vivere nel temporaneo patto sociale (sì, solo al poeta è lecito beffarsi delle magnifiche sorti e progressive: “Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco”: si specchi nelle ceneri infeconde, nell’ impietrata lava; si specchi nella terra desolata, nell’ osso di seppia, nella bufera … ).
(…)lo sono d’una terra, la Sicilia (ma quante altre terre nel mondo somigliarono, somigliano o somiglieranno alla Sicilia!) dove, oltre l’esistenza, anche la storia è stata da sempre devastata da tremende eruzioni di vulcani, immani terremoti, dove il figlio dell’uomo e il figlio della storia non hanno conosciuto altro che macerie di pietra, squallidi, desolanti ammassi di detriti attorno a zolfare morte. “In una manciata di polvere vi mostrerò la paura” dice Eliot. E allora, di fronte alle macerie, alla polvere dell’esistenza e della storia, privi come siamo di speranze e conforti di ordine metafisico, non resterebbe che lo sconforto, il pianto. Ma solamente i poeti, ancora, posseggono l’oscuro segreto delle parole per dire, con la più alta dignità e più alta bellezza, della grande avventura dell’esistere, della vita; dei suoi dolori, delle malattie, della morte; dire delle sue consolazioni, delle sue illusioni; dell’amore, dell’arte, di un fiore (sia pure una ginestra), del sorgere del sole, del tramonto della luna, della grazia di una donna.
(…)Ora, questo paese che mi ha dato i natali ha la ventura, il destino di trovarsi ai confini, alla confluenza di due regni, dove si perdono, sfumano, si ritraggono in una sommessa risacca le onde lunghe della natura e della storia. Lasciando, su questa remota spiaggia dell’incontro, segni indistinguibili e confusi. Remota spiaggia, limen, finisterre, ma anche luogo sgombro, vergine, terra da cui rinascere, ricominciare, porto da cui salpare per inediti viaggi. Nato da qui ho preso coscienza, a poco a poco, d’aver avuto il privilegio di trovarmi legato all’ago di una bilancia i cui piatti possono restare in statico equilibrio o prendere, da una parte o dall’altra, a secondo se sopravanza il peso della natura o della cultura. E non è questo poi l’essenza della narrazione? Non è il narrare, come dicevo, quell’incontro miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e poesia?
Non è quest’ibrido sublime, questa chimera affascinante?
Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. E mi sono allontanato da lui anche per andare a vivere altrove. In questi giorni si concludono venti anni da che ho lasciato la Sicilia per andare a lavorare e vivere a Milano, la Milano di Manzoni, ma anche di Verga, di Quasimodo, di Vittorini. Ma in quella città, nella progredita, ricca e allettante, ma anche dura, ma anche pretenziosa città, non credo di essermi consegnato, docile e spoglio di identità, a una cultura che non mi apparteneva, pur curioso, pur attento osservatore di quest’altra cultura. Credo, infine, di non aver mai smesso di essere uomo di quest’isola, figlio di questo paese. A cui sono grato di tutto quanto mi ha dato, con i suoi segni, con la sua luce, con i suoi accenti.
di Emanuela Gioia dal blog dilibriealtro
Titolo : La mia isola è Las Vegas Autore: Vincenzo Consolo Casa editrice: Mondadori Anno di pubblicazione: 2012
Voci bianche di fanciulli e voci scure d’adolescenti, sopra le note dell’organo, là dalla cantoria come dall’alto del cielo, precipitavano tra le navate, cadevano sopra i fedeli. I cherichetti, in tunica rossa e cotta bianca, si muovevano sul presbiterio a passo di danza, facevano oscillare il turibolo, spandevano fumi azzurri d’incenso. Tuonava con voce grave l’officiante là all’altare, sotto il drappo che nascondeva il presepe, sotto la faccia di saraceno del santo eremita che troneggiava dentro il catino dell’abside: “Praecursor pro nobis ingreditur … Ipse est Rex iustitiae, cuius generatio non habet finem … “
Sera dopo sera la cerimonia in chiesa, il rito affollato di suoni, luci, odori, figure, colori. Si snodava in questo modo la novena, si procedeva atto dopo atto, verso la conclusione del gioioso dramma, verso il Natale, l’apertura del sipario, l’apparizione del Bambino, il fulgore d’ogni luce, il dispiegamento d’ogni canto, il concerto delle campane.
Diciamo d’un remoto Natale in un paese ai piedi dei Nebrodi, nella piana fitta d’ulivi e d’aranci, il mare di fronte con le Eolie fantasmatiche all’orizzonte e le boscose colline alle spalle, l’immenso Etna in fondo di nevi e caligini.
C’era stata, già prima, tutta l’ansia, c’era stato il travaglio per preparare in casa il presepe. La ricerca di sugheri, legni, pietre, vetri, stagnola, cartoni, tutta l’ossatura del favoloso teatro, l’apparato di monti, valli, anfratti, fiumare, gole, grotte, la primigenia, la nuda creazione di un ritaglio del mondo
E quindi, sopra il deserto, i segni dell’uomo, recinti d’ovili, casupole sparse, villaggi, masseria, casali, mulini, e la città sullo sfondo, alta incombente, la fortezza con mura merlate di un potere nefasto, di un re spietato che avrebbe introdotto nel quadro serafico la lama del male, la tragedia d’una Strage. La pelle poi sullo scabro apparato, il tenero muschio, smeraldo, raccolto lungo gli argini dei torrenti, sopra gli orli di gèbbie e lo spino pungente che diveniva nimbo sopra la Grotta, su cui si sarebbe adagiata, a fiocchi, la neve, avrebbero volteggiato in Gloria gli angeli.
E prati, siepi, alberi – ginestre, fichidindia, corbezzoli, ulivi, palme -, cascate d’acqua, laghi d’argento. Nel notturno cielo di carta, stelle infinite, vie lattee, tenebrosi sprofondi e vividi sprazzi, l’arco della cometa che sovrasta e attraversa tutto il teatro. Il mondo animato infine, animali, uomini, divine presenze.
I pastori. Giungevano da santo Stefano di Camastra, il paese vicino dei “cretari”, sortivano dalle fornaci dei Gerbino, dei Frantatonio, in cui si cuocevano giare alte e panciute come badesse (la giara di don Lolò dell’omonima commedia di Pirandello), scifi, brocche, piatti, mafarate, càntari, lucerne … Tutto vasellame d’uso, ma il solo oggetto di “delizia”, d’ornamento che gli “stazzonari” si concedevano era la mastrangela, la madre degli angeli, un’ottocentesca damina bianca con sulle spalle le ali spiegate.
Ed erano di delizia anche i pastori a Natale, per cui erano delegati i “carusi”, gli apprendisti. Che modellavano con mano grande, maldestra, come quella del ragazzo “aspro e vorace” di Saba, ma che spalmavano i pastori con colori soavi, rosa, pistacchio, celeste, giallo, i colori dei “pupi” di zucchero, del marzapane, dei gelati. Si disponevano sul presepe prima i pastori dei margini, delle baide ignare, quiete, non ancora investite e sconvolte dell’improvvisa Novella: la vecchia che fila, il contadino che zappa, il garzone tra le pecore al pascolo, il mugnaio, il maniscalco, il pescatore, il dormiente, l’infreddolito davanti al braciere …
Al centro poi la luce e il moto, la danza degli angeli sospesi, il procedere in terra verso il luogo del prodigio, del richiamo, il convergere alla Grotta del miracolo: gli zampognari, gli offerenti, lo “spaventato”, i Magi e, sulla soglia dell’antro, in piena luce, come sorti dal profondo, dal buio, l’asino, il bue, i due attori supremi, Giuseppe e Maria, chini, adoranti accanto alla mangiatoia ancora vacante. Un tempo lungo, di nove giorni, doveva trascorrere perché si concludesse il trionfo, con l’apparizione del bambino rosato, questo spettacolo.
In questo tempo, dopo il rito liturgico, c’era la notte l’attesa di un’altra Novena, quella cantata sotto il balcone dai ciaramiddari, cantata dal cieco:
Quannu Cesari jittavu lu gran
bannu ‘mpiriusu.
’nta la piazza si truvav
a San Giuseppi gluriusu.
questo il Natale di un paese ai piedi dei Nebrodi, il favoloso presepe della remota innocenza.
Tanti altri presepi poi vedemmo, con occhi ormai di disincanto, dai più preziosi del museo di Trapani ai popolari della Casa di Uccello. Ma ritrovammo per caso l’incanto, già carichi d’anni e malizia, grazie a un presepe di Angela Tripi, questa erede incantata di Giovanni Matera.
Avvenne a Parigi, sulla piazza del Municipio, in un padiglione dove ogni anno s’appronta il presepe d’un paese diverso.
La crèche de Sicile era un fantastico assemblaggio dei monumenti, dei luoghi più suggestivi dell’Isola. C’erano le chiese e i mercati di Palermo, i mosaici di Monreale, i templi greci di Segesta e di Agrigento, l’Etna fumante e il mare di Aci Trezza … E i pastori, loro d’argilla e di stoffa, in umili panni o sfarzosi, ripetevano fisionomie, gesti, azioni, mobile com’era il presepe sonoro, di quel crogiolo di razze e di voci che è ancora la Sicilia.
“Ma dove siamo, in Oriente o in Occidente, siamo in Arabia o in terra cristiana? Cos’è questa confusione di monumenti, questa babele di epoche, lingue?” declamava la voce narrante. Eravamo in Sicilia, e la Natività era posta sotto le vele dell’abside, tra le colonne di una chiesa barocca diruta.
Concludeva la voce narrante: “Ecco il prodigio: è il riso del Bambino di Betlemme, dei bambini di Palermo e d’ogni luogo del mondo. E’ l’amore, la pace, il messaggio antico e sempre nuovo del Natale”.
Le strategie linguistiche e strutturali mediante le quali Consolo costruisce la densità della propria parola letteraria, torcendola e caricandola nella sfida impossibile alla consistenza della realtà, e la stessa idea consoliana della parola, mettono capo a tensioni e aspirazioni solitamente rubricate sotto il segno della «poesia», nella costellazione, per intenderci, che si muove tra simbolismo e modernismo. La stessa ricorrente tentazione dell’afasia come esito della volontà di troppo dire è del resto segnale non dubbio di queste ascendenze. Non a caso già dal romanzo d’esordio, e fino alle ultime prove, T.S. Eliot è uno dei numi tutelari di Consolo. Allo stesso modo, per tutta la vita Consolo non ha smesso di sottolineare il proprio rifiuto radicale di appartenere alla tradizione propriamente romanzesca, sospetta perché troppo incline a cedere alle lusinghe di una facile leggibilità, ad usum commercii. Prove narrative le sue, quindi, ma protese verso la poesia. D’altro canto, non ci sono dubbi sulla necessità di accostare il suo progetto, letterario ma anche politico-culturale, alla tradizione meridionalistica, nel cui solco si forma, e che non ha mai smesso di operare, anche quando Consolo è andato prendendo strade assai diverse: come già negli anni Ottanta, con libri decisamente atipici come Lunaria e lo stesso Retablo, e sempre più negli anni Novanta. Stiamo così toccando l’altra questione di fondo: quella dell’ossessione della Sicilia. «Scrivo sempre di Sicilia perché non ci si può allontanare dagli anni della propria memoria» ha dichiarato lo scrittore: il che vuol dire, ed è un altro punto decisivo, che l’invenzione letteraria deve nascere dall’esperienza, con la quale entrerà in tensione, sforzandosi di esorcizzare i propri fatali limiti con l’accumulo e la pluralizzazione della forma.
Certo, Consolo parla di tutto sub specie Siciliae, tenendo insieme, in modo decisamente peculiare, la proiezione verso una dimensione di esemplarità e la messa a fuoco dettagliata di tratti storicamente identificati, ricostruiti con precisione maniacale. La sua sicilianità concede in questo senso abbastanza poco alla fuga per la tangente di una a-storica condizione universale, così caratteristica invece di altri autori siciliani, da Pirandello a Vittorini. In innumerevoli occasioni Consolo ha ricordato la sua ferma volontà di approdare alla metafora per via di storia, secondo il sempre attuale, magistrale modello manzoniano: «La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile». L’esemplarità della Sicilia fa tutt’uno in Consolo con la sua peculiarità: che ci fa capire com’è l’Italia proprio perché è un caso estremo. Si potrebbe persino ipotizzare che, mutatis mutandis, a quello che egli scrive della Sicilia possa accadere in futuro qualcosa di simile a quanto già accaduto con la Lucania di Carlo Levi: ridiventata fruibile e attuale perché ricontestualizzata in «un quadro afroasiatico e latinoamericano». La Sicilia di Consolo vale come un’Italia estrema, e però anche come campione fin troppo vero di innumerevoli Sud del mondo. Per altri versi, la Sicilia di Consolo esibisce un cortocircuito di opposti, oscillando fra il vagheggiamento memoriale di un luogo che avrebbe potuto conciliare bellezza storica e naturale, vitalità e cultura, desiderio e conoscenza, e la constatazione, sempre più addolorata e indignata, dell’orrore reale, dell’ingiustizia perpetuata, della collusione eterna fra violenza criminale e violenza istituzionale. La Sicilia è un inferno, insomma, tanto quanto avrebbe potuto essere un paradiso. E la Sicilia è sempre solo la Sicilia: anzi no, è dappertutto.
Il progetto, ma forse dovremmo parlare piuttosto di dovere e di esigenza insopprimibile, di scrivere sempre di Sicilia coincide con la ferma convinzione che l’impresa della scrittura letteraria debba farsi portatrice di uno sguardo critico nei confronti della realtà, e implichi una dimensione etica, implicitamente o esplicitamente politica. Consolo ha infatti svolto per quasi cinquant’anni anche un’intensa attività giornalistica, della quale una larga percentuale è espressione di una diretta militanza civile. Restando però nell’ambito della scrittura letteraria, egli ha delineato, con un’originalità e un rigore teorico che hanno pochi termini di paragone in Italia, una possibile coincidenza fra espressività ed eticità, dove il permanente impegno civile deve identificarsi con la specificità della scrittura, cioè con l’impegno formale. Chiusa la stagione dell’engagement, per Consolo lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche. D’altro canto, chi scrive scrive, e dunque non può ignorare che scrivendo rinuncia al diretto impegno politico. Di conseguenza, i paradossi della parola letteraria, della sua pochezza e della sua titanica presunzione si rifrangono e ripetono nella compresenza costante di aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della propria distanza dall’azione reale. Da questo punto di vista, Consolo ha molte cose in comune con Vittorio Sereni, e con lo stesso Franco Fortini, che del resto frequentava. L’orgoglioso dovere della scrittura comporta così un permanente rimorso, che confina col senso d’inferiorità. Persino la dimensione utopica, pure evocata con tanta forza da Il sorriso dell’ignoto marinaio, non smette in realtà di mescolarsi con la cattiva coscienza, con un irriducibile senso di colpa. Ecco l’utopia del barone Mandralisca:
E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose. (SIM, qui alle pp. 216-7)
Questo sogno di un linguaggio che abolisca il divario fra le parole e le cose assomiglia molto alla permanente tensione di Consolo verso una parola portatrice di una densità tanto speciale da farla assomigliare a una cosa vera. Ma persino qui, dove tanto più la voce del personaggio pare confondersi con quella dell’autore, siamo obbligati a diffidare, e a prendere atto della permanente polifonia della scrittura consoliana; quel sogno infatti deve essere percepito come nobile, sì, ma impossibile, e persino mistificatore: «Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni “possano scrivere da sé la storia”. Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica».
“Nottetempo, casa per casa” di Vincenzo Consolo
Luca Rachetta
IL “MALE CATUBBO” E LA RISCOPERTA DELLA PAROLA
Muoveva brancolando, mugolando, come ferito, ferito da parte a parte dentro il cuore dalla lama che non sorgeva da causa, che non aveva nome. E si mordeva le mani, si strappava al collo la camicia. Il volto scarno, sotto il nero crespo della barba, era del color della malaria.
Il racconto di Consolo si apre con la descrizione di un episodio di licantropia che, carico di valore simbolico e intriso di evidenti riferimenti antropologici, ci cala subito nel contesto in cui si svolge la vicenda. La condanna alla licantropia patita dal padre di Petro, vero e proprio protagonista e personaggio connettivo di un’opera con una forte propensione allo svolgimento corale, nasce da causa oscura, “che non aveva nome”; essa presenta i sintomi di una “nostalgia per un diverso lido” difficilmente collocabile nello spazio e nel tempo, forse perché si tratta di un non luogo, di un’utopia di felicità e di senso che è soltanto possibile vagheggiare. La sua presenza nell’animo, quanto meno a livello ideale, è tuttavia sufficiente a indurre il “luponario” a guardare alla luna, inoltrando in tal modo una richiesta al “dio della distanza e dell’assenza”, a “un ignoto dio, impassibile o efferato” che non consola il supplice delle proprie sofferenze e non alimenta in lui alcuna speranza di elevarlo a sé e di liberarlo così dai ceppi che lo avvincono alla materia e alla storia.
Davanti a quella vastità deserta, a quell’ottusa quiete, sentì ancora più la pena, lo sgomento – se è in serbo per noi un altro approdo, se aleggiando va l’anima nostra, la nostra nostalgia per un diverso lido, è certo figura d’esso quest’apparenza notturna e scolorata, questa squallida scena, questo livido limbo, quest’esistenza anemica, è nel fuoco, nel guizzo della fiamma la natura della vita.
Il “limbo” in cui licantropo si barcamena penosamente non è dunque compromesso tra due dimensioni, quella umana e quella divina, né designa un rapporto privilegiato con la natura, vale a dire la possibilità di attingere a quella purezza originaria che sgorga soltanto dalla condizione animale, spontanea e immune dal compromesso sociale; nulla di sovrumano e di mitico risiede in una condizione che di inveterato e tristemente ricorrente presenta solo la sofferenza, lo stato di servaggio e la negazione del libero arbitrio inteso come possibilità di essere artefici del proprio destino. Non il privilegio di sentirsi qualcosa in più degli uomini, ma l’atavico senso di persecuzione provato dagli ultimi degli uomini.
Sembrava il supplice, l’orante disperato del dio della distanza e dell’assenza, d’un ignoto dio, impassibile o efferato. Ai suoi singhiozzi, ai suoi strazi non rispondeva che il fiotto morto e lento frangersi sugli scogli e il silenzio torpido, come il respiro sordo e beffardo di quel cielo e di quel mare.
Il discendere da una stirpe maledetta e l’assurda pretesa di migliorare la propria posizione sociale sono le uniche motivazioni che Petro riesce a ricondurre non solo all’origine della malattia paterna, ma anche a quella costante propensione all’amarezza e alla rassegnazione che cova in lui come nel padre e nelle due sorelle, afflitte da forme di nevrosi che le portano di fatto ad autoescludersi dalla vita.
Da quale offesa, sacrilegio viene questa sentenza atroce, questa malasorte?” si chiedeva Petro. Forse, pensava, da una colpa antica, immemorabile. Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ansime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene. (…) Oppure pagava il prezzo, il padre, del passaggio dalla povertà e soggezione alla condizione di padrone d’una casa, di ettari di terra a Santa Barbara, avuti in lascito, per pura affezione, per l’onestà e cura di mezzadro, dallo stravagante don Michele, avverso alla nobiltà, al nipote don Nené, al paese intero, vissuto in volontario esilio, con i Marano, con i suoi libri, in quel ritiro orgoglioso di campagna (ma il barone Cicio, i pari suoi, saputo il testamento, malvagiamente avevano preso a oltraggiar l’erede col nome di Bastardo).
Il male oscuro che attanaglia la famiglia di Petro sembra dunque da intendersi come una sorta di pessimismo cosmico di cui il presente è una delle tante sue manifestazioni succedutesi nel corso della storia. Si distingue infatti in modo assai nitido nelle pagine di Consolo un retroterra culturale che rimanda a Verga, Pirandello, Vittorini, Sciascia, cioè a una linea di autori siciliani che riscontrano nella realtà dell’isola, amara metafora di una condizione umana che va ben al di là delle coste di Trinacria, una situazione di immobilità che nega qualsiasi prospettiva di autentico progresso morale e civile, nella quale i più deboli soffrono un inesorabile destino di povertà, dolore e discriminazione sociale.
E il dolore suo sembrò a Petro sorto non solamente dalla madre troppo presto assente, dal padre malinconico, piagato, da Serafina torpida, di pietra, da Lucia che sola e orgogliosa se n’andava per altra strada, ma da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri. Era così per lui, per la famiglia o pure per ogni uomo, per ogni casa? Di questo luogo, di questa terra in cui era caduto a vivere, di ogni terra?
Petro avverte comunque che l’epoca presente è forse la più infelice di tutte. Sono gli anni del fascismo, in cui dilagano, reclutando un numero sempre crescente di adepti e di scherani, non soltanto ideali politici improntati a una cieca irrazionalità, ma anche nuovi modelli di vita fondati sull’ignoranza e sull’edonismo sfrenato, che trovano nella conventicola di Aleister Crowley, trapiantatasi nella Cefalù degli anni ’20 in cui è ambientata la narrazione, una superstiziosa e perversa sublimazione. Non sarà un caso quindi se proprio i personaggi più corrotti di quel microcosmo siciliano verranno risucchiati nel cono oscuro della setta: tra di essi anche il pastore Janu, simbolo panico di una innocenza primigenia che viene traviata e strumentalizzata non solo dalla scelleratezza del Crowley, ma anche, a ben vedere, da una modernità allo sbando che annichilisce qualunque forma di purezza.
Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stramangiava le parole, il senso loro – il pane si faceva pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senno sonno…
Parimenti all’innocenza e all’onestà anche la cultura è disprezzata in quanto minaccia costante al privilegio e alla prevaricazione nei confronti dei più deboli; allo stesso modo la lingua, veicolo della cultura e alfiere di verità e giustizia, è brutalizzata e stravolta al punto da risultarne impoverita e da vedere neutralizzata la propria carica potenzialmente eversiva.
Petro non aveva trasporto per quei fogli, quei linguaggi, che tante volte gli riuscivano grevi, oscuri, come oscuro era per lui, e pauroso, il presente, il vicino, tutto quanto nel mondo si svolgeva, guerra e pace, penuria e sciali, soprusi e avvilimenti, privilegi e angherie, scontri fra ceti, assassinii dei re, dei tiranni, rivoluzioni popolari, come quella del Diciassette nella Russia… Conosceva e capiva la Russia narrata da Tolstoj Dostoevskij Cechov Gogol, come la Francia narrata da Victor Hugo e da Balzac, l’Italia da Manzoni e Verga… Questi scrittori grandi davano degli uomini, di un luogo e un tempo, l’immagine più vera, più della politica, che a Petro sembrava allontanasse la realtà, come i numeri e le figure della geometria, verso l’astrazione, il generale.
Non è un caso che il racconto sia nutrito di suggestioni metaletterarie che dispongono il lettore a riflettere sulla natura, sulle forme e sugli intenti comunicativi della letteratura: Consolo sembra infatti affidare un ruolo di reazione allo squallore e alla pochezza morale proprio alla scrittura e allo stesso Petro, il quale, attraverso un percorso di crescita da vero e proprio romanzo di formazione, di essa scoprirà gradualmente il valore di testimonianza e la funzione di strumento di denuncia. Una concezione della letteratura come garante di verità contro la lettura adulterata e tendenziosa della realtà imposta dal potere ai suoi sudditi come dogma di fede. Il cambiamento semantico delle parole e la corruzione del linguaggio sono conseguenza della perdita di senso della vita stessa, che investe anche il lessico comunemente destinato ad indicarne gli aspetti e a spiegarne i meccanismi e le dinamiche: una sorta di impotenza della lingua attuale che mostra la necessità di rifondare la realtà su basi nuove e sincere col contributo di un codice comunicativo rinnovato, che recuperi l’antico significato delle cose. Una palingenesi della parola che l’esilio tunisino di Petro e di altri siciliani, come lui “ribelli”, sembra, se non annunciare, quanto meno auspicare come antidoto al caos e al non senso.
dal blog La setta dei giovani vecchi… pubblicato il martedì, 28 agosto 2012