Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine

— Penso che vincere un premio come lo Strega possa essere, per uno scrittore serio, un’assicurazione contro i faccendoni, e il dilagare della carta. — La carta seppellisce i libri. Una volta gli scrittori lavoravano con la speranza nel futuro1 . Senza troppa esagerazione si può affermare che il tono essenziale della prosa consoliana rimane soprattutto riflessivo e didascalico. E se con questo ci si vuole riferire ad una remota disposizione che si ripresenti nelle opere degli scrittori siciliani, e cioè, una ricorrenza di quella peculiarità, nominata da Leonardo Sciascia una “specie di follia”. In questa zona discorsiva, acquista un rilievo massimo la figura di Luigi Pirandello atteggiata nell’argomentativo e sofistico ritmo di un ragionatore e di un maestro tutto volto a spiegare e insegnare. Ma questa razionalizzante sicilitudine non è da credere che s’aggiri in una forma di cattedratica istruzione o di astratta lezione2 . Al contrario, la meditazione svolta dell’autore, pur nei confini dello schema prestabilito si avvia di acute analisi e di fini notazioni psicologiche
1  F. Parazzoli: Il gioco del mondo. Dialoghi sulla vita, i sogni, le memorie […]. Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1998, p. 23. 2  Cfr. M. Tropea: Nomi, „ethos”, follia negli scrittori siciliani tra Ottocento e Novecento. Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2000, p. 5.
essenza della sicilitudine che superano i consueti limiti del comune repertorio morale. Pirandello, nel modo più autonomo, è riuscito a collegare i motivi siciliani come: mania, follia e superstizioni e grandi temi dello smarrimento dell’animo dell’uomo. Si potrebbe dire, a titolo non solo di paradosso, che lo scrittore avverta la presenza della conoscenza della vita nella totalità dei suoi aspetti come il frutto di un’esperienza non gradita e tendenzialmente rifiutata. Invece la liberazione dei sentimenti e dell’invenzione dal peso del reale presuppone un’intensa partecipazione ad esso, non un rifiuto, non un esilio, ma un’accettazione contrastata e difficile. Ad una maggiore immediatezza d’espressione si torna con l’esperienza di Vitalino Brancati che distingue la cultura della Sicilia in due grandi suddivisioni: “[…] quella occidentale degli arabi, dei cavilli, delle sottigliezze, della malinconia, di Pirandello e di Giovanni Gentile e dei mosaici; e quella orientale dei Fenici, dei Greci, della poesia, della musica, del commercio, dell’inganno, di Stesicoro, Verga, Bellini, San Giuliano”3 . Con le opere di Brancati si rimane sempre nella stessa dimensione della poesia invasa dalla follia che forma la peculiarità dell’anima e della cultura siciliana. Secondo Mario Tropea l’esistenza di una “letteratura siciliana” costituisce una figurazione di una insularità affermata non solamente dal punto di vista storico e antropologico. Nella sua sostanza si conferma una tonalità narrativa della psicologia umana4 . Allo sguardo satirico di Brancati, l’universo siciliano non appare come lo spazio di cui celebrare il fasto, né tanto meno la sede in cui si elaborano progetti politici; esso diviene piuttosto il bersaglio privilegiato di un processo di smascheramento, teso a mettere a nudo l’incapacità dei rappresentanti del potere, l’interesse dei cittadini e il loro stato di umiliante soggezione. In questo senso appare emblematico il punto di vista di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pieno d’ironia, pensata come sintesi di distacco aristocratico. Forse ha capito che allo scrittore non si chiede più l’eroismo di una classe feudale, ma la naturale mutevolezza di caratteri osservati nella
3  Ibidem, p. 6. 4  Cfr. ibidem.
realtà quotidiana. L’ottica dall’interno con cui il mondo della Sicilia è narrato compare nella presenza di nozioni dell’ironia e della storia. L’isola ha una sua storia che la genera e rigenera. Nella scelta di una narrazione mimetica l’insularità diventa una proprietà imprescindibile. Consolo non inventerebbe l’isola se non vi fosse venuto al mondo, se nella vita, nella scrittura non fosse venuto incontro ad esso e se non l’avesse raccontato tramite le vicissitudini dei compaesani. Pubblicando i suoi scritti, Consolo ha salvato dall’oblio inerente all’oralità le storie dolorose e fragili. Sembra che, simbolicamente, lo scrittore abbia saldato un debito nei confronti degli interlocutori del paese natio. Non si tratta, in questa analisi, di propugnare uno scavalcamento delle gerarchie né di rinnegare gli interessi degli scrittori; invano si cercherebbe in queste opere un progetto di riforma della società in base a nuovi valori. Mondo insulare e mondo della penisola sembrano impermeabili. Eclettico Capuana non tanto lontano dalla realtà del naturalismo di Verga rappresenta la follia proprio tramite uno studio “clinico”. Nella poetica che sembra quella di un generico realismo, Consolo varca la soglia della finzione e recupera le forme testuali della verità quasi documentaria: struttura e tono del reportage, appendici forniti dalla storia, narrazione in terza persona. Un’idea di narrazione polimorfica potrebbe risultare una necessità di inquadrarsi all’interno di una prospettiva di moderno umanesimo delle contraddizioni. Ferruccio Parazzoli ha ammesso di sentirsi come Ismaele — il protagonista di Moby Dick. Invece, però di andarsene per mare, lo studioso si accontenta di svolgere la ricerca tra gli amici5 . In Mondadori, la sua casa editrice, Consolo viene considerato uno dei più ascoltati scrittori italiani. “Quando dice fa opinione” — ricorda Parazzoli6 . Se lo scrittore si riferisce alla quotidianità politica, lo fa direttamente come nella constatazione rapportata alla situazione del settembre del 1994: “Io credo che chi ci governa sia affetto da una grave malattia mentale. […] Tutti i suoi gesti, tutte le sue azioni, tutti
5  Cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 54. 6  Ibidem.
gli ordini, tutto quanto lui dispone è all’insegna dell’irrazionalità e della follia”7 .

Prendendo le mosse dal mito sul Cavallo inventato da Ulisse, Consolo cerca di individuare un’ipotesi fondamentale dell’illusione vissuta dall’Italia dopo la seconda guerra mondiale; l’illusione dell’Itaca e cioè dell’armonia, della storia e degli affetti. Dopo le tragedie subite c’era bisogno di razionalità e di ordine che potevano essere visti come tappe di un possibile recupero della ragione. Va poi sottolineato, sul piano delle corrispondenze fra la ragione e la follia che questa oscillazione è diventata una costante della storia dell’Italia. Consolo dichiara decisamente il desiderio di testimoniare il senso storico del suo tempo. In questo caso la testimonianza riguardante la situazione del paese è un espediente narrativo esemplare della tecnica della trasformazione che si gioca su capovolgimenti. La generazione di Consolo ha conosciuto un mondo che era la civiltà contadina è che poi ha cominciato a sostituire la vita con le cose, con la merce. In conseguenza è accaduto lo spostamento della centralità dell’essere e la sua sostituzione con l’avere. La rapidità di questo processo ha lesionato anche le altre sfere dell’attività umana. Secondo Consolo il movimento delle masse contadine ha portato alla distruzione della cultura popolare. Anche un discorso svolto dallo scrittore sui colpevoli di questo stato di cose indica chiaramente i politici un primo luogo e poi gli intellettuali. Questa idea di responsabilità sopravvive nella coscienza letteraria consoliana, specialmente quanto il narratore sottolinea la propria provenienza siciliana. In questo paesaggio dell’Italia corrotta e arrettrata, Milano è cominciata ad essere considerata come la città dell’utopia, senza sopraffazione e violenza. Non è quindi per un caso nemmeno da questo punto di vista, in fondo, che Vincenzo Consolo come Verga e Vittorini, approdì a Milano. Con il passare di tempo nasce la delusione. La cosa da notare subito è la convinzione di Consolo della responsabilità maggiore della Milano moderna, siccome più dotata nel campo di lavoro e di cultura, della digradazione e dell’avvilimento.
7  Ibidem, p. 25.
Si capisce ancora meglio, così, perché sia proprio quest’inclinazione a renderci più coscienziosi e più sensibili ai problemi della realtà circostante. Esaminando il percorso dello sviluppo del romanzo politico, Consolo pronuncia apertamente la sfortuna di Sciascia e di Pasolini. Il primo è stato dimenticato, il secondo invece, è stato imbalsamato in una nicchia di santità laica. Nelle sue narrazioni ci si rivolge come un’ultima volta a uno spazio e a un tempo che stanno per svanire definitivamente. Attingendo ai maestri come Verga, Pirandello, Vittorini, Consolo vuole mettere in evidenza una realtà che si può raccontare. Non consumata dall’informazione, dalla televisione o dai giornali ma capace di far sopportare e di capire la realtà. Una delle caratteristiche di questo modo robusto di narrare è quel ricorso frequente alla parola “armonia” che è diventata una parola chiave nel suo vocabolario di scrittore. Si scopre così che, correntemente alla sua essenza patetica, questa parola, come specchio e rappresentazione dello sguardo che lo affronta, può diventare un espediente che renderà più facile il conciliarsi con la vita e con la realtà. È altrettanto importante mettere in evidenza un’altra costante della produzione letteraria consoliana e cioè, la volontà di decifrare un passato remoto. L’atteggiamento di protesta contro la dissacrazione del nostro tempo. Gli elementi della materia che diventano veri e propri protagonisti della memoria di Consolo sono tra l’altro: le pietre, le piante e il mare. La loro capacità di ipostatizzare lo sguardo che li contempla e di oggettivarlo in una forma visibile, non si trasforma mai in pura contemplazione ma cambia nell’esperienza interiore. La memoria del mondo ormai dimenticato e trascurato diventa anche il modo per salvarlo. Con questo espediente lo scrittore vuole opporsi al senso della precarietà del mondo moderno. Nella prefazione al saggio di Basilio Reale lo scrittore constata: Ho sempre pensato la letteratura siciliana (e non solo la letteratura, ma la pittura, la scultura, la musica: l’arte insomma) svolgersi su due crinali, su due filoni o temi distinti: quello della storia e quello dell’esistenza (o della natura, o del mito)8 .
8  V. Consolo: Prefazione. In: B. Reale: Sirene siciliane. L’anima esiliata in “Lighea” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Bergamo, Moretti & Vitali Editori, 2001, p. 15.
La memoria di quel mondo viene conservata anche nella dimensione di fuga dal paese. La fuga che è possibile forse solo in letteratura. La letteratura come possibilità di staccarsi dalla Sicilia, pur restando in Sicilia: l’esilio dall’interno. Molto legato ai valori come l’orgoglio, l’umiltà e il pudore, Consolo constata che la mancanza di pudore che ormai fa parte di ogni settore dell’attività umana, lo disorienta e offende. La paragona a una forma di violenza, come nei teatri anatomici quando si squadernavano i corpi. Parlando dell’importanza della memoria, lo scrittore rievoca la testimonianza di Pirandello, vissuta a circa due anni e legata ad un’eclisse solare che diventa un autentico archetipo della scrittura pirandelliana e un’ipostasi che è presente anche nella narrativa di Consolo9 . La prova di ricostruire questa memoria storica riguarda un mondo in cui la memoria sta per annullarsi. Ne rimangono solo delle apparenze e degli stereotipi. Per salvare questa realtà acquisisce soprattutto una forza dell’espressione linguistica, il richiamo alla lingua: unico segno realmente distintivo e significativo di appropriazione del mondo nelle possibilità di narrarlo, il che vuol dire per Consolo di ricrearlo narrativamente. Non a caso Giulio Ferroni riconosce allo scrittore il merito di essersi mosso alla ricerca di un linguaggio capace di unire in sé “la curiosità storica e razionale di Sciascia e il violento plurilinguismo di Gadda”10. Per Consolo la forza stilistica e inventiva diventa simbolo dell’aspirazione barocca a inglobare i diversi aspetti del reale in un complesso eterogeneo, ma organizzato. Le stesse ansie e inquietudini che, come si è visto, stanno a fondamento della ricerca dello scrittore siciliano, permeano altrettanto la prosa di diversi autori legati alla loro terra, alla loro regione, al loro quartiere. Il rapporto con il nichilismo del Novecento, la crisi di valori, la redifinizione dell’identità, i temi fondamentali non solo dell’opera di Consolo non solo hanno volto l’attenzione di molti su
9 Consolo, questa prosa, la nomina “la memoria di un’eclisse”, cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 29. 10 G. Ferroni: Storia della letteratura italiana. Milano, Einaudi, 1991, p. 129.
questi problemi ma sono anche stati oggetto di analisi di vari critici11. Joanna Ugniewska, nella parte conclusiva del saggio di Matteo Collura ci ricorda che l’autore, attingendo al modello vittoriniano del viaggio orientato verso i luoghi dell’isola d’infanzia e di origine, definisce la propria narrazione come il percorso verso luoghi dove la memoria è stata imprigionata12. Nel corso del Novecento la critica aveva riesaminato con accenti più serrati il ruolo degli autori siciliani. Alcuni di loro come Elio Vittorini e Leonardo Sciascia e un po’ più tardi Giuseppe Tomasi di Lampedusa sono stati premiati con il Nobel per la letteratura, gli altri hanno goduto un notevole successo editoriale. Nel quadro di questo pensiero siciliano non sarà luogo d’azione a sancirne il suo carattere originale. È vero che le narrazioni consoliane sono ambientate nella Sicilia, ma accade che le opere degli autori rievocati presentino i contesti geografici più neutri e generici. Da questo punto di vista, dunque, la provenienza potrebbe risultare un mero dato anagrafico. Ma in effetti la personalità consoliana era lungi dal limitarsi a tale rapporto tra la terra di nascita e le scelte future, tra l’aspirazione e i contrasti della vita, rapporto in certo modo risolto nella posizione dello scrittore di estrema apertura verso il reale, quale era propria di una scrittura che avverte in sé il continuo bisogno di nuovi orizzonti e di nuove situazioni. Se si volesse configurare la letteratura d’arte come perenne conflitto di “rappresentazione” e di “intellettualità”, si dovrebbe tornare mentalmente allo Stilnovismo, ma la presenza del momento intellettualistico è percepibile anche nell’arte moderna. Nel suo saggio dedicato agli scrittori siciliani del Novecento, Massimo Naro constata che l’atteggiamento intellettuale degli scrittori isolani si innesta sulla loro provenienza, non solo nel senso anagrafico o geografico, ma molto più profondamente, con le implicazioni etiche come antichi modi
11 Cfr. G. Pellegrino: Lotta, memoria e responsabilità: Eraldo Affinati. In: Scrittori in corso. Osservazioni sul racconto contemporaneo. A cura di L.A. Giuliani, G. Lo Castro. Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p. 155. 12 Cfr. M. Collura: Na Sycylii. Przeł. J. Ugniewska. Warszawa, Fundacja Zeszytów Literackich, 2013, p. 158.
di percepire il mondo a partire dalla terra di nascita13. L’esperienza siciliana diventa una specie di prospettiva nella quale gli autori contrappongono l’isola ad ogni terraferma. Più netti sono i contorni dell’isola, più il mondo fa da sfondo, diventa il miraggio. Così, quando lo sguardo degli scrittori entra “dentro” l’isola, la descrizione della concretezza fisica dello spazio non perde mai di vista gli elementi “strutturali” della Sicilia stessa. Una concretezza descrittiva che non trascura la peculiarità funzionale di questa scrittura, di esprimerne la gratitudine e la nostalgia. Questa caratteristica dell’ottica siciliana viene confermata fortemente nell’analisi del titolo dell’opera di Antonio Di Grado Finis Siciliae14 svolta da Anna Tylusińska-Kowalska nella parte introduttiva al volume dedicato alla produzione artistica di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno e Matteo Collura15. Nel commentare il titolo del libro citato del Di Grado e il contenuto del proprio volume, la studiosa sottolinea la funzione del diversificato paesaggio siciliano da cui scaturisce il mito della tradizione, del legame con la terra di nascita e della storia non sempre felice. Pirandello ha già definito le caratteristiche di questa specie di ottica, usando il termine “raziocinare” per questo modo di esaminare: volutamente più lento, più pacato, meno calcolante e più poetico, ma sempre capace di focalizzare l’attenzione sulle questioni problematiche e urgenti del tempo. Le cose hanno un volto diverso nel senso che qui sono appunto gli scrittori a porsi delle domande che nelle altre parti del mondo si pongono dei filosofi: sull’esistenza, sulla verità, sulla giustizia e sul potere. Gli echi dello stesso dibattito sorgono nei pensieri di Gesualdo Bufalino che si chiedeva se ciò che l’uomo sperimenta sia conclusivo o provvisorio, reale o illusorio? Nelle sue
13 Cfr. Sub specie typographica. Domande radicali negli scrittori siciliani del Novecento. A cura di M. Naro. Caltanissetta—Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2003, p. 6. 14 A. Di Grado: Finis Siciliae. Scrittura nell’isola tra resistenza e resa. Acireale— Roma, Bonanno, 2005. 15 Cfr. Literacki pejzaż Sycylii. Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno, Matteo Collura. Red. A. Tylusińska-Kowalska. Warszawa, Wydawnictwo DiG, 2011, p. 9.
opere l’isola diventa metafora della teatralizzazione della vita16. Vale ancora aggiungere che nella sua ricerca appare chiara la volontà di valutare questa “qualità interrogante” della letteratura siciliana. Questo capitolo, di carattere esclusivamente introduttivo, si limita a considerare alcuni nomi e testi esemplari di questa lunga e complessa storia letteraria. La problematicità della letteratura siciliana si comprende nell’antirazionalità della poesia di Bartolo Cattafi, nell’opposizione tra certezza e dubbio nei libri di Giuseppe Antonio Borgese, nella contrapposizione tra fede e follia nei testi di Lucio Piccolo e Carmelo Samonà nella rappresentazione della dignità umana nelle opere di Elio Vittorini, nella ricerca del senso della vita in Francesco Lanza o in Nino Savarese, nella felicità perduta in Ercole Patti, nel nichilismo esistenziale in Sebastiano Addamo, nel dramma dell’emigrazione nella poesia di Stefano Vilardo, nell’impegno intellettuale di Vincenzo Consolo, nella protesta contro le violenze quotidiane di Dacia Maraini, nell’angoscia esistenziale nella narrativa di Gianni Riotta, Giosuè Calaciura e Roberto Alajmo. Consolo si realizza nella sua coscienza dell’intellettuale, egli misura costantemente la propria sorte d’uomo di cultura. Allude in questo modo alla tradizione l’iniziatore della quale viene considerato Dante — il primo intellettuale in senso moderno. Il sapere ritrovato è tutto orientato in senso “morale” e la reintegrazione della cultura nel destino dell’uomo segno un punto fermo nella storia della civiltà letteraria17. La caratteristica che unisce ambedue i personaggi è la coscienza “militante”. Alla letteratura siciliana è stato quindi assegnato il privilegio di colmare un ritardo, a sua volta necessario per riflettere sul valore e sulla ragione dell’esistenza umana. Giulio Ferroni denuncia la tendenza ad apparizione degli scrittori impegnati su altri terreni. Lo scrittore si pone cioè di fronte a un mondo passato e la sua continuità nel mondo postmoderno con gli strumenti mentali e catalogatori con cui aveva sempre osservato la
16 Cfr. J. Ugniewska: O zaletach peryferyjności, czyli jak można być Sycylijczykiem. W: Literacki pejzaż Sycylii…, p. 37. 17 Cfr. S. Battaglia: Mitografia del personaggio. Milano, Rizzoli Editore, 1968, p. 516.
resistenza della Sicilia continuamente decrescente18. Di qui il richiamo ad un rapporto difficile ma molto efficace tra memoria storica e ricerca linguistica, alle quali Consolo riconosce di essere “a livello d’indagine”. Un “livello” situato evidentemente nell’aver stabilito un nuovo rapporto con la realtà in cui appaiono mutati i fattori stessi del passato. Alla narrativa ha assegnato il dovere di confrontare la violenza del passato e quella del presente e provare la presenza della stessa continuità di un modo di soffrire e di cercare la via di salvezza. L’interesse per questi scrittori, che, con precisa terminologia, sono stati definiti siciliani, non è un fatto recente, ma ancora in fase di sistemazione critica. Nell’ottica della ricezione che esprime l’orizzonte dell’opera letteraria, si scorge negli scrittori siciliani la coscienza di un dramma e di un dissidio psicologico e quindi la profonda serietà morale dell’ispirazione. L’indagine più recente, mentre respinge l’interpretazione che fa degli autori siciliani le figure periferiche, accetta alcune conclusioni critiche precedenti, ma le integra con una nuova serie di proposte e di riconoscimenti. Vincenzo Consolo vive nella tradizione segnata dagli studiosi quasi esclusivamente per il fatto che fu l’amico, l’ammiratore e l’ereditario letterario di Leonardo Sciascia. Ma accanto a questa immagine esiste un’altra figurazione civica di Consolo, quella del letterato enciclopedico, che fa sentire nelle sue opere, con l’ardore della scoperta e l’ansia di comunicarla, tutto l’amore della scienza, della storia e della cultura. E non è da dimenticare il contegno civile di Vincenzo Consolo. Anche se opera nell’ambiente milanese, in uno stadio di involuzione più profonda, non è lontano dall’atteggiamento di partecipazione. Anzi, risulta propenso a stabilire fra la letteratura e la vita quotidiana un legame, in cui si celebri la nuova teorizzata libertà e dignità del letterato. La letteratura che prende avvio dalla Sicilia è caratterizzata dalla straordinaria pluralità e varietà delle voci in cui si esprime 18 
Cfr. G. Ferroni, A. Cortellessa, I. Pantani, S. Tatti: Storia della letteratura italiana. La letteratura nell’epoca del postmoderno. Verso una civiltà planetaria 1968—2005. Vol. 17. Milano, Mondadori, 2005, p. 87.
31 il sentimento di una cultura letteraria assai più complessa e insieme obbediente a molte sollecitazioni. Una letteratura di transizione, segnata da parecchie fortissime personalità di orgogliosi cantori della propria terra e capostipiti della civiltà antica, e da una propensione ai tentativi e agli esperimenti, in cui si rispecchia la vita difficile, contradditoria, irta di delusioni e di utopie, di un mondo che si dibatte nella travagliosa ricerca di un nuovo ordine politico, morale ed intellettuale. Esperienza intima e reale è quella che Consolo invera nelle sue opere e che egli fa conoscere distinguendo, su un fondamento assiologico due cose: il valore metaforico di vicende individuali nelle quali ciascuno può ritrovare le proprie passioni e il valore universale dei fatti della storia siciliana con le loro proiezioni ed interpretazioni. Bisogna quindi accostarsi alle opere consoliane come a una cronaca, i cui personaggi rappresentano una specie di dramatis personae, capaci di facilitare il passaggio dalla confessione e dall’indagine psicologica e antropologica ai processi della conoscenza di una più profonda e più complessa realtà, quella che non vive costretta nei limiti di questo, cioè, isolano, spazio. Il significato che assumono gli eventi riportati da Consolo nelle narrazioni, per esempio la strage che conclude il suo ultimo romanzo, risulta assai vasto. Lo spasimo di Palermo sembra una sconfitta della ragione di fronte alla violenza, invece secondo il messaggio metaforico può assumere il valore della presa di coscienza della società civile rinata. Nei romanzi consoliani vi è presente un’immensa esperienza di vita, ed è presente come può esserla a chi non solo la contempla ma anche a chi si mescola fra la vita. I flashback che illuminano l’infanzia difficile dei protagonisti consoliani, la fuga dall’isola e il deludente soggiorno a Milano sono raccontati come il dramma umano che appartiene all’universale travaglio. Questa prosa ci offre, alle soglie della civiltà postmoderna, un’ampia documentazione di fatti e di figure, un quadro mobile e profondo delle società e delle storie diverse. Non sorprende affatto, quindi, che in polemica con l’esistenza e la funzione del confine gli scrittori siciliani non abbandonassero il carattere della loro terra, indicando come correlato della sua consi – 32 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine stenza non la limitatezza causata dal mare, ma la fermezza della vicinanza del continente. Nell’immaginario degli autori siciliani l’isola risulta dunque un paesaggio percepito prima staticamente (da lontano) e poi dinamicamente (dall’interno), in una dialettica giustapposta tra “dentro” e “fuori”, tra spazio guardato e spazio vissuto che corrisponde alla duplice essenza dell’isola stessa, che è per definizione un luogo d’accesso posto al confine con mare, uno spazio in cui si abita in uno spazio in cui si viaggia. Per i siciliani le relazioni di spostamento seguono questa fenomenologia lineare di inoltramento (varcare il confine, passare il mare), che si accorda a un’inclinazione all’esplorazione delle direzioni ben determinate come: l’America, l’Italia e l’Europa occidentale. Nell’intreccio di queste istanze antitetiche ancora più nitido sembra il capovolgimento della situazione siciliana, che affonda in complesse dinamiche sociali e antropologiche. La Sicilia, dall’essere terra di emigrazione, è diventata la terra di immigrazione. La sintesi più valida del ribaltamento avvenuto, la dobbiamo a Leonardo Sciascia che nel suo racconto intitolato Il lungo viaggio presenta la partenza dei clandestini da una spiaggia tra Gela e Licata in cui adesso approdano gli immigrati dal Nordafrica. Un’attenzione più dettagliata al rapporto fra la letteratura e la storia viene espressa molte volte nei libri degli scrittori siciliani contemporanei. All’efficacia della storia reinterpretata dalla scrittura non si può non accostare quella della produzione letteraria sempre più florida che spesso coincide con la prima. L’attenzione per la scrittura siciliana è un fenomeno rilevante e procede di pari passo con le vere esplorazioni delle presenze letterarie che si compiono sempre più sistematicamente. Accanto agli autori e ai temi di massima rappresentatività, vi si trovano quelli più recenti che completano l’artistico panorama siciliano. Tra gli argomenti narrati quelli più frequenti riguardano l’espatrio (in America, in Africa, in Germania) e l’attuale condizione della penisola siciliana. Non di rado gli scrittori siciliani tendono a rappresentarsi in questo luogo in cui si concretizza la loro invenzione. Del ritorno in Sicilia scrivono dunque: D’Arrigo, Brancati, Vittorini, Consolo. Secondo Ignazio Romeo: “Tornare significa infatti anche, metaforicamente, Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine 33 scavare in se stessi e nella propria storia, cercare l’estraneo in quello che si è familiare: guardare, insomma, in profondità e a distanza”19. Ma è vero anche che da questo spazio limitato fisicamente si aprono i grandi percorsi della cultura e della fantasia. Sono due elementi fondamentali che reggono l’asse assiologico della letteratura siciliana, il primo riguardante il dibattito relativo all’attuale e storica esistenza umana e il secondo relativo alla letteratura stessa e il suo ruolo nella nostra modernità. Non si tratta di due realtà distintive che finiscono con lo scontrarsi ma di due componenti che complementandosi occupano un posto considerevole nel panorama letterario non solo siciliano o italiano. La forza dell’autoriflessione letteraria degli scrittori siciliani finisce nella maggior parte dei casi come il metadiscorso. Le domande sul senso dell’arte, poste da Verga e Pirandello — i primi esploratori di tale problematica, hanno un carattere ben definito. Una specie di slittamento metonimico da una fase di lotta per la ricchezza ad uno stadio di lotta per la parola, il contrasto essere/apparire, la permanenza del binomio vita/teatro diventano motivi costanti di chi vuole autointerrogarsi. Non meraviglia dunque il fatto che tutto ciò che Pirandello nomina nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore ”il tumulto della civiltà” trae l’ispirazione dalla figura leopardiana del poeta “inattuale” che ha provocato la discussione sulla relazione tra la scrittura e la lettura, l’autore e il pubblico20. Si radica ai nostri occhi l’opinione che la Sicilia sia soltanto il simbolo, l’espediente che consente di stabilire un contatto tra l’uomo e la sua identità. Vincenzo Consolo si dedica alla stesura delle sue opere ricorrendo alla pluralità linguistica che caratterizza la sua espressione letteraria. Accanto all’uso del lessico dell’italiano comune, il prosatore si serve del dialetto siciliano con delle varietà di re19 I. Romeo: Passare il mare. Dall’emigrazione all’immigrazione: cento anni di memorie e racconti nelle pagine degli scrittori siciliani. Palermo, Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali ed ambientali e della pubblica istruzione, Dipartimento dei beni culturali, ambientali e dell’educazione permanente, 2007, p. 12. 20 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura alle domande sulla scrittura. La coscienza letteraria dei siciliani. Caltanissetta, Sciascia, 2003, p. 11. 34 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine gistri e di toni dal domestico familiare al lirico-volgare21. Giuseppe Bellia, analizzando il modo di scrivere consoliano, parla dell’autonomo sviluppo del filone gaddiano rafforzato dalla ricerca costante di linguaggi antichi, di tradizioni locali e di ritualità arcaiche. E nell’affermato gusto barocco dello scrittore riconosce il meccanismo di un reperimento o di un ritrovamento della parola e non della sua invenzione22. Rifiuta le parole e i pensieri comuni, cerca con accuratezza quelle che rinchiudono il più d’accessori, esimio soprattutto nella scelta degli epiteti e dei verbi. Mira ad esprimere molto in poco. Ha l’idolatria della parola, non solo come espressione dell’idea, ma staccata, presa in sé come suono, attento a separare le parole nobili dalle plebee, le poetiche dalle prosaiche, ed raccontare tutto con sincerità. Anche nell’uso delle parole poetiche Consolo segue l’ultimo Verga che invade lo strato sintattico introducendo le formule dubitative. Con questo procedimento lo scrittore ha dichiarato l’allontanamento dal centro ed ha espresso la mancanza di una univocità dei significati23. La prosa consoliana manifesta un’inquietudine uguale causata dall’assenza dell’interlocutore immediato inscrivendosi nell’attuale discorso sulla comunicazione letteraria. Lia Fava Guzzetta nomina Consolo “un intellettuale meridionale, consapevole di una ‘ferita’, di una esclusione e di uno sradicamento”24 che si applica allo studio profondo del passato troppo facilmente rifiutato dalla società odierna. La difficoltà sta nell’impossibilità dell’abbinare la parola di oggi alla rappresentazione della Sicilia di una volta. La narrazione che avviene per frammenti viene paragonata a volte alla dimensione del reportage giornalistico. Anche Giuseppe Traina nel suo saggio dedicato allo scrittore siciliano mette in rilievo l’importanza di questo genere destinato da Consolo alla testimonianza degli avvenimenti accaduti negli ultimi anni come, per esempio, i funerali dello studente Walter Rossi, militante della sinistra extraparlamentare ucciso
21 Cfr. G. Passarello: Un’isola non abbastanza isola. Palermo, Palumbo, 2007, p. 136. 22 Cfr. G. Bellia: L’obliquo percorso della memoria. La scrittura di Vincenzo Consolo tra storia, ritualità e sdegno. In: Sub specie typographica…
23 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura…, p. 15. 24 Ibidem, p. 19.

35 dai neofascisti25. Perciὸ, per evitare l’ambiguità del discorso, Consolo ricorre più volte ad un referente diverso dalla scrittura, appartenente invece al campo delle arti figurative, come i quadri di Antonello, di Caravaggio e di Raffaello, i dipinti di Clerici. Il romanzo Lo spasimo di Palermo vuole essere infatti la manifestazione della forza stilistica orientata verso la ricreazione di una speranza di giustizia e di razionalità nel modo in cui dominano oppressione e terrore anche se la sospensione della comunicazione tra un padre e un figlio espressa tramite il motivo di una lettera rimane una tra le scene più suggestive di questo romanzo che tratta dell’impossibilità della continuazione di scrivere. Consolo è cosciente delle conseguenze della postmodernità così come lo era George Steiner che nel Linguaggio e silenzio parla dell’esaurimento dell’era verbale e del dominio delle forme “postlinguistiche” e addirittura del silenzio parziale26.
25 Cfr. G. Traina: Vincenzo Consolo. Fiesole, Cadmo, 2001, p. 21. 26 Cfr. G. Steiner: Linguaggio e silenzio. Milano, Garzanti, 2001, p. 56.


Aneta ChmielRompere il silenzio I romanzi di Vincenzo Consolo

Il senso della storia nell’opera di Vincenzo Consolo

Cade qui opportuno parlare di un altro scrittore siciliano non certo meno colto e raffinato di Gesualdo Bufalino (di lui più giovane di poco più d’un decennio)1, ma a lui ideologicamente e letterariamente opposto: Vincenzo Consolo. Nella sua opera che qui come sempre, più che descrivere affronteremo per quanto servirà al nostro discorso più generale, non c’è infatti soltanto un fortissimo sentimento della storia, ma c’è pure il coraggioso tentativo, inevitabilmente sperimentalistico, di impostare il romanzo sul fondamento di una parola e di un fraseggio non turgidi ma icastici, quasi una traduzione istantanea del pensare e dell’agire degli uomini.

  • 2 Vd. la recensione al secondo libro di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi, 1976) e in (…)
  • 3 Altre poche notizie biografiche. Dopo gli studi elementari e medi frequentati a Sant’Agata (i secon (…)

2 Siciliano dunque di Sant’Agata di Militello, «un paese – per ripetere ciò che ne scrisse Leonardo Sciascia2 – a metà strada tra Palermo e Messina (sul mare, Lipari di fronte, i monti Peloritani alle spalle)», sesto degli otto figli di un piccolo commerciante di prodotti alimentari, Consolo trascorse nell’isola adolescenza e giovinezza (tranne gli anni universitari a Milano) e del suo paese natale fece echeggiare, già nella sua “opera prima” (La ferita dell’aprile del 1963), quello che sempre Sciascia (che se ne intendeva) definì l’«impasto dialettale, la fonda espressività che è propria alle aree linguistiche ristrette, le lunghe e folte e intricate radici di uno sparuto rameggiare». Ed era quello (e ancora Sciascia lo sottolinea) non già un artificioso gaddismo siculo anziché lombardo, ma un prepotente volersi inserire da subito nella storia e in quella, precipuamente, di coloro che la vivono, come del resto accadde allo stesso scrittore, dalla parte degli sconfitti; la patiscono nelle sue ingiustizie e vi si ribellano, altro non potendo, con la parola e con la scrittura. La letteratura, in due parole, non come professione ma come impegno civile. Donde anche una notorietà raggiunta tutt’altro che facilmente3.

Il senso della storia

  • 4 Vd. F. Engels-K. Marx, La famiglia. In Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 37.
  • 5 La citazione da Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano, 1997, pp. 113-14. Sul protagoni (…)

3 Ebbe a scrivere Marx nella Sacra famiglia4: «La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoestraniazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa autoestraniazione, sa che essa costituisce la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di un’esistenza umana; la seconda, in tale estraniazione, si sente invece annientata, vede in essa la sua impotenza e comprende in essa la realtà di una – la sua – esistenza non umana. Per usare un’espressione di Hegel essa è, nell’abiezione, la ribellione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla contraddizione tra la sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisa, assoluta di questa natura». Ebbene: questo non facile compito di rappresentare nel profondo e come all’interno stesso della coscienza tale drammatico dilemma mi sembra quello assunto dal nostro Vincenzo Consolo, forse tra i maggiori scrittori italiani ancora in vita. C’è una sua pagina, nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) – questo romanzo (ma il termine è improprio come vedremo), che culmina nella rivolta contadina di Alcàra Li Fusi contro i feudatari del luogo al tempo della spedizione garibaldina dei Mille che, nel significato sopra proposto, mi sembra esemplare. Avendovi casualmente assistito, il protagonista del libro, l’appassionato malacologo barone di Mandralisca, di idee liberali ma lontano sino a quel momento dall’azione politica, non può esimersi, date le circostanze, da due decisive riflessioni: la considerazione cioè che esiste una storia dei vincitori e una dei vinti, scritta la prima e mai scritta la seconda, e che in questa drammatica dicotomia, perenne e a prima vista irresolubile, consiste precisamente la tragedia della Storia. Nell’atto di stendere una relazione sui fatti appena accaduti, e di stenderla come avrebbe fatto uno «di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti», intuendo e avendo come già chiaramente presente tale versione in inconciliabile opposizione a quelle delle «gazzette e libelli» appartenenti, per così dire, alla voce ufficiale della storia, confessa e ammette l’impossibilità dell’impresa: «No, no!» dice 5 nel suo particolare linguaggio d’intellettuale siculo di metà Ottocento. «Che per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo». Questo «scarto di voce e di persona» – ossia questo immedesimarsi nella classe del proletariato per dirla con Marx – gli appare un’azione scorretta; quanto meno un’impostura. Spiega difatti:

È impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci son le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando [Mentre invece] un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta.

4 Perché? Perché la classe dei possidenti, pur con tutto il suo presunto progresso, o forse proprio per questa sua presunzione, non ha la chiave per intendere la natura pur sempre umana dell’altra, che tuttavia la storia ha come lasciato nel suo analfabetismo secolare del corpo e dello spirito. Ascoltiamo ancora il barone:

Poi che noi non possediam la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata [di Militello], dire le ragioni nella parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare. S’aggiunga ch’oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima.

5 Fermiamoci un momento per sottolineare questo passaggio-chiave e davvero decisivo non solo per denunciare autocriticamente una frattura che appare incolmabile tra le due classi e le due “umanità”, ma per prenderne soprattutto atto onde iniziare, ed esattamente da qui, la pars costruens dell’impegno e del dovere politico. La storia, sostanzialmente dice il barone di Mandralisca, non appartenente alla classe dei cosiddetti illuminati e sicuramente dei possidenti, ha indubitabilmente compiuto nel corso dei secoli, e già da prima della nascita del Redentore, il suo cammino progressivo e feroce: il diritto di proprietà ha generato i suoi codici politici giuridici e culturali e, irridente, ha lasciato l’altra parte, quella sopraffatta, nei suoi, totalmente disattesi incomprensibili e disprezzabili. È col ferro che si costruisce la civiltà, proposizione inconfessabile ma vera. Quindi prosegue:

E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia; riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiam veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri che mai hanno raggiunto i diritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose.

6 Ci si ricordi a questo punto della novella Libertà di Verga, relativa alla selvaggia rivolta di Bronte nel catanese e alla ancor più spietata e selvaggia repressione di Nino Bixio (4 agosto 1860): non potremo non renderci immediatamente conto della profonda differenza d’atteggiamento che nei confronti delle due rivolte, così prossime nei luoghi e nel tempo, hanno assunto due diversi esponenti della classe dei possidenti: in Verga la brutalità della sommossa e del suo castigo (giusto oltre che inevitabile) è appena addolcita, se così posso esprimermi, dal sentimento religioso della misericordia e in ogni caso, sul piano storico, assistiamo alla risoluta affermazione che le due classi antagoniste, quasi per decreto divino, dovranno eternamente coesistere nello statu quo («I galantuomini non potevano lavorare le loro terre con le proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini»); in Consolo, che ha ben più presente, anzi sommamente presente la natura umana delle due classi antagoniste, hai non solo il riconoscimento di quanto sia stata giusta la cruda ribellione contadina, ma anche l’inattesa affermazione che la classe dei possidenti, mancando dei necessari “codici” interpretativi, dovrebbe comunque astenersi dal giudicare un evento che ha in realtà appalesato l’ignominia umana della Storia stessa. E quando – e sia pur in un tempo remotissimo – anche la classe degli oppressi e dei vinti avrà conquistato i valori superiori della civiltà, essi saranno in ogni caso diversi da quelli acquisiti e comunemente intesi dagli appartenenti alla classe degli attuali possidenti: saranno «parole nuove, vere per loro e giocoforza anche per noi»; e «vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose». Qui in realtà ci troviamo di fronte all’autentico “senso della storia” e, soprattutto, allo svelamento delle sue infamie morali, politiche ed economiche.

La difficile conquista della ragione

  • 6 6 Vd. V. Consolo, Retablo, Mondadori, Milano, 1992, pp. 115-16.

7«Gli uomini desti – ebbe a sentenziare Eraclito – appartengono a un mondo comune e solo nel sonno ognuno si apparta in un mondo a lui proprio». Potrebbe questo essere un motto da apporsi quale epigrafe a Retablo, quello scritto di Consolo del 1987 che fa come da intermezzo tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e i successivi Nottetempo, casa per casa (1992) e Lo Spasimo di Palermo (1999), una trilogia che in un vorticoso crescendo svela gli inganni le crudezze e le insensatezze della storia, dalla cosiddetta unità d’Italia – in realtà la piemontizzazione della penisola – alle sopraffazioni del fascismo e ai crimini del momento che abbiamo appena vissuto (gli assassinî di Falcone e Borsellino). Retablo (come del resto e con ben maggiore evidenza il precedente Lunaria) è invece come un momento di pausa nel quale tuttavia, per il particolare discorso che veniamo conducendo, non mancano importanti e rivelatrici considerazioni. Nel secondo quadro del trittico, il più vasto e imponente intitolato Peregrinazione (siamo nel Settecento, l’età della borghesia illuminata, dei viaggi e delle grandi scoperte archeologiche, dell’entusiasmo per il dispotismo illuminato e in certo modo del ritrovamento dell’uomo nel nome della ragione), l’aristocratico pittore milanese Fabrizio Clerici, giunto con berbera navigazione nella favolosa Mozia de’ Fenici, si trova di fronte a orci ricolmi di «ossa antiche, più antiche di Cristo o Maometto, ormai polite e nette come ciottoli di mare» e, in più, «ossa d’innocenti»: si trova cioè in quel cimitero ove i Fenici di quest’isola seppellivano i fanciulli dopo averli sacrificati ai loro dei. Ma il riflessivo artista milanese, l’ideale compagno dei Verri e dei Beccaria, non inorridisce come il suo siculo valletto, l’innocente e sventurato Isidoro; spiega anzi come quei remoti navigatori aprirono per le vie del mare nuove conoscenze insegnando a tutti i popoli, ad esempio, l’alfabeto e la scrittura segnica dei suoni. Sennonché il fervore precettistico del savio milanese s’interrompe presto in questa riflessione quasi rivolta sottovoce a se stesso6:

Ma così mai sempre è la veritate della storia, il suo progredire lento e contrastato, il miscuglio d’animalità e di ragione, di tenebra e di luce, barbarie e civiltà. E troppo presto esulta, a mio giudizio, il barone di Montesquieu, nel suo essé titolato Esprit des lois, per la superiore civiltà dei Greci di Sicilia, per i Siracusani che, dopo la vittoria d’Imera, per volontà del loro re Gelone, imposero ai Cartaginesi nel trattato di pace d’abolire quell’usanza d’uccidere i fanciulli. Così dice il filosofo, il giurista (e qui riporto quanto ritiene la memoria mia): «Le plus beau traité de paix dont l’histoire ait parlé est, je crois, celui que Gélon fit avec le Carthaginois. Il voulut qu’ils abolissent la coutume d’immoler leurs enfans. Chose admirable!…» Ma ignorava il Montesquieu che i Siracusani stessi, col tiranno loro Dionisio, tempo dopo, espugnata e saccheggiata quest’isola di Mozia, punivano crocifiggendoli quei Greci mercenari che avean combattuto coi Moziesi. E vogliamo qui memorare le barbarie dei Romani o i massacri vergognosi che gli Ispani, nel nome di Cristo e della santa Chiesa, compirono contra i popoli inermi delle Nuove Indie? Ah, lasciamo di dire qui di quanto l’uomo è stato orribile, stupido, efferato. Ed è, anche in questo nostro che sembra il tempo della ragione chiara e progressiva. L’uomo dico in astratto, nel cammino generale della storia, ma anche ciascun uomo al concreto è parimenti ottuso, violento nel breve tempo della propria vita. Vive sopravvivendo sordo, cieco, indifferente su una distesa di debolezze e di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe. Calpesta procedendo ossa d’innocenti, come questi del campo per cui procediamo io e Isidoro.

8Gli uomini “desti”, coloro che sentono di appartenere a un mondo comune, che vivono in un mondo comune – gli uni accanto agli altri, gli uni per gli altri o gli uni contro gli altri – possono, sol che lo vogliano, comprendere cosa sia la storia, misurarne le ben maggiori atrocità e le ben minori ma confortanti virtualità; possono, sul fondamento delle riflessioni portate su di essa, rinnovarsi dal profondo, conquistare coscienza e consapevolezza di ragione, non disperare. In questo senso il lungo viaggio del milanese Fabrizio Clerici per la Sicilia del presente e del passato (fenicio, greco, cartaginese, romano, arabo, bizantino e via discorrendo) diviene un lungo, arduo itinerario non in Dio ma nella riconquista dell’umano e dell’umano intelligere; e non solo relativamente al protagonista-principe del racconto – il raffinato intellettuale Fabrizio Clerici – ma anche nei confronti, per così dire, del suo miserando Sancio Panza, quell’infelice fraticello che sfratatosi per amore, Isidoro, accompagna lungo tutto il viaggio il suo dominus vittima anch’egli – almeno in questo le due classi economiche e sociali appartengono alla medesima natura umana – d’una altezzosa nobildonna milanese che sta per divenire la marchesina Beccaria. Rendersi conto del perché di tutto ciò e ricostruire il vissuto (anche il sogno, anche il privato) alla luce di una ragione difficilmente conquistata e ancor più difficilmente conquistabile, costituisce l’impegno dei protagonisti degli scritti di Consolo, del loro autore che in essi rivive e inventando s’immerge (il che vale anche per l’esordio della Ferita dell’aprile), dell’uomo che si sforza di annientare la propria animalità per divenire veramente uomo. L’olivo e l’olivastro: l’umano e il bestiale, il coltivato e il selvatico.

  • 7 Vd. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, Milano, 1992, p. 140.

9Un primo e riuscito tentativo di realizzare quest’arduo proposito è sicuramente consegnato in Nottetempo, casa per casa del 1992, una sorta di poema; come vorrei definirlo, che nei classici dodici canti svolge appunto il tema dell’uomo che atrocemente colpito da un’ignota offesa o sacrilegio, Petro Marano (dal suo nome di rinnegato? – gli abissi della storia), si sforza da sé solo di levarsi di dosso la continuata pena della sventura: la follia animalesca del padre, la stortura mentale che colpisce la sorella, la confusione babelica che corrompe persino il linguaggio, «stracangia le parole e il senso loro», onde «il pane si fa pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senno sonno»7. Ma converrà volger l’occhio sulla chiusa, su quella Fuga che porta in epigrafe un verso virgiliano: Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum. Che il destino, o Petro Marano, ti sia felice come quello d’Enea, sorride forse il lettore…

  • 8 Ivi, pp. 109-10.
  • 9 Ivi, pp. 109-10.

10 Petro comunque non è progenie di Venere. Suo padre ha avuto sì la buona sorte d’ereditare da un illuminato barone cui serviva, parte della terra e case che il defunto possedeva, ma il lascito non ha tardato a volgersi in offesa: “Bastardo” l’erede e “figlio del Bastardo” il figlio dell’erede; oltre che il livido, perenne rancore dell’espropriato. Il clima arcaico d’una società quasi ancora immersa nella pastorizia e nell’agricoltura con le sue tare ereditarie (la feudale arroganza dei grossi possidenti e la meschina miseria della plebe analfabeta) fa il resto; come fa il resto (siamo al principio degli anni Venti) il progressivo avanzare del fascismo, l’ubriacatura della media borghesia che delira per il dannunzianesimo, l’ormai evidente fallimento della cosiddetta questione meridionale (un fallimento, sia detto tra parentesi, consapevolmente progettato e voluto), la stravolgente devastazione irrazionalistica, da distruzione della ragione, storicamente rappresentata dal comparire in Sicilia della Grande Bestia dell’Apocalisse, alias Aleister Crowley, mago profeta e satanista. Inutilmente compare anche, quasi in conclusione della fabula, la figura di quel personaggio che un tempo si definiva l’eroe positivo – quel Cicco Paolo Miceli che, nonostante il suo aspetto da rachitico, aveva vivida la coscienza e gli occhi sempre accesi e il cui interesse primo «era la storia, la vita pubblica, la condizione al presente della gente, ché per la gente aveva attenzione, per la miseria»8: inutilmente. Nonostante un popolano amore ritrovato nel cui grembo avrebbe voluto entrare interamente e, rannicchiandovisi dentro e totalmente dimenticandosi, trovare finalmente la pace; nonostante l’enorme sforzo di solidarizzare con i ribelli e gli anarchici di cui pure non condivideva affatto, per così dire, il “dannunzianesimo di sinistra” (quello di un melmoso e parolaio Rapisardi), Petro Marano comprende che la riabilitazione non può che consistere nella fuga, ma una fuga che fosse insieme resurrezione: l’emigrazione a Tunisi come un emigrante qualsiasi, un emigrante «in cerca di lavoro, casa, di rispetto». Ed è su questo rispetto che vale la pena di posare particolarmente l’accento: rispetto per se stesso e per gli altri, per gli uomini desti di Eraclito, per gli uomini che appartengono al mondo comune e che lasciano al sonno quello infinitamente inferiore del privato; lo riscattano anzi dal suo dolore col proposito di darne, col tempo, meditata ragione. Per il momento e come in attesa di questo difficile risveglio, del sorgere di questo molto meno enfatico sole dell’avvenire, è l’ora del distacco – nottetempo e casa per casa – da un passato consapevolmente se pur dolorosamente respinto; da una memoria della quale si dovrà un giorno calcolare il peso, capirne a fondo il significato. «Andarono spediti col venticello di levante del mattino. Col cielo che appena si chiariva dietro la massa della Rocca, l’arco di luna, le stelle che smorivano, i lumi del paese, le lampare delle barche. Chiariva il mare, la scia della paranza. Vide nascere man mano e lontanarsi il Castello sopra il colmo, la roccia digradante, la balza tonda, il Duomo contro in tutta l’eminenza, San Domenico, la caserma, Marchiafava, il Monte Frumentario, e le casipole ammassate, le mura, gli archi, le infinite finestrelle, le altane, i làstrici sul porto… Conosceva quel paese in ogni casa, muro, pietra […] l’aveva amato. Ora n’era deluso, disamorato per quello ch’era avvenuto, il sopravvento, il dominio ch’aveva preso la peggiore gente, la più infame, l’ignoranza, la violenza, la caduta d’ogni usanza, rispetto, pietà…»9. Conosciamo tutti l’addio che Renzo diede alla patria; questo di Petro Marano fa balenare, attraverso la memoria, le infamie della Storia.

  • 10 Vd. V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 1998, p. 128.

11 L’ultimo dei testi della trilogia di Consolo, Lo Spasimo di Palermo, è fuor di dubbio il più complesso, il più drammatico e il più attuale: perciò stesso, e quasi inevitabilmente, il più difficile di questi difficili libri; in certa misura il meno lineare nell’ossessivo affollarsi di passato e presente, nel contrapporsi di storia a memoria, nel vano bisogno di conforto che il ricordo potrebbe dare e che suscita al contrario un cocente sentimento di patimento, di sconfitta, di spasimo. Lo “Spasimo di Palermo”, beninteso, è riferito a un dipinto di Raffaello che ritrae la caduta di Cristo sul cammino del Calvario e allo spasimo della Vergine che, andata a lui incontro, rimane attonita davanti a tanto strazio del Figlio; ed è uno strazio ed uno spasimo che da Palermo e dalla Sicilia non tarda ad allargarsi al mondo intero, a questa società in cui la violenza nazi-fascista, sotto altre forme apparentemente più benevole, mercé il traino dell’ormai libero e selvaggio capitalismo, non ha fatto che inondare il mondo con la sua spietata corruzione. Dopo la guerra il dopoguerra. Cosa hanno fatto, di effettivamente positivo e concreto, le due generazioni che si sono via via succedute, quella del protagonista del libro, lo scrittore Gioacchino Martinez, e quella del figlio Mauro? La prima, anche nel turbine dei privati dolori, s’è «murata» nell’inerte «azzardo letterario»; la seconda, ritenendosi forte di una «lucida ragione», nell’azzardo temerario e inconcludente della lotta armata, del terrorismo. Ma è forse così che si costruisce una società nuova e civile, fondata sulla giusta convivenza? Questa amara confessione, che è implicitamente sottesa in tutte le aggrovigliate pagine del racconto, che in certo modo ne determina gli eventi e si concretizza in rimorsi che a loro volta prendono figura d’assurde e ossessive apparizioni; questa confessione si libera finalmente nel capitolo conclusivo sennonché, proprio al termine della confessione e della liberazione, esplode sotto casa l’attentato e la morte del giudice Borsellino. Aveva appena scritto il padre al figlio10:

Questa città [Palermo], lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada, per l’aeroporto! – È una furia bestiale, uno sterminio. Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma il principale loro obiettivo sono i giudici, questi uomini diversi da quelli d’appena ieri o ancora attivi, giudici di nuova cultura, di salda etica e di totale impegno costretti a combattere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo loro stesso giudiziario, asservito al potere o nostalgico del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi, da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui hanno la loro prima linea, ma la cui guerra è contro lo Stato, gli Stati per il dominio dell’illegalità, il comando dei più immondi traffici.

12 Parole dure, icastiche e, soprattutto, veritiere; tali da evocare il rimpianto per il grande romanzo realista dell’Ottocento; parole che suggeriscono la figura super-umana del balzacchiano Vautrin che induce, simile a un Mefistofele, gli uomini che si dibattono nella loro insensatezza a prendere la via della realtà, ossia dell’abiezione capitalistica: la via dell’arrivismo nudo e crudo. Cosa viene qui particolarmente illustrato se non la disinvolta complicità, ormai neppur quasi dissimulata, tra uomini di governo e uomini di malaffare nel sostenersi reciprocamente nell’età in cui viviamo, in questo “dopoguerra” in cui il capitalismo, arrivato ormai a un potere senza più limiti, spinge gli uomini verso la degradazione più completa attirandoli progressivamente nelle spire della più profonda degenerazione? Il conte Mosca, in Stendhal, così formulava i suoi consigli a Fabrizio del Dongo: «La vita nella società somiglia al gioco del whist. Chi vuol giocare non deve indagare se le regole del gioco siano giuste, se abbiano qualche ragione morale o altro».

  • 11 È la pagina conclusiva del libro.

13Proprio mentre sta stendendo questa sua confessione-rapporto che vorrebbe essere in certa misura liberatrice, lo scrittore Gioacchino Martinez viene interrotto dall’attentato al giudice Borsellino11:

E fu in quell’istante il gran boato, il ferro e il fuoco, lo squarcio d’ogni cosa, la rovina, lo strazio, il ludibrio delle carni, la morte che galoppa trionfante.

Il fioraio, là in fondo, venne scaraventato a terra con il suo banchetto, coperto di polvere, vetri, calcinacci.

Si sollevò stordito, sanguinante, alzò le braccia, gli occhi verso il cielo fosco.

Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono. Implorò muto

O gran mano di Dio, ca tantu pisi,

cala, manu di Diu, fatti palisi!

14Allo scadere di duemila anni di civiltà post Christum natum i popolani si vedono ancora costretti a invocare la giustizia di Dio.

Memoria e romanzo

15Nel 1881, l’anno dei Malavoglia, Giovanni Verga non si faceva illusioni sul suo romanzo. «So anch’io – scriveva a Felice Camerini – che il mio lavoro non avrà successo di lettura, e lo sapevo quando mi sono messo a disegnare le mie figure»; eppure – diceva a un altro suo corrispondente – «se mai dovessi tornare a scriverli li scriverei allo stesso modo». Perché? Perché ciò cui lo scrittore mirò – come pure s’espresse altrove lui stesso – fu il tentativo di dare, attraverso semplicità di linee e uniformità di tono, l’efficacia della coralità dell’insieme e far sì che a libro chiuso, tutti i personaggi che l’artista aveva posto sulla pagina con il metodo del discorso indiretto e della rappresentazione degli eventi quali si riflettono nei cuori e nei cervelli d’essi personaggi, resuscitassero nella mente del lettore con l’evidenza di chi li aveva conosciuti di persona, nato e vissuto in mezzo a loro. Mai nessuno aveva prima tentato di dar vita a un’opera d’arte tanto collettiva, autonoma e capace d’imporsi solo in virtù della forza espressiva con la quale si presentava; e non a caso la chiusa del romanzo è rimasta memorabile: «Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu».

16Che a Verga si colleghi consapevolmente Vincenzo Consolo è cosa ben nota e che lo stesso Consolo, anche adducendo particolari circostanze biografiche, orgogliosamente rivendica. E sin dall’esordio del ’63 con La ferita dell’aprile il cui incipit suona:

Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti. La scuola me la ricordo appena. C’è invece la corriera, la vecchiapregna, come diceva Bitto.

  • 12 Vd. V. Consolo, La ferita dell’aprile, Mondadori, Milano, 1989, p. 31.

17Parrebbe, a prima vista, di trovarsi di fronte a un nuovo Pavese di Sicilia, ma ben presto ci si ricrede. Uno scampolo quasi a caso12:

Di fronte c’era il mare, alto fino ai nostri occhi, con la fila di luci di barche che facevano su e giù per l’acqua un poco mossa: parevano lanterne appese ad una corda, scosse dal vento. Domani si mangia sarde, ma la signora aspettava che fetevano prima di comprarle. Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga: correte, femmine, correte, prima che si squagliano.

  • 13 Vd. Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 105.
  • 14 Vd. V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano, 1994, p. 19. E vd. Omero, Odissea, 9 21-2 (…)

18La strada era dunque segnata. Si trattava ora di percorrerla con autonomia per dare nuova forma al genere romanzo. Come «epopea borghese» esso s’era dissolto – è stato detto e già ricordato – nella notte tra il 1 e il 2 dicembre del 1851 quando, sulle barricate, l’eroe dell’Educazione sentimentale flaubertiana Frédéric Moreau vede cadere Dussardier al grido Viva la Repubblica! e riconosce nell’agente di polizia il suo ex compagno di lotta “radicale” Sénécal; cominciava proprio allora, e nello stesso Frédéric Moraeu, la ricerca di quel tempo perduto che fonda la sua consistenza essenzialmente sulla memoria, ma sulla memoria del privato. Per Consolo, come del resto già accennavo, essa diviene invece lo strumento principale per indagare le vicende della storia, le grandezze e le infamie del passato, le ricadute sulle contraddizioni del presente: la memoria (la ricerca storico-culturale) come strumento di conoscenza. E ciò inevitabilmente esige, ripercuotendovisi, una diversa elaborazione del fraseggio, esige quella «furia verbale», come lo stesso Consolo ammette con le parole dello scrittore Gioacchino Martinez che più da vicino l’impersona, che in una diversa e dissonante lingua può finire in urlo o dissolversi nel silenzio13. In altri termini: la memoria come il medium insostituibile per ripercorrere tanto il vissuto personale quanto, e soprattutto, il passato collettivo, intrinsecamente congiunti; soprattutto quando si è nati e ci si è formati in Sicilia, la terra miticamente (ma in gran parte anche storicamente) più antica del mondo e già abbracciata da Ulisse. «Non so vedere – dice l’eroe14  – altra cosa più dolce, per uno, della sua terra»: un affetto d’uomo che risuonerà almeno, altissimo, fino a Ugo Foscolo; senza neppure dimenticare che furono i poeti dalla Magna Curia fridericiana a gettare le basi del volgare d’Italia: i primi poeti toscani, gli stilnovisti stessi, non fecero che tradurli com’è testimoniato dall’opera di Stefano Protonotaro da Messina. In questo senso si potrebbe persin dire che la ricerca formale di Consolo, sia stilistica sia lessicale, sia una sorta di ritorno alle origini.

  • 15 Vd. supra la nota 13.

19Nelle molteplici teorie avanguardistiche che si sono succedute alla dissoluzione del romanzo come epopea borghese – la celebrazione della borghesia nel suo vigore dissacratore e vincente del feudalesimo – c’è sempre un motivo di fondo comune: il senso di estraniazione e di solitudine. Per esse esiste solo l’individuo eternamente ed essenzialmente solitario, svincolato da ogni rapporto umano e a maggior ragione da ogni rapporto sociale; egli è “gettato” nel mondo quasi senza alcun senso e imperscrutabilmente, ond’egli finisce anche con l’illudersi che, in questo modo, gli si apra quell’infinita ricchezza di possibilità virtuali in cui fa apparentemente consistere la pienezza della sua anima. Non c’è nessuna realtà, c’è la coscienza umana, ebbe a dire Gottfried Benn. È essa che forma incessantemente i mondi della sua creatività, che li trasforma, li subisce e li modella spiritualmente. Ebbene: nulla di più lontano, rispetto a queste posizioni avanguardistiche e sperimentalistiche, dell’avanguardismo e dello sperimentalismo di Consolo. Egli potrà far ben dire allo stesso alter ego appena su ricordato15 che il romanzo rappresenta ormai un genere letterario «scaduto, corrotto e impraticabile»: sennonché lo scrittore ha saputo rinnovarlo in qualcos’altro, vale a dire in una forma letteraria nella quale il particolarissimo linguaggio mnemonico che pure ricorre (e tutt’altro che raramente) a improvvisi e quasi inattesi squarci lirici, cerca di fare i conti con la storica umana collettività (la terra di Sicilia ne è l’emblema) onde finalmente coglierne, al di là delle macerie di cui è disseminata, i momenti più vividi di pathos morale e civile.

NOTE

1 Bufalino nasce nel 1921; Consolo nel 1933.

2 Vd. la recensione al secondo libro di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi, 1976) e intitolata L’ignoto marinaio, ora in L. Sciascia, Opere 1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano, 1989, pp. 994-98 (nella raccolta Cruciverba).

3 Altre poche notizie biografiche. Dopo gli studi elementari e medi frequentati a Sant’Agata (i secondi in un istituto salesiano poi liberamente rievocati nel libro d’esordio La ferita d’aprile del ’63 presso Mondadori); dopo quelli universitari e giuridici a Milano presso l’Università Cattolica, Consolo torna in Sicilia e stringe particolare amicizia con Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia. Dal ’68 è a Milano addetto, nella sede milanese, ai programmi culturali della RAI. Il successo gli arride nel 1976 con il Sorriso del vecchio marinaio. Col successivo Nottetempo, casa per casa (1992) vince lo Strega. Vive ora a Milano.

4 Vd. F. Engels-K. Marx, La famiglia. In Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 37.

5 La citazione da Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano, 1997, pp. 113-14. Sul protagonista del libro, il barone Enrico Mandralisca di Pirajno, possessore del celebre dipinto di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, vd. quanto ne scrive Sciascia nel già ricordato (n. 2) L’ignoto marinaio.

6 6 Vd. V. Consolo, Retablo, Mondadori, Milano, 1992, pp. 115-16.

7 Vd. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, Milano, 1992, p. 140.

8 Ivi, pp. 109-10.

9 Ivi, pp. 109-10.

10 Vd. V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 1998, p. 128.

11 È la pagina conclusiva del libro.

12 Vd. V. Consolo, La ferita dell’aprile, Mondadori, Milano, 1989, p. 31.

13 Vd. Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 105.

14 Vd. V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano, 1994, p. 19. E vd. Omero, Odissea, 9 21-22.

15 Vd. supra la nota 13.

Il senso della storia nell’opera di Vincezo Consolo
Ugo Dotti Biblioteca Aragno

Porcacchia facean di nome

“Porcacchia facean di nome loro di famiglia…”: con questo o un simile
attacco vorrei scrivere un romanzo. Raccontare d’una famiglia di camionisti (padre e due figli, mettiamo) del Napoletano, del Casertano o Avellinese, ex contadini, proprietari di un camion con rimorchio (costano, questi bisonti, quanto una casa di cento metri quadri entro la prima cerchia dei Navigli di Milano), che vanno, affannosamente e disperatamente (devono pagare il camion, costruire la casa), sulle autostrade su e giù per la stretta penisola nostra italiana. Con loro, della nuova realtà sociale: l’inurbamento, le squallide periferie industriali delle metropoli del Nord e i caotici agglomerati delle città del Sud, la camorra, il traffico di armi e droga, l’industria delle serre, lo sfruttamento della mano d’opera del Terzomondo, il calcio, gli stadi, i grandi mercati, le tangenziali, i raccordi anulari, i massacri sulle autostrade, gli scioperi, i blocchi stradali, i porti, i containers… Vorrei scrivere, ma non posso: bisogna esser giovani per scrivere un libro così, giovani e sciolti d’ogni memoria e legame per poter salire sulla cabina di uno di quei camion e viaggiare almeno per un anno, imparare, se già non la si conosce, la nuova lingua italiana, le koinè delle nuove realtà in cui ci si imbatte, i gerghi dei camionisti, dei trafficanti, dei camorristi, dei tifosi, delle prostitute, dei travestiti… No, non posso proprio: sono vecchio. Peccato. Mi resterà il rimpianto di non aver potuto scrivere un mio Pasticciaccio, il pasticciaccio brutto dei Porcacchia. Cedo dunque l’idea a qualche giovin scrittore italiano (interesserà mai a costui la realtà nostra sociale e saprà scrivere in terza persona?). La cedo a gratis, come dicono a Milano. Dicono a gratis e dicono con pardon i ragionieri di codesta città quando vogliono parlare in punta di forchetta. Oltre a dire una tantum, nel senso del diritto che hanno loro a sniffare di tanto in tanto per riprender quota ed esser efficienti. Ma con lo sniffo siamo forse già a livelli un po’ più alti (di quelli dei ragionieri almeno rimasti fuori da Palazzo Chigi, fuori dal Banco Ambrosiano e fuori dalla Borsa): macellai, ristoratori, amministratori ed evasori d’ogni risma, fabbricanti di mine, di defolianti e di tondini, pubblicitari e pierre, designers, parrucchieri, sarti, fotomodelli, artisti d’ogni ramo, dentro e fuori il Canale Cinque. Parlo della grande Milano in cui dimoro ormai da venti anni, senza contare i quattro in cui vi studiai. Erano allora gli anni Cinquanta e Milano l’era tutta un’altra roba. Era la città della ricostruzione, del grande Progetto, gli anni del “Politecnico” e dei “Gettoni” di Vittorini. Finiti gli studi, me ne tornai in Sicilia con l’idea di fare lo scrittore. Lo scrittore meridionale e meridionalista (era tanto di moda allora). Perché allora la scrittura era subito impegno, testimonianza e denunzia (e c’era pure Scelba che denunziava il culturame). Il grande sole o schema era naturalmente il Cristo d’Eboli con tutto quanto lo aveva preceduto e seguito, Gramsci Dorso Salvemini, con tutte le Uva puttanella, tutti i Pasticciaccio e i Ragazzi di vita, tutti i neorealismi, le sperimentazioni e le digressioni dialettali allora imperanti. Ma quando mi trovai a pubblicare il mio primo libro nel ’63, nella mondadoriana collana del “Tornasole” di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, dal titolo La ferita dell’aprile, dissero i critici, che allora leggevano i libri, che ero fuori, ma proprio fuori dal neorealismo. Ma ero dentro la storia. La storia siciliana del dopoguerra, la caduta del fascismo, la ricostruzione dei partiti, le prime elezioni regionali del ’47 con la vittoria del Blocco del Popolo, la strage di Portella della Ginestra, la vittoria schiacciante dei Democristiani nel ’48… Poi finì il Meridione e finì il mondo contadino. Tutto si industrializzò, pure la mafia e pure la camorra. Avvenne il grande esodo dei braccianti dal Sud al Nord. Anch’io quindi emigrai, e di nuovo su a Milano. Avevo la bell’età di trentacinque anni. Viaggiai il giorno e la notte di San Silvestro e il primo gennaio del 1968 fui a Milano. Contadino inurbato, non sapevo niente di metropoli e di cultura industriale. Mi sentii spaesato, spiazzato anche linguisticamente. Ripercorsi così, per salvarmi, per riconquistare anche l’uso della parola, la mia storia, la storia cioè della mia terra, e scrissi, in una lingua storica e filologica scavata e ritrovata, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Dopo tredici anni dall’esordio. E questo libro, ch’era d’impianto storico (si svolgeva negli anni del Risorgimento e dell’impresa garibaldina: nodo di passaggio storico importante per il Meridione e banco di prova della maggior parte degli scrittori siciliani – Verga, De Roberto, Pirandello, Lampedusa, Sciascia…),
voleva anche dire metaforicamente del momento che allora si viveva,
a Milano e altrove. Poi… Poi sempre più indietro e sempre più lontano
dalla realtà: Lunaria, un racconto favoloso ambientato in un vago Settecento e scritto in forma teatrale. Quindi, uscito proprio nei giorni in cui sto per tracciare questo mio profilo scellerato, Retablo, d’ambientazione ancora settecentesca. Su cui aspetto che i critici dicano qualcosa. I quali forse non diranno niente fino a che il libro non sarà tradotto in italiano, nella lingua cioè dei Porcacchia che oggi si parla e scrive nel paese nostro. Perché Retablo è scritto in una lingua trapassata,
che pochi ormai ricordano e capiscono. “Lei è anacronistico?” mi ha chiesto un giornalista. “Certo” ho risposto. “E pure anacreontico.”

Vincenzo Consolo, in Giuseppe Appella – Paolo Mauri (a cura di), Almanacco della Cometa.
“I contemporanei vedono
se stessi”, Edizioni
della Cometa, Roma 1988, pp. 21-22.

“AMOR SACRO”CRONACA DI UN ROMANZO MAI NATO

di Sergio Buonadonna
Dopo dieci anni di silenzio Vincenzo Consolo torna al romanzo. Considerato l’erede di Vittorini e Sciascia, ma dai più accostato a Gadda per la sua scrittura espressiva, il grande narratore siciliano (78 anni, più di quaranta vissuti a Milano, “il luogo dell’emigrazione come fu per Verga”) si ripropone con una metafora storico-sociale e una scrittura palinsestica (cioè scrittura su altre scritture) come nella sua famosa trilogia: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” tema il Risorgimento, “Nottetempo casa per casa” (il fascismo), “Lo Spasimo di Palermo” (la contemporaneità fino alle stragi Falcone e Borsellino). Al grande ritorno sta accudendo da anni, ne è segno la fitta libreria d’epoca accumulata accanto al suo tavolo da lavoro che domina l’ampio studio carico di volumi, quadri e disegni tra cui quelli a lui carissimi di Guttuso e Pasolini. Racconta Consolo: “Il titolo di questo romanzo storico, lo dico con molto pudore, è Amor Sacro, è un processo d’Inquisizione di cui ho trovato i documenti all’Archivio di Madrid: una storia che si svolge in Sicilia. La vicenda riguarda un monaco e quindi Amor sacro direi che è appropriato. Ma non voglio aggiungere altro ché sarebbe impudico. Il secolo è la fine del Seicento, tempo, luogo e stagione di furori e misteri. Tuttavia non dico come Arbasino: sapesse signora mia la mia vita è un romanzo. I miei libri sono sempre storico-metaforici. Spero”. Si parla del passato per dire del presente? “Sans doute, come dicono i francesi. Senza dubbio”. Sicché – pubblicato questo libro tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 – dovremmo vedere finalmente il Meridiano che raccoglierà la tua opera?“ Tutta l’opera completa, questo è l’accordo con Mondadori anche se devo chiarire che ho atteso a lungo perché il mio contratto iniziale era con Arnoldo Mondadori. Berlusconi è arrivato dopo e come si sa io non ho molto piacere di lavorare per il cavaliere. Ma rispetterò i patti. Nel Meridiano ci saranno anche i miei scritti giovanili. Giorni fa è venuto a trovarmi un professore dell’Università di Gerona, bravissimo, che sta curando tutti i miei racconti. Il primo risale al 1952”.È giusto definire un tuo libro romanzo o narrazione? Ne “Lo Spasimo di Palermo” appare infatti il tuo manifesto letterario quando avverti: ‘il romanzo è un genere scaduto, corrotto, impraticabile…’“Quando negli anni Sessanta ho cominciato a scrivere il mio primo libro, ho visto cos’era accaduto nel nostro Paese soprattutto dal punto di vista linguistico, ma anche in campo letterario, politico, civile. C’era stata una forte mutazione, l’esodo dei contadini del sud, la ricerca di una lingua altra che non fosse quell’italiano che – come dice Leopardi – aveva l’infinito in sé. La lingua italiana l’aveva perso, s’era orizzontalizzata perciò il mio scrupolo è stato reperire dei preziosi giacimenti linguistici che ci sono in Sicilia, dove sono passate tante civilizzazioni, recuperare vocaboli immettendoli nel codice italiano. In Sicilia questi giacimenti linguistici significano greco, latino, spagnolo, arabo, tante parole che riportavo in superficie. Un giorno un dialettologo dell’Università di Catania mi chiese dove hai preso la parola “calasía” perché nei vocabolari siciliani non c’è? Gli risposi: viene dal greco kalós che vuol dire bello. Nella mia zona tra le province di Messina e Palermo, che è greco-bizantina si dice che calasía, che bellezza”. Insisto. Che cosa distingue il romanzo dalla narrazione? “È la distinzione che fa Walter Benjamin. Nella tragedia greca c’era l’anghelos, il messaggero che arrivava in scena, si rivolgeva al pubblico della cavea e narrava quello che era successo altrove in un altro momento. Oggi io dico che la cavea è vuota, non ci sono più i lettori. Quindi non sai a chi rivolgerti e perciò l’anghelos non appare in scena. Sono i lettori che scelgono l’autore”. Tu in Sicilia avevi scelto Lucio Piccolo e Sciascia. Come si collocano nella tua formazione? “Per me Piccolo e Sciascia erano due riferimenti fondamentali. Quando ho pubblicato “La ferita dell’aprile” l’ho mandato con una missiva a Leonardo Sciascia e lui mi ha risposto con una bellissima lettera invitandomi ad andarlo a trovare a Caltanissetta. È nato un rapporto di amicizia, quando ci incontravamo le nostre conversazioni sulla Sicilia erano davvero intense e avvincenti. Dall’altra parte c’era Lucio Piccolo, che era di Capo d’Orlando, stava nella villa in campagna con il fratello Casimiro, un esoterico, e la sorella Giovanna una botanica, Lucio poeta era cugino di Tomasi di Lampedusa col quale aveva un antagonismo incredibile. Quando andavo da Piccolo lui mi diceva salutami il caro Sciascia e quando andavo da Sciascia, Leonardo mi diceva salutami Piccolo. Poi ho fatto in modo di farli incontrare. Piccolo, che stava quasi sempre chiuso nella sua magione, quando arrivavano ospiti dava il meglio di sé. Era di una cultura infinita. Anni dopo Sciascia dichiarò che i due personaggi che più l’avevano colpito nella sua vita erano stati Borges e Lucio Piccolo. Poi è esploso il fenomeno del Gattopardo. In un’altra circostanza ho saputo che in un alberghetto di campagna vicino al mio paese c’era Salvatore Quasimodo con un’amica che presentava come figlia, sono andato a scovarlo e ho fatto in modo di accompagnarlo per fargli conoscere Lucio Piccolo, ma siccome questi era stato scoperto da Montale, acerrimo nemico di Quasimodo, allora il Nobel, uscendo dalla villa, mi fa: questo piccolo poeta”. Al nord stringi invece intensi rapporti con Pasolini e Calvino. Che cosa succede nella cultura italiana perché oggi sia così difficile trovare dei riferimenti che segnano veramente il tempo e la cultura? “Non voglio essere profeta di sventure ma credo che la letteratura italiana ormai sia al grado zero. Mi arrivano parecchi libri di esordienti. Leggo le prime pagine e rimango allibito dalla banalità della scrittura, delle storie, tutti che guardano il proprio ombelico, la propria infanzia, il papino, la mammina, le vicende personali, familiari, sessuali, non c’è uno sguardo nella storia nostra. La società è assente e ci si chiede ma ‘sta letteratura dov’è andata a finire? Negli anni Sessanta, dopo un’infelice esperienza alla Rai, che mi aveva cacciato perché mi ero rifiutato di mandare in onda un’autointervista su Cavour dell’allora direttore generale Italo De Feo (suocero di Emilio Fede), grazie a Calvino sono stato per più di dieci anni consulente della casa editrice Einaudi. Quando arrivavano i dattiloscritti, io dovevo essere il primo a leggerli, fare la relazione scritta e leggerla alla riunione del famoso mercoledì. Se io approvavo il libro, passava a Calvino. Quindi se lui l’approvava passava a Natalia Ginzburg per il giudizio conclusivo. Oggi basta andare alla televisione a sculettare o a fare il cantante, si scrive il romanzo e subito diventa best-seller. Questa è la letteratura italiana attuale”. La letteratura può far paura perché non è dominabile? “Senz’altro. La letteratura vera non è dominabile, se poi invece aspetti l’applauso e il successo sei dominabilissimo. Fai la volontà del padrone”. La Sicilia è sempre il cuore delle tue storie anche quando racconti il male di vivere, in certo modo l’inutilità di stare in Sicilia. “Diceva Verga che non ci si può mai allontanare dai luoghi della propria memoria. Lui l’ha fatto per parecchio tempo, i cosiddetti romanzi mondani quand’era a Milano, poi c’è stata la famosa conversione quando comincia il ciclo del verismo, ma anche Pirandello ha scritto che noi siamo i primi anni della nostra vita, cioè che quei segni sono incancellabili”. La distanza ti ha consentito una messa a fuoco migliore della realtà siciliana?“ Anche questo diceva Verga, e Capuana scriveva che la lontananza serviva a vedere più obiettivamente il luogo in cui si era nati e vissuti, il luogo della memoria”. E l’infinito presente del nostro tempo che cosa ci sta rubando? “Sia la memoria del passato che la visione di quel che può essere l’immediato futuro. Viviamo in questo infinito presente”.

Le musiche della mia vita, intervista a Vincenzo Consolo, Raitre Milano, 22 febbraio 2009

Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

20 GIUGNO 2007
TOPOGRAFIE LETTERARIE

di Natale Tedesco

Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore.Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo,La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di PantalicaFascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagementDi quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si gioca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

20 giugno 2007

Parliamo di Vincenzo Consolo

di Natale Tedesco

Laudatio per Vincenzo Consolo di Natale Tedesco in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia moderna (Palermo, Steri 20 giugno 2007)

“Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura” di Natale Tedesco.
Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore. Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo, La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di Pantalica. Fascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagement. Di quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si giuoca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

Palermo 20 GIUGNO 2007
Lo specchio di carta
Osservatorio italiano sul romanzo contemporaneo

nella foto Sergio Spadaro e Vincenzo Consolo

Conferenza all’Accademia di Belle Arti di Perugia1

Vincenzo Consolo

Metto le mani avanti dicendo che non sono addetto ai lavori, non sono un esperto d’arte, come ha detto il professor Caruso, sono uno scrittore. Uno scrittore che però nella stesura di quasi tutti i suoi libri (Caruso ha citato Lunaria, ma forse fin dal primo libro) ricorre sempre a una citazione pittorica. Anche Calvino, che sembra meno implicato con la pittura, ha dichiarato che da sempre l’immagine di un dipinto lo ispirava nella scrittura dei suoi libri. Allora comincio teoricamente col dire che la letteratura è un discorso assolutamente lineare che ha una sua dinamica temporale nella quale bisogna saper leggere anche la sua verticalità, cioè la complessità. Bisogna dunque nella linearità del discorso letterario saper individuare le molteplicità dei significati oltre naturalmente dei significanti, cioè oltre al significato della parola bisogna anche ascoltarne il suono e comprendere che si propaga nel tempo.
Significante che si riporta ancora nella dimensione temporale: la scrittura si svolge nel tempo. Nell’arte figurativa, pittura o scultura, al contrario il discorso non è lineare, si svolge non nel tempo, ma nello spazio: sono due dimensioni diverse. Le due arti hanno essenze diverse. Ora cito un illuminista che non è il Lessing filosofo che conosciamo, ma un illuminista tedesco di nome Lessing che aveva analizzato la differenza tra letteratura e pittura. Egli afferma che la pittura usa figure e colori nello spazio, mentre la letteratura suoni articolati nel tempo, la pittura rappresenta oggetti che esistono uno accanto all’altro e sono colti con la loro proprietà visibile. È chiaro che qui si parla di pittura figurativa, non della pittura astratta, e quindi di figure di corpi, mentre la letteratura rappresenta oggetti1 che si susseguono uno dopo l’altro, la letteratura rappresenta un’azione nella quale gli oggetti o i corpi sono uno accanto all’altro e nella rappresentazione si segue una sintassi; questi oggetti o corpi sono legati, appunto come dice la parola, da una sintassi che regola la rappresentazione. Sia la pittura che la letteratura ubbidiscono alla legge della sintassi e dei legami. C’è però da osservare che spesso la sintassi pittorica e la sintassi letteraria si possono incrociare, si possono incontrare, e questo significa che vi può essere in pittura una componente temporale e dicendo questo non voglio riferirmi ai quadri medievali dove vi sono delle parole scritte. Mi riferisco soprattutto alle Annunciazioni dove l’angelo che annunzia ha le parole che escono dalla bocca e la Madonna risponde. Credo che le scritte dipinte si chiamassero filatteri. C’è una tradizione altissima di testi letterari dipinti da grandi pittori; basta pensare alle illustrazioni della Divina Commedia, ma anche per esempio al Boccaccio illustrato da Botticelli e in particolare ai due quadri famosi della novella di Nastagio degli Onesti. Vi sono delle pitture in cui vengono affiancati momenti successivi di un’azione e questo è evidente in quel genere di pittura soprattutto religiosa che si chiama Retablo. Il Retablo è un racconto pittorico che si svolge in più quadri, così come nelle narrazioni letterarie dei romanzi o racconti sono inserite narrazioni implicite, esplicite di esempi pittorici, pitture che possono fare da motivo ispiratore o da leitmotiv di una narrazione. Fatta questa premessa teorica facile e scontata voglio dire di me come scrittore, come la pittura mi ha influenzato, quali sono stati i temi pittorici che mi hanno segnato e mi hanno portato a scrivere. Devo iniziare dai primi passi che ho mosso in campo letterario e questo risale a parecchi anni fa, al primo libro La ferita dell’aprile, del 1963 pubblicato in una collana sperimentale, di ricerca letteraria. A quei tempi gli editori si permettevano di mantenere delle collane di ricerca che non avevano fine di profitto, così come le grandi aziende hanno il laboratorio di ricerca. Vittorini dirigeva la collana dei Gettoni presso Einaudi e cercava le nuove voci della letteratura italiana; per mezzo delle collane di ricerca si scoprirono grandi scrittori come Primo Levi, Giorgio Bassani, Leonardo Sciascia e tantissimi altri. Mondadori ha voluto con la chiusura della collana dei Gettoni di Einaudi continuare questa esperienza aprendo una collana che si chiamava il Tornasole, diretta dal poeta Vittorio Sereni e da un grande critico che si chiamava Niccolò Gallo. Quando ho scritto il mio primo libro sapevo già che il libro si sarebbe potuto collocare benissimo in quella collana. Credo che quando si opera in qualsiasi campo letterario, pittorico o musicale, chi comincia deve avere consapevolezza di quello che si è svolto prima che lui nascesse come artista, come autore, quindi conoscere la tradizione letteraria nel momento in cui comincia ad operare, essere consapevole degli autori contemporanei e soprattutto della grande letteratura italiana ed europea, ma anche degli autori che immediatamente lo hanno preceduto e sapere cosa stava succedendo negli anni ‘60 in campo letterario in Italia. Questi autori, Moravia, Morante, Bassani, Calvino, Sciascia e moltissimi altri, in massima parte avevano scelto di scrivere in un registro assolutamente comunicativo, razionalista o illuministico. Io mi sono sempre chiesto perché loro avevano scelto questo registro, questo stile illuministico o razionalistico e mi sono dato una risposta. Ho pensato che le persone che avevano vissuto l’esperienza del fascismo e della guerra, da Primo Levi a Nuto Revelli, a Rigoni Stern e a tantissimi altri che hanno scritto sulla guerra partigiana e sulla campagna di Russia e che hanno restituito la loro esperienza in forma referenziale e comunicativa, avevano scelto quel registro proprio perché speravano che con la fine del fascismo, con la fine della guerra si sarebbe potuta formare in Italia una società civile con la quale comunicare, per cui questi scrittori avevano adottato un registro di speranza, lo stesso registro di speranza che aveva teorizzato e che aveva voluto il padre sacramentale della narrativa italiana, Alessandro Manzoni. Manzoni scrivendo la seconda stesura dei Promessi Sposi, aveva adottato appunto il linguaggio toscano – ricordiamo la famosa frase “sciacquare i panni in Arno” – dopo aver scritto Fermo e Lucia con ancora dei dialettismi, dei localismi lombardi, perché sperava che con l’unità d’Italia gli italiani avrebbero potuto avere anche un’unità linguistica. È stata un’utopia molto generosa, però nonostante l’opera di Manzoni evidentemente questa unità linguistica non si è raggiunta. Per tornare a me, nato dopo le generazioni di scrittori che avevano nutrito questa speranza, nascendo come scrittore nel ’63 ho trovato i giochi politici già fatti. In Italia era avvenuto un profondo mutamento, una mutazione possiamo dire antropologica che nessun paese europeo aveva avuto. Era finito il millenario mondo contadino, c’erano stati spostamenti di massa, di braccianti meridionali verso il mondo industriale, c’era stato il processo di industrializzazione del Nord, un processo rapido che ha portato dei cambiamenti straordinari. Naturalmente il cosiddetto miracolo economico ha liberato il meridione dalla fatica contadina, ma nel contempo ha costretto i contadini a trasformarsi in operai, minatori, carpentieri. Miracolo economico è stato chiamato, (in un paese dove c’è il Papato tutto diventa miracolistico). C’è stata la fine del nostro mondo contadino e della cultura contadina alla quale è succeduta la cultura industriale. Intellettuali come Vittorini e Calvino da una rivista che si chiamava «Il Menabò» invitavano i giovani autori a lasciare i vecchi mestieri, i mestieri liberali dell’insegnamento o dell’avvocatura e di inurbarsi per cercare di spiegare da vicino, nei centri come Milano, o Torino, soprattutto Torino, dove c’era la Fiat, il mondo industriale. Studiare il fenomeno dell’Olivetti dove molti scrittori e poeti sono entrati, come Franco Fortini, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri e studiare proprio dentro l’industria, quella che Vittorini chiamò l’industria a misura d’uomo, le strutture per una condizione sociale dignitosa per gli stessi operai. Dicevo che questo nostro paese è cambiato profondamente anche nella lingua, nel senso che la vecchia lingua italiana, quella unica ipotizzata da Manzoni che era stata ripercorsa dagli scrittori della generazione che mi aveva preceduto, quella si era assolutamente trasformata. Pasolini nel 1964 aveva scritto un saggio intitolato Nuove questioni linguistiche dove aveva analizzato il cambiamento profondo della nostra lingua italiana perché col “miracolo economico” era avvenuto quel fenomeno nuovo della esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto della televisione. I due affluenti che avevano arricchito la nostra lingua, cioè la lingua popolare dal basso e la lingua colta dall’alto, si erano quasi prosciugati, si era formata una lingua media di comunicazione dove si perdevano le radici memoriali della lingua stessa. Sul problema della lingua italiana, oltre Pasolini, andando indietro nel tempo ci sono stati molti scrittori che ne hanno scritto. Ma ci sono stati anche scrittori che non avevano sentito il bisogno di riflettere su questo strumento che erano obbligati a usare. Non credo che ci siano stati nella storia della pittura pittori che abbiano sentito il bisogno di analizzare i colori che dovevano usare, io credo che solo in letteratura questo sia avvenuto, cioè che gli scrit- tori abbiano sentito il bisogno di riflettere sulla lingua che di volta in volta devono usare. La riflessione sulla lingua parte da Dante che sente il bisogno di scrivere un saggio, il De vulgari eloquentia, che è il primo saggio di linguistica italiana e di poetica personale, dove Dante parla di una lingua di primo grado, che è la lingua che noi parliamo da bambini quando noi sentiamo i primi suoni e della lingua grammaticale, cioè della lingua colta. Dopo Dante ci sono stati tantissimi altri scrittori che si sono occupati del problema della lingua, ma quello che l’ha analizzata profondamente è stato Leopardi. Nello Zibaldone scrive un saggio di linguistica in cui studia il rapporto tra società e letteratura, e fa un continuo confronto tra la lingua italiana e la lingua francese. Leopardi sostiene che la lingua francese è una lingua geometrizzata, cioè racchiusa in una serie di regole già dal tempo di Luigi XIV, e quindi lamentava la perdita di infinito che questa lingua aveva prima dell’avvento di Luigi XIV. Con questo sovrano in Francia si era formata una società, ancora prima della rivoluzione, e quindi si aveva bisogno di uno strumento linguistico che fosse estremamente comunicativo. Leopardi invece esalta la ricchezza e la profondità della lingua italiana e naturalmente dice che l’unico momento di unità linguistica nel nostro paese, parliamo di lingua letteraria, non di lingua strumentale, è stato quello del Rinascimento toscano. Il momento in cui tutti gli scrittori da tutte le periferie italiane, sia dai conventi sia dalle accademie si attenevano e usavano la lingua ideale, cioè il toscano. Con la Controriforma l’unità linguistica si disgrega e si comincia di nuovo a ritornare a quelle che erano le espressioni localistiche dialettali: quindi c’è una grande fioritura soprattutto in poesia, poesia dialettale con i grandi nomi di Belli, di Porta o di un narratore napoletano il Basile, autore de Lo cunto de li’ cunti. Si possono fare tantissimi altri nomi. Comunque in Italia non c’era mai stata fino ai nostri anni ’60 una lingua unica che poteva chiamarsi lingua nazionale e Pasolini alla fine del suo saggio Nuove questioni linguistiche porta come esempio di questa nuova lingua italiana, di questa lingua ormai tecnologizzata, assolutamente rigida e orizzontale, un brano del discorso di Aldo Moro nel momento significativo della inaugurazione dell’autostrada del sole. E riporta questo brano in un italiano che sino a quel momento non era stato scritto, infarcito di tecnologismi, quasi impenetrabile, in un registro linguistico pseudo afasico, che non raggiunge il suo referente, cioè l’oggetto della parola. E Pasolini conclude con ironia e amarezza «Che finalmente è nata la lingua italiana come lingua nazionale». Era una lingua nazionale assolutamente impoverita ed è quella che ascoltiamo alla televisione, che non è solo una lingua di comunicazione quotidiana, non è una lingua che sentiamo soltanto nei media, ma è una lingua che viene anche praticata nella scrittura letteraria. Dopo questa lunga riflessione voglio tornare a dire di me. Quando appunto ho cominciato a scrivere ho pensato che non avrei mai potuto scegliere quella lingua comunicativa, lingua assolutamente impraticabile in letteratura e quindi la scelta consapevole e in qualche modo anche istintiva è stata di scegliere un registro altro, diverso, che non fosse la lingua coniata dal potere. Ho scelto un contro codice linguistico che fosse appunto di difesa della memoria linguistica del nostro paese. E quindi il registro che si chiama sperimentale, espressivo; questa scelta mi metteva fatalmente in una linea che era sempre esistita (accanto alla linea razionalistica illuministica), che partiva da Verga, perché il primo che aveva rovesciato l’assunto della lingua ideale del Manzoni era stato Verga che aveva scritto in una lingua fino a quel momento mai scritta. L’italiano che Pasolini definisce irradiato di dialettalità era l’italiano con cui Verga faceva parlare i pescatori di Aci Trezza e i contadini di Vizzini, che non era l’italiano centrale toscano, ma che esprimeva il modo di essere, di sentire, di pensare delle classi non borghesi, delle classi popolari, delle classi umili, quindi il periodare, l’esprimersi per proverbi dei personaggi dei Malavoglia. Ma da Verga in poi naturalmente c’era tutto un filone di scrittori espressivi sperimentali che passava attraverso il grande Gadda, che appunto aveva orchestrato nel modo più vasto e polifonico tutti i dialetti italiani per dare proprio un’ immagine di quella che era l’Italia prima del miracolo economico, prima del processo di industrializzazione, specialmente nel libro Il pasticciaccio brutto di Via Merulana. Nel filone gaddiano si erano mossi poi tanti altri scrittori sperimentali da Lucio Mastronardi a D’Arrigo a Meneghello fino a Pasolini. Pasolini era uno scrittore sperimentale che era partito da un’esperienza dialettale, quella della poesia friulana scritta, in questa lingua-dialetto, e poi arrivando a Roma scrive i romanzi, ma non la poesia, nel romanesco del sottoproletariato romano. Anch’io mi colloco subito in questo filone. Scrivo in un mistilinguismo o quello che Cesare Segre ha definito plurivocità, per una difesa della memoria, perché la letteratura è memoria, memoria linguistica nel cercare di non far seppellire e cancellare tutti i giacimenti linguistici della terra dove mi ero trovato a nascere e a vivere e a capire i suoni, perché la Sicilia che citava il professor Caruso, che ci accomuna, è una terra dove sono passate tutte le civiltà, dagli antichi fenici, ai greci, ai romani, agli arabi. È inutile fare della retorica sulla Sicilia in un luogo come Perugia, in questa Umbria e Toscana, luoghi di grande civiltà. Gli antichi hanno lasciato i monumenti, templi greci, chiese arabo-normanne, ma anche giacimenti linguistici molto preziosi. Io ho fatto un lavoro da archeologo, ho cercato di disseppellire parole che provenivano da queste lingue ormai dimenticate, che erano di volta in volta il greco, l’arabo, il latino, lo spagnolo, il francese, immettendo, innestando nel codice linguistico italiano vocaboli che avessero un loro significato, molto più vasto che il termine italiano poteva darmi, ma anche che avesse una sua valenza di significante, cioè di sonorità, che si potesse incastrare nella frase,
nel discorso per creare un’armonia sonora, che si svolge nel tempo, come dicevo poco fa. La mia scrittura, per la mia ricerca, è contras segnata da questa organizzazione della frase in prosa che ha un suo metro, un suo ritmo che l’accosta un po’ al ritmo della poesia. Ho diffidenza verso la comunicazione, verso la comunicazione che ha in sé la narrazione. La scrittura in prosa è una scrittura ibrida perché la letteratura è nata in forma poetica: i grandi narratori dell’antica Grecia erano poeti orali. I poemi omerici prima erano poemi orali e poi con i grammatici alessandrini sono stati portati sulla carta. Anche la Bibbia era un racconto orale. L’oralità comportava l’organizzazione della frase sia per un fatto mnemonico e sia per un fatto di seduzione degli ascoltatori e le frasi avevano una loro componente ritmica e poetica. In questa epoca, in questa nostra civiltà di massa penso che l’elemento comunicativo che in sé fatalmente ha la scrittura in prosa debba essere sempre più ridotto, che il registro della scrittura debba spostarsi verso la parte ritmica, verso la parte espressiva. Uno scrittore sud americano dice che la scrittura in prosa ha una parte logica e una parte magica, la parte magica è la parte espressivo poetica; parliamo di forma, non di sostanza poetica. Mi sono perso in molti rivoli. Voglio tornare alle citazioni, e alle ispirazioni della pittura nei miei libri. Parlo del mio secondo libro Il sorriso dell’ignoto marinaio dove l’elemento ispiratore è il ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Racconto un aneddoto per quanto riguarda questo titolo. Avevo scritto i primi capitoli di questo mio romanzo a metà degli anni ‘70, nel ’73-’74. Per l’ispirazione pittorica che aveva il libro avevo man dato i primi due capitoli alla signora Banti la direttrice della rivista «Paragone», e il cui marito era Roberto Longhi, che dirigeva anche lui la rivista, in parte di critica letteraria e in parte di critica d’arte. Mi sembrava quindi la sede più giusta per avere un riscontro su questi due primi capitoli. Non ho avuto risposta dalla rivista. Un giorno Roberto Longhi è venuto a Milano per presentare la ristampa del suo libro Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Sono andato alla presentazione e alla fine gli ho detto con molta timidezza: «Professore le ho mandato due capitoli del mio romanzo. Mi chiamo Consolo. Non ho avuto risposta». Longhi mi ha guardato severamente e mi ha risposto: «Sì, mi ricordo perfettamente, mi ricordo dei bei racconti, mi ricordo il suo nome. Non voglio assolutamente entrare nel merito letterario dei racconti, però questa storia dell’ignoto marinaio deve finire». Sapevo quello che lui aveva scritto nei suoi saggi su Antonello da Messina. Longhi diceva che popolarmente era detto L’ignoto marinaio il ritratto che si conserva al museo Mandralisca di Cefalù, ma Longhi sosteneva che Antonello non era un pittore che faceva quadri di genere, era un pittore molto affermato e che si faceva pagare profumatamente, e quello era un ritratto di un signore, di un proprietario terriero, di un barone, ecc. Io sapevo bene quello che il critico d’arte aveva scritto, ma a me serviva la dizione popolare, la vulgata dell’ignoto marinaio, perché volevo svolgere il tema proprio in questo senso. Naturalmente avevo molta dimestichezza con questo quadro: mi aveva molto incuriosito perché il ritratto dell’uomo aveva un’espressione a me familiare che riscontravo in molti visi di persone che mi stavano intorno, insieme familiare e sfuggente. Ma quando pensai di rimettere insieme vari elementi per scrivere questo romanzo, da una parte il ritratto che avrebbe fatto da filo conduttore, poi la scoperta dei cavatori di pomice delle isole Eolie che si ammalavano di silicosi, e le rivolte popolari del 1860, il personaggio storico di Mandralisca, il protagonista Giovanni Interdonato, erano tutti elementi che mi hanno portato a unire i fatti storici secondo la lezione manzoniana: attingere alla storia e inventare altri personaggi che avessero i colori del tempo. Devo aggiungere che in questo libro ho mancato un’occasione, che sarebbe stata straordinaria, dell’incontro, che ho scoperto dopo la pubblicazione del libro, del barone Mandralisca con il Cavalcaselle. Il Cavalcaselle era anche lui un rivoluzionario risorgimentale che per ragioni politiche era stato costretto a rifugiarsi in Inghilterra. Lo straordinario critico d’arte clandestinamente proprio negli anni delle rivolte era andato a Cefalù alla ricerca delle opere di Antonello da Messina. A Cefalù si era incontrato con il barone Mandralisca e aveva steso uno schizzo di questo ritratto dipinto da Antonello. Volevo leggere il brano in cui racconto del quadro portato dall’isola di Lipari nella casa di Cefalù del barone Mandralisca e di quando viene presentato agli amici. Il barone oltre ad essere uno scienziato e uno studioso di malacologia, cioè studiava lumache, era anche un collezionista di opere d’arte, ma la gemma del suo privato museo era il ritratto di Antonello da Messina.

Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal basso e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso interrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.
2



Ecco qui la descrizione dove lo scrittore diventò un po’ critico d’arte, ma naturalmente questo mi serviva per fare della metafora. Il libro che è ispirato a un genere pittorico che si chiama retablo è appunto Retablo, dove la struttura del libro è come fosse un polittico. C’è un primo pannello, un pannello centrale e poi un altro pannello. In tutti e tre i pannelli si racconta la storia. Retablo è un termine catalano che viene dal latino retro tabulo. Nel retablo non c’è più la fissità, ma un’azione che si svolge pittoricamente.2 Il Sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 143-144. Questo libro nasce da un’occasione: era venuto in Sicilia il pittore Fabrizio Clerici, testimone in un matrimonio a Palermo dove anch’ io ero testimone. Dopo questo matrimonio avevamo fatto un viaggio nella Sicilia classica, il famoso tour che facevano i viaggiatori stranieri da Goethe a Brydone a un’infinità di altri viaggiatori che partendo da Napoli, arrivando a Palermo facevano poi il giro della Sicilia da Segesta a Mozia a Selinunte ad Agrigento a Siracusa e spesso facevano l’ascensione sull’Etna e poi s’imbarcavano a Messina per fare il viaggio di ritorno. Durante questa escursione nei luoghi classici della Sicilia occidentale vedevo Fabrizio Clerici che prendeva degli appunti, faceva dei disegni. Clerici era un pittore surreale, metafisico, era già diventato un personaggio di un romanzo di Alberto Savinio nel libro Ascolto il tuo cuore, città. Di lui Savinio diceva che era un personaggio stendhaliano e che si chiamava appunto Fabrizio come Fabrizio del Dongo, poi addirittura che potevano essere parenti perché lui si chiamava De Chirico e il pittore Clerici, quindi tutti e due avevano una matrice clericale. Da questo pittore straordinario, intelligente e raffinato mi è venuta l’idea di trasferire nel ’700 il mio Fabrizio Clerici e il trasferimento significava che volevo scrivere un libro che non avesse una matrice storica, ma che fosse una fantasia, fosse un viaggio in una Sicilia ideale. Un pittore del ‘700,
Fabrizio Clerici, lascia la Milano illuministica di Beccaria e dei Verri, innamorato e non corrisposto di una fanciulla, Teresa Blasco, che sposerà poi Cesare Beccaria l’autore Dei delitti e delle pene. Da questa unione nasce Giulia Beccaria, che sarà la madre di Alessandro Manzoni. Faccio muovere Fabrizio Clerici dalla Milano illuminista per andare in Sicilia, non solo perché il suo è un amore infelice e quindi compie un viaggio alla ricerca delle tracce della bellezza della donna di cui è innamorato, ma per fare un omaggio alla letteratura. Negli anni in cui scrivevo il libro, a Milano c’era un’accensione politica molto forte, non c’era spazio per la dimensione umana, per i sentimenti. Io rivendicavo il primato della letteratura attraverso questo libro, passando dall’illuminismo al romanticismo manzoniano attraverso Teresa Blasco e il pittore Fabrizio Clerici. Clerici arriva nei luoghi classici con i suoi metri, come faceva Goethe, arriva in Sicilia pensandola come una sorta di eterna arcadia dove vi erano soltanto monumenti greci, i templi di Segesta e di Selinunte, di Agrigento. I viaggiatori avevano l’idea romantica di trovare i satiri e le ninfe. Senonché viaggiando per le zone della Sicilia occidentale Fabrizio Clerici insieme al suo accompagnatore siciliano, frate Isidoro, che aveva gettato il saio alle ortiche proprio perché sconvolto da una passione d’amore per una fanciulla, Rosalia, si accorge che la Sicilia non era soltanto arcadia. L’arcadia non c’era più. La Sicilia era una terra di forti contraddizioni, di grande miseria, di afflizione, di sopraffazione, di violenza. Clerici incontra banditi, corsari saraceni, ma scopre una dimensione che lui non sospettava, incontra persone dai sentimenti profondi e di grande umanità. Attraverso l’immagine pittorica del retablo ho voluto scrivere una rivendicazione del primato della letteratura nei confronti della politica, ho voluto descrivere la complessità dell’uomo, i suoi sentimenti, le sue passioni. Nel libro c’è l’ironizzazione di certa pittura imbrogliona, prendendo spunto dall’opera teatrale di Cervantes che si chiama appunto El Retablo de las meravillas. In Spagna la parola retablo è un termine che indica sia un’opera pittorica, sia un’opera teatrale. Nel Don Chisciotte c’è il “retablo del maestro don Pedro”, che è un teatrino di marionette portato in giro per la Mancha da don Pedro e che don Chisciotte nella sua follia distrugge. Cervantes mette in ridicolo il
conflitto di allora tra cristiani vecchi e cristiani nuovi, tra spagnoli ed ebrei, e mori convertiti. Questo intermezzo, o atto unico teatrale, lo riprendo nel mio libro Retablo, dove il conflitto questa volta è tra persone ingenue, oneste e fedeli alla chiesa e disonesti, infedeli o traditori:

Irreali come il retablo delle meraviglie che lo scoltor d’effimeri Crisèmalo e il poeta vernacolo Chinigò facean vedere sopra un palco. Un trittico a rilievo basso di cartapesta o stucco coperto d’una polvere dorata (terribilmente baluginava al sole come l’occhio adirato del padre Giove o quello pietrificante di Gorgonia), privo di significato e di figure vere, ma con increspature, rialzi e avvallamenti, spuntoni e buchi, e tutto nell’apparenza d’una arcaica scrittura, di civiltà estinta per tremuoto, diluvio o eruzione di vulcano, e sotto le ruine, in fondo all’acque o nella lava ardente si perse la chiave di sua lettura.

Vide chi pote e vole e sape
dentro il retablo de le maraviglie
magia del grande artefice Crisèmalo,
vide le più maravigliose maraviglie:
vide lontani mondi sconosciuti,
cittate d’oro, giardini di delizie,
[…].
Vide solamente il bravo cristiano,
l’omo che fu tradito mai dalla sua sposa,
la donna onesta che mai tradì il suo sposo…3
3 Retablo, pp. 395-396.

Nella mia scrittura, nello spostamento della prosa comunicativa verso la prosa espressiva ci sono dei momenti di arresto della narrazione, ci sono delle digressioni che io chiamo cantica, come fosse una parte corale, quella dei cori greci. La mia idea oggi di letteratura, di scrittura in prosa, è di una
scrittura dove, come nella tragedia greca non appare sulla scena il messaggero o l’anghelos, cioè il personaggio che comunicava con il pubblico che sedeva nella cavea, che raccontava di un fatto avvenuto prima, in un altro luogo, e da quel momento, dopo questa comunicazione, con un linguaggio assolutamente comunicativo, poteva incominciare la rappresentazione della tragedia, potevano agire i personaggi e intervenire il coro. Credo che oggi in questa nostra civiltà di massa il Messaggero, cioè lo scrittore che comunica con il lettore non può più apparire sulla scena e quindi la scrittura si riduce alla parte corale, alla parte poetica in cui si commenta, si lamenta la tragedia… Diciamo è una rappresentazione priva di catarsi. Ora vi leggo un brano di un altro mio romanzo Nottetempo casa per casa dove con la memoria descrivo un luogo sotterraneo nel quale
sono stati scoperti affreschi romani. Questo brano mi è stato ispirato da una mostra che ha fatto Ruggero Savinio anni fa. Le figure di Ruggero Savinio mi apparivano come venute fuori da una profondità, da un ipogeo, come nelle scoperte di scavi archeologici, e quindi nel racconto del romanzo ci sono interruzioni per raccontare un viaggio dentro un mondo antico:

Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati
(dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura
d’ogni altro, dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete, al
confine bevemmo il nostro lete).
Ora in questa luce nuova – privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie, sfondo infinito, abissitade –, in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte dove s’abbevera il passero, la quaglia, l’antica età se polta,
immemorabile.
In questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichio
di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto ? È
possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. Viene e sovrasta un Nunzio lampante, una lama, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quale paradiso? O risale prepotente da quale abisso? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai portenti, si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro. Da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bru ni, da strati sopra strati, chiazze, da scialbature lievi, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve, lo Scriba affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte o come il libro poggiato sui ginocch
i. Venne poi il crepuscolo, la sera. Una sera azzurra e bruna, vermiglia e gialla. Con un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci. È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia…(la luna suscita muffe fiori di salnitro…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita. Oltre sono i foschi cieli e le chiome degli alberi impietrati, gli scuri ingressi degli antri delle vuote dimore, del volo di vespertili, verso della civetta.
Oltre sono le Rovine. Che non consumi tu Tempo vorace. 4 Che non consumi tu…Che non consu…”5

È la poesia delle rovine, delle vestigia del nostro passato che ci
commuovono ogni volta che le vediamo.

Prof. Caruso. Volevo ringraziare. È qualcosa di più di una conferenza, è anche una confessione stupenda e soprattutto hai dato una prova di come la pittura e la letteratura siano strettamente connesse, fraterne e vicine. Poi hai parlato delle rovine che ci commuovono tanto: ci commuovono perché sono il nostro passato, i nostri ricordi. 4
«Riprende una frase che “i paesaggisti del Cinque-Seicento scrivevano
dietro i paesaggi con rovine” (Villa, p. 177)». Così nel dattiloscritto. D.
O’Connell da parte sua commenta questa frase come segue: « A detta dello
scrittore questa frase è ripresa dagli incisori dell’Ottocento che la lasciavano scritta sopra le rovine riprodotte. Ma ci sembra di sentire qui anche un’eco del latino, in particolare da Ovidio (Metamorphoses XV, 234-236): Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, / Omnia destruitis vitiataque dentibus aevi / Paulatim lenta consumitis omnia morte! (Id., Consolo narratore e scrittore palincestuoso, cit., p. 173). 5 Nottetempo, casa per casa, pp. 686-687.

Hai anche detto che i pittori non analizzano i loro strumenti. Non è assolutamente vero. Purtroppo i vari strumenti linguistici dell’arte figurativa, dell’arte visiva vengono fin troppo analizzati. Questa è una puntualizzazione. Poi io direi a proposito del tuo ritmo di scrittura e anche di come tu parlavi delle origini della letteratura che la grande matrice di tutte le arti è la musica; anche le prime parole nascono da un ritmo musicale. Il ritmo musicale in qualche modo ci guida in qualsiasi attività artistica, perché se non c’è ritmo non c’è scansione e non c’è parola, né pagine, né spazio. Hai parlato in modo da provocare una quantità di associazioni. Ti ringrazio. Consolo. Mi scuso per l’errore che ho fatto, data la mia ignoranza pensavo che i pittori trovassero i colori a portata di mano, che andassero in un colorificio e in modo rapido comprassero i loro colori. Sono stati tanti i pittori che mi hanno ispirato. Però mi hanno ispirato anche molti libri o pagine di libri, ma c’è un pittore che più degli altri mi ha impressionato e che compare nel Sorriso dell’ignoto marinaio, è Goya. Goya dei Disastri della guerra, Nel mio libro c’è la descrizione di una strage che hanno fatto i rivoltosi popolani di un paesino dove appunto mi servo delle didascalie delle incisioni di Goya per scandire la tragedia. E insieme c’è anche la malinconia del Dürer. Ho parlato di un altro pittore, Caravaggio, ne L’olivo e l’olivastro, che non è un libro di invenzione narrativa, è un viaggio nella realtà siciliana, dove sono inseriti frammenti narrativi, tra cui la sosta di Caravaggio a Siracusa dopo la fuga da Malta, e la commissione che gli viene data dal senato di Siracusa tramite un erudito locale, Mirabella, del quadro del seppellimento di S. Lucia. Volevo leggere il brano dove descrivo il quadro:

Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente, avanti a donne in lacrime, uomini dolenti, stretti, schiacciati contro la parete alta della latomia, avanti alla corazza bruna del soldato, la mitria biancastra, aperta a becco di cornacchia, del vescovo assolvente, dietro le quinte dei corpi vigorosi e ottusi dei necrofori, cordari delle cave o facchini del porto, che scavano la fossa. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. Nel sentimento della morte che ormai l’ha invaso e lo possiede, Michelangelo è oltre la violenza, l’assassinio, è alla resa, alla remissione, al ritorno ineluttabile, al cammino verso la notte immota. 6

Il vescovo di Siracusa, dicono i documenti, non ha trovato questo quadro di suo gradimento e glielo ha fatto correggere; sempre secondo i documenti, la testa di Santa Lucia era staccata dal corpo, la santa era stata decapitata, e il vescovo gli ha fatto congiungere la testa con il corpo, lasciando una piccola ferita nel collo. Nel quadro oggi si vede soltanto questo piccolo squarcio. Dicevo che c’è il passaggio, da questa lama di luce che c’è nella pittura caravaggesca che squarcia le tenebre controriformistiche, alla forma necrofila di arte del ceroplasta siracusano Gaetano Zumbo, il quale componeva dei teatrini rappresentanti la morte e la corruzione del corpo umano. Il cereo corpo di Lucia si decompone insomma negli ipogei della
morte, negli avelli, nelle catacombe dei liquami; nella ferita del collo
bianco s’è insinuato il bacillo della peste che cova e germina nelle
volute, nei ghirigori del barocco».

6 L’olivo e l’olivastro, pp. 828-829.

Il testo di questa Conferenza, tenuta all’Accademia di Belle Arti di Perugia il 23 maggio 2003, mi era stato affidato alcuni anni orsono da Caterina Pilenga, vedova dello scrittore, come un prezioso inedito che io ho gelosamente custodito. In calce al testo dattiloscritto, sotto la firma di Vincenzo Consolo, si legge la data: Milano, 19.3.2004, verosimilmente apposta da chi ha dattilografato il manoscritto, forse la stessa Caterina


‘Il dovere del racconto’

La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo

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La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo, le cime imbandierate delle impalcature della Galleria, la cella campanaria di S. Ambrogio, la cupola di S. Maria delle Grazie, la sestiga sopra l’Arco della Pace; s’addensava tra gli ippocastani ed i tigli del Parco, e dai Giardini, scivolava le acque dei Navigli. Era una giornata di novembre del 1872, una di quelle giornate milanesi d’autunno in cui chi approda in città per la prima volta, chi approda dal Sud rimane meravigliato – guardando in alto – che il sole velato e docile possa essere fissato ad occhio nudo al pari di una rossastra luna notturna.

In quella giornata di novembre arrivava a Milano un Siciliano di nome Giovanni Verga. Aveva abbandonato da parecchio gli studi di giurisprudenza e aveva deciso, aiutato dalla madre Caterina Di Mauro, di trasferirsi in Continente per dedicarsi alla letteratura.
Certo, non è che la sua esclusiva professione di letterato, di scrittore, per uno che usciva da una famiglia borghese o di piccola nobiltà appena benestante, non fosse avventurosa; ma crediamo che la famiglia Verga avesse approvato la decisione del figlio perché c’era stato il precedente di Domenico Castorina, loro cugino, poeta e romanziere, mandato in altitalia a spese del comune di Catania per completare e pubblicare un poema in versi. C’era forse anche la suggestione del locale mito artistico per eccellenza, del “cigno di Catania” Vincenzo Bellini, che in Continente aveva raggiunto fama e gloria; e poi Giovanni, precoce come Bellini, aveva dato già buona prova del suo talento e della sua passione letteraria: aveva scritto a 15 anni il suo primo romanzo “Amore e Patria”, a 20 “ I carbonari della montagna”, a 23 “Sulla laguna”.
Milano non era la prima tappa a nord di Verga; c’era stato già un soggiorno di sei anni a Firenze dove si era trasferito nel 1865; Firenze, nuova capitale politica del Regno e vecchia capitale letteraria e linguistica d’Italia. In questa Firenze splendida e suggestiva per un giovane provinciale ambizioso e determinato, Verga abbandona i temi storici e patriottici dei primi romanzi per avventurarsi in quelli amorosi, passionali e mondani. A Firenze, sono ora infatti ambientate “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”. Ma subito, come punto dalla nostalgia, abbandonati i salotti, i concerti, le passeggiate in carrozza alle cascine, ritorna in Sicilia, a Vizzini, alla sua viva memoria di adolescente, al ricordo di una fanciulla timida, triste, malaticcia, chiusa in un convento come una capinera in gabbia, con il romanzo che gli darà la notorietà e gli farà da biglietto da visita per il suo ingresso nel mondo e nella mondanità milanese. La “Storia di una capinera” e l’esotismo del suo autore, giovane meridionale sottile ed elegante, olivastro e pallido, capelluto e baffuto, dall’occhio color della lava, romantico e fatale insomma, fanno subito di Verga un personaggio di spicco nei salotti: nel salotto della contessa Maffei, della Castiglione, Cima, Ravizza, Gargano. “La prima volta che lo vidi fu a causa della Maffei, una domenica sera, e le due salette erano piene di signore, tra cui sei o sette giovani e belle, e queste lo circondavano in tal modo che io non potei appressarmi a lui”; questo scrive Roberto Sacchetti. Il successo dello scrittore Siciliano con le donne scatenerà la gelosia feroce –oltre che a un certo razzismo- di Carducci, il quale temeva che anche la sua amante Lidia fosse caduta vittima del fascino del “bel tenebroso”: un uomo che mette una brutta corona baronale sulla sua carta da visita, che si lascia dare falsamente del cavaliere, e che scrive un romanzo epistolare, e con tutto questo è anche Siciliano, non può che essere altro che un vigliacco, ridicolo, “parvènu”. Ma contrariamente a quanto possa far credere quest’ira schiumosa del vate d’ Italia, e anche senza sposare la tesi di una misoginia verghiana sostenuta da Carlo Matrignani nell’introduzione a Giovanni Verga dei “Drammi intimi” di Sellerio, ora Verga non è un personaggio brancatiano, non è un “Paolo il caldo” che dissipa il suo tempo e il suo talento passando ossessivamente da una aventura amorosa ad un’altra, è un metodico e intransigente lavoratore che concede ai riti mondani solo le poche ore di libertà. Dalla sua prima dimora in piazza della Scala, e di qui alle sue successive dimore in via Principe Umberto e Corso Venezia, muoveva per andare al “Cova”, al “Biffi”, alla “Scala” per passare la serata in uno dei salotti alla moda, per fare le sue passeggiate per le vie del centro. Di una eleganza un po’ troppo puntigliosa nel suo “tight”, nella sua marsina, forse eccessivamente inamidata nella forma, non frequentava certo l’osteria del “Polpetta” di via Vivaio, il ritrovo degli “Scapigliati”, anche se con alcuni di questi aveva stretto rapporti di amicizia. Ma, come sempre capita agli immigrati, sono i conterranei che più frequenta il Verga: quella piccola colonia di Siciliani formata da Onofrio, Farina, Auteri, Navarro della Miraglia, Scontrino, Avellone, a cui si aggiungerà poi Capuana, che il Verga con incessanti lettere aveva convinto a trasferirsi a Milano: “Tu hai bisogno di vivere alla grand’aria come me, e per noialtri infermi di nervi e di mente la grand’aria è la vita di una grande città, le continue emozioni, il movimento, la lotta con noi e con gli altri, se vuoi, pur così…; tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo, appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti; costà tu ti atrofizzi” così scrive nel ’ 74 Verga al suo più caro amico e confratello. Scrive così il Verga che certo vuole strappare dalla provincia il Capuana, sottrarlo alle divagazioni e dissipazioni che gli impegni politici e privati imponevano allo scrittore di Mineo; ma crediamo che, dopo due anni di soggiorno milanese, sente come il bisogno – di fronte a quella realtà, nell’affrontare quella vita che vertiginosamente cambiava sotto i suoi occhi – di un compagno di strada, di un amico fidato, con cui discutere per potere capire. “Si Milano è proprio bella, amico mio, e qualche volta c’è proprio bisogno d’una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni e restare al lavoro”, aveva scritto al Capuana. Ma era soltanto della Milano quando Verga vi giunse nel ‘ 72?
Nel ’ 72 Milano contava 250.000 abitanti; era una città in pieno fermento industriale ed edilizio. Gli opifici della seta e dei latticini, della pasta, della gomma e di altri prodotti ammodernavano i propri impianti. La ditta Pirelli & C, fondata dal ventiquattrenne ingenier Giovanni Battista Pirelli, inaugurava la sua fabbrica per la produzione di oggetti in gomma plastica e guttaperca. Dalla nuova Stazione Centrale partivano le linee per il Veneto, il Piemonte, la Toscana, la Liguria, l’Emilia, il Lazio e giù fino alle Marche. La città in fermento aveva anche bisogno di ristrutturarsi e di espandersi: si sistema poi la piazza del Duomo; erano già stati iniziati i lavori per la Galleria la cui esecuzione, affidata ad una società inglese, era diretta dall’architetto Mengoni che in bombetta e spolverino si faceva fotografare sulle impalcature. Da quelle impalcature il povero Mengoni poi, accidentalmente precipiterà trovando la morte. Il duca Melza d’Eril offre al comune una vasta area per nuovi palazzi fuori Porta Nuova. A Porta Ticinese sorge una nuova stazione sussidiaria, e sorgono anche case operaie in via Solforino e Montebello. Il 4 settembre 1872 veniva inaugurato in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci. Nello stesso anno era stato aperto al pubblico il Teatro “Dal Verme”, quel teatro “Dal Verme” dove si darà poi la “prima” della Cavalleria rusticana. Sempre nel ‘ 72 si organizzano a Roma e Torino congressi di sezioni e federazioni operaie aderenti all’Internazionale dei Lavoratori.
Cominciavano tra il ‘ 75 e il ‘ 76 le inchieste in Sicilia promosse dal Parlamento e condotte da studiosi come Fianchetti e Sonnino, da giovani colti e disinteressati, come dice Capuana nel saggio “La Sicilia e il brigantaggio”. Dalla Sicilia arrivavano dalle delegazioni dei prefetti le notizie più preoccupanti sulla mafia, sulle condizioni dei contadini e degli zolfatari; dell’inchiesta Fianchetti e Sonnino, quello che aveva colpito di più la opinione pubblica era stato il capitolo supplementare dal titolo “Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare Siciliane”; si alzava per la prima volta il velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta, e l’Italia ne rimaneva inorridita. Anticipando quì in tanto un nostro assunto – di cui diremo più avanti – se “Nedda” del ‘ 75 può essere stata scritta dal Verga sulla spinta di un bisogno di un ritorno sentimentale in Sicilia, in una Sicilia contadina sepolta nella memoria, vista e conosciuta nella sua verità negli anni dell’adolescenza, possiamo ipotizzare che “Jeli il pastore” e “Rosso malpelo”e “Vita dei campi” dell’ 80 siano stati dettati dalla presa di coscienza di un’altra Sicilia, attraverso lo specchio delle sopradette inchieste? Presa coscienza dell’assoluta naturalità dell’intatto mondo ultraliminare, presociale del tredicenne guardiano di cavalli di Tepidi e di Jeli, della disumana, terrifica, quasi onirica, quasi metafisica condizione cunicolare, labirintica del capomonte Malpelo; l’una e l’altra tanto simili alle condizioni dei contadini e dei “carusi” delle zolfare di Franchetti e Sonnino.
Ma andiamo con ordine; ritorniamo a Milano, ritorniamo alla profonda trasformazione, al fermento di innovazione in campo industriale, sociale, urbanistico di cui la società è preda a partire dal 1872, innovazione e trasformazione che trova il suo culmine e la sua massima espressione nell’Esposizione Nazionale dell’ 81. Quell’anno Verga abita in Corso Venezia, all’angolo dei Bastioni di Porta Manforte, e l’Esposizione si svolge vicino a casa sua da via Senato ai Bastioni di Porta Venezia, occupando il boschetto e i Giardini. Molti letterati che credono nel progresso inneggiano all’Esposizione: Boito tiene una conferenza nel padiglione delle arti; alla Scala, durante i giorni dell’Esposizione si rappresenta il “Ballo Excelsior”, l’opera Romualdo Marengo su libretto di Luigi Manzotti. I temi dei vari quadri del balletto sono: l’Oscurantismo, la Luce, il Primo battello a vapore, i Prodigi dell’invenzione, il Genio dell’elettricismo, e via di queste immagini; il balletto si conclude con l’inno alla Scienza al Progresso, alla Fratellanza, all’Amore. Scrive Manzotti nella prefazione al libretto: ”Vidi il monumento innalzato a Torino in gloria del portentoso traforo del Cenisio, e immaginai la presente composizione coreografica, e la titanica lotta del progresso contro il regresso, che io presento a questo intelligente pubblico, e la grandezza della civiltà che vince, abbatte e distrugge per il bene dei popoli l’Antico potere dell’Oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia”: ce n’era abbastanza… E anche se il simbolismo retorico dell’ “Excelsior”, il suo ingenuo declamatorio ottimismo in un progresso al ritmo di mazurca non sono da paragonare alle “magnifiche sorti e progressive” del Mariani, o al “migliore dei mondi possibili” del Leibniz, avranno sicuramente suscitato nell’animo di Verga reazioni o sentimenti simili a quelli espressi nel leopardiano pessimismo cosmico della “Ginestra”, o nel volterriano scetticismo rappresentato con sprizzante ironia dal Candido. E non certo il solo, leggero Ballo Excelsior (ammesso che Verga l’abbia visto rappresentato alla Scala), ma tutto quanto avveniva sotto i suoi occhi, l’affacciarsi alla ribalta e prendere direzione e potere economico di una nuova intraprendente borghesia imprenditoriale, da una parte, dall’altra, un organizzarsi e prendere parola di una plebe che si fa popolo, si fa mondo del lavoro e che antagonisticamente reclama e difende i suoi diritti. Non a Firenze ma a Milano gli si rivela tutto questo, nella Milano industriosa e laboriosa, capitale della scienza e della tecnica, gli si rivelano due mondi in movimento, due realtà insieme complementari e in conflitto, che dai salotti nobiliari, dalle strade del lusso, dai luoghi conclamati dell’arte difficilmente si potevano scorgere; e neanche si intravedevano dalle crepuscolari patetiche portinerie, dai bastioni, dai viali, dalle gallerie, dai veglioni alla Scala, dalle osterie, da tutti i luoghi frequentati da dimesse e rassegnate sartine, commesse, doganieri, servette, soldati, ballerine, da tutte le persone che “non sbraitano, non stampano giornali, non si mettono in prima fila nelle dimostrazioni” (questo è un brano tratto da “Per le vie”, un racconto intitolato “Piazza della Scala” di Verga). A Milano si rivelano al Verga delle nuove storie, gli si rivela una nuova storia di cui non ha cognizione, memoria, linguaggio e di fronte alla quale si ritrae sbigottito, si ritrae da questo capitalismo inventivo e intraprendente per rifugiarsi nell’arcaico capitalismo terriero e feudale della sua Sicilia.
Nasce a questo punto nello scrittore il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia e riprendere contatto con la sua terra, alla quale egli ritornava con l’animo del figliol prodigo, come all’unico bene che ancora gli rimanesse intatto e solido dopo tanta dissipazione.
Ben vicino e tangibile, eppure indecifrabile e remoto come un miraggio, come l’ideale oggetto di una suprema e già disperata nostalgia” scrive Natalino Sapegno. Un mondo intatto e solido fuori dalla storia, e in contrasto, nel suo movimento circolarmente chiuso, con l’illusione del cammino progressivo della storia. Recupera quindi il suo mondo, Verga, memorialmente e soprattutto linguisticamente, con una lingua che appartiene al mondo narrato e anche al soggetto narrante, che poi significa – per la teoria dell’impersonalità di Verga – al mondo che si narra da sé. Una lingua che non è matericamente e naturalisticamente la sua lingua dialettale, ma un italiano irradiato di sentimento e di ideologia dialettale, una lingua periferica in conflitto con la lingua centrale: conflitto da cui nasce la poesia, come dici Luigi Russo. Non finiremo mai di ringraziare gli ingegneri e gli industriali milanesi che, con il loro attivismo ed il loro progressismo, ci hanno restituito uno scrittore della grandezza del Verga; gli stessi ingegneri e industriali, la stessa borghesia milanese, che in anni più recenti, ci darà uno scrittore come Carlo Emilio Gadda.
L’81, storica data dell’Esposizione Nazionale e della pubblicazione dei “Malavoglia”, non è l’anno della caduta di Verga da cavallo sulla via di Damasco, o sui viali del parco di Monza; la conversione naturalmente ha radici più profonde, comincia a serpeggiare da epoche remote, dal ’74 almeno, dall’anno di pubblicazione di “Nedda”, e ancora dal ’75, quando Verga pubblica sull’Illustrazione Universale di Emilio Treves, in quattro puntate, una strana novella, un racconto gotico, nero: “Storie del Castello di Trezza”; quel racconto è affatto giovanile, primitivo, è vecchio di già; “è un mio vecchio peccato di gioventù, quella novella” scriverà Verga al suo traduttore Edoardo Rod e aveva a quell’epoca 35 anni e una solida fama di scrittore; in quella brutta novella Verga si scopre a guardare giù da sopra gli spalti del Castello di Trezza, il mare ed il paese di Acitrezza; guarda attraverso Donna Violante, uno dei personaggi del racconto: “il mare era levigato e lucente, i pescatori sparsi per la riva o aggruppati davanti agli usci delle loro casupole chiacchieravano della pesca e del tonno e della salatura delle acciughe; lontano lontano, perduto fra la bruma distesa, si udiva a intervalli un canto monotono e orientale; e sorprese sé stesa, lei così in alto nella fama dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così in basso, ai piedi delle sue torri; poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto.” Siamo qui ad una vera propria epifania, ad un “introibo”, e qui forse bisognerebbe – dopo aver raffrontato questo Castello di Trezza con la torre di Sandycove sulla spiaggia all’apertura dell’Ulisse di Joyce, da cui parte l’Odissea linguistica di Stephen Dedalus: “introibo ad altare Dei” incomincia con sarcastica solennità il suo amico Mulligan-Cristostomo – soffermarsi sulla posizione così in alto da cui si guarda al mondo degli umili e scoprire che Verga, nonostante la scientificità e l’obiettività del suo punto di vista, nonostante l’impersonalità del risultato, non sfugge a quanto Natalino Sapegno dice dei veristi: “Il verista italiano rimane in sostanza il gentiluomo che si piega a contemplare con pietà sincera ma un tantino condiscendente la miseria materiale e morale in cui le plebi sembrano immerse senza speranza in un prossimo futuro”; sono insomma, i veristi italiani secondo Sapegno, tutti afflitti dal complesso del “signor Marchese con… asterischi” del XXVIII capitolo dei Promessi Sposi, l’erede di don Rodrigo che serve a tavola Renzo, Lucia, Agnese e la mercantessa, ma che non si abbassa a mangiare insieme a quella buona gente.
E’ un serpeggiare, quello della conversione, con “Nedda” e con “Storie del Castello di Trezza”, sotterraneo e subcoscenziale; ma dopo il suo sgorgare alla superficie con “Cavalleria Rusticana” e con “La Lupa”, ancora intrise nel loro impeto di pietre dialettali e di terriccio toscano, ecco che con “Fantasticheria” siamo alla piena coscienza, siamo come al manifesto della nuova poetica, alla dichiarazione d’intenti del suo futuro lavoro il quale raggiungerà da lì a poco le vette di “Jeli il pastore” e “Rosso Malpelo” e si dispiegherà nei due grandi poemi dei “Malavoglia” e di “Mastro don Gesualdo”
Con l’abbandono di Milano, col ritorno a Catania in quella sua casa di via S. Anna, tutto denunzia la volontà dello scrittore di rimanere chiuso nella prigione di una rigorosa solitudine. Risalendo dal limite estremo della spiaggia, dai faraglioni del mare di Acitrezza, su verso le chiuse e le masserie di Vizzini, fino alle soglie dei palazzi nobiliari di Palermo, ripercorrendo tutti i livelli linguistici a noi noti, da quelli dei pescatori e dei contadini a quelli dei proprietari terrieri Siciliani, Verga sarà incapace di andare oltre. Dalla frase musicale d’attacco del primo romanzo del ciclo dei vinti “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”, all’ultima tragica frase del Mastro don Gesualdo che si spezza in un crescendo come in un’opera di Wagner “tutto! Pigliatevi tutto! Lasciatemi stare! L’Alia, la Canziria! Lasciatemi stare!” Verga non sarà più capace di orchestrare, di modulare le frasi nei saloni del Palazzo palermitano del duca di Leira. Risentito e scontento, dissiperà così il suo tempo a Catania, tra la casa e il Circolo dell’Unione, la conduzione del giardino d’agrumi di Novaluccello, le beghe giudiziarie, la cura e l’amministrazione dei beni dei nipoti, la corrispondenza con Tina di Serdevolo e i periodici viaggi in Lombardia e in Svizzera; e si chiuderà man mano in sé stesso, in una solitudine e in un’accidia senza rimedio. Dice sempre di lavorare alacremente alla “Duchessa di Leira”, ma pubblica i due bozzetti teatrali “Caccia al Lupo” e “Caccia alla Volpe” e pubblica anche, forse sulla spinta delle rivolte socialiste del ’93 di contadini e zolfatari, in opposizione ad esse, “Dal tuo al mio”, un dramma teatrale che poi diventerà romanzo: il 2 settembre 1920 si rifiuterà di presenziare, al Teatro Massimo di Catania, ai festeggiamenti in suo onore per l’ottantesimo compleanno. Pirandello, in quella occasione, leggerà il suo celebre saggio sul grande scrittore catanese, e Verga l’indomani andrà a trovarlo in albergo per dirgli: “perdonami, Luigi; a te tutta la mia gratitudine; ma dall’Italia ufficiale non voglio onoranze”. Diceva questo a quel Pirandello che, con precise disposizioni testamentarie, si sottrarrà a sua volta, morendo, alle manifestazioni ufficiali che il regime fascista gli avrebbe con certezza tributato.
Verga muore nel gennaio del 1922 nella sua casa di Catania. Lì si concludeva la vita di questo grande scrittore emigrato al Nord e ritornato nella terra da cui era partito, la vita del primo autore della letteratura Siciliana moderna che sente il bisogno di lasciare la periferia d’Italia, d’Europa, di lasciare l’Isola e approdare a Milano, al centro “ideale”, a quella che Salman Rushidie chiama la “patria immaginaria”. Dopo e insieme a Verga è il confrère Luigi Capuana che approderà a Milano nel 1887 e vi rimarrà fino al 1880. Verga “scrive” Milano nelle dodici novelle di Per le vie, e scrive in un libro collettivo dal titolo Milano nella sua vita, nell’arte, nei suoi costumi e nell’industria (1896) un testo, I dintorni; e Capuana, nello stesso volume, appare il brano In Galleria.
È Verga che terrorizza la necessità della ” distanza “, della lontananza dalla Sicilia per scrivere della Sicilia. In una lettera del 1878 scrive a Capuana: “… da lontano, in questo genere di lavori, l’ottica qualche volta, quasi sempre, è più efficace d’artistica, se non più giusta, e da vicino i colori sono troppo sbiaditi… “. Questa affermazione di Verga si può costare a un’altra di Nikolaj Gogol’: ” io posso scrivere della Russia stando a Roma. Solo da lì essa si erge dinanzi in tutta la sua interezza, in tutta la sua vastità “.
Nel 1918 arriva a Milano, proveniente da Roma, Giuseppe Antonio Borgese, arriva in una città tutta imbandierata per le celebrazioni della vittoria della Grande Guerra. E sulla prima guerra mondiale e sul dopoguerra, Borgese, già famoso per i suoi saggi letterari, scriverà il romanzo Rubè , che si svolge tra Milano, il Lago Maggiore, Roma e la Sicilia, la terra del protagonista Filippo Rubè. Scrive già da anni, Borgese, sul Corriere della Sera, e a Milano insegna alla Accademia Scientifico-Letteraria; nel ’26, sarà creata per lui, all’università, la cattedra di estetica. Nel 1931, lo scrittore abbandonerà Milano ed emigrerà in America per ragioni politiche, per opposizione al fascismo. E in America pubblicherà, nel 1935, il libro Golia, marcia del fascismo. E in Golia ritornerà a scrivere di Milano, delle ragioni culturali politiche per cui possa esser nato in questa città, nel paese un fenomeno come Mussolini, possa esser nato il fascismo. Racconta, fra l’altro, di una serata del gennaio del 1919 alla Scala, il cui il vecchio socialista Leonida Bissolati teneva una conferenza. Da un palco di proscenio, Mussolini insieme a Marinetti cominciò a rumoreggiare, a disturbare la conferenza. Bissolati si fermò e guardò verso quel palco e riconobbe Mussolini.
” Volse la testa verso gli amici che gli erano vicini e disse a bassa voce:’ Quell’uomo no!’. Quell’uomo invece da lì a tre anni, partendo da Milano, avrebbe compiuto la famosa marcia su Roma. Quell’uomo sarebbe stato accettato e osannato per vent’anni in questo nostro sciagurato Paese.
Nel 1933 Elio Vittorini è a Firenze, sua tappa, come quella di Verga, prima di trasferirsi a Milano, dove si stabilirà definitivamente nel dicembre di quello stesso anno.
” Sai che è la più bella città del mondo? Anzitutto è città: quando si è dentro si pensa che il mondo è coperto di case… ” Scrive all’anglista Lucia Rodocanadi. Il siracusano Vittorini ha, nei confronti dell’industriosa e industriale Milano, un atteggiamento opposto a quello di Verga, rifiutandosi il ripiegamento nella passività e rassegnazione di Verga, la sua visione metastorica, il suo “fatalismo”, l’arcaico mondo contadino Siciliano. Milano è per Vittorini la città degli Illuministi, di Manzoni e di Cattaneo, la città attiva, degli operai che hanno coscienza di “classe” e un atteggiamento attivo nei confronti della storia, la città dell’industria a misura d’uomo, il cui modello è rappresentato da un imprenditore come Adriano Olivetti. “Scrive” Milano, Vittorini, con Conversazioni in Sicilia, in cui il protagonista ed io narrante Silvestro, nel momento più buio e tragico del Paese, dell’Europa, nel tempo del fascismo della guerra, in preda ad “astratti furori”, lasciasi il suo lavoro di tipografo e compie, come Ulisse, il viaggio di ritorno, il nostos, nella terra natia, nella terra della madre, delle madri. Ma non rimane lì impigliato, li prigioniero, come il Don Giovanni in Sicilia di Brancati; dopo lo sprofondamento del luogo della memoria, ritorna ai suoi doveri di “compositore di parole”, di scrittore, ai suoi doveri di uomo, di cittadino. Scrive la Milano della ‘ 43, Vittorini, la Milano della guerra e della lotta antifascista con Uomini e no. E anche di società, di contesti democratici con La Garibaldina, Erica e i suoi fratelli, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, Le donne di Messina, Le città del mondo… E c’è ancora un altro grande Vittoriani “milanese”, l’intellettuale e operatore culturale, il direttore di Riviste letterarie e politiche come Il Politecnico e Il Menabò, il direttore di collane letterarie come la Medusa, la Corona, e i Gettoni…
Un anno dopo Vittorini, nel ’34, provenendo dalla Sardegna, si stabilisce a Milano il geometra del Genio civile, il poeta, cognato di Vittorini, Salvatore Quasimodo. Il lirico, il siculo-greco Quasimodo, è costretto anche lui, per l’orrore della guerra, a lasciare la “terra impareggiabile”, l’isola della memoria, per scrivere di Milano, scrivere le liriche di Giorno dopo Giorno.

“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’uomo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillava arrivi al testamento”.

Così cantava con dolore e orrore il poeta civile Quasimodo. Cantava della Milano straziata dalla guerra, oltraggiata dal fascismo, della Milano”insudiciata”, come ha scritto Alberto Savinio, dalla distruzione e dalla morte.

“Invano cercai tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del naviglio…”
( Milano, agosto 1943)
Milano 14 dicembre 2003

Finita la carrellata sugli scrittori siciliani a Milano, mi si perdoni se parlo anche di me.
Sono arrivato a Milano con l’idea di una città diversa da tutto il contesto italiano, la Milano dove abitavano Vittorini e Quasimodo, attratto dalla presenza di questi due scrittori.
C’era già allora una corrente di scrittori che migrava dalla Sicilia per approdare a Roma, io non pensavo a Roma perché era la città del potere politico, io pensavo che la mia necessità di lasciare l’estremità, di lasciare l’isola era naturalmente per Milano.
Sono arrivato nel ‘51 per studiare all’università, in una Milano con ancora tutte le ferite del secondo dopoguerra. Sono andato a studiare all’Università Cattolica, non per convinzioni di natura religiosa, ma perché il collegio universitario mi dava allora la possibilità di avere una stanza ed i pasti a 20mila lire al mese. C’erano molti meridionali che approdavano allora a questa università, c’erano molti che sarebbero diventati la futura classe dirigenziale italiana, c’erano i fratelli De Mita, Gerardo Bianco futuro onorevole democristiano,…
Io stavo molto “in periferia”: sono stato un anno al collegio universitario, quando andai a salutare il direttore del pensionato, mi chiese se ero stato lì da loro, infatti io ero stato sempre defilato, mi interessavano altre cose, mi interessava la Milano culturale, la Milano di Vittorini. Invidiavo il mio compagno di università Raffaele Crovi che era amico del figlio di Vittorini e frequentava casa Vittorini, io lo odiavo per questo suo privilegio e non osavo presentarmi in casa di Vittorini perché non avevo delle carte con cui presentarmi. Conobbi Vittorini poi molti anni dopo, nel ’63, quando arrivai a Milano per la pubblicazione del mio primo romanzo presso Mondadori. Vittorini allora aveva un ufficio presso quella casa editrice e fui presentato.
Dopo un anno di collegio mi trasferii nella pensione della signora Colombo che parlava solo in dialetto milanese, allora c’era molta popolarità e dialettalità milanese.
Osservavo in quegli anni la piazza Sant’Ambrogio che poi ho chiamato “la piazza dei destini incrociati” approdavano nella piazza schiere infinite portate dai tram senza numero dalla stazione centrale. Erano immigrati che arrivavano dal meridione, che approdavano in questa piazza perché c’era allora il “centro orientamento immigrati”. Io osservavo gli immigrati e mi ricordo quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, che dopo avere passato le visite mediche venivano già equipaggiati con il casco la cerata e la lanterna, credo che questi 200 minatori furono poi vittime della tragedia di Marcinelle. Altri venivano mandati in Francia in Svizzera e via discorrendo.
In questo edificio di piazza Sant’Ambrogio vi era anche una caserma della Celere, e quindi si incrociavano i destini: da una parte gli studentelli privilegiati, dall’altra i migranti, e poi i celerini dell’onorevole Scelba, ed ad uno studentello come me poteva capitare di incontrare un mio compaesano.Incontrai Giacomino, un ragazzo del mio paese, con la divisa di poliziotto ed il manganello in mano pur essendo un ragazzo molto mite. Capitava di incontrare quelli che sarebbero stati mandati alla scuola sociale di Bologna per diventare onorevoli e classe dirigente democristiana italiana.
Mi ero convinto in quegli anni di voler fare lo scrittore, i miei due vangeli erano stati “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi e “Conversazione in Sicilia” di Vittorini, erano due poli di attrazione. Mi ero convinto che dovevo fare lo scrittore e che non potevo farlo se non in Sicilia: errore gravissimo, sono stato lì 11 anni e poi ho capito che non c’era nulla da fare… Ho frequentato in quegli anni due personaggi antitetici per me entrambi molto importanti, uno era un poeta “puro” Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Lampedusa, poeta straordinario, barocco di tipo mistico e spagnolo con riferimenti quali San Giovanni della Croce, dall’altra parte Leonardo Sciascia. Viaggiavo fino a Caltanissetta dove allora abitava Sciascia e a Capo d’Orlando dove abitava Lucio Piccolo, che mi diceva “venga pure a fare conversazione”, ma per me la conversazione era una vera lezione di letteratura, che andavo a prendere da lui che era di una cultura sconfinata.
Nel ‘68 ho fatto le valige in un giorno emblematico per ritornare a quella che ho chiamato “la patria immaginaria”, ritornando a Milano il 1 gennaio del ’68. Mentre nel novembre del 52 avevo trovato la città piena di nebbia, quel primo di gennaio la trovai piena di neve, allora nevicava a Milano, adesso non nevica più… Dovevo presentarmi al lavoro, avevo vinto un concorso e quella era la ragione per cui mi trasferivo, avevo bisogno di lavorare. Ho vissuto questa città e mi sono sentito sempre milanese perché ho creduto in questa città diversa dal contesto italiano, diversa dalla mia Sicilia, ma anche da Roma e da qualsiasi città italiana.
L’ho vista trasformarsi negli anni, con molta pena. Era la città delle utopie e delle fantasie, che, come sempre, si frantumano contro gli scogli della realtà, sappiamo tutto quello che è successo in questa città e nel paese. Viviamo in una città che nessuno di noi riesce ad accettare, diventata il simbolo della regressione e del degrado del nostro paese.
Ho scritto un libro che si chiama “Retablo”, che descrive il desiderio ed il bisogno di allontanarsi da questa città attraverso un personaggio che si chiama Fabrizio Clerici. E’ un personaggio contemporaneo, ma con un cognome che già appariva nel libro di Savinio “Ascolta il tuo cuore città” che io ho trasferito nel Settecento. Fabrizio è un pittore innamorato di una signorina che si chiamava Teresa Blasco, figlia di uno spagnolo e di una siciliana. Teresa e una donna molto bella, corteggiata dai giovanotti illuministi milanesi, dal Beccaria e da tanti altri in quel di Gorgonzola, dove la famiglia Blasco aveva la villa.
Quindi Fabrizio Clerici, non corrisposto nella sua passione amorosa decide di compiere un viaggio nella terra della donna che lui ama, cioè nella Sicilia. Viaggio romantico alla ricognizione di una Sicilia ideale del Settecento, dove come tutti i viaggiatori romantici si cerca di vedere l’Arcadia, la Grecia, ma la Grecia non c’è più in Sicilia, esiste l’infelicità sociale, che esisteva anche nel Settecento, i conflitti, il banditismo, l’ignoranza, le malattie… Fabrizio apre gli occhi come uomo coscenziale e vede la realtà che non conosceva e rimane coinvolto, anche linguisticamente in questo suo viaggio attraverso la Sicilia classica.
Poi ho esplicitato il disamore e la disillusione nei confronti di Milano in un libro più recente che si chiama “Lo Spasimo di Palermo”, che rappresenta non solo lo spasimo di Palermo, ma lo spasimo anche di Milano e dell’intero paese. Il romanzo comincia con un flash back che dal secondo dopoguerra ci porta fino al 1992; il protagonista è uno scrittore che si chiama Gioachino Martinez, il quale aveva scelto Milano per sfuggire all’orrore e alla violenza siciliana, era approdato a Milano quale sua città ideale ed anche qui, dopo anni di consolazione, trova violenza e trova orrore, terrorismo e degrado culturale. Decide di tornare a Palermo dove ancora troverà violenza e morte. Il paese è ormai omologato e non c’è più una Itaca, un luogo dove tornare, per nessuno di noi in questa società. Le città ideali si sono frantumate sotto i nostri occhi e l’Itaca che abbiamo lasciato durante la nostra assenza è stata distrutta ed è stata conquistata dai Proci, oggi viviamo in un mondo di Proci, in un mondo di orrore dove niente più è accettabile.
Voglio ricordare una pagina di addio a Milano, sullo schema dell’addio manzoniano, dello scrittore Gioacchino Martinez:

“Nessuna pena no, nessun rimpianto a lasciare dopo anni quell’approdo della fuga, quell’ asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza. Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità.
Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tecnologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.”

“Addio ai campanili in cotto, alla romanica penombra, a Chiaravalle, a Morimondo. Addio alla casa di Manzoni, a San Fedele, all’alto marmo nel centro del Famedio. Alle vie verghiane, alla gaddiana chiesa di san Sempliciano. Allo Sposalizio della Vergine, emblema saviniano della città chiusa di Milano, del suo equilibrio, e della sua utile mediocrità. Addio a Brera di Beccaria e Dossi, addio a Porta a Tessa Quasimodo Sereni, al Montale del respiro vasto della bufera, dei meriggi assorti, degli orti, dei muri di salino costretto nella depressione della pianura, nel dorato cannello dell’imbuto cittadino. Alla casa dei fervori e dei furori di Vittorini, delle utopie infrante e dei lirici abbandoni. Al rifugio in Solferino dove Sciascia patì la malattia, sua del corpo e insieme quella mortale del Paese. Addio alla Vetra, al Mora e al Piazza, alla Banca del tritolo e della strage, all’anarchico innocente steso a terra come il Cristo del Mantegna, ai marciapiedi insanguinati, alle vite straziate di giudici civili militari studenti giornalisti…Amaro a chi scompare. Qui è la babele, il chiasso, la caverna dell’inganno, il loto dell’oblio, l’Eea dei filtri della mutazione, del grugnito inverecondo…”

l’emigrazione impossibile. In leggere Milano collana dell’edizione unicopli Le città letterarie, dicembre 2006.
Conferenza tenutasi nell’aula magna dell’università statale di Milano il 4
dicembre del 2003.