Fino al 25 febbraio numerose manifestazioni culturali. Da oggi l’omaggio de L’Ora Edizione Straordinaria con analisi, ricordi, foto, testimonianze. CONSOLO, IL DESTINO DI UN ULISSE SICILIANO di FRANCO NICASTRO
“Più nessuno mi porterà nel Sud, lamentava Quasimodo. Invece – se m’è concesso il confronto – io nel Sud ritorno sovente”. Così Vincenzo Consolo spiegava il suo ininterrotto rapporto con la terra e la cultura siciliane: “Da Milano, dove risiedo, con un volo di un’ora e mezza, atterro in Sicilia. Dalla costa d’oriente o d’occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio, coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’isola da un capo all’altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane, per luoghi visti e rivisti non so quante volte”. L’ultima volta che Consolo era tornato in Sicilia è stato nell’estate del 2010. A Gratteri, sopra l’amata Cefalù, in una limpida serata d’estate si presentava “L’isola in me”, un film documentario di Ludovica Tortora de Falco sulla Sicilia suggestiva e straziante di Consolo. Era un ritratto dello scrittore, dell’uomo e dell’artista attraverso i luoghi, i temi, le suggestioni letterarie della sua vita. Consolo si era assegnato quello che chiamava il “destino d’ogni ulisside di oggi”: quello di “tornare sovente nell’isola del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restarne prigioniero…”. Di questo intenso legame passionale, civile e letterario con la Sicilia Consolo ha sempre dato testimonianza. Dalle profondità del mito ha ricavato una lettura lucida della storia italiana e siciliana dal dopoguerra a oggi. Lo ha fatto attraverso alcuni temi cruciali: l’emigrazione, la vita dei minatori delle zolfare, l’industrializzazione e le devastazioni del territorio, i terremoti e le selvagge ricostruzioni, le stragi mafiose. È una storia che Consolo ha vissuto in prima persona, condividendola con altri scrittori, in primo luogo Leonardo Sciascia a cui era profondamente legato. E proprio Sciascia aveva segnato il suo percorso letterario cominciato nel 1963 con “La ferita dell’aprile”. Prima che nel 1976 pubblicasse il suo secondo romanzo, quello che gli diede la notorietà, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, Consolo si era lasciato tentare (lui diceva “irretire”) da Vittorio Nisticò e da Milano era approdato a Palermo nella redazione del giornale L’Ora. Ma vi era rimasto solo pochi mesi, poi era tornato a Milano da dove ha continuato a tenere un rapporto intenso, e continuamente rinnovato, con la Sicilia. Di questo legame con la storia e la cultura siciliana sono testimonianza, oltre al sodalizio con Sciascia e all’amicizia con Gesualdo Bufalino, anche la sua intensa produzione letteraria, da “Le pietre di Pantalica” a “Retablo”, da “Nottetempo casa per casa” (premio Strega 1992) a “L’olivo e l’olivastro”, da “Lo Spasimo di Palermo” a “Di qua dal faro”. A cui si aggiungono saggi di forte intonazione civile, interventi e una densa raccolta di articoli per il Messaggero e per l’Unità. Aveva scelto di vivere a Milano ma il suo cuore e la sua curiosità intellettuale erano radicati in Sicilia. ”La tentazione di sottrarmi alla Sicilia c’è – diceva – ma il meccanismo memoriale della mia narrativa me lo impedisce fino in fondo, è connaturato a uno stile che ingloba la memoria attraverso il linguaggio”. E proprio al linguaggio dedicava la sua cura sperimentale in una ricerca che lo allontanava sempre più dai canoni correnti. Da qui la sua invettiva contro la deriva di un paese “telestupefatto”, cioè scivolato verso la volgarità del linguaggio che uccide il pensiero critico. ANSA 21 gennaio 2012
-BIOGRAFIA VINCENZO CONSOLO Vincenzo Consolo era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933. Sesto di otto figli, negli anni Cinquanta si era trasferito a Milano per frequentare la Cattolica dove si è laureato in giurisprudenza. A Milano è poi tornato, dopo un breve periodo di insegnamento in Sicilia, negli anni Sessanta per seguire una sua aspirazione letteraria sulla scia di Verga, Capuana, De Roberto. A Milano lavora nella struttura di programmazione della Rai ma intreccia un intenso rapporto con il grande giro culturale. Collabora con Einaudi, stringe rapporti intensi con Leonardo Sciascia e il poeta Lucio Piccolo. Nel 1976 viene chiamato a Palermo dal direttore del giornale L’Ora, Vittorio Nisticò, con il quale già collaborava da alcuni anni. Conclusa l’esperienza siciliana, ritorna a Milano mentre esce il romanzo che gli dà una grande notorietà: ”Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Nel 1985 pubblica ”Lunaria” e due anni dopo ”Retablo”. Seguiranno ”Le pietre di Pantalica” e ”Nottetempo casa per casa”. Nel 2015 esce postuma la sua opera completa per i Meridiani Mondadori. Il curatore Gianni Turchetta, che a lungo ha lavorato sull’archivio dello scrittore poi rilevato dalla Fondazione Mondadori scrive: “Nel panorama italiano del XX secolo, pochi scrittori possono, come Vincenzo Consolo, mostrare in modo tanto conseguente e radicale che cosa è stato per l’Occidente moderno, per oltre un paio di secoli e che cosa forse si ostina ad essere quella che chiamiamo letteratura”. Per il critico Cesare Segre, “Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione”. Nei libri ma anche nei saggi e negli articoli per il ”Messaggero” e ”L’Unita”’ Consolo mantiene un intenso rapporto con la Sicilia. Si è sempre sentito un moderno Ulisse che torna nella sua Itaca dalla quale non riesce a staccarsi. Tutte le sue opere hanno infatti la Sicilia come punto di partenza e di approdo. CONSOLO, LE MANIFESTAZIONI Promosso dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, dall’Associazione “Amici di Vincenzo Consolo” fondata per volontà di Caterina Pilenga, moglie dello scrittore, e da Arapán Film Doc Productionm si apre domani il #MESECONSOLO coordinato da Ludovica Tortora de Falco. Alle 15 su RadioTre Fahrenheit ospiterà critici, esperti e giornalisti per analizzare l’eredità di Consolo. Alle 20 Radio Tre Suite dedicherà in diretta dalla Sala di via Asiago a Roma una serata di letture di Consolo e brani musicali. L’evento clou a Sant’Agata di Militello, dove alle 21 al cinema teatro Aurora andrà in scena #Lunaria di Vincenzo Consolo nello storico allestimento dell’omonimo Teatro Lunaria di Genova diretto da Daniela Ardini che ne cura la regia. Interprete Pietro Montandon. Lunaria è la storia del Viceré e della Luna che cade su una remota contrada senza nome. Ancora a Sant’Agata di Militello, il 26 e 27 gennaio, presso il Palauxilium proiezione del film documentario #Lisolainme, in viaggio con Vincenzo Consolo per le classi quinte dei licei del territorio dei Nebrodi.Sempre il 26, a Milano presso il Laboratorio Formentini per l’editoria, via Marco Formentini, 10, Reading . Ricordi di Vincenzo Consolo a cura di Paolo Di Stefano e Gianni Turchetta. Voci recitanti Valerio Bongiorno e Laura Piazza. Il 28 gennaio all’University College Cork, in Irlanda, #MemorialConsolo a cura di Daragh O’Connell, organizzato da Claudio Masetta Milone, il concittadino dello scrittore che da sempre lo ha affiancato e curato nelle sue ricerche, l’amico di una vita, instancabile promotore della Casa letteraria Consolo di Sant’Agata e della serata evento di domani. Temi del convegno: tradurre, curare, studiare, raccontare Consolo con Joseph Farrell, Gianni Turchetta, massimo esperto italiano dello scrittore, curatore del Meridiano Mondadori, Nicolò Messina e Salvatore Maira. Link per i quattro appuntamenti: https://us02web.zoom.us/i/88579217433…. Meeting ID: 88579217433. Password: 060633.L’8 febbraio alle ore 10, a Palermo alla Sala Bianca dei Cantieri Culturali della Zisa a cura di Film Commission regionale, Centro Sperimentale di Cinematografia, Centro Studi Pio La Torre sarà proiettato per gli studenti dei licei il film documentario #InviaggioconVincenzoConsolo, prodotto nel 2008 da Arapán.Il 9 febbraio a Milano presso la Biblioteca Valvassori Peroni (via Valvassori Peroni, 56) serata con letture di testi di Vincenzo Consolo tra la Sicilia e Milano.Evento di particolare importanza l’11 febbraio alle ore 17 a Palermo presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, quando la Biblioteca presenterà l’e-book, promosso dal direttore Carlo Pastena e realizzato grazie alla cura di Antonella Bentivegna, che contiene il catalogo del patrimonio bibliografico di e su Vincenzo Consolo custodito presso la Biblioteca stessa. Contiene fotografie di Consolo tratte dall’archivio L’Ora, e i suoi articoli per il giornale di Vittorio Nisticò e per altre testate italiane. Coordinerà il convegno Antonio Calabrò, parteciperanno Salvatore Ferlita, Claudio Masetta Milone, Salvatore Silvano Nigro, Concetto Prestifilippo, Dario Stazzone e Piero ViolanteIl 15 febbraio alle ore 18,30 presso il Cineclub Arsenale di Pisa (vicolo Scaramucci, 2) Per Vincenzo Consolo, mostra fotografica a cura di Francesco La Francesca e Cecco Ragni. Infine il 25 febbraio alle ore 17,30 a Catania, alla Libreria Cavallotto di corso Sicilia, 91, presentazione del libro L’oggetto perduto del desiderio. Archeologie di Vincenzo Consolo di Rosalba Galvagno, Milella editore.
Il volto del Mediterraneo ha il sorriso di Consolo di Paolo Di Stefano
Èvero che, oggi più di ieri, non c’è da scommettere nulla sulla sopravvivenza degli scrittori (anche dei cosiddetti «classici») nella memoria collettiva di un Paese. Chissà quanti dei lettori forti, quelli cioè che leggono almeno un libro al mese, conoscono Vincenzo Consolo, nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, e morto dieci anni fa a Milano. Eppure, Consolo è senza dubbio, come ha sancito la critica più attendibile, uno dei maggiori narratori del secondo Novecento: un Meridiano, curato da Gianni Turchetta nel 2015 e introdotto da Cesare Segre, raccoglie l’opera completa come si fa per gli autori entrati nel canone. Non è uno scrittore facile, Consolo, ma di quelli che hanno un riconoscimento sicuro non solo per la sua visione della storia (è soprattutto autore di romanzi storici, di cui però rifiutava la definizione di genere) ma anche grazie alla assoluta originalità dello stile con cui la storia viene raccontata e in qualche misura sfidata: una scelta «archeologica» che richiede una continua ricerca e una perenne voglia di sperimentare.
Quando gli si chiedeva dove si collocava idealmente come scrittore, Consolo rispondeva in prima battuta pensando al linguaggio e denunciando il rifiuto di uno stile comunicativo: pertanto tra i due filoni letterari definiti un po’ artificiosamente da Gianfranco Contini, quello monolinguista e quello espressionista, Consolo optava decisamente per il secondo, in parte verghiano, in parte gaddiano-barocco, ormai divenuto minoritario. Lui che era stato per una vita amico di Leonardo Sciascia diceva di porsi, per le scelte stilistiche, sulla sponda opposta: non solo rispetto a Sciascia (che a sua volta parlò scherzosamente di Consolo come di un parricida, sentendosi lui il padre), ma anche rispetto a Tomasi di Lampedusa, Moravia, Morante, Calvino. E riteneva fallita l’utopia unitaria del famoso «risciacquo in Arno» di Manzoni, che pure considerava un modello «sacramentale» per la capacità di mettere in scena la storia (quella secentesca) come metafora universale. Quell’utopia era fallita perché era naufragata, secondo Consolo, la società italiana moderna, da cui era nata una superlingua piatta, tecnologico-aziendale e mediatica, che faceva ribrezzo anche a Pasolini, per il quale l’omologazione linguistica (con il conseguente tramonto dei dialetti) era il segno più visibile di un nuovo fascismo.
Dunque, per Consolo l’opzione linguistica ha una valenza non estetica ma politica, di resistenza e di opposizione, che si traduce sulla pagina in una moltiplicazione di livelli, di generi, di registri, di stili, di voci: la sua è una lingua di lingue, cui si accompagna la pluralità dei punti di vista, una lingua ricchissima, un impasto di dialetti, preziosismi, arcaismi, echi dal greco, dal latino, dallo spagnolo, dal francese, dall’arabo, eccetera, il miscuglio dei depositi di civiltà sedimentati nella storia siciliana. Se per Consolo la letteratura è memoria dolorosa e irrisolta, essa è alimentata da una memoria linguistica altrettanto dolorosa, conflittuale e composita. Anche per questo, è giusto inserire Consolo dentro la vasta e plurima cultura mediterranea, come suggeriva il convegno milanese del 2019, di cui ora vengono pubblicati gli atti (Mimesis, pagine 233, e 20), a cura di Turchetta, sotto un titolo molto significativo: «Questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto», tra virgolette perché così lo scrittore intendeva il Mediterraneo, ma anche la Sicilia, che ne era (ne è) la sintesi.
Inutile negarselo. Leggere il capolavoro di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, non è una passeggiata in aperta campagna: è vero che si pone nel solco della narrativa sicula sui moti risorgimentali, dal Mastro-don Gesualdo di Verga a I vicerè di De Roberto al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, quella narrativa che affronta il Risorgimento come un grumo di opportunismi, di miserie, di compromessi, di astuzie, di contraddizioni mai veramente superate. E però Consolo lo fa a modo suo, con tutta la diffidenza per le imposture della storia (si è parlato di anti-Gattopardo), facendo dialogare tra loro i documenti, frammentando i punti di vista e moltiplicando le voci. Del resto, non è una passeggiata neanche leggere Proust o Gadda o Faulkner o Céline o Joyce: ma ciò non toglie nulla alla loro grandezza e al piacere della lettura, anzi è una conquista di senso ad ogni frase. Scriveva giustamente qualche giorno fa Paolo Di Paolo sulla «Stampa» che la battuta di Valérie Perrin al Salone del Libro sulla noia che le procura la lettura della Recherche è una battuta irritante e populista: tesa solo a conquistarsi l’applauso del pubblico (arrivato puntualmente).
Il fatto è che la scrittura di Consolo viene fuori da un rovello morale e civile, non certo da una felicità narrativa spensierata. Ma i nodi e le interferenze inattese, simmetriche alle tragiche e spesso incomprensibili emergenze storiche, come ha scritto Cesare Segre, sono narrate in una prosa ritmica, «quasi colonna sonora di un viaggio nella storia che è anche, o soprattutto, giudizio sul tempo presente». Un «passo di danza», lo chiamava Consolo, che deriva anche dalla sensibilità lirica (accesa certamente dall’ammirazione per il poeta «barocco» Lucio Piccolo, il barone esoterico di Capo d’Orlando, cugino di Tomasi).
Musica della narrazione e implicito richiamo (per ipersensibilità etica) al presente sono la benzina dei suoi libri, si tratti dei romanzi, dal libro d’esordio La ferita dell’aprile (1963), romanzo di formazione autobiografico sul dopoguerra, si tratti di quel viaggio irreale nella Sicilia del Settecento che è Retablo (1987), fino a Nottetempo, casa per casa (1992) e a Lo spasimo di Palermo (1998). Si tratti dei saggi-racconti-reportage de Le pietre di Pantalica o de L’ulivo e l’olivastro o delle sequenze di quello specialissimo incrocio tra «operetta morale» e cuntu popolare (così Turchetta) che è Lunaria, definita dall’autore una «favola teatrale» (la magnifica trasposizione musicale di Etta Scollo è stata eseguita per i Concerti del Quirinale domenica scorsa e trasmessa da RadioRai3).
Il sorriso dolceamaro di Vincenzo assomigliava a quello dipinto da Antonello da Messina nella tavoletta che ispirò il suo capolavoro, ma si aggiungeva un che di dispettoso e di infantile, e soprattutto si accendeva o si oscurava, da lontano, al pensiero della Sicilia. L’ossessione di Consolo, come quella di tanti scrittori siciliani (tutti?), era la Sicilia, da cui partì verso Milano poco più che ragazzo prima per studiare, negli Anni 50, poi definitivamente nel 1968. I 58 elzeviri pubblicati sul «Corriere» non tradiscono la ferrea fedeltà verso la sua isola, a cominciare dal primo, datato 19 ottobre 1977, sulla «paralisi» della Sicilia paragonata alla malinconia di cui è vittima il «lupanariu», ovvero colui il quale è colpito dai malefici del lupo mannaro nelle notti di luna piena.
Ricordava, Consolo, che da studente dell’Università Cattolica, alloggiando in piazza Sant’Ambrogio, vedeva dalla sua finestra i minatori che dal vicino centro di smistamento immigrati, dopo la selezione medica, il casco e la lanterna in mano, salivano sui tram per prepararsi a partire, dalla Stazione Centrale, verso i bacini carboniferi del Belgio, e qualcuno certamente sarebbe andato a morire a Marcinelle o in altre miniere… Lo raccontò anche in un articolo del 1990 in cui recensiva i primi libri-testimonianza dei migranti africani che allora si chiamavano «extracomunitari» o «vu’ cumprà». Sono, è evidente, interventi sempre militanti, come quelli pubblicati per una vita in altri giornali: «L’Ora», «Il Messaggero», «La Stampa», «il Manifesto», «L’Espresso»…
Il 21 novembre 1989 gli toccò ricordare l’amico e maestro Leonardo, morto il giorno prima a Palermo. Cominciava evocando i luoghi reali e quelli immaginari dell’amico e accostandoli a quelli di Faulkner e di Camus: «Racalmuto, Regalpetra: la sua Yoknatapawpha, la sua Orano. La sua, di Leonardo Sciascia. Credo che non si possa capire questo straordinario uomo e questo grande scrittore, al di là o al di qua del più vasto teatro della Sicilia, dell’Italia o della civiltà mediterranea, senza questo piccolo mondo, questo suo piccolo paese di nascita e formazione, sperduto nella profonda Sicilia. Un paese “diverso”, singolare». Tutto diverso e singolare, in Sicilia, tutto sperduto e profondo.
“Mese Consolo”, una serie di eventi per celebrare i dieci anni dalla scomparsa dello scrittore Vincenzo Consolo
Sbeffeggiando chi lo accusava di essere anacronistico, con un
sorriso sardonico, rispondeva che era anche anacreatico. Sono trascorsi dieci
anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, uno dei più grandi scrittori del
Novecento italiano. Era un gelido pomeriggio milanese del 21 gennaio 2012. L’anniversario
sarà ricordato nel corso di un intenso “Mese Consolo”, una serie di eventi curati
da Ludovica Tortora de Falco, regista nel 2008 del film “L’isola in me, in viaggio con Vincenzo Consolo”. Manifestazioni che
si snoderanno dalla Sicilia a Milano in collaborazione con la “Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori”. Vincenzo
Consolo, per tutta la vita, ha difeso, custodito, una lingua feriale che non
esisteva più, conferendo incessantemente asilo alle parole espunte
dall’imperante linguaggio televisivo plastificato.Ma ad un certo punto della sua carriera è come se l’autore di “Retablo” avesse avvertito la fatale
stanchezza della parola.
“Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una lingua diversa, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”. Così scriveva Vincenzo Consolo ne “Lo Spasimo di Palermo” (1998). La riflessione maturata tra le pagine del romanzo era affidata al protagonista, Gioacchino Martinez, scrittore di libri difficili, fratti, complessi. Il protagonista, invecchiando, si sentiva uno sconfitto, un vinto verghiano. Si interrogava sul significato, sull’efficacia del suo lavoro, sulla funzione della letteratura. Vincenzo Consolo raccontava spesso del triste finale di partita scelto da Giovanni Verga, l’afasia, il suicidio del narratore. Il grande scrittore catanese, abbandonata Milano, fece ritorno in Sicilia e decise di non scrivere più. Il rimando all’autore de “I Malavoglia”, alla sua scelta estrema, Consolo lo aveva affidato al suo duale letterario Martinez. Il silenzio, come già per l’Empedocle di un altro suo testo, “Catarsi”.
Scrittore
eccentrico e irregolare.
Consolo aveva dunque deciso per la progressiva ritrazione. Disubbidienza
e continua sottrazione che lo avevano sempre caratterizzato. Non aveva mai ceduto
alle lusinghe dell’esposizione televisiva. Non aveva mai accettato di affollare
talk-show, librerie e classifiche. Le
scansioni temporali che separano le uscite dei suoi libri non attengono ai continui
singulti nevrotici dell’industria letteraria. Consolo era un irregolare, non
era irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica
diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e
anche in Sicilia. “È siciliano, non
scrive in italiano. È barocco. È oscuro. È pesante come una cassata. Le sue
narrazioni non sono filanti: ma chi si crede di essere, ma come si permette?”. Era questo il paradigma declinato dai suoi
detrattori. Erano tanti i suoi nemici: cardinali della letteratura italiana, maggiordomi
untuosi di consorterie politiche, raccontatori a cottimo delle gazzette di
palazzo, maestri di inenarrabili gilde e di buie consorterie. Avevano ragione a
detestarlo, perché a ognuno di loro aveva dedicato parole di disprezzo
ineguagliabili. Vincenzo Consolo era un impertinente, irriguardoso, sprezzante,
fiero, severo e inflessibile. “Credo che
uno scrittore debba essere comunque contro, scomodo. Se un intellettuale non è
critico, diventa cortigiano. È stato così per Vittorini, per Pasolini e per
Sciascia, intellettuali contro che il sistema non è riuscito a fagocitare,
assoldare, arruolare, ostentare”. Un intellettuale contro, questo è stato
il suo paradigma esistenziale.
Milano
approdo di ragione.
Come l’amato Verga, Consolo era approdato a Milano. La città lombarda era stata per una fitta schiera di scrittori siciliani luogo di speranza, approdo di ragione. La stessa città che, presto, si trasformerà per lui in illusione infranta, amara realtà. La città lombarda dell’approdo e la Sicilia disperante sono state il suo cruccio, una Tauride duale. Come lo zio Agrippa di vittoriniana memoria, Consolo continuava a fare la spola tra la Sicilia e Milano. Operava un continuo dettato esplicito di denuncia all’indirizzo di una Sicilia irredimibile e disperante. Non perdevano occasione per rinfacciarglielo i sicilianuzzi dileggiati. Facevano garrire sul pennone più alto lo stendardo abusato della Trinacria rinfacciandogli la fuga, l’abbandono. Un proclama di palazzo aveva messo al bando i libri di Consolo. Libri bollati come inadeguati, colpevoli di un insopportabile rimando a una Sicilia cupa, operando così l’isolamento e la sconfessione, consolidate pratiche criptomafiose. Il continuo dileggio operato da certa intellettualità isolana è stato un vero tormento per Consolo. Non amava le piccole patrie lo scrittore di Sant’Agata di Militello, non firmava manifestini autonomisti, non rivendicava insulse predominanze culturali.
Ignoto
antigattopardo
La sua è stata una letteratura alta, di respiro internazionale. Lo testimoniano i numerosi riconoscimenti, come il “Premio dell’Unione Latina”, una sorta di Nobel per gli scrittori di lingua latina. Lauree honoris causa gli sono state conferite dagli atenei più autorevoli. Riconoscimenti accademici tributati a Parigi, Madrid, Salamanca, Dublino, Amsterdam. Mirabile l’attacco del suo romanzo Retablo : “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato (…)”. Libro che gli varrà il “Premio Grinzane Cavour” nel 1988. La figura centrale è il pittore lombardo, Fabrizio Clerici giunto a Palermo in un vago Settecento. Il libro fu pubblicato dalla casa editrice “Sellerio” con una nota introduttiva di Leonardo Sciascia. Scrittura icastica quella consoliana, connaturata da un’intensa immaginazione pittorica. La pittura era la sua seconda grande passione. Esemplari le sue prefazioni di mostre. Inserti, racconti, prove d’autore che lo scrittore traslava, successivamente, nei capitoli dei suoi libri. Raffinata la pittura delle sue ricercatissime copertine, opere di grandi artisti: Antonello da Messina, George de la Tour, Fabrizio Clerici, Ruggero Savinio, Caravaggio, Raffaello. Giungevano sempre dal mare i protagonisti dei romanzi di Consolo. Dal mare giunge il protagonista del suo primo grande successo, “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976). Cesare Segre fu il primo a intuire la specificità dell’invenzione linguistica consoliana. Lo studio di Segre era incentrato sull’eccentricità di quel giovane scrittore siciliano che non forniva al lettore nessuna indicazione didascalica. Il lettore attento di Consolo, aveva dunque fatto l’abitudine all’improvviso cambiamento di registro, all’enciclopedismo ipnotico della sua scrittura, alle scansioni ritmiche in battere e levare, ai capovolgimenti di fronte. Era una compitazione musicale da cuntista, quella dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Parole antiche che tracciavano l’ordito complesso delle sue pagine. Come accade per i grandi, per i classici, ogni successiva rilettura dei libri di Consolo disvelava una trama invisibile, texture impercettibili, un’architettura accennata, una raffinatezza impareggiabile, il recupero di una lingua extraletteraria, financo del dialetto. Il rinvenimento di memorie antiche, forme dialettali è stata la sua cifra stilistica controcorrente: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati”. Come ha scritto il critico Massimo Onofri, rileggere i libri di Consolo è come entrare a occhi chiusi in una miniera e uscirne, ogni volta, con un’insospettata nuova pietra preziosa. “Il Sorriso dell’ignoto marinaio” è stato il libro risolutore, non solo nel senso della rivelazione dell’autore. Un libro che, a distanza di anni, appare quanto mai attuale e urgente. Il protagonista è Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, un aristocratico siciliano ottocentesco. Vive un’esistenza di ordinaria beauté aristocratique, sconvolta dall’incontro con il rivoluzionario Giovanni Interdonato e dalle rivolte dei contadini. Accadimenti che gli imporranno di mettere cultura e ricchezze al servizio della causa risorgimentale. Nell’edizione parziale del romanzo (1975), Corrado Stajano salutava l’opera come: “Un nuovo Gattopardo, ma più sottile, più intenso”. Il critico Antonio Debenedetti scrisse un articolo dal titolo “L’ignoto Antigattopardo”.
Il
sorriso di Consolo il marinaio
Il falso ritratto che di lui si tratteggiava, quello di uno
scrittore scorbutico e irriverente, non corrispondeva all’immagine privata,
quella vera. Un uomo che appariva invece solare, ironico, dal sorriso ineffabile,
quello di un Vincenzo Consolo privato, insospettato, autoironico. Scherzava
spesso prendendo in giro la radice stessa del suo cognome: “Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia,
che significava eredità di ansime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene. O
dall’incrocio, di questo di Giudea o Samaria, con semierranti per venti
d’invasioni terremoti carestie, d’Arabia, Bisanzio Andalusia”. Come accade
per le grandi invenzioni della letteratura, Vincenzo Consolo, ha anticipato con
i suoi libri gli avvenimenti della storia di questa nazione infetta. Così come
è accaduto con il romanzo “Nottetempo, casa
per casa” (1992). Il libro, ambientato nei primi anni Venti del Novecento, racconta
dell’avvento del fascismo. I luoghi del romanzo sono quelli che vanno da Cefalù
a Palermo. Si narra delle vicende della famiglia Marano. In realtà tratteggia l’Italia
della fine degli anni Novanta, con l’avvento della destra violenta, l’insorgere
di nuove metafisiche, misticismi e sette misteriche. Milano, Cefalù e Palermo,
nella sua personale geografia letteraria compongono l’invisibile triangolo
della complessa scenografia linguistica di Consolo.
Odiosamata
Palermo
Palermo era, dopo Milano, l’altra città-tormento dello
scrittore siciliano. Come si fa con i grandi amori e le passioni insopprimibili,
all’odiosamata Palermo, Consolo ha riservato pagine di esaltazione e invettive
furibonde. Il suo snodo centrale era
l’Isola, la Sicilia il tema dominante di tutti i suoi libri: “Io non
so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e
girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno,
sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie
persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo
in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, unvolerla vedere e toccare prima che uno dei due
sparisca”. Consolo operava un distinguo ineludibile tra scrittore e
narratore. La sua scrittura sconfinava con rapide incursioni nella poesia, come
nella favola teatrale “Lunaria”. Il protagonista
è un viceré malinconico e misantropo, costretto a vivere in una città solare e
violenta di cui è l’unico a vedere la reale decadenza. Sogna la caduta della
luna. E la luna cade davvero, in una contrada del vicereame, gettando
scompiglio tra i contadini ma ancor più tra gli accademici chiamati a spiegare il
prodigio con la loro povera scienza. La poesia è legata anche a un grande
personaggio che compare tra le pagine del suo libro “Le pietre di Pantalica”, il barone magico Lucio Piccolo. Consolo
ricordava spesso l’immenso poeta aristocratico di Capo d’Orlando e i suoi versi
lunari: “Spento il rigore dei versetti a
poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende
al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco”.
Tragico
finale di partita
In una gelida Milano, Vincenzo Consolo lascia tutti orfani
della bellezza delle sue parole. Consolo il marinaio lascia libri straordinari,
un romanzo inedito al quale lavorava da anni che non sarà mai pubblicato, l’amata
moglie Caterina, l’inseparabile compagna: “A
Caterina devo tutto. Mi ha conferito coraggio, fiducia, serenità”. Un addio
crudele dunque. Ogni finale di partita è sempre tragico, solenne. Come accade all’Empedocle
consoliano tra le righe del testo teatrale Catarsi:
“Ánthropoi therés te
kai ichthúes”.
Concetto Prestifilippo
Centro di studi e iniziative culturali Pio la Torre Rivista: ASud’europa direttore Angelo Meli 16 gennaio 2022
«Il volto di un uomo misteriosamente invecchiato di
colpo. Questo è l’ultimo ricordo di Consolo che conservo nella memoria». Il
fotografo Giuseppe Leone, 85 anni, sta ultimando i preparativi per la mostra che
ha dedicato al celebre scrittore di Sant’Agata di Militello. In occasione del
decennale della scomparsa dell’autore di Retablo,
l’università di Catania rende omaggio alla memoria di Vincenzo Consolo con una
serie di eventi. La mostra di Giuseppe Leone si inaugurerà il 24 gennaio, alle
ore 17.00, nei locali del Centro universitario teatrale di palazzo Sangiuliano
a Catania. Il fotografo ragusano presenterà settanta ritratti, molti dei quali
inediti.
Quando
ha conosciuto Vincenzo Consolo?
«Nel 1980, ovviamente in contrada Noce, a casa di
Leonardo Sciascia a Racalmuto. Dico ovviamente, perché quel luogo raccolto,
modesto, lontano da ogni dove, è stato per anni l’ambasciata della cultura
siciliana. Tutti gli artisti che operavano in Sicilia finivano per incrociare
il loro cammino con la contrada Noce. Una mattina, mentre conversavo
placidamente con Sciascia, giunse un’autovettura con a bordo una signora e un
uomo. Vidi scendere e avanzare un uomo piccolo di statura. La prima impressione
fu quella di avere di fronte un funzionario di una qualche casa editrice.
Leonardo ci presentò e, nel corso del pranzo, ho avuto il piacere di scoprire
l’eleganza dell’eloquio di Consolo e la sua grande cultura. Rimanemmo tutti
incantati dalla sua personalità magnetica».
Come
si è evoluto il vostro rapporto di collaborazione?
«Il primo lavoro nacque da un’intuizione proprio di
Leonardo Sciascia. Il Sole 24 ore gli
aveva conferito l’incarico di curare cinque pubblicazioni dedicate alla
Sicilia. Affidò a me e a Vincenzo Consolo il volume sul barocco siciliano. Consolo
venne a trovarmi e ci inoltrammo in una lunga perlustrazione tra le città di
Ragusa, Noto e Palazzolo Acreide. Si instaurò subito una grande intesa che
presto maturò in una grande e lunga amicizia. Era un uomo che amava e apprezzava
la bellezza della vita in ogni sua forma. A dispetto dell’immagine stereotipata
che si ha di lui, non era affatto un uomo ombroso. Certo, aveva le sue asperità
e quando necessario attaccava a testa bassa, anche ferocemente. Ma era un
artista autentico. Trovammo subito un’intesa. Lui scrisse “Anarchia equilibrata” uno dei testi più intensi che abbiamo mai
accompagnato una mia pubblicazione. Nel corso degli anni, il rapporto di
collaborazione si intensificò. Pubblicammo subito dopo un libro dedicato a Cefalù,
la città che fa da naturale fondale a tre dei suoi più bei romanzi. Devo a lui
la scoperta di angoli misteriosi di quella città. La stessa cosa avvenne quando
decidemmo di pubblicare un libro fotografico dedicato ai Nebrodi, i luoghi dove
era nato. Anche in quel caso, gli devo la scoperta di feste religiose, spazi
sacrali, paesini affascinanti. Seguì poi un libro dedicato a Ortigia e
Siracusa, città che lui amava e dove aveva comprato casa. Con lui ho firmato
due dei libri più belli della mia produzione. Il primo, edito da Bompiani,
ancora una volta dedicato al barocco siciliano, grazie al coinvolgimento del
direttore editoriale Mario Andreose. Il secondo, decisamente un autentico
capolavoro fu “Sicilia teatro del mondo”, commissionato dalle edizioni Eri, con
un suo testo magistrale. Libro che è stato ripubblicato dalla casa editrice “Mimesis” proprio in occasione del
decennale della sua scomparsa. Ma in verità, il nostro ultimo lavoro insieme è
stata la copertina del suo ultimo libro, pubblicato postumo. La moglie,
Caterina Pilenga, mi chiamò dopo la sua scomparsa per scegliere l’immagine che
campeggia in copertina di “Al di qua del
faro” pubblicato da Mondadori».
Ci
racconta cosa c’è di vero della contrapposizione tra Consolo e Bufalino?
«Io li ho fotografati sorridenti e gioviali nella mia
foto più celebre, quella che li ritrae in compagnia di Leonardo Sciascia. Ma
diciamo la verità, senza infingimenti, tra i due non correva buon sangue. Erano
due uomini totalmente diversi, con due modi opposti di intendere il ruolo dello
scrittore. Senza partigianerie, bisogna riconoscere che Consolo ha incarnato,
coraggiosamente e per tutta la vita, la figura dell’intellettuale contro, non è
stato mai cortigiano. Una singolarità che ha duramente pagato, anche con la
continua esclusione. Se posso azzardare un confronto, onestamente, bisogna
riconoscere che il vero erede della scrittura civile e di impegno di Leonardo
Sciascia è stato proprio Vincenzo Consolo. Una figura di artista e
intellettuale contro che in Sicilia non abbiamo più. In questi anni è emersa
una schiera di narratori che sembra vogliano accontentarsi di intrattenere il
pubblico. Licenziano storie ben confezionate, pronte per essere consegnate alla
successiva riduzione televisiva. Producono libri gradevoli, materni, avvolgenti.
Mai però un impeto di denuncia civile come osava fare frequentemente Consolo
dalle pagine dei giornali. Ecco siamo passati da Consolo ai consolatori».
Il
suo ultimo ricordo?
«Pochi mesi prima della sua scomparsa a Ragusa Ibla. Era
stato invitato dagli studenti della facoltà di Lingue. Fu un incontro
misterioso. Appariva stanco. Ricordo l’ultimo scatto, guardava fisso l’obiettivo
con un’espressione di totale disillusione. Era il volto di un uomo che,
misteriosamente, era invecchiato di colpo».
Concetto Prestifilippo
La repubblica Sabato, 15 gennaio 2022 ediz. Palermo
Da ogni testo emerge il rigore della sua scrittura. “Su un’opera lavorava anche dieci anni”
Un tonnellaggio di carte, pressappoco. Tra epistolari, manoscritti e dattiloscritti, articoli per riviste e quotidiani, reportage, ricerche, bozze di stampa tormentate dalle correzioni, materiali di studio, soggetti, appunti di lavoro, documenti legati all’attività di lettore di professione, la rassegna stampa della critica nazionale e internazionale. Ecco servito, in sintesi, l’archivio di Vincenzo Consolo, sul quale si accendono i riflettori in occasione del decennale della morte del grande scrittore siciliano. Si intitola “Mese Consolo” il tributo reso dalla società di produzione Arapàn, dall’associazione “Amici di Vincenzo Consolo” e dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, al romanziere di Sant’Agata di Militello. Sono previsti più di dieci appuntamenti, spalmati tra il 21 gennaio e il 18 febbraio da Nord a Sud: incontri, conferenze, rappresentazioni, proiezioni, presentazioni di libri. Tra le sedi prescelte c’è proprio la Fondazione Mondadori, dove l’archivio dell’autore di “Lunaria” è custodito e che per tre anni, in realtà quando ancora aveva sede nell’abitazione dello scrittore, è stato compulsato forsennatamente da Gianni Turchetta, ordinario di Letteratura italiana contemporanea alla Statale di Milano. Dall’estate del 2011 alla fine dell’autunno del 2014 lo studioso e critico letterario ha passato al vaglio le carte di Consolo, in vista della realizzazione del Meridiano Mondadori, uscito poi l’anno successivo col titolo “L’opera completa”.
Proviamo a entrare, dunque, nell’officina dello scrittore, a varcare la soglia della sua stanza d’alchimia, assistiti da Turchetta appunto, massimo conoscitore di Consolo e oggi indiscusso sacerdote della sua memoria: “La valanga di materiale che l’archivio allinea – spiega l’italianista che di recente ha curato la ristampa del volume “La Sicilia passeggiata” con le foto di Giuseppe Leone – e che riguarda l’elaborazione dei suoi testi letterari ma pure i saggi, le conferenze, gli articoli giornalistici e gli epistolari, dà perfettamente la misura dell’entità dell’impegno di Consolo, della sua etica feroce della scrittura. Si tratta di un autore che ha tenuto insieme la vocazione sperimentale e l’impegno civile, occupando la scena del dibattito culturale e politico per un lungo periodo, intervenendo su questioni grosse, diciamo così, e di dettaglio. Dalla difesa di Sciascia, quando uscì il pezzo incriminato sui professionisti dell’antimafia, alla presa di posizione in merito a questioni che potevano riguardare il Teatro Biondo di Palermo, quando si dimise da presidente, come pure la gestione di un premio letterario”.
Stiamo parlando, infatti, di uno degli ultimi intellettuali italiani: spesso Consolo, alla maniera di Paul-Louis Courier, usava la penna come la spada. Una penna che quasi sempre incrudeliva sulla pagina: da “variantista” accanito quale era, lo scrittore tornava di continuo su una frase, su una parola, nel tentativo di trovare la quadratura stilistica del cerchio. “Attraverso le carte dell’archivio – spiega Turchetta – si può perfettamente cogliere in profondità la dedizione, la vocazione, la tensione che l’hanno animato. Era in grado di lavorare anche dieci anni di seguito su un’opera. Ma c’è di più: le carte del “Sorriso dell’ignoto marinaio”, ad esempio, ci conducono dalle parti di “Nottetempo casa per casa”. Voglio dire che le ricerche su Cefalù, svolte da Consolo per scrivere il romanzo che trae spunto dal ritratto di Antonello da Messina, confluiranno poi nel libro in cui compare la figura perturbante di Aleister Crowley. Dagli anni Sessanta dunque ai Novanta: tre decenni di vera e propria ossessione narrativa”.
Una volta lo stesso Consolo spiegò a Grazia Cherchi il suo modus operandi: le disse che elaborava una sola stesura, lavorando molto su un giro di frase, su una pagina. Scriveva a mano, trasferendo subito i brani o lacerti che gli sembravano definitivi sul foglio della sua vecchia Olivetti studio 44. In realtà, precisa Turchetta, le dinamiche della scrittura consoliana erano più complesse: “Ci sono dattiloscritti sui quali Consolo scriveva a mano, oppure su di essi attaccava a volte dei pezzi di carta che erano a loro volta riscritture a macchina di periodi interi. Ma non finiva qui: ogni tanto interveniva a penna sui pezzi di carta incollati. Riscriveva un periodo intero sul margine del foglio del dattiloscritto, anche cinque o sei volte. In certi casi cambiava un dettaglio, ma non si placava fino a quando non aggiustava il tiro a dovere. Poi tutto questo lo ricopiava di nuovo con la sua Olivetti.
Insomma, i dattiloscritti di Consolo sono veri e propri materiali di battaglia. In alcuni casi siamo in possesso di otto, nove versioni dattiloscritte. Da qui anche la difficoltà di ricostruire la cronologia interna delle opere. Ne viene fuori un lavoro portato avanti fino allo sfinimento, di grande attenzione e di grande concentrazione nel tempo”. Tra le tante carte dell’archivio spiccano pure gli epistolari, che testimoniano una vita di relazioni molto ricca: ci sono quelli più corposi con gli amici Basilio Reale, il poeta e psicoanalista di Capo d’Orlando che lo fece esordire, e Leonardo Sciascia (quest’ultimo scambio di missive è uscito nel 2019): due figure che hanno giocato un ruolo assai rilevante anche nella vita professionale di Consolo. Ma sono pure da segnalare i carteggi con Sebastiano Addamo, Ignazio Buttitta, Gesualdo Bufalino. Quelli con colleghi e amici: Fabrizio Clerici, Andrea Zanzotto, Roberto Cerati, il giovane Roberto Saviano, che Consolo accolse come un figlio a casa sua a Milano e col quale però poi entrò in rotta di collisione. C’è poi la corrispondenza con Corrado Stajano che ci riserva una sorpresa: il libro “Le pietre di Pantalica” era nato dall’adesione alla proposta di scrivere un reportage storico-giornalistico sul processo ai frati di Mazzarino, per una collana dedicata ai processi celebri diretta da Giulio Bollati e, appunto, da Corrado Stajano.
“Consolo – racconta Turchetta – firma il contratto per un lavoro storico e giornalistico. Ma poi la storia gli si dilata tra le mani e diventa qualcos’altro. La narrazione, infatti, avrebbe dovuto raccontare il periodo dello sbarco americano in Sicilia, nell’estate del 1943, le lotte contadine per la proprietà delle terre. Ma anche questo progetto venne poi nuovamente riorganizzato. Stajano si scoccia e lo minaccia in un certo senso, intimandogli di pagare una penale”.
Non c’è traccia cartacea, invece, del famigerato romanzo pornografico che Consolo, con uno pseudonimo, pubblicò in vita: “Si sa qual era l’editore.
Vincenzo si divertì moltissimo a scriverlo, l’avevano pure pagato bene. Ogni tanto leggeva con grande spasso pagine di questo romanzo, la sera, a qualche amico e alla moglie Caterina”.
La lingua, espressionistica e fisica. Lo sguardo, tagliente e ironico. Soprattutto, la vita della sua Isola. A dieci anni dalla morte, resta colui che più intensamente ne ha descritto mistero, fascino e violenza10 GENNAIO 2022
Credo che Vincenzo Consolo richieda oggi un’attenzione ben maggiore di quella che viene accordata ad altri di lui molto meno rilevanti: tra gli scrittori siciliani contemporanei Consolo è quello che più intensamente fa percepire e quasi toccare il corpo vivo della sua terra, il suo ambiente e la sua storia, la sua bellezza e la sua violenza, il suo fascino e il suo colpevole degrado.
LUNARIA LUNEDÌ 5 LUGLIO ORE 21.15 PIAZZA SAN MATTEO GENOVA di Vincenzo Consolo con Pietro Montandon tecnico luci e fonica Luca Nasciuti costumi Maria Angela Cerruti scene Giorgio Panni Giacomo Rigalza regia Daniela Ardini
Lunaria Teatro Genova Uno dei testi più ricchi di suggestione della drammaturgia contemporanea e insieme un capolavoro della letteratura del Novecento. Questo è Lunaria, favola scritta da Vincenzo Consolo, vincitrice nel 1985 del Premio Pirandello, realizzata in prima nazionale da Daniela Ardini e Giorgio Panni nel 1986 e successivamente realizzata in molte versioni in Italia e all’estero. La storia. In una Palermo di fine Settecento, una mattina il Viceré si sveglia madido e tremante: ha sognato che la Luna è caduta dal cielo e, una volta raggiunto il terreno, si è spenta, lasciando nel cielo un buco nero. La giornata del Viceré prosegue nella sala delle udienze dove arriva Messer Lunato, uno strambo viaggiatore in mongolfiera. A conclusione dell’udienza i ministri srotolano una mappa sulla quale sono indicati i possedimenti vicereali sul quale il Viceré fa scorrere il suo scettro che inspiegabilmente si impunta su una estrema Contrada senza nome. A questo punto la scena si apre sulla Contrada senza nome, dove alcuni villani guardano sorpresi la Luna che sta per sorgere e che appare insolitamente grande e colorata di rosso scarlatto. Dopo un po’ la Luna ritorna ad essere bianca e luminosa, ma comincia a creparsi e falde di luna cominciano a piovere a terra. Un Caporale ubriaco intima ai villani di raccogliere i cocci di Luna e di metterli in una giara, quindi ordina ad uno di loro, Mondo, di andare dal Viceré per riferire l’accaduto e chiedere istruzioni sul da farsi. La scena torna quindi a Palazzo Reale, dove è riunita l’Accademia dei Platoni Redivivi per disputare circa la malattia, lo sfaldamento e la conseguente caduta sub specie pluviae della Luna. Tra loro arriva Mondo che racconta l’accaduto, portando con se una falda di Luna come prova. Posto il coccio in uno scrigno, Mondo viene congedato e ciascuno degli accademici esprime la propria opinione sull’accaduto. Finita la disputa, nell’Accademia deserta dalle ante di un armadio esce il Teatro delle Bizzarrie: geni, fate, folletti, astri, pianeti, allegorie; quindi i personaggi fantastici spariscono a mano a mano, lasciando solo la Luna. Nell’epilogo si torna nuovamente nella Contrada senza nome, dove uomini e donne vestiti di nero seppelliscono i resti della Luna nella fontana e, di li a poco, assistono alla ricomparsa in cielo della Luna che, pero, tra i due corni della falce mostra una macchia nera. Giunge allora il Caporale il quale, deluso di ritrovare la Luna al proprio posto, inveisce contro i villani; viene pero interrotto dal sopraggiungere del Viceré, il quale sale una scala a pioli e incastra nella Luna il pezzo mancante, decretando che da allora in poi la Contrada senza nome si chiamerà “Lunaria”. La lingua e lo stile. Dal punto di vista linguistico Lunaria accosta stili diversi: dal narrativo al dialogico, dal lirico-poetico al linguaggio scientifico o pseudo scientifico degli usato dagli Accademici. Inoltre Lunaria, pur nella sua brevità, si configura come un crogiolo di lingue e dialetti. Sono facilmente riconoscibili l’uso dell’italiano nei suoi diversi registri: da quello accademico-scientifico, a quello visionario, mimetico, letterario, lirico, popolare; l’uso del siciliano, del dialetto gallo-italico, dello spagnolo di Dona Sol e degli inquisitori, del latino nonché di latinismi vari. Il Viceré e ricorre saltuariamente a tutti questi idiomi, compreso il dialetto gallo- romanzo, ossia il sanfratellano, tanto che a Mondo risponde parlando nella sua stessa lingua. Interi brani di poesia e versi “nascosti” compaiono in Lunaria. Lo stile si avvicina alla poesia come mai prima era avvenuto: il testo pullula di anafore, allitterazioni, rime interne. Si assiste cosi a una sorta di tendenza mimetica per cui al tema dell’intima necessita per il mondo della poesia (simboleggiata dalla Luna) corrisponde uno stile che si fa poesia. Il linguaggio si presenta talvolta oracolare, la forma espressiva risulta nervosa, essenziale: la parola si fa incantatrice e trascina il lettore nella “poesia” della vita. La critica letteraria. Cosi Cesare Segre: “Uno dei lavori più mirabili di Consolo, Lunaria (1985). In esso c’è un abbandono pieno all’invenzione. Invenzione tematica e invenzione formale. Il libro non è certo un romanzo, ma appartiene piuttosto a un “genere che non esiste”, a un conato di teatralità divertita fra entremes alla spagnola e teatrino delle marionette. Si sa che molta dell’elaborazione di Consolo è “letteratura sulla letteratura”. Ebbene, in Lunaria la falsariga è costituita da un racconto di Lucio Piccolo, L’esequie della luna(1967), con cui Consolo si pone felicemente in gara, non dimenticando naturalmente Leopardi. Voglio evocare un aneddoto sintomatico. Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procuro la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore”. La regia. Lunaria è sempre una favola, la favola della luna, che vuole far sognare il pubblico affascinato da sempre dall’astro poetico. Per Consolo la sua caduta “rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo”, poesia che è invece illusione necessaria contro la precarietà della storia e della vita (Scende la luna; e si scolora il mondo, aveva scritto Leopardi ne Il tramonto della Luna).La regia di questo allestimento punta a riportare Lunaria ad alcune delle sue matrici originarie: il cunto e l’opera dei pupi. La tradizione infatti in Consolo si mescola arditamente all’elaborazione poetica e all’artificio letterario. Un solo attore, Pietro Montandon, da voce e gesto a tutti i personaggi, partendo dall’essere in primo luogo il narratore-cuntista dell’opera. Un baule da teatro, un leggio e un praticabile palcoscenico su cui si “interpretano” i vari personaggi e la storia, citano insieme narrazione e teatro. Consolo stesso asseriva che “le didascalie, pur conservando in qualche modo la loro funzione di indicazione mimetica e ambientale, vogliono assumere anche dignità di testo, sono insomma didascalie che ambiscono ad essere recitate da un eventuale personaggio (il Narratore)”. Montandon prende per mano il suo pubblico e lo guida con ironia, ma anche con mano ferma e mente fredda nei meandri non sempre facili dell’opera di Consolo, facendolo assistere ad un gioco letterario, ma anche teatrale, che diverte con l’astrusità dei vari linguaggi, il paradosso di alcune situazioni (l’Accademia dei Platoni Redivivi che cercano di dare “spiegazione” alla caduta della luna), l’ironia di alcuni personaggi (Messer Lunato, Cerusici, Dona Sol, e altri), da emozioni con il linguaggio poetico del Viceré e la versificazione dei Villani e delle Villanelle, ultimi baluardi di un mondo dove rimane ancora la poesia. La scenografia disegna in modo astratto la corte del Viceré di Sicilia e la contrada senza nome. Il gioco musicale è arricchito da effetti sonori sulle tante voci di Montandon. L’attore PIETRO MONTANDON per lunghi anni interprete nella compagnia Mummenshanz, con Lunaria Teatro straordinario interprete di Maruzza Musumeci di Andrea Camilleri e de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. www.lunariateatro.it info@lunariateatro.it
Questa è una serata nobile. Nobile perché è assolutamente gratuita, fatta non tanto in omaggio a me, quanto in omaggio della memoria. Lo scrittore infatti è un custode di memoria.
Molte volte, ad esempio, ci si è chiesti che cosa
significhi la parola Omero. La parola “omeros”, nel greco antico, si
traduce in italiano con la parola “ostaggio”.
E ci si è chiesti il perché di questo significato.
Ostaggio di chi?
Ebbene il poeta, quello che noi chiamiamo Omero,
naturalmente è ostaggio della memoria, della tradizione.
LO SCRITTORE E’ PORTATORE DI
MEMORIA
Tutti gli scrittori dovrebbero essere ostaggi della memoria;
i veri scrittori cioè sono coloro che assolvono al compito di tramandare una
memoria, che è poi memoria collettiva e realtà storica; coloro che esprimono,
secondo la propria sensibilità e le proprie idee, una testimonianza della
memoria, per tramandarla ai loro contemporanei e, se possibile, anche ai posteri.
Un custode di memoria ha l’obbligo di conservarla e di
servirla.
Coloro che scrivono senza essere
portatori di memoria appartengono a un’altra area, quella
del1a comunicazione.
I sapientissimi Greci dissero che Mnemosyne era la madre
delle Muse, e da lei derivano le altre arti: la Poesia e anche la Musica. Quindi
dopo aver ascoltato questa bellissima musica, posso solo dire delle parole
raccontare, narrare, secondo la mia inclinazione e il mio mestiere.
PAESTUM E NAPOLI:
LA BELLEZZA DEL PAESAGGIO
Vorrei partire da Goethe, e raccontare un aneddoto: Egli
si trova a Napoli durante il suo viaggio in Italia e vuole andare a visitare
Paestum. Ci va insieme a un suo amico pittore, che lo accompagna durante il viaggio
che, vero fotografo dell’epoca, ha il compito di prendere degli appunti, da
trasformare poi in incisioni e quindi in illustrazioni a corredo del libro sul
viaggio in Italia.
Arrivano a Paestum con un barroccio, che portava a
cassetta il barrocciaio con un suo nipote, un ragazzotto. Durante il ritorno,
alla vista di Napoli il fanciullo comincia a gridare in modo sconsiderato. I
due viaggiatori se ne preoccupano e gli chiedono: – Cosa hai da urlare? –
Il ragazzotto risponde nel modo più candido e più
allegro: – E’ il mio Paese. Non vedete
Signurì? Quello è il mio Paese. Guardate quant’è bello! –
Questo è un episodio straordinario, perché il ragazzino,
cresciuto tra tanta bellezza com’era allora il golfo di Napoli, avendo visitato
con quegli illustri personaggi la città di Paestum, si accorge che anche il suo
Paese è bello. E quindi gioisce e lo vuole mostrare ai viaggiatori: non c’è
solo Paestum, m a c’è anche Napoli.
E’ un episodio significativo anche nel senso che i viaggiatori
stranieri sono quelli che ci hanno fatto vedere l ‘ “invisibile”.
ITALIA TERRA PRIVILEGIATA
Noi Italiani, da sempre siamo fortunati, perché siamo
nati in una terra estremamente ricca e bella, dal punto di vista storico e da
quello naturale.
Però, vivendo tra tanta bellezza, abbiamo finito per non
vederla più, e sono stati quei viaggiatori, a partire da Montaigne nel ‘500,
per arrivare sino agli ultimi viaggiatori dell’ ‘800 (i nomi sono tantissimi),
che ci hanno fatto scoprire il nostro Paese. Ci hanno fatto vedere quale
preziosa eredità noi avevamo ricevuto dai nostri antenati.
Ci sono pagine di viaggiatori stranieri straordinarie, notazioni
interessanti su questa bellissima Italia.
E’ stato Moravia, grande conoscitore di Paesi ad avere
tracciato una sorta di classifica dei Paesi più belli del mondo. Lui diceva che
i Paesi sono belli quando alla natura uniscono anche la cultura. Allora al primo
posto, naturalmente, metteva l ‘Italia, al secondo, se non vado errato, il
Messico, al terzo la Spagna, al quarto la Grecia, e così via.
Quindi il nostro Paese era straordinariamente
“donato”, “munificato”.
LA SICILIA TERRA DI BELLEZZA E DI
CIVILTÀ
E la Sicilia, già in epoca preistorica, era di
eccezionale bellezza. Poi è stata arricchita da tutte le civiltà, che qui sono
passate per conquistare l ‘isola, m a anche per lasciare i segni della loro
cultura.
Ci sono stati si grandi predatori, come i Romani, ma
anche loro hanno lasciato qualcosa. I Bizantini, oppure, andando indietro, i
Fenici, i Greci. Poi la civiltà musulmana.
Sciascia dice che il modo di essere dei Siciliani, l
‘identità della Sicilia, incomincia proprio con la civilizzazione araba. Quindi
da quel momento, possiamo dirci Siciliani, dopo cioè le ruberie dei Romani e il
depauperamento bizantino.
Con gli Arabi
l’isola impoverita ha conosciuto un grande
rinascimento, durante il quale si è avuto il miracolo dei
sincretismi di religione, di cultura, di lingua.
Palermo, nel primo periodo normanno di Guglielmo il
Buono, era diventata una delle terre emblematiche, dove le varie civiltà, le
varie religioni, le varie lingue convivevano in una splendida armonia, in uno
scambio di cultura e di dono reciproco. Perciò Palermo era diventata forse la
città più bella, competeva con Cordova in Spagna, ed era una città di grandi
commerci, di grandi industrie, anche di grandi traffici. Essa era la tappa
obbligata per tutti i Musulmani andalusi, che dovevano fare il pellegrinaggio
alla Mecca.
C’erano a Palermo trecento moschee, c’erano altrettante
giudecche, perché vi era anche l ‘elemento ebraico, accanto alle popolazioni
più varie. C’erano barbari, spagnoli, africani, tutti con le loro usanze. Ma
tutto questo si era amalgamato e aveva formato una grande civiltà.
In più c’era lo sfondo di quella meravigliosa valle in cui
era stata costruita Palermo, che i Fenici chiamarono “Ziz” (fiore).
LA CONCA D’ORO
E’ un luogo a ridosso di una catena di montagne che lo
preserva dai venti africani, e che si stende sul mare in un clima di
eccezionale mitezza, che ha permesso il formarsi di quella famosa plaga che si
chiama la “Conca d’Oro”.
Qui furono costruiti quei meravigliosi gioielli che furono le ville, prima dei Mussulmani e poi dei Normanni. Le Ville di “delizie” come la grande Cuba, la piccola Cuba, la Zisa, la Favara, che erano tutti luoghi di villeggiatura.
Palermo era il simbolo di quello che è stata la Sicilia
fino a non molti anni fa. Era una delle terre più belle della terra più bella
del mondo, che era l ‘Italia.
LE CAUSE DELL’ ODIERNO DEGRADO
Questa terra hanno finito per distruggerla. Benché noi
abbiamo imparato dai viaggiatori stranieri a vedere l ‘invisibile e ad
apprezzare questo luogo, questa dimora vitale, tuttavia ci siamo comportati
anche come altri stranieri, che non erano più intellettuali, ma conquistatori
che depredavano e portavano via. Si pensi alle depredazioni che hanno fatto i
Tedeschi, gli Inglesi, i Francesi in Egitto o in Grecia. Tutto quello che hanno
portato nelle loro nazioni, depauperando queste terre di testimonianze della
loro civiltà e di grandi monumenti.
Ecco, noi ci siamo trasformati nella nostra terra in
predatori.
La ricchezza che avevamo abbiamo finito per rapinarla, a
volte anche per trasferirla altrove, come certi quadri, o certe colonne, e a
volte perfino semplicemente per distruggerla sconsideratamente.
Hanno distrutto l’ambiente, hanno distrutto i monumenti.
Tutto questo è avvenuto durante la guerra, con i bombardamenti,
ed è continuato nel dopoguerra, ma io credo che la distruzione principale è
avvenuta negli anni ’50 – ’60, con il cosiddetto miracolo economico, quando si
cominciò a ricostruire e si costruì nel modo più anarchico e più insensato,
senza alcun rispetto per l’ambiente in cui le nuove costruzioni nascevano.
Giustissima la ricostruzione, però è stata fatta nel modo
più avvilente e di conseguenza è stato distrutto quello che costituiva la
“bellezza”.
LA BELLEZZA COME CATEGORIA ETICA
La bellezza non è una categoria estetica, bensì morale. Non
è
bello cioè quello che appaga soltanto il nostro senso estetico,
ma è bello quello che soprattutto appaga anche la nostra anima.
Pirandello diceva che noi siamo quello che vediamo nei
primi anni della nostra vita. Se abbiamo avuto la fortuna di vedere luoghi
belli, io credo che la nostra crescita, il nostro sviluppo morale ed
intellettuale sarà diverso da quello di un bambino che nasce in un luogo con un
orizzonte devastato, orrendo e brutto.
Questi segni esterni fatalmente si proiettano nel nostro
interno e uccidono la nostra memoria.
Ci sono tantissimi scrittori che hanno parlato appunto
della bellezza come moralità, ma c’è soprattutto uno scrittore che voglio
ricordare particolarmente, che è Vittorini.
L’UTOPIA D I VITTORINI
Vittorini, nel libro
postumo che si intitola “Le città del mondo”, fa equivalere la
bellezza all’armonia sociale, intesa come base della democrazia, dove ognuno ha
rispetto dell’altro. Ne libro parla del viaggio che fanno alcune coppie di una
Sicilia in movimento, quando sembrava che l ‘isola dovesse togliersi di dosso
quella condanna del fato, di memoria verghiana. Vittorini, che era un
“antiverghiano” e che pensava che la Sicilia dovesse scuotersi da
questa condanna del destino e che dovesse prendere un atteggiamento attivo nei
confronti della storia, scrive questo libro alla fine degli anni ’50 (senza
riuscire a finirlo), dove c’è una Sicilia che parte per diversi itinerari di
vita. C’è ad esempio una ragazza che scappa da Milazzo, dei ragazzini che
scappano dalle Madonie, e partono senza una meta precisa, comunque
rappresentando una Sicilia che non sta pili seduta all’ombra a sonnecchiare, ma
è una Sicilia in attesa di un evento straordinario.
In quegli anni era stato scoperto il petrolio e s’erano
accese tante speranze. Vittorini aveva visto da vicino l’esperienza olivettiana,
di quel grande industriale e insieme sociologo, Adriano Olivetti, imprenditore
illuminato, che aveva creato un’industria a misura d ‘uomo. Vittorini s’era
entusiasmato di questa idea, che sembrava realizzare un sogno straordinario e
quindi aveva pensato che in Sicilia potesse avvenire qualcosa di simile. Che
cioè si sarebbe potuto lasciare alle spalle il vecchio mondo contadino, di
rassegnazione, di pena, d’ignoranza, di malattie, e finalmente con la
industrializzazione si potesse fare diventare il Siciliano protagonista della
storia.
Ma senza l
‘avvilimento, senza quella schiavitù che di solito l’industria comporta nei
confronti dei lavoratori. Lo sfruttamento, l’alienazione, quello che aveva
analizzato un signore, che Tomasi di Lampedusa chiama: “un ebreuccio di cui non ricordo il nome”, e che noi
invece ricordiamo benissimo e si chiama Carlo Marx.
Vittorini pensava nella sua utopia che ci potesse essere,
al di là del conflitto tra capitale e lavoro, un tipo di industria illuminata, dove
l ‘operaio, il bracciante, il lavoratore non venisse oppresso e non venisse
sfruttato. Utopia che si è infranta contro gli scogli della storia.
IL SICILIANO PROTAGONISTA DELLA
STORIA
Questa immagine vittoriniana di una Sicilia che rinasce,
di quella che Lui chiamò la Lombardia siciliana, lo portò a disegnare una sua
geografia lombarda in terra di Sicilia, rifacendosi appunto agli eredi degli
antichi insediamenti lombardi qui in Sicilia.
Parlava dei paesi di lingua lombarda, come San Fratello, Nicosia, Aidone,
comunità che si formarono con la conquista dei Normanni dopo la dominazione
araba.
Egli diceva che le città belle, come Caltagirone, come
Noto, creano armonia sociale, creano fantasia e mettono l’uomo in un
atteggiamento attivo e non più passivo nei confronti della storia. L’uomo deve
diventare protagonista.
Ora l ‘utopia economicista o politica di Vittorini io credo
che si sia infranta completamente, visti i risultati delle esperienze del
petrolio a Gela o ad Augusta. Resiste invece la sua idea dei luoghi belli che formano
l’uomo, lo migliorano e lo arricchiscono, mentre i luoghi brutti mortificano l
‘uomo, lo portano verso la malinconia, la depressione e a volte anche verso una
ribellione sconsiderata ed irrazionale, che degenera nella violenza.
LA DENUNZIA DELLE DISTRUZ IONI
La storia siciliana degli ultimi cinquant’anni di distruzione
dissennata ha avuto inizio con l ‘abbandono delle campagne e la trasformazione
dei nostri paesini e delle nostre città. Allora vi sono stati uomini che hanno
cominciato a denunciare queste perdite, non tanto come distruzioni materiali,
quanto per i riflessi morali e sociali che determinavano sulle persone e sulle
popolazioni.
Voglio ricordare Antonio Cederna, un urbanista che per
anni cd anni è stato un a voce clamante nel deserto, inascoltata, che ha
parlato e ha scritto prima sulle pagine de “Il Mondo”, poi su quelle
di “Repubblica”, delle devastazioni, dei gravi stupri (mi si perdoni
la parola forte), che avvenivano sul territorio del nostro Paese.
Voglio ricordare un poeta come Pasolini, che con le sue
bellissime metafore, come “La scomparsa delle lucciole”, voleva
simbolicamente segnalare questo mutamento nella Società.
Voglio ricordare un poeta come Andrea Zanzotto, che
lamentava l’”avvelenamento” dell’Eden veneto dove lui abitava, quando
i contadini hanno iniziato a mischiare veleni chimici alle sementi introducendo
una terribile alterazione ecologica.
Poi anche uno scrittore come Guido Ceronetti, che ha
scritto due libri che sono un po’ la continuazione del libro di Guido Piovene
“Viaggio in Italia”.
Però al tempo di Piovene, come al tempo del viaggio di un
altro scrittore, Riccardo Bacchelli (narrato in “Lo sa il tonno”),
ancora le perdite e le distruzioni non erano avvenute, e quindi loro scoprivano
soltanto le bellezze dei luoghi che vedevano per la prima volta.
Pensiamo ai luoghi più belli e più simbolici del cuore d ‘Italia,
quelli che pochi giorni fa hanno subito nell’Umbria e nelle Marche un terremoto
catastrofico. Pensiamo ai luoghi che abbiamo perso, alle ferite arrecate a
monumenti come la Basilica di S. Francesco, che sono delle ferite emblematiche
che in un certo senso ci dicono del nostro continuo scadimento.
In questo caso è stata la natura a determinare la distruzione,
ma in altri casi sono gli uomini ad apportare queste ferite.
Torniamo a Ceronetti che, con il precedente di Piovene,
ha scritto due libri, uno intitolato “Un viaggio in Italia” e l
‘altro “Albergo Italia”.
QUANDO LA DENUNZIA E’ REAZIONARIA
Ceronetti è un uomo singolare, di vastissima cultura, che
conosce l’ebraico, ma è un uomo che pensa che la soluzione per questo mondo di
oggi non sia altro che l’apocalisse, che finalmente potrà cancellare tutto per
ricominciare daccapo.
Egli compie il suo viaggio in Italia partendo dal veneto,
Torino, Milano, Roma, arrivando anche nei paesi più sperduti, sino in Sicilia,
dove visita Siracusa, Acitrezza, Noto, Palermo. In termini molto violenti, da
invettiva, registra le brutture che incontra, ma il suo discorso, proprio per
le sue concezioni così radicali ed apocalittiche, così tese ad aspirazione
metafisica, a volte diventa reazionario.
Io credo che quando si denunziano i mali della Società,
pur nell’invettiva, occorre sempre affermare che tutto si può rimediare, perché
la storia la fanno gli uomini e non c’è bisogno di aspettare l’azzeramento
totale, che postula pure l ‘offesa della vita.
Ceronetti arriva anche a declinare temi razzistici. C’è
una descrizione nel suo viaggio dell’incontro che ha in treno con un gruppo di
emigrati arabi. Li guarda, devo dire, con molto disprezzo. Arriva a usare
espressioni razzistiche quando afferma che dove loro passano infettano tutto,
rovinano e degradano tutto, dando la colpa a questo estraneo che viene nel
nostro contesto e sembra essere la causa prima del nostro degrado.
IL MIRACOLO ECONOMICO
E L’ORIGINE DELLO SVILUPPO
DISTORTO
In Ceronetti c’è un punto di vista discutibile. Lo
scrittore infatti viene da Torino e scrive sulla “Stampa”, che è di
proprietà del Sig. Agnelli. Nei suoi libri non mette mai in discussione queste
matrici prime dei mali italiani. Insomma, questo Paese è stato disegnato su
misura per le automobili e tutto il resto è avvenuto di conseguenza. Una certa
industrializzazione ha portato lavoro, è vero, ma non si è mai studiato se
potevano esserci delle altre dimensioni e direzioni dello sviluppo.
Con il miracolo
economico italiano si è distrutto quella che era la cultura contadina e si è
puntato solo sulla industrializzazione. Questo intendo quando affermo che il Paese
è stato disegnato su misura per l ‘industria FIAT, con tutto il processo di
emigrazione interna e di spostamento, che hanno chiamato “esodo”, di
masse di braccianti meridionali verso il nord. Ne è scaturito un processo massiccio
di inurbamento con costruzioni caotiche, veloci, repentine, per dare alloggi
nelle periferie delle città industriali. Anonime, atroci, definite dormitori, che
sono luoghi senza anima.
DEGRADO AMBIENTALE E DECADIMENTO
MORALE
E’ inutile meravigliarsi se in simili luoghi i giovani
possono avere problemi di ordine psichico, se possono scegliere di uccidersi
con una iniezione procurata dai trafficanti di droga, o di compiere atti
irrazionali e violenti.
L’ambiente degradato porta alla distruzione dell’uomo,
porta al degrado morale.
Per finire questa mia conversazione un po’ vagante di qua
e di là,
voglio leggere un pensiero di un famoso etologo, Konrad
Lorenz, contenuto negli “Otto peccati capitali della nostra civiltà“:.. Il senso estetico e quello morale
sono evidentemente strettamente collegati,
e gli uomini che sono costretti a vivere nelle condizioni sopra descritte vanno
chiaramente incontro all’atrofia di entrambi. Sia la bellezza della natura sia
quella dell’ambiente culturale, creato dall’uomo, sono manifestamente
necessarie per mantenere l’uomo psichicamente e spiritualmente sano. La totale
cecità psichica di fronte alla bellezza in tutte le sue forme, che oggi dilaga ovunque
così rapidamente, costituisce una malattia mentale che non va sottovalutata, se
non altro, perché va di pari passo verso tutto ciò che è moralmente
condannabile. “
Se noi perdiamo la nostra sensibilità verso la bellezza
perdiamo anche la sensibilità verso tutto quanto è orrore e azione ingiusta
dell’uomo, la violenza, l’ingiustizia, perdiamo la capacità di reagire contro
le offese arrecate alla civiltà stessa.
PER LA DIFESA DELLA BELLEZZA
Volevo ricordare un ‘iniziativa che, a un certo momento,
ho deciso di prendere insieme ad altri tre intellettuali, come il sen. dei
Verdi Luigi Manconi, la poetessa Viviane Lamarque e il giornalista Vittorio
Emiliani.
Ci siamo fatti promotori della difesa della bellezza, o
di quello che rimane della bellezza in questo Paese, invitando altri
intellettuali ad aderire. Subito hanno aderito cento altri intellettuali
italiani, per cercare di salvare la bellezza residua della nostra terra.
Ho cercato di spiegare il valore della bellezza, che non
è un fatto estetico, ma un fatto etico ed è anche un debito di eredità verso le
generazioni che verranno. Si è incominciato a fare qualcosa, ci siamo riuniti
la prima volta a Roma, si sta scrivendo un programma, si dovranno scegliere tre
monumenti emblematici dell’Italia settentrionale, dell’Italia centrale e
dell’Italia meridionale.
Ognuno di noi dovrà perorare la causa di un monumento
storico.
Per quanto mi riguarda ho scelto Noto, che è un paese che
sta crollando. Non è crollata solo la cupola della cattedrale, ma sta crollando
l’intero paese, pur essendo sotto la protezione dell’UNESCO. Finora non si è
fatto niente, sono stati messi soltanto tubi Innocenti a puntellare i monumenti.
Se Noto crollasse sparirebbe uno dei segni, non solo
artistici, ma anche storici di quella che era stata la progettazione ex novo di
quella insigne città.
PER IL RECUPERO DEI LUOGHI BELLI
I primi segni di ripresa
di un percorso valido si sono avuti da parte del Governo italiano e da parte
delle Amministrazioni comunali, con la demolizione di due mostri che erano
stati costruiti: uno al la periferia di Napoli che chiamano “Le Vele”
e poi un albergo abusivo sulla costa amalfitana.
Dunque ci sono già i segni del ripristino. Siamo stati
depauperati del paesaggio. Adesso è ora che si distruggano quei mostri, draghi
che bisogna abbattere.
Spero che si possa andare avanti in questo progetto di
eliminazione di orrori, per rendere più vivibile questo nostro paesaggio,
questo nostro ambiente.
Cercare di far rinascere la Conca d ‘Oro, cercare di far
rinascere la Piana di Milazzo, per quanto compatibilmente oggi si possa fare,
cercare di recuperare dei beni che c’erano e che abbiamo perduto.
Credo che questo sia compito di noi oggi riuniti in
questo scorcio del secondo millennio, e faccio questo augurio a mc stesso, di
poter vedere il paesaggio in qualche modo ricompensato, e a noi stessi di
essere in qualche modo ricompensati delle terribili perdite che abbiamo
sofferto.
SIAMO FIGLI DELLA CULTURA
La Legambiente è nata con questo scopo per la salvaguardia
del mondo, della natura e anche dei monumenti. I suoi aderenti sono un poco
come dei soldati che si impegnano contro i tentativi di perpetuare le offese.
Considero questa bella serata come omaggio a Omero, poeta
della memoria. Ho avuto la sorte di vivere a cavallo tra la civiltà contadina e
la civiltà industriale, che ho visto nascere, e poi tra due luoghi estremi come
la Sicilia e Milano, sono stato testimone di una grande trasformazione e quindi
ho cercato di conservare la mia memoria e di trasferirla agli altri che mi
leggono o mi leggeranno.
Reputo questo omaggio a me, come un omaggio alla memoria e
ai suoi custodi, siano essi scrittori, musicisti, o chiunque non abbia il vuoto
dietro le spalle.
Noi non siamo figli di nessuno. Noi siamo figli della
Cultura e ci portiamo dentro dei segni. Cerchiamo dunque di non farci cancellare questi segni dai barbari, dagli
imbecilli o dai violenti.