Consolo scrittura antimafia

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S’intitola Cosa loro, l’ha appena pubblicato Bompiani (pp. 318, euro 18.00), e raccoglie una scelta di 64 articoli ricavata, come scrive il curatore Nicolò Messina, dall’«ottantina» che Vincenzo Consolo scrisse sulla mafia, taluni ancora inediti, tra il 1969 e il 2010, e cioè due anni prima di morire. In appendice, utilissimi, Altre notizie sui testi e il Regesto, ovvero la bibliografia completa anche di tutti i pezzi esclusi. In un modo o nell’altro, ci sfilano davanti i protagonisti d’un capitolo insieme doloroso ed eroico della storia siciliana, che però è metafora della nazione tutta, da Luciano Leggio, noto come Liggio, a Pio La Torre. In mezzo: Pantaleone, Falcone e Borsellino; Riina e Brusca; i cugini Salvo e Lima; Cuffaro, Lombardo e Dell’Utri; Enzo Sellerio, Letizia Battaglia e tanti altri ancora. Fa piacere notare che -se si eccettua il dattiloscritto datato dal curatore, ma non con certezza assoluta, nel 1969- i primi due articoli pubblicati entrambi nel 1970, su Liggio e Il Padrino di Mario Puzo, sono apparsi proprio qui, sulle colonne di Avvenire. E’ chiaro che, come recita il sottotitolo (Mafie tra cronaca e riflessione), si tratta di prosa giornalistica e interventi civili, di quella che, in un dattiloscritto del 1985, Consolo stesso, tenendola per altro in gran conto, chiama «scrittura di presenza» (di testimonianza e denunzia), ovvero «una scrittura militante interamente liberata dallo stile», in virtù della quale l’intellettuale si sostituisce allo scrittore. Una scrittura -aggiunge poi Consolo- che «sembra ormai caduta in disuso», proprio nel momento in cui -e mi pare perfetta diagnosi storico-antropologica-, nei piani alti della letteratura, e paradossalmente, «la verticalità dello stile inclina pericolosamente verso l’orizzontalità», in cui tutto si uniforma e omologa, sino a coincidere con il linguaggio «dell’informazione».

Ho detto che siamo di fronte perlopiù ad articoli di cronaca: ma stiamo attenti. Perché il talento dello scrittore sfugge spesso al controllo vigile del militante. Forte, seppure repressa, resta la tentazione della metafora, e sempre sul punto d’innesco -per fortuna- la vocazione narrativa. Così, per fare un esempio, su Ignazio Salvo, “il ministro”, nell’aula del processo, dopo la morte del cugino Nino, in un articolo del 1986: «Ma non aveva più quella patina lustra di un tempo, era pallido e imbiancato come se una raffica di polvere l’avesse investito». Per non dire di quella disposizione all’invettiva che, non di rado, erompe nei suoi libri d’invenzione. E’ il 1982, su Salemi: «paese terribile, di predoni e d’assassini, nemici di Cristo e amici di Caifa, paese estremo, desolato, posto su nude, riarse colline di gesso». Consolo in effetti, senza però mai recedere dagli imperativi morali e politici, non perde occasione per aprire parentesi, per divagare in funzione narrativa, per lasciarsi andare al ritratto, in modo da servire, quando possibile -persino dalla trincea di un’aula di giustizia-, le ragioni della letteratura. Cito proprio dal primo articolo apparso su Avvenire, propiziato dalla scomparsa di Liggio da una clinica romana, «senza lasciare traccia di sé», dopo la clamorosa assoluzione per insufficienza di prove «dall’imputazione di associazione per delinquere e da una serie di omicidi (nove) e di un tentato omicidio per non aver commesso il fatto». Ecco: «Abbiamo raccontato il fatto con estrema sintesi, perché vogliamo parlare più particolarmente, per ragioni “letterarie”, d’un personaggio che nella storia di Liggio entra ogni tanto per poi sparire e di cui la stampa poco si è occupata».

La letteratura, insomma. E, se si vuole, il romanzo, seppure allo stato latente: quando è vero che, a entrare ora in scena, come arrivasse da un romanzo di Simenon, sarà un funzionario di polizia poco noto che risponde al nome di Angelo Mangano, «un gigante di due metri», il quale, cinque anni prima, d’origine siciliana ma trasferito da Genova a Corleone, in soli sei mesi riesce a catturare il capomafia. Lo intercetta, Consolo, in un libro di Dominique Fernandez, Les événements de Palerme e in pochissime pagine ne fa leggenda: quella d’un investigatore che procede implacabile, con conseguenzialità quasi matematica, mentre ottiene lo straordinario risultato di riconciliare con le istituzioni, diventandone come l’eroe, un paese riluttante e risentito, terrorizzato e omertoso. Ma intendiamoci: questi qui restano tentazioni e scantonamenti, mere parentesi. E’ evidente sin da subito, infatti, che Consolo guarda a Sciascia come maestro di razionalità, senza però seguirlo in quegli esiti formali di scrittura spuria, nutrita di saggismo, nobilmente elzeviristica, che avrebbero anticipato, in opere come -per citarne solo alcune- Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), La scomparsa di Majorana (1975), L’affaire Moro (1978), tanta narrativa non finzionale dei nostri anni. Nessuna intenzione, da parte di Consolo, di dismettere il cilicio della «scrittura di presenza», di concedere qualche chance alle ragioni dello stile, sacrificando la nuda e cronachistica referenza della verità. E tutto questo proprio per preservare le differenze, che non sono solo e banalmente di genere letterario, ma estetiche e ontologiche, quando è vero che, se entriamo nel dominio del romanzo, l’estetica e l’ontologia coincidono: come dimostra in modo eclatante e coerente tutta la vicenda del Consolo narratore, da La ferità dell’aprile (1963) a Lo spasimo di Palermo (1998), passando per  quel capolavoro assoluto che è Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976).

Che cosa voglio dire con ciò? Che per Consolo -il quale ha alle spalle la parola-giustizia di Vittorini, le alchimie liriche di Piccolo, le oltranze ritmiche di D’Arrigo- la letteratura più vera resta sempre consegnata a un’oltranza prosodica e a una scommessa di stile. Se gli si chiedeva quale scrittore sentisse a sé più vicino, la sua risposta, infatti, correva al nome d’un poeta: Andrea Zanzotto.

                                                                Massimo Onofri

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Il Barone e il Marinaio. Un volto di Antonello da Messina nel romanzo di Vincenzo Consolo.

DI FRANCESCO GALLETTA 

Quando Vincenzo Consolo reinventò, suo malgrado, il ritratto Mandralisca di Antonello da Messina: un lampo letterario che vale più di una descrizione storico artistica.

Vincenzo Consolo (1933-2012) Il sorriso dell’ignoto marinaio

RECENSIONE: Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori Milano, 1977.

Nel 1977 Vincenzo Consolo pubblicò, per Oscar Mondadori, Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo che rivelava – per la prima volta al grande pubblico – l’originalità della sua scrittura dopo gli esordi d’inizio anni ‘60. L’opera, ambientata in Sicilia tra il 1852 e l’arrivo dei garibaldini, prende spunto da un fatto realmente accaduto: la sommossa popolare nel paese di Alcari Li Fusi, in provincia di Messina, dopo il ritiro dell’esercito borbonico.

Al di là delle vicende raccontate o dell’impegno civile dell’autore, a colpire il lettore è senza dubbio l’impianto narrativo del romanzo, basato sull’intreccio di linguaggi differenti, l’uso di mirabolanti invenzioni linguistiche, l’intersecarsi dei piani temporali e l’inserimento di documenti storici nel testo. Il sorriso del titolo si riferisce invece all’uomo rappresentato nel cosiddetto “ritratto Mandralisca” di Antonello da Messina e al suo “doppio fittizio”, Giovanni Interdonato, un personaggio della storia che gli somiglia fortemente.

In verità, come terrà a precisare lo stesso Consolo nella Nota all’edizione del ventennale (1997), del dipinto e del personaggio egli fa un uso ben preciso: “il ritratto […] si configurava come il motore di una possibile narrazione […] punto d’avvio d’invenzione, costruzione soprattutto linguistica”. E ancora, riferendosi al testo: “il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento, in senso etico, estetico […] dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore”.

Questa precisazione, quanto mai opportuna per definire gli originali propositi dello scrittore, ci aiuta a comprendere meglio la sua geniale incursione nel mondo di Antonello e le conseguenze (non intenzionali) da essa provocate. La definizione di ignoto marinaio ha travalicato, infatti, le pagine del libro e del personaggio cui fanno riferimento, quel Giovanni Interdonato che in barca, abbigliato come un marinaio, si presenta per la prima volta al barone Mandralisca “con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce il futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”.

D’improvviso, per quegli strani incroci dei destini generati autonomamente dai personaggi letterari, l’uomo del dipinto e il suo doppio del romanzo, che comunque fa l’avvocato, si scambiano di ruolo: da quel momento, anche l’effigiato sarà comunemente inteso come marinaio. A tal punto che per molti storici dell’arte diventerà paradossalmente un dovere, ribadire che l’ignoto del dipinto non avrebbe mai potuto essere, per  valide ragioni, un uomo di mare ma presumibilmente un “baruni”, cioè un proprietario terriero.

Equivoci, stravolgimenti e discussioni, oltre gli intenti dell’autore, hanno quindi accompagnato da quel momento il ritratto di Antonello, benché nel romanzo, a ben guardare, si parli di esso solo in punti ben precisi. In ogni caso, la descrizione dell’effigiato data da Consolo, sempre al di là delle sue (non) intenzioni, si può considerare quanto di più poetico sia mai stato scritto su un dipinto del pittore.

Vale la pena riprenderne la parte più interessante: “il barone […] tolse il panno che copriva il dipinto. Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. […] L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto”.

E ancora, andando oltre: “tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà”.

Lo scrittore, attraverso il ritratto, ci descrive finalmente un uomo, presumibile protagonista di molte vicissitudini, non più soltanto (o necessariamente) il tipo siciliano, come quello, pur sublime, raccontato da Sciascia (L’ordine delle somiglianze, in G. Mandel, Antonello, 1964) o l’altro più convenzionale di Zeri: “nel cui sorriso tra eginetico e minatorio è condensata l’ambigua essenza dell’isola terribile” (Percezione visiva dell’Italia e degli italiani nella storia della pittura, in Storia d’Italia VI, 1976).

In definitiva, in un momento in cui la storia critica del pittore non è ancora del tutto compiuta (la definitiva sistemazione di Fiorella Sricchia sarà del 1986), la scrittura di Consolo, con un lampo critico innovativo, probabilmente unico, ci regalava un Antonello diverso. Benché, proprio quel linguaggio, all’inizio incompreso, con il richiamo all’ironia del personaggio e alle tante sfumature del carattere, possa aver influenzato, magari inconsapevolmente, altri autori successivi per molti anni a venire.

Almeno fino alla monografia del 2006 in cui Mauro Lucco, con mal celata ambizione letteraria, arrivava a distinguere i volti diversamente ironici dei ritratti antonelliani cosiddetti Altman, Thyssen e, appunto, Mandralisca.


Consolo, Sciascia e Bufalino

Vincenzo Consolo (1933 –  2012) è stato scrittore, giornalista e saggista e autore di numerosi saggi sulle diversità culturali della Sicilia e del bacino Mediterraneo. Nato a Sant’Agata di Militello (Messina), visse a Milano dal 1969 e debuttò come scrittore nel 1963 con il suo primo romanzo La ferita dell’aprile, una narrativa sulla vita di un paese siciliano e le lotte politiche del dopoguerra. Consolo però, divenne famoso come autore nel 1976 con Il Sorriso dell’Ignoto Marinaio. Da molti critici è considerato uno degli autori più significativi della letteratura contemporanea  a livello mondiale. 

 26 SETTEMBRE 2017

Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta

Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta

Vincenzo Consolo e l’arte di dover scrivere di un’isola felice e maledetta

Viaggio in Sicilia, a Sant’Agata di Militello, paese natio del grande narratore italiano Vincenzo Consolo

Una Prof. in AmericaFilomena Fuduli Sorrentino 

Ogni volta che vado in Italia, una mia aspirazione è visitare la Sicilia. Attraversare lo stretto sul traghetto e arrivare sull’isola è un’esperienza bellissima, ancora più bella se si viaggia in auto e si visitano diverse città siciliane. Quest’anno in Sicilia ci sono stata due volte, la prima per passare una giornata a Taormina in compagnia di mio fratello e dei miei nipoti; la seconda invece per un obbiettivo culturale più specifico, arrivare a Sant’Agata di Militello, il paese natio di Vincenzo Consolo, considerato uno tra i maggiori narratori italiani contemporanei, e visitare la Casa Letteraria, inaugurata di recente. Volevo vedere di persona la collezione che include le opere dello scrittore, i suoi quadri, i premi ricevuti, e le sue cose personali.

Vincenzo Consolo oltre a scrittore e saggista, aveva lavorato come giornalista, insegnante, e consulente per la Einaudi. Il libro “La mia isola non è Las Vegas” contiene cinquantadue racconti, racconti di viaggio, d’infanzia, incontri con personaggi, e ricordi professionali pubblicati nell’arco di 50 anni su diversi giornali e periodici italiani come: L’Ora di Palermo, l’Unità, Il manifesto, Il Messaggero, La Stampa, Il Corriere della Sera, Giornale di Sicilia, La Sicilia; alcuni di questi quotidiani non esistono più. Leggendo i suoi saggi, i suoi romanzi, e ascoltando le sue video interviste, Consolo descrive “la sua isola” nei minimi dettagli, raccontandone le bellezze e i problemi. A me la Sicilia affascina moltissimo, la trovo veramente bellissima; una terra ricca di civiltà mediterranee, di storia, di cultura, di arte, con un mare da sogno, sole africano, e cibi gustosissimi. Non si finirebbe mai di girarla e di apprezzarne le sue bellezze, la sua storia, e il suo cibo, proprio come scrive Consolo in uno dei racconti di Le pietre di Pantalicain cui il protagonista si chiede: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”.

Ero in compagnia di mio marito, e quando siamo arrivati al Castello Dei Principi Gallego, nel centro storico della città, tra piazza Francesco Crispi e la storica piazza Vittorio Emanuele ribattezzata Piazza Vincenzo Consolo il 18 febbraio 2017, ci aspettava Claudio Masetta Milone, uno dei fondatori dell’Associazione “amici di Vincenzo Consolo”. Claudio, cortesemente ci ha fatto da guida del castello incominciando da “La casa letteraria di Vincenzo Consolo” dove sono custodite, a disposizione della cittadinanza, le opere dello scrittore e la sua biblioteca personale con oggetti preziosi e premi ricevuti nel corso della sua lunga carriera letteraria. La donazione voluta dalla signora Consolo, include ricordi e ricchezze culturali che Consolo collezionava durante i suoi viaggi, e tra questi ho notato modelli di piccolissimi libretti di ceramica o di ottone, e lumache di ceramica o di ottone (chiocciole, simbolo del castello Gallego e del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio). Ci sono pezzi antichi che ricordano il lavoro fatto a mano della cultura contadina siciliana, come un telaio per tessere, dei birilli di legno, i suoi libri, i suoi quadri, le onorificenze ricevute da diversi Paesi esteri come la Francia, l’onorificenza del Presidente italiano, la macchina da scrivere che usava per il suo lavoro, e tante altre cose; troppe per essere elencate in questo pezzo, e tutto a disposizione degli studiosi e del pubblico. Ero contentissima di trovarmi li ed emozionata allo steso tempo guardando e toccando le cose personali di Vincenzo Consolo sullo scaffale; tra le sue cose c’era anche L’opera completa di Vincenzo Consolo, opera pubblicata nei Meridiani Mondadori grazie alla cura di Gianni Turchetta.

Nello studio c’erano anche molte foto, ma una foto datata 1968 aveva attratto la mia attenzione, erano fotografati: Consolo insieme allo scrittore Leonardo Sciascia e al poeta Lucio Piccolo nel giardino della villa Piccolo a Capo di Orlando. Mente guardavo la foto ho chiesto al signor Masetta Milone, amico intimo di Consolo e della signora Consolo, quanta importanza dava lo scrittore all’amicizia, Claudio mi rispose con una citazione dal libro La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo“…E questa amicizia, che quando uno è solo contro tutti, l’altro gli dice ecco qua, siamo in due”. Lucio Piccolo era un poeta e viveva nella villa “Piccolo” a Capo d’Orlando, ma passava molto tempo anche a Palermo. Piccolo era conosciuto come il barone, ed era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore di un unico ma famosissimo romanzo, Il Gattopardo. Lucio Piccolo era un  uomo molto solitario e chiuso in se stesso, amava la solitudine. Consolo da giovane lo andava a trovare spesso alla sua villa a Capo d’Orlando e ci restava per ore a parlare di poesie e di lingua. Per Consolo visitare Piccolo era come andare a lezione, lo stimava molto e lo riteneva un suo maestro.

La laurea “honoris causa” in Filologia Moderna, conferita dall’Università degli Studi di Palermo

Con Leonardo Sciascia Consolo aveva un rapporto diverso da quello con il poeta Lucio Piccolo. Consolo per Sciascia custodiva un’amicizia storica e un gran rispetto, e come Sciacca, egli era motivato a sconfiggere l’ignoranza che alimenta la cultura mafiosa in Sicilia. Leonardo Sciascia viveva a Recalmuto e Consolo doveva prendere il treno da Sant’Agata di Militello per andare a visitarlo, ma di solito lo faceva una volta la settimana. Prima di Sciascia, nessun scrittore aveva scritto di Mafia, egli fu il primo a scriverne nel suo grande successo Il giorno della civetta, terminato nel 1960 e pubblicato nel 1961. Al romanzo si ispirò il film, dello stesso nome, del regista Damiano Damiani uscito nel 1968. Con i suoi romanzi Sciascia dimostrò che l’esistenza pericolosa della Mafia si deve combattere con ogni mezzo disponibile, specialmente scrivendone e diffondendo la cultura e la legalità. Dopo Sciascia Consolo continuò la battaglia contro la Mafia e la criminalità organizzata usando anche lui come arnese la stressa arma, la letteratura. Il signor Masetta Milone, che ha sempre vissuto in Sicilia, dice che la letteratura insieme alla cultura e alla bellezza sono l’arma più potente da usare contro la criminalità organizzata e la Mafia.

Vincenzo Consolo è conosciuto come l’autore della pluralità di lingue e di toni, una caratteristica che afferma la sua identità di scrittore. Lo stile linguistico di Consolo non è dialetto ma nemmeno lingua nazionale. Egli usa vocaboli che esprimono emozioni ma non sono parole dialettali. Il suo stile si allontana dall’italiano comune che egli riteneva troppo tecnico. La pluralità di toni e di lingue comporta anche una pluralità di prospettive, Consolo nei suoi romanzi sceglie di raccontare secondo la prospettiva soggettiva e particolare dei personaggi. Riconoscibile in ogni sua frase è l’utilizzazione di lessici incrociati tra l’italiano antico (la lingua volgare o lingua del popolo) e il siciliano, quindi, la sua è una scrittura che narra una continua ricerca di originalità. Nei suoi romanzi racconta secondo la prospettiva soggettiva di chi è dentro la storia giocando con le parole, come possiamo notare in “Retablo”, nella ode a Rosalia: “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore”. In un’intervista curata da Marino Sinibaldi, giornalista, critico letterario, e conduttore radiofonico, Consolo aveva dichiarato: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”.

Consolo amava la Sicilia, la lingua siciliana, la cultura dell’isola e la lingua italiana, ma era convinto che i giovani a scuola debbano studiare l’italiano e non il dialetto. Nel 2011 egli fu il più critico scrittore contro l’insegnamento del dialetto nelle scuole. Console vedeva la legge che regolava lezioni di dialetto in ogni istituto di ordine e grado come un’iniziativa leghista: “Ormai siamo alla stupidità”, aveva affermato Consolo. “Una bella regressione sulla scia dei ‘lumbard’. Che senso hanno i regionalismi e i localismi in un quadro politico e sociale già abbastanza sfilacciato? Abbiamo una grande lingua, l’italiano, che tra l’altro è nata in Sicilia: perché avvizzirci sui dialetti? Io sono per la lingua italiana, quella che ci hanno insegnato i nostri grandi scrittori, e tutto ciò che tende a sminuirla mi preoccupa”. Consolo usa anche l’arma dell’ironia, ma da quasi tutti i suoi scritti trapela una Sicilia amara per quanto sempre molto amata.




























Tornando alla mia visita al Castello dei Principi Gallego, dopo aver ammirato “La casa letteraria di Vincenzo Consolo”, visito il resto del castello con il signor Masetta Milone, un tempo dimora dei Principi Gallego. Risalendo una scala a chiocciola – simbolo del castello e del nome Gallego – si raggiunge il piano superiore dove si trovava la residenza di Principi Gallego: i saloni di ricevimento, i soggiorni, le stanze da letto, il giardino, le cucine e le stanze più riservate del castello. Come ogni residenza nobile, il castello ha pure una cappella, anche questa con dei segreti: i Principi Gallego potevano assistere alle funzioni religiose senza essere visti, affacciandosi da una finestrella comunicante con alcune stanze dell’abitazione. Aprendo la finestrella Claudio dice: “Da questa finestra i principi guardavano se c’erano belle ragazze in chiesa senza che gli altri se ne accorgessero”. L’ingresso della chiesa si trova sulla piazza, e all’interno della cappella si possono ammirare tele, dipinti e statue di legno dei secoli XVIII e XIX. Visibile da lontano, il campanile della chiesa con il grande orologio.

Continuando il giro del castello arrivo sulle terrazze del palazzo: alcuni sono balconi che si affacciano sulle terrazze settentrionali, un tempo armati d’artiglierie per fermare gli attacchi dei pirati che arrivavano via mare. Da ognuna delle terrazze si poteva ammirare un panorama bellissimo e suggestivo del porto di Sant’Agata Di Militello, dove erano ancorate barche a vela e motoscafi. Si avvistava la curva della costa di Cefalù, e la punta di Capo d’ Orlando, e guardando in rettifilo si poteva riconoscere il bellissimo arcipelago delle isole Eolie. “Il castello domina le isole Eolie, dunque da qui il Mandralisca doveva passare navigando per recarsi a Cefalù – ci spiega Claudio Masetta Milone. E nelle prigioni del castello sono stati imprigionati molti rivoluzionari di Alcara Li Fusi. Consolo parla delle prigioni del castello con molta tristezza; attraverso la figura di Mandralisca, nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo si fa portavoce del malessere delle genti siciliane tradite dalle strutture politiche.

Panorama marittimo da uno dei terrazzi del Castello (Foto VNY, F.S)

I Principi Gallego ottennero la signoria della città nel 1573, Vincenzo Gallego e suo figlio Luigi costruirono il castello nel 1663. Il castello fu venduto nel 1820, insieme alle terre, dall’ultimo erede dei Gallego al Principe di Trabia. Nello stesso secolo i privilegi feudali declinarono. Il libro di Vincenzo Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio finisce con una descrizione precisa del castello-carcere di Sant’Agata di Militello, che per la sua forma a chiocciola divenne un simbolo architettonico per anime malvagie: “E siam persuasi che quell’insolito e capriccioso nome chiuso tra le parentesi che vien dopo Girolamo del principe marchese, Còcalo, sicuramente d’accademico versato in cose d’arte o di scienza, sennò sarìa stato eretico per paganità, abbia ispirato l’architetto. Essendo Còcalo il re di Sicilia che accolse Dedalo, il costruttore del Labirinto, dopo la fuga per il cielo da Creta e da Minosse, ed avendo il nome Còcalo dentro la radice l’idea della chiocciola, kokalìas nella lingua greca, còchlea nella latina, enigma soluto, falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso, la grande entrata da cui si può uscire seguendo la curva sinuosa ma logica, come nella lumaca di Pascal, della sua spirale, l’architetto fece il castello sopra questo nome: approdo dopo il volo fortunoso dal grande labirinto senza scampo della Spagna, segreto sogno di divenire un giorno viceré di Sicilia, sforzo creativo in sfida alla Natura come l’ali di cera dell’inventore greco o solo capricciosa fantasia?” Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Come la vita di ogni scrittore, anche quella di Vincenzo Consolo non fu facile. Terminate le scuole superiori si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, dell’Università Cattolica di Milano. Consolo decise di fare l’università a Milano perché c’erano Vittorini, Quasimodo, e c’era stato Verga. Però, per far contenti i suoi genitori egli si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e non a quella di lettere; la sua famiglia considerava l’insegnamento un lavoro da donne e non da uomini. Durante il tempo in cui si trovava a Milano fu costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, e in seguito si laureò in Giurisprudenza con una tesi in filosofia del diritto dall’Università di Messina, e ritornò a vivere in Sicilia dove si dedicò all’insegnamento nelle scuole agrarie. Nel 1963 debuttò con il suo primo romanzo, La ferita dell’aprile, una narrazione della vita di un paese siciliano straziato dalle lotte politiche del dopoguerra. Nel 1968, dopo aver vinto un concorso alla Rai, si trasferisce a Milano, dove vivrà e lavorerà fino alla sua morte svolgendo un’intensa attività giornalistica ed editoriale, e alternando alla vita milanese con lunghi soggiorni nel paese d’origine. Nel 2007 ricevette la laurea “honoris causa” in Filologia moderna dall’Università di Palermo.

Tra le opere di Vincenzo Consolo riordiamo: La ferita dell’aprile (1963), Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, la sua opera più celebre), Retablo (1987, premio Grinzane), Le pietre di Pantalica (1988), Nottetempo, casa per casa (1992, premio Strega), L’olivo e l’olivastro (1994), Lo spasimo di Palermo (1998). Lunaria (1985, dialogo fiabesco di sapore leopardiano). Consolo ha scritto anche per il teatro (Catarsi, 1989) ed è stato autore di saggi dedicati alla sua terra, la Sicilia: La pesca del tonno in Sicilia (1986), Il Barocco in Sicilia (1991), Vedute dallo stretto di Messina (1993).

Concludo con una citazione di Vincenzo Consolo,  tratta da una video intervista: “Perché molti siciliani scriviamo? Noi scrittori siciliani non è che non sapevamo che fare, ma abbiamo sentito il bisogno di spiegarci, di capire le ragioni di tanto malessere di quest’isola. Da sempre un’isola che potrebbe essere veramente un isola felice, l’Isola dei Feaci, perché abbiamo tutto; abbiamo la terra, le antichità. Eppure, per i mal Governi che si sono succeduti da sempre quest’isola e diventata un’isola maledetta, un’isola infelice”.

Filomena Fuduli Sorrentino

Filomena Fuduli Sorrentino

Una Prof. in America

Calabrese e appassionata per l’insegnamento delle lingue, dal 1983 vivo nel Long Island, NY. Laureata alla SUNY con un AAS e in lingue alla NYU

Incroci identitari in Vincenzo Consolo

Scritto da Mario Minarda – cover consolo

(Recensione a Mediterraneo. Viaggiatori e migranti di Vincenzo Consolo, Edizioni dell’Asino, Roma, 2016, pp.38).

Due parole al singolare, mito e storia, che fissano i nuclei ideativi di partenza e una al plurale, letterature, che di quei nessi costituisce la filigrana espressiva, la facies esteriore, ma anche l’antico sostrato di fondo, disseminato in reminescenze culturali multiple. Queste le connotazioni principali che affiorano leggendo Mediterraneo. Viaggiatori e migranti di Vincenzo Consolo (Edizioni dell’Asino, Roma, 2016, pp.38), una piccola silloge di prose in forma breve che raccoglie testi già pubblicati dall’autore del Sorriso dell’ignoto marinaio, alcuni dei quali presenti nel recente Meridiano mondadoriano, curato da Gianni Turchetta.

Il libro presenta un prezioso incastro di storie, riprodotto anche nella struttura stilistica degli scritti, accomunati dall’incisiva brevitas e dal tema conduttore: il viaggio, il movimento continuo come metafora di accoglienza e scambio. Ma anche come dispositio mentale di luoghi e sogni, identità meticcie, desideri ed emancipazioni. La dimensione narrativa, da questo punto di vista, è solo l’attacco emblematico di un itinerario conoscitivo nel quale trovano posto riflessioni critiche sulla lingua e la storia, reportage, memorie private e recensioni letterarie: spunti per una spicciola, e sui generis sociologia della letteratura, in costante dialogo con i fermenti dell’attualità.

Attraverso essa Consolo ci consegna una scrittura ricca, curiosa e vorace, dipanata in una tessitura testuale che segue la Storia ufficiale (citata , per esempio, è la Storia dei musulmani in Sicilia, di Michele Amari), ma che non disdegna le antiche cronache locali dimenticate, gli aneddoti legati a certe figure minori, o le microstorie, anche di natura (auto)biografica, che hanno dato vita a trame letterarie di intensa levatura, come ci insegna, tra gli altri, Leonardo Sciascia, che di Consolo fu amico e maestro. Ne viene fuori una prosa a metà strada tra racconto e saggio, nella quale l’armonizzazione dei pensieri dell’autore si accompagna ad una piacevole cifra conversativa con il lettore.

Si parte così dal racconto dei racconti, ovvero Il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario, palinsesto mitico per eccellenza, bacino universale di smarrimenti e frustrazioni, ma anche di fascinose seduzioni, dal momento che «Il romanzo di Ulisse non poteva che svolgersi in mare, perché il mare, questo cammino mobile e mutevole, è il luogo dove avviene il distacco dalla realtà, dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico» (p.7). Il movimento si associa al ricordo e alla trascrizione di esso, come a volere catturare un’impressione gravida di informazioni sul sociale, religiose, geografiche, familiari. È il caso del viaggio di Ibn Giubayr, curioso pellegrino arabo di fede islamica che disegna nel suo taccuino una privata odissea, ossia un «magico Memoriale» pubblicato postumo, che rievoca un lungo percorso da Granada verso la Mecca, passando attraverso le meraviglie abbaglianti di una Sicilia ancora inedita.

L’autore non manca tuttavia di gettare un occhio alle questioni geopolitiche più controverse, per scoprire come facili razzismi e difficili integrazioni odierne, andando indietro nel tempo, apparissero lievemente mutate di segno: ne è eco «la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano» in Tunisia che «avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali» (p.26).

La congerie embricata di trame e riflessioni morali continua fino alla chiusura dell’antologia consoliana, costituita dal racconto Uomini sotto il sole del 1963, dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani. Attraverso questo libro, che parla di esuli, di profughi senza patria morti tragicamente mentre andavano in cerca di fortuna nel Kuwait, Consolo ci parla del tema delle precarie identità nazionali e civili, sfibrate in mille rivoli retorici e spesso avulse dal multi prospettico reale; dolenti tasselli di una consunzione erratica e seminomade che dal mondo torna sempre alla letteratura e, attraverso essa, guarda con più viva circolarità e densa incisività di nuovo al mondo.

Rileggere Consolo in altre lingue


Il racconto di Irene Romera Pintor, studiosa e traduttrice dello scrittore.

La sua scrittura incartata con un senso etico fortissimo, il suo personale plurilinguismo, il suo restare un meridionale al Nord, pur lavorando alla Rai di Milano per una vita intera: difficile schedare un personaggio come Vincenzo Consolo dietro un’etichetta o contenere la sua opera dietro un solo appellativo.
E poi la lingua italiana a volte non basta a spiegare la propria letteratura.
Riguardare al lavoro dell’intellettuale siciliano dietro la diversa prospettiva delle sue opere nelle traduzioni, cinque anni dopo la sua scomparsa, è il senso del seminario “Rileggere Consolo in altre lingue” che si svolgerà questa mattina alle 12, presso Palazzo Codacci Pisanelli (Aula3). A parlarne sarà Irene Romera Pintor docente di filologia italiana presso l’Università spagnola di Valencia, studiosa (tra le altre cose) dell’opera di Vincenzo Consolo, del quale ha curato e tradotto “Lunaria” (2003) e “Filosofiana” (2008 e 2011). Premiata per il primo lavoro con il premio per la Traduzione di Opere Letterarie e Scientifiche del Ministero degli Affari esteri italiano, Irene Romera Pintor ha organizzato sullo scrittore italiano anche vari convegni di studio in Spagna, curandone i relativi atti.
“Rileggere Consolo in altre lingue” è il nuovo appuntamento di cicli di seminari “Con testo a fronte. Poeti e testi a confronto”, a cura del Centro di ricerca Pens (acronimo di Poesia Contemporanea e Nuove Scritture) recentemente nato presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento e coordinato dal professor Antonio Lucio  Giannone, docente di Letteratura contemporanea dell’Università del Salento.
Irene Romera Pintor vaglierà, spiegherà e dimostrerà il valore di quest’opera poliedrica della letteratura italiana vista da un altro paese del contesto europeo, modulando quindi con un’altra lingua le operazioni linguistiche di Consolo, le sue caratteristiche e le sue scelte stilistiche in una più ampia visione artistica culturale.
Consolo è stato di recente anche inserito, con la sua opera omnia, nella collezione dei “Meridiani” di Mondadori. In quella occasione si è tenuta un’altra giornata di studi a Lecce, sempre organizzata dall’Università del Salento, sullo scrittore di Sant’Agata di Militello, acuto saggista e giornalista, per i rapporti che ebbe con il Salento e con l’università in relazione alla pubblicazione di due suoi volumi con l’editore pugliese Manni.  Si trattava di “Oratorio” del 2003 e di “La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo” del 2007 che vennero presentati in Puglia in entrambi i casi da Giannone  insieme a Consolo. Dedicare questo seminario nel calendario del Centro di ricerca Pens a Consolo, al di là dell’indubbio valore del personaggio, è anche una scelta nata dall’interno di un rapporto di particolare stima e di relazioni elettive che non si sono mai spezzate (in particolare con Giannone, che organizza anche questo evento con Pens).
Da “Di qua del faro” a “La ferita dell’aprile”, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, “Retablo”, “Le pietre di Pantalica”, “L’olivo e l’olivastro”, “Lo spasimo di Palermo” e a tanti altri lavori, merita riletture questo scrittore dalle ampie vedute, fortemente impegnato e attento alle tematiche di una certa letteratura meridionale, ad un sentire che profuma di vento di mare e di salsedine, alle passioni di terre tumultuose e violate dalla dimenticanza e dalle ingiustizie, con la loro storia irrisolta.
Consolo, classe 1933, vincitore del concorso alla Rai nel ’68, giornalista per L’Ora dal ’64, consulente editoriale di Einaudi con Italo Calvino e Natalia Ginzburg, Premio Strega nel ’92 con “Nottetempo casa pere casa”, ha vissuto a Milano fino alla sua morte, nel gennaio del 2012. Ma pur avendo lavorato e abitato al Nord per la maggior parte della sua esistenza, restò un siciliano verace e si dedicò alla sua terra, anche come giornalista. Fu un autore proteso alla conservazione della memoria storica. Raggiunse la grande notorietà nel 1976 con “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, considerato presto il suo capolavoro, una sua rivisitazione del romanzo storico sui moti rivoluzionari in Sicilia nel 1860.

di Claudia Presicce
(articolo pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia – 16 marzo 2017)

VINCENZO CONSOLO POETA DELLA STORIA

di Carmelo Aliberti

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Il nome di Vincenzo Consolo è stato associato, ormai quasi definitivamente, a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale. Consolo è convinto che “non si possano scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, perciò le sue creazioni narrative sono protese al setacciamento dell’ovulo della parola, alle alchimistiche operazioni di orchestrazione lessemo–stilematiche e sintattico-ritmiche al fine di far sprigionare dalla solfeggiata andatura del periodo, il soffio segreto dell’elegia. Infatti la sua prosa riecheggia di sonorità liriche, ricca di figure retoriche, allitterazioni, assonanze, paronomasie che, nello scandire i momenti evocativi della memoria e i temi scottanti dell’attualità, particolarmente della storia siciliana, si innalza ai vertici della poesia, con una chiarezza razionale di stampo illuministico.

Vincenzo Consolo nasce a S. Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio del 1933 da padre borghese e da madre popolana. Visse l’infanzia durante gli anni della Seconda guerra mondiale, turbato dalle crudeltà del conflitto e dalla lotta partigiana, per cui insieme alla famiglia si trasferì in campagna, dove, tuttavia, continuò a riecheggiare l’eco dei bombardamenti, scompigliando anche gli incontri gioiosi dei bambini, compagni di gioco del nostro e vittime innocenti della guerra. Tornato al paese natale, dopo lo sbarco degli alleati, le dolorose vicende di quegli anni fornirono allo scrittore il materiale per comporre il suo primo romanzo. Dopo aver frequentato gli studi presso i salesiani, consegue la licenza liceale al “Valli” di Barcellona P.G. (ME). Quindi si iscrive alla Cattolica di Milano dove, dopo essere stato costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, si laurea in Giurisprudenza a Messina con una tesi in Filosofia del diritto; svolge poi encomiabilmente l’apprendistato di notaio tra il paese natale e Lipari. Presto, però, prevale in lui la vocazione letteraria, sfociata nella composizione del suo primo romanzo “La ferita dell’aprile”. Il testo è ambientato negli anni della “guerra fredda” in un paese della Sicilia settentrionale, e narra le lotte politiche del Secondo dopoguerra, filtrate nel racconto in prima persona del protagonista, un ragazzo che studia in un istituto religioso in un paese di contadini e di pescatori, dove i “carusi” spiano la vita della piccola comunità patriarcale, attraversata dalla tragedia esistenziale. Trasferitosi a Milano nel 1968, le acque del suo mare, tra le coste siciliane e le Eolie e il paesaggio e la storia delle vittime della civiltà contadina e dello stupro della tragedia siciliana, offrono le ragioni profonde della trama del suo capolavoro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), con cui Vincenzo Consolo è conosciuto dal grande pubblico. La genesi del libro non è stata continua; infatti la stesura, per volere dell’autore, fu interrotta dopo i primi due capitoli che furono pubblicati, in edizioni numerate, con un’iscrizione di Renato Guttuso, ma l’attenzione suscitata, indusse Consolo a completare l’opera, con l’aggiunta di altre sette sezioni, dopo dieci anni, su pressante invito dell’editore Einaudi. Il romanzo presenta una struttura complessa ed è ambientato nella Sicilia degli anni 1856 – 1860, cioè negli ultimi anni del regime borbonico, a ridosso della spedizione dei mille e della rivolta contadina di Alcara li Fusi (maggio 1860), repressa nel sangue dai garibaldini di Bixio.
Il protagonista realmente esistito, é facilmente collegabile al contesto di una rigorosa storicità, in cui si dipana anche la vicenda del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il barone Enrico Piraino di Mandralisca, protagonista del romanzo di Consolo, e il principe Fabrizio Salina, protagonista del Gattopardo, sono entrambi aristocratici illuminati e assistono al passaggio dallo stato borbonico a quello unitario nazionale; al radicale pessimismo di don Fabrizio, di idee democratiche e patriottiche, ma lontano dalle vicende politiche e chiuso nelle sue ricerche scientifiche, si contrappone l’illusionistica speranza del Mandralisca, dapprima umbratilmente serpeggiante negli accadimenti ribellistici, ma progressivamente sempre più palese, fino all’epifania finale, paradigmata dalle epigrafi che scandiscono la tragedia dei martiri – eroi, innalzata e premessa ipotetica della redenzione della plebe siciliana. Il romanzo di Consolo è caratterizzato da due metafore fondamentali: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, ironico e pungente simbolo dell’apparente rifiuto aristocratico verso ogni forma di impegno, e la chiocciola, concretizzazione simbolica del labirinto della storia, dalle ampie entrate e dall’uscita sinuosa, speculare emblematicità del percorso delle vicende umane. L’opera è caratterizzata da moduli narrativi complessi, espressi in terza persona e con proiezioni in spazi neutri, la “lettura e la “memoria”, redatte e osservate dal protagonista, con scene corali, ora inflesse in enigmatiche articolazioni, ora riflesse sui tabulati della tragedia, sono declinate con contrapposti regimi narrativi, connotati dalla lingua brillante del Mandralisca, e dalle molteplici inflessioni popolari, sopra cui si staglia la cesellatura linguistica dello scrittore che dispiega galassie paesaggistico –naturali e implosive oscillazioni emotive, in scansioni descrittive di aureo impianto lirico – semantico. La scelta dei molluschi si traduce, come si è detto, in metafora della vita, in cui si condensano sia le tematiche del libro, che le strutture linguistiche e lessicali. Altro personaggio chiave è Giovanni Interdonato, come il Mandralisca realmente vissuto, protagonista gradualmente emergente da una sorta di baluginante ambiguità, fino alla chiarificazione del suo ruolo di mente nel movimento di liberazione della Sicilia.

Dopo aver chiarito le corrispondenze semantiche tra il sorriso di costui, incontrato su una nave diretta dalle Eolie a Cefalù, i rapporti con il Mandralisca e con altri elementi della nobiltà siciliana destinata al declino, affiorano alla ribalta della storia i contadini della sua terra, protagonisti della sanguinosa rivolta di Bronte, tutti processati per strage, ma alla fine tardivamente assolti per interessamento dell’Interdonato, con segrete interferenze plasmatiche del barone Mandralisca, rivelatosi determinante nell’indicazione e decrittazione dei documenti apposti in appendice, che imprimono chiarezza alle iniziali sinuosità della progressione storico – narrativa.

Enrico Mandralisca non è un nobile, ottusamente custode degli interessi di classe, è consapevole del nuovo corso della storia, non ripiega narcisisticamente nelle bolge della nostalgia, ma sostiene, con modalità correlate al sussulto degli eventi i rivoluzionari che intendono liberare la Sicilia dalle ataviche sedimentazioni di sudditanza, per renderli protagonisti del proprio destino esistenziale e storico.

Il barone sa che la storia è una “scrittura continua di privilegiati” e vorrebbe raccontarne una dove i contadini sono i protagonisti della stessa, ma si accorge che la scrittura dei “cosiddetti illuminati” è sempre “un’impostura”, perché questi si rifanno alle idee astratte di Libertà, Eguaglianza, Democrazia, Patria, che i vinti non sono in grado di capire; solo quando essi conquisteranno da soli quei valori, i discendenti saranno capaci di definirli con parole nuove. Il nobile intellettuale conclude con il riconoscimento dell’inutilità della scrittura e della necessità assoluta dell’azione, perciò, ritiene utile lasciare tutti i suoi beni a favore di una scuola, per i figli dei popolani in modo che imparino a scrivere e narrare la loro storia, per poterne capire gli orrori e coscientemente lottare contro le sopraffazioni subite per conquistare la libertà.

Anche nel romanzo successivo “Retablo” (1987) il racconto scivola su diversi piani narrativi e quadri storici staccati, come le scene variegate di una narrazione continua. Si narra dell’impossibile amore di due protagonisti, il pittore girovago milanese in viaggio in Sicilia, Fabrizio Clerici, e il prete siciliano Isidoro, per due donne, da cui rimarranno sempre lontani. Lo sfondo è una Sicilia lontana, preziosa, agreste. La lingua è ben studiata, con la strategica posizione di lessemi e stilemi idonea ad omogeneizzare lo spazio tra sequenze descrittivo – narrative e pause sono re con l’elencazione paesaggistico – oggettuale, in un intrico d’espressioni secondarie e subordinate condensate in una ampia tavolozza di immagini, situazioni e frammenti realistici, riprodotti con spiralizzante bulinatura neo – post – barocca, che imprime al romanzo una virtuosistica e profondamente vitalistica unità, al di là degli apparenti oscillamenti strutturali e nominali.

Lunaria” (1985) è un originale testo dialogato, sotto forma di favola destinata al palcoscenico che nella Sicilia del ‘700, riscopre il mito della caduta della luna. Il testo inizia nel primo Novecento, quando un anziano barone, in odore di irreversibile declino storico, scrive poesie in cambio di pane, ispirandosi soprattutto alla lun. Dopo anni, il manoscritto del barone, attraverso il ritrovamento di un giovane di Palermo, perviene a Consolo che lo rielabora in testo teatrale, dove mito, storia e poesia, risultano riplasmati sincronicamente nella metrica e nell’ambientazione epocale della Palermo settecentesca, governata da un viceré. Il centro narrativo è caratterizzato appunto dalla “caduta della luna”, che richiama a “L’esequie della luna” di Lucio Piccolo e alle pagine leopardiane delle “Odi”. Ma in Consolo i ritagli testuali delle correlazioni si dispiegano nel ventaglio della teatralizzazione della vita che diventa ansia e vertigine, panico, terrore, di fronte all’eternità e all’iniquità fatuamente terapizzata dall’uomo con inganni e illusioni, che non cancellano il male della Storia. Per cui, alla fine, il vicerè, tra riecheggiamenti leopardiani e intonazione pirandelliana, è costretto, di fronte all’impossibilità della Materia a dischiudersi: “Non sono più il viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete rappresentato una felicità che non avete. Vero re è il sole, tiranno indifferente. E’ finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica solida la cangiante terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima […] sipario dell’eterno”.

Qui la lucreziana giostra dei mutamenti fonomenologici si fonde all’originario immobilismo aristocratico paradigmato dalla mobilità dei registri logico – strutturali, pirandelliani, e avvolti nell’angosciosa indifferenza del lirismo leopardiano. Il motivo della luna i rivela ora ingrediente logico del percorso narrativo consoliano; infatti, innalzato in aree di sublimità lirico – razionale in “Lunaria”, era già presente nella opera adolescenziale “Triangolo e luna”, distrutto dallo scrittore.

A differenza degli scrittori citati, la luna, nell’opera di Consolo, oltre alla insita accezione semantico – filosofica, diventa anche occasione di polemica contro ogni forma di imbrigliante istituzione, anche linguistica, utilizzata anche con l’obiettivo di creare un linguaggio letterario originale. Con tale opera, ridotta a forma dialogica di livello alto, e perciò non teatralmente rappresentabile, Consolo ha inteso rappresentare il tramonto di una cultura e di una civiltà.

Nelle “Pietre di Pantalica” (1988) la storia della Sicilia, riemersa dal sipario della preistoria, e indagata fino ai crudeli anni recenti, dove la scrittura, immersa a captare tracce esaltanti del passato, preme all’interno della sottile rifrangenza delle reliquie e lo scrittore, nella memorabile pagina de suo diario, risulta testimone straziato del precipitare della sua isola verso ogni forma di dissacrazione di carattere morale e umana, che assurge a metafora della crudeltà e dell’iniquità del mondo. Ritornano le riflessioni pessimistiche e una storica catena di sconfitte, ma anche una rinnovata sfida della ragione, a cui è riconducibile il nucleo sotterraneo dell’anima e l’identità genetica dello scrittore.

Un particolare successo ha riscosso la pubblicazione del romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). In questo romanzo, Consolo affronta la storia dell’Italia, alle origini del fascismo, nei primi anni Venti. Qui il giovane intellettuale Pietro Marano, turbato dalle tensioni del primo dopoguerra, aderisce al movimento anarchico – socialista e, dopo aver subito le violenze delle squadracce del regime, attenta con una bomba al palazzo del barone don Ciccio, corrotto sostenitore del fascismo. La dura repressione costringe Pietro ad allontanarsi dalla Sicilia e, lasciato il movimento anarchico, mentre abbandona la sua terra, in seguito ad una operazione di profonda riflessione, ripudia ogni forma di violenza, purtroppo generatrice in quel tempo di efferatezza, di crudeltà e di sopraffazioni. Nella quiete dell’esilio, recuperata una lucida razionalità, decide di ritrovare attraverso il racconto, le vere ragioni di tanto orrore. In questo nuovo romanzo, si registra in Consolo, una visione diversa della storia. Se la scelta finale del protagonista del “Sorriso dell’ignoto marinaio” era l’azione, ora lo scrittore ritiene che solo la letteratura può ricostruire, attraverso il disordine doloroso degli eventi, il vero senso della storia e dei suoi orrori. È il trionfo della letteratura, attraverso cui soltanto si può ridare senso alla morte e ad ogni forma di aberrazione e di irrazionalità. È il romanzo corale di una intera civiltà, dove nobili e contadini, artigiani, disertori ed emigranti, anarchici e squadristi, animano le umane vicende di una Sicilia che sta per essere travolta da tanto dolore e da tanto degrado umano. Lo scritto, anche se ambientato in un’epoca precedente, riflette anche la premonizione dello scrittore di un ritorno del crollo delle ideologie e il preludio di una nuova era di oscurantismo culturale, condizione da cui sono nate sempre nella storia le involuzioni istituzionali verso la tirannide.

L’olivo e l’olivastro” (1994) è un libro al di fuori dei consueti canoni di scrittura. Il protagonista non ha un nome, ma può essere individuato, nonostante l’uso della terza persona, nell’Io narrante dello stesso Consolo. Due sono i grandi temi, apparentemente divergenti, ma che in realtà costituiscono un motivo unico del viaggio del narratore per la Sicilia, sulla scia del naufragio collettivo; come “L’olivo e l’olivastro”, nati dallo stesso tronco, hanno destini diversi, così il primo percorre i luoghi epici di Omero e dei Malavoglia, alla scoperta di civiltà millenarie, comunità immaginarie e mestieri perduti, e rappresenta l’ulivo (che richiama al mito dell’Odissea, quando Ulisse, distrutto dal vano peregrinare, si rifugia nell’isola dei Feaci e si ristora sedendosi sotto un albero di ulivo, accanto a cui cresce l’olivastro), simbolo di una Sicilia innalzata al sistema della ragione, che rievoca amori e passioni. L’olivastro (a volte scatenamento di matta bestialità) rappresenta, invece, quella moderna dello sfacelo architettonico, ambientale e sociale, la nuova Sicilia, flagellata da episodi di rimbarbarimento, di perdita di identità, di orrori, di inquinamento, come quello provocato dalla costruzione della raffineria di Milazzo, dove prima sorgevano sterminati campi di gelsomino. Ad una terra che soffre il dramma storico della disoccupazione e vive nell’eterna tensione della più assoluta precarietà e dell’inappagamento, si contrappone un Nord, dove la tendenza a ridurre l’uomo a mero strumento di produttività, ha ridotto gli spazi di libertà ed ha creato altre condizioni di infelicità, come traspare in questi anni, senza alcuna possibilità di finzione. La Sicilia dalle due anime, rappresentata tra viaggio della memoria e discesa nel labirinto della pietà, viene riscattata dall’immagine della negatività assoluta, nella riaccensione finale della straziante utopia, che fiorisce negli interstizi della catastrofe storica e della selvatica bestialità dell’isola mediante l’illusione della salvezza attraverso la cultura, creditata dalla civiltà greca e ancora viva nella forza del pensiero. Ora il linguaggio è percorso da una più accentuata tensione poetica che sembra accarezzare gli stupri storici e ecologici, con cui la Sicilia ha pagato il prezzo di un’illusoria industrializzazione, con lo scempio del suo incantevole paesaggio, che continua a vibrare nei ritmi del melodico periodare.

Il romanzo “Lo spasimo di Palermo” (1992) è un “nòstos”, il racconto di un ritorno, quello del protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, ai luoghi odioso – amati della sua infanzia e della giovinezza, Palermo e la Sicilia. Ambientato nel periodo dalla fine della guerra ai nostri giorni, su una linea di evoluzione cronologica del pensiero di Consolo, l’opera contiene al suo interno, il romanzo della Sicilia e dell’Italia – tra Milano e Palermo – dell’ultimo mezzo secolo, in un flusso della memoria tra i mali della storia individuale e collettiva fino alle ben note cronache, dell’assassinio di un giudice, a cui si contrappone la storia letteraria d’Italia, caratterizzata da tanta letteratura siciliana. Emblema del romanzo è la chiesa di S. Maria dello Spasimo, oltraggiata nei secoli ed ora restaurata, ed il quadro di Raffaello ivi dipinto, che mostra lo sgomento della Vergine di fronte a Cristo in ginocchio sotto la croce, in un simbolico atteggiamento di implorazione e di pietà per la perdizione dell’uomo di questi anni, che ha smarrito la rotta dell’identità di nobile creatura. C’è il romanzo di Gioacchino Martinez e suo padre, ucciso dai nazisti, il romanzo di Gioacchino e suo figlio, esule a Parigi per la sua adesione al terrorismo politico, c’è il romanzo d’amore di Gioacchino e Lucia, dolcissimo e disperato fino all’annegamento nella follia. C’è il fluire romanzesco della vita verso l’oblio, da cui si salva la voce immortale della poesia, ricantata nelle pagine dei più grandi scrittori, consegnati dalla memoria all’immortalità del futuro, in una sorta di utopistica sopravvivenza della sublimità della letteratura, di cui Consolo avverte di essere fibra consustanziale, già preannunciata in “Nottetempo, casa per casa”. Ne deriva una struttura, lontana da un prefissato schema narrativo, ma formatosi per sovrapposizione di circolari frammenti, disorganicamente ricomposto in una sfuggente dimensione spazio – temporale. Sui fotogrammi di violenze, sopraffazioni e fratture della storia di una pena lacerata, dilaga il regno del silenzio, in cui galleggia il protagonista – scrittore schiacciato dall’inefficienza pragmatica e dalla vacuità della parola, evirata di ogni vitalismo propulsivo. Emerge sul destino sociale e sul racconto del dolore e del silenzio, l’operazione della scrittura sperimentale del protagonista, che, però, si interrompe con l’ultima esperienza della sua vita. Allora decide di tornare alla sua isola, dove muore, come un Ulisse ucciso dai Proci, cioè dai pirandelliani “giganti della montagna”, senza volto e senza ragione, metaforicamente i sacri mostri del nostro tempo, che hanno devastato storia, memoria e tutto.

Sono gli anni straziati della violenza del terrorismo e della mafia, in cui Gioacchino, dopo aver tentato la rivolta, nell’ambito della scrittura distruggendo le convenzioni letterarie, responsabili dello “sfascio” sociale, è condannato alla sconfitta, anche della scrittura. Anche la chiusura del romanzo, con l’uccisione del giudice Borsellino, nel luglio del 1992, risulta desolatamente pessimistica e sancisce la sconfitta della ragione di fronte alle barbarie della società post – moderna.

La narrativa di Consolo, come quella di Sciascia, è pervasa da un forte sentimento civile che vede l’intellettuale misurarsi con i più sconvolgenti eventi della storia e misura la possibilità di incidenza della letteratura sugli ingorghi delle vicende della nostra Sicilia. Ma se lo scrittore nel suo ultimo romanzo abbandona l’intreccio del romanzo, rimpiange di non avere il dono della poesia, attraverso le cui forme di comunicabilità è possibile ritrovare ed esprimere la logica del mondo.

Dal punto di vista strutturale, i romanzi di Consolo risultano molto intrecciati sia sul piano spazio-temporale, che sulla linearità della fabula, su cui s’intrecciano documenti e citazioni, flussi di coscienza e lacerti di un intenso lirismo, in cui le oscillazioni interiori del personaggio diventano le occasioni poetiche dello scrittore.

Il lettore non è guidato da un trasparente filo conduttore, ma tra le geometriche rappresentazioni delle cose e dei sentimenti, nel sedimentarsi di fratture logiche e spiralizzazioni immaginifiche, sorrette da una straniante tecnica-linguistica orchestrata da un lucido razionalismo descrittivo di stampo illuministico, può trovare un collegamento tra spazio letterario e spazio comunicativo, tra procedimento logico e dialogico della narrazione, un modo di superamento delle diverse innovazioni artistiche, infarcite di stilemi e lessemi arcaico-letterarie-dialettali, che risentono della lezione di Gadda, sempre tesa al sublime e al tragico, binomio inscindibile che solo nella poesia ritrova la sua armonica funzionalità.

La vocazione intellettuale di Consolo si manifesta fin dal 1952 quando si allontana dalla Sicilia per andare a studiare Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, dove nella creazione letteraria affiora la cultura meridionalistica e neorealista come avviene per altri scrittori conterranei della diaspora.

Nel suo primo soggiorno milanese egli coltiva dentro di sé un modello di letteratura rappresentato dalla realtà contadina e una tipologia espressiva di stampo sociologico e di facile comunicatività ma già ne “La ferita dell’aprile” e nella produzione successiva, a partire dal “Sorriso dell’ignoto marinaio”, s’impone una scelta di scrittura iperletteraria, attraverso sui, da un lato lo scrittore si colloca accanto alla sperimentazione di Gadda e di Pasolini, dall’altro include l’utopia vittoriana di giustizia che rimarrà antagonistica con gli sviluppi involutivi della storia della sua Sicilia.

Allora incomincerà quella costante discesa di un siciliano nelle drammatiche pieghe dolorose della sua terra vilipesa nella sua dignità e nei suoi diritti dal sedimentarsi di regimi oppressivi, per cui il viaggio rappresenta il tema archetipico del “nostos” ricorrente anche nelle opere successive, come nelle “Pietre di Pantalica”, dove il viaggio si manifesta come immersione totale dell’anima fino alle più ataviche radici della storia siciliana, alla riscoperta di una identità italiana, eterna ed assoluta, fino all’“Olivo e l’olivastro” e alla storia disperata del popolo siciliano, scandita ne “Lo spasimo di Palermo”, dove la rivisitazione di una tragedia storica viene letta nei protagonisti, trucidamene seppelliti nei gorghi di un tempo di spaventosi orrori.

Come ha sottolineato lo stesso Consolo, la sua narrativa riveste “romanzi di ritorno all’isola” e deve essere interpretata come resoconto di un’esperienza di viaggio; “L’olivo e l’olivastro”, infatti, è un diario, tra narrativa e saggistica, in sintonia con la concezione estetica di Consolo, del ritorno doloroso in una Sicilia, “terra di tanti mali”, del passato, mescolati alla devastazione dei valori umani del presente, ma anche utero materno, in cui si agitano nuove ostinate speranze, assieme all’urgenza di nuovi doveri, ma dove l’ulisside consoliano conclude il suo viaggio, senza ritrovare più simboli per l’umana redenzione, perché la terra della memoria è stata radicalmente devastata dallo scempio di tanti Proci imbestialiti, che l’hanno ridotta a rovine.

La conclusione di una Sicilia irredimibile, dove l’isola può essere paragonata alla Troia incendiata di Omero, rappresenta anche l’incupirsi della visione consoliana, che coinvolge l’intera storia italiana, infatti, lo scrittore Gioacchino Martinez, per sfuggire allo sfacelo politico e socio-culturale di una invisibile Milano, dove si era recato alla ricerca di nuovi spazi di civiltà, come Vittorini di “Conversazione in Sicilia”, è ridisceso nella natia Palermo, ora mortalmente imprigionata nella spirale della violenza e del malaffare.

In questi ultimi anni lo scrittore tace. La sua vana creatività sembra essersi prosciugata nella inguaribile ferita della sua isola. Tuttavia, non si arresta la sua attività pubblicitaria, in cui continua a denunciare le devianze e la barbarie dell’Italia contemporanea.

La sua pena di vivere, tuttavia, scorre in maniera autobiografica nelle pagine del testo “Madre Coraggio” (in cui viene evocata idealmente la madre di Vittorini), Consolo scrive: “E qui, al sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate giornaliere con Piera un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la sproporzione tra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato e la grande tragedia che si stava svolgendo laggiù”[1].

Il suo negativismo storico si è esteso ai popoli dell’intero pianeta, ma la necessità di testimoniare sopravvive intatta per poter consegnare al futuro dell’umanità la memoria di un tempo apocalittico.

L’attuale silenzio narrativo dello scrittore è stato interpretato come convinzione dell’impossibilità della letteratura di poter redigere un’immagine credibile del mondo, per il fatale estinguersi dell’utopia che nella tradizione letteraria siciliana si è opposta all’omologazione delle riflessioni e della stessa scrittura, travolgendo gli eroi verghiani, vittoriniani e sciasciani. Infatti, nella nuova generazione di scrittori, sembra aprirsi ad un dialogo con le letterature nazionali e internazionali, dove dato esistenziale e denuncia disillusa del gattopardismo convivono armonicamente nell’attuale classe dirigente siciliana, verso la quale Consolo ha espresso, sia in letteratura, sia nella sua attività pubblicistica e nel suo impegno personale, il suo disgusto e la sua convinta condanna.

BIBLIOGRAFIA

Per quanto riguarda la bibliografia degli scritti di e su (anche stranieri) Vincenzo Consolo, si veda il numero monografico di “Nuove Effemeridi”, viii, 1995/i, 29, a lui dedicato, che contiene una foltissima e significativa antologia della critica.

Di seguito, diamo la prima edizione delle opere: La ferita dell’aprile, Milano 1963; Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, in AA.VV., Narratori di Sicilia, a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, Milano 1967; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Un giorno come gli altri, in AA.VV., Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano 1983; Lunaria, Torino 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988, Catarsi (1989), in AA.VV., Trittico, cit.; Nottetempo, casa per casa, Milano 1992; Neró metallicó, Genova 1994; L’olivo e l’olivastro, Milano 1994. Importante, il libro-intervista Fuga dall’Etna, Roma, 1993. Questi gli scritti critici più importanti, a esclusione dei tanti interventi giornalistici: G. Finzi Strutture metriche nella prosa di Consolo, in “Linguistica e Letteratura”, iii, 1978; M. Fusco, Questions à Vincenzo Consolo, in “La Quinzaine litteraire”, 31 marzo 1980; L. Sciascia, L’ignoto marinaio, in Id, Cruciverba, Torino 1983; G. Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983. Con vecchie e nuove varianti, Milano 1983; M. Fusco, Récit et histoire, Université de Picardie 1984; A.M. Morace, Consolo tra esistenza e storia. La ferita dell’aprile, in Id., Spettrografie narrative, Roma 1984; F. Gioviale, Vìncenzo Consolo: la memoria epico-lirica contro gli inganni della storia, in Id., La narrativa siciliana d’oggi, successi e prospettive, Palermo 1985; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze narrative della prosa contemporanea, in AA.VV., Storia della letteratura italiana. Il Novecento, tomo 2, Milano 1987; C. Segre, introduzione a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987; G. Amoroso, Vincenzo Consolo, in AA.VV., La realtà e il sogno. Narratori italiani del Novecento, a cura di C. Mariani e M. Petrucciani, vol. i, Roma 1987; N. Tedesco, “Retablo”: Consolo tra restauro della memoria e ira (1988), in Id., La scala a chiocciola, Palermo 1991; N. Zago, C’era una volta la Sicilia. Su “Retablo” e altre cose di Consolo (1988), in Id., L’ombra del moderno, cit.; N. Tedesco, “Le pietre di Pantalica”. L’irrequietudine e la carta della letteratura, in Id., Interventi sulla Letteratura italiana. L’occhio e la memoria, cit.; G. Amoroso, Narrativa italiana 1984-1988, Milano 1989; N. Tedesco, Ideologia e linguaggio nell’opera di Vincenzo Consolo, in AA.VV., Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, a cura di D. Perrone, Marina di Patti 1989; G. Turchetta, Consolo: Pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degli orrori, in “Linea d’ombra”, gennaio 1989; G.C. Ferretti, introduzione a La ferita dell’aprile, Milano 1989; N. Di Girolamo, Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo, in “Arenaria”, agosto-settembre 1990; F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id, Intrecci di voci, Torino 1991; S. Perrella, Tra etica e barocco, in “L’Indice”, maggio 1992; M. Onofri, Vincenzo Consolo: Nottetempo, casa per casa, in “Nuovi Argomenti”, 3a serie, 1992, 44, ottobre-dicembre; M. Onofri, L’umano e l’inumano nascono dallo stesso ceppo, in “L’Indice”, dicembre 1994; J. Farrell, Metaphors and false histories, in AA.VV., Italian Writers of the Nineties, a cura di L. Pertile e Z. Baranski, Edinburgh 1994; J. Farrel, Translator’s afterword in Id., The Smile of the Unknown Mariner, Manchester 1994; A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna 1997.

[1] V. Consolo, Viaggio in Palestina, Roma, Nottetempo, 2003, p. 70.

Carmelo Aliberti

 il 7 febbraio 2017 Terzo millennio rivista letteraria

Vincenzo Consolo, la voce della Sicilia, sarà ricordato anche a Tunisi

Vincenzo Consolo, la voce della Sicilia, sarà ricordato anche a Tunisi

Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola



 La polivalenza della forma, del genere e del linguaggio testimoniano la volontà di resistere, tra l’altro, contro reificazioni di senso. La forma elicoidale delle lumache illustra in modo convincente il carattere indefinito delle potenzialità allegoriche nascoste nei testi consoliani. Nel romanzo Sorriso dell’ignoto marinaio questo segno è stato posto ad emblema della bellezza della natura, dell’enigma della storia e dell’oscurità umana60. Le contaminazioni “storiche” di Consolo sono stratificate a più livelli. Esattamente come il simbolo della chiocciola (o spirale degli eventi) che è il culmine del libro Il sorriso dell’ignoto marinaio61. La figura della chiocciola costituisce, come anche quella dell’“ignoto marinaio”, una specie di Leitmotiv; è la metafora dell’ingiustizia sociale dovuta alla distanza fra i privilegiati della classe colta (ai quali appartiene anche il barone Mandralisca che nelle sue ricerche scientifiche si occupa proprio di chiocciole)
 59 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 10. 60 Cfr. F. Di Legami: L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 53. 61 Cfr. A. Giuliani: Edonismo…
e la gente senza cultura e senza voce, e alla distanza fra la classe dei possidenti e quelli che, come i contadini d’Alcàra, si sono mossi “per una causa vera, concreta, corporale: la terra” (SIM, 93). Alla fine del testo Mandralisca s’immagina una nuova scrittura storiografica, una riscrittura che procede dal fondo della chiocciola: “conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene” (SIM, 112). Sotto il segno della chiocciola si condensano più livelli: a chiocciola è l’architettura del carcere in cui si conclude il racconto, architettura che riproduce “il vorticare” della storia; a chiocciola ossia a spirale è la lettura delle scritte che ne tempestano le pareti. Ma il termine “chiocciola”, in cui si condensa tutta la passione di ricercatore del barone Mandralisca, la sua scienza, viene finalmente degradato a esprimere l’astrazione degli “ideali” di fronte alla spinta concreta della rivolta popolana: “una lumaca!”. Alla chiusa del romanzo la figura fisica, il simbolo, la struttura linguistica e narrativa, coincidono con un effetto intenso e felice; quanto basta per sigillare l’intelligenza e la validità di un libro 62. Anche i pensieri nel Sorriso dell’ignoto marinaio sono raffigurati in una inarrestabile scesa spiraliforme dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui si congiura contro i Borboni (primo e secondo capitolo) all’eremo di Santo Nicolò, fino ai villici e ai braccianti di Alcara Li Fusi (terzo e quinto capitolo); le volute diventano gironi infernali con la strage dei borghesi perpetrata ad Alcàra (settimo capitolo). Questa discesa è anche linguistica: al sommo c’è il linguaggio vivido e barocco dei primi capitoli; negli inferi (nono e ultimo capitolo) le scritte compendiarie dei prigionieri, emerse dall’odio, dal rimorso, dalla nostalgia di libertà. Ulla Musarra-Schrøder scopre anche che il dialetto siciliano è sommariamente italianizzato; e quello gallo-romanzo di San Fratello, nella scritta XII, prende già movenze di canto. Ma questi due estremi linguistici e le realizzazioni intermedie non si sovrappongono a strati, bensì si alternano o si mescolano, sempre secondo uno schema elicoidale63. 62
Cfr. G. Gramigna: Un barocco… 63 Cfr. U. Musarra-Schrøder: I procedimenti di riscrittura nel romanzo contemporaneo italiano…, pp. 560—563. 112 Capitolo III:
L’idea della struttura per frammenti Secondo Sebastiano Addamo il simbolo della lumaca64 va analizzato nel modo in cui risulta più utile ai fini dell’interpretazione. Soggettivamente, cioè rispetto al personaggio maggiore del romanzo, il barone Enrico Pirajno de Mandralisca, la lumaca può rappresentare la classica attività dell’intellettuale tradizionale. Ma oggettivamente è ben altro, dato che il medesimo barone Pirajno paragona le lumache da un lato al carcere, che è un simbolo del potere, e, dall’altro, alla proprietà, che è il potere medesimo, e sotto tale aspetto la proprietà viene infatti definita come “la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo”65. Il sesto capitolo del romanzo è tutto attraversato dalla metafora della chiocciola, metafora plurima che designa successivamente i privilegi della cultura, l’ingiustizia del potere, e la proprietà come usurpazione 66. La metafora realizza una sorta di autocritica, dato che di chiocciole si occupa principalmente Mandralisca nelle sue ricerche scientifiche; diventa poi schema descrittivo, nel capitolo ottavo, quando si parla del carcere di Sant’Agata di Militello, in cui sono rinchiusi i colpevoli dell’eccidio di Alcàra. E proprio alla fine del capitolo, che è anche l’ultimo da attribuire ufficialmente al narratore (dato che il nono raccoglie senza commenti le scritte dei prigionieri) troviamo una sezione dei sotterranei a chiocciola nel castello, con un’ulteriore metafora: 64 Consolo ha attribuito il ruolo plurisignificante alla chiocciola nelle sue narrazioni, servendosi anche dei motivi della spirale o del labirinto. Senz’altro si può interpretare la presenza della chiocciola secondo la chiave proposta da Mircea Eliade sempre dove Consolo parla della fine, della morte, della devastazione o della metamorfosi: le civiltà antiche riconoscevano nelle lumache il simbolo del concepimento, della gravidanza e del parto. Similmente, i cinesi, associano i molluschi con la morte, e con i rituali funebri che dovrebbero garantire la forza e la resistenza dell’uomo nella sua futura vita cosmica.
Cfr. M. Eliade: Obrazy i symbole. Warszawa, Wydawnictwo KR, 1998, pp. 156—159. 65 S. Addamo: Linguaggio e barocco in Vincenzo Consolo. In: Idem: Oltre le figure. Palermo, Sellerio, 1989, pp. 121—125. 66
Il concetto di “fortezza — labirinto” prende avvio dalle teorie sviluppate sia da Kerényi che da Eliade e riguardanti il fenomeno della costruzione a chiocciola come archetipo biologico di origine e di percezione. Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola  Ma ora noi leggiamo questa chiocciola per doveroso compito, con amarezza e insieme con speranza, nel senso d’interpretare questi segni loquenti sopra il muro d’antica pena e quindi di riurto: conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire. SIM, 139 Lo schema elicoidale della chiocciola può servire bene per analizzare il romanzo, come ci autorizza a fare Consolo, citando all’inizio di questo capitolo ottavo una frase di Filippo Buonanni, da Ricreatione dell’Occhio e della Mente nell’Osseruation’ delle Chiocciole (Roma, 1681)67: […] sempre più vi accorgerete, che Iddio, compreso sotto il vocabolo di Natura, in ogni suo lavoro Geometrizza, come dicean gli Antichi, onde possano con ugual fatica, e diletto nella semplice voluta d’una Chiocciola raffigurarsi i Pensieri. Alla metafora quindi dell’ironico sorriso, effigiato nel quadro di Antonello da Messina, si associa, opposta e complementare l’immagine della lumaca, emblema di un percorso oscuro in cui si trovano sofferenze e dolori non testimoniati. “V’è una inarrestabile discesa spiraliforme — ha scritto Segre — dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui i congiura contro i Borboni all’eremo di Santo Nicolò, alla combriccola di Santa Marecùma, sino ai villici e braccianti di Alcara Li Fusi; le volute diventano gironi infernali con la strage di borghesi perpetrata ad Alcara, e bolgia ancora più fonda quando nelle carceri sotterranee di Sant’Agata vengono racchiusi i colpevoli”68. Anche se presentato in modo molto dettagliato, questo luogo di isolamento rappresenta uno di tanti luoghi opachi, utopici e incantati. 67
Cfr. C. Segre: Intrecci di voci…, p. 81. 68 F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 26.

Il tema dell’ingiustizia come violazione del tabù L’esigenza dell’impegno

„Scrittore isolato, e solitario, sciolto cioè da legami politici [quali crede] dovrebbero essere gli scrittori, liberi da impegni partitici, ma legati da impegni ideali, morali, storici”. Con queste parole Salvatore Mazzarella definisce l’atteggiamento ideologico di Consolo1 . Parlare dell’ingiustizia, della sofferenza e dell’umiltà nella cultura occidentale significa addentrarsi in una zona pericolosa. Di solito questi argomenti vengono sviluppati in un discorso dedicato alle radici cristiane della nostra civiltà e quando si espone la nozione di sofferenza in una dimensione universale. Il divieto, l’esteticità, l’inopportunità e la convenzione — tutti i concetti indicati appaiono quando si parla del tabù. Esso diventa una sempre più diffusa zona che interessa l’esperienza morale al pari di quella concettuale e da cui l’uomo di cultura si sente attratto e nello stesso tempo deluso. I critici e i lettori sono convinti che lo scrittore sia caratterizzato da “una profonda tensione etica che lo avvicina ai grandi moralisti del passato, tesi ed attenti al compito di descrivere l’uomo nella sua mutevole, e pure,
1  S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 65. 38
eterna storia”2 .
E non basta dire che lo scrittore è propenso a fare del suo stile “un mezzo di intervento e di rivolta, ma anche di proposta umanistica” 3 . Per tale ragione, l’esortazione a non fargli mancare “l’impegno per la giustizia e il risalto netto della voce dei deboli” diventa l’elemento fermo della sua narrativa 4 . Nati spesso dalla suggestione delle letture, degli incontri e delle polemiche dell’attualità, i dilemmi che muovono la riflessione del narratore siciliano relativo alla distinzione tra lo scrivere e il narrare si avvicinano nella loro forma e contenuto all’esercizio scrittorio “capace di incidere sul reale in senso conoscitivo e trasformativo”5 , ideati nei turbini della realtà estranea e vergati su molteplici esperienze, fino a costruire una congerie omogenea e ordinata di sequenze. Dice Consolo: Dopo Hiroshima e Auschwitz, dopo Stalin e Sarajevo, dopo tutti gli orrori di oggi, quei mostri profetizzati da Kafka o da Musil, da Eliot, da Joyce o da Pirandello, sono diventati mostri della storia. Questi mostri credo che la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità6 . Considerando la genesi della scrittura consoliana, è necessario sottolineare lo stretto legame che intercorre fra la complessità delle cose e le vibrazioni affettive e razionali che costituiscono il tratto distintivo della sua scelta di scrittura.
2  F. Di Legami: Vincenzo Consolo. La figura e l’opera. Marina di Patti, Pungitopo, 1990, p. 28. 3  Ibidem, p. 6. 4  Cfr. C. Ternullo: Vincenzo Consolo: dalla Ferita allo Spasimo. Catania, Prova d’Autore, 1998, p. 30. 5  F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 6. 6  V. Consolo: Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia. Roma, Donzelli Editore, 1993, pp. 51—53. (Dalla nota dell’editore: l’intervista a Vincenzo Consolo raccolta in questo volume è stata effettuata il 25 giugno del 1993 a Roma. L’incontro era stato organizzato dall’Imes (Istituto meridionale di storia e scienza sociali), nall’ambito di una iniziativa intitolata “Percorsi di ricerca”, tesa a indagare l’interazione tra la vicenda umana e l’itinerario intellettuale di alcune figure particolarmente significative della cultura del nostro tempo).
L’esigenza dell’impegno.  A ben vedere i tratti che segnano le opere consoliane sono caratterizzati da una propria articolazione della realtà attraverso una comunicazione più immediata e da una responsabilità etica e civile: la presenza di ciò che ha contraddistinto la maggior parte della sua esistenza. Non sarà un caso che all’interno dell’opera il pensiero sul ruolo della produzione letteraria si presenti con frequenza: accompagnato dal senso di una necessità naturale e spesso corretto da una speranza nella capacità della scrittura di mettere ordine e di “portare armonia là dove c’è caos e quindi impossibilità di comunicare”7 . Si pensi alla confessione dello scrittore stesso: “La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo”8 . Le allusioni a David e a Don Chisciotte mettono in rilievo la consapevolezza che la riflessione e la scrittura, e soprattutto una scrittura eticamente e politicamente impegnata, sono una missione. All’atteggiamento di una tale consapevolezza sono dedicate tutte le narrazioni consoliane. Secondo Vincenzo Consolo la narrativa dovrebbe esprimere una responsabilità civile e prendere posizione davanti agli avvenimenti. L’accostamento della scrittura e della responsabilità testimonia la sua personale forma di opposizione o di impulso verso qualcosa di migliore. Quello che conta nelle opere consoliane sono la verosimiglianza dell’osservazione morale, la consapevolezza ritradotta in disincanto e in frustrazione delle speranze, la ribellione, e infine, l’indagine. È possibile comprendere più a fondo le scelte espressive di Consolo confrontando il presente frammento: […] lo scrittore oggi ha il compito di dire, di narrare. Narrare oggettivamente in terza persona dei mostri, delle mostruosità che abbiamo creato, con cui, privi ormai di memoria, di rimorso, pri
7  L. Canali: Che schiaffo la furia civile di Consolo. “L’Unità” 1998, il 7 ottobre, pp. 1, 19. 8  V. Consolo: Fuga dall’Etna…, p. 70. 40
vi dell’assillo di raggiungere una meta, da alienati, felicemente conviviamo 9 . Per accrescere la forza espressiva della riflessione, Consolo aggiunge al generico e spoglio verbo “narrare” l’avverbio: “oggettivamente” che non solo mostra la direzione dell’accurato lavoro di chi scrive ma rivela la stretta connessione fra il messaggio e la responsabilità dell’esistenza altrui. La preoccupazione dell’avvenire, che interessa scarsamente l’uomo mentre gode dei piaceri mondani, è infatti sollecitata dall’acre percezione del dolore subito nel passato. Il frammento sopraccitato indica il coinvolgimento degli intellettuali nell’ordine etico, determinando gli accessibili modelli della presentazione. Molte volte viene sottolineato il fatto che quello che sconcerta il lettore è che non vi è stata giustizia in passato e non vi è nemmeno nel presente. Fortunatamente esiste ancora chi non si arrende. Il protagonista del capolavoro consoliano Il sorriso dell’ignoto marinaio, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca dichiara la crisi irreversibile del suo ruolo di intellettuale organico alla classe dominante: la consapevolezza di una “Storia come scrittura continua di privilegiati” (SIM, 112), di un’impossibilità delle classi subalterne a far sentire la loro voce e il loro giudizio, si salda alla consapevolezza dei “vizi” e delle “storture” che gravano sui pensieri e sulle parole degli stessi aristocratici e borghesi “cosiddetti illuminati”, dell’oggettiva incapacità dei loro “codici” a “interpretare” i problemi delle masse oppresse10. Dunque l’attaccamento all’esperienza della giustizia deve affrontare continuamente il pensiero della frustrazione e con la temibile insidia della debolezza. Se il pensiero della sconfitta può essere solo attenuato dal grido e dal pianto, sempre pronto a svelare gli indegni comportamenti umani, il rimedio all’impotenza va cercato altrove. Si legga l’ampio pensiero di Giuseppe Amoroso: Nella prosa di Vincenzo Consolo, quello che appare e percuote e grida e geme è una presenza vera di lacrime e certezze e anche
9 Ibidem, p. 22. 10 Cfr. G.C. Ferretti: L’intelligenza e follia. “Rinascita” 1976, il 23 luglio. L’esigenza dell’impegno 41 un assiduo riprendere, del tempo, ciò che si è smarrito, non del tutto, non per sempre, portandosi dentro anche i gloriosi cascami della storia […], questa prosa mostra una solennità intangibile, pure dove si china sulle frange, sui refoli, sui margini, in cerca di colori e oggetti e riti di una volta11. Dopo aver constatato che l’espressività di questa prosa è dovuta all’argomento analizzato, Amoroso prosegue con la descrizione della scrittura consoliana marcata da una funzione inconfondibile. Il vuoto e l’insoddisfazione dovuti all’avanzare dell’ingiustizia si placano nella convinzione che “la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare i mostri creati dai potenti. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità”12. Tramite l’analisi presentata il critico vuole decisamente sottolineare l’atteggiamento spirituale piuttosto romantico dello scrittore e l’espressione dei pensieri come studiata e ripensata. Nell’insieme, la produzione consoliana, secondo Amoroso, ha una sua solida struttura, e fa presagire le future ampiezze di respiro lirico. I cinque romanzi sottoposti alla presente analisi sono stati scritti nell’arco di oltre trent’anni. La circostanza, ad avvalorare l’immagine di instancabile ribelle che Consolo ha lasciato di sé, non manca di presentare traccia nella varietà degli argomenti, e dei punti di vista che sono diventati i motivi costanti nella sua scrittura. Spesso si ha l’impressione che l’omogeneità della sua prosa risponda a un’intima esigenza di impegno etico, civile, ideologico e sperimentale. Queste considerazioni, se non illustrano organicamente la poetica della sua prosa, meritano di essere tenute in conto per comprendere, se non altro, i tempi adombrati dai fantasmi delle oppressioni descritte dallo scrittore siciliano. Con Nottetempo, casa per casa in Consolo subentra una rimeditazione, una sosta pensosa sui fatti, sui luoghi, la denuncia. Il testo si basa sulla deliberata ricerca del clima apocalittico, preannunciato dal titolo, e sul resoconto mai banale della pena più antica del tempo, della storia, dell’esistere. Come con
11 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea. Narrativa italiana 1996—1998. Caltanissetta—Roma, Salvatore Sciascia editore, 2000, pp. 464—467. 12 V. Consolo: Fuga dall’Etna…, pp. 51—53. 42
stata Antonio Grillo, abbiamo la forte affermazione della necessità di un impegno da parte degli scrittori13. E Consolo, parlando delle questioni di moralità, vuole sensibilizzare la percezione dei lettori. Silvio Perella, accortosi di tale valenza etica, aggiunge: “il fatto è che, giustamente, l’aspetto etico della sua letteratura sta molto a cuore a Consolo”14. Sa bene lo scrittore che la forza e l’incisività del suo messaggio stanno nell’immediatezza del comunicato espressa dalle narrazioni nei suoi frammenti più drammatici. Il che costituisce, se non una prova del rivolgere la sua attenzione alle sorti degli emarginati, certo una riflessione eloquente sul bisogno di narrare, di raccontare le vecchie e le nuove pene. E nella torre ora, dopo le urla, il pianto, anch’egli stanco, s’era chetato. Si mise in ginocchio a terra, appoggiò le braccia alla pietra bianca della macina riversa di quello ch’era stato un tempo un mulino a vento, e cercò di scrivere nel suo quaderno — ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento. N, 53
La caratteristica principale di quest’articolazione non è la spontaneità peculiare piuttosto dei romantici, ma lo sforzo di trovare le parole più adatte. Grazie al potere di nominare i fenomeni, precedentemente impossibili da esprimere, acquistano l’esistenza, e in conseguenza la propria identità. La forma lirica invece assume una responsabilità che rende possibile l’esistenza di un soggetto e la cognizione di esso. L’anticlimax: “catrame — lava — ossidiana — polvere — cenere — nulla” sottolinea la vanità dello sforzo artistico nei confronti della prepotenza e del dolore che ostacolano il processo creativo. Vengono qui evidenziati, quindi, un appassionato attacco
13 Cfr. A. Grillo: Appunti su Odisseo e il suo viaggio nella cultura siciliana contemporanea: da Vittorini a Consolo e a Cattafi. In: Ulisse nel tempo. La metafora infinita. A cura di S. Nicosia. Venezia, Marsilio, 2000, pp. 593—597. 14 S. Perella: Tra etica e barocco. “L’Indice” 1992, maggio.
all’ingiustizia che assume valore universale, la contradditoria asistematicità di un ricerca esistenziale che non esita a dar voce anche alle pulsioni inconsce e persino alle più inconfessabili, confermata nell’elenco degli espedienti retorici che precedono direttamente l’espressione finale dell’impotenza di “raccontare la vita, il patimento”. Si potrebbe dire che la scrittura si ponga piuttosto come terreno di conflitto che come luogo della sua soluzione. L’esigenza di messaggio è indubitabile15. La caustica riflessione dello scrittore sigla l’amara ricognizione sulle cause della caduta delle forti e generose illusioni riguardanti le facoltà comunicative. Infatti, in una delle sue interviste Consolo dichiara: È necessario scrivere in una forma non più dialogante e comunicativa, ma spostarsi sempre più verso la parte poetica, perché la poesia è un monologo e quindi ti riduci nella parte del coro dove non puoi che lamentare la tragedia del mondo. Per questo la mia prosa è organizzata in senso ritmico, come se fossero dei versi16. Nottetempo, casa per casa è, in confronto al Sorriso dell’ignoto marinaio, più compatto, più chiuso in una sua forma ritmica, densa di significati e piuttosto ermetica. E continua: Ho voluto scrivere una tragedia — niente è più tragico della follia — con scene-capitoli, con intermezzi del coro, che sono le frequenti digressioni lirico-espressive in cui il narrante s’affaccia e commenta o fa eco in un tono più alto, più acceso. Perché questo compattare, perché l’eliminazione della scena del messaggero, dell’anghelos, del personaggio-autore che si rivolge agli spettatori-lettori e narra in termini non espressivi ma assolutamente comunicativi il fatto che è avvenuto altrove, in un altro tempo?
17 15 Cfr. L. Canali: Che schiaffo…, pp. 1, 19. 16 Intervista con Vincenzo Consolo. A cura di D. Marraffa e R. Corpaci. “Italialibri” 2001, www.italialibri.it (data di consultazione: il 28 dicembre 2006). 17 Ibidem.
Infatti, lo spunto questa volta è tragico; ma quell’antica ispirazione malinconica diventa antitetica, forse per reminiscenze classiche di simile allegoria a sfondo politico. E specialmente nella sua espressione contiene l’eco della giovinezza povera, triste, ma fiera e disperatamente fiduciosa. Sullo sfondo, per di più, è impossibile non intravedere la forza di questo progetto. La presa di posizione dello scrittore a favore della poesia potrebbe essere interpretata come un attacco a un preciso bersaglio critico. Se la scienza fornisce un’immagine del mondo in cui non c’è posto per le antiche credenze metafisiche, gli strumenti proposti attualmente si rivelano inutili, se non addirittura fuorvianti. L’obbligo di dare ragione Nati sul filo della conversazione del passato con il presente, i romanzi consoliani sono intessuti di quella curiosità intellettuale che si pone l’obiettivo di raccontare la realtà. Le narrazioni dello scrittore concorrono ad elaborare il comune problema delle vicende dell’uomo di cultura nel quadro della società odierna. Un compito arduo, tanto che molti scrittori di oggi assistono alla progressiva riduzione del proprio spazio in una società che vive accanto, al di fuori delle loro possibilità. Sembra concentrarsi all’efficacia di testimonianza e di verifica e alla partecipazione dell’individuo all’esistenza comunitaria. Secondo Grazia Cherchi “il narratore intellettuale del nostro tempo non ha altro scampo che la parodia”18, e l’autore è d’accordo con lei: lo scrivere in negativo, usare tutti gli abrasivi e corrosivi: l’ironia, il sarcasmo testimoniano il valore delle opere19. Consolo stesso ammette:
18 G. Cherchi: Mille e una notte. “L’Unità” 1987, il 11 novembre. 19
Come verrà verificato nelle analisi successive, Vincenzo Consolo valorizza la prospettiva intertestuale e la parodia come forma specifica di un dialogo tra i testi che è diventata una delle sue tecniche preferite a cui ricorre. Lo scrittore nella maggior parte dei casi realizza questo ‘dialogo’ intertestuale riprendendo la voce altrui e reinterpretandola antiteticamente rispetto al testo di origine.
Cfr. M. Billi: Dialogo testuale e dialettica culturale. La parodia nel romanzo
Costruendo storie che erano una parodia della realtà, ma di una penetrazione e di una tale restituzione della verità che riuscivano ad anticipare lo svolgimento della realtà stessa, ad essere profetiche. La stessa cosa fece Pasolini, fuori della finzione letteraria, della parodia, con i suoi interventi sui giornali, con la forza dei suoi j’accuse, delle sue provocazioni e delle sue requisitorie, dei suoi Scritti corsari. Non li rimpiangeremo mai abbastanza questi due scrittori civili italiani. Nel mio pendolarismo tra la Sicilia e Milano c’è, prima di tutto, la mia vicenda umana, la mia storia di vita, che poi forse diventa vicenda intellettuale e letteraria 20. Questa coscienza estetica e letteraria nell’ambito della quale l’autore cerca di delineare la funzione e il significato delle componenti della cosiddetta “poetica negativa”21 si inscrive nella specificità della letteratura moderna. I protagonisti dei romanzi consoliani rappresentano un catalogo di atteggiamenti diversi orientati verso la lotta contro l’ingiustizia: l’angustia di Gioacchino Martinez ha accanimenti feroci: trovare un senso, placare un malessere, imboccare una “cerchia confidente”22, invece la presa di coscienza del Mandralisca, in realtà, manifesta la sua interna fecondità e incidenza a un livello diverso e anche più profondo 23. Prende così corpo una vicenda romanzesca non organicamente distesa ma articolata in alcuni episodi emblematici, funzionali del protagonista: un aristocratico di provincia, sincero ma cauto patriota, innamorato dell’arte e dell’archeologia, dedito soprattutto agli studi di erudizione scientifica. Proprio a costui accade di trovarsi spettatore degli eccidi di Alcara Li Fusi; ed è appunto la sua vocazione umanistica a consentirgli di capire la giustizia profonda contemporaneo di lingua inglese. In:
Dialettiche della parodia. A cura di M. Bonafin. Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997, p. 213. 20 V. Consolo: La poesia e la storia. In: Gli spazi della diversità. Atti del Convegno Internazionale. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992. Leuven — Louvain-la-Neuve — Namur — Bruxelles, 3—8 maggio 1993. Vol. 2. A cura di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bossche. Roma, Bulzoni, 1995, pp. 583—586. 21 R. Nycz: Literatura jako trop rzeczywistości. Kraków, Universitas, 2001, p. 17. 22 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea…, pp. 464—467. 23 Cfr. G.C. Ferretti: L’intelligenza e follia…
che anima la rivolta contro una legge di oppressione 24. Degna di nota è, senza dubbio, l’attenzione alla dimensione simbolica dei contenuti narrativi riguardanti gli atteggiamenti dei protagonisti, aspetto che lo scrittore non trascura, data la sua conoscenza delle questioni letterarie non solo dell’età antica ma anche della moderna. Ma Consolo collega l’aspetto simbolico e reale del problema nella convinzione che la letteratura dovrebbe conoscere il mondo e dare ragione e nome ai disastri dei nostri tempi. E secondo Giulio Ferroni dovremmo essergli grati “di questi lumi che vengono a rischiarare il nostro tempo cupo e notturno, la nostra notte fantasmagorica e telematica”25. Anche nello studio del passato la curiosità ha un peso considerevole, tanto da costruire un originale canone. Secondo Andrea Zanzotto la narrazione in questo caso non è un soliloquio, è sempre un rivolgersi ai molti che sicuramente partecipano ad una passione; anzi è quasi una preghiera rivolta a non si sa chi o che cosa, mormorata e insistente, interrotta da pause legate ad un loro tempo musicale, e in essa pare si salvaguardi almeno l’unità dell’io, di ogni “io” minacciato dall’oscura follia che irrompe fin dal primo stralunante racconto 26. I romanzi consoliani danno degno compimento a un’attività vissuta all’insegna della convinzione basata sul senso di giustizia, confermando quanto fosse ancor viva e inappagata nel loro autore la naturale propensione a parlare al posto altrui, al posto degli oppressi perché estranei al mezzo linguistico usato negli strati acculturati, il quale, precisa Christophe Charle “non permette loro di esprimere le proprie ragioni, e nemmeno le proprie speranze e la propria disperazione”27. I romanzi di Consolo costituiscono una traversata dei luoghi dell’impostura e cioè delle istituzioni: chiesa, scuola, famiglia, amministrazioni della giustizia, partito. L’argomento ricorrente è quello di fare conti con le credenze imposte o che s’impongono.
24 Cfr. V. Spinazzola: Un discorso facile e difficile. “L’Unità” 1976, il 4 luglio. 25 G. Ferroni: La sconfitta della notte. “L’Unità” 1992, il 27 aprile. 26 Cfr. A. Zanzotto: Vincenzo Consolo: ‘Le pietre di Pantalica’. In: Scritti sulla letteratura. Aure e disincanti nel Novecento italiano. Vol. 2. A cura di G.M. Villalta. Milano, Oscar Mondadori, 2001, pp. 308—310. 27 Per le idee di Consolo sull’impegno letterario si veda la sua introduzione a C. Charle: Letteratura e potere. Palermo, Sellerio, 1979.
Scrittore — testimone — osservatore  Scrittore — testimone — osservatore Senza dubbio gli scritti di Consolo continuano a evidenziare la tensione fra l’autore e il testo, a sottolinearla, a tal punto che, tutta l’opera sembra apparire come una metafora dell’impossibilità di padroneggiare in modo assoluto del proprio testo. Questa inquietudine percorre l’opera di Consolo e unifica i suoi aspetti tematici. Se si scorrono i romanzi consoliani non si tarda ad accorgersi dei frutti dolceamari dell’esplorazione di larga parte della storia italiana. Nello sguardo mobile, accorto, pungente che lo scrittore volge al mondo contemporaneo c’è un relativismo prospettico, non nuovo nel suo pensiero, ma nutrito nello scrittore siciliano di affabile cultura e sostenuto da esperienze vissute. Nelle narrazioni di Consolo le funzioni di scrittore e di interprete si sono trovate accomunate nella medesima situazione. Non ci sono più le garanzie che consentono un’indipendenza e un’autenticità alle funzioni indicate o se sia possibile il ritorno ad un loro ruolo spirituale e umanistico. La diretta esperienza dei variegati costumi umani aiuta a comprendere la labilità dei parametri di giudizio. Consolo ha sempre agito come una memoria attenta e sensibile del passato che viene accostato agli avvenimenti più recenti di cui egli è testimone e interprete. In Nottetempo, casa per casa Consolo stabilisce implicitamente un nesso tra l’Italia degli anni Venti e quella degli anni Settanta, così come nel Sorriso dell’ignoto marinaio tra il Risorgimento e gli anni Sessanta e nello Spasimo di Palermo tra gli anni Trenta e l’inizio degli anni Novanta, con le morti di Falcone e Borsellino. Rossend Arqués parla direttamente delle fasi storiche, tutte segnate da successive cadute della società isolana e continentale in un pozzo senza uscita e senza possibilità di riemersione 28. Ma è proprio la prospettiva questo fattore decisivo da cui si guarda alle opinioni degli uomini a mettere in crisi le false certezze. La testimonianza di Consolo ha un significato particolare se inserita nel
28 Cfr. R. Arqués: Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia: “Nottetempo, casa per casa” di Consolo. “Quaderns d’Italià” 2005, n. 10, p. 80. 48 
coevo dibattito sull’identità della cultura moderna e l’importanza del contributo del passato. L’oggettività è per lo scrittore un’autentica misura dell’impegno, in letteratura come nelle belle arti, e discrimina la percezione fenomenica e i processi cognitivi sottolineando la dimensione “forte” della letteratura. Questa convinzione trova la sua conferma nella constatazione consoliana secondo la quale lo scrivere diventa un confronto con la materia viva e la materia morta. Lo scrittore non vuole esclusivamente accettare l’immagine convenzionale della realtà conservata nelle abitudini e nei rituali. Tale punto di vista determina l’obiettivo fondamentale che, secondo Consolo, si realizza solo nella scrittura come l’unica possibilità di testimonianza, di protesta, e persino di riscatto. L’artista, attraverso l’arte della parola, registra la realtà inafferrabile fino ai tempi odierni, mostrandone la forma e l’importanza. L’ibridazione dei generi e dei codici serve a moltiplicare i punti di vista. Uno sguardo nostalgico alla memoria dei linguaggi in via d’estinzione vuole sottolineare una relazione tra stabilità e movimento, tra parola e immagine, tra superficialità e profondità simbolica. Il segno distintivo di un vero artista è proprio la facoltà di cambiare la parola in un elemento più sostanziale, più tangibile. Dunque la scrittura per Consolo può assumere diverse funzioni, anche quella confortativa, come nel caso di Petro, protagonista del romanzo Nottetempo, casa per casa. “Uuuhhh…” ululò prostrato a terra “uuhh… uhm… um… umm… umm… umm…” e in quei suoni fondi, molli, desiderava perdersi, sciogliere la testa, il petto. Sentì come ogni volta di giungere a un limite, a una soglia estrema. Ove gli era dato ancora d’arrestarsi, ritornare indietro, di tenere vivo nella notte il lume, nella bufera. E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete. Scandì a voce alta: “Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo. Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna. Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza. Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno…” scandì come a voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento in cui nulla era accaduto, nulla perduto ancora, la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo. N, 38—39
Scrittore — testimone — osservatore
Questo frammento parla del grido, o meglio dell’urlo della Sicilia dolente che soffre di un male antico, raccolto da sempre da Consolo, tenuto sempre dentro, prima fatto vedere, ora esploso irrimediabilmente, anche se momentaneamente stemperato, alla fine del frammento, da questo chiasmo “la vicenda si svolgea serena, sereno il tempo”29. L’espressione artistica che trova la realizzazione nella scrittura diventa nella narrativa consoliana la testimonianza di una realtà che non è più trasparente e che di conseguenza genera una sensazione di incertezza e di mancanza di stabilizzazione. Il conforto è sempre la scrittura: raccontare può essere cedimento, debolezza, mentre ritirarsi in se stesso e tacere forse più vale. È la parallela alla lontananza geografica che a Petro sembra essere necessaria per avere dentro sé la chiarezza del dolore, e per riuscire a raccontarne30. Una forte credenza nell’ordine nascosto dei valori rende la scrittura consoliana responsabile ed eticamente stabile. Grazie a questa denotazione assiologica delle sue narrazioni, Consolo viene considerato lo scrittore dei campi esclusi dalla realtà non solo storica ma anche presente. I momenti delle narrazioni che riflettono sulle vicende umane evocano la pluralità delle circostanze in cui si verificano diversi atti abusivi. Il ridimensionamento della dignità umana imposto dagli sconvolgenti avvenimenti degli ultimi due secoli è analizzato con lo sguardo limpido e disincantato dell’uomo di ragione: il permanere di una giustizia-fiducia insiste nel fatto stesso dello scrivere, che colma, secondo Andrea Zanzotto, fa spazio, fa riapparire radici e racconta di una realtà siciliana divenuta, nonostante le molte sue luci, sempre più emblematica di una delle più devastanti malattie della società e della storia31. Ma l’intellettuale che spoglia l’universo del fascino della sicurezza superficiale pare consapevole dell’irreparabile perdita delle “favole antiche”. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio il punto di vista narrante nonché la voce etico-politica sono affidati non ad un personaggio del popolo ma ad un nobile siciliano, il barone Enrico Pirajno di 29
C. Ternullo: Vincenzo Consolo…, p. 56. 30 Cfr. S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro…, p. 64. 31 Cfr. A. Zanzotto: Vincenzo Consolo…, pp. 308—310.
Mandralisca. Questi, pur essendo un aristocratico, non è “un pazzo allegro o un imbecille”, né tantomeno un intellettuale scettico e malinconico come, per esempio, il principe di Salina nel Gattopardo. Consolo polemizza idealmente con il modello proposto da Tomasi di una cultura “della crisi”. Flora Di Legami aggiunge che anche il barone di Mandralisca è animato da un criticismo smagato, ma non rinuncia alla fiducia in possibili trasformazioni sociali a favore degli oppressi32. Consolo, come autore moderno, è autonomo e il suo sapere non lo si può staccare dalle sue primarie condizioni linguistiche, culturali, empiriche e soggettive. Rendendosi conto delle conseguenze di questa dislocazione, lo scrittore cerca di stabilire il nesso tra il ruolo dell’intellettuale e l’importanza della cognizione. Rimanendo dunque ben conscio della varietà delle impressioni umane e della loro incongruenza Consolo, attraverso la narrazione dei fatti esclusi dalla versione ufficiale della storia del Risorgimento italiano, vuole mettere in rilievo l’importanza del fondamento gnoseologico e dei principi della conoscenza. Per precisare la definizione dell’atteggiamento ideologico di Consolo, vale la pena rievocare la constatazione di Linda Hutcheon che la sua “è una riscrittura consapevole e autoriflessiva della scrittura storiografica tradizionale”33. A ribadire questa sembra valido ricorrere a Vittorio Spinazzola che rievoca Consolo stesso: “Non siamo innocenti, questo è certo; si cerca di evitare, per quanto possibile, la malafede e la menzogna”. Sarebbe difficile non essere d’accordo con Sebastiano Addamo, che vede in Consolo la continuazione di una preminente direzione verso l’esterno, verso il mondo e l’uomo, dato che il suo punto di partenza è una fede disperata, “una fede a onta di tutto e nonostante tutto”34. Però è altrettanto vero che, anche se lo scrittore usa la terza persona per narrare, si immedesima con i suoi protagonisti parlando dei problemi del mondo attuale 35.
32 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, pp. 23—24. 33 Cfr. L. Hutcheon: A Poetics of Postmodernism, History, Fiction, Theory. London, Routledge, 1988. 34 S. Addamo: Linguaggio e barocco in Vincenzo Consolo. In: Idem: Oltre le figure. Palermo, Sellerio, 1989, pp. 121—125. 35 Ibidem.
In questa riflessione, oltre che un rifiuto alle deduzioni spesso ostentate dai critici di professione, vi è percepibile anche la fiducia nelle risorse della facoltà autocritica. Lo conferma la constatazione seguente di Vittorio Spinazzola, tale da indurre a un sensibile ottimismo sulla disponibilità emotiva degli intellettuali illuminati a schierarsi dalla parte del proletariato 36. Nella prosa consoliana vi è un aspetto edificante privo dell’amarezza provocatoria peculiare degli scrittori siciliani. Lo spostamento verso il Nord costituisce la condizione indispensabile dell’avventura culturale di Consolo, necessaria all’acquisizione e alla comunicazione del sapere. Il motivo dello spostamento nei suoi romanzi si rivela, allora, il luogo privilegiato per raccogliere testimonianze sulla relatività, l’incongruenza, la sproporzione, la fragilità delle categorie umane nel tempo circoscritto. Elena Germano osserva acutamente che la Sicilia rappresentata nel primo romanzo di Consolo, intitolato La ferita dell’aprile non è “una dimensione geografica: essa è soprattutto la dimensione morale che caratterizza l’esistenza dei personaggi di questa storia, che ne condiziona i rapporti con la realtà e le reazioni”37. Il relativismo prospettico in cui Consolo si mostra esperto non impedisce, dunque, di stabilire un rapporto fra le discordanze, perché dal parallelo e dalla comparazione nasce la curiosità, la conoscenza e la comprensione. I testi consoliani diventano strumenti della critica della modernità, delle sue illusioni e della cultura moderna. Tale poetica può riprendere la problematica dell’esperienza sia esteriore che interiore servendosi della metafora dello sguardo. L’osservazione dei costumi e degli stereotipi del carattere regionale si congiunge alla massima efficacia espressiva in alcuni frammenti della prosa consoliana. La pratica degli uomini, l’interesse per l’esplorazione e gli scambi si organizzano in sequenze collegate fra loro come nelle parti dedicate alle dolorose sorti dei protagonisti, e una ricca panoramica delle scoperte di diverse abitudini. Giusta
36 Cfr. V. Spinazzola: Un discorso facile e difficile… 37 E. Germano: Politica e Mezzogiorno, I, 2 (aprile—giugno 1964). In: A.M. Morace: Orbite novecentesche. Napoli, Edizioni Scolastiche Italiane, 2001, p. 193.
mente si accorge di questa caratteristica Elena Germano: “La seduzione della scrittura consoliana agisce soprattutto sull’aspetto visivo, gioca con l’immagine, lo stimolo ottico38”. Consolo pone al centro del suo secondo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, una rinnovata inchiesta sul rapporto potere— classi subalterne e sul conseguente nodo fra scrittura e oralità, che egli presenta come espressione di un divario sociale. Flora Di Legami constata addirittura che all’acutezza della ragione, esemplata metaforicamente nell’ironico sguardo dell’ignoto marinaio, il narratore affida il compito di denunciare le “imposture” della storia39. In un osservatore così acuto e aggiornato è forte la consapevolezza dell’integrazione esistente ormai fra i mondi diversi, tale da creare persino una certa conformità nell’atteggiamento mentale. Nel suo primo romanzo, La ferita dell’aprile lo sguardo memoriale del narratore e quello reale dell’adolescente che osserva e filtra la realtà degli adulti (con i suoi problemi e contrasti), conferiscono alla narrazione un timbro favoloso e insieme vivido40. Il mese di aprile, ferito e dolente, diventa metafora di una giovinezza difficile e sofferente. Questo espediente retorico della “natura che sente” non è originale, dato che l’hanno già adottato i romantici e poi, tra gli altri, Eliot a cui Consolo ha attinto direttamente41. L’obiettivo principale era quello di conserva
Si veda ad esempio il contributo già citato di Geerts sui sapori della cucina consoliana e i numerosi passi del romanzo dedicati ai piaceri culinari (fra l’altro, pp. 45, 51, 56—57). Cfr. W. Geerts: L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo. In: Soavi sapori della cultura italiana. Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.P., Verona/ Soave, 27—29 agosto 1998. Ed. B. Van den Bossche. Firenze, Cesati, 2000. 39 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 22. 40 Ibidem, p. 14. 41 Oltre al titolo del romanzo di debutto La ferita dell’aprile, pure nell’ultimo romanzo Lo spasimo di Palermo vi è evidente una forte presenza della poetica di T.S. Eliot: “Let us go then, You and I, / When the evening is spread out against the sky…” [Allora andiamo, tu ed io, Quando la sera si stende contro il cielo…] (T.S. Eliot: Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock. In: Idem: Opere 1904.1939. Milano, Bompiani, 2001, pp. 277—285).
Consolo introduce, nell’originale inglese, il verso eliotiano alla fine del quinto capitolo del romanzo per mettere in rilievo la scomparsa di ogni speranza, la mancanza della ragione e la conclusione del nòstos (non vi mancano i riferimenti al capolavoro omerico), del ritorno alla terra di origine. 53 l’influsso della natura di cui parlava anche Walter Benjamin42. Tale esperienza poetica ammette il fenomeno della “reciprocità sensuale” e trasgredisce i limiti di una semplice antropomorfizzazione e tende a rovesciare la prospettiva e la percezione. L’uomo viene percepito da un punto di vista non più umano, tuttavia non “disumano”. Le descrizioni penetranti si realizzano grazie alla lingua che non parla ma guarda e con l’occhio ammassa diversi elementi componendone un mosaico variopinto. Angelo Guglielmi costata che i romanzi di Consolo assomigliano a una sorta di magazzino che non conserva esemplari scelti o in qualche modo preziosi ma semplici cose gravi di tutta la materialità del quotidiano43. A paragone di molte osservazioni di costume, sfruttate dallo scrittore per la sua indagine morale, non sono poche nei romanzi le descrizioni di paesaggi legati alla memoria autobiografica, come ad esempio quella presente nel romanzo intitolato Retablo che è un autentico elogio della Sicilia, terra di nascita dello scrittore. Questo testo è permeato dalla presenza di chi apprezza la bellezza e le sue rappresentazioni nelle arti figurative. La retorica dello sguardo, e in particolare lo sguardo del pittore, legge la realtà nel corso del viaggio. Il protagonista del romanzo è un pittore, che vede uomini, palazzi, rovine e paesaggi con spiccata sensibilità visiva e professionale. Dato che non si tratta di un pittore immaginario ma di uno dei più vivaci esponenti del surrealismo e della pittura metafisica e visionaria italiana contemporanea, Fabrizio Clerici, fatto rivivere indietro nel tempo, per virtù fantastorica, in un’età carica di accensioni barocche e romantiche, la narrazione assume una dimensione più verosimile44. Attento osservatore dei costumi, Consolo dedica un’ampia parte della sua narrazione alla riflessione sulla natura umana. piamento eseguito da Consolo tra il protagonista e la voce narrante interrompe il necessario distacco perché possa instillare l’autobiografia intellettuale nella finzione romanzesca.
Cfr. W. Benjamin: O kilku motywach u Baudelaire’a. Przeł. B. Surowska. „Przegląd Humanistyczny” 1970, z. 6, p. 113. 43 Cfr. A. Guglielmi: A cuore freddo. “L’Ora” 1978, il 12 maggio. 44 Cfr. R. Ceserani: Vincenzo Consolo. Retablo. “Belfagor” [Firenze] 1988, anno XLIII, p. 233. 54 
Mentre andavo, al vespero, per la strada Aragona, col mio passo spedito, sudato per il cammino lungo e per il peso grave delle bisacce, le campane della Magione sonarono l’Avemaria. M’impuntai e dissi l’orazione. Quando, alla croce, mi sentii chiamare: “Frate monaco, frate monaco, pigliate”. E vidi calare da una finestra un panaro con dentro ‘na pagnottella e un pugno di cerase. “Pe’ l’anima purgante del mio sposo”. Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei. R, 21 La descrizione del primo incontro del frate Isidoro con Rosalia assume caratteri antitetici e ugualmente positivi. Due sono le indicazioni che si possono trarre dal raffronto presentato nel frammento scelto. Da un lato, l’osservazione morale muove da una persuasa e matura consapevolezza delle contraddizioni e dei limiti dell’uomo. Il frate rimane assorto nelle preghiere e dedito alla sua vocazione fino al momento in cui vede, per un istante solo, una bellissima fanciulla. Le sue qualità riferite a quelle di un angelo rievocano un modo di paragonare peculiare per gli stilnovisti. Dall’altro, Consolo è portato a credere che le qualità morali si manifestino con maggiore chiarezza e in modo positivo solo nell’interazione sociale. L’abbandono del servizio spirituale a favore di quello secolare, mostra la figura di Isidoro nella sua umanistica pienezza. Se fra i romanzi si prendono in esame i momenti in cui si riflette sugli ambiti morali, sui sentimenti e sui comportamenti umani, s’impone con evidenza una costante significativa: il ricorso al linguaggio della pittura e a formule enciclopediche per esprimere i risultati dell’analisi etica. Il che, naturalmente, non stupisce in uno scrittore così intimamente permeato dalla forma mentis logica, ma indica quanto sia importante conservare uno sguardo limpido e rigoroso nell’osservare anche i fenomeni morali. Quanto più Consolo concepisce come ambigua, volubile e sfuggente la psiche umana, tanto più prova a definirla con l’aiuto di immagini semplici, essenziali, analitiche.

Si pensi al paragone fra le proprietà dell’elenco naturalistico e le facoltà dei fenomeni uditivi: “mare che valica il cancello”, visivi: “nel cielo appare la sfera d’opalina”, olfattivi: “spande odorosi fiati, olezzi” e infine tattili: “che m’ha punto, ahi!”, presenti nel brano seguente: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi, distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. R, 17 A tale esigenza di chiarezza si presta particolarmente la struttura logico-espressiva dei paragoni, che è modello molto frequente nella narrativa di Consolo. Come nel caso del protagonista del romanzo intitolato Retablo, Fabrizio Clerici: la sconfinata facoltà visionaria, la capacità di fare esplodere attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia diventa il mezzo diretto della rappresentazione della realtà45. “All’artista non rimane che guardare da lontano” — come afferma in Retablo don Gennaro, maestro di canto: “Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta con invidia, con nostalgia struggente allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti” (R, 197). Non è la prima volta che Consolo sceglie un quadro per dare l’avvio a un romanzo: nel Sorriso dell’ignoto marinaio si trattava di un dipinto di Antonello da Messina, qui, al centro della vicenda si trova il dipinto a scomparti, a scene,
45 Cfr. L. Sciascia: Cruciverba. Milano, Adelphi Edizioni, 1998, p. 43. 56
questo quadro delle meraviglie che incanta i popolani e che è poi una citazione da Cervantes. Come la parola stessa “retablo” suona misteriosamente, così anche i quadri dipinti da Fabrizio Clerici risultano misteriosi perché sembra che rappresentino sogni e incubi. In questo contesto bisogna essere d’accordo con Paolo Mauri, secondo cui, in effetti, il pittore diventa narratore di un’altra realtà46. Sotto lo splendore del clima barocco è molto visibile la trama drammatica dell’amore insoddisfatto. Basta affinare lo sguardo e osservare senza pregiudizi l’intreccio per comprendere le reali motivazioni dell’agire, le ragioni o i torti della morale. La scrittura per quadri, per scene successive, facilita all’occhio indagatore una penetrazione ai margini dei fatti che costituiscono la vera e propria prassi della narrazione. L’adottata da Consolo retorica dello sguardo viene rafforzata dal procedimento straniante. Nel frammento sopraccitato il richiamo all’atteggiamento distante enfatizza le inconciliabili: “invidia” e “nostalgia”. Sintomo delle ambivalenze radicate nella morale è anche l’uso disinteressato dell’espressione: “ai margini, ai bordi della strada”. La distanza che domina in questo caso il comportamento conduce a conseguenze paradossali: secondo la convinzione comune l’artista, e specialmente il pittore dovrebbe avvicinarsi all’oggetto, qui invece la meta risulta inafferrabile. Per questa ragione Consolo, studioso e appassionato divulgatore di pittura, cerca di conciliare le argomentazioni della “logica comune” con i procedimenti delle “arti figurative”, accreditando ad ambedue la propria fiducia. Invece nel quadro tracciato dal romanzo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio la doppiezza della morale e l’inautenticità della vita risaltano con netta evidenza grazie all’espediente formale della sproporzione, nuovamente fondata sullo snodo del paragone nel frammento seguente: Entrò nello studio assieme a Interdonato e chiuse la porta dietro le spalle. […] “Sto solo attendento adesso a un’opera che riguarda la generale malacologia terrestre e fluviatile della Sicilia che da parecchio tempo m’impegna fino in fondo e mi procura 46
Cfr. P. Mauri: Consolo: sognando il passato. In: Idem: L’opera imminente. Diario di un critico. Torino, Einaudi, 1998.
affanno…” spiegò il Mandralisca buttandosi a sedere come stanco sopra la sedia dietro la scrivania. “E voi pensate, Mandralisca, che in questo momento siano tutti lì ad aspettare di sapere i fatti intimi e privati, delle scorze e delle bave, dei lumaconi siciliani?” “Non dico, non dico…” disse il Mandralisca un po’ ferito. “Ma io l’ho promesso, già da quindici anni, dal tempo della stampa della mia memoria sopra la malcologia delle Madonie…” “Ma Mandralisca, vi rendete conto di tutto quello che è successo in questi quindici anni e del momento che viviamo?” “Io non vi permetto!…” scattò il Mandralisca. SIM, 43 Al centro del dialogo, che procede in toni acri e pungenti, è il contrasto tra una cultura aristocratica e separata, “la malacologia terrestre e fluviatile”, di cui il barone siciliano si sentiva fiero e pago, e un’attualità di eventi (i moti risorgimentali del ’56 a Cefalù e poi l’insurrezione di Alcara nel ’60) rispetto ai quali non si poteva non prendere posizione. Qui la frase pronunciata dal barone si sostanzia di un paragone con la moderna ottica, per sottolineare l’illusorietà degli studi se rimangono distanti dalle questioni ordinarie della realtà. Al modello di necessità ed obbligo si affiancano alcune riflessioni di diverso tono, che correggono l’eccesso di autocritica del protagonista e incitano a seguire l’impulso delle passioni. L’inclinazione verso l’approfondimento del sapere e il fascino dell’avventura possono unirsi, in effetti, con l’attrazione per la giustizia e la dominazione della ragione. Attraverso il discorso del Mandralisca con l’Interdonato Consolo esibisce una convinzione morale rilevata dal rapido ammonimento e nello stesso tempo dalla domanda retorica. La lezione di Consolo va qui al di là dell’esempio stilistico: si tratta di un’affinità nell’indagare l’uomo con acume e ironia. Seguendo ottica adottata, con lo stesso spregiudicato realismo psicologico Consolo sostiene che nessun’azione è veramente pura, disinteressata e schietta allo sguardo di chi con la luce della mente vede addentro le cose. È il caso del padre di Petro, protagonista del romanzo Nottetempo, casa per casa sofferente di licantropia che attraverso questa forma di teriomorfismo rappresenta il dolore universale. Si spalancò la porta d’una casa e un ululare profondo, come di dolore crudo e senza scampo, il dolore del tempo, squarciò il silenzio di tutta la campagna. Un’ombra rotolò sotto la luna, tra i rovi e le rocce di calcare. Corse, uomo o bestia, come inseguito, assillato d’altre bestie o demoni invisibili. Ed eccitò col suo lamento, col suo latrar dolente, uccelli cani capre. Fu un concerto allor di pigolii di guaiti di belati quale al risveglio del mondo sull’aurora o al presentimento, per onde d’aria o il vibrare sommesso della terra, d’un diluvio rovinoso, d’un tremuoto. N, 6 Il padre del protagonista diventa vittima di forze incontrollabili causate da uno stato di depressione permanente e l’espressione terrificante del lato scuro della sua psiche viene accompagnato da una facoltà di ipersensibilità che gli permette di vedere e sentire le cose in un modo ben più profondo. Seguendo le ricerche di Julia Kristeva in merito, si può azzardare la constatazione che il depresso sia un osservatore lucido, che vigila notte e giorno sulle sue sventure e sui suoi malesseri, e l’ossessione di vigilanza lo lascia perennemente dissociato dalla sua vita affettiva nel corso dei periodi “normali” che separano gli attacchi melanconici47. Così assegnando allo sguardo un ruolo demiurgico, Consolo crede nell’efficacia dei buoni ammaestramenti e non dubita che il senso della vista possa indirizzare alla giusta percezione. Dall’accostamento fra morale e pittura risulta più chiara l’esigenza di consolidare la “purezza” e la “forza” di un’azione con la “libertà” e la “disinvoltura” della libera creazione. Un atteggiamento morale di natura può derivare da un’assidua applicazione che solo nell’uomo veramente abile si muta in una seconda natura.
47 Cfr. J. Kristeva: Sole nero. Depressione e melanconia. Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 52—53

Vincenzo Consolo. Modernismo e meridionalismo

da Mario De Laurentiis 

Le strategie linguistiche e strutturali mediante le quali Consolo costruisce la densità della propria parola letteraria, torcendola e caricandola nella sfida impossibile alla consistenza della realtà, e la stessa idea consoliana della parola, mettono capo a tensioni e aspirazioni solitamente rubricate sotto il segno della «poesia», nella costellazione, per intenderci, che si muove tra simbolismo e modernismo. La stessa ricorrente tentazione dell’afasia come esito della volontà di troppo dire è del resto segnale non dubbio di queste ascendenze. Non a caso già dal romanzo d’esordio, e fino alle ultime prove, T.S. Eliot è uno dei numi tutelari di Consolo. Allo stesso modo, per tutta la vita Consolo non ha smesso di sottolineare il proprio rifiuto radicale di appartenere alla tradizione propriamente romanzesca, sospetta perché troppo incline a cedere alle lusinghe di una facile leggibilità, ad usum commercii. Prove narrative le sue, quindi, ma protese verso la poesia. D’altro canto, non ci sono dubbi sulla necessità di accostare il suo progetto, letterario ma anche politico-culturale, alla tradizione meridionalistica, nel cui solco si forma, e che non ha mai smesso di operare, anche quando Consolo è andato prendendo strade assai diverse: come già negli anni Ottanta, con libri decisamente atipici come Lunaria e lo stesso Retablo, e sempre più negli anni Novanta. Stiamo così toccando l’altra questione di fondo: quella dell’ossessione della Sicilia. «Scrivo sempre di Sicilia perché non ci si può allontanare dagli anni della propria memoria» ha dichiarato lo scrittore: il che vuol dire, ed è un altro punto decisivo, che l’invenzione letteraria deve nascere dall’esperienza, con la quale entrerà in tensione, sforzandosi di esorcizzare i propri fatali limiti con l’accumulo e la pluralizzazione della forma.

Certo, Consolo parla di tutto sub specie Siciliae, tenendo insieme, in modo decisamente peculiare, la proiezione verso una dimensione di esemplarità e la messa a fuoco dettagliata di tratti storicamente identificati, ricostruiti con precisione maniacale. La sua sicilianità concede in questo senso abbastanza poco alla fuga per la tangente di una a-storica condizione universale, così caratteristica invece di altri autori siciliani, da Pirandello a Vittorini. In innumerevoli occasioni Consolo ha ricordato la sua ferma volontà di approdare alla metafora per via di storia, secondo il sempre attuale, magistrale modello manzoniano: «La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile». L’esemplarità della Sicilia fa tutt’uno in Consolo con la sua peculiarità: che ci fa capire com’è l’Italia proprio perché è un caso estremo. Si potrebbe persino ipotizzare che, mutatis mutandis, a quello che egli scrive della Sicilia possa accadere in futuro qualcosa di simile a quanto già accaduto con la Lucania di Carlo Levi: ridiventata fruibile e attuale perché ricontestualizzata in «un quadro afroasiatico e latinoamericano». La Sicilia di Consolo vale come un’Italia estrema, e però anche come campione fin troppo vero di innumerevoli Sud del mondo. Per altri versi, la Sicilia di Consolo esibisce un cortocircuito di opposti, oscillando fra il vagheggiamento memoriale di un luogo che avrebbe potuto conciliare bellezza storica e naturale, vitalità e cultura, desiderio e conoscenza, e la constatazione, sempre più addolorata e indignata, dell’orrore reale, dell’ingiustizia perpetuata, della collusione eterna fra violenza criminale e violenza istituzionale. La Sicilia è un inferno, insomma, tanto quanto avrebbe potuto essere un paradiso. E la Sicilia è sempre solo la Sicilia: anzi no, è dappertutto.

Il progetto, ma forse dovremmo parlare piuttosto di dovere e di esigenza insopprimibile, di scrivere sempre di Sicilia coincide con la ferma convinzione che l’impresa della scrittura letteraria debba farsi portatrice di uno sguardo critico nei confronti della realtà, e implichi una dimensione etica, implicitamente o esplicitamente politica. Consolo ha infatti svolto per quasi cinquant’anni anche un’intensa attività giornalistica, della quale una larga percentuale è espressione di una diretta militanza civile. Restando però nell’ambito della scrittura letteraria, egli ha delineato, con un’originalità e un rigore teorico che hanno pochi termini di paragone in Italia, una possibile coincidenza fra espressività ed eticità, dove il permanente impegno civile deve identificarsi con la specificità della scrittura, cioè con l’impegno formale. Chiusa la stagione dell’engagement, per Consolo lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche. D’altro canto, chi scrive scrive, e dunque non può ignorare che scrivendo rinuncia al diretto impegno politico. Di conseguenza, i paradossi della parola letteraria, della sua pochezza e della sua titanica presunzione si rifrangono e ripetono nella compresenza costante di aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della propria distanza dall’azione reale. Da questo punto di vista, Consolo ha molte cose in comune con Vittorio Sereni, e con lo stesso Franco Fortini, che del resto frequentava.
L’orgoglioso dovere della scrittura comporta così un permanente rimorso, che confina col senso d’inferiorità. Persino la dimensione utopica, pure evocata con tanta forza da Il sorriso dell’ignoto marinaio, non smette in realtà di mescolarsi con la cattiva coscienza, con un irriducibile senso di colpa. Ecco l’utopia del barone Mandralisca:

E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose. (SIM, qui alle pp. 216-7)

Questo sogno di un linguaggio che abolisca il divario fra le parole e le cose assomiglia molto alla permanente tensione di Consolo verso una parola portatrice di una densità tanto speciale da farla assomigliare a una cosa vera. Ma persino qui, dove tanto più la voce del personaggio pare confondersi con quella dell’autore, siamo obbligati a diffidare, e a prendere atto della permanente polifonia della scrittura consoliana; quel sogno infatti deve essere percepito come nobile, sì, ma impossibile, e persino mistificatore: «Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni “possano scrivere da sé la storia”. Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica».