L’IGNOTO ANTIGATTOPARDO

“Mese Consolo”, una serie di eventi per celebrare i dieci
anni dalla scomparsa dello scrittore Vincenzo Consolo

Sbeffeggiando chi lo accusava di essere anacronistico, con un sorriso sardonico, rispondeva che era anche anacreatico. Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, uno dei più grandi scrittori del Novecento italiano. Era un gelido pomeriggio milanese del 21 gennaio 2012. L’anniversario sarà ricordato nel corso di un intenso “Mese Consolo”, una serie di eventi curati da Ludovica Tortora de Falco, regista nel 2008 del film “L’isola in me, in viaggio con Vincenzo Consolo”. Manifestazioni che si snoderanno dalla Sicilia a Milano in collaborazione con la “Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori”. Vincenzo Consolo, per tutta la vita, ha difeso, custodito, una lingua feriale che non esisteva più, conferendo incessantemente asilo alle parole espunte dall’imperante linguaggio televisivo plastificato.Ma ad un certo punto della sua carriera è come se l’autore di “Retablo” avesse avvertito la fatale stanchezza della parola.

“Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una lingua diversa, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio”. Così scriveva Vincenzo Consolo ne “Lo Spasimo di Palermo” (1998). La riflessione maturata tra le pagine del romanzo era affidata al protagonista, Gioacchino Martinez, scrittore di libri difficili, fratti, complessi. Il protagonista, invecchiando, si sentiva uno sconfitto, un vinto verghiano. Si interrogava sul significato, sull’efficacia del suo lavoro, sulla funzione della letteratura. Vincenzo Consolo raccontava spesso del triste finale di partita scelto da Giovanni Verga, l’afasia, il suicidio del narratore. Il grande scrittore catanese, abbandonata Milano, fece ritorno in Sicilia e decise di non scrivere più. Il rimando all’autore de “I Malavoglia”, alla sua scelta estrema, Consolo lo aveva affidato al suo duale letterario Martinez. Il silenzio, come già per l’Empedocle di un altro suo testo, “Catarsi”.

Scrittore eccentrico e irregolare.

Consolo aveva dunque deciso per la progressiva ritrazione. Disubbidienza e continua sottrazione che lo avevano sempre caratterizzato. Non aveva mai ceduto alle lusinghe dell’esposizione televisiva. Non aveva mai accettato di affollare talk-show, librerie e classifiche. Le scansioni temporali che separano le uscite dei suoi libri non attengono ai continui singulti nevrotici dell’industria letteraria. Consolo era un irregolare, non era irreggimentabile, era un eccentrico. Non gli hanno perdonato la sistematica diserzione delle adunate, delle parate. Un conto che ha pagato caro a Milano e anche in Sicilia. “È siciliano, non scrive in italiano. È barocco. È oscuro. È pesante come una cassata. Le sue narrazioni non sono filanti: ma chi si crede di essere, ma come si permette?”.  Era questo il paradigma declinato dai suoi detrattori. Erano tanti i suoi nemici: cardinali della letteratura italiana, maggiordomi untuosi di consorterie politiche, raccontatori a cottimo delle gazzette di palazzo, maestri di inenarrabili gilde e di buie consorterie. Avevano ragione a detestarlo, perché a ognuno di loro aveva dedicato parole di disprezzo ineguagliabili. Vincenzo Consolo era un impertinente, irriguardoso, sprezzante, fiero, severo e inflessibile. “Credo che uno scrittore debba essere comunque contro, scomodo. Se un intellettuale non è critico, diventa cortigiano. È stato così per Vittorini, per Pasolini e per Sciascia, intellettuali contro che il sistema non è riuscito a fagocitare, assoldare, arruolare, ostentare”. Un intellettuale contro, questo è stato il suo paradigma esistenziale.

Milano approdo di ragione.

Come l’amato Verga, Consolo era approdato a Milano. La città lombarda era stata per una fitta schiera di scrittori siciliani luogo di speranza, approdo di ragione.  La stessa città che, presto, si trasformerà per lui in illusione infranta, amara realtà. La città lombarda dell’approdo e la Sicilia disperante sono state il suo cruccio, una Tauride duale. Come lo zio Agrippa di vittoriniana memoria, Consolo continuava a fare la spola tra la Sicilia e Milano.  Operava un continuo dettato esplicito di denuncia all’indirizzo di una Sicilia irredimibile e disperante. Non perdevano occasione per rinfacciarglielo i sicilianuzzi dileggiati. Facevano garrire sul pennone più alto lo stendardo abusato della Trinacria rinfacciandogli la fuga, l’abbandono. Un proclama di palazzo aveva messo al bando i libri di Consolo. Libri bollati come inadeguati, colpevoli di un insopportabile rimando a una Sicilia cupa, operando così l’isolamento e la sconfessione, consolidate pratiche criptomafiose. Il continuo dileggio operato da certa intellettualità isolana è stato un vero tormento per Consolo. Non amava le piccole patrie lo scrittore di Sant’Agata di Militello, non firmava manifestini autonomisti, non rivendicava insulse predominanze culturali.

Ignoto antigattopardo

La sua è stata una letteratura alta, di respiro internazionale. Lo testimoniano i numerosi riconoscimenti, come il “Premio dell’Unione Latina”, una sorta di Nobel per gli scrittori di lingua latina. Lauree honoris causa gli sono state conferite dagli atenei più autorevoli. Riconoscimenti accademici tributati a Parigi, Madrid, Salamanca, Dublino, Amsterdam. Mirabile l’attacco del suo romanzo Retablo :  “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato (…)”. Libro che gli varrà il “Premio Grinzane Cavour” nel 1988. La figura centrale è il pittore lombardo, Fabrizio Clerici giunto a Palermo in un vago Settecento. Il libro fu pubblicato dalla casa editrice “Sellerio” con una nota introduttiva di Leonardo Sciascia. Scrittura icastica quella consoliana, connaturata da un’intensa immaginazione pittorica. La pittura era la sua seconda grande passione.  Esemplari le sue prefazioni di mostre. Inserti, racconti, prove d’autore che lo scrittore traslava, successivamente, nei capitoli dei suoi libri. Raffinata la pittura delle sue ricercatissime copertine, opere di grandi artisti: Antonello da Messina, George de la Tour, Fabrizio Clerici, Ruggero Savinio, Caravaggio, Raffaello. Giungevano sempre dal mare i protagonisti dei romanzi di Consolo. Dal mare giunge il protagonista del suo primo grande successo, “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976). Cesare Segre fu il primo a intuire la specificità dell’invenzione linguistica consoliana. Lo studio di Segre era incentrato sull’eccentricità di quel giovane scrittore siciliano che non forniva al lettore nessuna indicazione didascalica. Il lettore attento di Consolo, aveva dunque fatto l’abitudine all’improvviso cambiamento di registro, all’enciclopedismo ipnotico della sua scrittura, alle scansioni ritmiche in battere e levare, ai capovolgimenti di fronte. Era una compitazione musicale da cuntista, quella dello scrittore di Sant’Agata di Militello. Parole antiche che tracciavano l’ordito complesso delle sue pagine. Come accade per i grandi, per i classici, ogni successiva rilettura dei libri di Consolo disvelava una trama invisibile, texture impercettibili, un’architettura accennata, una raffinatezza impareggiabile, il recupero di una lingua extraletteraria, financo del dialetto. Il rinvenimento di memorie antiche, forme dialettali è stata la sua cifra stilistica controcorrente: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati”. Come ha scritto il critico Massimo Onofri, rileggere i libri di Consolo è come entrare a occhi chiusi in una miniera e uscirne, ogni volta, con un’insospettata nuova pietra preziosa. “Il Sorriso dell’ignoto marinaio” è stato il libro risolutore, non solo nel senso della rivelazione dell’autore. Un libro che, a distanza di anni, appare quanto mai attuale e urgente. Il protagonista è Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, un aristocratico siciliano ottocentesco. Vive un’esistenza di ordinaria beauté aristocratique, sconvolta dall’incontro con il rivoluzionario Giovanni Interdonato e dalle rivolte dei contadini. Accadimenti che gli imporranno di mettere cultura e ricchezze al servizio della causa risorgimentale. Nell’edizione parziale del romanzo (1975), Corrado Stajano salutava l’opera come: “Un nuovo Gattopardo, ma più sottile, più intenso”. Il critico Antonio Debenedetti scrisse un articolo dal titolo “L’ignoto Antigattopardo”.

Il sorriso di Consolo il marinaio

Il falso ritratto che di lui si tratteggiava, quello di uno scrittore scorbutico e irriverente, non corrispondeva all’immagine privata, quella vera. Un uomo che appariva invece solare, ironico, dal sorriso ineffabile, quello di un Vincenzo Consolo privato, insospettato, autoironico. Scherzava spesso prendendo in giro la radice stessa del suo cognome: “Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ansime, malinconie, rimorsi dentro nelle vene. O dall’incrocio, di questo di Giudea o Samaria, con semierranti per venti d’invasioni terremoti carestie, d’Arabia, Bisanzio Andalusia”. Come accade per le grandi invenzioni della letteratura, Vincenzo Consolo, ha anticipato con i suoi libri gli avvenimenti della storia di questa nazione infetta. Così come è accaduto con il romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). Il libro, ambientato nei primi anni Venti del Novecento, racconta dell’avvento del fascismo. I luoghi del romanzo sono quelli che vanno da Cefalù a Palermo. Si narra delle vicende della famiglia Marano. In realtà tratteggia l’Italia della fine degli anni Novanta, con l’avvento della destra violenta, l’insorgere di nuove metafisiche, misticismi e sette misteriche. Milano, Cefalù e Palermo, nella sua personale geografia letteraria compongono l’invisibile triangolo della complessa scenografia linguistica di Consolo.  

Odiosamata Palermo

Palermo era, dopo Milano, l’altra città-tormento dello scrittore siciliano. Come si fa con i grandi amori e le passioni insopprimibili, all’odiosamata Palermo, Consolo ha riservato pagine di esaltazione e invettive furibonde.  Il suo snodo centrale era l’Isola, la Sicilia il tema dominante di tutti i suoi libri:  “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”. Consolo operava un distinguo ineludibile tra scrittore e narratore. La sua scrittura sconfinava con rapide incursioni nella poesia, come nella favola teatrale “Lunaria”. Il protagonista è un viceré malinconico e misantropo, costretto a vivere in una città solare e violenta di cui è l’unico a vedere la reale decadenza. Sogna la caduta della luna. E la luna cade davvero, in una contrada del vicereame, gettando scompiglio tra i contadini ma ancor più tra gli accademici chiamati a spiegare il prodigio con la loro povera scienza. La poesia è legata anche a un grande personaggio che compare tra le pagine del suo libro “Le pietre di Pantalica”, il barone magico Lucio Piccolo. Consolo ricordava spesso l’immenso poeta aristocratico di Capo d’Orlando e i suoi versi lunari: “Spento il rigore dei versetti a poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco”.

Tragico finale di partita

In una gelida Milano, Vincenzo Consolo lascia tutti orfani della bellezza delle sue parole. Consolo il marinaio lascia libri straordinari, un romanzo inedito al quale lavorava da anni che non sarà mai pubblicato, l’amata moglie Caterina, l’inseparabile compagna: “A Caterina devo tutto. Mi ha conferito coraggio, fiducia, serenità”. Un addio crudele dunque. Ogni finale di partita è sempre tragico, solenne. Come accade all’Empedocle consoliano tra le righe del testo teatrale Catarsi:

Ánthropoi therés te kai ichthúes”.

                                                                                               Concetto Prestifilippo

Centro di studi e iniziative culturali Pio la Torre
Rivista: ASud’europa direttore Angelo Meli
16 gennaio 2022

Lunaria Teatro Genova

LUNARIA LUNEDÌ 5 LUGLIO ORE 21.15 PIAZZA SAN MATTEO GENOVA
di Vincenzo Consolo
con Pietro Montandon tecnico luci e fonica Luca Nasciuti costumi Maria Angela Cerruti scene Giorgio Panni Giacomo Rigalza
regia Daniela Ardini

Lunaria Teatro Genova
Uno dei testi più ricchi di suggestione della drammaturgia contemporanea e insieme un capolavoro della letteratura del Novecento. Questo è Lunaria, favola scritta da Vincenzo Consolo, vincitrice nel 1985 del Premio Pirandello, realizzata in prima nazionale da Daniela Ardini e Giorgio Panni nel 1986 e successivamente realizzata in molte versioni in Italia e all’estero. La storia. In una Palermo di fine Settecento, una mattina il Viceré si sveglia madido e tremante: ha sognato che la Luna è caduta dal cielo e, una volta raggiunto il terreno, si è spenta, lasciando nel cielo un buco nero. La giornata del Viceré prosegue nella sala delle udienze dove arriva Messer Lunato, uno strambo viaggiatore in mongolfiera. A conclusione dell’udienza i ministri srotolano una mappa sulla quale sono indicati i possedimenti vicereali sul quale il Viceré fa scorrere il suo scettro che inspiegabilmente si impunta su una estrema Contrada senza nome. A questo punto la scena si apre sulla Contrada senza nome, dove alcuni villani guardano sorpresi la Luna che sta per sorgere e che appare insolitamente grande e colorata di rosso scarlatto. Dopo un po’ la Luna ritorna ad essere bianca e luminosa, ma comincia a creparsi e falde di luna cominciano a piovere a terra. Un Caporale ubriaco intima ai villani di raccogliere i cocci di Luna e di metterli in una giara, quindi ordina ad uno di loro, Mondo, di andare dal Viceré per riferire l’accaduto e chiedere istruzioni sul da farsi. La scena torna quindi a Palazzo Reale, dove è riunita l’Accademia dei Platoni Redivivi per disputare circa la malattia, lo sfaldamento e la conseguente caduta sub specie pluviae della Luna. Tra loro arriva Mondo che racconta l’accaduto, portando con se una falda di Luna come prova. Posto il coccio in uno scrigno, Mondo viene congedato e ciascuno degli accademici esprime la propria opinione sull’accaduto. Finita la disputa, nell’Accademia deserta dalle ante di un armadio esce il Teatro delle Bizzarrie: geni, fate, folletti, astri, pianeti, allegorie; quindi i personaggi fantastici spariscono a mano a mano, lasciando solo la Luna. Nell’epilogo si torna nuovamente nella Contrada senza nome, dove uomini e donne vestiti di nero seppelliscono i resti della Luna nella fontana e, di li a poco, assistono alla ricomparsa in cielo della Luna che, pero, tra i due corni della falce mostra una macchia nera. Giunge allora il Caporale il quale, deluso di ritrovare la Luna al proprio posto, inveisce contro i villani; viene pero interrotto dal sopraggiungere del Viceré, il quale sale una scala a pioli e incastra nella Luna il pezzo mancante, decretando che da allora in poi la Contrada senza nome si chiamerà “Lunaria”. La lingua e lo stile. Dal punto di vista linguistico Lunaria accosta stili diversi: dal narrativo al dialogico, dal lirico-poetico al linguaggio scientifico o pseudo scientifico degli usato dagli Accademici. Inoltre Lunaria, pur nella sua brevità, si configura come un crogiolo di lingue e dialetti. Sono facilmente riconoscibili l’uso dell’italiano nei suoi diversi registri: da quello accademico-scientifico, a quello visionario, mimetico, letterario, lirico, popolare; l’uso del siciliano, del dialetto gallo-italico, dello spagnolo di Dona Sol e degli inquisitori, del latino nonché di latinismi vari. Il Viceré e ricorre saltuariamente a tutti questi idiomi, compreso il dialetto gallo- romanzo, ossia il sanfratellano, tanto che a Mondo risponde parlando nella sua stessa lingua. Interi brani di poesia e versi “nascosti” compaiono in Lunaria. Lo stile si avvicina alla poesia come mai prima era avvenuto: il testo pullula di anafore, allitterazioni, rime interne. Si assiste cosi a una sorta di tendenza mimetica per cui al tema dell’intima necessita per il mondo della poesia (simboleggiata dalla Luna) corrisponde uno stile che si fa poesia. Il linguaggio si presenta talvolta oracolare, la forma espressiva risulta nervosa, essenziale: la parola si fa incantatrice e trascina il lettore nella “poesia” della vita. La critica letteraria. Cosi Cesare Segre: “Uno dei lavori più mirabili di Consolo, Lunaria (1985). In esso c’è un abbandono pieno all’invenzione. Invenzione tematica e invenzione formale. Il libro non è certo un romanzo, ma appartiene piuttosto a un “genere che non esiste”, a un conato di teatralità divertita fra entremes alla spagnola e teatrino delle marionette. Si sa che molta dell’elaborazione di Consolo è “letteratura sulla letteratura”. Ebbene, in Lunaria la falsariga è costituita da un racconto di Lucio Piccolo, L’esequie della luna(1967), con cui Consolo si pone felicemente in gara, non dimenticando naturalmente Leopardi. Voglio evocare un aneddoto sintomatico. Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procuro la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore”. La regia. Lunaria è sempre una favola, la favola della luna, che vuole far sognare il pubblico affascinato da sempre dall’astro poetico. Per Consolo la sua caduta “rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo”, poesia che è invece illusione necessaria contro la precarietà della storia e della vita (Scende la luna; e si scolora il mondo, aveva scritto Leopardi ne Il tramonto della Luna).La regia di questo allestimento punta a riportare Lunaria ad alcune delle sue matrici originarie: il cunto e l’opera dei pupi. La tradizione infatti in Consolo si mescola arditamente all’elaborazione poetica e all’artificio letterario. Un solo attore, Pietro Montandon, da voce e gesto a tutti i personaggi, partendo dall’essere in primo luogo il narratore-cuntista dell’opera. Un baule da teatro, un leggio e un praticabile palcoscenico su cui si “interpretano” i vari personaggi e la storia, citano insieme narrazione e teatro. Consolo stesso asseriva che “le didascalie, pur conservando in qualche modo la loro funzione di indicazione mimetica e ambientale, vogliono assumere anche dignità di testo, sono insomma didascalie che ambiscono ad essere recitate da un eventuale personaggio (il Narratore)”. Montandon prende per mano il suo pubblico e lo guida con ironia, ma anche con mano ferma e mente fredda nei meandri non sempre facili dell’opera di Consolo, facendolo assistere ad un gioco letterario, ma anche teatrale, che diverte con l’astrusità dei vari linguaggi, il paradosso di alcune situazioni (l’Accademia dei Platoni Redivivi che cercano di dare “spiegazione” alla caduta della luna), l’ironia di alcuni personaggi (Messer Lunato, Cerusici, Dona Sol, e altri), da emozioni con il linguaggio poetico del Viceré e la versificazione dei Villani e delle Villanelle, ultimi baluardi di un mondo dove rimane ancora la poesia. La scenografia disegna in modo astratto la corte del Viceré di Sicilia e la contrada senza nome. Il gioco musicale è arricchito da effetti sonori sulle tante voci di Montandon. L’attore PIETRO MONTANDON per lunghi anni interprete nella compagnia Mummenshanz, con Lunaria Teatro straordinario interprete di Maruzza Musumeci di Andrea Camilleri e de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello.
www.lunariateatro.it info@lunariateatro.it

LA SEDUZIONE: DALLA SIRENA A RETABLO

di Giovanna Di Marco

È il 1985 quando Vincenzo Consolo scrive la prefazione al saggio Sirene siciliane. L’anima esiliata di Lighea di Basilio Reale, uno studio che, seguendo i precetti del pensiero junghiano, analizza l’ultimo racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, La sirena. In poche pagine, Consolo delinea una sorta di geografia della letteratura siciliana, non prima però di espletarne un’altra: quella di alcuni suoi esuli. Ricorda infatti il suo primo incontro con Reale, avvenuto a Milano nel 1953: i due esuli dalla terra del mito, la Sicilia, provengono della stessa provincia (di Sant’Agata di Militello, Consolo, di Capo d’Orlando, Reale). Ma in questi esili ci fa ricordare quello di Vittorini e quello più antico di Verga.

“Scoprimmo subito, io e Reale, d’avere le stesse aspirazioni e ispirazioni, che da una parte si declinavano in prosa, dall’altra in poesia”.

Dal mito e dai vagheggiamenti sulla loro terra del mito, passano entrambi alla storia, alla necessità dell’impegno. Da qui parte la divisione ideale della letteratura siciliana in due indirizzi: “quello della storia e quello dell’esistenza (o della natura o del mito). Filoni che possono coincidere con le due parti dell’Isola”, dove a Occidente si riscontra il primo, a Oriente il secondo, con numerose e straordinarie eccezioni:

“E questa idealità è subito contraddetta fatalmente dalla realtà, da spostamenti di autori da una parte verso l’altra: di un poeta come l’abate Meli, per esempio, verso l’Arcadia, verso la mitologia dell’Oriente, o del grande De Roberto verso la storia e lo storicismo d’Occidente”.

E, da quella Finisterre, ‘di qua dal faro’, la Sicilia, Consolo intercetta un luogo, incrocio tra le due anime dell’Isola: Capo d’Orlando, che significa Lucio Piccolo. A lui è dedicata una sua opera, Lunaria, divagazione nel sogno con queste parole: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”.

Piccolo tra l’altro fu figura di riferimento anche per Reale, ed è individuato da Consolo come l’ispiratore della sirena per il cugino Tomasi di Lampedusa. Quest’ultimo alla storia aveva dedicato Il Gattopardo, ma si spostò nella Sicilia orientale per scrivere di Lighea e, appunto, per rivisitare il mito. La sirena di Piccolo appartiene più a quelle entità di “ninfe campestri, boscherecce, sia pure in apparenza stregonesche il senso panico della natura”. Ma certamente l’influsso di Piccolo determinò sul cugino la deposizione “dell’armatura teutonica del Principe Fabrizio di Salina” per l’approdo alla seduzione e a un ricongiungimento con lo spirito della Natura. Ma cosa è dunque Lighea per Consolo? Alla fine della prefazione al saggio ci dice che Lighea è un ipogeo, un profondo scavo archeologico. E tra questo andare e tornare tra storia e mito, Lighea è dunque la ricerca dell’originario, attraverso l’eterno femminino. Come i dialetti greci del professor La Ciura, protagonista del racconto La sirena di Tomasi, tutta l’opera consoliana è una ricerca continua dell’arcaico e dell’originario. Lo si riscontra anche nelle sue scelte linguistiche.

La ricerca di questo ipogeo, prima che nella Sicilia orientale de Le pietre di Pantalica – indimenticabile quell’incipit: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca” – possiamo riscontrarla nell’unica opera consoliana, pubblicata nel 1987, che ha come tema la seduzione erotica e conoscitiva: Retablo. La seduzione, in quest’opera ambientata nella Sicilia del Settecento – e che racconta due storie di amori infelici – è rappresentata da due donne: Teresa Blasco, nonna del Manzoni, amata da Fabrizio Clerici e Rosalia, la bella popolana per cui fugge il monaco Isidoro. Fabrizio Clerici, lombardo, discende in Sicilia per conoscere la terra degli antenati di Teresa, in un viaggio iniziatico che lo riporta al mito. Proprio le Sirene vengono evocate nell’ascolto del canto di alcune donne al bagno di Segesta nell’episodio centrale del romanzo tripartito:

“o chi si perse ascoltando una volta il canto stregato di Sirene, come mi persi anch’io nel vacuo smemorante, nel vago vorticare, nella felicità senza sorgente e nome, nel profondo jato che disgiunge il futuro dal passato”.

Ma è nella sezione iniziale e nella storia di Isidoro che l’eterno femminino prende forma. Da tensione irrazionale si fa monumento e si fa storia sotto l’effigie della bella Rosalia, prima presagita nelle forme muliebri della santa patrona palermitana, di cui la donna porta il nome: “Lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne”, poi nel riconoscimento (una vera e propria agnizione) che avviene nell’Oratorio di San Lorenzo di Palermo: la statua in gesso della Virtù della Veritas, realizzata da Giacomo Serpotta, viene riconosciuta da Isidoro come l’amata Rosalia, che dello scultore era stata modella: “Davanti a una di quelle dame astanti, una fanciulla bellissima, una dìa, m’arrestai. VERITAS portava scritto sotto il piedistallo. Era scalza e ignude avea le gambe, su fino a cosce piene, dove una tunichetta trasparente saliva e s’aggruppava maliziosa al centro del suo ventre, e su velava un seno e l’altro denudava, al pari delle spalle, delle braccia… Il viso era vago, beato, sorridente… Mi sentii strozzare il gargarozzo, confondere la testa, mancare i sentimenti”.

La figura archetipica e la tensione erotica si trasformano per sempre, passando dalla Natura alla storia e consolidando in Consolo ciò che aveva anticipato nella prefazione al saggio di Reale: “un andare e tornare, un perenne oscillare, è un sondare e riattivare il sepolto e riportarlo alla luce”. Diventa dunque sintesi di movimenti opposti e incontro tra il primigenio e istintuale mito e la storia.

11 maggio 2021
Morel – Voci dall’isola

Poi

Poi,
quando sorge e sale nel cielo
pallido e regale il faro familiare,
lo schermo opalescente,
il sipario
consolante dell’infinito e dell’eterno,
torna incerta,
tremante la parola,
torna per dire
solo meraviglia …

Vincenzo Consolo

Sant’Agata di Militello 2007

La luna di Consolo, tra passato e presente

di Irene Di Mauro

Lunaria, opera multiforme, come l’astro cui è dedicata la narrazione, si presenta come sintesi della sfiducia di Consolo nei confronti del genere letterario del romanzo, e della scrittura prosastica cui esso è collegato. È un esperimento poetico, teatrale, un ritorno alla tradizione siciliana del cuntu, in una prospettiva settecentesca, che risulta ricca di stimoli per una rilettura critica del presente, in quanto «la stessa metafora portante della Luna, proprio perché rimanda alla poesia e a valori di autenticità e umanità, conferisce uno spessore etico-politico a un testo che a prima vista parrebbe tutto fantastico, svagato, quasi dimentico della realtà».[1] Il linguaggio che dà forma e corpo allo scenario arcaico e immaginifico della narrazione, è quanto mai ‘verticale’, arricchito da continui rimandi poetici, resi espliciti in diversa misura e saturi di echi visionari:

Lo stile si avvicina alla poesia come mai prima era avvenuto: il testo pullula di anafore, allitterazioni, rime interne. Si assiste così a una sorta di tendenza mimetica per cui al tema dell’intima necessità per il mondo della poesia (simboleggiata dalla Luna) corrisponde uno stile che si fa poesia. Il linguaggio si presenta talvolta oracolare, la forma espressiva risulta nervosa, essenziale: la parola si fa incantatrice e trascina il lettore nella “poesia” della vita.[2]

Risulta quindi imprescindibile la comprensione di questa molteplicità di forme, linguaggi e riecheggiamenti, come l’eredità letteraria a cui l’autore ha attinto nella composizione della ‘favola teatrale’ della caduta e rinascita della luna. Quest’ultima, ‘astro’ da sempre presente nell’immaginario popolare, ha influenzato con la sua languida evanescenza poeti e scrittori, fin dal sesto libro della Farsaglia di Lucano, la cui rappresentazione nelle vesti di divinità funesta e ingannevole durante il celebre scontro tra Cesare e Pompeo, appare come la summa di un retaggio immaginifico proveniente dal pantheon greco. L’accezione magico-misterica della figura della dea, correlata all’inquietudine e alla melanconia sepolcrale delle ore notturne, per cui spesso viene associata all’oltretomba, è assimilata nella cultura latina alla figura delle «femmine tessale che svelgono la luna dal cielo»[3], descritte da Platone nel Gorgia. Sono molte le testimonianze di autori classici, segnalate da Leopardi nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, che attribuiscono poteri magici ad alcune donne risiedenti nella regione greca ed in particolar modo Virgilio, Seneca, Orazio, Ovidio, Tibullo, Stazio fanno riferimento all’operazione magica narrata da Platone. Non stupisce la rassegna di Leopardi, la cui produzione letteraria mostra come la luna sia un topos onnipresente nel panorama letterario, in cui vengono analizzate le ricorrenze nei testi antichi dell’immagine della caduta dell’astro, nei capitoli quarto e decimo Della magia e Degli astri nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi:«fu un nulla per gli antichi, dopo aver divinizzati gli astri, il supporre che qualcuno tra essi precipitasse talvolta dal cielo, con pericolo evidente di rompersi il collo».[4] Il retaggio popolare e letterario correlato alla luna viene ereditato da Lucano e filtrato attraverso la personale lente del poeta romano, che connota la narrazione della Farsaglia di sfumature grottesche e misteriche, dando forma ad uno dei più affascinanti temi letterari. Le suggestioni popolari sulla luna, trasformate in poesia da Lucano, saranno spunto per scrittori come Baudelaire e Goethe, che ne richiameranno l’accezione sepolcrale, nella formulazione di chiari rimandi alla letteratura latina. La luna delle visioni del poeta francese, sembra quasi la stessa che secoli prima era stata strappata dalla sua nicchia celeste dalla maga Erichto:

non la luna placida e discreta che visita il sonno degli uomini puri,

ma la luna strappata dal cielo, vinta e ribelle, che le Streghe della

Tessaglia costringono spietatamente a ballare sull’erba atterrita![5]

Baudelaire risente del fascino della «sinistra luna inebriante», a cui fa corrispondere la personificazione della donna, che la luna ha segnato «con il suo temibile influsso»[6] e la cui effimera immagine ha suscitato nel poeta il desiderio di imprimerla perpetuamente. Tuttavia, la donna ‘lunatica’ di Baudelaire, a differenza delle temibili incantatrici tessale, è in qualche misura ella stessa vittima del sortilegio lunare e fautrice dell’inganno dell’astro esclusivamente per potere riflesso. La luna conferisce alla donna amata la medesima forza attrattiva che l’uomo le ha, nei secoli, riservato:

Tu sarai bella alla mia maniera. Amerai quello che io amo e quello che mi ama: l’acqua, le nuvole, il silenzio e la notte; il mare immenso e verde; l’acqua informe e al contempo multiforme; il luogo in cui non sarai; l’amante che non potrai conoscere; i fiori mostruosi; i profumi che danno il delirio; i gatti che spasimano sui pianoforti gemendo come delle donne con voce roca e dolce!

“Sarai amata dai miei amanti, corteggiata dai miei cortigiani. […] di quelli che amano il mare, il mare immenso, tumultuoso e verde, l’acqua informe e al contempo multiforme; il luogo in cui non sono, la donna che non conoscono; i fiori sinistri che assomigliano ai turiboli di una sconosciuta religione, i profumi che sconvolgono la volontà, gli animali selvaggi e voluttuosi che sono gli emblemi della loro follia”.

Ed è per questo, maledetta fanciulla viziata, che ora sono ai tuoi piedi, cercando in tutto il tuo corpo il riflesso della temibile Divinità, della fatidica madrina, della velenosa nutrice di tutti i lunatici.[7]

È ormai evidente il distacco dalle violente immagini della Farsaglia, distacco suggerito e in qualche misura anticipato dal Faust di Goethe nel 1831:

Oh, fosse questa l’ultima volta, o Luna, che tu guardi sopra di me travagliato! quante volte dinanzi a questo leggio io ho vegliato tardi nella notte aspettandoti: e tu, mesta amica, sei pur sempre apparsa, a me su libri e su carte! Oh, potessi in sulle cime dei monti aggirarmi per entro la tua amabile luce, starmi sospeso cogli Spiriti in sui burroni, divagarmi, avvolto da’ tuoi taciti albori, sui prati, e, sgombro da tutte le vanità della scienza, bagnarmi e rinfrancarmi nella tua rugiada.[8]

Il corollario di immagini che accompagnano la comparsa della luna appare in ogni caso imprescindibilmente legato alla sfera orfica, immaginifica e dell’inconscio, tradizionalmente associata alle ore notturne. L’astro diviene strumento poetico per esaltare i dissidi dell’animo, «i quali, pur non conciliandosi, sembrano confondersi nell’alternanza in un unico sentimento che esprime la condizione esistenziale dell’uomo».[9] Questa accezione empatica, introdotta dai poeti romantici, trasmuta la luna in un essere non più vessillo di vendetta, brutalità e  immonda crudezza, come era stata per Erichto, la maga che «asperge di abbondante umore lunare»[10] le sue vittime, dopo averne squarciato il petto e il ventre. La luna ora ha una dimensione più empatica, si presenta al poeta « soave come l’occhio dell’amico/ sul mio destino »[11] Gli epiteti a lei rivolti però, appaiono in qualche modo gli stessi, la luna che suscita i sospiri nei poeti romantici, è lo stesso astro che illuminava la notte precedente allo scontro di Cesare e Pompeo:

O tu, lassù, perennemente immune da vecchiaia, dai tre nomi e dalle tre forme, te invoco io, nella calamità del mio popolo, Diana, Luna, Ecate! Tu che i cuori sollevi, tu, assorta nei pensieri più profondi, tu tranquilla splendi, in te stessa ascosa e violenta, apri l’orribile abisso delle tue ombre, l’antica potenza si manifesti senza aiuto di magia.[12]

Dei Canti leopardiani, nel trentasettesimo inequivocabilmente, troviamo il cardine, la congiunzione tra il percorso evolutivo fin qui analizzato e l’opera di Vincenzo Consolo, che riassume e rielabora tutte le accezioni che la luna, nei secoli, ha assunto in ambito letterario. Il tema del sogno della luna caduta, è assimilato, in entrambi gli autori, dalle reminiscenze popolari classiche, in entrambi è spunto per la narrazione dialogica e teatrale, la cui voce più veritiera è affidata ai pastori, nel Canto leopardiano tratti dalla Favola pastorale di Guidobaldo Bonarelli: 

ALCETA

Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno

di questa notte, che mi torna a mente

in riveder la luna. Io me ne stava

alla finestra che risponde al prato,

guardando in alto: ed ecco all’improvviso

distaccasi la luna; e mi parea

che quanto nel cader s’approssimava,

tanto crescesse al guardo; infin che venne

a dar di colpo in mezzo al prato; ed era

grande quanto una secchia, e di scintille

vomitava una nebbia, che stridea

sí forte come quando un carbon vivo

nell’acqua immergi e spegni. Anzi a quel modo

la luna, come ho detto, in mezzo al prato

si spegneva annerando a poco a poco,

e ne fumavan l’erbe intorno intorno.

Allor mirando in ciel, vidi rimaso

come un barlune, o un’orma, anzi una nicchia

ond’ella fosse svèlta; in cotal guisa,

ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro.[13]

Ed è proprio ai pastori, i «villani della Contrada Senza Nome, che Consolo consegna il potere della «memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali»[14] in grado, attraverso antichi rituali di sapore arcardico, di far rinascere in cielo la luna, e con essa «il sogno che lenisce e che consola»[15] e imprescindibilmente, la poesia. Il rito compiuto dai contadini con i cocci della luna infranta, richiama alla memoria la luna ancestrale latina, che risorge dall’oblio, insieme al retaggio mistico degli epiteti ad essa correlati:

PRIMA DONNA

Così è finita, così è stata

seppellita la Regina.

SECONDA DONNA

La Signora, la Sibilla,

la Ninfa Oceanina.

[…]

          QUARTA DONNA

Ecate dei parti,

Kore risorgente,

QUINTA DONNA

Malòfora celeste,

Vergine beata.[16]

La danza delle contadine, con le litanie, «muta lamentazione di prefiche»[17], le vesti nere e i capelli sciolti, i «gesti essenziali» dei quali unico depositario sembra essere il popolo, che, custode delle diversità culturali, del variegato corollario di influenze ormai perduto altrove dalla campagna, si mostra unico artefice, grazie alle ‘esequie della luna’, della rinascita dell’astro. Solo il Viceré Casimiro, non a caso punto di contatto tra l’arcadico mondo contadino della Contrada Senza Nome e la Palermo settecentesca, mostra di percepire il lascito classico del prodigio lunare in atto, cadendo in una sorta di estasi visionaria in cui rivolge alla luna il suo lamento, che diviene supplica e invocazione:

Luna, Lucina, Artemide divina, possente Astarte, Thanit crudele, Baalet, Militta, Elissa, Athara, Tiratha, Regina degli Umori, Selene eterna dalle ali distese e celebrate, Signora, Dea dalle bianche braccia, perché abbandoni il luminoso scettro? […] Deh madre, sorella, sposa, guida della notte, méntore, virgilia, dimmi, parlami, insegnami la via.[18]

Divinità che richiamano la fertilità, la fecondità, l’amore, ma anche la guerra, la morte la bramosia di sacrifici. Consolo include tutte le sfumature e le accezioni dell’astro, richiamando gli aspetti più grotteschi e crudi, rispettando quelli più morbidi e romantici; la «letteratura sulla letteratura»[19] di cui parla Cesare Segre, si fa più che mai evidente, adempiendo alla verticalità da sempre caratterizzante la scrittura dell’autore, che si mostra consapevole e attento agli echi che la narrazione suscita:

Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su sé stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.[20]

La stessa attenzione dipinge di sfumature rossastre la luna che rischiara la notte dei villani della Contrada Senza Nome, mentre ammirano il fenomeno che ne anticipa la caduta, speculando, al pari degli antichi, sulla reale motivazione. Il particolare fenomeno introduce l’elemento magico-misterico della caduta, gettando la campagna sottostante in un’atmosfera tragica in cui si insinua l’ululato ultraterreno, a cui i contadini pronti rispondono parando i forconi. La luna rossa diventa condizione necessaria e anticipatrice della magia, come per Orazio nel Sermo VIII, segnalato da Leopardi:

Serpentes, atque videres

Infernas errare canes, lunamque rubentem,

Ne foret his testis, post magna latere sepulchra.

Orazio dà l’epiteto di rubentem alla luna, perchè questa appare infatti rossa al suo levarsi; e il poeta avea detto poco prima che le maghe per dar principio ai loro incantesimi aveano aspettato il sorger della luna:

Nec prohibere….(possum) modo simul ac vaga luna decorum

Protulit os, quin ossa legant, herbasque nocentes.[21]

L’incanto è introdotto dall’aleatoria presenza del lupo mannaro, percepibile dall’ululato che, sempre più forte, scatena le reazioni atterrite degli astanti:

OLIVA   Mamma, il lupo mannaro!…

[…]

MELO   Basta un graffio, in fronte…

PIETRO   Una stilla di sangue…

VENERA   Ma non c’è quadrivio, non c’è incrocio…

La tradizione a cui attinge Consolo per la composizione di questa spettrale atmosfera, torna ad essere nostrana, seguendo il filone delle leggende popolari da lui già esaminate nel 1977:

Un urlo bestiale rompeva il silenzio nella notte di luna piena. Ed era uno svegliarsi, un origliare dietro le porte serrate, uno spiare dietro le finestre socchiuse, un porsi in salvo al centro dei crocicchi o impugnare la lama per ferire alla fronte e far sgorgare gocce di nero sangue. […] Il lupo mannaro era l’incubo, lo spavento notturno, nella vecchia cultura contadina, carico di male e malefizio, contro il quale opponeva crudeli gesti esorcistici.[22]

L’attestazione di questa credenza popolare è lungamente descritta da Cervantes ne Los trabajos de Persiles y Sigismunda, dimostrando l’arcaica permanenza nell’immaginario siciliano della figura del lupo mannaro, e la definizione dialettale della patologia ad esso correlata è di indubbia provenienza araba: «male catubbo, derivato dall’arabo catrab o cutubu, che significano canino o lupino».[23] Cervantes mostra di essere a conoscenza della forte presenza in Sicilia di questa superstizione, costituendo una testimonianza seicentesca le cui reminiscenze appaiono nell’immaginario consoliano, così come nella pirandelliana novella Mal di luna:

Lo que se ha de entender desto de convertirse en lobos es que hay una enfermedad, a quien los médicos llaman manía lupina, que es de calidad que, al que la padece, le parece que se haya convertido en lobo, […] y hoy día sé yo que hay en la isla de Sicilia (que es la mayor del Mediterráneo) gentes deste género, a quienes los sicilianos laman lobos menar, los cuales, antes que les dé tan pestífera enfermedad lo sienten y dicen a los que están junto a ellos que se aparten y huyan dellos, o que los aten o encierren, porque si no se guardan, los hacen pedazos a bocados y los desmenuzan, si pueden, con las uñas, dando terribles y espantosos ladridos.[24]

Gli individui affetti da «manía lupina» avvertono i loro cari in prossimità dell’esternarsi dei sintomi, «que se aparten y huyan dellos, o que los aten o encierren», similmente al Batà di Pirandello, che si premura di mettere al sicuro la moglie dall’irruenza della sua trasformazione: «–Dentro… chiuditi dentro… bene… Non ti spaventare… Se batto, se scuoto la porta e la graffio e grido… non ti spaventare… non aprire… Niente… va’! va’!»[25]. Pirandello, rispetto alla precedente descrizione di Cervantes, introduce come elemento imprescindibile la luna, che diviene, come in Consolo, causa della trasformazione, ritratta, ancora una volta, in rossastre sfumature:

Batà mugolò di nuovo, si scrollò tutto per un possente sussulto convulsivo, che parve gli moltiplicasse le membra; poi, col guizzo d’un braccio indicò il cielo, e urlò:

   – La luna!

Sidora, nel voltarsi per correre alla roba, difatti intravide nello spavento la luna in quintadecima, affocata, violacea, enorme, appena sorta dalle livide alture della Crocea.[26]

La luna interagisce e dialoga con i personaggi, intervenendo essa stessa nell’intreccio della vicenda, al pari di Lunaria, la cui influenza sui personaggi fa sì che possa essere annoverata «tra gli eroi e gli antagonisti, ‘oggetto del desiderio’ ricco di valenze simboliche, sognata, contemplata, persa, rimpianta e infine riconquistata».[27] La sequenza del racconto di Batà della contrazione del ‘male’ ricalca l’immaginario romantico del dialogo notturno con l’astro, richiamando gli scenari ritratti dai poeti ‘lunari’ e la stessa tipologia di interazione che si riscontra, tra le altre, in Claire de lune di Hugo, «la lune était sereine et jouait sur les flots»:[28]

che la madre da giovane, andata a spighe, dormendo su un’aja al sereno, lo aveva tenuto bambino tutta la notte esposto alla luna; e tutta quella notte, lui povero innocente, con la pancina all’aria, mentre gli occhi gli vagellavano, ci aveva giocato, con la bella luna, dimenando le gambette, i braccìni. E la luna lo aveva «incantato».[29]

Il Viceré di Lunaria risente a tal punto della sua influenza, da trasmutarsi in luna egli stesso, intonando una cantilena, o supplica, ricca di allitterazioni e assonanze, «in cui la quantità di sillabe si fa progressivamente più esigua fino a culminare, con geniale intuizione poetica, in un’unica sillaba, ampia e limpida, con un’assonanza nella ‘a’ che significa ‘luna’ in quella lingua antica e pura che ancora oggi si parla in Iran: il persiano classico»:[30]

Lena lennicula,

lemma lavicula,

làmula,

lémura,

màmula.

Létula,

màlia,

Mah.[31]

Ogni personaggio del microcosmo di Lunaria risente in qualche misura dell’influsso della rossastra luna in «quintadècima», il cui aspetto inconsueto genera un dibattito e le goffe argomentazioni avanzate dal dottor Elia, rimandano anch’esse in qualche modo alle arcaiche credenze popolari, che da sempre hanno cercato di colmare i vuoti del sapere, fornendo pittoresche spiegazioni ai fenomeni atmosferici:

DOTTOR ELIA     Nessun prodigio. È solo morbo o fiotto per caso scivolato dal diurno Astro in su l’occaso, quand’è rosso scarlatto, ingallando l’argentea sembianza, la pallida sostanza della vergine, la solitaria pellegrina della notte…[32]

L’ironica caricatura del dottor Elia, che si affanna dietro il rudimentale cannocchiale nell’analisi delle inconsuete condizioni dell’astro, affiancato dall’aromatario Alì, che produce un’analisi meno accademica, ma più calzante in quanto supportata dall’osservazione diretta della natura, e le loro dissertazioni animate, diventano un esempio letterario della figura dell’uomo ignorante ritratta da Leopardi:

La credulità è, e sarà sempre, come sempre è stata, una sorgente inesauribile di pregiudizi popolari. […] Un uomo ignorante, e che nella maggior parte delle cose non presume di sapere più di un altro crederà sempre tutto ciò che gli verrà detto, e stimerà effetto di folle arroganza ed anche di stupidità il dubitarne. Si sarà sempre credulo finchè non si saprà esaminare, o almeno non si ardirà tentare di farlo, […] Accade però bene spesso che gl’ignoranti non siano assai docili, e non prestino fede facilmente a chi vuol persuaderli di qualche verità. […] L’affezione che quell’uomo ha per le antichissime opinioni e per le vecchie costumanze delle genti di villa; la profonda venerazione che conserva per i suoi maggiori che gliele hanno trasmesse e raccomandate caldamente; […] altrettante sorgenti di errori popolari inespugnabili; renderanno inutili le cure di chi travaglierà a disingannarlo.[33]

La «profonda», ma spesso fuorviante, «venerazione», di cui parla Leopardi, viene espressa con vigore macchiettistico dal dottor Elia, che con estrema confusione mette a tacere mastr’Alì, tacciandolo di mancanza di spessore culturale, elencando una sequela di luminari di svariate discipline, allo scopo di conferire dignità alle proprie credenze, nonostante l’identità di alcuni di loro sia ignota: «Tacete, pratico! Voi non avete letto- voi non sapete leggere- in libri autorevoli. Voi non conoscete Ippocrate, Galeno, Avicenna, Bellèo, Alàimo, Petronillo…».[34] La lacuna generata da una parziale mancanza di supporto scientifico, viene colmata dall’uomo con l’immaginazione, che genera, tra le altre, le astruse teorie dell’Accademia dei Platoni Redivivi, spunto per Consolo di una caustica satira sul sapere, i cui protagonisti sono ridotti ad astratte categorie. L’Accademico Anziano, l’ Astronomo, il Fisico, il Metafisico, il Protomedico, si ritrovano a «pontificare sulla luna, coscienti della loro importanza e sapienza, mostrando conoscenze scientifiche e idee preconcette del Settecento»[35], creando un’ulteriore legame con le riflessioni leopardiane sull’approccio ai fenomeni astronomici:

Si vede un effetto meraviglioso, e come avviene bene spesso, se ne ignora la cagione. […] Ciò bastava per far nascere un pregiudizio, poichè l’uomo non si contenta di osservare un effetto, rimanendo nella sua mente affatto incerto intorno alla causa di esso. Sovente egli si forma subito nel suo intelletto un’idea ordinariamente falsa di ciò che può produrlo. […] Le stelle si vedevano muoversi regolarmente e con ordine invariabile: esse si crederono animate. […] Da che sono nati tutti questi errori, se non dall’ignoranza delle cause?[36]

In antitesi, questa «idea ordinariamente falsa», a patto di formarsi negli animi incontrovertibilmente inclini alla scrittura, che non attribuiscono ai doni dell’immaginazione dignità scientifica, genera poesia, mito, che fin dagli albori della civiltà umana è intervenuto là dove la scienza coeva era manchevole. E il mito della luna sembra aver avuto un crollo, al pari della luna di Lunaria, in un preciso momento individuato da Consolo nelle considerazioni conclusive sulla genesi dell’opera stessa, conferendo a Piccolo il primato di aver anticipato,

(o l’aveva anticipato Leopardi?) quello che sarebbe effettivamente accaduto da lì a qualche anno- la caduta del mito della luna, appunto-, che il 21 luglio del 1969 un’astronave di nome Apollo-il fratello gemello di Diana- approdasse sulla superficie di quell’astro e che degli uomini lo profanassero danzandovi sopra con i loro scarponi di metallo (ah, fu quello un giorno fatale per i poeti, ma Piccolo fece in tempo a non viverlo, era scomparso nel maggio di quello stesso anno).[37] 

L’amara, ma profondamente ironica, considerazione di Consolo, sembra estendersi, attraverso il generico appellativo di ‘poeti’, a chi abbia sognato la luna e abbia trasformato questo sogno in poesia. Il viaggio sulla luna, astro prima d’ora irraggiungibile, ha incantato poeti e scrittori, che hanno tentato di colmare il divario tecnologico con l’assegnazione di connotazioni sempre diverse all’ipotetica conquista della stessa: a partire da Dante, fino a Calvino, la luna ha cambiato il proprio volto, ma è rimasta sempre, pur sotto diversi aspetti, specchio dell’umano. E l’impavido paladino di Ariosto, il poeta «cosmico e lunare»[38] viene richiamato alla memoria da Consolo in forma diretta all’interno dell’opera, a suggellare la connessione che, attraverso i secoli, perdura nella letteratura di chi omaggia la luna:

 Là, dove giunse Astolfo in groppa all’Ippogrifo per cercarvi il senno del folle Paladino, là, come canta il Poeta, è dammuso, catoio, pozzo nero di tutte le carenze, le pazzie, i sonni, gli oblii, gli errori della Terra.

Dall’apostolo santo fu condutto

in un vallon fra due montagne istretto,

ove mirabilmente era ridutto

ciò che si perde o per nostro difetto

o per colpa di tempo o di fortuna:

ciò che si perde qui, là si raguna.[39]

Ariosto assegna alla luna il ruolo di detentrice di ciò che sulla terra è stato perso e la descrizione operatane risulta reduce di precedenti lezioni, alcune accolte, altre riprese ironicamente. Tra di esse troviamo l’esempio più illustre, il viaggio dantesco, i cui versi sono esplicitamente riportati nell’opera di Consolo, che affronta, tra le questioni dottrinali, quella delle macchie lunari, spunto di dissertazione sulle caratteristiche dell’astro:

La concreata e perpetüa sete

del deïforme regno cen portava

veloci quasi come ’l ciel vedete.

[…]

Parev’ a me che nube ne coprisse

lucida, spessa, solida e pulita,

quasi adamante che lo sol ferisse.

          Per entro sé l’etterna margarita

ne ricevette, com’ acqua recepe

raggio di luce permanendo unita.[40]

La superficie lunare viene indagata da un punto di vista astronomico, con particolare attenzione alla presenza di imperfezioni sulla sua superficie, sulla cui origine Dante interroga Beatrice:

Ma ditemi: che son li segni bui

di questo corpo, che là giuso in terra

fan di Cain favoleggiare altrui?».[41]

La luna di Ariosto, al contrario, ironicamente «non ha macchia alcuna», pur presentando un paesaggio speculare a quello terreno, per sottolinearne il legame con le vicende umane. Il poeta appare d’altro canto accogliere la descrizione presente nel Somnium di Leon Battista Alberti, in cui Libripeta annovera «enormi vesciche piene di adulazione, di menzogne, di flauti e trombe risonanti» accostate ai «benefici: sono ami d’oro e d’argento»[42], costruendo un paesaggio speculare a quello albertiano:

Vide un monte di tumide vesiche,

che dentro parea aver tumulti e grida;

e seppe ch’eran le corone antiche

e degli Assirii e de la terra lida,

e de’ Persi e de’ Greci, che già furo

incliti, et or n’è quasi il nome oscuro.

[…]

Ami d’oro e d’argento appresso vede

in una massa, ch’erano quei doni

che si fan con speranza di mercede

ai re, agli avari principi, ai patroni.[43]

Descrizione ritrovata nell’arringa dell’Accademico Eccentrico in Lunaria, che richiama alla mente degli astanti il volo siderale di Astolfo, e le conseguenti osservazioni sul suolo lunare: «si fe’ allora specchio, retaggio, monito perenne, ricettacolo delle sventure umane, fondaco d’otri, di vessiche, di regni, filosofie, idoli trapassati».[44] Il momento di congiunzione tra la visione letteraria di Ariosto e la valenza che la luna assume nell’opera di Consolo, ultimo baluardo di poesia contro l’inaridimento e l’afasia, si manifesta in Calvino, che, ripristinando tramite la narrazione iconografica del Castello dei destini incrociati il viaggio ariostesco, preannuncia le riflessioni consoliane, immaginando il paladino Astolfo nell’atto di interrogare un solitario poeta, ultimo abitante lunare:

Quale saggezza trarre per norma della Terra da questa Luna del delirio dei poeti? Il cavaliere provò a porre la domanda al primo abitante che incontrò sulla Luna: il personaggio ritratto nell’arcano numero uno, Il Bagatto, nome e immagine di significato controverso ma che qui pure può intendersi — dal calamo che tiene in mano come se scrivesse — un poeta.

Sui bianchi campi della Luna, Astolfo incontra il poeta, intento a interpolare nel suo ordito le rime delle ottave, le fila degli intrecci, le ragioni e sragioni. Se costui abita nel bel mezzo della Luna, — o ne è abitato, come dal suo nucleo più profondo, — ci dirà se è vero che essa contiene il rimario universale delle parole e delle cose, se essa è il mondo pieno di senso, l’opposto della Terra insensata.[45]

La poesia rimane dunque l’ultimo elemento sull’astro ormai spoglio, ben lontano dalla ricchezza paesaggistica in Ariosto e maggiormente affine al sentire di Consolo: «la vita lassù, impraticabile, si fe’ esigua, disparve mano a mano».[46] Nonostante il decorso che l’astro ha avuto in entrambi gli scrittori, la luna continua ad avere un’ incontrastata, probabilmente ineguagliata, valenza poetica:

«No, la Luna è un deserto,» questa era la risposta del poeta, a giudicare dall’ultima carta scesa sul tavolo: la calva circonferenza dell’Asso di Denari, «da questa sfera arida parte ogni discorso e ogni poema; e ogni viaggio attraverso foreste battaglie tesori banchetti alcove ci riporta qui, al centro d’un orizzonte vuoto.»[47]

 Il Viceré Casimiro e gli abitanti di Lunaria

I figuranti che ruotano intorno alla luna sono occasione in Consolo per compiere quella critica sociale, onnipresente nelle sue opere, in cui lo scrittore doveva necessariamente impegnarsi per non risultare complice delle incongruenze del presente. Persino un’opera così strettamente legata all’immaginifico mondo settecentesco, grazie alla sapiente caratterizzazione dei personaggi, «figure archetipiche che si elevano a categoria di universali, incarnando realtà ontologiche e qualità permanenti»[48] diviene strumento di lettura dell’umano, prescindendo dal momento storico. Primo fra tutti il Viceré, di cui viene svelato l’inganno già dalle prime pagine attraverso l’espediente del manichino, scudo e alter ego del regnante, inganno confermato dall’epilogo che mostra la profonda consapevolezza di un disilluso Viceré di rappresentare un’effige di un potere fittizio, il cui risveglio, dipinto con sfumature squisitamente ironiche, sembra ricalcare le patetiche rimostranze del Giovin Signore del Giorno di Parini: «No, no, no… Avverso giorno, spietata luce, abbaglio, città di fisso sole, isola incandescente…»[49]. Il Viceré viene pazientemente accudito dal valletto Porfirio, similmente ai servi fedeli, che si affrettano a schermare i raggi del sole per favorire il sonno tardivo del nobile parodiato da Parini:

Già i valetti gentili udìr lo squillo

de’ penduli metalli a cui da lunge

moto improvviso la tua destra impresse;

e corser pronti a spalancar gli opposti

schermi a la luce; e rigidi osservaro

che con tua pena non osasse Febo

entrar diretto a saettarte i lumi.[50]

La caricatura di regnante offerta dal Viceré Casimiro, a cui viene dato maggiore spazio rispetto alla precedente versione di Piccolo, con la quale l’opera di  Consolo ha un esplicito rapporto di complementarità, è in origine dipinta  dal barone sulla falsa riga del fratello Casimiro, con palesi intenti canzonatori confermati dalla descrizione fattane dallo stesso Consolo, in cui l’ossessione per le bacinelle d’acqua, disseminate in ogni dove all’interno della dimora nobiliare, ricorda l’ossessione del Viceré di Piccolo per la tintura, di cui erano ricolme numerose ciotole, similmente posizionate all’interno dell’abitazione:

Ogni tanto appariva anche il fratello, il barone Casimiro, bello fresco rasato ed elegante come dovesse uscire per qualche festa. Era invece, come mi rivelò una volta in gran confidenza, ch’egli dormiva di giorno e vegliava di notte, e nel tardo pomeriggio, quando s’alzava, faceva toilette perché più tardi sarebbe cominciata la sua grande avventura dell’attesa notturna delle apparenze, delle materializzazioni degli spiriti. Il barone era un cultore di metapsichica e studiava trattati e leggeva riviste come “Luci e ombre”. Mi spiegò una sua teoria sulle materializzazioni, non solo di uomini, ma anche di cani,

di gatti, mi disse che a quelle presenze, per lo sforzo nel materializzarsi, veniva una gran sete ed era per questo che per tutta la casa, negli angoli, sotto i tavoli, faceva disporre ciotole piene d’acqua.[51]

Il processo di rielaborazione del reale, innestato alle componenti storico-immaginifiche su cui affonda le radici l’intreccio della narrazione, viene puntualmente esaminato da Sciascia, le cui riflessioni sullo stile di Piccolo sono estendibili al sentire poetico di Consolo, essendo entrambi fautori di uno stile barocco e verticale:

Ma la realtà è, per un poeta barocco specialmente, insufficientemente poetica: e viene perciò sottoposta a un processo di «degnificazione». Vale a dire che la realtà viene per troppo amore soppressa, liquidata, nel punto stesso della massima esaltazione.[52]

I due autori, specchio di due modi diversi di intendere la scrittura barocca e il proprio apporto alla società, di aristocratico distacco in uno, di convinto e profondo intervento nell’altro, hanno in comune la piena adesione al sostrato spagnolo da cui la cultura palermitana in special modo è stata profondamente influenzata:

Il macabro, nello stesso tempo fastoso, caratteristico di certi ambienti e di certe mentalità di Palermo (che ora non ci sono più, credo) proviene dalla Spagna, proviene dall’elemento spagnolo che noi palermitani abbiamo subìto molto.[53]

Non è un caso che Cesare Segre assimili la figura del Viceré a quella del Principe Sigismondo de La vida es sueño di Calderòn de la Barca[54], in quanto i due nobili condividono entrambi i volti della speranza: il sogno e l’illusione.  L’intera esistenza per Sigismondo è sogno, dominata dall’illusorietà, intrinseca nella sfera onirica, in cui illusorio è persino il tempo, realtà fugace e velleitaria, del cui sentire il Viceré Casimiro si mostra in qualche misura erede:

Tutto è macèria, sabbia, polvere, erbe e arbusti ch’hanno coperto i loro resti. Malinconia è la storia. Non c’è che l’universo, questo cerchio il cui centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte, questo incessante cataclisma armonico, quest’immensa anarchia equilibrata. Ma se malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine, panico, terrore. Contro i quali costruimmo gli scenari, i teatri finiti e familiari, gli inganni, le illusioni, le barriere dell’angoscia.[55]

Tuttavia l’epilogo della medesima inferenza è differente: la morte come unica realtà possibile per il principe polacco, disvelatrice delle illusioni dell’esistenza e dell’inconsistenza dell’universo sensibile, la luna per il Viceré palermitano, «questa mite, visibile sembianza, questa vicina apparenza consolante, questo schermo pietoso, questa sommessa allegoria dell’eterno ritorno. Lei ci salvò e ci diede la parola, Lei schiarì la notte primordiale, fugò la dura tenebra finale».[56] L’inganno della realtà teatrante viene svelato e Sigismondo, divenuto Principe, non è più Sigismondo, d’altro canto Casimiro non è più il Viceré, ammette con amarezza di averlo malvolentieri impersonato e teatralmente si sveste delle effigi del potere, abbandonando scettro e mantello. È proprio nei momenti essenziali del racconto, il prologo e l’epilogo, che Consolo denuncia la natura metateatrale di Lunaria, in cui i confini tra realtà e finzione vengono consapevolmente e visibilmente intrecciati, per restituire al lettore un ordito di sensibile profondità critica:

Dal “Preludio”, il Viceré, collocato dietro il suo manichino che chiama “quel muto commediante di quest’Opra”, presenta lo scenario dove si sviluppa la favola, spogliato della sua personalità come fosse un attore mentre recita il suo proemio: “E qui è il corpo grande, la maschera della giovine disfatta, la rossa, la palmosa, la bugiarda…”. Al termine dell’opera, nel suo “Epilogo”, Consolo è ancora più esplicito: “Non sono più il Viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete recitato una felicità che non avete. Così Porfirio (Porfirio si spoglia della livrea, degli scarpini, del turbante)”.[57]

Il lascito di entrambe le sceneggiature teatrali, è ancora una volta speculare: «è finzione la vita, malinconico teatro, eterno mutamento»[58], «Qué es la vida? Una ilusiòn, una sombra, una ficciòn…»[59], in quanto l’esplicito impianto teatrale diviene spunto per polemizzare, attraverso i due periodi storici in cui operano gli autori, barocco per Calderon de la Barça e moderno per Consolo, sulla vuotezza dei ruoli societari, rovesciando i rapporti di potere attraverso l’intreccio della narrazione.  In Consolo l’esasperazione delle dicotomie negli exempla di accademici, la cui ironica categorizzazione riflette la staticità del ruolo e la cristallizzazione del pensiero, svela le contraddizioni di chi presumibilmente detiene il sapere, ma sceglie di avvalersene autoreferenzialmente. Ad essi, così come agli ecclesiastici, a cui il Viceré riserva caustici interventi, i quali, irrimediabilmente distanti dalla sostanza ascetica e spirituale cui la loro veste dovrebbe tendere, digradano verso le bassezze della gola, dell’avarizia e dell’abuso di potere, Consolo contrappone la saggezza popolare dei villani della Contrada Senza Nome. Essi, provenienti da una contrada spogliata dai nomi dei luoghi, e quindi in qualche modo dalla propria storia, recuperano i gesti essenziali e la memoria dell’antica lingua, dei rituali atavici, in cui risiede la poesia e dunque la rinascita del mito della luna. Sotto un sole «tiranno indifferente, occhio che abbaglia, che guarda e che non vede»[60] si consuma il decadimento di una Palermo che è effige dell’intera società siciliana, al pari della Regalpetra di Sciascia, che è in ogni dove e in nessun luogo, in quanto realtà altra, ma plasmata dallo stampo di tutte le desolanti realtà su cui l’occhio sagace dello scrittore si è posato.  E la desolante realtà presentata da Consolo è quella di un mondo «antico e nuovo, carico di memoria, invaso dall’oblio»[61] e nell’ossimoro si consuma la ricchezza del popolo siciliano. La catarsi anelata da Consolo, inquieta supplica alle Muse nell’epiclesi, ha un’unica via per la sua manifestazione: «un velo d’illusione, di pietà, / come questo sipario di teatro»[62] e non è forse la luna, «sipario dell’eterno»[63], l’assoluzione, il riscatto, praticando essa stessa la catarsi rinascendo sopra le contrade siciliane? La poesia, come la storia è imperituro teatro destinato alla malinconia dell’eterno ritorno, ed è nella sua intrinseca attitudine alla rinascita che risiede la salvezza dell’uomo.

«Dopo è l’arresto, l’afasia. È il silenzio».[64]


[1] Gianni Turchetta, Da un luogo bellissimo e tremendo, in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, I Meridiani, Milano, Mondadori, 2015, p. LV.

[2] Paola Baratter, Lunaria [di Vincenzo Consolo]: il mondo salvato dalla Luna, «Microprovincia», Stresa, XLVIII, 2010, pp. 85-93.

[3] Platone, Gorgia, citato in Giacomo Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di Prospero Viani, Firenze, Le Monnier, 1851, p. 47.

[4] G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, a cura di Prospero Viani, Firenze, Le Monnier, 1851, pp. 127-128.

[5]Charles Baudelaire, Il desiderio di dipingere, in Lo Spleen di Parigi. Poemetti in prosa, XXXVI, in. Tutte le poesie e i capolavori in prosa, trad. di Claudio Rendina, Roma, Newton & Compton, 1998, pp. 549-551.

[6] Ibidem.

[7]C. Baudelaire, I benefici della luna, XXXVII, Ivi, p.552.

[8] Johann Wolfgang Goethe, Faust, capitolo I, traduzione di G. Scalvini, Milano, Giovanni Silvestri, 1835, p. 22.

[9] Giovanni Carpinelli, Invocazioni poetiche alla luna, «Belfagor», 21 giugno 2014, http://machiave.blogspot.com/2014/06/invocazioni-poetiche-alla-luna.html

[10] Lucano, Farsaglia, cit., vv. 667-669.

[11]J. w. Goethe, An den mond (Alla luna), Vienna, Diabelli, 1850, vv. 7-8.

[12]J.W. Goethe, Faust e Urfaust, traduzione, introduzione e note di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 451.

[13] Ivi, XXXVII Canto, Odi, Melisso o Lo spavento notturno, pp. 141-142, vv. 1-20.

[14] V. Consolo, Lunaria, cit., p. 80.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, pp. 71-72.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 65.

[19] Cesare Segre, Un profilo di Vincenzo Consolo, in Vincenzo Consolo, L’opera completa, a cura di Gianni Turchetta, I Meridiani, Milano, Mondadori, 2015, pp. XIV-XV.

[20] Ibidem.

[21] Orazio, Sermo VIII, citato in G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cit., p. 37.

[22] V. Consolo, Paesaggio metafisico di una folla pietrificata, «Corriere della Sera», 19 ottobre 1977.

[23] Daragh O’Connell, La notte della ragione – fra politica e poetica in Nottetempo, casa per casa, Milano, Università degli Studi, 6 – 7 marzo 2019, http://vincenzoconsolo.it/?p=1815 [ultimo accesso: 14 novembre 2020]

[24] Miguel de CERVANTES, Los trabajos de Persiles y Sigismunda, a cura di C. Romero, Madrid, Cátedra, 2002, p. 244.

[25] Pirandello, Male di luna, «Corriere della Sera», 22 settembre 1913, poi in Le due maschere, Quattrini, Firenze 1914, poi nella nuova edizione riveduta della raccolta dal titolo Tu ridi, Milano, Treves, 1920 col titolo Quintadecima, ora in Id. Novelle per un anno, in Opere di Luigi Pirandello, vol I, Milano, Mondadori, 1980, pp. 1297-1298.

[26] Ibidem.

[27] P. Baratter, Lunaria [di Vincenzo Consolo]: il mondo salvato dalla Luna, cit., pp. 85-93.

[28] V. Hugo, Claire de lune, Les Orientales, Parigi, Ollendorf, 1912, p. 670, v. 1.

[29] Pirandello, Male di luna, cit., pp. 1300-1301.

[30] Irene Romera Pintor, Introduzione a Lunara: Consolo versus Calderòn, a cura di G. Adamo, La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, Lecce, Manni, 2006, p.171.

[31] V. Consolo, Lunaria, cit., p.60.

[32] Ivi, p .46.

[33] G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cit., pp. 300-01.

[34] V. Consolo, Lunaria, Milano, Mondadori, 2013, p.45.

[35]Irene Romera Pintor, Introduzione a Lunara: Consolo versus Calderòn, cit., pp.166-167.

[36] G. Leopardi, Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, cit., pp.302-03.

[37] V. Consolo, Lunaria, pp.125-26.

[38] I. Calvino, Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, p. 183.

[39] V. Consolo, Lunaria, cit., p. 64.

[40] D. Alighieri, Canto II, Paradiso, Commedia, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, Firenze, Le Monnier, 1984, vv. 19-36.

[41] Ivi, vv. 49-51.

[42] L. B. Alberti, Intercenales, a cura di Bacchelli e D’Ascia, Bologna, Pendragon, 2003, pp. 228-241.

[43] L. Ariosto, Orlando Furioso, XXXIV, a cura di Lanfranco Caretti, Torino, Einaudi, 2015, vv. LXXVI-LXXVII.

[44] V. Consolo, Lunaria, cit., p.64.

[45] I. Calvino, Il castello dei destini incrociati, Milano, Mondadori, 2016, p.40.

[46] V. Consolo, Lunaria, cit., p.64.

[47] Ivi, p.41.

[48] I. R. Pintor, La parola scritta e pronunciata, cit., p. 169.

[49] V. Consolo, Lunaria, cit., p.18.

[50] G. Parini, Il mattino, (seconda edizione), Il Giorno, in Id., Il giorno, le odi, dialogo sopra la nobiltà, introduzione e note di Saverio Orlando, Milano, Rizzoli, 1978, vv.70-75.

[51] V. Consolo, Il barone magico, «L’Ora», 17 febbraio 1967.

[52] L. Sciascia, Le “soledades” di Lucio Piccolo, in La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino, Einaudi, 1970, p. 23.

[53] A. Pizzuto, L. Piccolo, L’oboe e il clarino, a cura di A. Fo e A. Pane, Milano, Scheiwiller, 2002, pp. 177-181.

[54] C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Intrecci di voci, Torino, Einaudi, 1991, pp. 87-102.

[55] V. Consolo, Lunaria, cit., p. 80.

[56] Ibidem.

[57] I. R. Pintor, La parola scritta e pronunciata, cit., pp. 169-170.

[58] V. Consolo, Lunaria, p.85.

[59] Don Pedro Calderon de la Barça, La vida es sueno, II Giornara, scena 19, a cura di C. Morón, Madrid, Catedra, 2005, vv. 2183-4.

[60] V. Consolo, Lunaria, cit., p.85.

[61] Ibidem.

[62] V. Consolo, Catarsi, cit.

[63] V. Consolo, Lunaria, cit., p.85.

[64] V. Consolo, Per una metrica della memoria, Relazione tenuta al Centro di Studi sul Classicismo di Palazzo Pratellesi a San Gimignano in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, Milano, 12 gennaio 1996, versione cartacea in «Bollettino ‘900 – Electronic Newsletter of ‘900 Italian Literature», VI-XI, 1997, pp. 25-29.



Citazioni pittoriche e strategie ecfrastiche nell’opera di Vincenzo Consolo

foto Andersen Salone del libro Parigi marzo 2002

 di Dario Stazzone

L’articolo indaga l’intenso dialogo tra i romanzi consoliani e le arti figurative, in particolare la pittura. Un dialogo che si avvale di strategie molteplici, le icone autoriali annunciate spesso dai titoli tematici dei romanzi, il ricorso all’ekphrasis nascosta, gli inserti critici riferiti alle opere d’arte. Con particolare riferimento a Il sorriso dell’ignoto marinaio ed a Retablo prende in esame, per altro, l’uso che lo scrittore fa dell’ekphrasis, il suo valore metanarrativo e metadiegetico.

L’opera di Consolo riserva ampio spazio alle citazioni figurative.[1] Lo scrittore, intervistato da Giuseppe Traina, ha dato una spiegazione della ricchezza dei riferimenti pittorici riscontrabili nei suoi romanzi ricorrendo ad un assunto semiologico, affermando la volontà di superare la contrapposizione tra lo svolgimento temporale del linguaggio verbale e lo svolgimento spaziale dell’opera figurativa. Per Consolo la continua evocazione dell’immagine riscontrabile nella sua scrittura risponde all’esigenza di equilibrio tra temporalità e spazialità:

Credo ci sia bisogno di equilibrio tra suono e immagine, come una sorta di compenso, perché il suono vive nel tempo, invece la visualità vive nello spazio. Cerco di riequilibrare il tempo con lo spazio, il suono con l’immagine. Poi sono stati motivi d’ispirazione, di guida, le citazioni iconografiche di Antonello da Messina o di Raffaello. In Retablo c’è l’esplicitazione dell’esigenza della citazione iconografica: il “retablo” appartiene alla pittura ma è anche “teatro”, come nell’intermezzo di Cervantes.[2]

La stessa perigrafia dei romanzi consoliani rinvia spesso a suggestioni figurative o a palesi citazioni pittoriche, evidenti fin dai titoli: com’è noto Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento al dipinto di Antonello da Messina, il ritratto virile d’ignoto custodito nel Museo Mandralisca di Cefalù. Anche Retablo, romanzo pubblicato nel 1987 per i tipi Sellerio, evoca la pittura fin dal titolo. Il termine catalano retablo indica infatti una pala d’altare inquadrata architettonicamente: essa può articolarsi in diversi scomparti formando un dittico, un trittico o un polittico costituito da tavole dipinte, talvolta da sculture o dall’alternanza di dipinti e bassorilievi, tenendo insieme, in quest’ultimo caso, imagines pictae fictae. Il titolo scelto da Consolo, facendo riferimento ai polittici iberici, denunzia in primo luogo la vocazione pittorica del libro. Ma retablo è inteso dall’autore come un significante polisemico, come un lessema evocativo di rara e remota sonorità che contiene, ad un tempo, riferimenti figurativi, teatrali e letterari: «La parola retablo (parola oscura e sonora, che forse ci viene dal latino retrotàbulum: il senso, per me, dietro o oltre le parole, vale a dire metafora) l’ho assunta nelle varie accezioni: pittorica, shahrazadiana, cervantesiana».[3] Tra l’altro il lemma spagnolo rinvia alla memoria del Retablo de las meravillas di Miguel de Cervantes. L’evocazione cervantesiana può essere intesa anche come un riferimento al tratto illusorio dell’arte, motivo a cui il romanzo dedica più di una riflessione. Attraverso la scelta di un titolo di carattere tematico[4] l’autore allude, infine, all’organizzazione narrativa del libro, articolato per scene e quadri successivi che potrebbero essere considerati come delle tavole sovrapposte, pur mantenendo la loro autonomia narrativa. Il testo consoliano si configura dunque come un polittico, come una successione di quadri narrativi al centro dei quali sta il motivo odeporico, ovvero il viaggio del cavaliere Fabrizio Clerici nella Sicilia del XVIII secolo, e una tarsia di citazioni che ne fanno uno dei romanzi più complessi e levigati della letteratura italiana del secondo Novecento.

Ritratto fotografico di Vincenzo Consolo, di Giuseppe Leone (1985 ca.)
foto Giuseppe Leone

Per dare un titolo all’ampia intervista concessa all’IMES nel 1993, lo scrittore, ancora una volta, ha usato un riferimento pittorico evocando Fuga dall’Etna di Guttuso.[5] Consolo ha riproposto il nome che il pittore siciliano ha dato ad una tela di vaste dimensioni realizzata tra il 1938 e il 1939, la sua prima composizione corale, lungamente meditata e preparata attraverso studi, ritratti e paesaggi realizzati tra la Sicilia e la Sila.[6] Nel dipinto un’eruzione etnea assume un più ampio significato sociale e diventa l’occasione per rappresentare masse di contadini in fuga concitata, arditi scorci di cavalli che negli stilemi e nell’esemplificazione formale rivelano la memoria di Guernica di Picasso: un’allusione alla sofferenza del mondo contadino e al dramma della migrazione, anch’esso un vulnus iscritto nella storia del Novecento. Non è un caso che Consolo si sia ricordato del telero guttusiano: nell’intervista, infatti, l’autore ripercorre il suo itinerario biografico e intellettuale, parla dell’allontanamento dall’isola natale, della condizione di erranza, della metafora odissiaca che attraversa i suoi romanzi, del nostos impossibile e del trasferimento giovanile a Milano. La citazione di Fuga dall’Etna testimonia, tra l’altro, dell’amicizia tra lo scrittore e Guttuso che si traduce nelle argute allusioni presenti in diversi romanzi. Si veda, ad esempio, il cenno, incastonato nelle pagine di Retablo, al «pittore celebrato […] della Bagarìa», anacronisticamente collocato in un elenco di artisti siciliani d’epoca manierista o barocca: «Siete meglio del Monrealese, meglio dello Zoppo di Ganci, del Monocolo di Racalmuto, meglio di quel pittore celebrato (non ricordo il nome) della Bagarìa».[7] L’allusione consoliana, che qui assume le connotazioni di un ammiccante gioco a nascondere, non è dissimile dalla scelta di fare dell’amico Clerici, pittore lombardo inquieto e surreale, il protagonista del libro.

Renato Guttuso, Fuga dall’Etna, olio su tela, 1940
Fuga dall’Etna di Renato Guttuso

Anche l’ultimo romanzo di Consolo, Lo Spasimo di Palermo, fa riferimento a un’opera pittorica, il dipinto di Raffaello un tempo custodito nella chiesa palermitana di Santa Maria dello Spasimo e oggi esposto nelle sale del Museo del Prado. Secondo la narrazione del Vasari la tavola dell’Urbinate sarebbe giunta in Sicilia per mare, attraverso fortunosi accadimenti.[8] La citazione dello Spasimo (ovvero della raffaellesca Andata al Calvario di Cristo) è usata per conferire una connotazione martirologica alla narrazione. Il romanzo, infatti, si confronta col tema dell’impotentia scribendi, con lo smarrimento del protagonista e, nelle pagine conclusive, allude alla strage di via D’Amelio, all’attentato che determinò la morte di Paolo Borsellino. Il simbolismo sotteso dal riferimento pittorico è intensificato dalla riproduzione di una pagina dello spartito del Dies irae del compositore augustese Manuele d’Astorga.[9] La citazione pittorica, il ricercato recupero di un testo musicale d’epoca barocca, i riferimenti cinematografici portano al massimo grado l’orchestrazione plurima dei codici, facendo culminare la narrazione in una successione di suggestioni sinestetiche che conferiscono forza al tragico explicit.

Oltre alla perigrafia, alle tarsie intertestuali ed alle note icone autoriali di Consolo, ovvero alle esplicite costruzioni ecfrastiche dedicate al ritratto virile di Antonello da Messina nel Sorriso dell’ignoto marinaio, all’oratorio serpottiano di San Lorenzo in Retablo, al caravaggesco Seppellimento di Santa Lucia ne L’olivo e l’olivastro ed alla tavola raffaellesca nello Spasimo, Miguel Ángel Cuevas ha messo in evidenza il ricorso, da parte dello scrittore, alla strategia dell’«ekphrasis nascosta».[10] Cuevas, attraverso lo studio variantistico delle opere consoliane, ha sottolineato come l’autore tenda all’occultamento dell’originario costrutto ecfrastico, restituendo al lettore non la descrizione di un’immagine, ma la sua immediatezza:

L’occultamento della dimensione ecfrastica del testo finisce per far diventare l’immagine un’alterità senza equivalenze, senza punto di riferimento: un’alterità assoluta; le figure si palesano in una loro ambiguità atopica, all’interno della quale la persistenza di segni elocutivi descrittivi potrebbe essere interpretata – non solo, ma almeno anche – come indizio del flusso di coscienza, come l’apparire, in ogni caso, di una diversa voce narrante: che paradossalmente provoca effetti di denarrativizzazione.[11]

Se l’ekphrasis, figura di pensiero per aggiunzione che la retorica ha considerato da sempre il mediumtra la letteratura e le arti, è la descrizione verbale di una rappresentazione visuale, se, come ha affermato Mengaldo, la «descrizione verbale non mima l’opera, ma lo sguardo che percorre l’opera»,[12] la strategia di opacizzazione referenziale adottata da Consolo rende ancora più complessi i rapporti intercorrenti tra testo e immagine. Il ricercato equilibrio tra temporalità e spazialità, di cui lo scrittore ha parlato nell’intervista concessa a Traina, rivela risvolti assai complessi considerando che spesso, nelle narrazioni consoliane, la visività verbale si pone come controfigura di un’immagine non dichiarata: «rapporti, in definitiva, basati su convergenze o parallelismi che incrinano, mostrandone l’obsolescenza, le tradizionali ed escludenti collocazioni delle immagini su un asse spaziale in rapporto al logos che si svolge sulla temporalità».[13]

In sintesi il rapporto tra i romanzi di Consolo e la pittura si avvale di strategie molteplici: la retorica della citazione e le icone autoriali che spesso sono preannunciate dal titolo tematico dell’opera; le ekphrasis nascoste, incastonate in una scrittura sempre caratterizzata da forte pittorialità; inserti critici e metadiegetici riferiti alle opere d’arte che testimoniano la raffinata formazione dell’autore e contribuiscono ad accentuare l’antinarratività delle sue opere dalla densa struttura ‘palinsestica’.[14] Un’ulteriore riflessione, sulla scorta degli studi di Michele Cometa dedicati alla retorica visuale, si impone in rapporto alle diverse forme di integrazione dell’ekphrasis nelle opere consoliane.

1. Il sorriso dell’ignoto marinaio: la funzione metapoetica e metanarrativa dell’ekphrasis

Si è già notato che Il sorriso dell’ignoto marinaio fa riferimento, fin dal titolo, ad un dipinto antonelliano, il ritratto virile custodito al Museo Mandralisca di Cefalù. La tavola quattrocentesca, che una tradizione suggestiva ma infondata indicava come il ritratto di un marinaio, è alla base dell’ordine delle somiglianze che attraversa il romanzo. Fin dall’incipit il protagonista, barone Enrico Pirajno di Mandralisca, tiene la tavola dipinta sotto braccio, riportandola da Lipari, dove l’ha fortunosamente scoperta, al suo palazzo cefaludese. L’antefatto del primo capitolo fa da sintesi del viaggio dell’aristocratico collezionista e vi dà un’esatta collocazione cronotopica, datandolo 12 settembre 1852: «Viaggio in mare di Enrico Pirajno barone di Mandralisca da Lipari a Cefalù con la tavoletta del ritratto d’ignoto di Antonello recuperata da un riquadro dello stipo della bottega dello speziale Carnevale».[15]

Leggendo il romanzo si scopre che il volto effigiato nel dipinto è somigliante a quello del patriota Giovanni Interdonato, l’uomo che il barone ha scorto, travestito da marinaio per sfuggire alle rappresaglie borboniche, nell’imbarcazione che lo riportava alla sua dimora. L’Interdonato avrà un ruolo essenziale nel determinare la presa di coscienza politica del Mandralisca. Otto anni dopo il viaggio alle Eolie, infatti, nel crinale storico del 1860, il Pirajno abbandonerà i suoi studi eruditi, la passione per la malacologia, il suo interesse per il collezionismo di mirabilia naturalia et antiquaria perseguito secondo l’habitus aristocratico e, essendosi rispecchiato nel volto dell’amico, muoverà da un generico liberalismo ad una più profonda comprensione della questione sociale.

Incastonata nel primo capitolo del Sorriso è la celebre ekphrasis del quadro di Antonello, ospitato tra le collezioni del Mandralisca:

Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. […] L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diventerà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.[16]

La descrizione del ritratto è anche una sua interpretazione oscillante tra etopea e prosopografia, ricca di connotazioni fisiognomiche che verranno riproposte per stabilire il complesso gioco di rifrazioni e proiezioni identificative tra i personaggi del romanzo.

Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto, olio su tavola, 1465-1476
Ritratto – Antonello Da Messina

La giusta età della ragione, l’ironia che si pone come tertium tra l’eccesso di severità e il riso aperto, sarcastico o spietato, anticipa il percorso di maturazione politica ed esistenziale del protagonista. Consolo piega così a particolare partitura quella vocazione fisiognomica presente nei romanzi di molti scrittori siciliani, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, da Sciascia ad Addamo. Del resto a indirizzare il lettore verso un’attenta interpretazione del testo è la citazione in esergo, tratta dall’Ordine delle somiglianze di Sciascia: «Il giuoco delle somiglianze è in Sicilia uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di conoscenza […]. I ritratti di Antonello “somigliano”; sono l’idea stessa, l’arché della somiglianza […]. A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca?».[17] Nell’economia narrativa del Sorriso sono diverse le ipostasi del riconoscimento e del rispecchiamento che stabiliscono la tensione speculare tra i personaggi principali. Significativamente il momento in cui l’aristocratico individua nell’Interdonato il marinaio già scorto nel viaggio del 1852 è anche il momento in cui egli si accorge della straordinaria somiglianza tra il patriota e l’uomo effigiato nella tavola antonelliana.[18]

Il ritratto di Antonello, nella Memoria che il Mandralisca invia all’Interdonato sui fatti di Alcàra Li Fusi, vero e proprio nucleo ideologico del romanzo, diventa anche l’emblema di una ragione distaccata, condizionata dalla nascita, dalla posizione di casta o dalle necessità di carriera. Rispecchiandosi nel ritratto antonelliano, in altre parole, il Mandralisca pone una spietata critica a se stesso, alla sua classe sociale, alle sue «imposture»,[19] alla stessa intellettualità progressista che concepisce comodi ideologemi e interessate teleologie, a partire dalla stessa retorica risorgimentale.

Cuore di molteplici tensioni narrative, simboliche e proiettive, la tavola di Antonello assolve dunque ad un ruolo capitale nel romanzo, ben lontana dall’essere una semplice citazione iconica. Usando il linguaggio di Cometa è utile indagare, in quest’opera consoliana, l’«integrazione per trasposizione»[20] dell’ekphrasis.La riflessione dello studioso, sulla scorta della rilettura di un testo classico come le Immagini di Filostrato, categorizza diverse forme di integrazione ecfrastica, da intendersi come integrazione da parte del lettore nel suo repertorio.[21] Scrive Cometa: «Il lettore è dunque invitato non solo a penetrare con lo sguardo nell’immagine ma anche a integrarla con le proprie preconoscenze e con la propria esperienza pregressa».[22] Naturalmente nel Sorriso si possono riconoscere forme molteplici di integrazione dell’ekphrasis, e tra esse l’«integrazione ermeneutica»,[23] forse il procedimento più ricercato alla base del patto ecfrastico: nel Sorriso la descrizione dell’opera d’arte si avvale delle consapevolezze critiche, iconografiche e iconologiche di Consolo, in dialogo con quel lettore colto che le possieda e le sappia intendere. Come vedremo in seguito gli inserti critici e metadiscorsivi hanno una parte significativa nel Sorriso. Ma il romanzo del 1976 rimane un caso esemplare in cui l’opera d’arte assume un vero e proprio ruolo genetico, al punto che l’intero plot è stato concepito attraverso costanti rinvii ad essa. È parimenti evidente che la descrizione del ritratto antonelliano assolve alle funzioni metapoetica e metanarrativa, nel senso postulato da Cometa che ha recuperato motivi propri della poetologia schlegeliana e romantica, secondo cui l’ekphrasis permette di prefigurare ed anticipare il senso di un romanzo, costituendo un dispositivo in cui l’opera letteraria si «rispecchia», una lente in cui si scorge un’«immagine unitaria della narrazione».[24]

Oltre al caso dell’icona antonelliana, si possono individuare nel Sorriso molteplici esempi di ekphrasis nascosta; per tutti la descrizione, incastonata nel primo capitolo, di un cavatore di pomice liparitano sofferente, osservato dal Mandralisca durante il viaggio da Lipari a Cefalù. Come ha messo in evidenza Cuevas, nella descrizione dell’uomo si riconosce un dettaglio della Crocefissione di Anversa, una tavola antonelliana in cui il ladrone di sinistra si attorce in un ultimo spasimo che precede la morte.[25] Vi è nel Sorriso un’essenziale e ben nota triangolazione di riferimenti figurativi: il ritratto antonelliano, la Crocefissione di Anversa e Los desastres de la Guerra di Goya, i cui titoli scandiscono la narrazione del settimo capitolo, dedicato alla sanguinosa rivolta contadina di Alcàra Li Fusi ed alla sua repressione.[26] Come ha sottolineato Rosalba Galvagno alcune ekphrasis del Sorriso possono essere ricondotte alle incisioni de Los desastres.[27] Ma il novero dei rinvii meno evidenti alle arti plastiche e figurative è molto ampio. Non manca chi ha individuato nella rappresentazione dello studiolo del Mandralisca un probabile riferimento al San Gerolamo di Vittore Carpaccio, alle opere di Filippino Lippi o a quelle del ceroplasta siracusano Matteo Durante.[28]

Tra i tanti riferimenti espliciti alle arti sono riscontrabili cenni alla statuaria ed alla produzione ceramica greca, all’icona marmorea del Giovane con la tunica del Museo Whitaker di Mozia ed al cratere del Pittore di Lipari rappresentante la vendita del tonno. Altri riferimenti evocano il Trionfo della morte di Palermo (l’affresco tardogotico di Palazzo Sclafani che ha ispirato Guernica di Picasso, citato spesso anche da Sciascia e Bufalino), le sculture rinascimentali di Francesco Laurana ed Antonello Gagini, le tele del secentista Pietro Novelli. La descrizione delle collezioni messe insieme dal Mandralisca restituisce una fitta successione di citazioni pittoriche:

Venne il momento della visita al museo. Guidati dal barone Mandralisca, fecero il giro della quadreria disposta in doppia fila alle pareti. Sentirono distratti elogiare la luce dell’Alba a Cefalù del Bevelacqua, l’espressione intensa della Sant’Anna del Novelli, la sapienza prospettica dell’Ultima Cena della scuola del Ruzzolone, dove le figure erano così tonde e grosse, così sazie, che sembrava quella sì un’ultima cena, ma il cui inizio non si conosceva, con portate continue di maccheroni al sugo. E così avanti, per le tavole bizantine, per ignoti siciliani, per i napoletani e gli spagnoli, fino a quello della giovane formosa che offre alle labbra di un vecchio rinsecchito il capezzolo rosa d’una mammella bianca che sbuca dallo scuro in piena luce.[29]

Nella rappresentazione dei dipinti non mancano increspature ironiche, come nel rapporto che viene stabilito, con un improvviso abbassamento del tono della narrazione, tra il motivo iconografico dell’Ultima cena e le «portate continue di maccheroni al sugo»: un’allusione al succulento banchetto che è probabilmente l’unico motivo per cui gli ospiti hanno accettato l’invito del barone a recarsi nella sua dimora e «godere la visione di una nuova opera unitasi alla loro collezione».[30] La stessa capacità rovesciante è rivelata nella descrizione di un dipinto che fa riferimento alla lactatio, tradizionale emblema di una delle Virtù Teologali, la Carità. Lo statuto iconografico che, nella tradizione figurativa barocca era l’occasione per rappresentare la nudità e la procacità femminili, esplicita qui il suo sottointeso erotico e diventa un’allusione alla ben poco edificante brama di un «vecchio rinsecchito»,[31] con un evidente riferimento alle Sette opere di Misericordia di Caravaggio.

Consolo, nel Sorriso, recupera un motivo letterario e parodico, quello dell’antiquario, della sua greve erudizione, della sua mania collezionistica che ha un archetipo nella goldoniana Famiglia dell’antiquario e conosce significative riprese anche nei romanzi di Capuana e De Roberto.[32] Non è un caso che, scorgendo una statua classica tra i marmi accatastati in un’imbarcazione, immaginando di accaparrarsela, il Pirajno si ponga in fantasiosa competizione con altri aristocratici dediti alla raccolta di nobilia opera del passato. Rappresentando la brama del Mandralisca, lo scrittore incastona nella narrazione un elenco dei maggiori collezionisti siciliani realmente esistiti ed attivi tra il XVIII e il XIX secolo:

Uh, ah, cazzo, le bellezze! Ma dove si dirigeva quella ladra speronara, alla volta di Siracusa, bianca, euriala e petrosa, o di Palermo, rossa, ràisa e palmosa? Pirata, pirata avrebbe voluto essere il barone, e assaltare con ciurma grifagna quella barca, tirarsela fino all’amato porto sotto alla rocca […]. Avrebbe fottuto il Bìscari, l’Asmundo Zappalà, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pèpoli, il Bellomo e forse il Landolina.[33]

L’ironia consoliana raggiunge il culmine nella descrizione dei crateri attici radunati nella collezione Mandralisca, con le loro scene erotiche ed altre raffigurazioni ispirate ai baccanalia, certamente non confacenti alla morale del XIX secolo:

Oltre al Venditore di tonno, oltre a matrone languide, sdraiate, con ancelle attorno che le aiutavano a fare toilette, i vasi neri e rossi mostravano fauni impudichi e sporcaccioni, con tutta l’evidenza dritta della infoiatura, che abbrancavano per la vita, per le reni ninfe sgambettanti per portarsele, poverette, chissà dove; altre scene di fughe e rapimenti, altre di ragazze estatiche davanti a giovanotti inghirlandati e con bordoni in mano di cui non si capivano le intenzioni. Gli uomini si davano gomitate, facevano ammiccamenti, azzardavano sottovoce interpretazioni, mentre il barone li informava sull’epoca e sul luogo della provenienza di quelle antichità.[34]

Concependo il suo romanzo come un «antiromanzo storico»,[35] sullo sfondo di un Risorgimento gramscianamente inteso come mancata rivoluzione, Consolo ha usato la sua conoscenza della storia dell’arte per fare il verso al barone collezionista, per rappresentare la vacuità della sua classe sociale. L’integrazione ermeneutica dei costrutti ecfrastici vuole il concorso esegetico del lettore, la sua comprensione dei passaggi ironici. La «plurivocità» del Sorriso,[36] oltre che nei processi parodici, è ravvisabile nella stessa contraddittorietà e complessità di un personaggio come il Mandralisca che, in ultimo, riuscirà ad allontanarsi dalla concezione erudita ed esornativa della cultura propria della sua classe sociale, destinata ad un ineluttabile declino, acquisendo un’acuta e demistificante consapevolezza politica.

2. Retablo, o delle rifrazioni ad infinitum

Consolo ha fatto del pittore milanese Clerici il protagonista di Retablo. Le allusioni a Clerici e Guttuso non sono casuali. Ad ispirare il romanzo, infatti, è stato un viaggio in compagnia dei due artisti nella Sicilia orientale, un’occasione in cui lo scrittore ha rivisto i templi dorici di Segesta, Selinunte e Agrigento percorrendo alcune delle tappe canoniche del Grand Tour d’Italie.[37] Consolo, dunque, ispirandosi ad un fatto realmente accaduto, ha dato un doppio letterario al suo amico. A complicare il gioco di allusioni vi è la perigrafia, la scelta di illustrare la prima di copertina della prima edizione del libro con un dettaglio di un dipinto di Clerici,[38] ed ancora la scelta di incastonare nel testo diverse ekphrasis ispirate all’opera dello stesso artista. Non sembra un caso che il pittore milanese sia stato anche il protagonista di un romanzo di Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, ed abbia fatto conoscere a Sciascia La tentazione di Sant’Antonio, la tela del manierista Rutilio Manetti in cui è effigiato il diavolo con gli occhiali, investito di forti valori simbolici nel romanzo Todo modo.[39]Le vertiginose rifrazioni del libro consoliano sono degne della teoria di rispecchiamenti de Las Meninas di Velázquez, dipinto emblematico della temperie barocca.

La rappresentazione di un viaggio in Sicilia nel XVIII secolo, la ricchezza di riferimenti figurativi e la diffusa retorica dello sguardo fanno di Retablo l’opera consoliana in cui il rapporto tra letteratura e pittura si fa più intenso e insistito.[40] I rimandi figurativi, per altro, agiscono in profondità, fino a dare forma alla stessa architettura ed alla focalizzazione del racconto. Il romanzo, infatti, è ripartito in tre capitoli o tavole: OratorioPeregrinazione Veritas. A ciascuna di queste parti corrisponde una diversa voce narrante, quella di Isidoro in Oratorio, quella di Clerici in Peregrinazione e quella di Rosalia in Veritas. Un intreccio di voci che restituisce al lettore gli stessi accadimenti osservati da angolazioni diverse, moltiplicando prismaticamente le visioni e le possibili interpretazioni della realtà.

Ad incipitdi Oratorio è posto il celebre inno che Isidoro innalza a Rosalia: una petitio amorosa, una laica preghiera, una litania o un delirio in cui la scomposizione del nome dell’amata in Rosa e Lia, il moltiplicarsi delle figure fonetiche ed etimologiche, l’intertestualità non priva di echi danteschi e petrarcheschi, l’investimento ambiguo ed ambivalente della donna si spingono ad un parossistico virtuosismo. Subito dopo Isidoro, dedito alla questua e alla vendita delle bolle, narra in prima persona l’amore concepito per la giovane che, quotidianamente, gli appariva alla finestra insieme alla madre. Le due donne hanno ordito il raggiro dell’inesperto questuante facendogli credere di poter sposare la ragazza e, fattesi consegnare il denaro delle bolle, sono scomparse nel nulla. Cacciato dunque dal convento, il fraticello è ridotto alla condizione di facchino alla Cala di PalermoQui, finalmente, gli appare il cavaliere Clerici, sceso da una nave che ha il nome simbolico di Aurora.[41] L’aristocratico viaggiatore prende con sé Isidoro, lo allontana dalla vita dura ed ambigua del porto e ne fa il suo accompagnatore nel viaggio in Sicilia volto all’osservazione e alla riproduzione dei monumenti antichi. Quando Clerici fa conoscere al fraticello il cavaliere Serpotta e gli mostra l’oratorio palermitano di San Lorenzo, questi scorge nella statua della Veritas il sembiante dell’amata Rosalia, va in escandescenze e sviene.

Come si vede da questa veloce sintesi il primo capitolo di Retablo consegna subito al lettore una pluralità di toni: l’incipitlirico, la seduzione e il raggiro di Isidoro che rinvia all’archetipo novellistico di Boccaccio, la rappresentazione della baraonda della Cala, non priva di dettagli bassi, spuri e scatologici, la descrizione dettagliata dell’oratorio serpottiano. Il primo apparire di Rosalia tra i vicoli di Palermo è una delle tante ekphrasis nascoste che costellano la narrazione, annunciata da un preciso riferimento al «riquadro», ovvero alla finestra da cui si sporge la ragazza in compagnia della madre:

Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei.[42]

La scena, più che un generico riferimento all’Annunciata antonelliana di palazzo Abatellis, rinvia ad un’opera di Bartolomé Esteban Murillo, Las Gallegas, ovvero Due donne galiziane alla finestra, custodita alla National Gallery di Londra: un riferimento fino ad oggi non evidenziato dalla letteratura critica, tuttavia ricco di impliciti che contribuiscono a connotare la figura di Rosalia. Nel dipinto appaiono due donne, una giovane e una matura, che affacciandosi alla finestra ammiccano al passante-spettatore: un espediente che, attraverso lo sguardo muliebre, tende ad oltrepassare lo spazio della tela, come spesso accade nelle opere del secentista spagnolo. Si tratta di un dipinto di genere popolaresco, una scena di seduzione in cui è forse raffigurata una giovane prostituta con la sua mezzana. Il dettaglio della mantellina fermata con la mano sotto il mento è puntualmente riscontrabile nella descrizione di Retablo e si fa indice dell’esatta referenzialità del testo consoliano. L’ekphrasis delinea dunque l’immagine ambivalente della giovane, il cui atteggiamento, in apparenza pudico, dissimula una capacità seduttiva rivelata dallo sguardo che, «sotto il velario delle ciglia», emana, secondo una significativa sinestesia, «lampi d’un fuoco di smeraldo».[43]

Bartolomé Esteban Murillo, Las Gallegas, olio su tela, 1670

Fin dalla prima apparizione, dunque, Rosalia è rappresentata secondo le valenze ambigue della donna levatrice e sprofondatrice, una duplicità iscritta nel suo stesso nome composto che rinvia alla patrona palermitana, quella Santa Rosalia nella cui iconografia, inventata nei primi decenni del Seicento, confluiscono non pochi statuti rappresentativi della Maddalena.[44] Un percorso iconografico certo non ignoto a Consolo che, nell’inno di Isidoro, si avvale dell’oscillazione tra la figura laica e quella profana di Rosalia, facendo riferimento alla statua marmorea della santa venerata nel santuario di Monte Pellegrino.[45]

Già in Oratorio, dunque, la giovane donna appare ad una finestra, tecnema della visione non dissimile dalla cornice di un dipinto,[46] viene ricordata attraverso il simulacro marmoreo della santa, la si immagina rappresentata in una delle figure in stucco dell’oratorio serpottiano, è evocata ripetutamente nelle catene paronomastiche e nella dimensione ecoica dell’inno incipitario che scompone e richiama ripetutamente il suo nome: tutti simulacra del sentimento amoroso concepito da Isidoro, espressione dell’ossessione del fraticello e dell’intangibilità di uno sfuggente oggetto del desiderio.[47] Per altro, nella rappresentazione laico-profana di Rosalia e nelle reduplicazioni della sua immagine, è facile scorgere la suggestione de Gli elisir del diavolo di Hoffmann.

Tra le statue che ritraggono Rosalia vi è l’allegoria serpottiana della Verità che, secondo lo statuto iconografico, è rappresentata come Nuda Veritas. La descrizione del teatro plastico settecentesco è una delle più note icone autoriali incastonate nel libro che nasconde, nella stessa rappresentazione degli stucchi rischiarati da un raggio di sole, l’ekphrasis di un dipinto di Clerici. Il raggio che penetra nell’aula, che colpisce una ninfa di cristallo e, rifrangendosi, illumina le statue, è lo stesso che si può scorgere in una tela del pittore milanese, La grande confessione palermitana: il chiarore diffuso dal raggio solare, consustanziale al «bianco puro»[48] dell’oratorio, rivela nel dipinto una natura luttuosa che lega le candide statue all’immagine funerea dei corpi imbalsamati delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Ecco che il testo consoliano, in una vertiginosa sovrapposizione, include in una descriptio un’altra ekphrasis. Come ha rilevato Maria Rizzarelli: «L’ordine delle somiglianze che nel Sorriso costituiva il principio gnoseologico della conversione ideologico-sociale del Mandralisca, diviene qui ordine delle apparenze, da fondamento conoscitivo si trasforma, attraverso l’esasperante trionfo della figura del doppio, in ordine dell’illusione con cui s’identifica l’arte».[49]

La rappresentazione dell’oratorio è il punto culminante del capitolo iniziale di Retablo. Se in questa prima parte del romanzo si incontrano alcuni grandi pittori e artisti (un rapido cenno è dedicato anche al dipinto palermitano di Caravaggio, la Natività), il secondo capitolo, Peregrinazione, è totalmente incentrato sulla figura di Clerici che, accompagnato da Isidoro, intraprende il suo viaggio e la sua esplorazione della Sicilia.

Palermo, Oratorio di San Lorenzo

Anche Clerici viaggia per l’isola con l’intento di dimenticare la donna amata, Teresa Blasco, futura sposa di Cesare Beccaria e dunque futura nonna di Alessandro Manzoni.[50] Alla nobildonna milanese, il cui padre ha origine spagnola e la madre siciliana, il cavaliere dedica il suo diario di viaggio. Fin dalla Dedicatoria, indirizzata a Teresa, Clerici si dice intenzionato a illustrare e a narrare la patria materna della donna, rivelando così l’intenzione di avvalersi sia della parola che dell’immagine, di usare entrambi i codici per rappresentare la Sicilia.[51] Del resto, già in Oratorio, l’aristocratico viaggiatore è stato presentato da Isidoro in virtù della sua abilità di disegnatore: «Quel don Fabrizio che sbarcò in Palermo, con la fortuna mia, per viaggiare l’Isola, scoprire l’anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di cittate ultrapassate».[52] Lo stesso cavaliere, ben presto, sente l’esigenza di porre sotto gli occhi di donna Teresa non solo le immagini del mondo classico, i monumenti antichi, ma anche le brutture della società contemporanea. Clerici si rivela, dunque, un viaggiatore assai lontano da compiacimenti arcadici e vagheggiamenti idilliaci, dall’eterno archetipo della pastorale teocritea e dalle sue riprese settecentesche. Le sue intenzioni e il suo sguardo disilluso preannunciano un motivo che diventerà dominante nei successivi romanzi consoliani, il contrasto tra la memoria del passato e un presente di rovina, immemore e degradato.

Il percorso di Clerici ricalca parzialmente quello del Grand Tour nella Sicilia occidentale: Palermo, la vicina Monreale, Alcamo, Segesta, Selinunte, Mozia e Trapani. Retablo rimodula dunque, attraverso una complessa trama intertestuale, temi e motivi propri dell’odeporica settecentesca, configurandosi come un Voyage pittoresque, un Conte philosophique e un romanzo picaresco. Lo sguardo di Clerici è quello straniante del pittore, aduso a scrutare le fisionomie, a indovinare l’animo di chi gli sta di fronte. La sua visione è arguta e disincantata, in altre parole è quella di uno smaliziato e inquieto viaggiatore novecentesco, anche se le illusioni, gli apparati effimeri, le rifrazioni, le quinte teatrali e i retabli ingannevoli appaiono ad ogni passo del suo viaggio, adatte a rappresentare le oltranze immaginative di pittori, scultori e architetti della Sicilia barocca o tardobarocca. Il trionfo della teatralità e la voglia di destare meraviglia trovano il culmine nella descrizione di Alcamo, la patria del Soldano Lodovico, il luogo dove si riunisce l’Accademia de’ Ciulli Ardenti che, con la sua poesia edulcorata e pretenziosa, non rende onore all’autore del Contrasto. È qui che, in occasione della festa del paese, appare il Retablo de las meravillas, un apparato aniconico e illusorio in cui ogni spettatore può proiettare e scorgere i suoi fantasmi.

Nell’ultimo capitolo di RetabloVeritas, Rosalia racconta finalmente la sua verità: realmente innamorata di Isidoro, è divenuta una cantante che si appresta a debuttare in una rappresentazione della Vergine del Sole di Cimarosa. Ospite nel palazzo di un munifico marchese, è stata educata al bel canto da don Gennaro Affronti, un artista castrato che le ha fatto da «padre» e da «madre».[53] Rosalia si è dunque mantenuta fedele ad Isidoro, convinta che per preservare un amore sia necessaria la sua cristallizzazione. Per questo esorta l’amato a ritornare alla vita passata ed alla sicurezza claustrale.

Ogni aspetto della vita e dell’arte, in Retablo, si rivela illusorio: l’amore di Isidoro e Rosalia verrà preservato solo a costo di una monacazione spirituale; l’amore concepito da Clerici per donna Teresa Blasco non è ricambiato. Frequenti sono i dubbi, espressi dallo stesso Clerici, sulla possibilità di rappresentare quant’egli ha osservato nel suo viaggio: l’impotenza dell’arte è metaforizzata dalla condizione del castrato don Gennaro, ovvero dalla sua impotentia generandi. L’uso sapiente dei costrutti ecfrastici e delle rifrazioni che sembrano riproporsi ad infinitum allude all’intangibilità della realtà. Motivi che percorrono in modo insistito l’opera di Consolo e, dopo essersi affacciati in Retablo, passando per un testo capitale come Catarsi, giungono alle pagine intensamente patemiche dello Spasimo. Ma anche per viam negationis l’autore, col vertiginoso spessore palinsestico della sua opera, ha riaffermato la necessità dell’arte e della scrittura, del nesso intimo tra parola e immagine, del loro irrinunciabile valore tetico.


1 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ut Pictura: El imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 63-77.

2 G. Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole (FI), Cadmo, 2001, p. 130.

3 La citazione è tratta da S. Puglisi, Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo, Acireale-Roma, Bonanno, 2008, p. 207.

4 Cfr. G. Genette, I titoli, in Id., Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989, pp. 55-101.

5 V. Consolo, Fuga dall’Etna, Roma, Donzelli, 1993.

6 Per le immagini di Fuga dall’Etna e dei suoi bozzetti cfr. F. Carapezza Guttuso (a cura di), Guttuso. Capolavori dai musei, Milano, Mondadori Electa, 2005, pp. 60-61.

7 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987, ora in Id., L’opera completa, a cura di G. Turchetta, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2015, p. 417. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione.

8 Cfr. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue, insino a’ tempi nostri, Torino, Einaudi, 1991, pp. 630-631.

9 Per uno studio della fitta intertestualità de Lo Spasimo di Palermo mi permetto di rinviare a D. Stazzone, ‘Testi e intertesti in Vincenzo Consolo: Lo Spasimo di Palermo’, in F. Cattani, D. Meneghelli (a cura di), La rappresentazione allo specchio. Testo letterario e testo pittorico, premessa di S. Albertazzi, M. Cometa, M. Fusillo, Roma, Meltemi, 2008, pp. 185-201.

10 Adotto qui le definizioni di «icona autoriale» ed «ekphrasis nascosta» proposte in M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole. Intertesti figurativi nella scrittura di Vincenzo Consolo’, in R. Galvagno (a cura di), «Diverso è lo scrivere». Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, introduzione di A. Di Grado, Avellino, Biblioteca di Sinestesie, 2015, pp. 17-37. Di notevole valore teorico è l’introduzione alla raccolta degli scritti per artisti di Consolo: M. Á. Cuevas, ‘L’arte a parole’, in V. Consolo, L’ora sospesa ed altri scritti per artisti, Valverde (CT), Le Farfalle, 2018, pp. 9-16.

11 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 29.

12 P. V. Mengaldo, Tra due linguaggiArti figurative e critica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 38.

13 M. Á. Cuevas, L’arte a parole, p. 30.

14 Quanto al palinsesto consoliano cfr. D. O’ Connell, ‘Consolo narratore e scrittore palincestuoso’, Quaderns d’Italià, 13, 2008, pp. 161-185; D. O’ Connell, ‘Furor melancholicus: poetica pittorica nella narrativa di Vincenzo Consolo’, in D. Perrone, N. Tedesco (a cura di), Letteratura, musica e arti figurative tra Settecento e Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2014, pp. 147-160.

15 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1976, ora in Id., L’opera completa, p. 127. Tutte le successive citazioni saranno tratte da questa edizione. Per una storia critico-genetica ed alcune valutazioni filologiche sul Sorriso cfr. N. Messina, ‘«Il sorriso dell’ignoto marinaio» di Vincenzo Consolo. Un approccio a III Morti sacrata’, in J. Eynaud (a cura di), Interferenze di sistemi linguistici e culturali nell’italiano, Atti del X Congresso AIPI (Università di Malta, La Valletta, 3-6 settembre 1992), Zabbar (Malta), Gutemberg Press, 1993, pp. 141-163; N. Messina, Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo «Il sorriso dell’ignoto marinaio», tesi di Dottorato, Universitad Complutense, Madrid, 2007, [accessed 17 February 2020]; D. O’ Connell, ‘“And he a face still forming”: Genesis Gestation and Variation in Vincenzo Consolo’s Il sorriso dell’ignoto marinaio’, Italian Studies, 1, 2008, pp. 119-140.

16 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 143-144.

17 Sul rapporto tra Consolo e Sciascia cfr. C. Madrignani, Dopo Sciascia’, La rivista dei libri, novembre 2001, pp. 26-29; M. Á. Cuevas, ‘Parole incrociate: Sciascia e Consolo’, in L. Trapassi, Leonardo Sciascia, un testimone del secolo XIX, Acireale-Roma, Bonnanno, 2012, pp. 195-206. Quanto alla funzione delle epigrafi nell’opera consoliana mi permetto di citare D. Stazzone, ‘Tra palinsesto e paratesto: le epigrafi di Consolo’, Quaderns d’Italià, 21, 2016, pp. 183-192.

18 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, p. 161.

19 Ivi, p. 219.

20 M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale, Milano, Raffaello Cortina, 2012, p. 135.

21 Si fa cenno alla nozione di «repertorio» elaborata da W. Iser, L’atto di lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, il Mulino, 1987.

22 M. Cometa, La scrittura delle immagini,p. 116.

23 Ivi, p. 121. 24 Ivi, p. 140.

25 La Crocefissione, custodita al Koninklijk Museum voor Schone Kunstern di Anversa, è un olio su tavola realizzato da Antonello nel 1475, durante la sua permanenza a Venezia. Cfr. M. Lucco (a cura di), Antonello da Messina. L’opera completa, Cinisiello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2006, pp. 216-221.

26 Cfr. M. Á. Cuevas, ‘Ancora su Antonello’, Testo, 59, 2010, pp. 117-124.

27 Cfr. R. Galvagno, ‘«Bella la verità». Figure della verità in alcuni testi di Vincenzo Consolo’, in Ead. (a cura di), «Diverso è lo scrivere»,pp. 39-64.

28 Cfr. S. Grassia, La ricreazione della mente. Una lettura del «Sorriso dell’ignoto marinaio», Palermo, Sellerio, 2011, p. 44. Per l’iconografia di San Gerolamo cfr. H. Friedmann, A Bestiary for Saint Jerome. Animal Symbolism in European Religious Art, Washington D.C., Smithsonian Institution Press, 1980, pp. 291-293. Per l’iconografia di San Gerolamo nelle opere consoliane cfr. S. S. Nigro, ‘Gerolamo e Agrippino’, La Sicilia, 15 novembre 1988.

29 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 141-142.

30 Ivi, p. 135. 31 Ivi, p. 142.

32 Si pensi al don Eugenio Uzeda dei Vicerè di De Roberto o al don Tindaro del Marchese di Roccaverdina di Capuana.

33 V. Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 134-135.

34 Ivi, p. 142. 35 V. Consolo, Fuga dall’Etna, p. 45.

36 C. Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo’, in Id., Intrecci di vociLa polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi,1991, p. 83.

37 Cfr. V. Consolo, Conversazione a Siviglia, a cura di M. Á. Cuevas, Caltagirone (CT), Lettera da Qalat, 2016, pp. 45-46.

38 Si tratta di un dettaglio de La grande confessione palermitana, riprodotto nella prima copertina di V. Consolo, Retablo, Torino, Sellerio, 1987.

39 Il racconto della scoperta sciasciana del dipinto di Manetti è in F. Clerici, ‘L’eremo, l’abate e il diavolo’, in Id., Di profilo, a cura di M. Carapezza, Milano, Novecento, 1989, pp. 267-271.

40 Per alcune valutazioni complessive su Retablo cfr. N. Zago, ‘C’era una volta la Sicilia. Su «Retablo» e altre cose di Consolo…’, in Id., L’ombra del moderno, da Leopardi a Sciascia, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1992; G. Turchetta, ‘Il luogo della vita: una lettura di «Retablo»’, in M. Lanzillotta, G. Lo Castro, E. Porciani, C. Verbaro (a cura di), Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, Pisa, 2014, ETS, pp. 647-656.

41 È evidente il simbolismo onomastico adottato da Consolo: il cavaliere Clerici, infatti, approdando a Palermo, salva Isidoro, lo trae dall’abisso in cui era sprofondato e gli permette di rinascere a nuova vita. Ma il nome del «pacchetto Aurora», nel continuo gioco di allusioni che caratterizza la scrittura consoliana, rinvia anche all’incrociatore russo che, nel dicembre 1908, portò soccorso alla popolazione di Messina dopo il terremoto che aveva raso al suolo la città siciliana e Reggio Calabria. L’Aurora, per altro, ebbe un ruolo di primo piano nella rivoluzione d’Ottobre, sparando il primo colpo d’arma da fuoco dal castello di prua, segnale dell’inizio della rivoluzione.

42 V. Consolo, Retablo, p. 371. 43 Ibidem.

44 Per l’iconografia della patrona palermitana Santa Rosalia cfr. M. Cometa, Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E. T. A. Hoffmann, Roma, Meltemi, 2005.

45 V. Consolo, Retablo, p. 369.

46 Quanto alla finestra, alla sua funzione di tecnema della visione e al suo ruolo nelle descrizioni letterarie cfr. P. Hamon, Imagerie. Littérature et imageau XIX e siècle, Paris, Édition José Corti, 2001.

47 Cfr. il saggio di R. Galvagno, «Bella la verità», pp. 39-64.

48Ibidem.

49 M. Rizzarelli, ‘Un Retablo come uno specchio. Le voyage pittoresque del cavaliere Fabrizio Clerici’, in A. Ottieri (a cura di), Ai margini della letteratura. Le “scritture contaminate”, Sinestesie, IV, 2006, p. 92.

50 Per i rapporti tra Retablo e l’Illuminismo lombardo cfr. G. Albertocchi, ‘Dietro il Retablo. «Addio Teresa Blasco, addio marchesina Beccaria». Leggere Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10, 2005, pp. 95-111, ora in G. Albertocchi, «Non vedo l’ora di vederti». Legami, affetti, ritrosie nei carteggi di Porta, Grossi e Manzoni, Firenze, Clinamen, 2011, pp. 141-159.

51 Cfr. V. Consolo, Retablo, p. 379. 52 Ivi, p. 370. 53 Ivi, p. 473.

da Arabeschi n. 15

La metrica della memoria


foto: Giovanna Borgese Palermo 1975

La metrica della memoria

Un velo d’illusione, di pietà,

come ogni  sipario di teatro,

come ogni schermo; ogni sudario

copre la realtà, il dolore,

copre la volontà.

La tragedia é la meno convenzionale,

la meno compromessa delle arti,

la parola poetica e teatrale,

la parola in gloria raddoppiata,

la parola scritta e pronunciata. (1)

Al di là é la musica. E al di là é il silenzio.

Il silenzio tra uno strepito e l’altro

del vento, tra un boato e l’altro

del vulcano. Al di là é il gesto.

O il grigio scoramento,

il crepuscolo, il brivido del freddo,

l’ala del pipistrello; é il dolore nero,

senza scampo, l’abisso smisurato;

é l’arresto oppositivo, l’impietrimento.

Così agli estremi si congiungono

gli estremi: le forze naturali

e il volere umano,

il deserto di ceneri, di lave

e la parola che squarcia ogni velame,

valica la siepe, risuona

oltre la storia, oltre l’orizzonte.

In questo viaggio estremo d’un Empedocle

vorremmo ci accompagnasse l’Empedoklès

malinconico e ribelle d’Agrigento,

ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.

Per la nostra inanità, impotenza,

per la dura sordità del mondo,

la sua ottusa indifferenza,

come alle nove figlie di Giove

e di Memoria, alle Muse trapassate,

chiediamo aiuto a tanti, a molti,

poiché crediamo che nonostante

noi, voi, il rito sia necessario,

necessaria più che mai la catarsi.

(Catarsi, p.13-14, […])

 

Questi versi, strofe o frasi, sono tratte dal  Prologo della mia opera teatrale intitolata Catarsi, in cui  é messo in scena il suicidio sull’ Etna di un moderno Empedocle.

Ho voluto iniziare con questi versi perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.

 

[…] Empedocle:

La tragedia comincia nel fuoco più alto (2)

                    In questa nuda e pura, terrifica natura,

in questa scena mirabile e smarrente,

ogni parola, accento é misera convenzione,

rito, finzione, rappresentazione teatrale.

 

Un testo, questo, dal linguaggio di voluta comunicabilità,privo di innesti dialettali,  lontano dal pastiche espressionistico praticato nelle mie opere narrative, intenzionalmente alto,  in qualche modo declamatorio, puntellato da rimandi impliciti e da esplicite citazioni di testi classici: da Hölderlin, naturalmente, ai frammenti di Perì Phùseos e di Katharmoì di Empedocle.

Per spiegare questo esito, devo partire dall’ esordio, dalla mia scelta di campo letterario, dalla prima impostazione stilistica. E il discorso cade fatalmente sulla scrittura, sulla lingua.

La lingua  italiana, sin dalla sua nascita, sappiamo, é stata, come dice Roland Barthes, “molto parlata”, nel senso che molto si é scritto su di essa. A partire dal suo grande  creatore, da Dante, con il De vulgari eloquentia. Il quale, oltre ad essere un saggio di poetica personale, é il primo trattato di linguistica italiana. “Chiamiamo lingua volgare” dice “quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando cominciano ad articolare i suoni […] Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono ‘grammatica’ (lingua letteraria regolata)”. E afferma, con un bell’ossimoro: “Harum quoque duarum nobilior est vulgaris” (Di queste due lingue la più nobile é la volgare). Da Dante dunque a Lodovico Castelvetro, ad Annibal Caro, e giù fino a Leopardi, a Manzoni, a De Amicis, fino a Pasolini. Molti  scrittori insomma hanno parlato di questo strumento, della lingua che erano costretti ad usare.

Mi voglio soffermare su Leopardi, sulle riflessioni che il poeta fa sulla società, sulla letteratura e sulla lingua italiana in quel gran mare che é lo Zibaldone. Leopardi confronta la lingua italiana con la lingua francese, stabilisce un continuo parallelo fra le due lingue, così apparentemente prossime e insieme così lontane. Lontane al punto, afferma tra gli altri Luca Serianni (3),  che per un adolescente italiano la lingua di Dante o del Novellino è ancora in gran parte comprensibile, mentre per il suo coetaneo francese La Chanson de Roland é un testo straniero, da affrontare con tanto di vocabolario.

Ma torniamo al nostro Leopardi. Il francese, egli dice, tende all’ unicità, mentre l’italiano é un complesso di lingue piuttosto che una lingua sola, potendo essa variare secondo i vari soggetti e stili e caratteri degli scrittori, per cui diversi stili sembrano quasi diverse lingue; il francese invece, sin dall’epoca di Luigi XIV, si é geometrizzato, é diventato lingua unica. E cita, Leopardi, Fénelon, il quale definisce la lingua francese una “processione di collegiali”.Diciamo qui tra parentesi che alla frase di Fénelon deve aver pensato Ernest Renan nell’affermare: “Il francese non sarà mai una lingua  dell’assurdo: e neanche sarà mai una lingua  reazionaria. Non si riesce a immaginare una vera e propria reazione che abbia per strumento il francese”. Ma a Renan ribatte Roland Barthes: “L’errore di Renan  non era errore strutturale ma storico; egli credeva che il francese, plasmato dalla ragione, conducesse necessariamente all’espressione di una ragione politica la quale nel suo spirito non poteva che essere democratica”. E concludeva: “La lingua non é né reazionaria né progressista: essa é semplicemente fascista; il fascismo infatti, non é impedire di dire, ma obbligare a dire”. Non capisco questo radicalismo linguistico di Barthes, espresso nella lezione inaugurale al Collège de France, ma  chiudendo la lunga parentesi, ritorno ancora a Leopardi, alla sua idea del francese geometrizzato. E non posso non esclamare:”Beati i francesi con la loro lingua unica, geometrica e cartesiana! Che é segno, quella lingua, dell’esistenza e della compiutezza di una società civile (“Oggi so che alla Francia mi lega soltanto l’amore per la lingua francese” scriveva Jean Genet durante il suo vagabondare per l’Europa) (4). Il complesso di lingue che é (o che é stato, fino agli anni Sessanta, fino all’analisi della trasformazione di questa lingua che ne fa Pasolini), l’italiano é di segno opposto: segno vale a dire dell’assenza o incompiutezza di una società civile italiana.

Lo Zibaldone, dicevo. Leopardi afferma che la lingua italiana, il toscano vale a dire, raggiunge la sua massima eleganza  nel Cinquecento. Finisce questa eleganza, questa centralità toscana, con la Controriforma, con l’esplosione di quel leibniziano cataclisma armonico, di quell’ anarchia equilibrata che va sotto il nome di Barocco. Per Croce però il Barocco non nasce dalla Controriforma, ma da una concomitante decadenza, dall’ affievolirsi di quell’ entusiasmo morale, di quello spirito del Rinascimento che aveva illuminato l’Europa. Era stata Firenze dunque centro di quella lingua attica, di quell’italiano platonico, di quella scrittura borghese, laica, elegante dei poeti, dei filosofi, degli scienziati a cui ogni scrittore, da ogni corte o convento, da ogni accademia o piazza, da ogni centro o periferia aspirava. Ma questa lingua dell’Ariosto e del Tasso, del Machiavelli e del Guicciardini, nel tempo si irrigidisce, si fa aulica, perde contatto col suo fondo popolare, si geometrizza, perde in estensione. Leopardi ammira la perfezione stilistica raggiunta dagli scrittori del nostro Secolo d’Oro, ma predilige l’immensità, la varietà, la vertiginosa libertà espressiva di uno scrittore secentesco, barocco, del gesuita Daniello Bartoli, l’autore della Istoria della Compagnia di Gesù. Dice: “Il padre Daniello Bartoli é il Dante della prosa italiana. Il suo stile, in ciò che spetta alla lingua, é tutto risalti e rilievi”. Risalti e rilievi come quelli del Resegone, che Manzoni ironizza ironizzando il Seicento, il tempo della disgregazione, del marasma sociale. Ironizza prima esplicitamente trascrivendo nell’introduzione  del suo grande romanzo il “dilavato e graffiato autografo” dell’anonimo secentista, inzeppato “d’idiotismi lombardi”, di “declamazioni ampollose”, di “solecismi pedestri” e seminato qua e là da qualche eleganza spagnola. (L’espediente del documento dell’anonimo secentesco pensiamo derivi al Manzoni da Cervantes, dal Don Chisciotte, dal sedicente manoscritto dell’arabo Cide Hamete Berengeli). E ironizza ancora nascostamente parodiando nell’incipit, in “Quel ramo del lago di Como”, un brano del Bartoli riguardante l’India, la regione del Gange, riportando così il disordine lombardo all’ordine, alla geometria fiorentina. Che era per Manzoni l’aspirazione all’ordine, all’armonia sociale, a un illuministico, cristiano Paese, di cui la lingua, comune e comunicativa, doveva essere espressione. Utopia mai realizzatasi, si sa. E dunque la moderna storia letteraria italiana, con le rivoluzioni linguistiche degli Scapigliati, di Verga e dei Veristi, con il preziosismo decadente di D’Annunzio, con la esplosione polifonica del “barocco” Gadda e degli altri sperimentalisti, da una parte, con lo sviluppo della “complessa” semplicità leopardiana dei rondisti e degli ermetici, con l’asciutta, scabra lingua di Montale, dall’altra, é la storia del convivere e dell’alternarsi della lingua rinascimentale e illuministica e della linea barocca e sperimentale. É la storia di speranza e di fiducia degli scrittori in una società civile; la storia di sfiducia nella società, di distacco da essa, di malinconia, di disperazione.

Da tali altezze scendendo al mio caso, a quel  che ho potuto o saputo fare, posso dire questo. Ho mosso i miei primi passi in campo letterario (e questo risale al 1963) nel momento in cui si concludeva in Italia la stagione del Neorealismo e stava per affacciarsi all’ orizzonte quel movimento avanguardistico che va sotto il nome di Gruppo ‘63. Il quale, come tutte le avanguardie, opponendosi alle linee letterarie che erano in quel momento praticate, dalla neo-realistica, alla illuministica e razionalistica, alla sperimentalistica, programmava l’azzeramento d’ogni linguaggio che proveniva dalla tradizione e proponeva un nuovo, artificiale linguaggio di difficile praticabilità. L’operazione non era nuova, naturalmente, era già stata fatta dal Futurismo, dal suo fondatore Marinetti, il quale aveva dettato il decalogo della nuova scrittura.

1) Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.

2) Si deve usare il verbo all’ infinito.

3) Si deve abolire l’aggettivo.

4) Si deve abolire l’avverbio…Etc…Etc…

Questa ideologia linguistica o stilistica marinettiana riproponeva uno dei teorici del  Gruppo ’63, affermando che bisognava praticare il “disordine sintattico e semantico come rispecchiamento del disordine della società”. Credo che si fosse nel campo della indecifrabilità, della pseudo-afasia, speculare alla indecifrabilità linguistica e alla pseudo-afasia del potere.

Dicevo che ho mosso i primi passi in quel clima letterario e insieme in quel clima politico in cui un partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, dal ’48 ininterrottamente al potere, aveva cambiato profondamente l’assetto sociale e culturale del nostro Paese, aveva cambiato la nostra lingua.

Pasolini (sulla rivista Rinascita – dicembre ’64 – quindi in Empirismo eretico)  aveva pubblicato il saggio dal titolo Nuove questioni linguistiche in cui sosteneva che, con il neo-capitalismo, l’asse linguistico italiano s’era spostato dal centro meridione, da una realtà burocratica e contadino-dialettale, al centro settentrione, a una realtà piccolo-borghese aziendale e tecnologica. E analizzava un brano del discorso di un uomo politico emblematico, Aldo Moro (ucciso a Roma nel ’78, come sappiamo, da quei piccolo-borghesi criminali, mascherati da rivoluzionari, che sono stati i componenti delle Brigate Rosse), discorso pronunciato nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, autostrada che univa per la prima volta l’Italia dal Piemonte alla Sicilia. Diceva Moro: “ La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture  di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza fra diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala nazionale”. E Pasolini concludeva dunque nel suo saggio: “Perciò in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare che è nato l’italiano come lingua nazionale” (si noti in questa frase l’amara ironia pasoliniana). Non era certo, questo italiano per la prima volta nazionale, uguale al francese unico e geometrizzato di cui parlava Leopardi, ma una sorta di sotto o extra-lingua, una astorica, rigida, incolore koinè.Sono passati più di quarant’anni dal 1964 e lascio immaginare la situazione linguistica italiana di oggi, dell’italiano strumentale e di quello letterario.

Esordivo in quel tempo, insieme a Luigi Meneghello, Lucio Mastronardi, Stefano D’Arrigo con La ferita dell’aprile, titolo di eco eliotiana. Un racconto in una prima persona mai più ripresa, una sorta di Telemachia o romanzo di formazione. Mi ponevo con esso subito, un po’ istintivamente e un po’ consapevolmente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’ impasto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E organizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo, con il gioco delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritrazione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma in qualche modo di un poemetto narrativo. C’era certo, dietro il libro, la lezione di Gadda e di Pasolini, c’era l’ineludibile matrice verghiana, ma c’era l’evidente polemica sociale, la diffidenza nei confronti del contesto storico, della sua lingua.

Tredici anni sono trascorsi tra il primo e il secondo libro. Un tempo lungo che poteva anche significare dimissione dalla pratica letteraria. Un tempo che ha coinciso – mi si permetta di dirlo – con la mia vicenda personale, con il mio trasferimento, nel ’68, dalla Sicilia a Milano. In questa città provai spaesamento per la nuova realtà, urbana e industriale, in cui mi trovai immerso, realtà di cui mi mancava memoria e linguaggio; per l’acceso clima politico, per i duri conflitti sociali di quegli anni. Fu un tempo quello di studio e di riflessione su quella realtà e sul dibattito politico e culturale che allora si svolgeva. Frutto di tutto questo fu la pubblicazione, nel 1976, del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Un romanzo storico-metaforico, ambientato in Sicilia intorno al 1860, che voleva chiaramente rappresentare il grande rinnovamento, l’utopia politica e sociale che nel  Sessantotto si vagheggiava in Italia e altrove, che nel nostro Paese doveva frantumarsi a causa dei suoi esiti tragici, disastrosi. L’ambientazione storica e il ripartire dal luogo della mia memoria mi permetteva di raggiungere maggiore consapevolezza della mia scelta di campo letterario, scelta contenutistica e stilistica. La sperimentazione linguistica, per l’adozione della terza persona, si svolgeva ora sul piano dell’ironia e del discorso indiretto libero. L’esito era quindi la “plurivocità” ben individuata da Cesare Segre. In cui era incluso il linguaggio alto del protagonista, un erudito dell’800, e la lingua dei contadini, la cui estremità era rappresentata da un antico dialetto, il gallo-italico o mediolatino, che si parlava in Sicilia in isole linguistiche dell’azione del romanzo. La sperimentazione, nel romanzo, era anche sul piano della struttura. I cui jati, le cui fratture erano riempite da inserti storiografici, da documenti, la cui funzione era quella di connettere i vari lacerti narrativi. Mi veniva questo dalle sollecitazioni del Gruppo ’47 di Enzerberger, per le sue teorie  di Letteratura come storiografia.  Anche qui c’é la messa in crisi del genere romanzo, c’é ancora la polemica della scrittura narrativa nei confronti della società. Società di cui fa parte la cosiddetta industria culturale che mercifica e distrugge il romanzo.

 

Nei miei successivi romanzi perseguo e approfondisco sempre di più la sperimentazione linguistica. In essi c’é la messa in crisi del genere romanzo, e c’é ancora, come dicevo sopra, la polemica nei confronti della società. Società in cui, con la rivoluzione tecnologica, con l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, l’autore non riesce più a individuare il lettore. Italo Calvino, scrittore quanto mai razionalista o illuminista, estremamente comunicativo, al pari di Moravia, di Bassani, di Primo Levi, di Sciascia, e di altri di quella generazione, Calvino, nel contesto di una inchiesta, alla domanda, a quale tipo di lettore egli pensasse scrivendo, rispondeva: “A un lettore che la sa più lunga di me”. Non credo che Calvino, in questo nostro presente, potrebbe ancora rispondere in quel modo, oggi in cui non è immaginabile un lettore più o meno letterariamente avveduto, più o meno

colto dell’autore.

Viene quindi la pubblicazione di

Lunaria (1985), un  racconto, una favola dialogata, che fatalmente prende forma

teatrale.La favola, ambientata in un vago Settecento, alla corte di un viceré spagnolo di Sicilia, si ispirava a un frammento lirico di Leopardi, Lo spavento notturno,e ad una prosa di Lucio Piccolo, L’esequie della luna.  La metafora della caduta della luna significava la caduta della poesia, della cultura nel nostro contesto.   L’epoca e il tema favolistico,  mi facevano  approdare a soluzioni di apparente puro significante, come questa:

Lena lennicula

Lemma lavicula,

làmula,

lèmura,

màmula.

Létula,

màlia,

Mah.

Della stessa epoca e dello stesso clima quai favolistico è anche Retablo. E’ un viaggio nella Sicilia classica, una metafora della ricerca al di là della ideologia, della completa dimensione umana, della perduta eredità umanistica. Per i rimandi, le citazioni eplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario o di un palinsesto.

Nottetempo, casa per casa è ancora una narrazione scandita come un poema. Dico narrazione nel modo in cui è stata definita da Walter Benjamin. Il quale in Angelus Novus, nel saggio su Nicola Leskov, fa una netta distinzione tra romanzo e narrazione.

La storia di Nottetempo, casa per casa é ambientata negli anni Venti, nel momento del fascismo in Italia. Vi si parla della follia privata, individuale, dolorosa, innocente, e della follia pubblica, la follia della società, della storia. Personaggio simbolico é il satanista Aleister Crowley, che incarna il decadentismo estremo della cultura europea di quegli anni, di nuove metafisiche, di misticismi di segno nero o bianco. Il protagonista del racconto, Petro Marano, è un piccolo intellettuale socialista, é costretto all’esilio, a rifugiarsi in Tunisia. Il racconto termina con questa frase: “Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.”

 

Il libro successivo L’olivo e l’olivastro, inizia con questa frase: “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto”. Qui è negata la finzione letteraria, l’invenzione del racconto. Il libro è un viaggio nella realtà contingente e nella memoria. E’ il ritorno di un Ulisse a Itaca, dove non trova che distruzione, violenza, barbarie.

Ma devo ora tornare all’inizio di questa conversazione. Tornare alla tragedia Catarsi, in cui , l’antagonista di Empedocle, Pausania,  così recita:

–              Io sono il messaggero, l’anghelos, sono

il vostro medium, colui  a cui è affidato

il dovere del racconto, colui che conosce

i nessi, la sintassi, le ambiguità,

le astuzie della prosa, del linguaggio….

Cambia tono, diviene recitativo, enfatico.

PAUSANIA – E un mattino d’agosto lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba Agrigento che s’alza sopra il fiume…Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti giungemmo all’oriente, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, presso la scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia…

Empedocle lo interrompe con un ghigno sarcastico.

EMPEDOCLE – Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! E’ proprio il degno figlio di questo orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo falso teatro compromesso, di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto…Dietro il velo grasso delle sue parole di melassa, io potrei scoprire l’oscena ricchezza della mia città, la sua violenza, la sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i misfatti, le stragi d’innocenza, d’onore, di memoria, la morte quotidiana imbellettata come le parole morte di questo misero ragazzo, di questo triste opportunista…

Ecco, ne L’olivo e l’olivastro l’ánghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi. Avviene qui la ritrazione invece che l’irruzione dello spirito socratico, quello che Nietzsche, ne La nascita della tragedia vede nel passaggio dall’antica tragedia di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Lo spirito socratico è il ragionamento, la filosofia, è la riflessione che l’autore del romanzo fa sulla vicenda che sta narrando: è quindi, come quello dell’ánghelos o messaggero con lo spettatore, il dialogo con il lettore. La ritrazione, la scomparsa dello spirito socratico é l’interruzione del dialogo con il lettore; é lo spostamento della scrittura dalla comunicazione all’espressione.

Nelle mie narrazioni c’é sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica. Sono questi per me le parti corali o i cantica latini.

Eric Auerbach, nel suo saggio sul Don Chisciotte, contenuto in Mimesis, scrive: “Cervantes (…) é (anche) un continuatore della grande tradizione epico-retorica, per la quale anche la prosa é un’arte, retta da proprie leggi. Non appena si tratti di grandi sentimenti e di passioni o anche di grandi avvenimenti, compare questo alto stile con tutti i suoi artifici”.

I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) con sistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale,  nella cancellazione della memoria,e quindi della continua minaccia della cancellzione della letteratura, soprattutto di quella forma letteraria dialogante che é il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante, in una forma poetica.

Poesia che é memoria, e soprattutto memoria letteraria.

Questo ho cercato di fare nello Spasimo di Palermo, terzo tempo, con il Sorriso dell’ignoto marinaio e Nottetempo,casa per casa, di una trilogia. “Ostinata narrazione poetica, in cui il raccontare é in ogni momento ricerca di senso, un interrogazione sul valore della realtà e dell’esistenza…” (Giulio Ferroni)

Nello Spasimo  vi si narra ancora di un viaggio di ritorno, di un nòstos in un’Itaca dove non é che smarrimento, violenza e dolore, “..una landa ingrata, / dove si trovano strage e livore” dice Empedocle nel Poema lustrale.

Questa é la nostra Itaca d’oggi, la matrigna terra della giustizia negata, della memoria cancellata, dell’intelligenza offuscata, della bellezza e della poesia oltraggiate,  delle passioni incenerite.

 

Vincenzo Consolo

 

 

  • Pasolini P.P. Affabulazione – 1966 – prefazione di G.D. Bonino TO Einaudi 1992
  • Hölderlin F. Sul tragico –1795-1804 – prefazione R.Bodei Mi Feltrinelli 1994

3)  Serianni L.  Viaggiatori, musicisti, poeti,  MI Garzanti 2002

4)   Genet J., Diario del ladro, Il Saggiatore 2002

versione definitiva al 18.2.2009

La notte della ragione – fra politica e poetica in Nottetempo, casa per casa  

 

Daragh O’Connell (University College Cork, Irlanda)

Devo iniziare con una confessione: in questi ultimi anni mi sono occupato prevalentemente di Dante. Quindi, per me è una specie di ritorno. La mia idea iniziale era quella di rintracciare la cifra dantesca nell’opera di Vincenzo, in modo di abbinare i miei interessi. Però, ripensandoci, e guardando intorno – La Brexit dei nostri “amici” inglesi, l’America di Trump, l’Europa di certi paesi (l’Italia inclusa), questa vostra Italia tremenda d’oggi – ho cambiato idea e ho deciso di parlare invece di un libro che è un presagio di questo nostro mondo, un romanzo terribilmente attuale.

In Nottetempo, casa per casa, pubblicato nel 1992 e secondo pannello sua trilogia, Consolo è tornato al romanzo storico metaforico. Il libro ha sfondo storico ed è ambientato nei primi anni Venti, ossia il periodo dell’insorgere del fascismo, tra Cefalù e Palermo; il tutto è visto attraverso le vicende di una famiglia, i Marano. In realtà, Nottetempo parla dell’Italia degli anni Novanta, della caduta di tutte le tensioni sociali, dell’avvento della destra, della prima volta che in Italia i fascisti sono arrivati al governo dopo la loro condanna storica. Inoltre, Consolo collegava il mondo culturale di quegli anni Venti con il mondo culturale dei tempi recenti: l’insorgere di nuove metafisiche, di misticismi, delle forme aberranti dei satanismi e delle sette misteriche. Quando si verifica una caduta della razionalità c’è sempre la ricerca di queste forme oscure e inquietanti. Aleister Crowley era il segno più forte di questa tendenza, insieme a D’Annunzio e tutti i decadenti di quell’epoca. Quei segni sembrano particolarmente imperanti nel panorama di oggi. E sono segni inquietanti.

A differenza di altri libri di Consolo c’è un altro tipo di viaggio alla fine di Nottetempo, casa per casa : quando il protagonista Petro Marano va in esilio e lascia la Sicilia nella speranza di costruire qualcosa altrove. Al protagonista Petro cadono le speranze, le sue utopie politiche, perché lui aveva pensato che nell’armonia sociale si potessero sciogliere le angoscie e i dolori privati della famiglia. E giustamente, perché in una società armonica il privato viene distribuito nella società, e quindi ci si unisce. Si tratta di quello che Leopardi chiama gli uomini fra loro confederati, la confederazione degli uomini per cercare di lenire il male dell’esistenza. Queste utopie cadono perché il protagonista di Nottetempo  si accorge che anche quelli che erano i suoi compagni di strada andavano verso forme di follia sociale. C’è anche la figura dell’anarchico individualista che lo spinge all’azione. Ma lui, invece, crede nella sua funzione di relatore di un’esperienza, nella sua funzione di scrittore perché queste cose non devono perdersi per chi ha il dovere del racconto, per cui il racconto diventa una necessità e un bisogno etico prima che estetico: il dovere di raccontare, di dire. Questa è la funzione dello scrittore nella società, secondo Consolo. La speranza sta in questo, nella scrittura per non fare perdere la memoria di ciò che è accaduto. Perché la maggiore paura è la cancellazione, la smemoratezza, anche nel caso dei dolori più grandi, perché i dolori bisogna raccontarli. Nottetempo ne offre un’eloquente testimonianza.

Mi ero promesso di non fare nessun commento sull’attuale situazione politica italiana d’oggi, ma vorrei solo mettere tre citazioni che a mio parere risuonano e vanno al cuore di quello che dico in questo contesto. Non commento, cito soltanto:

 

 

El sueño de la razon produce monstruos

FRANCISCO GOYA, Los Capriccios

 

Golia, il fascismo o nazismo, è a terra. Ma se sia morto o solamente prostrato diranno i giorni e gli anni. Dipende in gran parte da noi.

GIUSEPPE ANTIONIO BORGESE, Golia

 

Malinconia è la storia.

VINCENZO CONSOLO, Lunaria

 

Con Nottetempo, casa per casa Consolo annuncia un ritorno al romanzo storico metaforico, però con una poetica marcatamente diversa, o cambiata. Per certi versi Nottetempo è meno preoccupato con i dibattiti critici, teorici e culturali del suo tempo, come lo era Il sorriso dell’ignoto marinaio negli anni settanta. Infatti, a prima vista, il romanzo sembra ermeticamente sigillato, chiuso e impenetrabile, resistente all’interpretazione e non facilmente classificabile. Ogni capitolo è in qualche modo autonomo, compatto, e pervaso con i suoi interessi linguistici, tematici e intertestuali.  Non ci sono più documenti storici come nel Sorriso; inoltre la problemitizzazione della storia, della storiografia e del genere del romanzo stesso non sono accordati allo stesso spazio narrativo – però si potrebbe dire che la forma stessa e l’articolazione di Nottetempo costituiscono una critica eloquente del romanzo, del romanzo come genere. Infine, non c’è più l’iscrizione dei dialetti siciliani liminali come mezzo per indagare l’estremità linguistica, cara a Consolo. Invece, subentra qualcosa di diverso nelle pagine del romanzo, qualcosa che può essere intravista se assistiamo agli interventi di Consolo in questo periodo mentre andava cercando una svolta nella sua poetica narrativa. Una svolta che è anche dovuta al clima politico cambiato.

Il romanzo è stato recepito con un misto di elogi (Giulio Ferroni e Massimo Onofri in particolare), e di una certa perplessità attenuata, e anche una considerevole critica negativa. Le recensioni del romanzo tradotto in Spagna, Sud America e Francia erano più positive. Comunque, alcune delle recensioni negative ci rivelano qualcosa degli atteggiamenti nei confronti della scrittura di Consolo, e inoltre ci spiegano ancora delle aspettative di molti dopo il successo critico del Sorriso. Enzo Golino ha lamentato lo spazio accordato al personaggio Aleister Crowley nel romanzo, e ha criticato pesantemente sia le enumerazioni lessicali sia il fatto che Consolo non aveva dedicato più tempo alla costruzione del protagonista Petro Marano. Una critica, ancora più dura era di Arnaldo Colasanti che ha cominciato la sua recensione sentenziosamente con queste parole: “C’è poco da discutere: Vincenzo Consolo è inaccettabile”. Schematico, sterile, poco convincente, erano alcune delle parole chiave avanzati da Colasanti, che addirittura ha accusato Consolo di essere “cinicamente sincero”. Non ha mai spiegato che cosa voleva dire con questo.

Romano Luperini, criticando quello che lui definisce la “consolazione estetica” del romanzo, afferma che al centro della narrazione c’è una contraddizione irresoluta, che è ideologica e stilistica. Inoltre, se il Consolo del Sorriso ha lasciato parlare gli intellettuali nella loro lingua e ha lasciato parlare i contadini nelle loro lingue, che era, in fin dei conti, un esercizio polifonico di gran successo, per Luperini è sempre l’autore che parla in Nottetempo, aggiungendo che il liricismo esiliato di Consolo e il suo manieristico citazionismo postmoderno pervadono la pagina e riducono l’efficacia del plurilinguismo, e quindi rendono l’opera in modo deludente, monotono. Nella Stampa, Lorenzo Mondo ha evidenziato che l’atmosfera notturna era collocata con un “diffuso clima morale, alle tenebre della ragione che aggiungono nuova pena alla fatica di vivere”. Comunque, per Mondo, il romanzo era “incompiuto”, evidentemente perché l’uso della lingua di Consolo e la sua predilezione per le elencazioni e per il pastiche andavano contro lo sviluppo di personaggi secondari come Cicco Paolo Miceli. Ad un certo punto della recensione rimprovera Consolo per una descrizione eccessivamente d’Annunziana, perché, sempre secondo Mondo, tale descrizione sarebbe stata in disaccordo con la posizione ideologica ed estetica del protagonista Petro. A mio parare è come se questi critici non potessero, o meglio, non volessero comprendere Consolo e la perfetta coerenza fra etica e poetica.

Però, queste recensioni negative rivelano un senso di delusione, una delusione che Consolo sembrava incapace o riluttante di ripetere le altezze del Sorriso, e molti dei critici più duri, hanno usato quel romanzo come un esempio per dimostrare come Nottetempo non era riuscito. E per certi aspetti, dicevano anche delle cose sensate: Nottetempo, non ha affrontato come il suo predecessore i concetti culturali e teorici che tenevano il campo durante gli anni della sua pubblicazione. Mentre il Sorriso dell’ignoto marinaio toccava direttamente i dibattiti sull’impegno, sulla rappresentazione, la fragmentazione, la diversità linguistica, e il ruolo della lingua nel dare voce ai subalterni, invece, nel 1992, Nottetempo, casa per casa era meno impegnato con queste nozioni, e sembrava una specie di ritiro. Però queste considerazioni sono solo parzialmente valide, specialmente se prese dal tempo della pubblicazione: con il senno di poi, un apprendimento più profondo della poetica di Consolo (una poetica che aggiunge la sua quintessenza con Nottetempo), e anche la conoscenza dei libri che sarebbero arrivati dopo – L’olivo e Lo Spasimo in particolare – dimostrano che quelle critiche erano erronee e sbagliate. Adesso cerco di rispondere a queste critiche, ma prima vorrei considerare alcuni commenti di Consolo prima del 1992, e cercare di individuare questa svolta nella sua poetica.

In un’intervista rilasciata a Roberto Andò, Consolo ha fatto una serie di commenti a mio parere molto importanti:

 

La presenza di uno scrittore come Sciascia mi ha permesso, in un certo senso, per un tratto della mia attività, di concedermi delle divagazioni, delle pause, dei tempi di scrittura molto lunghi, o se vuoi delle vacanze. […] La sua azione di scrittore civile consentiva a scrittori come me, che muovono cioè da tutt’altro codice, di germinazione labirintica e fantastica, di divagare, prendere tempo. Alla sua morte ho sentito di non avere più tempo e Nottetempo, casa per casa nasce anche da un sentimento nuovo di responsabilità all’indomani del vuoto lasciato da Sciascia nel panorama della letteratura europea e italiana.

 

Per Consolo, 1989 è un anno importante, sia per la morte di Sciascia sia perché cadeva nel momento in cui andava chiarendo e definendo le sue idee e convinzioni sul rapporto tra testo letterario e contesto situazionale, rapporto vale a dire tra poesia o narrativa e situazione storico-sociale. Un rapporto che per Consolo si era interrotto, soprattutto per quanto riguardava la narrativa o cosiddetto romanzo. La conferma a questa sua convinzione veniva dopo la scomparsa di una generazione di scrittori di tipo logico-comunicativo (scomparsa di Sciascia, e ancora di Moravia, Morante, Calvino), insieme e parallelamente dopo la definitiva trasformazione d’Italia. In un saggio, La metrica della memoria, trattava in termini logici della rottura del rapporto, dovuta da una parte all’impossibilità di usare una lingua di comunicazione ormai definitivamente corrotta, degradata, dall’altra parte, alla scomparsa, all’assenza del destinatario del messaggio letterario. In un’opera teatrale intitolato Catarsi, nella scena III, il personaggio Pausania dichiara:

 

Io sono il messaggero, l’anghelos, sono il vostro medium, colui a cui è affidato il dovere del racconto, colui che conosce i nessi, la sintassi, le ambiguità le astuzie della prosa, del linguaggio…

 

In una lingua altamente declamatoria, eppure metaforica, Consolo immagina questo Pausania come il rappresentante del narratore, anche nel senso moderno di narratore del romanzo. La tragedia rappresenta l’esito ultimo di quella che è l’ideologia letteraria di Consolo, l’espressione estrema della sua ricerca stilistica; l’anghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta, che in tono alto, lirico, «in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa senza catarsi».[1]

In un’altra intervista chiarisce ulteriormente questi concetti:

 

Concepisco la narrazione come una sorta di oratoria, di recitazione orale, di perorazione, di lamento, che poi era la funzione del coro nella tragedia greca. Ecco: usare lo stile del coro. […] in un mondo dove il linguaggio è bugiardo, contaminante in maniera deteriore per l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, credo l’unica voce possibile per lo scrittore sia quella del monologo, perché il dialogo non è più possibile.[2]

 

La lingua e la struttura delle sue narrazioni indicano una posizione etica e estetica profondamente sentita che supera – attraverso la mimesi, parodia, frammentazione, vuoti intenzionali e voli creativi – una posizione che supera i romanzi dominati da un’autorevole voce narrante che parla una lingua comprensibile. Inoltre, l’introduzione di questi elementi poetici corali, sopra e oltre la loro funzione quale critica aperta delle pratiche di scrittura contemporanee, indica uno degli aspetti più complessi e, per altro, più affascinanti della poetica di Consolo: ed è uno che implica non solo i suoi scopi poetici, ma anche fa luce sui processi di concepimento dei suoi testi e sulla natura palinsestica della sua articolazione. In un altro contesto Consolo dice, parlando dei suoi testi scritti per cataloghi d’arte:

 

I pittori mi interessavano quando mi davano lo spunto per scrivere delle pagine di tipo lirico narrativo, ed allora poi utilizzavo queste presentazioni per scrivere quelli che io chiamo gli “a parte”, la parte del coro quando s’interrompe la narrazione. Queste digressioni di tipo lirico espressivo che i latini chiamavano “cantica”.[3]

 

Quello che non dice è che questi «a parte» in seguito saranno integrati nelle sue narrazioni maggiori, e pertanto costituiscono una categoria testuale unica. Detti «a parte» o elementi lirici figureranno con sempre maggiore frequenza nelle opere future, e in tali opere assumono una specifica funzione corale. Gli stessi termini con cui Consolo li definisce – «cantica», «a parte» – non si attagliano a pieno a questi momenti testuali e narrativi di straordinario valore sul piano del discorso narrativo, e non spiegano la natura problematica di questi brani: sono ecfrastici, quanto palinsestici, atemporali, forme erompenti, testualmente estranee e scritte in una varietà di metri. Pertanto, ad essi si attaglia un termine più neutro, ma al tempo stesso più versatile quale quello dell’epifania, sia nella configurazione joyciana che nella accezione cross-generica propria delle arti visive.

Nottetempo, casa per casa è l’esito più completo di quegli anni. Nonostante tutto ciò Nottetempo, casa per casa rimane ancora un’enigma. In un a lettura della narrazione molto incisive, Giulio Ferroni afferma che è “un narrare che procede per vere e proprie ‘stazioni’: i dodici capitoli si presentano come dei ‘quadri’ in movimento, ogni volta concentrate su di un tema, su una figura o una situazione. […] il narrare di Consolo viene a confrontarsi con l’inespresso, con la scaturigine della parola e della realtà’.[4] Messe da parte queste considerazioni generali, vorrei adesso incentrarmi sulla genesi testuale di Nottetempo e fare qualche riflessione sulla critica-genetica e su come questo tipo d’approccio può essere utile per meglio intendere il tormentato divenire del testo

L’opera letteraria non è un dato, ma un processo, non un’entità stabile, fissata una volta e per tutte, ma invece una variabile, o meglio un complesso dinamico di variabili in perpetuo divenire. L’opera letteraria è, per dirla con il Contini della critica delle varianti, «un lavoro perennemente mobile e non finibile».[5] Qui vorrei basarmi su alcuni avantesti che vanno situati in quella zona grigia dell’ecdotica che è a metà fra l’emerso (edizioni a stampa) e il sommerso (manoscritti, dattiloscritti, abbozzi, appunti, ecc.). Questi avantesti mi sembrano molto interessanti e dovrebbero rivelare qualcosa della gestazione di Nottetempo. Sedici anni separano Nottetempo dal Sorriso, ma la genesi di Nottetempo può essere collocata negli anni Settanta, ovvero proprio in quel periodo in cui Consolo andava scrivendo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Il primo presagio del romanzo che sarebbe venuto può rintracciarsi in un testo che Consolo scrisse per il catalogo della mostra di Luciano Gussoni alla Villa Reale di Monza nel 1971. Il testo non è lungo, la prosa è fortemente poeticizzata, e sembra a prima vista una specie di abbozzo. Tuttavia, due elementi del testo sono decisivi per intendere i metodi di Consolo. Il primo è che successivamente esso viene ritoccato e in qualche modo rimodellato e infine incorporato nel Sorriso proprio in quella sequenza da incubo quasi alla fine del Capitolo vii, «La memoria».[6] Il secondo elemento è il titolo dato al testo del catalogo: Nottetempo, casa per casa. In qualche modo si può quindi affermare che Nottetempo, nel suo stato embrionale, faceva inizialmente parte del Sorriso.

Sempre nel 1971, Consolo scrisse un articolo per Tempo Illustrato intitolato «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù».[7] L’articolo tratta del soggiorno in Sicilia del mago-satanista inglese Aleister Crowley con i suoi seguaci negli anni Venti. Di solito la critica spiega Nottetempo, casa per casa nei termini di un libro che traeva spunto dal racconto «Apocrifi sul caso Crowley» pubblicato nel 1973 da Leonardo Sciascia nella raccolta Il mare colore del vino. Ma la data del 1971 dimostra chiaramente che è stato Consolo con questo articolo a suggerire a Sciascia l’idea di Crowley. Nel romanzo consoliano Crowley funge da phármakon, una figura inquietante ed emblematica della decadenza perversa. Inoltre, l’articolo prova che Consolo aveva già iniziato le sue ricerche storiche sulle vicende cefaludesi degli anni Venti. Alcuni aspetti dell’articolo sono interessanti per il futuro romanzo. Il primo è che Crowley e i suoi seguaci erano inizialmente scambiati per Mormoni quando arrivarono. Nell’articolo Consolo racconta che nel 1968 gli attori della troupe di Living Theatre, con Julian Beck e Judith Malina, erano a Cefalù per recitare Paradise Now. Infatti, hanno passato alcuni mesi a Cefalù. Consolo scrive:

 

Gli attori del Living chiedevano alla gente di Crowley, della sua “abbazia”, della sua comunità “religiosa”, ma quasi nessuno si ricordava niente tranne qualche vecchietto che sapeva solo rispondere: “Ah, i mormoni. Cose sporche facevano”. A Cefalù conoscevano Crowley e la sua tribù come i mormoni, identificandoli con la setta protestante americana che aveva alle origini come caratteristica la poligamia.

 

Questo caso di scambio di identità della setta viene poi rimaneggiato nella narrazione in Nottetempo, ma lí è tramite il personaggio di don Cìcio Nené che lo troviamo. Egli ascolta rapito mentre il suo servo racconta delle vicende misteriose al pseudo – abbazia: “Dunque, ’ccellenza. Con rispetto parlando, fottono. L’uomo con le due femmine, d’amore e d’accordo”. Don Nené, trattiene a malapena la sua eccitazione, e incapace di nascondere la sua ignoranza annuncia sentenziosamente: “Ho capito, ho capito! Appartengono alla setta dei Mormoni.” (Ncc, p. 28). Aspetta che il servo se ne vada prima di cercare senza successo qualche libro sui Mormoni nella sua biblioteca. Sempre nell’articolo, Consolo accenna a quattro fonti scritte consultate: questi sono The Confessions of Aleister Crowley di Crowley stesso, il lavoro (quasi agiografico) di John Symonds The Great Beast, The Star in the West di J.F.C. Fuller, e infine Il mago di Somerset Maugham.[8] Dei quattro libri solo la novella di Maugham sulle vicende del sinistro e ripugnante personaggio di Oliver Haddo (basato su Crowley) è critica nei confronti di Crowley. Accenna anche a certe pene subite dai seguaci di Crowley: per esempio, legando una delle donne ad una rocca presso la spiaggia alla Kalura. E infatti, un fatto simile si verifica nel sesto capitolo del romanzo – intitolato per altro ‘La Calura’ – e la figura innocente di Janu si imbatte nella Seconda Concubina, Sister Cypris (Ninette Froux), e pure lei è legata nuda alla rocca. Nell’articolo Consolo aggiunge:

I borghesi, gli studentelli e i nobilotti che passavano le loro giornate al Casino di Campagna di corso Ruggero, intravedendo in quella comunità piena di donne un paradiso di piaceri di cui sempre avevano favoleggiato nei loro discorsi sempre accesi di erotismo, fecero a gara per penetrare nella comunità.

 

Questo scenario brancatiano si estende perché due di questi erano riusciti ad entrare nell’abbazia per partecipare ai riti: erano il Barone Carlo La Calce (Consolo lo chiama ‘baronello’) e un certo Sabatino. Il primo di questo è la fonte per don Nené, Barone Cìcio di Mazzaforno, il secondo cede il suo posto a Janu il capraio, figura nettamente verghiana. Cefalù stessa doveva aver esercitato un fascino per Crowley, secondo Consolo e scrive nell’articolo:

[…] doveva certo scendere in paese e visitare la grande cattedrale fatta edificare da Ruggero II il normanno. Si sarà certo trovato di fronte al grande mosaico del Cristo Pantocratore, con sotto la Vergine orante, e poi gli apostoli e gli evangelisti, gli antichi padri della Chiesa greca e latina, i profeti dell’Antico Testamento, e infine gli angeli, i serafini e i cherubini. Di fronte a questo divino “sistema” avrà certo pensato, intensamente pensato alla sua grande “bestemmia”, al suo progetto di rovesciamento, e alla instaurazione del suo sistema.

 

Inoltre, va ricordato che nella seconda parte del decimo capitolo, “Pasqua delle Rose”, Consolo immagina addirittura unefaù simile episodio con Crowley che varca la soglia del duomo di Cefalù e rimane rapito dalla bellezza dai mosaici e dalla cerimonia della messa che si sta svolgendo. Doveva, durante il suo soggiorno cefaludese aver visitato il museo Mandralisca ed esser rimasto seccato e scosso da quel sorriso pungente e ironico del quadro di Antonello, Sono due poli opposti: uno, quello del quadro, esprime lucida razionalità, equilibrio, e la pienezza di possibilità umana, l’altro, Crowley stesso, irrazionalità, confusione, e allucinazione estatica. Consolo conclude l’articolo con queste parole:

Ma lui, il suo superuomismo, il suo misticismo, la sua irrazionalità, come il superuomismo, la irrazionalità, l’immaginifico del nostro Gabrielino d’Annunzio erano la spia di qualcosa di inquietante e di tragico che si affacciava nella storia.

 

Il terzo avantesto è ancora una volta un articolo giornalistico. Intitolato «Paesaggio metafisico di una folla pietrificata», è apparso nel Corriere della Sera nell’ottobre del 1977.[9] Di spiccato interesse è il fatto che l’incipit dell’articolo anticipa, o almeno cosi sembra, la forma embrionale dell’incipit di Nottetempo, casa per casa. Entrambi descrivono una notte di luna piena e l’ululare dolente della figura simbolica e metaforica del lupo mannaro, ossia il licantropo. L’intertesto è ovviamente la novella pirandelliana Male di luna.[10] In Consolo, tuttavia, a questa malattia viene dato il suo nome siciliano: male catubbo, derivato dall’arabo catrab o cutubu, che significano canino o lupino.[11] Però, un ulteriore significato di lupunariu in siciliano, secondo il dizionario Siciliano-Italiano (Mortillaro) è colui che è “infermo di licantropia, che è un delirio malinconico, per cui l’uomo credesi trasformato in lupo, e di notte va errando, ed imita l’urlo e il portamento di questo animale”. Questo accostamento fra il male catubbo e la malinconia è molto importante, perché è una depressione insopportabile – scrive Consolo – che spinge allo sconvolgimento, alla ribellione. È un precipitare in basso dove solo si può trovare la via d’uscita.

Consolo si appropria del linguaggio figurativo della malinconia, codifica nel testo forme malinconiche derivate da un ricco patrimonio di esempi letterari e pittorici. Sulle Melanconia I di Dürer Walter Benjamin dichiara che l’incisione è simbolo di una certa saggezza enigmatica e nella sua creazione sono confluite la conoscenza dell’introverso e le esplorazioni dello studioso. Benjamin afferma che la persona malinconica si chieda come potrebbe “scoprire i poteri spirituali di Saturno e al tempo stesso sfuggire alla pazzia”. Questa è la malinconia positiva ed eroico impersonata da Petro nel romanzo. Benjamin scrive:

 

La melanconia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle. Il poeta di cui si cita quel che segue parla nello spirito della tristezza: “Péguy parlait de cette inaptitude des choses à être sauvées. De cette résistance, de cette pesanteur des choses, des êtres mêmes, qui ne laisse subsister enfin qu’un peu de cendre de l’effort des héros et des saints”.  La perseveranza, che si elabora nell’intenzione del lutto, nasce dalla sua fedeltà al mondo delle cose.[12]

 

Pertanto, in conclusione, gli “oggetti morti” di Benjamin e il mondo delle cose trovano il loro correlative nel recupero linguistico di Consolo, e per tanta della sua narrativa, nell’inserimento di desolate paesaggi pieni di rovine. Il mondo di scrivere di Consolo – frammentario, carico di poesia, d’archivio, memorialistico, altamente letterario e malinconico – è unico nel panorama letterario del tardo Novecento. E bisogna aggiungere che malinconia, la contemplazione del movimento della sfortuna, non ha nulla in comune con il desiderio di morte. È una sorta di resistenza. E più che mai chiaro sul piano artistico, dove è tutto tranne che reattiva o reazionaria. Quando, con uno sguardo pungente, la malinconia ritorna sul come sarebbero potute andare le cose, diventa palese che le dinamiche dell’inconsolabilità e quella della conoscenza sono identiche nel loro divenire. L’atto stesso di descrivere la sfortuna implica la possibilità di sopraffarla. In Consolo, c’è uno spiraglio. Però, bisogna combattere, opporsi al potere, resistere, con il dovere della scrittura.

[1] V. CONSOLO, Per una metrica della memoria, «Cuadernos de Filología Italiana», 3: 1996, pp. 249-259 (p. 258).

[2] V. CONSOLO, La strategia del coro: Intervista a Vincenzo Consolo, «Versodove. Rivista di letteratura», 13: 2000, pp. 68-71 (p. 69).

[3] VINCENZO CONSOLO, Clausura de las jornadas in Lunaria vent’anni dopo, a cura di IRENE ROMERA PINTOR, Valencia, Generalitat Valenciana, 2006, pp. 235-237 (p. 235).

[4] Giulio Ferroni, ‘Al tempo della bestia trionfante’, in Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa (Turin: UTET-Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, 2006), p. xi; xviii.

[5] G. Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino: Einaudi, 1970, p. 5.

[6] V. Consolo, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971.

[7] V. Consolo, «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre 1971.

[8] Aleister Crowley, The Confessions of Aleister Crowley. An Autohagiography, edited by John Symonds and Kenneth Grant (London: Arkana, 1979 [Routledge & Kegan Paul, 1969]); John Symonds, The Great Beast: The Life and Magick of Aleister Crowley (St Albans: Mayflower, 1971); J.F.C. Fuller, The Star in the West: A Critical Essay upon the Works of Aleister Crowley (New York: The Walter Scott Publishing Company, 1907); Somerset Maugham, The Magician (Harmondsworth: Penguin, 1967 [1908]).  

[9] V. Consolo, «Paesaggio metafisico di una folla pietrificata», Corriere della Sera 19 ottobre 1977.

[10] Pubblicato la prima volta con il titolo Quintadecima in Corriere della Sera, 22 settembre 1913, poi con il nuovo titolo nel 1925. L. Pirandello, «Male di luna», Novelle per un anno, ed. Mario Costanzo, vol. II, tomo I, Milano: Mondadori, 1987, p. 486-495.

[11] Cfr. Giuseppe Pitré, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, rist., vol. IV, Catania: Clio, 1993, p. 237-243.

[12] WALTER BENJAMIN, Il dramma barocco Tedesco, Torino, Einaudi, 1971, p. 159

 

foto di Claudio Masetta Milone

Milano, 6 – 7 marzo 2019
Università degli Studi
Sala Napoleonica via Sant’Antonio 10/12

Vincenzo Consolo lettore di Pirandello

CINZIA GALLO

L’attenzione e l’interesse di Consolo per Pirandello sono costanti, come dimostrano i numerosi riferimenti, espliciti od impliciti, allo scrittore agrigentino che Consolo dissemina in gran parte dei suoi lavori. La figura di Pirandello sembra intanto esemplificare la profonda influenza esercitata dai luoghi sugli individui. Infatti, se «si può cadere su questo mondo per caso, […] non si nasce in un luogo impunemente. […] senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo» (Consolo 2012: 135)2. In Uomini e paesi dello zolfo, allora, Consolo asserisce: «E, come Pirandello, ogni siciliano credo possa dire “son figlio del Caos”. È il caos prima della formazione del cosmo, la materia informe, la “mescolanza di cose frammiste” di cui parla Empedocle (anch’egli nato nel “caos” d’Agrigento)» (Consolo 1999: 9). Ovviamente Consolo si riferisce alla grandissima varietà della terra siciliana3, dal punto di vista fisico, che gli eventi storici, però, riproducono: Ora qui, per inciso, vogliamo notare che la storia, la storia siciliana, abbia come voluto imitare la natura: un’infinità, un campionario di razze, di civiltà sono passate per l’isola senza mai trovare tra loro amalgama, fusione, composizione, ma lasciando ognuna i suoi segni, qua e là, diversi, distinti dagli altri e in conflitto: 1 Cinzia Gallo, Università di Catania. 2 Consolo ricorda, anche, quanto Pirandello asserisce su se stesso: «Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni…» (Consolo 2012: 135). 3 Sottolinea Consolo: «[…] la Sicilia, […] quest’isola in mezzo al Mediterraneo è quanto fisicamente di più vario possa in sé raccogliere una piccola terra. Un vasto campionario di terreni, argille, lave, tufi, rocce, gessi, minerali… E quindi varietà di colture, boschi, giardini, uliveti, vigne, seminativi, pascoli, sabbie, distese desertiche. In questa terra sembra che la natura abbia subìto come un arresto nella sua evoluzione, si sia come cristallizzata nel passaggio dal caos primordiale all’amalgama, all’uniformazione, alla serena ricomposizione, alla benigna quiete. Sì, crediamo che tutta la Sicilia sia rimasta per sempre quel caos fisico come quella campagna di Girgenti in cui vide la luce Pirandello da qui, forse, tutto il malessere, tutta l’infelicità storica della Sicilia, il modo difficile d’essere uomo di quell’isola, e lo smarrimento del siciliano, e il suo sforzo continuo della ricerca d’identità. Ma questi problemi ci porterebbero lontano, nel magma esistenziale o nel procelloso mare pirandelliano, ed è meglio quindi che rimaniamo ancorati alla terra (Consolo 1999: 10). Dunque, proprio perché Pirandello è «Uomo di zolfo» (Consolo 1999: 26), vissuto a stretto contatto con lo zolfo, ne tratta compiutamente nelle sue opere, che assumono carattere di denunzia. Consolo sottolinea così come nella novella Il fumo appaia chiaramente la «distruzione della campagna da parte della zolfara» (Consolo 1999: 18), mentre in Ciàula scopre la luna «la condizione del caruso […] viene fuori in tutta la sua straziante pena; e […] nei vecchi e i giovani […] il tema dello zolfo serpeggia, prima sommessamente, […] fino ad esplodere nel finale con la rivolta degli zolfatari e con l’eccidio dell’ingegner Aurelio Costa e della sua amante […]» (Consolo 1999: 27). Questi temi, attestanti la funzione civile della letteratura, sempre presente in Consolo, si articolano però in una filosofia «che non è sistema chiuso e definitivo, ma progressione verso […] la poesia» (Consolo 1999: 26). Sembrerebbe, questa, una giustificazione, una spiegazione della narrazione poematica a cui Consolo approda, a partire da L’olivo e l’olivastro, anche se già ne Il sorriso dell’ignoto marinaio se ne notano delle avvisaglie. Pirandello, «un certo Pirandello novelliere e romanziere» rappresenterebbe, inoltre, la letteratura della Sicilia occidentale, «zona fortemente implicata con la storia, […] marcata da temi di ordine relativo – la storia, la cultura, la civiltà, la pace o la guerra sociale», mentre Verga simboleggerebbe la letteratura della Sicilia orientale, «contrassegnata […] da temi di ordine assoluto: la vita, la morte, il mito, il fato […]» (Consolo 2012: 134)4. È stato perciò Pirandello – sottolinea Consolo – a dare ai personaggi siciliani «l’arma della dialettica, del sofisma» (Consolo 1999: 121), in sostituzione della violenza, delle passioni istintive che guidavano i contadini di Verga5. Lo spazio ristretto del villaggio di Trezza, allora, «si restringe ancora di più, si riduce alla stanza borghese, in quella che Giovanni Macchia chiama “la stanza della tortura”, dove si compie ogni violenza, lacerazione, crisi, frantumazione della realtà, perdita di identità. Il movimento, in quella stanza, è solo verbale» (Consolo 1999: 269). 4 Consolo aveva espresso queste idee già nel 1986, in Sirene siciliane, considerando, però, questa «Divisione ideale, immaginaria, […]. E questa idealità è subito contraddetta fatalmente dalla realtà, da spostamenti di autori da una parte verso l’altra: di un poeta come l’abate Meli, per esempio, verso l’Arcadia, verso la mitologia dell’Oriente, o del grande De Roberto verso la storia o lo storicismo d’Occidente» (Consolo 1999: 178-179). 5 Queste idee sono confermate nel 1999, ne Lo spazio in letteratura. Pirandello avrebbe rotto «il cerchio linguistico verghiano», portandolo «su una infinita linearità attraverso il processo verbale, la perorazione, la dialettica, i dissoi lógoi: […] squarcia la scena con la lama dell’umorismo, trasforma l’antica tragedia nel moderno dramma» (Consolo 1999: 269). Non stupisce, dunque, che i due autori, Pirandello e Verga, siano posti uno di fronte all’altro ne L’olivo e l’olivastro. E non è certamente un caso che sia Pirandello, in questo testo, a rendersi conto dell’isolamento, dell’estraneità, nel suo stesso ambiente, retrivo, di Verga, estraneità che un sapiente uso dell’aggettivazione, delle figure retoriche (anafore, metafore, enumerazioni) sottolinea, costituendo, appunto, un esempio di scrittura poematica: Pirandello lo osservò ancora e gli sembrò lontano, irraggiungibile, chiuso in un’epoca remota, irrimediabilmente tramontata. Temette che né il suo, né il saggio di Croce, né il vasto studio del giovane Russo avrebbero mai potuto cancellare l’offesa dell’insulsa critica, del mondo stupido e perduto, a quello scrittore grande, a quell’Eschilo e Leopardi della tragedia antica, del dolore, della condanna umana. Pensò che, al di là dell’esterna ricorrenza, delle formali onoranze, in quel tempo di lacerazioni, di violenza, di menzogna, in quel tramonto, in quella notte della pietà e dell’intelligenza, il paese, il mondo, avrebbe ancora e più ignorato, offeso la verità, la poesia dello scrittore. Pensò che quel presente burrascoso e incerto, sordo alla ritrazione, alla castità della parola, ebbro d’eloquio osceno, poteva essere rappresentato solo col sorriso desolato, con l’umorismo straziante, con la parola che incalza e che tortura, la rottura delle forme, delle strutture, la frantumazione delle coscienze, con l’angoscioso smarrimento, il naufragio, la perdita dell’io. Pensò che la Demente, la sua Antonietta, la suor Agata della Capinera, la povera madre, il fratello suicida di San Secondo, ogni pura fragile creatura che s’allontana, che sparisce, non è che un barlume persistente, segno di un’estrema sanità nella malattia generale, nella follia del presente (Consolo 1994: 67). «Follia del presente» (Consolo 1994: 67) è sicuramente anche quella descritta da Consolo in gran parte dei suoi lavori: pensiamo alla realtà distorta, stravolta, frantumata propria di tutti i testi consoliani, da Il sorriso dell’ignoto marinaio a Lo Spasimo di Palermo. Giustamente, quindi, Consolo è, sostiene Anna Frabetti, un «autore di linea pirandelliana […] in cui il sublime precipita in umoristico, il dramma borghese […] degenera nella “vastasata”, nella farsa del mondo rovesciato, privo di centro» (1995: 1). Una «Vastasata» (Consolo 1985: 10), del resto, è presente in Lunaria, in cui il Vicerè recita «la sua parte di sovrano» (Consolo 1985: 26), definisce «finzione la vita» (Consolo 1985: 66), si mostra consapevole, ricorrendo ad interrogative retoriche ed enumerazioni, della vanità, del carattere relativo del reale: «Dov’è Abacena, Apollonia, Agatirno, Entella, Ibla, Selinunte? Dov’è Ninive, Tebe, Babilonia, Menfi, Persepoli, Palmira? Tutto è maceria, sabbia, polvere, erbe e arbusti ch’hanno coperto i loro resti» (Consolo 1985: 61); e Tutti commentano, con sapiente uso delle figure retoriche: «Così è stato e così [anafora] sempre sarà [poliptoto]: rovinano potenze, tramontano imperi regni civiltà [enumerazione], cadono astri, si sfaldano, si spengono [climax], uguale sorte hanno mitologie credenze religioni. Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione [chiasmo], stiamo saldi, pazienza, in altri teatri, su nuove illusioni nascono certezze» (Consolo 1985: 34). E la Sesta donna: «Tutto si frantuma, / cade, passa [climax]» (Consolo 1985: 54). Su questa scia, nella prima sezione di Retablo, Isidoro scorge, nella chiesa di S. Lorenzo, una statua, che reca sul piedistallo la parola«VERITAS» (Consolo 1992: 19), dalle fattezze simili a quelle di Rosalia, ad attestare il carattere apparente, relativo del reale. Lo stesso significato ha, nella terza sezione, l’espressione «Bella, la verità» (Consolo 1992: 149)6 ripetuta da Rosalia che, del resto, sottolinea esplicitamente il contrasto fra apparenza e realtà: «Bagascia, sì, all’apparenza, ma per il bene nostro, tuo e mio»; «Fu per questo che scappai, ch’accettai questa parte dell’amante, questa figura della mantenuta» (Consolo 1992: 149, 155). Se pirandelliana è la costrizione dell’individuo in una forma, Pirandello offre pure le coordinate con cui spiegare l’aspirazione ad essere diversi da quello che si è e con cui si ritiene che ciò sia possibile modificando l’aspetto esteriore, la propria forma, a svuotare di consistenza ruoli e funzioni. Ecco che Consolo, ne Le vele apparivano a Mozia, ricorda come l’«autista-inserviente-guardiano» del pittore Guttuso7, «dal bel nome greco dalla Spagna poi donato alla Sicilia d’Isidoro8 […] come nella novella di Pirandello Sua Maestà, in un desiderio di mimesi, di immedesimazione, si vestiva alla stessa maniera del padrone: giacca e pantaloni blu, camicia azzurra, pullover rosso, fazzoletto rosso che trabocca dal taschino» (Consolo 2012: 124). Anche l’importanza data ai nomi si pone, del resto, sulla scia di Pirandello, che – è noto – istituisce uno stretto «rapporto» fra «nome – identità dei personaggi» (De Villi2013: 278), «per affinità o per antifrasi» (De Villi 2013: 277). Analogamente Consolo esclama: «il destino dei nomi!» (Consolo 2012: 128)9. E la parola, il nome è spesso segno di predestinazione o di destino. Dei nomi dati agli uomini, voglio dire, e dei destini degli uomini: il destino dei nomi. Ma non sappiamo se è l’uomo sul nascere, già segnato da un destino, che si versa e assesta dentro il suo giusto e appropriato involucro di nome (e cognome) oppure se sono il nome e il cognome che, capitati per caso sulla pelle di un uomo come maglietta e brache, ne incidono le carni, ne determinano cioè il destino (Consolo 2012: 66). Definisce, così, le poesie della poetessa Assunta Della Musa, «fra le più ispirate, le più eccitate, le più squisite e belle tra le poesie d’amore scritte in tutti i tempi e in tutti i luoghi. […] Può una donna di nome Assunta Della Musa, coniugata ad Apollo Barilà, non scrivere poesie, essere della poesia, essere la poesia? Essere Erato, la poesia erotica?» (Consolo 2012: 69). Perciò, non a caso, con chiara allusione al leopardiano Dialogo di Plotino e Porfirio, in cui quest’ultimo è 6 Cfr., su questo argomento, Galvagno 2015: 39-64. 7 È, questi, l’unico pittore a cui Consolo attribuisce, ne L’enorme realtà, «il dono della capacità del racconto, della rappresentazione […] che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia» (Consolo 1999: 271). 8 Con caratteristiche simili, a confermare l’importanza dei nomi, in Lunaria si chiama Isidoro il maestro di cerimonie del Vicerè, attento alle apparenze, «intransigente custode di […] inderogabili forme palatine» (16). 9 In Lunaria, gli abitanti della «selvaggia Contrada senza nome» sono «uomini senza legge, senza lingua, senza storia, anime boschive, […]» (61).
consapevole della «vanità di ogni cosa» (Leopardi 1978: 530), si chiama Porfirio il valletto di Casimiro, il vicerè di Lunaria, che non prende mai la parola, ma è consapevole della «recitazione» (Consolo 1985: 10) del suo signore. Lucia, poi, si chiama – per antifrasi in rapporto all’etimologia del nome –, la sorella di Petro Marano, affetta da disturbi mentali. E il quinto capitolo di Nottetempo, casa per casa, che la mostra, alla fine, pazza, reca, in epigrafe, una battuta di Come tu mi vuoi: «Chiami, chi sa da qual momento lontano… felice…/ della tua vita, a cui sei rimasta sospesa… là…» (Consolo 1992: 59). Erasmo, ancora, con probabile riferimento ad Erasmo da Rotterdam e al suo Elogio della follia – oltre che, a confermare la rilevanza attribuita dal nostro scrittore allo spazio – al piano di sant’Erasmo, nei dintorni di Palermo, si chiama il «vecchietto lindo, bizzarro» (Consolo 1998: 103) de Lo Spasimo di Palermo, a cui è affidato il compito di mettere in evidenza, alla fine del romanzo, l’importanza della letteratura. Costui, infatti, coinvolto nell’attentato al giudice Borsellino, recita, in punto di morte, due versi de La storia di la Baronissa di Carini, ad attestare come, anche se al presente la letteratura non è ascoltata, è da questa, voce della tradizione, della memoria storica, che deve venire la salvezza: O gran mano di Diu, ca tantu pisi, cala, manu di Diu, fatti palisi! (Consolo 1998: 131) E, ancora, Consolo dichiara: «La salvezza è stata solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione» (Consolo 1999: 272). Petro Marano, perciò, si aggrappa «alla parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete», desideroso di «rinominare, ricreare il mondo» (Consolo 1992: 42-43). Egli, poi, alla fine si rifugia a Tunisi, così come anche Lando Laurentano avrebbe voluto imbarcarsi per Malta o per Tunisi (Pirandello 1953: 394). Consolo, quindi, mette in relazione, attraverso la figura di Antonio Crisafi de La pallottola in testa, il disagio, l’estraneità dell’intellettuale nella moderna società, sia quella del «Meridione depresso» (Consolo 2012: 157) sia quella legata all’avvento dei mass media, della televisione, all’isolamento del professor Lamis de L’eresia catara di Pirandello. Ed anche in Un giorno come gli altri, discutendo della funzione dell’intellettuale, Consolo si richiama a Pirandello. A proposito, infatti, della differenza, instaurata da Moravia e Vittorini, fra artista e intellettuale, egli asserisce: A me la distinzione sembra vecchia, mi ricorda l’affermazione di Pirandello: “La vita, o la si scrive o la si vive”. Ché l’alternativa, oltre a valere per tutti, non solo per l’artista, dopo Marx non ha più senso. Oggi siamo tutti intellettuali, siamo tutti politici, […]. Il problema mi sembra che stia nel voler essere o no dentro le “regole”, nel voler essere o no, totalmente, incondizionatamente, dentro un partito, dentro la logica “politica” di un partito. Questo mi sembra il punto, il punto di Vittorini (Consolo 2012: 91-92). Arriva, quindi, alla sua celebre distinzione fra scrivere e narrare: Riprendo a lavorare a un articolo per un rotocalco sul poeta Lucio Piccolo. Mi accorgo che l’articolo mi è diventato racconto, che più che parlare di Piccolo […] in termini razionali, critici, parlo di me, della mia adolescenza in Sicilia, di mio nonno, del mio paese: mi sono lasciato prendere la mano dall’onda piacevole del ricordo, della memoria. […] È […] il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria, […]. Diverso è lo scrivere, […] operazione […] impoetica, estranea alla memoria, che è madre della poesia, come si dice. E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta (Consolo 2012: 92)10. Pirandello simboleggia la Sicilia, insieme a Verga, Meli, Capuana, secondo il mafioso catanese, sottoposto al 41 bis nel carcere di Opera – Milano, dopo aver «fatto un bel po’ di strada negli affari, appalti, commerci vari» (Consolo 2012: 216): Consolo ironizza sulla politica separatista, portata avanti dal Movimento indipendentista siciliano di Finocchiaro Aprile e, di conseguenza, sulla politica della Lega Nord, sottolineando ancora una volta l’importanza della memoria storica. Si pone, ancora, accanto a Pirandello, dichiarando che Il sorriso dell’ignoto marinaio «era d’impianto storico» ma «voleva anche dire metaforicamente del momento che allora si viveva, a Milano e altrove» (Consolo 2012: 119): «(si svolgeva negli anni del Risorgimento e dell’impresa garibaldina: nodo di passaggio storico importante per il Meridione e banco di prova della maggior parte degli scrittori siciliani – Verga, De Roberto, Pirandello, Lampedusa, Sciascia…)» (Consolo 2012: 119)11, accomunati tutti, «da Verga a De Roberto, a Pirandello», da «un costante immobilismo» (Consolo 1999: 169)12, pur nella diversità delle posizioni ideologiche. In particolare, se la rinuncia a rappresentare la rivolta parrebbe accomunare Il sorriso dell’ignoto marinaio a I vecchi e i giovani, le motivazioni dei due scrittori sono differenti. Consolo, consapevole «dei limiti di classe degli intellettuali», nutre «sfiducia nella possibilità, da parte della letteratura, di rendere la visione e il sentire delle classi subalterne senza stravolgimenti mistificatori»; Pirandello, invece, è mosso da un profondo «pessimismo» che lo induce «a svalutare anche gli eventi più tragici ed epocali come frutto di vane illusioni e follie destinate ad essere cancellate dal 10 Nel 1997, richiamandosi alle tesi espresse da Walter Benjamin in Angelus novus, Consolo preciserà: «E c’è, nella narrazione, un’idea pratica di giustezza e di giustizia, un’esigenza di moralità». (Consolo 1999: 144). Per quest’argomento, cfr. Francese 2015. L’influsso di Benjamin su Consolo è stato evidenziato anche da Daragh O’Connell (2008: 161-184), che ricorda la traduzione in italiano de Il narratore di Benjamin effettuata, per Einaudi, da Renato Solmi nel 1962 (162, nota 2). 11 Pure ne Il sorriso, vent’anni dopo, Consolo asserisce che il suo romanzo è nato da una «rilettura della letteratura che investe il Risorgimento, soprattutto siciliana, ch’era sempre critica, antirisorgimentale, che partiva da Verga e, per De Roberto e Pirandello, arrivava allo Sciascia de Il Quarantotto, fino al Lampedusa de Il Gattopardo» (Consolo 1999: 279). 12 Consolo ricorda come i critici di orientamento lukácsiano avessero posto Il Gattopardo accanto a I Vicerè di De Roberto e a I vecchi e i giovani di Pirandello (Consolo 1999: 173). tempo, […]» (Baldi 2014: 254). In entrambi i romanzi, però, il Risorgimento si risolve in una «disillusione del vecchio sogno della terra» (Consolo 2012: 109)13 e nei pensieri di Lando Laurentano si scorge un’eco di quei contrasti di classe che Consolo pone in primo piano14: «Da una parte il costume feudale, l’uso di trattar come bestie i contadini, e l’avarizia e l’usura; dall’altra l’odio inveterato e feroce contro i signori e la sconfidenza assoluta nella giustizia, si paravano come ostacoli insormontabili a ogni tentativo per quella cooperazione» (Pirandello 1953: 392)15. E precedentemente, ascoltando il discorso di Cataldo Sclàfani, considera: «Una buona legge agraria, una lieve riforma dei patti colonici, un lieve miglioramento dei magri salarii, la mezzadria a oneste condizioni, come quelle della Toscana e della Lombardia, come quelle accordate da lui nei suoi possedimenti, sarebbero bastati a soddisfare e a quietare quei miseri […]» (Pirandello 1953: 288). Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, del resto, anche la figura di Garibaldi, su cui si concentrano le aspettative dei ‘giovani’ (Roberto Auriti, Mauro Mortara, Corrado Selmi, Rosario Trigona), consente di stabilire delle corrispondenze con Pirandello. Consolo, difatti, sottolinea il favore ottenuto da Garibaldi («[…] vanno dicendo che [Garibaldi] gli dà giustizia e terre.»), ritenuto però, al tempo stesso, un «Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re […] Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge avanzi di galera…» (Consolo 2004: 66). E ribadisce le sue riserve su Garibaldi anche in altri testi. Parlando, nel 1982, della rivolta di Bronte, dell’agosto 1860, Consolo, oltre ad evidenziare la «crudeltà», la «sommarietà di giustizia» (Consolo 2012: 108) di Bixio, afferma riguardo Garibaldi: In questa annata di celebrazione garibaldinesca in chiave post-moderna, in cui tutti gli stili, le citazioni, i repêchages si fanno stile, in cui le pagine chiare e oscure, le glorie e le vergogne, le vittime e gli scheletri, più che nascosti nell’armadio, esibiti si fanno levigato stile eroico, gloriosa epopea da consumo, soffermarsi 13 Scrive Pirandello: «Sì, aveva esposto la verità dei fatti quel deputato siciliano: quei contadini di Sicilia, […] s’erano recati a zappare le terre demaniali usurpate dai maggiorenti del paese, amministratori ladri dei beni patrimoniali del Comune: intimoriti dall’intervento dei soldati, avevano sospeso il lavoro ed erano accorsi a reclamare al Municipio la divisione di quelle terre; […]» (Pirandello 1953: 238). 14 Pensiamo a quest’episodio, che trova corrispondenza nella terza scritta al nono capitolo: «“Ah ah, puzzo di merda, papà, ah ah” sentirono ancora alle spalle che faceva Salvatorino, grasso come ‘na femmina, babbalèo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio, unico erede, presciutto tesoro calasìa, al padre professore Ignazio e al nonno sindaco, il notaio Bàrtolo. / Tanticchia girò la testa sopra il tronco e lo guatò sbieco. / “Garrusello e figlio di garruso alletterato!” disse, e poi sputò per terra, bianco e sodo, tondo come un’onza» (Consolo 2004: 95-96). 15 Lo stesso Consolo ricorda le «Insurrezioni che spesso non sono solo contro i borbonici, ma di contadini e braccianti contro i loro nemici di sempre, i nobili e i borghesi che quasi dappertutto avevano usurpato terre demaniali» (Consolo 2012: 107). 178 su un episodio come quello di Bronte, estrapolarlo dal contesto post-moderno, appunto, può farci apparire fuori moda, arretrati, forse striduli (Consolo 2012: 107) Ma che Consolo consideri in modo non del tutto positivo Garibaldi e il suo influsso è dimostrato, ancora, dai giudizi formulati nell’articolo Il più bel monumento: Questo ironico (speriamo) e autoironico personaggio, nella sua campagna d’Italia, non fece che imitare, nel dire, nel fare e nel posare, il monumento di sé ch’era già idealmente eretto, in uno spassoso scambio tra l’immagine e il reale, in gara di esaltazione e in doppio accrescimento senza fine. Tutti rimasero vittime del giuoco, e ogni città e villa non poté che innalzargli il monumento. […] Ed era questo che Garibaldi in fondo desiderava: volare, volare in un teatrino d’invenzione per dimenticare le colpe e sopire i rimorsi che dentro gli rodevano (Consolo 2012: 70-71). Analogamente, nella novella pirandelliana L’altro figlio, Garibaldi è colui che «fece ribellare a ogni legge degli uomini e di Dio campagne e città» (Pirandello 1955: 242). E Maragrazia prosegue, servendosi di enumerazioni, metafore, esclamazioni, paragoni, puntini di sospensione, per coinvolgere emotivamente il lettore e rendere il suo racconto più persuasivo: […] vossignoria deve sapere che questo Canebardo diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne! I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena… Tra gli altri, ce n’era uno, il più feroce, un certo Cola Camizzi, capo-brigante, che ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come se fossero mosche, per provare la polvere, – diceva – per vedere se la carabina era parata bene. […] Ah, che vidi! […] Giocavano… là, in quel cortile… alle bocce… ma con teste d’uomini… nere, piene di terra… le tenevano acciuffate pei capelli… e una, quella di mio marito… la teneva lui, Cola Camizzi… e me la mostrò. […] cane assassino! (Pirandello 1955: 242-244). Pirandello è per Consolo, ancora, il termine di paragone attraverso cui giudicare i testi della contemporaneità, a metterne in evidenza la vitalità, il carattere paradigmatico. Asserisce così: «La storia di Creatura di sabbia [di Tahar Ben Jelloun] è una delle più felici invenzioni letterarie del romanzo contemporaneo, uguale forse, per la metafora, per la verità profonda che riesce a liberare, a quella de Il fu Mattia Pascal di Pirandello» (Consolo 1999: 232-233). Analogamente, pure vari aspetti della produzione di Sciascia sono spiegati in rapporto a Pirandello. Nella prefazione a Le epigrafi di Leonardo Sciascia di Pino Di Silvestro, Consolo considera quale «più grande epigrafe di tutta l’opera di Sciascia, non scritta ma vistosamente implicita, […] la stanza della tortura pirandelliana declinata sul piano della storia, sul palcoscenico della violenza, della sconfitta» (Consolo 1999: 202). Tre anni più tardi, nel 1999, Consolo, evidenziando la funzione civile sottesa all’opera di Sciascia, gli attribuisce il merito di avere spostato «la dialettica pirandelliana dalla stanza alla piazza, nella civile agorà» (Consolo 1999: 269). Sciascia, allora, in questa sua «conversazione loica e laica sui fatti sociali e politici» si rivela «figlio di Pirandello» (Consolo 1999: 186), al punto tale che il personaggio narrante di Todo modo è «nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani – al punto [dice] che tra le pagine dello scrittore e la vita che avevo vissuto fin oltre la giovinezza, non c’era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti» (Consolo 1999: 187-188). Quest’interesse, questa consonanza di idee con Pirandello, porta Consolo a riunire in Di qua dal faro, con il titolo di Asterischi su Pirandello, alcuni saggi dedicati allo scrittore agrigentino, pubblicati fra il 1986 e il 1997. In Album Pirandello Consolo ribadisce la funzione modellizzante che lo spazio ha esercitato su tutta la famiglia dello scrittore agrigentino: «quell’albero genealogico […] dispiega i suoi rami contro un cielo di luce crudele, affonda le sue radici in quell’asperrimo terreno che è la Sicilia, in quel caos di marne e di zolfi che è Girgenti» (Consolo 1999: 150). E così anche l’eclissi di sole a cui assistette «graverà sul mondo dello scrittore» (Consolo 1999: 150) e si combinerà con «quella […] della città in cui si trovò a vivere, di Girgenti. Una città dove è morta la storia, la civiltà, lasciando il vuoto, il deserto, […] la stasi, l’immobilità» (Consolo 1999: 150-151). Ricordiamo, difatti, che Consolo, ne L’olivo e l’olivastro e ne Lo Spasimo di Palermo, per esempio, individua, nella perdita della memoria storica, la causa della crisi del presente. Scrive così: «si può mai narrare senza la memoria?»; «Non è vero, io non so scrivere di Milano, non ho memoria» (Consolo 2012: 88, 97). Unica soluzione, allora, l’evasione, come quelle di Mattia Pascal o di Enrico IV, oppure rivestire delle forme, difenderle con le armi della dialettica, del sofisma, della retorica. L’operazione di Pirandello sembra perciò trovare dei riscontri nell’età contemporanea, in cui «l’io s’è perso nell’indistinta massa, la vita nelle prigioni sempre più disumane delle forme imposte dal potere, l’essere nell’apparire fantasmatico dei media» (Consolo 1999: 152). E non dimentichiamo che pure Consolo considera negativamente l’omologazione. Gioacchino Martinez, per esempio, sul treno che lo conduce a Palermo, prova piacere «a risentire quei suoni, quelle cadenze meridionali, quelle parlate che non erano più dialetto, ma non ancora la trucida nuova lingua nazionale» (Consolo 1998: 94-95) annunciata da Pasolini. Il viaggiatore de L’olivo e l’olivastro, poi, giudica «vacui» i giovani che, «con l’orecchino al lobo, i lunghi capelli legati sulla nuca» (Consolo 1994: 112), affollano la piazza di Avola. Altri legami fra Pirandello e Consolo ne L’ulivo e la giara. Gli stucchi di Giacomo Serpotta, che lo scrittore agrigentino ebbe modo, molto probabilmente, di osservare nella chiesa di Santo Spirito, con il loro carattere «mortuario […] fantasmatico» che «ha colto il pittore Fabrizio Clerici nella sua Confessione palermitana» (Consolo 1999: 156), hanno influenzato pure Consolo, il quale, in Retablo, chiama Fabrizio Clerici il protagonista e descrive le sculture in stucco dell’oratorio di via Immacolatella di Procopio Serpotta, figlio di Giacomo. «La bianca, spettrale fantasmagoria serpottiana» (Consolo 1999: 156), inoltre, richiama la «servetta Fantasia» attraverso cui i vari personaggi delle opere letterarie si materializzano, così come Macchia per Pirandello e Carandente per Serpotta parlano del «cannocchiale rovesciato» (Consolo 1999: 157). Analogamente, la superiorità di Cefalù su Palermo, sostenuta da Consolo varie volte16, è colta anche da Pirandello. Consolo immagina che questi, in viaggio da Palermo a Sant’Agata, in preda alla profonda suggestione «che gli suscitavano i nomi dei paesi: Solunto, Himera, Cefalù, Halaesa, Calacte…», si accorge che, «dopo Cefalù, il mondo colorato, vociante e brulicante del Palermitano andava a poco a poco stemperandosi [per] a prendere gradualmente una misura più dimessa, ma forse più serena» (Consolo 1999: 157-158). Pirandello, a confermare l’importanza dei luoghi, ebbe sicuramente presente, secondo Consolo, «il ricordo di quel suo lontano viaggio nel Val Dèmone» (Consolo 1999: 161) nello scrivere La giara, «la prima fuga nella memoria e nel ricordo, fuga dalla sua vita e dai fantasmi “pirandelliani” che lo assediavano» (Consolo 1999: 160). La novella, perciò, giudicata di recente una «divertita denuncia dell’intrinseca capziosità sia delle vicende che delle soluzioni giuridiche, calata in pieghe di umoristica densità» (Zappulla Muscarà 2007: 143), acquista nuovo significato nell’interpretazione di Consolo. La giara è per lui, infatti, a richiamare la sua tipica figura chiave della chiocciola, della spirale, sia «l’involucro della nascita, l’utero» sia «la tomba», mentre «quell’olio che la giara avrebbe dovuto contenere viene sì dall’ulivo saraceno, ma viene anche dall’albero sacro ad Atena, dea della sapienza» (Consolo 1999: 161-162), a ricordare la commistione delle due culture, araba e greca, della Sicilia. Consolo può allora vedere nel pino di Pirandello, tranciato, un simbolo degli «scadimenti, delle perdite, reali e simboliche, nel nostro Paese» (Consolo 1999: 163), a confermare la «visione del mondo, della vita come caos, mutamento incessante di forme, […] approdo all’assenza, al nulla» (Consolo 1999: 165). Anche in ciò Consolo si trova in consonanza con Sciascia17, che commenta, alla fine di Fuoco dell’anima: «Questa è la classe dirigente – per meglio dire digerente – che preferisce fare il pino di plastica piuttosto che salvare quello vero. Ed è così per tante, tante altre cose…» (Consolo 1999: 164). Con tutto questo, Consolo mostra l’importanza della ricezione dei testi letterari, avvicinandosi al lector in fabula descritto da Eco (1979). 16 Mi sia consentito, per questo, un rimando a Gallo 2017: 287-296. 17 Gianni Turchetta sottolinea, a proposito del termine ‘impostura’ de Il sorriso dell’ignoto marinaio, i legami di Consolo con Sciascia (2015: 1304-1305). Ne Lo Spasimo di Palermo, inoltre, Gioacchino Martinez legge, ne La corda pazza, la vita di Antonio Veneziano (115) e il narratore ricorda il «rifugio in Solferino dove Sciascia patì la malattia, sua del corpo e insieme quella mortale del Paese» (93-94). Vincenzo Consolo lettore di Pirandello 181

Bibliografia
Baldi G., 2014, Microscopie, Napoli, Liguori. Consolo V., 1985, Lunaria, Torino, Einaudi. Consolo V., 1992, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori. Consolo V., 1992, Retablo, Milano, Mondadori. Consolo V., 1994, L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori. Consolo V., 1998, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori. Consolo V., 1999, Di qua dal faro, Milano, Mondadori. Consolo V., 2004, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori. Consolo V., 2012, La mia isola è Las Vegas, Milano, Mondadori. Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Serge, Milano, Mondadori, «I Meridiani». De Villi A. I., 2013, «Pasquale Marzano, Quando il nome è “cosa seria”. L’onomastica nelle novelle di Luigi Pirandello», (Pisa, ETS, 2008, 206 p.), OBLIO III, 9-10, p. 277-279. Eco U., 1979, Lector in fabula, Milano, Bompiani. Frabetti A., 1995, «L’“infinita derivanza”. Intertestualità e parodia in Vincenzo Consolo», Bollettino ‘900, n. zero, maggio, n. 1, http://www.comune.bologna. it/iperbole/boll900/consolo.htm Francese J., 2015, Vincenzo Consolo, Firenze, University Press. Gallo C., 2017, La Yoknapatawpha di Vincenzo Consolo, in: Sgavicchia S., Tortora M., Geografie della modernità letteraria, Pisa, ETS, I, p. 287-296. Galvagno R., 2015, «“Bella, la verità”. Figure della verità in alcuni testi di Vincenzo Consolo,» in: Diverso è lo scrivere. Scrittura poetica dell’impegno in Vincenzo Consolo, Avellino, Edizioni Sinestesie, p. 39-64. Leopardi G., 1978, I Canti. Operette morali, Roma, Casa Editrice Bietti. O’Connell D., 2008, «Consolo narratore e scrittore palincestuoso», Quaderns d’Italià, 13, p. 161-184. Pirandello L., 1953, I vecchi e i giovani, in: Tutti i romanzi, vol. II, Milano, Mondadori. Pirandello L., 1955, Novelle per un anno, Milano, Mondadori, vol. II. Turchetta G., 2015, «Note e notizie sui testi», in: Consolo V., L’opera completa, p. 1271-1455. Zappulla Muscarà S., 2007, «La Giara e La patente fra narrativa e teatro ovvero Pirandello nell’isola del sofisma», in: Lauretta E., Novella di Pirandello: dramma, film, musica, fumetto, Pesaro, Metauro, p. 143-167.700

Omaggio a Vincenzo Consolo: Lunaria, nella gioia luminosa dell’illusione

data 12/04/2018


 Omaggio a Vincenzo Consolo: Lunaria, nella gioia luminosa dell’illusione

LETTERATURA E MUSICA / INCONTRO CONCERTO-RECITAL

Omaggio a Vincenzo Consolo: Lunaria, nella gioia luminosa dell’illusione

In lingua italiana con sottotitoli in francese, 70’.
Con Gianni Turchetta (voce), Etta Scollo (voce e chitarra) e Susanne Paul (violoncello e voce)

Questo concerto-recital, che rende omaggio allo scrittore Vincenzo Consolo, è stato creato a partire dal racconto eponimo di Consolo. L’opera si svolge in una Sicilia fiabesca, contemplata attraverso un caleidoscopio che mescola tutte le sfumature del barocco mediterraneo. Il protagonista, il viceré dell’isola, è un personaggio cupo e malinconico. Una notte, questo atipico sovrano sogna che la luna sia caduta dal cielo. Quello che sembra un incubo è in realtà una premonizione: in uno sperduto villaggio del regno, inesistente perfino sulle carte geografiche, la luna è veramente caduta dal cielo… Tra narrazione e peosia, il racconto scivola dall’inizio alla fine come la musica di uno spartito, scorrendo come un fiume carsico e comparendo qua e là alla luce del sole (o della luna) in occasione di veri e propri exploit melodici e coreografici: canzoni, balli, poesie la cui tensione musicale viene esaltata dalle parole dell’autore, che raccoglie le più antiche espressioni delle diverse lingue regionali.

Lo spettacolo sarà preceduto da un intervento di Gianni Turchetta, professore di letteratura all’Università di Milano e specialista della scrittura di Vincenzo Consolo, del quale ha curato l’opera completa per i Meridiani Mondadori.

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https://iicparigi.esteri.it/iic_parigi/it/gli_eventi/calendario/2018/04/hommage-a-vincenzo-consolo-lunaria.html