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Caterina se ne è andata.
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Caterina se ne è andata. Questa mattina ci ha lasciati la vedova di Vincenzo Consolo, custode preziosa e infaticabile della sua memoria. Oltre ai ricordi di anni intensi di collaborazione culturale, mi rimane la gratitudine per aver potuto godere della sua amicizia.
La lumaca, l’andamento a spirale e la sfida al labirinto
La lumaca, l’andamento a spirale e la sfida al labirinto: una lettura di Vincenzo Consolo,
di George Popescu Literatura Italiana
Prima di leggere i libri di Vincenzo Consolo, ho letto qualche recensione e soprattutto alcune sue interviste che tra l’altro sono vere e proprie arti poetiche, manifesti letterari e civili di una grande e acuta profondità del pensiero, capaci da se’ di far crescere l’interesse e la curiosità per la sua opera. E tutto questo devo dire, per quella straordinaria disponibilità con la quale si mette direttamente al centro della problematica e, poi, per la sincerità confermata da ogni frase, da ogni parola a parlare apertamente del suo lavoro, delle sue ossessioni estetiche e non solo. Mi ha sconvolto innanzi tutto la riflessione acutissima con la quale discute aspetti controversi di poetica narrativa in un momento in cui questi problemi sono diventati così complicati, fino a generare lunghe e spesso faticose, orgogliose dispute che finiscono per complicare ancor di più le cose. O amor, Jacopo Tintoretto – Museu de Colônia Quella disponibilità, quella chiarezza e sopratutto quella sincerità, la franchezza, il suo modo di dire le cose senza nessuna intenzione di lusingare oppure di offendere la sensibilità del lettore costituiscono alcune delle qualità portanti del suo profilo letterario, capaci di configurare un modello di scrittore impegnato con la sua vita, con la vocazione e l’ardore nella propria scrittura e nel destino assunto, e assunto fino in fondo. Se la letteratura è ancora come dev’essere un problema di carattere, oltre il talento, oltre la vocazione vera, allora si può sostenere senza nessun rischio di approssimazione convenzionale che Vincenzo Consolo, a parte la dimensione particolare della sua scrittura, appartiene, a mio avviso, a quella tradizione di artisti per i quali il binomio arte e vita rappresenta un punto fermo di partenza e un punto fermo di arrivo; un progetto che fa coincidere il fuori e il dentro, realtà e coscienza, il destino, parola e cosa, società e individuo. La ricchezza del suo lavoro, in tutti gli aspetti che riguardano il rapporto io-mondo, io-reale, e in particolar modo le scelte stilistiche, il problema linguistico così essenziale per uno scrittore italiano offrono una moltitudine di prospettive dalle quali si può partire nella valutazione della sua opera. Si è parlato ad un certo momento di un carattere “intellettuale” della sua scrittura; ho già usato le virgolette per questo aggettivo, perché in effetti ogni costrutto che assume l’intento di un prodotto artistico non lo può escludere, non lo può evitare. Tra l’altro perché – si sa bene oggi forse meglio di ieri – che purtroppo esiste una allucinante arte di consumo che si rivolge prevalentemente ad un fruitore pigro, andando sempre verso le sue aspettative più facili, verso la sua comodità. Da questo punto di vista Consolo procede in una maniera tutta contraria: perché ha scelto di scrivere alla realtà, di affrontarla, forse non per cambiarla – sarebbe soltanto un sogno da sempre – ma per portarla sul piano della coscienza per destare nel lettore la curiosità, il coraggio di assumere la realtà integrale con tutte le sue insidie, e le sue deformazioni. Detto questo, vorrei iniziare, sfogliando alcune mie pagine di appunti raccolti in presa diretta dai testi del Nostro. Sempre aperture di prospettive, di letture, di percezioni senza la preoccupazione, almeno per adesso, di articolare un discorso lineare dotato di quella coerenza che deve restare come prima condizione di una interpretazione, per dire così, organica. Con la pubblicazione del suo primo libro, l’autore afferma di aver avuto già la consapevolezza di cosa sarebbero stati gli argomenti della sua scrittura e cosa gli interessava di più: Mi interessava – afferma lui – il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo. C’è già tutto qui: la scelta della “tematica” e l’opzione stilistica, i due pilastri di ogni lavoro letterario. Ebbene, la Storia, ma quale Storia, della Sicilia, però la storia è già qualcosa di infinito, non solo per la durata, ma anche per la sua dialettica interna, per il modo in cui viene vissuta e, poi, scritta-descritta, da chi, per chi e di chi assunta e con tante sofferenze, con delle conseguenze purtroppo irreversibili e via discorrendo. E proprio qui che sento il bisogno di chiamare in causa la metafora ormai famosa che è quella beniaminiana dell’Angelus Novus. Ricordiamola.: …un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera. Una metafora, questa beniaminiana, dell’angelus novus, che tra l’altro non identifica un angelo nuovo, bensì ci può ricordare anche la figura della Medusa con il suo sguardo mortale per chi cerca di affrontarla in faccia; possiamo poi evocare anche la metafora del labirinto ove anche se non vi sono delle macerie – oppure non si fanno vedere – c’è sempre lo sguardo impegnatissimo nel trovare quel punto debole del percorso da dove sperare a trovare la via d’uscita o meglio una via d’uscita… Ritorniamo all’opera di Vincenzo Consolo, cercando di trovare un punto di riferimento in grado di farci avvisare su qualche via (non di uscita, ma di entrata nel suo mondo, nel suo labirinto) possiamo contare. Operazione assai difficile; innanzitutto perché ce ne sono molti, voglio dire, molti punti di riferimento, nuclei semantici, nodi referenziali che possono diventare vere e proprie chiavi di lettura e di approccio; e, poi, in un secondo luogo, operazione difficile perché, proprio nel caso speciale di uno scrittore che ignora, rifiuta, addirittura respinge qualsiasi metodo prestabilito, assumere un punto di partenza o un altro come una specie di filo conduttore nella esegesi della sua opera sarebbe ancor una volta una scelta in limine, ugualmente rischiosa. Apriamo un’altra strada: Ecco, prese casualmente, altre alcune citazioni dalle quali si potrebbe iniziare un percorso esegetico. Procediamo, questa volta noi, in maniera metodica così da identificare una linea, diciamo così, tematica: Quando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa fossero gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali…. Allora, la scelta tematica era già identificata, e anche assunta: raccontare la Storia e propriamente una Storia, non solo quella della Sicilia, ma anche una sua parte, alcune pagine scelte tra tante ma poi, vedremo qual era il criterio impegnato in quella scelta. Invece molto significativo mi pare qui far interferire questo orientamento tematico dello scrittore con la metafora di Beniamino: qui interviene per darci una conferma l’autore stesso quando afferma che ha cercato “di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese”. Cosa significherebbe pre-borghese non mi pare così difficile da capire ma solo riducendo il discorso, sempre in base alle affermazioni dell’autore, a quella tipologia sociale per la quale Storia non ha alcun senso di progresso e tantomeno una base giustificatoria. Quel mondo quindi situato tra una civiltà ancora contadina nei suoi aspetti superficiali, formali, apparenti e che ha perso la sua coerenza di una volta, quella parte di sapienza di cui parla ancora la letteratura orale, e il mondo borghese, che forse, se non sbagliamo noi, ha attraversato quello del sottoproletariato, nel senso che si è fatto sfruttare, abbandonandolo per poi strumentalizzarlo con il preciso scopo di approfittare del suo lavoro. In tutte queste due categorie si ritrova un punto comune: la povertà, è da essa che poi scatena sempre il tentativo di opposizione, di confronto, di lotta, con l’intera scenografia che si conosce: speranza, attesa, fede e diffidenza, l’impegno diretto, il tradimento da alcune parti, e, alla fine, le sconfitte; ma sconfitte che conferiscono sostanza alla storia, le danno la propria consistenza, nel bene e nel male… Esiste poi un altro punto di riferimento (e di partenza), quello che ci porta all’idea di labirinto.Ecco, parlando vent’anni dopo, su Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo avverte: I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcàra, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezza e rassegnato destino (…), a una terra di consapevolezza e di dialettica. Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale * . A proposito di Eliade, si può riflettere ad un’idea che potrebbe servire nell’operazione di decriptare alcuni significati portanti della letteratura consoliana e cioè quella indicata dal grande scienziato romeno con la formula l’incentramento del margine, o meglio il centrare del margine; come un massimo compito che Consolo assume così come intendiamo noi il suo operare sulla storia e sul reale e cioè quello riguardante strettamente la Sicilia, si potrebbe indicare almeno sul piano di un’ideologia letteraria, questo tentativo di far andare al centro (dell’interesse e della preoccupazione del lettore e non solo) ciò che si è chiamato il problema della Sicilia, la Sicilianità come quel modo di vivere difficile. Sempre con riferimento a Eliade, si deve invocare qui la sua metafora dell’eterno ritorno, che per l’altro è anche una metafora di estrazione romantica e, poi, in particolar modo, nietzscheana; tuttavia, in Eliade, la metafora si colloca puntualmente nel discorso sull’origine e sul dovere (quasi un segno di destino e di fatalità) di ritornare sempre nel punto di partenza, e così si genera, inculcata nella nostra vera e propria identità, una circolarità che alimenta, intrattiene, potenzializza la sofferenza, il dolore, una specie di pendant a quel male di vivere montaliano. Ecco come si colloca Consolo in funzione del motivo del ritorno all’origine, che infatti è un altro motivo ricorrente nelle sue meditazioni-riflessioni. Parlando del suo libro L’ulivo e l’olivastro, l’autore propone un aspetto particolare della sua Sicilia presente, ma sempre col riferimento al mito ulissiano e al tema del ritorno come un dovere antico, come destino. In Sicilia [afferma l’autore] si ritorna, non si può fare a meno. Così come Ulisse lascia la dolce terra dei Feaci per ritornare nella sua pietrosa Itaca. Non si può prescindere dai luoghi dove si è nati, dove si è cresciuti, dove si sono sentite le prime voci, dove si sono viste le prime luci. Sono luoghi che non si possono eliminare dalla nostra memoria. Si sente il sogno di tornare, malgrado tutto. E di qui che si va verso la metafora della lumaca, collocata anch’essa nel labirinto, vista come una rappresentazione di una’ascensione dal basso verso l’alto, e che può significare anche lo sprofondare e il perdersi all’apice di questa stessa spirale. E di nuovo la parola dell’autore: Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, …il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale… Conclusione, una fra tante, emblematica, direi, per il lavoro del Nostro. Inutile evocare a questo punto una parola-concetto, una parola spia della scrittura di Consolo e appunto la parola greca nostos, che vuol dire proprio l’origine, quel ipogeo come il dovere di partire sempre dalle radici, che non per caso si trovano nel sottosuolo, nel sottoterra, quel luogo che fa da controcanto, da contropartita alla Storia nella visione e nella rappresentazione di Vincenzo Consolo. E di cui le immagini (di questi luoghi sotterranei, di queste caverne), sono un po’ il corrispettivo, della profondità della lingua e della profondità della storia è già un altro punto di partenza nell’approfondire l’opera consoliana. Ma si può continuare con l’idea di labirinto come una metafora così produttiva nel campo esegetico. Oltre il suo vastissimo e diversissimo campo semantico, mi pare opportuno sottolineare un fatto della poetica narrativa di Consolo: il rapporto che stabilisce tra l’idea di viaggio come esplorazione dello spazio, più quello del mare che della terra, il viaggio come anche ritorno, di un Ulisse che si trasforma così in un prototipo dell’eroe universale, un archetipo della sapienza, del conoscere, un navigatore ideale e insieme singolare. Pare superfluo ricordare che per Consolo, come per Dante, per Pirandello, la vicenda dell’eroe omerico con la sua intera disperazione, riguarda lo spazio siciliano, e anche quello terribile e insieme affascinante Stretto di Messina che diventa anch’esso ricorrente nell’opera del Nostro. Il tentativo di Ulisse, sommariamente indicato qui, punta sullo spazio cosicché, attraversarlo per conoscerlo equivale ad assumerlo. Un tentativo compiuto col sacrificio liminare, non di una sua possibile fine, morte, ma, con l’allontanamento dalla sua Itaca, coll’affrontare il rischio di perdere tutto ciò che aveva prima, regno e soprattutto l’amore incorporato nella figura di Penelope. Qui interviene un altro possibile punto di partenza nell’interpretare l’opera di Consolo: quello che potrebbe omologare la sua scrittura sullo stesso piano con la tela su cui Penelope sta ricamando, non qualcosa di utile, ma proprio l’attesa stessa che subentra così nel destino, suo, di Ulisse, di tutti noi. La scrittura come ricamo non mi risulta fuori del progetto scritturale dell’autore di Le pietre di Pantalica. La invoca anche, se mi ricordo bene. Invece sul piano stilistico, espressivo, poetico, il labirinto si presenta davvero come un riferimento preciso, assolutamente non casuale, legato ad una scelta che Consolo identifica in Calvino. Ed è per questo che si può chiamare in causa, per la sua specificità di poetica, la famosa formula calviniana La sfida del labirinto; ma il riferimento non significa altro che un possibile percorso della critica nella ricerca di altre chiavi di lettura per poter dare effettivamente, se questo fosse possibile e plausibile, un senso al mondo che ci propone un autore che resta – in quanto deve restare – ancora un mondo da interrogare, tramite un confronto sempre aperto alla coscienza del lettore… Ma quale sarà a questo punto l’offerta indicata, più adatta, della ricca e lunga semantica del labirinto? Quel gioco che ha, come ricorda Kerenyi, un significato rituale e che come tale serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose? Rifacciamo in breve lo scenario di questo gioco che si presenta in due tempi, in due fasi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero, in cui gli attori sperimentano la perdita di se’; poi, il ritorno alla luce che rappresenti, diciamo, una nuova nascita, attestando la continuità della vita che di generazione in generazione rinnova se stessa. Fin qui, Kerenyi. Sono intervenute poi tante altre interpretazioni-soluzioni, come quella di Tagliaferri per il quale il labirinto potrebbe essere preso come una metafora di un utero materno e il filo di Arianna sarebbe allora un cordone ombelicale, il Minotauro diviene un embrione, un germoglio, un’ ombra inquietante con cui dobbiamo confrontarci. Per Calvino, si sa, si pone un altro tipo di richiesta, di interrogativo, di soluzione, tramite un’idea che l’abbiamo incontrata anche in Consolo, a proposito di un altro argomento, ma non così staccata, l’idea voglio dire, da questa prospettiva, torno a ripetere, di natura poetica e, se si vuole, di poiesis, come il far poetico. Per l’autore delle Cosmi-comiche, l’operatore interpretativo diventa un rapporto cartografico che include una distanza rispetto al labirinto: così, è facile trovare la via d’uscita quando il labirinto si osserva dall’esterno, quindi quando si dispone di una mappa totalizzante; invece, dal dentro e allorquando le mappe sono parziali e contraddittorie, succede che non solo sia possibile la salvezza, ma si va in una grave confusione, una specie di sostituzione dei topos, delle isole, appunto, perche’ coll’avvicinarsi il topos, l’isola cambia il nome, vuol dire anche l’identità. Ci fermiamo qui con la storia esegetica di un motivo-mito così complicato e insieme incitante. Ma non prima di focalizzare almeno una suggestione per la scrittura di Consolo: il labirinto per lui si presenta in veste di Storia, o meglio una sua pagina sempre della storia siciliana, identificata in alcuni momenti di rottura, di confusione, di sconvolgimento, e perciò necessitante di non una giustificazione, ma di una giusta ricostruzione in base alla quale sarà poi possibile denunciare quelle tracce, e quelle insidie, che ci provocano nel e dal presente. Angelus novusi, Paul Klee – The Israel Museum, Jerusalém Ed è per questo che rientra in scena proprio adesso la metafora beniaminiana dell’angelus novus; il quale, ricordiamoci, si trova fissato, prigioniero tra un passato per cui non basta la sua nostalgia a compiere il ritorno, ma non è possibile nemmeno andare avanti, nel futuro, per quella bufera che lo sconfigge. Ma il presente dov’è? Il presente non esiste, sulla linea di una dialettica elementare, è soltanto un passaggio, un passeggio, un limbo, quel purgatorio dantesco dove Virgilio ha quasi perso tutti i poteri e dove a Dante, come a tutti noi, è rimasto solo l’interrogarsi come la soluzione di orientamento. Ma l’idea di labirinto è un motivo di riflessione per il Nostro. Per Vincenzo Consolo, creatore di un’opera che non si impone ne’ per la quantità (dimensione, diversità di motivi, di argomenti), ne’ per l’imprudenza di lusingare i gusti, in gran parte pervertiti, corrotti dal consumismo, del lettore (un lettore che lo vuole, come sostiene, un po’ simile a se stesso), quindi per Vincenzo Consolo, la letteratura mi pare che sia una scommessa; e un riscatto: una scommessa con la Storia così come è sempre stata scritta-descritta, ma non vissuta; e un riscatto come tentativo di recupero per la mediazione della parola, diventata pietra, capace invece di esorcizzare il reale vero, quello vissuto, e mai tradito. In questa prospettiva, poetica, sento il bisogno di identificare la formula paradigmatica per il suo intero lavoro e che si può chiamare la testualizzazione del reale e che vuol dire un tentativo di trasmutazione, nel logos, quel ontos che possa essere preso come topos, ipogeo, nostos che dir si voglia.
19 maggio 2020 George Popescu Poeta, tradutor e professor de Literatura Italiana da Universidade de Craiova * Archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmi-comiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kérenyi e in Eliade.
La Sicilia tra mito e storia. Da Sant’Agata a Cefalù. La Gnoseologia dei luoghi nell’opera di Vincenzo Consolo
Laura Gonzenbach Fiabe siciliane Rilette da Vincenzo Consolo. A cura di Luisa Rubini. Traduzione di Vincenzo Consolo e Luisa Rubini
Presentazione
di Vincenzo Consolo
Racconta Maxime du Camp che Alexandre Dumas seguì l’impresa di Garibaldi, da Marsala a Napoli, inviando corrispondenze a Parigi, con lo scopo di ottenere, ad Unità avvenuta, la direzione degli scavi di Pompei. L’aspirazione di Dumas scaturiva certo da quel fervore per il mondo antico che i diari dei viaggiatori, a partire dal Settecento, avevano suscitato. E nella Francia dell’Ottocento particolarmente, dove Rivoluzione e Impero napoleonico avevano preso a modello l’antichità classica. I viaggiatori stranieri avevano anche fatto aprire o riaprire gli occhi ai meridionali sulla ricchezza archeologica della loro regione: avevano fatto vedere quello che per troppa vicinanza era diventato invisibile. Ma oltre i templi e i teatri, le città tornate “al celeste raggio / dopo l’antica oblivion”, quei viaggiatori non potevano far vedere un altro grande patrimonio, più antico dei ruderi greci o romani, remoto, secondo Propp, che è la cultura popolare in genere e la tradizione della fiaba in particolare. Per conoscere questo patrimonio, bisognava sostare, imparare la lingua dei parlanti, raccogliere dalla viva voce dei popolani canti, proverbi, motti, e soprattutto il racconto favoloso o leggendario, fissarli nella scrittura. C’erano stati sì in passato illustri “favolisti” italiani: da Giambattista Basile, il cui Lo cunto de li cunti s’era diffuso per l’Europa, era stato forse letto da Perrault, imitato da Quevedo e Gianfranco Straparola, a Carlo Gozzi, a Pompeo Sarnelli. Ma questi autori avevano “ricreato” il racconto popolare, avevano scritto delle “loro” fiabe. Quelli che gettarono le basi della nuova scienza folklorica, di questa diversa archeologia, furono gli straordinari fratelli Grimm. Le loro Fiabe del focolare erano in qualche modo la fedele restituzione scritta del dettato popolare. Gli studi di folklore o di demopsicologia, dopo quel primo impulso germanico, si svilupparono in vari paesi d’Europa. Ma in Italia sembrava regnare il silenzio. Così lamentava Giuseppe Pitrè nella prefazione alla sua raccolta in quattro volumi di fiabe siciliane: Il movimento intellettuale iniziato dai Grimm fu indi a non guari seguito in Germania e fuori: e molte furono le novelle e le tradizioni d’ogni sorta messe in luce dopo il 1812 […].A tanto fervore di studi l’Italia non ha preso parte veramente attiva. Beh ha dato molte e ricche raccolte di canti popolari, ma una raccolta di novelle con gl’intendimenti scientifici che guidarono gli studiosi delle altre nazioni, fino a pochi anni addietro essa non l’aveva ancora […] Prima che noi sono stati gli stranieri a darci l’esempio del come s’abbia a fare dove non s’è voluto o potuto fare. Li fa i nomi, il Pitrè, degli studiosi stranieri che in varie parti d’Italia – a Venezia, a Livorno, nel Tirolo, a Roma – hanno raccolto fiabe, le hanno tradotte e diffuse nei loro rispettivi paesi. “Novantadue ne raccoglie nelle provincie di Messina e Catania la signora Laura Gonzenbach” scrive. È dunque la prima, la Gonzenbach, ad arare in quel campo della novellistica siciliana, di una popolazione in cui il retaggio di più culture aveva reso quanto mai ricchi, variegati canti, usi, costumi, racconti orali. Su questo patrimonio il Pitrè lavorerà, stenderà quella sua vasta Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane. Insieme a lui, o dopo di lui, tanti altri, da Lionardo Vigo a Salvatore Salomone-Marino, a Serafino Amabile Guastella, fino a Giuseppe Cocchiara e oltre. A questo patrimonio popolare attingeranno gli scrittori veristi siciliani. “Potresti indicarmi una raccolta di Proverbi e Modi di dire siciliani?” chiedeva da Milano Verga a Capuana nell’accingersi a scrivere I Malavoglia. Chi era la pioniera della favolistica siciliana, chi era quella Laura Gonzenbach che nel 1870, cinque anni prima delle Fiabe, novelle e racconti del Pitrè, pubblicava a Lipsia Sicilianische Märchen? Poco si sapeva di lei: il terremoto di Messina del 1908 ne aveva cancellato la memoria, disperso i testi siciliani delle fiabe da lei raccolte. È stata la studiosa Luisa Rubini, curatrice di questo volume, a far riscoprire da noi Laura Gonzenbach con il suo saggio dal titolo Fiabe e mercanti in Sicilia – La raccolta di Laura Gonzenbach – La comunità di lingua tedesca a Messina nell’Ottocento (Olschki, Firenze 1998), le cui linee essenziali vengono riprese nell’Introduzione che segue. Uno studio, quello della Rubini, ampio, accurato, con vasto apparato di note, di riferimenti bibliografici. Apprendiamo così dalle notizie sulla vita di Laura Gonzenbach, e su quella della sorella, la pedagogista Magdalena, che questa giovane intellettuale, nata a Messina nella comunità svizzera di lingua tedesca, collegata con studiosi come Hartwig e Köhler, era andata, nella sua ricerca etnologica, nel senso opposto a quello in cui sarebbe andato il Pitrè, come conferma la lettura di queste fiabe.
Il Pitrè e i suoi epigoni avevano per molti versi mitizzato il mondo popolare siciliano, creduto il primitivismo sede del candore e della bontà.Scrive Calvino:Nei folkloristi del secolo passato […] la scienza si colora delle suggestioni culturali che presiedettero alla sua nascita: da una parte il mito rousseauiano d’una vita secondo natura a cui il popolo sarebbe rimasto vicino […]; dall’altra l’esaltazione romantica delle radici profonde dello spirito nazionale, di cui il volgo sarebbe stato custode nelle sue tradizioni. Mito e nazionalismo: due brutti scogli insomma. Contro i quali andarono a sbattere il Pitrè ed altri intellettuali siciliani al momento della pubblicazione dell’Inchiesta in Sicilia di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (1876), in cui appariva la parola mafia. Hartwig, che aveva elogiato quell’inchiesta, fu bandito dalla bibliografia dell’opera di Pitrè. Capuana arrivò a scrivere un pamphlet contro quell’inchiesta, in difesa del buon nome della Sicilia. La direzione opposta – direzione illuministica – per cui va la Gonzenbach, la si vede soprattutto in due fiabe qui pubblicate: vi si parla di uno stupro e di un prete che vuole sedurre una fanciulla. In Pitrè i due argomenti sono velati, le due fiabe nella sua raccolta censurate.
Milano, 12 marzo 1999
Laura Gonzenbach
Laura Gonzenbach nacque nel 1842 a Messina in seno alla locale comunità di lingua tedesca, dove trascorse gran parte della sua vita (morì a Napoli nel 1878). Raccoglitrice di racconti storici, fiabe e leggende delle classi popolari della Sicilia ottocentesca, proveniva da una famiglia di colti mercanti originari della Svizzera. Seguiva, insieme alla sorella Magdalena, il dibattito europeo sull’emancipazione femminile. Il suo lavoro di raccolta delle tradizioni orali dell’isola rappresenta una delle rare opere folkloriche ottocentesche realizzate da una donna.
Vincenzo Consolo e le due radici di Chiara Pellegrini
“Non rivoltosi ma rivoluzionari”. La strada tracciata da Vincenzo Consolo verso l’impegno civile.
Vincenzo Consolo Le due radici
La metrica della memoria
foto: Giovanna Borgese Palermo 1975
La metrica della memoria
Un velo d’illusione, di pietà,
come ogni sipario di teatro,
come ogni schermo; ogni sudario
copre la realtà, il dolore,
copre la volontà.
La tragedia é la meno convenzionale,
la meno compromessa delle arti,
la parola poetica e teatrale,
la parola in gloria raddoppiata,
la parola scritta e pronunciata. (1)
Al di là é la musica. E al di là é il silenzio.
Il silenzio tra uno strepito e l’altro
del vento, tra un boato e l’altro
del vulcano. Al di là é il gesto.
O il grigio scoramento,
il crepuscolo, il brivido del freddo,
l’ala del pipistrello; é il dolore nero,
senza scampo, l’abisso smisurato;
é l’arresto oppositivo, l’impietrimento.
Così agli estremi si congiungono
gli estremi: le forze naturali
e il volere umano,
il deserto di ceneri, di lave
e la parola che squarcia ogni velame,
valica la siepe, risuona
oltre la storia, oltre l’orizzonte.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
vorremmo ci accompagnasse l’Empedoklès
malinconico e ribelle d’Agrigento,
ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.
Per la nostra inanità, impotenza,
per la dura sordità del mondo,
la sua ottusa indifferenza,
come alle nove figlie di Giove
e di Memoria, alle Muse trapassate,
chiediamo aiuto a tanti, a molti,
poiché crediamo che nonostante
noi, voi, il rito sia necessario,
necessaria più che mai la catarsi.
(Catarsi, p.13-14, […])
Questi versi, strofe o frasi, sono tratte dal Prologo della mia opera teatrale intitolata Catarsi, in cui é messo in scena il suicidio sull’ Etna di un moderno Empedocle.
Ho voluto iniziare con questi versi perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.
[…] Empedocle:
La tragedia comincia nel fuoco più alto (2)
In questa nuda e pura, terrifica natura,
in questa scena mirabile e smarrente,
ogni parola, accento é misera convenzione,
rito, finzione, rappresentazione teatrale.
Un testo, questo, dal linguaggio di voluta comunicabilità,privo di innesti dialettali, lontano dal pastiche espressionistico praticato nelle mie opere narrative, intenzionalmente alto, in qualche modo declamatorio, puntellato da rimandi impliciti e da esplicite citazioni di testi classici: da Hölderlin, naturalmente, ai frammenti di Perì Phùseos e di Katharmoì di Empedocle.
Per spiegare questo esito, devo partire dall’ esordio, dalla mia scelta di campo letterario, dalla prima impostazione stilistica. E il discorso cade fatalmente sulla scrittura, sulla lingua.
La lingua italiana, sin dalla sua nascita, sappiamo, é stata, come dice Roland Barthes, “molto parlata”, nel senso che molto si é scritto su di essa. A partire dal suo grande creatore, da Dante, con il De vulgari eloquentia. Il quale, oltre ad essere un saggio di poetica personale, é il primo trattato di linguistica italiana. “Chiamiamo lingua volgare” dice “quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando cominciano ad articolare i suoni […] Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono ‘grammatica’ (lingua letteraria regolata)”. E afferma, con un bell’ossimoro: “Harum quoque duarum nobilior est vulgaris” (Di queste due lingue la più nobile é la volgare). Da Dante dunque a Lodovico Castelvetro, ad Annibal Caro, e giù fino a Leopardi, a Manzoni, a De Amicis, fino a Pasolini. Molti scrittori insomma hanno parlato di questo strumento, della lingua che erano costretti ad usare.
Mi voglio soffermare su Leopardi, sulle riflessioni che il poeta fa sulla società, sulla letteratura e sulla lingua italiana in quel gran mare che é lo Zibaldone. Leopardi confronta la lingua italiana con la lingua francese, stabilisce un continuo parallelo fra le due lingue, così apparentemente prossime e insieme così lontane. Lontane al punto, afferma tra gli altri Luca Serianni (3), che per un adolescente italiano la lingua di Dante o del Novellino è ancora in gran parte comprensibile, mentre per il suo coetaneo francese La Chanson de Roland é un testo straniero, da affrontare con tanto di vocabolario.
Ma torniamo al nostro Leopardi. Il francese, egli dice, tende all’ unicità, mentre l’italiano é un complesso di lingue piuttosto che una lingua sola, potendo essa variare secondo i vari soggetti e stili e caratteri degli scrittori, per cui diversi stili sembrano quasi diverse lingue; il francese invece, sin dall’epoca di Luigi XIV, si é geometrizzato, é diventato lingua unica. E cita, Leopardi, Fénelon, il quale definisce la lingua francese una “processione di collegiali”.Diciamo qui tra parentesi che alla frase di Fénelon deve aver pensato Ernest Renan nell’affermare: “Il francese non sarà mai una lingua dell’assurdo: e neanche sarà mai una lingua reazionaria. Non si riesce a immaginare una vera e propria reazione che abbia per strumento il francese”. Ma a Renan ribatte Roland Barthes: “L’errore di Renan non era errore strutturale ma storico; egli credeva che il francese, plasmato dalla ragione, conducesse necessariamente all’espressione di una ragione politica la quale nel suo spirito non poteva che essere democratica”. E concludeva: “La lingua non é né reazionaria né progressista: essa é semplicemente fascista; il fascismo infatti, non é impedire di dire, ma obbligare a dire”. Non capisco questo radicalismo linguistico di Barthes, espresso nella lezione inaugurale al Collège de France, ma chiudendo la lunga parentesi, ritorno ancora a Leopardi, alla sua idea del francese geometrizzato. E non posso non esclamare:”Beati i francesi con la loro lingua unica, geometrica e cartesiana! Che é segno, quella lingua, dell’esistenza e della compiutezza di una società civile (“Oggi so che alla Francia mi lega soltanto l’amore per la lingua francese” scriveva Jean Genet durante il suo vagabondare per l’Europa) (4). Il complesso di lingue che é (o che é stato, fino agli anni Sessanta, fino all’analisi della trasformazione di questa lingua che ne fa Pasolini), l’italiano é di segno opposto: segno vale a dire dell’assenza o incompiutezza di una società civile italiana.
Lo Zibaldone, dicevo. Leopardi afferma che la lingua italiana, il toscano vale a dire, raggiunge la sua massima eleganza nel Cinquecento. Finisce questa eleganza, questa centralità toscana, con la Controriforma, con l’esplosione di quel leibniziano cataclisma armonico, di quell’ anarchia equilibrata che va sotto il nome di Barocco. Per Croce però il Barocco non nasce dalla Controriforma, ma da una concomitante decadenza, dall’ affievolirsi di quell’ entusiasmo morale, di quello spirito del Rinascimento che aveva illuminato l’Europa. Era stata Firenze dunque centro di quella lingua attica, di quell’italiano platonico, di quella scrittura borghese, laica, elegante dei poeti, dei filosofi, degli scienziati a cui ogni scrittore, da ogni corte o convento, da ogni accademia o piazza, da ogni centro o periferia aspirava. Ma questa lingua dell’Ariosto e del Tasso, del Machiavelli e del Guicciardini, nel tempo si irrigidisce, si fa aulica, perde contatto col suo fondo popolare, si geometrizza, perde in estensione. Leopardi ammira la perfezione stilistica raggiunta dagli scrittori del nostro Secolo d’Oro, ma predilige l’immensità, la varietà, la vertiginosa libertà espressiva di uno scrittore secentesco, barocco, del gesuita Daniello Bartoli, l’autore della Istoria della Compagnia di Gesù. Dice: “Il padre Daniello Bartoli é il Dante della prosa italiana. Il suo stile, in ciò che spetta alla lingua, é tutto risalti e rilievi”. Risalti e rilievi come quelli del Resegone, che Manzoni ironizza ironizzando il Seicento, il tempo della disgregazione, del marasma sociale. Ironizza prima esplicitamente trascrivendo nell’introduzione del suo grande romanzo il “dilavato e graffiato autografo” dell’anonimo secentista, inzeppato “d’idiotismi lombardi”, di “declamazioni ampollose”, di “solecismi pedestri” e seminato qua e là da qualche eleganza spagnola. (L’espediente del documento dell’anonimo secentesco pensiamo derivi al Manzoni da Cervantes, dal Don Chisciotte, dal sedicente manoscritto dell’arabo Cide Hamete Berengeli). E ironizza ancora nascostamente parodiando nell’incipit, in “Quel ramo del lago di Como”, un brano del Bartoli riguardante l’India, la regione del Gange, riportando così il disordine lombardo all’ordine, alla geometria fiorentina. Che era per Manzoni l’aspirazione all’ordine, all’armonia sociale, a un illuministico, cristiano Paese, di cui la lingua, comune e comunicativa, doveva essere espressione. Utopia mai realizzatasi, si sa. E dunque la moderna storia letteraria italiana, con le rivoluzioni linguistiche degli Scapigliati, di Verga e dei Veristi, con il preziosismo decadente di D’Annunzio, con la esplosione polifonica del “barocco” Gadda e degli altri sperimentalisti, da una parte, con lo sviluppo della “complessa” semplicità leopardiana dei rondisti e degli ermetici, con l’asciutta, scabra lingua di Montale, dall’altra, é la storia del convivere e dell’alternarsi della lingua rinascimentale e illuministica e della linea barocca e sperimentale. É la storia di speranza e di fiducia degli scrittori in una società civile; la storia di sfiducia nella società, di distacco da essa, di malinconia, di disperazione.
Da tali altezze scendendo al mio caso, a quel che ho potuto o saputo fare, posso dire questo. Ho mosso i miei primi passi in campo letterario (e questo risale al 1963) nel momento in cui si concludeva in Italia la stagione del Neorealismo e stava per affacciarsi all’ orizzonte quel movimento avanguardistico che va sotto il nome di Gruppo ‘63. Il quale, come tutte le avanguardie, opponendosi alle linee letterarie che erano in quel momento praticate, dalla neo-realistica, alla illuministica e razionalistica, alla sperimentalistica, programmava l’azzeramento d’ogni linguaggio che proveniva dalla tradizione e proponeva un nuovo, artificiale linguaggio di difficile praticabilità. L’operazione non era nuova, naturalmente, era già stata fatta dal Futurismo, dal suo fondatore Marinetti, il quale aveva dettato il decalogo della nuova scrittura.
1) Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
2) Si deve usare il verbo all’ infinito.
3) Si deve abolire l’aggettivo.
4) Si deve abolire l’avverbio…Etc…Etc…
Questa ideologia linguistica o stilistica marinettiana riproponeva uno dei teorici del Gruppo ’63, affermando che bisognava praticare il “disordine sintattico e semantico come rispecchiamento del disordine della società”. Credo che si fosse nel campo della indecifrabilità, della pseudo-afasia, speculare alla indecifrabilità linguistica e alla pseudo-afasia del potere.
Dicevo che ho mosso i primi passi in quel clima letterario e insieme in quel clima politico in cui un partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, dal ’48 ininterrottamente al potere, aveva cambiato profondamente l’assetto sociale e culturale del nostro Paese, aveva cambiato la nostra lingua.
Pasolini (sulla rivista Rinascita – dicembre ’64 – quindi in Empirismo eretico) aveva pubblicato il saggio dal titolo Nuove questioni linguistiche in cui sosteneva che, con il neo-capitalismo, l’asse linguistico italiano s’era spostato dal centro meridione, da una realtà burocratica e contadino-dialettale, al centro settentrione, a una realtà piccolo-borghese aziendale e tecnologica. E analizzava un brano del discorso di un uomo politico emblematico, Aldo Moro (ucciso a Roma nel ’78, come sappiamo, da quei piccolo-borghesi criminali, mascherati da rivoluzionari, che sono stati i componenti delle Brigate Rosse), discorso pronunciato nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, autostrada che univa per la prima volta l’Italia dal Piemonte alla Sicilia. Diceva Moro: “ La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza fra diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala nazionale”. E Pasolini concludeva dunque nel suo saggio: “Perciò in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare che è nato l’italiano come lingua nazionale” (si noti in questa frase l’amara ironia pasoliniana). Non era certo, questo italiano per la prima volta nazionale, uguale al francese unico e geometrizzato di cui parlava Leopardi, ma una sorta di sotto o extra-lingua, una astorica, rigida, incolore koinè.Sono passati più di quarant’anni dal 1964 e lascio immaginare la situazione linguistica italiana di oggi, dell’italiano strumentale e di quello letterario.
Esordivo in quel tempo, insieme a Luigi Meneghello, Lucio Mastronardi, Stefano D’Arrigo con La ferita dell’aprile, titolo di eco eliotiana. Un racconto in una prima persona mai più ripresa, una sorta di Telemachia o romanzo di formazione. Mi ponevo con esso subito, un po’ istintivamente e un po’ consapevolmente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’ impasto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E organizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo, con il gioco delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritrazione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma in qualche modo di un poemetto narrativo. C’era certo, dietro il libro, la lezione di Gadda e di Pasolini, c’era l’ineludibile matrice verghiana, ma c’era l’evidente polemica sociale, la diffidenza nei confronti del contesto storico, della sua lingua.
Tredici anni sono trascorsi tra il primo e il secondo libro. Un tempo lungo che poteva anche significare dimissione dalla pratica letteraria. Un tempo che ha coinciso – mi si permetta di dirlo – con la mia vicenda personale, con il mio trasferimento, nel ’68, dalla Sicilia a Milano. In questa città provai spaesamento per la nuova realtà, urbana e industriale, in cui mi trovai immerso, realtà di cui mi mancava memoria e linguaggio; per l’acceso clima politico, per i duri conflitti sociali di quegli anni. Fu un tempo quello di studio e di riflessione su quella realtà e sul dibattito politico e culturale che allora si svolgeva. Frutto di tutto questo fu la pubblicazione, nel 1976, del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Un romanzo storico-metaforico, ambientato in Sicilia intorno al 1860, che voleva chiaramente rappresentare il grande rinnovamento, l’utopia politica e sociale che nel Sessantotto si vagheggiava in Italia e altrove, che nel nostro Paese doveva frantumarsi a causa dei suoi esiti tragici, disastrosi. L’ambientazione storica e il ripartire dal luogo della mia memoria mi permetteva di raggiungere maggiore consapevolezza della mia scelta di campo letterario, scelta contenutistica e stilistica. La sperimentazione linguistica, per l’adozione della terza persona, si svolgeva ora sul piano dell’ironia e del discorso indiretto libero. L’esito era quindi la “plurivocità” ben individuata da Cesare Segre. In cui era incluso il linguaggio alto del protagonista, un erudito dell’800, e la lingua dei contadini, la cui estremità era rappresentata da un antico dialetto, il gallo-italico o mediolatino, che si parlava in Sicilia in isole linguistiche dell’azione del romanzo. La sperimentazione, nel romanzo, era anche sul piano della struttura. I cui jati, le cui fratture erano riempite da inserti storiografici, da documenti, la cui funzione era quella di connettere i vari lacerti narrativi. Mi veniva questo dalle sollecitazioni del Gruppo ’47 di Enzerberger, per le sue teorie di Letteratura come storiografia. Anche qui c’é la messa in crisi del genere romanzo, c’é ancora la polemica della scrittura narrativa nei confronti della società. Società di cui fa parte la cosiddetta industria culturale che mercifica e distrugge il romanzo.
Nei miei successivi romanzi perseguo e approfondisco sempre di più la sperimentazione linguistica. In essi c’é la messa in crisi del genere romanzo, e c’é ancora, come dicevo sopra, la polemica nei confronti della società. Società in cui, con la rivoluzione tecnologica, con l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, l’autore non riesce più a individuare il lettore. Italo Calvino, scrittore quanto mai razionalista o illuminista, estremamente comunicativo, al pari di Moravia, di Bassani, di Primo Levi, di Sciascia, e di altri di quella generazione, Calvino, nel contesto di una inchiesta, alla domanda, a quale tipo di lettore egli pensasse scrivendo, rispondeva: “A un lettore che la sa più lunga di me”. Non credo che Calvino, in questo nostro presente, potrebbe ancora rispondere in quel modo, oggi in cui non è immaginabile un lettore più o meno letterariamente avveduto, più o meno
colto dell’autore.
Viene quindi la pubblicazione di
Lunaria (1985), un racconto, una favola dialogata, che fatalmente prende forma
teatrale.La favola, ambientata in un vago Settecento, alla corte di un viceré spagnolo di Sicilia, si ispirava a un frammento lirico di Leopardi, Lo spavento notturno,e ad una prosa di Lucio Piccolo, L’esequie della luna. La metafora della caduta della luna significava la caduta della poesia, della cultura nel nostro contesto. L’epoca e il tema favolistico, mi facevano approdare a soluzioni di apparente puro significante, come questa:
Lena lennicula
Lemma lavicula,
làmula,
lèmura,
màmula.
Létula,
màlia,
Mah.
Della stessa epoca e dello stesso clima quai favolistico è anche Retablo. E’ un viaggio nella Sicilia classica, una metafora della ricerca al di là della ideologia, della completa dimensione umana, della perduta eredità umanistica. Per i rimandi, le citazioni eplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario o di un palinsesto.
Nottetempo, casa per casa è ancora una narrazione scandita come un poema. Dico narrazione nel modo in cui è stata definita da Walter Benjamin. Il quale in Angelus Novus, nel saggio su Nicola Leskov, fa una netta distinzione tra romanzo e narrazione.
La storia di Nottetempo, casa per casa é ambientata negli anni Venti, nel momento del fascismo in Italia. Vi si parla della follia privata, individuale, dolorosa, innocente, e della follia pubblica, la follia della società, della storia. Personaggio simbolico é il satanista Aleister Crowley, che incarna il decadentismo estremo della cultura europea di quegli anni, di nuove metafisiche, di misticismi di segno nero o bianco. Il protagonista del racconto, Petro Marano, è un piccolo intellettuale socialista, é costretto all’esilio, a rifugiarsi in Tunisia. Il racconto termina con questa frase: “Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.”
Il libro successivo L’olivo e l’olivastro, inizia con questa frase: “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto”. Qui è negata la finzione letteraria, l’invenzione del racconto. Il libro è un viaggio nella realtà contingente e nella memoria. E’ il ritorno di un Ulisse a Itaca, dove non trova che distruzione, violenza, barbarie.
Ma devo ora tornare all’inizio di questa conversazione. Tornare alla tragedia Catarsi, in cui , l’antagonista di Empedocle, Pausania, così recita:
– Io sono il messaggero, l’anghelos, sono
il vostro medium, colui a cui è affidato
il dovere del racconto, colui che conosce
i nessi, la sintassi, le ambiguità,
le astuzie della prosa, del linguaggio….
Cambia tono, diviene recitativo, enfatico.
PAUSANIA – E un mattino d’agosto lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba Agrigento che s’alza sopra il fiume…Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti giungemmo all’oriente, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, presso la scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia…
Empedocle lo interrompe con un ghigno sarcastico.
EMPEDOCLE – Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! E’ proprio il degno figlio di questo orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo falso teatro compromesso, di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto…Dietro il velo grasso delle sue parole di melassa, io potrei scoprire l’oscena ricchezza della mia città, la sua violenza, la sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i misfatti, le stragi d’innocenza, d’onore, di memoria, la morte quotidiana imbellettata come le parole morte di questo misero ragazzo, di questo triste opportunista…
Ecco, ne L’olivo e l’olivastro l’ánghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi. Avviene qui la ritrazione invece che l’irruzione dello spirito socratico, quello che Nietzsche, ne La nascita della tragedia vede nel passaggio dall’antica tragedia di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Lo spirito socratico è il ragionamento, la filosofia, è la riflessione che l’autore del romanzo fa sulla vicenda che sta narrando: è quindi, come quello dell’ánghelos o messaggero con lo spettatore, il dialogo con il lettore. La ritrazione, la scomparsa dello spirito socratico é l’interruzione del dialogo con il lettore; é lo spostamento della scrittura dalla comunicazione all’espressione.
Nelle mie narrazioni c’é sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica. Sono questi per me le parti corali o i cantica latini.
Eric Auerbach, nel suo saggio sul Don Chisciotte, contenuto in Mimesis, scrive: “Cervantes (…) é (anche) un continuatore della grande tradizione epico-retorica, per la quale anche la prosa é un’arte, retta da proprie leggi. Non appena si tratti di grandi sentimenti e di passioni o anche di grandi avvenimenti, compare questo alto stile con tutti i suoi artifici”.
I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) con sistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale, nella cancellazione della memoria,e quindi della continua minaccia della cancellzione della letteratura, soprattutto di quella forma letteraria dialogante che é il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante, in una forma poetica.
Poesia che é memoria, e soprattutto memoria letteraria.
Questo ho cercato di fare nello Spasimo di Palermo, terzo tempo, con il Sorriso dell’ignoto marinaio e Nottetempo,casa per casa, di una trilogia. “Ostinata narrazione poetica, in cui il raccontare é in ogni momento ricerca di senso, un interrogazione sul valore della realtà e dell’esistenza…” (Giulio Ferroni)
Nello Spasimo vi si narra ancora di un viaggio di ritorno, di un nòstos in un’Itaca dove non é che smarrimento, violenza e dolore, “..una landa ingrata, / dove si trovano strage e livore” dice Empedocle nel Poema lustrale.
Questa é la nostra Itaca d’oggi, la matrigna terra della giustizia negata, della memoria cancellata, dell’intelligenza offuscata, della bellezza e della poesia oltraggiate, delle passioni incenerite.
Vincenzo Consolo
- Pasolini P.P. Affabulazione – 1966 – prefazione di G.D. Bonino TO Einaudi 1992
- Hölderlin F. Sul tragico –1795-1804 – prefazione R.Bodei Mi Feltrinelli 1994
3) Serianni L. Viaggiatori, musicisti, poeti, MI Garzanti 2002
4) Genet J., Diario del ladro, Il Saggiatore 2002
versione definitiva al 18.2.2009
La rappresentazione degli spazi nell’ opera di Vincenzo Consolo
Bellanova A.,
Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera
di Vincenzo Consolo, Université de Lausanne, 2019.
Il volume propone un’analisi geocentrata della produzione di Vincenzo Consolo, valutando un corpus di testi ampio e vario, che va dalle opere maggiori a articoli e testi sparsi. Osservando come,già a una lettura superficiale, gli spazi rappresentati si annuncino quali straordinari portatori di senso, ha dunque l’obiettivo, mediante uno studio delle modalità di costruzione dell’immagine
letteraria, di accendere l’attenzione non solo sugli spazi di cui l’autore parla direttamente, ma anche sulla nostra relazione con lo spazio. L’introduzione, oltre a portare esempi della ‘geograficità’ dell’opera di Consolo – indicazioni
spaziali, dettagli localizzativi e descrittivi, toponimi –, fa il punto sugli indirizzi di critica geocentrati, ovvero geocritica, geopoetica, geotematica e ecocritica.
La prima parte invece, partendo dalla scelta di un approccio che contamina più linee di indagine,dichiara anche la necessità degli strumenti della critica letteraria tradizionale, soprattutto in relazione alla pagina ‘palinsesto’ e alla polifonia che caratterizzano l’opera di Consolo. Individua dunque e passa in rassegna i modi più ricorrenti nella rappresentazione consoliana: il contributo della letteratura e dell’arte nella definizione degli spazi, il ruolo della Storia, i rimandi alle percezioni sensoriali, il legame tra spazio e lavoro dell’uomo. In particolare l’esplorazione della ‘palincestuosità’ in relazione all’immagine dei luoghi sortisce la valorizzazione di un’ampia serie di rimandi e aspetti, distinguendo tra interventi della letteratura suscitati dall’identità stessa dei realia oggetto di appresentazione (ad esempio il rimando a Scilla e Cariddi e all’Odissea per parlare dello Stretto di Messina, i numerosi riferimenti ai resoconti del Grand Tour, soprattutto in Retablo per la caratterizzazione dell’isola) e accostamenti con luoghi distanti, a loro volta oggetto di rappresentazione letteraria (come i luoghi manzoniani ne Il sorriso dell’ignoto marinaio). Importante l’attenzione riservata al ruolo dei classici greci e latini: non solo l’Odissea, referente d’eccezione ne L’olivo e l’olivastro o ne Lo Spasimo, ma anche l’Eneide in particolare nel finale di Nottetempo, casa per casa, la poesia arcadica, gli storici antichi ecc.Come i modi individuati si intreccino nella produzione dell’immagine dei luoghi più significativi è argomento della seconda parte che, muovendo da Sant’Agata di Militello, si allarga all’analisi
puntuale della rappresentazione di Cefalù, Palermo, Siracusa, grandi siti archeologici della Sicilia occidentale, Milano. Una terza parte invece, sulla base delle suggestioni e degli strumenti forniti dall’ecocritica, riflette sul tema ecologico nell’opera di Consolo, soffermandosi soprattutto sulla rappresentazione degli
spazi siciliani e mediterranei e sull’impegno etico che vi si accompagna. In particolare questa sezione si concentra sull’immagine letteraria degli effetti prodotti dal “miracolo indecente” (i casi dei poli industriali di Milazzo, area siracusana, Gela o la violenza della speculazione edilizia) a cui l’autore contrappone alcune isole di sopravvivenza, ovvero i Nebrodi e gli Iblei. ‘osservazione
dello spazio di carta e quindi la considerazione dei meccanismi rappresentativi impegnati ‒ ricca intertestualità, straniamento, notazioni percettive ‒ accompagnate dalla documentazione a proposito dei referenti geografici reali, consentono di comprendere la critica feroce all’industrializzazione e alla modernità, in quanto fautrici di una grave perdita in termini di biodiversità culturale: soffermandosi sulle rappresentazioni dei luoghi del passato e denunciando l’invadenza delle immagini distorte di quelli del presente, l’autore avvisa della necessità di ricordare, del bisogno di documentare un’identità a rischio. A questo aspetto si aggiunge inoltre l’analisi della descrizione dei danni causati da una natura violenta (eruzioni, terremoti) e, ancora più importante, della rappresentazione dei meccanismi di ricostruzione (lodevoli nel caso della Noto barocca, stranianti nel caso della Nuova Gibellina). Infine una quarta parte, incentrata sulla questione Mediterraneo. Mentre evidenzia la caratterizzazione del mare come spazio di molteplicità e migrazioni (significativo il motivo insistente della morte per acqua, con chiaro riferimento al personaggio eliotiano di Phlebas il Fenicio), lo studio rivela un’importante riflessione autoriale sulle emergenze della contemporaneità.
Dalle Conclusioni, pp. 366-367: «Il lettore [di Consolo] potrà, facendosi strada in uno spazio letterario labirintico, compilare mappe di senso e comprendere i luoghi dell’autore e il nesso esistente tra geografie di carta e geografie
reali? Se sì, forse sarà incoraggiato a scoprire la Sicilia, il Mediterraneo, chissà anche Milano. Ma, fatta salva la specificità dei luoghi chiamati in causa, si troverà inevitabilmente di fronte a una serie di riflessioni di più ampia portata, ciò che accade di fronte alla vera letteratura. Comprenderà che i luoghi non sono uno sfondo, non solo quelli della pagina scritta, ancor meno i loro referenti della
realtà: nessun luogo reale, infatti, è un semplice contenitore, uno scenario su cui sfilare. Mediterà allora sul proprio modo di percepire lo spazio, sulla relazione tra rappresentazione e realtà, sulla memoria e sul cortocircuito che si produce quando, nello scorrere del tempo, Itaca smette di essere Itaca mentre i ricordi restano fedeli al passato. Sarà costretto a pensare a quello che sta succedendo
al paesaggio, a tratti esteticamente splendido, a tratti deturpato, privato della sua identità. Ecco, si interrogherà sull’identità: se i luoghi non sono uno sfondo e smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. Ecco allora l’eccezionalità di baedeker dell’opera di Consolo: vi si può cogliere l’invito a scoprire alcuni angoli geografici, mediante il rilievo a proposito delle emergenze architettoniche o naturalistiche che attendono il lettore che voglia avventurarsi alla scoperta dello spazio reale, ma vi si troverà anche la presentazione dei deprecabili interventi che deturpano il paesaggio e la vita umana. Già questo basterebbe ad attestarne la particolarità, perché le guide di viaggio, anche quelle letterarie, si soffermano piuttosto sugli aspetti seducenti, evitando invece ciò che produrrebbe un’esperienza quanto meno sgradevole per il lettore-viaggiatore. Mentre, alternando la lente dello stupore e dell’idealizzazione a quella dell’indignazione, attrae e scoraggia,
il testo svela la complessità della nostra relazione con lo spazio, costringendo ad un’esperienza non sempre gratificante, e guida a una maggiore attenzione nei confronti dei luoghi, di tutti i luoghi, in quanto portatori di identità. Alla domanda che la contemporaneità continua a porsi “Come andare avanti adesso che la modernità è sfinita?” (F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna,
Mondadori, Milano 2013), l’opera risponde affermando il valore di ciò che è rimasto, traccia di passato nel presente: solo nella conservazione, nella cura possiamo sperare di non perdere noi stessi,ma questo non può accadere senza consapevolezza. Consolo dichiara insomma che i luoghi non sono uno sfondo, ma ci appartengono profondamente e rileva l’intimo scambio che esiste sempre tra ambiente e essere umano.Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, l’autore alluda proprio a questo, ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto ciò, cosa saremmo?
Sei nato dal carrubo
e dalla pietra
da madre ebrea
e da padre saraceno.
S’è indurita la tua carne
alle sabbie tempestose
del deserto,
affilate si sono le tue ossa
sui muri a secco
della masseria.
Brillano granatini
sul tuo palmo
per le punture
delle spinesante».