L’allontanamento Il viaggio o la fuga?

Il tema del viaggio è un contenuto della realtà extratestuale e dell’immaginario (tanto dell’autore quanto del lettore) che ritorna in opere diverse: si ripete dunque in forme riconoscibili pur articolandosi ogni volta in modi irripetibili all’interno di costruzioni dotate ognuna di una propria individualità. Questo contenuto può riguardare personaggi, passioni, ambienti, eventi, immagini1 . Il viaggio è un evento. In genere si tratta di un accadimento che coinvolge due o più persone: dopo un percorso (di una di esse o di tutte, non importa), esse entrano in contatto fra loro in modo volontario o involontario, programmato in partenza o del tutto casuale2 . Nel 1993 Consolo ammette: I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo dell’attuale mondo milanese3 . I lettori entrano nel mondo della narrazione consoliana attratti non da questa frase tradizionale “C’era una volta” ma tramite un procedimento ben diverso e cioè l’uso della congiunzione che apre la storia. E la chiarìa scialba all’oriente, di là di Sant’Oliva e della Ferla, dall’imo sconfinato della terra sorgeva nel vasto cielo, si spandeva — ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri, ai perenti si negano i ritorni, siamo figli del Crudele, pazienza. N, 5 E poi il tempo apre immensi spazi, indifferenti, accresce le distanze, separa, costringe ai commiati — le braccia lungo i fianchi, l’ombra prolissa, procede nel silenzio, crede che un altro gli cammini accanto. SP, 11 Quando la voce del narratore inizia in questo modo, non è difficile, come sostiene Remo Ceserani, “sospendere la sua vita normale, abbandonare il mondo in cui scorre la sua vita e trasferirsi, se si sente attirato dalla voce del narratore e dall’interesse delle vicende narrate […]”4 . Il lettore subito sin dall’inizio ha impressione di affrontare la continuazione della storia già raccontata. Consolo riesce a trasformare il passato, anche quello lontano, in una realtà somigliante agli eventi presenti. Il ciclo della narrativa consoliana ammette la rappresentazione della Sicilia in varie fasi della sua storia. L’azione del romanzo Nottetempo3, casa per casa si svolge a Cefalù, negli anni del sorgere del fascismo. Non è racconto di viaggio, o guida, tuttavia con un viaggio si onclude. Qui Petro vive una sua educazione sentimentale, politica, letteraria, scontando sulla propria pelle lo sforzo del rapporto con una realtà che sfugge ad ogni razionalità, che si lascia dominare da quella “bestia trionfante” che stravolge quel mondo, che sembra fargli perdere antichi equilibri e antichi profumi, e trova nel fascismo la sua più compiuta incarnazione5 . C’è il risentimento verso una patria perduta e le persone che non si accorgono della perdita. E qui non si parla solo di un confine siciliano, ma di un oggi che comprende anche altri luoghi. Certo, il discorso della lingua è chiaro. Consolo ha sempre cercato di scrivere in un’altra lingua ed è quello che ha sempre irritato i critici, il fatto di “uscire dai codici, di disobbedire ai codici”6 .
Il viaggio di Nottetempo, casa per casa, è la fuga di Petro da un mondo nel quale egli vede la civiltà in via di travolgimento e per il quale avverte ormai odio, al punto da fargli maturare una condizione che egli non sa se, ed eventualmente quando, vorrà modificare, e quando eventualmente (“Non so adesso” dice, quasi come Fabrizio Clerici diceva dell’itinerario che avrebbe potuto prendere l’ulteriore sua peregrinazione) perché le ragioni dell’odio sono per lui diverse da quelle che muovono l’anarchico Schicchi, non politiche in senso stretto, non di fazione: e tali ha scelto di mantenerle “in attesa che passi la bufera”, senza fraintendimenti e perciò nello stesso esilio vivendo scostato da Schicchi, nella cui prassi riconosce la stessa matrice che ha causato la sua partenza, “la bestia dentro l’uomo che si scatena ed insorge, trascina nel marasma, la bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze” (N, 170)7 . La partenza di Petro assume un valore emblematico, e in realtà, diventa aterritoriale. 5  Il romanzo Nottetempo, casa per casa contiene il numero maggiore di elementi raffiguranti la nozione di allontanamento: l’allusione all’inespresso, alla ritrazione, al rischio dell’afasia, del silenzio. Pervenuto in prossimità di Tunisi, rimasto solo sul ponte del piroscafo, Petro lascia cadere in mare un libro che l’anarchico gli aveva posto in mano per alimento politico, e pensa ad un suo quaderno, sentendo che, “ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro, avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore” (N, 171): un quaderno perciò egli porta con sé quale viatico dell’esilio, dove potrà da lontano nominare il dolore, e perciò — comprendendolo — risolverlo, e questo è tutto il corredo che la sua scelta presuppone8 . Il protagonista di Nottetempo, casa per casa è un esiliato che rompe a un tratto la condizione di esilio attraverso la scrittura, diversamente dagli altri, dal padre, ad esempio, che non può farlo. Il libro si apre con una scena notturna in cui si disegna la figura oggi rara della malinconia, desueta almeno, in cui la depressione si svela nel rapporto con la luna piena: quella del licantropo. La cultura popolare ci ha tramandato vari frammenti intessuti su questa figura, dominata da un dolore insopportabile che equivale ad un esilio. Come dice l’epigrafe della Kristeva posta all’inizio del libro, quel dolore equivale a vivere sotto un sole nero, che può anche stare per l’immagine della luna. È un tentativo di liberazione dell’angoscia attraverso l’animalità, la fuga, la corsa9 . La coscienza del dolore proprio e altrui indica una prospettiva che rende possibile la riflessione su un altra persona. La sofferenza non è qualcosa di peggiore che richiede il rimandere nascosti. Al contrario, è necessario prenderla in considerazione quando si vogliono determinare i limiti del potere umano. Consolo, indicando la sofferenza come l’esperienza fondamentale dell’esistenza, non si discosta dal discorso sempre più urgente sulla condizione degli emarginati nel mondo postmoderno. Così Petro fugge, come Consolo, e “spariva la sua terra mentre egli se ne andava (N, 168). Petro è spinto da una parte dalla forza irrazionale di un fascismo che prometteva giustizia e riscossa, specchietti delle allodole delle dittature incipienti, dall’altra è attratto da quel socialismo-anarchico la cui contestazione, però, gli appare violenta e drasticamente tragica. Decide per una ”fuga”, che non è disimpegno, ma scelta chiara, il che illustra la scena finale: “si ritrovò il libro dell’anarchico, aprì le mani e lo lasciò cadere in mare” (N, 171). La marginalità del gesto, tuttavia, non gli scongiura la necessità della fuga da Cefalù, dalla città che aveva amato nelle cose e nelle persone, e che ora gli era caduta dal cuore “per quello ch’era avvenuto, il sopravvenuto, il dominio che aveva presa la peggiore gente, la più infame, l’ignoranza, la violenza, la caduta d’ogni usanza, rispetto, pietà…” (N, 166); e perciò egli si spinge all’esilio in Tunisia, dove si reca partendo nottetempo da Palermo, su di un vapore che pure nasconde il capo anarchico Paolo Schicchi (altro personaggio reale)10. Anche Consolo, quando si è trasferito a Milano aveva intenzione di raccontare quella Milano dei contadini siciliani che diventano operai. Ben presto capì che per farlo aveva bisogno della distanza della metafora storica. È quello che Cesare Segre acutamente ha sottolineato come peculiarità del suo modo di scrivere: “è il distanziamento, il bisogno di distanziarsi, anche geograficamente”11. Il motivo del viaggio, nel primo lavoro: La ferita dell’aprile, si svolge sul doppio versante del riportarsi all’indietro dell’io narrante al tempo della propria adolescenza, e di un attraversamento di diversi piani linguistici alla ricerca di uno stile che si conquista una propria misura espressiva12. E per restituire alla storia il misterioso e l’ignorato che è nell’uomo e nella collettività, Consolo sceglie fin da questo primo romanzo la dimensione della memoria e l’idea del viaggio13. Il labirinto evidenzia cioè nella sua stessa forma figurale, in quanto metafora assoluta che si sostanzia di un retroterra religioso e mitologico, la struttura del congetturare dialettico, di quel mirare alla fine 10 del processo ermeneutico come al proprio fine, implicito nel viaggioverso-il-centro e nel viaggio-di-ritorno di Teseo come in tutte le successive varianti del mitologema14. In appendice ai capitoli di più acuminato spessore del suo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo ha inserito, infatti, un ventaglio di documenti storici che fanno corpo organico con la narrazione, esplicitando ciò che essa lascia nel margine dell’intuitivo. Aldo M. Morace sostiene che così viene spezzata l’unità tipica del racconto storico, ma anche la finzione narrativa stessa, in modo da chiamare in causa il lettore, secondo l’esigenza brechtiana dello straniamento e secondo la suggestione adorniana circa la necessità, per l’opera d’arte, di portare impresse nelle proprie strutture formali le stigmate della negatività rinunciando alla forma compatta ed armoniosa che attesterebbe la conciliazione con la società esistente15. Se il romanzo, e in particolare il romanzo storico si esprime attraverso le tensioni formali, come sostiene Flora Di Legami16, la prosa di Consolo corrisponde pienamente a questa immagine. L’autore introduce, trasformato, il topos ottocentesco del manoscritto: esso non è più l’espediente narrativo su cui costruire la trama del romanzo, ma un documento immaginario capace di suffragare, con la sua verosimiglianza linguistica, l’effettualità degli avvenimenti narrati. E così il Mandralisca, mosso dall’ansia di verificare le affermazioni dell’Interdonato, compie un viaggio in alcuni paesi del messinese, che gli farà conoscere le condizioni di miseria e sfruttamento in cui versano i contadini, ma soprattutto lo porterà ad essere testimone diretto dell’insurrezione di Alcara contro i Borboni nel maggio 1860. Quello del Mandralisca risulta un viaggio di tipo vittoriniano, di progressiva maturazione e di crescita etico-politica, ma anche di discesa del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 52. L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti all’interno delle contraddizioni della storia e della ragione, di cui sperimenta l’impotenza operativa17. Nel contesto della dominazione anche fisica delle nuove forze — come prova di contrapposizione ad esse — appare anche il problema delle riflessioni morali che espongono solo la dimensione degli abusi. Consolo la rievoca tramite l’introduzione della situazione di caos: accanto alle forze naziste spuntano le proteste degli operai, crescono l’incitazione intorno alla Targa Florio e infine la sconfitta degli anarchisti. Questo caos viene preceduto nella narrazione dal segnale riferito alla follia della famiglia Marano, il che suggerisce la conseguente spirale della perdita di senno. Solo la ragione si oppone al regime, al male atavico dell’uomo, alla distruzione della memoria e dei valori della terra e della società18: Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania. E corrompeva il linguaggio, stracangiava le parole, il senso loro, il pane si faceva pena, la pasta peste, la pace pece, il senno sonno. N, 140 Il linguaggio, trasgressivo e straniato, arcaicizzante e artificioso, nasce da una spinta molto forte, così da richiedere una strategia di difesa e di allontanamento, e una immersione nella vita “nel suo infinito variare”. È un linguaggio che diviene canto, sonante e alto, fatto di cadenze e ritmi poetici (per esempio, di ben individuabili, ossessivamente presenti, endecasillabi: “E la chia-rì-a scial-ba all’- or-ien-te / di là di Sant’-O-li-ve-del-la Fer-la”)19. Consolo ha spesso affermato di sentirsi parte di una linea della letteratura italiana che proviene dalla Sicilia e che comprende Verga, Pirandello, Vittorini, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, ma nello stesso tempo ribadisce17 la provenienza da una zona periferica d’Italia. La sua narrazione diventa la testimonianza della credenza nella possibilità dei contributi innovativi alla cultura da quella isolana20. L’abbandono della predominanza del senso della vista a favore dell’abilità del parlare implica la riduzione della distanza rispetto all’oggetto dell’analisi. La facoltà di parlare richiede la mancanza di dominazione e indica invece l’impegno dei processi cognitivi nelle differenti prospettive degli interlocutori. La Sicilia attraversata da Clerici è quella storica del primo Settecento, afflitta da povertà, ignoranza e violenza; e tuttavia i vari paesi diventano contrade dell’anima dove pensieri ed emozioni balzano in primo piano, e i personaggi incontrati hanno sempre consistenza reale e favolosa, come i ladri delle terme segestane. Sono luoghi in cui il narratore sospende il tempo della narrazione per abbandonarsi all’incanto del mondo favoloso e lontano. Lo spazio sociale con i suoi conflitti non è, in questo romanzo, il centro palpitante; lo percorre invece una vibrata inquietudine ed un febbrile desiderio di lontananza21. Nel romanzo Lo spasimo di Palermo l’autore legge una vicenda personale e collettiva, partendo da un tempo che apre immensi spazi. In principio è la lontananza, la terra straniera e il distacco che “costringe ai commiati”22. Nel caso del protagonista del romanzo menzionato, lo scrittore Gioacchino Martinez, cupo e angosciato eroe che vuole rappresentare la realtà senza incanto, che era quello di un sogno infantile, e smuovere altri ricordi. Sono proprio i ricordi che lo devastano e nello stesso tempo lo mantengono in vita: il protagonista torna in Sicilia, da dove se ne era fuggito, per l’impossibilità di opporsi alla violenza, all’ingiustizia. È un affondo nel rammarico, nei dolori della memoria: l’adolescenza nel dopoguerra siciliano, l’amato zio studioso di botanica, l’adorata Lucia che poi sposerà e perderà con strazio, il rifugio in una Milano ritenuta proba, antitesi al ma

rasma 20, gli anni del terrorismo e la pena per il figlio compromesso. Piero Gelli parla direttamente del risveglio di un’illusione: la città civile di Porta, Verri e Beccaria, di Gadda e Montale non esiste più, sommersa dalle acque infette dell’intolleranza e dalla melma della corruzione23. Se si prende per esempio la descrizione dell’albergo che sebbene non sia un luogo sotterraneo, rivela tutta la sua angustia: “La dixième muse era il nome dell’albergo. L’angusto ingresso, il buio corridoio…” (SP, 11). Spostandosi all’indietro nei ricordi assomigliava ai rifugi antiaerei o alle cantine. Dopo il bombardamento all’oratorio Chino ”tornò affannato nell’androne, attraversò il cavedio, discese nel catoio” (SP, 16). È significativo anche che cupi, nascosti ed in profondità siano i luoghi in cui si consuma la relazione fra il padre di Gioacchino e la siracusana. Quindi colpa e menzogna da cui Chino fugge sempre, in modo antonimico, seguendo il percorso contrario, verso la luce e la superficie. È la fuga da una realtà che non vuole conoscere. Una tana sarà anche il luogo prediletto dal ragazzo per i suoi giochi e le sue fughe: “Corse al marabutto, al rifugio incognito e sepolto dal terriccio” (SP, 19). A un certo momento del libro il protagonista parla così: “Non so adesso… Adesso odio il paese, l’isola, odio questa nazione disonorata, il governo criminale, la gentaglia che lo vuole… odio finanche la lingua che si parla”. Mai come adesso la scrittura si ritaglia come il luogo di una distanza difficilmente colmabile in cui non ci sono luoghi cui dedicare una presunta fedeltà: “Dietro queste parole scopertamente riferite all’oggi c’è il risentimento personale di chi scrive verso un luogo che ha dovuto lasciare”24. Una soluzione più simile al concetto di viaggio si può da ricavare nel romanzo Retablo. La seconda sezione del libro, quella centrale o la più distesa, è il diario di viaggio che Clerici scrive per Teresa Blasco, la donna amata, da cui cerca di allontanarsi compiendo la sua “peregrinazione” attraverso la Sicilia. È solo attraverso il “collaudato23 contravveleno della distanza”, infatti, che Clerici riesce a ritrovare quell’“aura irreale o trasognata” che gli consente di dedicarsi alla scrittura e alla pittura (R, 87). E per ottenere il necessario  estraniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata di Militello con il trasferimento a Milano, fungono spesso da testimoni o il cavaliere e l’artista lombardo Clerici, o il mistificatore inglese: Crowley. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale25.

Title: Rompere il silenzio : i romanzi di Vincenzo Consolo Author: Aneta Chmiel Citation style: Chmiel Aneta. (2015). Rompere il silenzio : i romanzi di Vincenzo Consolo. Katowice : Wydawnictwo Uniwersytetu Śląskiego.

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1  F. Orlando: Costanti tematiche, varianti estetiche e precedenti storici. In: M. Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. Firenze, Sansoni, 2003 [1996], p. VII. 2  R. Luperini: L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale. Roma—Bari, Editori Laterza, 2007, pp. 4—8. 168 Capitolo V: L’allontanamento V. Consolo: La poesia e la storia. In: Gli spazi della diversita. Atti del Convegno Internazionale. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992. Leuven —Louvain-la Neuve—Namur—Bruxelles, 3—8 maggio 1993. Vol. 2. A cura di S. Vanvolsem, F. Musarra, B. Van den Bossche. Roma, Bulzoni, 1995, pp. 583— 586.4  A. Bernardelli, R. Ceserani: Il testo narrativo. Istruzioni per la lettura e l’interpretazione. Bologna, Il Mulino, 2013, p. 135. Il viaggio o la fuga? 169 G. Ferroni: La sconfitta della notte. “L’Unità” 1992, il 27 aprile. 6  R. Andò: Vincenzo Consolo: La follia, l’indignazione, la scrittura. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 11. 7  S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore. “Nuove Effemeridi” 1995, n. 29, p. 63. 170 Capitolo V: ” (N, 168). Petro è spinto da una parte dalla for8  Ibidem, pp. 63—64. 9  R. Andò: Vincenzo Consolo…, pp. 8—9. S. Mazzarella: Dell’olivo e dell’olivastro…, pp. 62—63. 11 V. Consolo: Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia. Roma, Donzelli editore, pp. 9—10. 12 F. Di Legami: Vincenzo Consolo. La figura e l’opera. Marina di Patti, Pungitopo, 1990, p. 12. 13 Ibidem, pp. 7—9. 172 Capitolo V: , 14 Cfr. K. Kerényi: Nel labirinto. Torino, Bollati Boringhieri, 1983, p. 9. 15 Cfr. A.M. Morace: Orbite novecentesche. Napoli, Edizioni Scolastiche Italiane, 2001, pp. 212—213. 16 Cfr. F. Di Legami: Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, pp. 24—25. 18 Cfr. C. Ternullo: Vincenzo Consolo: dalla Ferita allo Spasimo. Catania, Prova d’Autore, 1998, p. 58. 19 R. Ceserani: Vincenzo Consolo. “Retablo”. “Belfagor” 1988, anno XLIII, Leo S. Olschki, Firenze, pp. 233 — 234. 174 Capitolo V: L’allontanamento cfr. A. Bartalucci: L’orrore e l’attesa. Intervista a Vincenzo Consolo. “Allegoria. Rivista quadrimestrale” 2000, anno XII, nn. 34—35, gennaio—agosto, 21 Cfr. F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 40. 22 G. Amoroso: Il notaio della Via Lattea. Narrativa italiana 1996—1998. Caltanisetta—Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2000, p. 464. Cfr. P. Gelli: Epitaffio per un Inferno. La rabbia e la speranza di Consolo. “L’Unità” 1998, il 12 ottobre, p. 3. 24 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 11.

Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine

— Penso che vincere un premio come lo Strega possa essere, per uno scrittore serio, un’assicurazione contro i faccendoni, e il dilagare della carta. — La carta seppellisce i libri. Una volta gli scrittori lavoravano con la speranza nel futuro1 . Senza troppa esagerazione si può affermare che il tono essenziale della prosa consoliana rimane soprattutto riflessivo e didascalico. E se con questo ci si vuole riferire ad una remota disposizione che si ripresenti nelle opere degli scrittori siciliani, e cioè, una ricorrenza di quella peculiarità, nominata da Leonardo Sciascia una “specie di follia”. In questa zona discorsiva, acquista un rilievo massimo la figura di Luigi Pirandello atteggiata nell’argomentativo e sofistico ritmo di un ragionatore e di un maestro tutto volto a spiegare e insegnare. Ma questa razionalizzante sicilitudine non è da credere che s’aggiri in una forma di cattedratica istruzione o di astratta lezione2 . Al contrario, la meditazione svolta dell’autore, pur nei confini dello schema prestabilito si avvia di acute analisi e di fini notazioni psicologiche
1  F. Parazzoli: Il gioco del mondo. Dialoghi sulla vita, i sogni, le memorie […]. Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1998, p. 23. 2  Cfr. M. Tropea: Nomi, „ethos”, follia negli scrittori siciliani tra Ottocento e Novecento. Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2000, p. 5.
essenza della sicilitudine che superano i consueti limiti del comune repertorio morale. Pirandello, nel modo più autonomo, è riuscito a collegare i motivi siciliani come: mania, follia e superstizioni e grandi temi dello smarrimento dell’animo dell’uomo. Si potrebbe dire, a titolo non solo di paradosso, che lo scrittore avverta la presenza della conoscenza della vita nella totalità dei suoi aspetti come il frutto di un’esperienza non gradita e tendenzialmente rifiutata. Invece la liberazione dei sentimenti e dell’invenzione dal peso del reale presuppone un’intensa partecipazione ad esso, non un rifiuto, non un esilio, ma un’accettazione contrastata e difficile. Ad una maggiore immediatezza d’espressione si torna con l’esperienza di Vitalino Brancati che distingue la cultura della Sicilia in due grandi suddivisioni: “[…] quella occidentale degli arabi, dei cavilli, delle sottigliezze, della malinconia, di Pirandello e di Giovanni Gentile e dei mosaici; e quella orientale dei Fenici, dei Greci, della poesia, della musica, del commercio, dell’inganno, di Stesicoro, Verga, Bellini, San Giuliano”3 . Con le opere di Brancati si rimane sempre nella stessa dimensione della poesia invasa dalla follia che forma la peculiarità dell’anima e della cultura siciliana. Secondo Mario Tropea l’esistenza di una “letteratura siciliana” costituisce una figurazione di una insularità affermata non solamente dal punto di vista storico e antropologico. Nella sua sostanza si conferma una tonalità narrativa della psicologia umana4 . Allo sguardo satirico di Brancati, l’universo siciliano non appare come lo spazio di cui celebrare il fasto, né tanto meno la sede in cui si elaborano progetti politici; esso diviene piuttosto il bersaglio privilegiato di un processo di smascheramento, teso a mettere a nudo l’incapacità dei rappresentanti del potere, l’interesse dei cittadini e il loro stato di umiliante soggezione. In questo senso appare emblematico il punto di vista di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pieno d’ironia, pensata come sintesi di distacco aristocratico. Forse ha capito che allo scrittore non si chiede più l’eroismo di una classe feudale, ma la naturale mutevolezza di caratteri osservati nella
3  Ibidem, p. 6. 4  Cfr. ibidem.
realtà quotidiana. L’ottica dall’interno con cui il mondo della Sicilia è narrato compare nella presenza di nozioni dell’ironia e della storia. L’isola ha una sua storia che la genera e rigenera. Nella scelta di una narrazione mimetica l’insularità diventa una proprietà imprescindibile. Consolo non inventerebbe l’isola se non vi fosse venuto al mondo, se nella vita, nella scrittura non fosse venuto incontro ad esso e se non l’avesse raccontato tramite le vicissitudini dei compaesani. Pubblicando i suoi scritti, Consolo ha salvato dall’oblio inerente all’oralità le storie dolorose e fragili. Sembra che, simbolicamente, lo scrittore abbia saldato un debito nei confronti degli interlocutori del paese natio. Non si tratta, in questa analisi, di propugnare uno scavalcamento delle gerarchie né di rinnegare gli interessi degli scrittori; invano si cercherebbe in queste opere un progetto di riforma della società in base a nuovi valori. Mondo insulare e mondo della penisola sembrano impermeabili. Eclettico Capuana non tanto lontano dalla realtà del naturalismo di Verga rappresenta la follia proprio tramite uno studio “clinico”. Nella poetica che sembra quella di un generico realismo, Consolo varca la soglia della finzione e recupera le forme testuali della verità quasi documentaria: struttura e tono del reportage, appendici forniti dalla storia, narrazione in terza persona. Un’idea di narrazione polimorfica potrebbe risultare una necessità di inquadrarsi all’interno di una prospettiva di moderno umanesimo delle contraddizioni. Ferruccio Parazzoli ha ammesso di sentirsi come Ismaele — il protagonista di Moby Dick. Invece, però di andarsene per mare, lo studioso si accontenta di svolgere la ricerca tra gli amici5 . In Mondadori, la sua casa editrice, Consolo viene considerato uno dei più ascoltati scrittori italiani. “Quando dice fa opinione” — ricorda Parazzoli6 . Se lo scrittore si riferisce alla quotidianità politica, lo fa direttamente come nella constatazione rapportata alla situazione del settembre del 1994: “Io credo che chi ci governa sia affetto da una grave malattia mentale. […] Tutti i suoi gesti, tutte le sue azioni, tutti
5  Cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 54. 6  Ibidem.
gli ordini, tutto quanto lui dispone è all’insegna dell’irrazionalità e della follia”7 .

Prendendo le mosse dal mito sul Cavallo inventato da Ulisse, Consolo cerca di individuare un’ipotesi fondamentale dell’illusione vissuta dall’Italia dopo la seconda guerra mondiale; l’illusione dell’Itaca e cioè dell’armonia, della storia e degli affetti. Dopo le tragedie subite c’era bisogno di razionalità e di ordine che potevano essere visti come tappe di un possibile recupero della ragione. Va poi sottolineato, sul piano delle corrispondenze fra la ragione e la follia che questa oscillazione è diventata una costante della storia dell’Italia. Consolo dichiara decisamente il desiderio di testimoniare il senso storico del suo tempo. In questo caso la testimonianza riguardante la situazione del paese è un espediente narrativo esemplare della tecnica della trasformazione che si gioca su capovolgimenti. La generazione di Consolo ha conosciuto un mondo che era la civiltà contadina è che poi ha cominciato a sostituire la vita con le cose, con la merce. In conseguenza è accaduto lo spostamento della centralità dell’essere e la sua sostituzione con l’avere. La rapidità di questo processo ha lesionato anche le altre sfere dell’attività umana. Secondo Consolo il movimento delle masse contadine ha portato alla distruzione della cultura popolare. Anche un discorso svolto dallo scrittore sui colpevoli di questo stato di cose indica chiaramente i politici un primo luogo e poi gli intellettuali. Questa idea di responsabilità sopravvive nella coscienza letteraria consoliana, specialmente quanto il narratore sottolinea la propria provenienza siciliana. In questo paesaggio dell’Italia corrotta e arrettrata, Milano è cominciata ad essere considerata come la città dell’utopia, senza sopraffazione e violenza. Non è quindi per un caso nemmeno da questo punto di vista, in fondo, che Vincenzo Consolo come Verga e Vittorini, approdì a Milano. Con il passare di tempo nasce la delusione. La cosa da notare subito è la convinzione di Consolo della responsabilità maggiore della Milano moderna, siccome più dotata nel campo di lavoro e di cultura, della digradazione e dell’avvilimento.
7  Ibidem, p. 25.
Si capisce ancora meglio, così, perché sia proprio quest’inclinazione a renderci più coscienziosi e più sensibili ai problemi della realtà circostante. Esaminando il percorso dello sviluppo del romanzo politico, Consolo pronuncia apertamente la sfortuna di Sciascia e di Pasolini. Il primo è stato dimenticato, il secondo invece, è stato imbalsamato in una nicchia di santità laica. Nelle sue narrazioni ci si rivolge come un’ultima volta a uno spazio e a un tempo che stanno per svanire definitivamente. Attingendo ai maestri come Verga, Pirandello, Vittorini, Consolo vuole mettere in evidenza una realtà che si può raccontare. Non consumata dall’informazione, dalla televisione o dai giornali ma capace di far sopportare e di capire la realtà. Una delle caratteristiche di questo modo robusto di narrare è quel ricorso frequente alla parola “armonia” che è diventata una parola chiave nel suo vocabolario di scrittore. Si scopre così che, correntemente alla sua essenza patetica, questa parola, come specchio e rappresentazione dello sguardo che lo affronta, può diventare un espediente che renderà più facile il conciliarsi con la vita e con la realtà. È altrettanto importante mettere in evidenza un’altra costante della produzione letteraria consoliana e cioè, la volontà di decifrare un passato remoto. L’atteggiamento di protesta contro la dissacrazione del nostro tempo. Gli elementi della materia che diventano veri e propri protagonisti della memoria di Consolo sono tra l’altro: le pietre, le piante e il mare. La loro capacità di ipostatizzare lo sguardo che li contempla e di oggettivarlo in una forma visibile, non si trasforma mai in pura contemplazione ma cambia nell’esperienza interiore. La memoria del mondo ormai dimenticato e trascurato diventa anche il modo per salvarlo. Con questo espediente lo scrittore vuole opporsi al senso della precarietà del mondo moderno. Nella prefazione al saggio di Basilio Reale lo scrittore constata: Ho sempre pensato la letteratura siciliana (e non solo la letteratura, ma la pittura, la scultura, la musica: l’arte insomma) svolgersi su due crinali, su due filoni o temi distinti: quello della storia e quello dell’esistenza (o della natura, o del mito)8 .
8  V. Consolo: Prefazione. In: B. Reale: Sirene siciliane. L’anima esiliata in “Lighea” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Bergamo, Moretti & Vitali Editori, 2001, p. 15.
La memoria di quel mondo viene conservata anche nella dimensione di fuga dal paese. La fuga che è possibile forse solo in letteratura. La letteratura come possibilità di staccarsi dalla Sicilia, pur restando in Sicilia: l’esilio dall’interno. Molto legato ai valori come l’orgoglio, l’umiltà e il pudore, Consolo constata che la mancanza di pudore che ormai fa parte di ogni settore dell’attività umana, lo disorienta e offende. La paragona a una forma di violenza, come nei teatri anatomici quando si squadernavano i corpi. Parlando dell’importanza della memoria, lo scrittore rievoca la testimonianza di Pirandello, vissuta a circa due anni e legata ad un’eclisse solare che diventa un autentico archetipo della scrittura pirandelliana e un’ipostasi che è presente anche nella narrativa di Consolo9 . La prova di ricostruire questa memoria storica riguarda un mondo in cui la memoria sta per annullarsi. Ne rimangono solo delle apparenze e degli stereotipi. Per salvare questa realtà acquisisce soprattutto una forza dell’espressione linguistica, il richiamo alla lingua: unico segno realmente distintivo e significativo di appropriazione del mondo nelle possibilità di narrarlo, il che vuol dire per Consolo di ricrearlo narrativamente. Non a caso Giulio Ferroni riconosce allo scrittore il merito di essersi mosso alla ricerca di un linguaggio capace di unire in sé “la curiosità storica e razionale di Sciascia e il violento plurilinguismo di Gadda”10. Per Consolo la forza stilistica e inventiva diventa simbolo dell’aspirazione barocca a inglobare i diversi aspetti del reale in un complesso eterogeneo, ma organizzato. Le stesse ansie e inquietudini che, come si è visto, stanno a fondamento della ricerca dello scrittore siciliano, permeano altrettanto la prosa di diversi autori legati alla loro terra, alla loro regione, al loro quartiere. Il rapporto con il nichilismo del Novecento, la crisi di valori, la redifinizione dell’identità, i temi fondamentali non solo dell’opera di Consolo non solo hanno volto l’attenzione di molti su
9 Consolo, questa prosa, la nomina “la memoria di un’eclisse”, cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 29. 10 G. Ferroni: Storia della letteratura italiana. Milano, Einaudi, 1991, p. 129.
questi problemi ma sono anche stati oggetto di analisi di vari critici11. Joanna Ugniewska, nella parte conclusiva del saggio di Matteo Collura ci ricorda che l’autore, attingendo al modello vittoriniano del viaggio orientato verso i luoghi dell’isola d’infanzia e di origine, definisce la propria narrazione come il percorso verso luoghi dove la memoria è stata imprigionata12. Nel corso del Novecento la critica aveva riesaminato con accenti più serrati il ruolo degli autori siciliani. Alcuni di loro come Elio Vittorini e Leonardo Sciascia e un po’ più tardi Giuseppe Tomasi di Lampedusa sono stati premiati con il Nobel per la letteratura, gli altri hanno goduto un notevole successo editoriale. Nel quadro di questo pensiero siciliano non sarà luogo d’azione a sancirne il suo carattere originale. È vero che le narrazioni consoliane sono ambientate nella Sicilia, ma accade che le opere degli autori rievocati presentino i contesti geografici più neutri e generici. Da questo punto di vista, dunque, la provenienza potrebbe risultare un mero dato anagrafico. Ma in effetti la personalità consoliana era lungi dal limitarsi a tale rapporto tra la terra di nascita e le scelte future, tra l’aspirazione e i contrasti della vita, rapporto in certo modo risolto nella posizione dello scrittore di estrema apertura verso il reale, quale era propria di una scrittura che avverte in sé il continuo bisogno di nuovi orizzonti e di nuove situazioni. Se si volesse configurare la letteratura d’arte come perenne conflitto di “rappresentazione” e di “intellettualità”, si dovrebbe tornare mentalmente allo Stilnovismo, ma la presenza del momento intellettualistico è percepibile anche nell’arte moderna. Nel suo saggio dedicato agli scrittori siciliani del Novecento, Massimo Naro constata che l’atteggiamento intellettuale degli scrittori isolani si innesta sulla loro provenienza, non solo nel senso anagrafico o geografico, ma molto più profondamente, con le implicazioni etiche come antichi modi
11 Cfr. G. Pellegrino: Lotta, memoria e responsabilità: Eraldo Affinati. In: Scrittori in corso. Osservazioni sul racconto contemporaneo. A cura di L.A. Giuliani, G. Lo Castro. Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p. 155. 12 Cfr. M. Collura: Na Sycylii. Przeł. J. Ugniewska. Warszawa, Fundacja Zeszytów Literackich, 2013, p. 158.
di percepire il mondo a partire dalla terra di nascita13. L’esperienza siciliana diventa una specie di prospettiva nella quale gli autori contrappongono l’isola ad ogni terraferma. Più netti sono i contorni dell’isola, più il mondo fa da sfondo, diventa il miraggio. Così, quando lo sguardo degli scrittori entra “dentro” l’isola, la descrizione della concretezza fisica dello spazio non perde mai di vista gli elementi “strutturali” della Sicilia stessa. Una concretezza descrittiva che non trascura la peculiarità funzionale di questa scrittura, di esprimerne la gratitudine e la nostalgia. Questa caratteristica dell’ottica siciliana viene confermata fortemente nell’analisi del titolo dell’opera di Antonio Di Grado Finis Siciliae14 svolta da Anna Tylusińska-Kowalska nella parte introduttiva al volume dedicato alla produzione artistica di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno e Matteo Collura15. Nel commentare il titolo del libro citato del Di Grado e il contenuto del proprio volume, la studiosa sottolinea la funzione del diversificato paesaggio siciliano da cui scaturisce il mito della tradizione, del legame con la terra di nascita e della storia non sempre felice. Pirandello ha già definito le caratteristiche di questa specie di ottica, usando il termine “raziocinare” per questo modo di esaminare: volutamente più lento, più pacato, meno calcolante e più poetico, ma sempre capace di focalizzare l’attenzione sulle questioni problematiche e urgenti del tempo. Le cose hanno un volto diverso nel senso che qui sono appunto gli scrittori a porsi delle domande che nelle altre parti del mondo si pongono dei filosofi: sull’esistenza, sulla verità, sulla giustizia e sul potere. Gli echi dello stesso dibattito sorgono nei pensieri di Gesualdo Bufalino che si chiedeva se ciò che l’uomo sperimenta sia conclusivo o provvisorio, reale o illusorio? Nelle sue
13 Cfr. Sub specie typographica. Domande radicali negli scrittori siciliani del Novecento. A cura di M. Naro. Caltanissetta—Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2003, p. 6. 14 A. Di Grado: Finis Siciliae. Scrittura nell’isola tra resistenza e resa. Acireale— Roma, Bonanno, 2005. 15 Cfr. Literacki pejzaż Sycylii. Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno, Matteo Collura. Red. A. Tylusińska-Kowalska. Warszawa, Wydawnictwo DiG, 2011, p. 9.
opere l’isola diventa metafora della teatralizzazione della vita16. Vale ancora aggiungere che nella sua ricerca appare chiara la volontà di valutare questa “qualità interrogante” della letteratura siciliana. Questo capitolo, di carattere esclusivamente introduttivo, si limita a considerare alcuni nomi e testi esemplari di questa lunga e complessa storia letteraria. La problematicità della letteratura siciliana si comprende nell’antirazionalità della poesia di Bartolo Cattafi, nell’opposizione tra certezza e dubbio nei libri di Giuseppe Antonio Borgese, nella contrapposizione tra fede e follia nei testi di Lucio Piccolo e Carmelo Samonà nella rappresentazione della dignità umana nelle opere di Elio Vittorini, nella ricerca del senso della vita in Francesco Lanza o in Nino Savarese, nella felicità perduta in Ercole Patti, nel nichilismo esistenziale in Sebastiano Addamo, nel dramma dell’emigrazione nella poesia di Stefano Vilardo, nell’impegno intellettuale di Vincenzo Consolo, nella protesta contro le violenze quotidiane di Dacia Maraini, nell’angoscia esistenziale nella narrativa di Gianni Riotta, Giosuè Calaciura e Roberto Alajmo. Consolo si realizza nella sua coscienza dell’intellettuale, egli misura costantemente la propria sorte d’uomo di cultura. Allude in questo modo alla tradizione l’iniziatore della quale viene considerato Dante — il primo intellettuale in senso moderno. Il sapere ritrovato è tutto orientato in senso “morale” e la reintegrazione della cultura nel destino dell’uomo segno un punto fermo nella storia della civiltà letteraria17. La caratteristica che unisce ambedue i personaggi è la coscienza “militante”. Alla letteratura siciliana è stato quindi assegnato il privilegio di colmare un ritardo, a sua volta necessario per riflettere sul valore e sulla ragione dell’esistenza umana. Giulio Ferroni denuncia la tendenza ad apparizione degli scrittori impegnati su altri terreni. Lo scrittore si pone cioè di fronte a un mondo passato e la sua continuità nel mondo postmoderno con gli strumenti mentali e catalogatori con cui aveva sempre osservato la
16 Cfr. J. Ugniewska: O zaletach peryferyjności, czyli jak można być Sycylijczykiem. W: Literacki pejzaż Sycylii…, p. 37. 17 Cfr. S. Battaglia: Mitografia del personaggio. Milano, Rizzoli Editore, 1968, p. 516.
resistenza della Sicilia continuamente decrescente18. Di qui il richiamo ad un rapporto difficile ma molto efficace tra memoria storica e ricerca linguistica, alle quali Consolo riconosce di essere “a livello d’indagine”. Un “livello” situato evidentemente nell’aver stabilito un nuovo rapporto con la realtà in cui appaiono mutati i fattori stessi del passato. Alla narrativa ha assegnato il dovere di confrontare la violenza del passato e quella del presente e provare la presenza della stessa continuità di un modo di soffrire e di cercare la via di salvezza. L’interesse per questi scrittori, che, con precisa terminologia, sono stati definiti siciliani, non è un fatto recente, ma ancora in fase di sistemazione critica. Nell’ottica della ricezione che esprime l’orizzonte dell’opera letteraria, si scorge negli scrittori siciliani la coscienza di un dramma e di un dissidio psicologico e quindi la profonda serietà morale dell’ispirazione. L’indagine più recente, mentre respinge l’interpretazione che fa degli autori siciliani le figure periferiche, accetta alcune conclusioni critiche precedenti, ma le integra con una nuova serie di proposte e di riconoscimenti. Vincenzo Consolo vive nella tradizione segnata dagli studiosi quasi esclusivamente per il fatto che fu l’amico, l’ammiratore e l’ereditario letterario di Leonardo Sciascia. Ma accanto a questa immagine esiste un’altra figurazione civica di Consolo, quella del letterato enciclopedico, che fa sentire nelle sue opere, con l’ardore della scoperta e l’ansia di comunicarla, tutto l’amore della scienza, della storia e della cultura. E non è da dimenticare il contegno civile di Vincenzo Consolo. Anche se opera nell’ambiente milanese, in uno stadio di involuzione più profonda, non è lontano dall’atteggiamento di partecipazione. Anzi, risulta propenso a stabilire fra la letteratura e la vita quotidiana un legame, in cui si celebri la nuova teorizzata libertà e dignità del letterato. La letteratura che prende avvio dalla Sicilia è caratterizzata dalla straordinaria pluralità e varietà delle voci in cui si esprime 18 
Cfr. G. Ferroni, A. Cortellessa, I. Pantani, S. Tatti: Storia della letteratura italiana. La letteratura nell’epoca del postmoderno. Verso una civiltà planetaria 1968—2005. Vol. 17. Milano, Mondadori, 2005, p. 87.
31 il sentimento di una cultura letteraria assai più complessa e insieme obbediente a molte sollecitazioni. Una letteratura di transizione, segnata da parecchie fortissime personalità di orgogliosi cantori della propria terra e capostipiti della civiltà antica, e da una propensione ai tentativi e agli esperimenti, in cui si rispecchia la vita difficile, contradditoria, irta di delusioni e di utopie, di un mondo che si dibatte nella travagliosa ricerca di un nuovo ordine politico, morale ed intellettuale. Esperienza intima e reale è quella che Consolo invera nelle sue opere e che egli fa conoscere distinguendo, su un fondamento assiologico due cose: il valore metaforico di vicende individuali nelle quali ciascuno può ritrovare le proprie passioni e il valore universale dei fatti della storia siciliana con le loro proiezioni ed interpretazioni. Bisogna quindi accostarsi alle opere consoliane come a una cronaca, i cui personaggi rappresentano una specie di dramatis personae, capaci di facilitare il passaggio dalla confessione e dall’indagine psicologica e antropologica ai processi della conoscenza di una più profonda e più complessa realtà, quella che non vive costretta nei limiti di questo, cioè, isolano, spazio. Il significato che assumono gli eventi riportati da Consolo nelle narrazioni, per esempio la strage che conclude il suo ultimo romanzo, risulta assai vasto. Lo spasimo di Palermo sembra una sconfitta della ragione di fronte alla violenza, invece secondo il messaggio metaforico può assumere il valore della presa di coscienza della società civile rinata. Nei romanzi consoliani vi è presente un’immensa esperienza di vita, ed è presente come può esserla a chi non solo la contempla ma anche a chi si mescola fra la vita. I flashback che illuminano l’infanzia difficile dei protagonisti consoliani, la fuga dall’isola e il deludente soggiorno a Milano sono raccontati come il dramma umano che appartiene all’universale travaglio. Questa prosa ci offre, alle soglie della civiltà postmoderna, un’ampia documentazione di fatti e di figure, un quadro mobile e profondo delle società e delle storie diverse. Non sorprende affatto, quindi, che in polemica con l’esistenza e la funzione del confine gli scrittori siciliani non abbandonassero il carattere della loro terra, indicando come correlato della sua consi – 32 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine stenza non la limitatezza causata dal mare, ma la fermezza della vicinanza del continente. Nell’immaginario degli autori siciliani l’isola risulta dunque un paesaggio percepito prima staticamente (da lontano) e poi dinamicamente (dall’interno), in una dialettica giustapposta tra “dentro” e “fuori”, tra spazio guardato e spazio vissuto che corrisponde alla duplice essenza dell’isola stessa, che è per definizione un luogo d’accesso posto al confine con mare, uno spazio in cui si abita in uno spazio in cui si viaggia. Per i siciliani le relazioni di spostamento seguono questa fenomenologia lineare di inoltramento (varcare il confine, passare il mare), che si accorda a un’inclinazione all’esplorazione delle direzioni ben determinate come: l’America, l’Italia e l’Europa occidentale. Nell’intreccio di queste istanze antitetiche ancora più nitido sembra il capovolgimento della situazione siciliana, che affonda in complesse dinamiche sociali e antropologiche. La Sicilia, dall’essere terra di emigrazione, è diventata la terra di immigrazione. La sintesi più valida del ribaltamento avvenuto, la dobbiamo a Leonardo Sciascia che nel suo racconto intitolato Il lungo viaggio presenta la partenza dei clandestini da una spiaggia tra Gela e Licata in cui adesso approdano gli immigrati dal Nordafrica. Un’attenzione più dettagliata al rapporto fra la letteratura e la storia viene espressa molte volte nei libri degli scrittori siciliani contemporanei. All’efficacia della storia reinterpretata dalla scrittura non si può non accostare quella della produzione letteraria sempre più florida che spesso coincide con la prima. L’attenzione per la scrittura siciliana è un fenomeno rilevante e procede di pari passo con le vere esplorazioni delle presenze letterarie che si compiono sempre più sistematicamente. Accanto agli autori e ai temi di massima rappresentatività, vi si trovano quelli più recenti che completano l’artistico panorama siciliano. Tra gli argomenti narrati quelli più frequenti riguardano l’espatrio (in America, in Africa, in Germania) e l’attuale condizione della penisola siciliana. Non di rado gli scrittori siciliani tendono a rappresentarsi in questo luogo in cui si concretizza la loro invenzione. Del ritorno in Sicilia scrivono dunque: D’Arrigo, Brancati, Vittorini, Consolo. Secondo Ignazio Romeo: “Tornare significa infatti anche, metaforicamente, Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine 33 scavare in se stessi e nella propria storia, cercare l’estraneo in quello che si è familiare: guardare, insomma, in profondità e a distanza”19. Ma è vero anche che da questo spazio limitato fisicamente si aprono i grandi percorsi della cultura e della fantasia. Sono due elementi fondamentali che reggono l’asse assiologico della letteratura siciliana, il primo riguardante il dibattito relativo all’attuale e storica esistenza umana e il secondo relativo alla letteratura stessa e il suo ruolo nella nostra modernità. Non si tratta di due realtà distintive che finiscono con lo scontrarsi ma di due componenti che complementandosi occupano un posto considerevole nel panorama letterario non solo siciliano o italiano. La forza dell’autoriflessione letteraria degli scrittori siciliani finisce nella maggior parte dei casi come il metadiscorso. Le domande sul senso dell’arte, poste da Verga e Pirandello — i primi esploratori di tale problematica, hanno un carattere ben definito. Una specie di slittamento metonimico da una fase di lotta per la ricchezza ad uno stadio di lotta per la parola, il contrasto essere/apparire, la permanenza del binomio vita/teatro diventano motivi costanti di chi vuole autointerrogarsi. Non meraviglia dunque il fatto che tutto ciò che Pirandello nomina nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore ”il tumulto della civiltà” trae l’ispirazione dalla figura leopardiana del poeta “inattuale” che ha provocato la discussione sulla relazione tra la scrittura e la lettura, l’autore e il pubblico20. Si radica ai nostri occhi l’opinione che la Sicilia sia soltanto il simbolo, l’espediente che consente di stabilire un contatto tra l’uomo e la sua identità. Vincenzo Consolo si dedica alla stesura delle sue opere ricorrendo alla pluralità linguistica che caratterizza la sua espressione letteraria. Accanto all’uso del lessico dell’italiano comune, il prosatore si serve del dialetto siciliano con delle varietà di re19 I. Romeo: Passare il mare. Dall’emigrazione all’immigrazione: cento anni di memorie e racconti nelle pagine degli scrittori siciliani. Palermo, Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali ed ambientali e della pubblica istruzione, Dipartimento dei beni culturali, ambientali e dell’educazione permanente, 2007, p. 12. 20 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura alle domande sulla scrittura. La coscienza letteraria dei siciliani. Caltanissetta, Sciascia, 2003, p. 11. 34 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine gistri e di toni dal domestico familiare al lirico-volgare21. Giuseppe Bellia, analizzando il modo di scrivere consoliano, parla dell’autonomo sviluppo del filone gaddiano rafforzato dalla ricerca costante di linguaggi antichi, di tradizioni locali e di ritualità arcaiche. E nell’affermato gusto barocco dello scrittore riconosce il meccanismo di un reperimento o di un ritrovamento della parola e non della sua invenzione22. Rifiuta le parole e i pensieri comuni, cerca con accuratezza quelle che rinchiudono il più d’accessori, esimio soprattutto nella scelta degli epiteti e dei verbi. Mira ad esprimere molto in poco. Ha l’idolatria della parola, non solo come espressione dell’idea, ma staccata, presa in sé come suono, attento a separare le parole nobili dalle plebee, le poetiche dalle prosaiche, ed raccontare tutto con sincerità. Anche nell’uso delle parole poetiche Consolo segue l’ultimo Verga che invade lo strato sintattico introducendo le formule dubitative. Con questo procedimento lo scrittore ha dichiarato l’allontanamento dal centro ed ha espresso la mancanza di una univocità dei significati23. La prosa consoliana manifesta un’inquietudine uguale causata dall’assenza dell’interlocutore immediato inscrivendosi nell’attuale discorso sulla comunicazione letteraria. Lia Fava Guzzetta nomina Consolo “un intellettuale meridionale, consapevole di una ‘ferita’, di una esclusione e di uno sradicamento”24 che si applica allo studio profondo del passato troppo facilmente rifiutato dalla società odierna. La difficoltà sta nell’impossibilità dell’abbinare la parola di oggi alla rappresentazione della Sicilia di una volta. La narrazione che avviene per frammenti viene paragonata a volte alla dimensione del reportage giornalistico. Anche Giuseppe Traina nel suo saggio dedicato allo scrittore siciliano mette in rilievo l’importanza di questo genere destinato da Consolo alla testimonianza degli avvenimenti accaduti negli ultimi anni come, per esempio, i funerali dello studente Walter Rossi, militante della sinistra extraparlamentare ucciso
21 Cfr. G. Passarello: Un’isola non abbastanza isola. Palermo, Palumbo, 2007, p. 136. 22 Cfr. G. Bellia: L’obliquo percorso della memoria. La scrittura di Vincenzo Consolo tra storia, ritualità e sdegno. In: Sub specie typographica…
23 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura…, p. 15. 24 Ibidem, p. 19.

35 dai neofascisti25. Perciὸ, per evitare l’ambiguità del discorso, Consolo ricorre più volte ad un referente diverso dalla scrittura, appartenente invece al campo delle arti figurative, come i quadri di Antonello, di Caravaggio e di Raffaello, i dipinti di Clerici. Il romanzo Lo spasimo di Palermo vuole essere infatti la manifestazione della forza stilistica orientata verso la ricreazione di una speranza di giustizia e di razionalità nel modo in cui dominano oppressione e terrore anche se la sospensione della comunicazione tra un padre e un figlio espressa tramite il motivo di una lettera rimane una tra le scene più suggestive di questo romanzo che tratta dell’impossibilità della continuazione di scrivere. Consolo è cosciente delle conseguenze della postmodernità così come lo era George Steiner che nel Linguaggio e silenzio parla dell’esaurimento dell’era verbale e del dominio delle forme “postlinguistiche” e addirittura del silenzio parziale26.
25 Cfr. G. Traina: Vincenzo Consolo. Fiesole, Cadmo, 2001, p. 21. 26 Cfr. G. Steiner: Linguaggio e silenzio. Milano, Garzanti, 2001, p. 56.


Aneta ChmielRompere il silenzio I romanzi di Vincenzo Consolo

La luna e il faro, il Meridiano su Vincenzo Consolo

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di Giuseppe Schillaci 

É saturnina la Luna, atra, melanconica, sospesa nell’attesa infinita della fine che non arriva mai.

Ma se malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine, panico, terrore.

Lei, la Luna, ci salvò e ci diede la parola. 

Lei schiarì la notte primordiale, fugò la dura tenebra finale.

(Lunaria, Mondadori, 1985) 

Il 21 gennaio 2012 è scomparso Vincenzo Consolo, uno dei più raffinati scrittori italiani, tra gli ultimi intellettuali europei della sua generazione, classe 1933, ad aver vissuto le luci e le ombre del Novecento. A tre anni dalla morte, Mondadori pubblica finalmente il Meridiano “L’opera completa” di Vincenzo Consolo, con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre. Il volume raccoglie i romanzi e i racconti, le scritture liriche e quelle d’intervento sociale, restituendo così l’immagine poliedrica di uno dei più grandi cesellatori della lingua italiana, le cui opere sono state tradotte in diversi Paesi e studiate nelle università di tutto il mondo.

Dello scrittore Vincenzo Consolo, collaboratore dell’Einaudi di Calvino e Ginzburg, m’impressionò, già da adolescente, l’originalità della voce: una lingua barocca ma schietta, appassionata, sempre in bilico tra contemplazione e denuncia, una scrittura legata profondamente alla sua terra. Consolo era ossessionato dalla Sicilia, così come tutti i grandi scrittori sono ossessionati dalla propria identità, dalla verità e dal divenire: la sua opera racconta un’isola visionaria e tragicamente reale, tra mito e storia, poesia e narrazione, alta letteratura e cultura popolare. A rileggere i suoi testi, oggi, si notano alcune figure che ritornano, ossessive, per tessere un mondo fragile e sublime, inquieto, in dissoluzione. Una di queste figure è il faro, presente anche nel titolo della raccolta di saggi Di qua dal faro (Mondadori, 1999): il faro per Consolo è un baluardo, la luce della ragione contro l’oscurantismo, una barriera contro il caos della notte.

La contrapposizione tra luce e oscurità si rivela poi, in tutta la sua potenza, nel romanzo di Consolo che più ho amato: Nottetempo, casa per casa, premio Strega nel 1992. Si tratta di una storia ambientata a Cefalù, in provincia di Palermo, ai tempi della nascita del Fascismo. Per Consolo, l’adozione del romanzo storico è sempre da intendersi in chiave metaforica rispetto al presente: gli anni Venti sono così un’epoca d’oscurantismo simile a quella che l’autore presagiva agli inizi degli Anni Novanta, all’alba del “nuovo ventennio”. La metafora storica era già presente nel romanzo sul Risorgimento tradito, Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato in pieni anni Settanta e etichettato come l’ « anti-Gattopardo », in cui Consolo racconta di un nobile siciliano illuminato che tenta di resistere al potere reazionario della nuova Italia, per parlare in realtà dell’Italia post-sessantottina, ipocrita e refrattaria a un reale cambiamento. Ma torniamo a Nottetempo, casa per casa. Qui, alla violenza fascista e alla perversione del potere fa eco un altro oscuramento della ragione, questa volta misterico, soprannaturale. Proprio nei primi anni Venti, infatti, si trasferiva a Cefalù Aleister Crowley, il mistico artista inglese che inneggiava alla libertà dei sensi e a un mondo esoterico che rasentava il delirio visionario. Alla ragione del faro si riflette e s’oppone così la poesia della luna, che è anche, irrimediabilmente, segno di follia e di dolore, come per il padre del protagonista Petro Marano, che corre rabbioso nelle notti di luna piena per quietare il suo male catubbo (la licantropia).

Ecco delinearsi il paradosso dello scrittore, la tensione irrisolvibile tra prosa e poesia, tra la storia oggettiva del faro, da un lato, e i mondi immaginari della luna, dall’altro. In questo orizzonte si muove la lingua musicale di Vincenzo Consolo, trovando nelle parole la propria salvezza. La vera sconfitta è l’afasia, l’impossibilità del racconto, il silenzio della morte. Così Consolo, come Petro Marano, cerca redenzione nel racconto, che sembra nascere da una nostalgia per l’unità perduta, da un’aderenza naturale tra le parole e le cose. Questa sorta di autenticità perduta, di bellezza primordiale, Consolo la insegue, ostinato, in tutta la sua opera, inventandosi una lingua che resuscita le voci greche, arabe, spagnolesche e francesi che hanno abitato, secoli fa, la Sicilia.

Vincenzo Consolo adorava la sua terra, e non solo perché rappresentava il teatro della sua infanzia, ma anche perché lo scrittore guardava alla Sicilia come centro del Mediterraneo, ricettacolo di culture d’oriente e d’occidente, porta d’Africa, culla della letteratura italiana e della civiltà europea. Ecco perché, negli ultimi anni della sua vita, intervenne spesso nel dibattito pubblico sull’emigrazione, allorché la Sicilia veniva considerata non più come porta, ma come muro d’Europa. Ma la Sicilia di Consolo è anche una terra del Sud, di un Sud d’Italia che è simile a tutti i Sud del mondo, e che è dunque terra tradita, ferita dalle storture del potere, schiacciata dalle meschinità umane, dalle mafie, dall’avidità, dall’ignoranza. Da emigrato al Nord Italia, a Milano, dove s’era trasferito già negli anni Sessanta, Consolo scrive di sradicamenti, di fughe, di un’Itaca a cui è impossibile ritornare.

Ho avuto l’onore di incontrare Vincenzo Consolo e il piacere di frequentarlo negli ultimi anni della sua vita, insieme alla compagna Caterina Pilenga, suo riferimento prezioso e costante. Durante quelle cene nelle osterie di provincia, restavo affascinato dai racconti d’un mondo quasi picaresco, che non esisteva più, e dai suoi aneddoti sui maestri della letteratura mondiale o sui personaggi leggendari del popolo siciliano, sempre dipinti con sagacia e profonda umanità; dagli occhi di quest’uomo minuto e fiero trasparivano le immagini delle sue opere, la loro complessa semplicità, l’ironia, la discrezione, la rivolta.

Vincenzo Consolo ci lascia un’opera densa, in cui ogni parola ha un peso e marca la propria estraneità al cicalio dei best-sellers contemporanei e dell’editoria mercenaria. La sua scrittura ci ricorda che la letteratura è una cosa seria, un tempio in cui entrare con rispetto, senza rinunciare però al contraddittorio e allo sberleffo, alla commedia dentro la tragedia, alla trivialità e al sorriso, alla speranza in un mondo diverso, nonostante la catastrofe. Consolo ha creduto sempre, caparbiamente, alla potenza della lingua e alla necessità della luce, forse proprio perché temeva con profonda angoscia il silenzio e le tenebre. La sua maestria letteraria abbracciava dunque ora la luna, ora il faro, e cercava di far proprie, allo stesso tempo, paradossalmente, la visionarietà del poeta Lucio Piccolo (la luna) e la tensione sociale di Leonardo Sciascia (il faro). Questo movimento torna sempre alla sua Sicilia, che è anche metafora dell’Italia, in una lotta appassionata, irrisolvibile e mai elusa, contro l’oscurantismo.

Da Milano, Consolo « scendeva » spesso in Sicilia, nella sua Sant’Agata di Militello, e lo faceva quasi fosse un dovere, una questione di principio. Proprio a Sant’Agata di Militello si tennero i suoi funerali, tre anni fa: una lunga processione silenziosa e commossa, lontano dai clamori dell’Italietta del 2012, agli antipodi d’un mondo che non lo capiva più, e da cui Consolo si teneva lontano. Lui, il razionale lunatico Vincenzo Consolo, si nutriva di disillusioni e continuava a scrivere, finché ne ebbe le forze. Quando lo interrogavano sul tempo presente o sull’avvenire di quest’Italia matrigna, Consolo amava citare un verso di un poeta spagnolo a cui era particolarmente affezionato, Antonio Machado; un verso semplice, tre parole: « desperados esperamos todavia ».

Vincenzo Consolo. Modernismo e meridionalismo

da Mario De Laurentiis 

Le strategie linguistiche e strutturali mediante le quali Consolo costruisce la densità della propria parola letteraria, torcendola e caricandola nella sfida impossibile alla consistenza della realtà, e la stessa idea consoliana della parola, mettono capo a tensioni e aspirazioni solitamente rubricate sotto il segno della «poesia», nella costellazione, per intenderci, che si muove tra simbolismo e modernismo. La stessa ricorrente tentazione dell’afasia come esito della volontà di troppo dire è del resto segnale non dubbio di queste ascendenze. Non a caso già dal romanzo d’esordio, e fino alle ultime prove, T.S. Eliot è uno dei numi tutelari di Consolo. Allo stesso modo, per tutta la vita Consolo non ha smesso di sottolineare il proprio rifiuto radicale di appartenere alla tradizione propriamente romanzesca, sospetta perché troppo incline a cedere alle lusinghe di una facile leggibilità, ad usum commercii. Prove narrative le sue, quindi, ma protese verso la poesia. D’altro canto, non ci sono dubbi sulla necessità di accostare il suo progetto, letterario ma anche politico-culturale, alla tradizione meridionalistica, nel cui solco si forma, e che non ha mai smesso di operare, anche quando Consolo è andato prendendo strade assai diverse: come già negli anni Ottanta, con libri decisamente atipici come Lunaria e lo stesso Retablo, e sempre più negli anni Novanta. Stiamo così toccando l’altra questione di fondo: quella dell’ossessione della Sicilia. «Scrivo sempre di Sicilia perché non ci si può allontanare dagli anni della propria memoria» ha dichiarato lo scrittore: il che vuol dire, ed è un altro punto decisivo, che l’invenzione letteraria deve nascere dall’esperienza, con la quale entrerà in tensione, sforzandosi di esorcizzare i propri fatali limiti con l’accumulo e la pluralizzazione della forma.

Certo, Consolo parla di tutto sub specie Siciliae, tenendo insieme, in modo decisamente peculiare, la proiezione verso una dimensione di esemplarità e la messa a fuoco dettagliata di tratti storicamente identificati, ricostruiti con precisione maniacale. La sua sicilianità concede in questo senso abbastanza poco alla fuga per la tangente di una a-storica condizione universale, così caratteristica invece di altri autori siciliani, da Pirandello a Vittorini. In innumerevoli occasioni Consolo ha ricordato la sua ferma volontà di approdare alla metafora per via di storia, secondo il sempre attuale, magistrale modello manzoniano: «La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile». L’esemplarità della Sicilia fa tutt’uno in Consolo con la sua peculiarità: che ci fa capire com’è l’Italia proprio perché è un caso estremo. Si potrebbe persino ipotizzare che, mutatis mutandis, a quello che egli scrive della Sicilia possa accadere in futuro qualcosa di simile a quanto già accaduto con la Lucania di Carlo Levi: ridiventata fruibile e attuale perché ricontestualizzata in «un quadro afroasiatico e latinoamericano». La Sicilia di Consolo vale come un’Italia estrema, e però anche come campione fin troppo vero di innumerevoli Sud del mondo. Per altri versi, la Sicilia di Consolo esibisce un cortocircuito di opposti, oscillando fra il vagheggiamento memoriale di un luogo che avrebbe potuto conciliare bellezza storica e naturale, vitalità e cultura, desiderio e conoscenza, e la constatazione, sempre più addolorata e indignata, dell’orrore reale, dell’ingiustizia perpetuata, della collusione eterna fra violenza criminale e violenza istituzionale. La Sicilia è un inferno, insomma, tanto quanto avrebbe potuto essere un paradiso. E la Sicilia è sempre solo la Sicilia: anzi no, è dappertutto.

Il progetto, ma forse dovremmo parlare piuttosto di dovere e di esigenza insopprimibile, di scrivere sempre di Sicilia coincide con la ferma convinzione che l’impresa della scrittura letteraria debba farsi portatrice di uno sguardo critico nei confronti della realtà, e implichi una dimensione etica, implicitamente o esplicitamente politica. Consolo ha infatti svolto per quasi cinquant’anni anche un’intensa attività giornalistica, della quale una larga percentuale è espressione di una diretta militanza civile. Restando però nell’ambito della scrittura letteraria, egli ha delineato, con un’originalità e un rigore teorico che hanno pochi termini di paragone in Italia, una possibile coincidenza fra espressività ed eticità, dove il permanente impegno civile deve identificarsi con la specificità della scrittura, cioè con l’impegno formale. Chiusa la stagione dell’engagement, per Consolo lo scrittore deve fare il proprio mestiere, fino in fondo, senza compromessi: solo così la scrittura può guadagnare lo spessore etico adeguato alle proprie aspirazioni, conoscitive non meno che estetiche. D’altro canto, chi scrive scrive, e dunque non può ignorare che scrivendo rinuncia al diretto impegno politico. Di conseguenza, i paradossi della parola letteraria, della sua pochezza e della sua titanica presunzione si rifrangono e ripetono nella compresenza costante di aperta politicità e senso di colpa dell’intellettuale, sempre abitato dalla sofferta consapevolezza della propria distanza dall’azione reale. Da questo punto di vista, Consolo ha molte cose in comune con Vittorio Sereni, e con lo stesso Franco Fortini, che del resto frequentava.
L’orgoglioso dovere della scrittura comporta così un permanente rimorso, che confina col senso d’inferiorità. Persino la dimensione utopica, pure evocata con tanta forza da Il sorriso dell’ignoto marinaio, non smette in realtà di mescolarsi con la cattiva coscienza, con un irriducibile senso di colpa. Ecco l’utopia del barone Mandralisca:

E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose. (SIM, qui alle pp. 216-7)

Questo sogno di un linguaggio che abolisca il divario fra le parole e le cose assomiglia molto alla permanente tensione di Consolo verso una parola portatrice di una densità tanto speciale da farla assomigliare a una cosa vera. Ma persino qui, dove tanto più la voce del personaggio pare confondersi con quella dell’autore, siamo obbligati a diffidare, e a prendere atto della permanente polifonia della scrittura consoliana; quel sogno infatti deve essere percepito come nobile, sì, ma impossibile, e persino mistificatore: «Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni “possano scrivere da sé la storia”. Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica».

Retablo, Consolo

 

Consolo, Retablo

Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha roso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, balico e viola…Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.

“Retablo” è un termine spagnolo che serve a designare una grande pala d’altare che può essere un dittico o un trittico e che è caratterizzato da una grande complessità di materiali e stili figurativi. Nessuna definizione migliore per questo romanzo, che è un piccolo gioiello per stile, temi e suggestioni sapientemente organizzati su un intreccio di diversi piani narrativi. Due (meglio sarebbe dire tre, forse) i protagonisti. Ambientato nel Settecento, è la storia dell’aristocratico pittore Fabrizio Clerici, che fugge da Milano e dall’amata donna Teresa per perdersi in un fantasmagorico viaggio in Sicilia, e del suo casuale compagno di viaggio, il frate siciliano Isidoro, che ha perso tutto a causa della travolgente passione per la popolana Rosalia. E proprio Rosalia, uno degli oggetti del romanzo, sarà colei che, a sorpresa, darà la chiave per comprendere (avere la visione d’insieme di) questo Retablo, questa composizione.

Grande parte del romanzo è occupata dal diario del Clerici, che annota le caratteristiche delle bellezze della Sicilia, meravigliato dall’inestimabile valore delle opere dell’antichità classica che ovunque si impongono allo sguardo ed ai sensi. Ma questo diario non è solo una collezione di appunti, ma anche, e soprattutto, una lunga e pacata dichiarazione d’amore (deluso) per donna Teresa, e poi un’occasione per riflettere sui rapporti fra arte e vita, fra verità e menzogna, fra l’aspirazione ad una pace superiore e l’incredibile tragicità dell’esistenza, fra l’aspirazione alla serenità e l’attrazione che esercitano il mondo ed i sensi. E così si assiste, da un lato, all’aspirazione del Clerici che insegue l’arte, la pittura e la scultura come mezzi per abbandonare questo mondo, l’eterno divenire e l’insopportabile caoticità che lo contraddistinguono e così accedere ad una condizione “metafisica” che gli possa finalmente permettere di affrancarsi dal tempo, dallo spazio e dalle passioni; mentre, dall’altro, si è messi di fronte ad Isidoro che, al contrario, viene strappato alla stasi ed alla pace della fede e della vita monastica per cadere (o salire?) nel vortice di passioni brucianti che infiammano il corpo e la ragione stessa fino a condurre ad una diversa estasi, lì dove il confine stesso fra passione e follia perde consistenza.

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Ma è davvero possibile accedere ad un grado di realtà superiore, fatto di algida bellezza senza contaminazioni, turbamento? Ed è davvero possibile pensare che qui ed ora si sia calati in un mondo che è solo folle divenire e bruttura e dolore, un mondo vuoto di bellezza, tanto che non vi si possa rinvenire nulla (che non sia opera d’arte) di splendente? La ricerca e il fine del Clerici si scontrano con l’impossibilità di tracciare una linea netta fra due realtà del tutto opposte, di diverso grado ed ordine. Qualcosa di diverso e nuovo appare. È nel mondo la linfa vitale che porta all’arte e la rende possibile, è nel suo caotico divenire, nel magma delle passioni, nell’irrazionalità dell’uomo, nella ferocia delle relazioni umane, nell’ingiustizia sociale la molla e la condizione di possibilità della bellezza, così come della verità e della (momentanea) quiete.

O mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mia Persefone, mio sogno e mio pensiero, cos’è mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo sempre ha declinato in mito, in racconto favoloso, leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora? E qui tremo, pavento, poiché mi pare di toccare il cuore della metafora, e qui come mai mi pare di veder la vita, di capirla e amarla, di amare questa terra come fosse mia, la terra mia, la terra d’ogni uomo, d’amare voi, e disperatamente…

O ancora di più: l’arte stessa non vale più della vita, dato che è la vita stessa il materiale senza cui l’arte sarebbe impossibile. Questa l’estrema riflessione del Clerici quando, per di non far affondare la barca su cui stanno viaggiando, è costretto a gettare in mare una statua antica e d’inestimabile valore.

Ma tu, squisita fattura d’uomo, fiore d’estrema civiltà, estrema arte, tu, com’ogni arte, non vali la vita, un fiato del più volgare o incolto, più debole o sgraziato uomo.

L’arte, infine, sarebbe il prodotto della sofferenza dell’uomo che, attraverso questo suo stesso prodotto, potrà infine comprendere qualcosa del suo dolore, così come della sua condizione. L’opera d’arte, dunque, come immagine riflessa, come doppio identico ed estraneo che mostra all’uomo quel che è. La vita genera l’arte, così come l’arte permette di comprendere (di ritornare con nuovi occhi) quella vita che l’ha generata.

Il viaggio, l’amore, la morte, il volto ambiguo della natura…questi e molti altri temi si intrecciano in questo magnifico lavoro che è destinatario, forse, dell’augurio che il Clerici indirizza al proprio diario, nel momento in cui lo dedica all’amata donna Teresa: “acciocché resti un dono singolare e ancora che non venga sopraffatto nella valanga di libri e di libresse privi d’anima…”. Ecco, tale augurio pare al tempo stesso esaudito e tradito. Esaudito perché Retablo è (così come altri scritti di Consolo) un libro che per stile ed equilibrio ha del miracoloso e che per questo non può di certo esser confuso con altri, privi d’anima. Tradito, perché sopraffatto dalla valanga di romanzi che l’hanno relegato a piacere per (troppi) pochi lettori; tradito perché travolto dalla valanga di libri ben inferiori, scritti che (in generale) non sono grande letteratura e che (in particolare) poco o nulla colgono ed hanno da dire della Sicilia e delle sue abissali profondità. In questo senso, non si può che lasciare la parola ad un grande scrittore siciliano. Leonardo Sciascia.

“Per quel che si svolge e per come è scritto, questo racconto è come un miracolo: il che, per altro esattamente si conviene alla parola “Retablo”, di solito I “retablos” in pittura rappresentano sequenze di fatti miracolosi”

Tommaso Aramaico
17 gennaio 2015 blog tommasoaramaico

I contadini di Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

Il prossimo 20 aprile ricorre il 67° anniversario della vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali siciliane del 20 aprile 1947, quando comunisti e socialisti, assieme ad altre forze laiche e cattoliche raggiunsero la maggioranza relativa nelle prime elezioni regionali svoltesi in Sicilia. Fu la prima e l’unica volta che la sinistra nel suo insieme si candidò a dirigere la politica regionale, ottenendo il successo desiderato. Ma allora il pane si chiamava pane e le parole non avevano perduto il loro significato. I fatti sono ormai noti. La strage di Portella della Ginestra e quelle che seguirono ci hanno consegnato un’Italia che è sotto gli occhi di tutti. Ci piace ricordare con Vincenzo Consolo una delle pagine più gloriose di quell’epoca: quella dell’occupazione delle terre.

Nuvole nere vagavano nel cielo, dense come sbuffi di comignolo, da levante correvano a ponente, e nel loro squarciarsi e dilatarsi, rivelavano occhi azzurri e cristallini, lunghi raggi del sole che sorgeva, stecche incandescenti d’un ventaglio, giù dal fondo del Corso, dal quartiere Màzzaro, dal Borgo, d’in sul triangolo del timpano della chièsa gialla di Santa Lucia.
Il largo del mercato era affollato, d’asini muli giumente leardi, luccicanti di specchietti, sgargianti di fettucce nappe piume, scroscianti di campanelle e di cianciane. E cristiani erano a cavallo, a terra, aste di bandiere nelle mani, trùsce e colini pieni di mangiare, ridenti nelle facce azzurre rasate quel mattino. Aspettavano, gli occhi puntati sulla porta della Casa, l’uscita dei capi dirigenti.
Dai balconi dei palazzi prospicienti lo spiazzo, detto in altro modo l’Arenazzo (luogo di sosta de’ carrettieri venuti da Butèra, Riesi o Terranova, sfregatoio di bestie a zampe in aria, riposo dentro il fondaco, tanfo di corno arso per la ferratura nella forgia, cardi bolliti e bicchier dì vino dentro la potìa), dai balconi del palazzo Àccardi e del palazzo Alberti, dalla farmacia Colajanni, financo dalla canonica di San Rocco, guardavano a questo assembramento di villani, a questo cominciamento di processione, a questa festa nuova, fuori d’ogni usanza e d’ogni calendario.
E nel vocìo sommésso, nel mormorio di saluti e di discorsi, nello stridere del ferro di zoccoli e di chiodi, nel tintinnìo di campanelle, nel fumo di trinciati e toscanelli, trillarono i banjo, i mandolini infiocchettati de’ barbieri che, lustri più di tutti nelle facce, nelle lune e nei capelli, con le loro dita magre dall’unghie coltivate attaccarono a suonare l’Internazionale. E subito Bandiera rossa, l’Inno di Garibaldi e di Mameli. Staccarono dalle corde le stecche a cuore di celluloide quando s’aprì la porta della Casa del Popolo uscirono La Marca, Cardamòne, Siciliano, Pirrone e altri ancora, che traversarono tutto lo spiazzo, si portarono in testa, verso l’imbocco della via Bivona, e salirono in groppa alle bestie. Guardinghi, ché non tutti avevan confidenza con gli animali, questi giovani mazzarinesi usciti dalla guerra, ch’avevan studiato, ma studiato, contro i libri di carta e di parole della scuola, sopr’altri libri, e di più con passione sopra il libro del paese, in cui avevan letto chiaramente la lunga offesa, la storica angheria, la prepotenza dei baroni. Eredi ma diversi d’altri precedenti. Come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco Colajanni, il farmacista, ateo inveterato, che sul letto di morte, la figlia terziària e le monache assistenti esulcerate, volle da leggere il suo Decamerone. O come il medico Giunta, ché andando sul Corso per le visite, alzando gli occhi ai balconi dei palazzi, sputava e imprecava; «Ah porci, ah baroni!».
Questi giovani ch’avevan determinato il successo del Blocco del Popolo alle elezioni, e che ostentatamente, dopo la vittoria, uno accanto all’altro, ostruendo la strada, andavano avanti e indietro lungo il Corso per dispetto agli avversari. «Una sventagliata di mitra, ecco quel che ci vorrebbe! Guardateli!… Proprio ora che sono a tiro tutti quanti… Ta-ta-tatà e, in un attimo, ci si potrebbe liberare di questi scalzacani» vociava don Turiddu Bàrtoli da sopra il suo balcone coi campieri schierati alle sue spalle. In testa, angelo custode, mignatta e protettore, don Peppino, Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione, compare dello Scebba, altro capo di Butèra.
Quando tutti furono assettati sopra le cavalcature, il trombettiere della cooperativa “L’Agricoltore” suonò il motivo della sveglia, come da soldato. Il La Marca, da sopra il suo cavallo, si girò verso la folla, alzò il braccio e urlò:
“Avanti!”

(brano del racconto Ratumemi, in Le pietre di Pantalica)

Vincenzo Consolo

L’ Introduzione di Cesare Segre al Meridiano di Vincenzo Consolo.

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Voglio subito enunciare un giudizio complessivo: Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione. La sua scomparsa, due anni fa esatti, ha turbato tutto il quadro della narrativa nel nostro paese, rimasto senza un punto di riferimento alto e, per me, indubitabile. Il romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, ma scritto intorno al 1969) fu una rivelazione. L’ignoto di una splendida tavoletta di Antonello da Messina nel museo Mandralisca di Cefalù divenne, con il suo sorriso, una specie di doppio di Vincenzo Consolo. Ma accanto alla vera immagine di Consolo sono spesso apparse altre due immagini: quella di Leonardo Sciascia e quella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il primo, pur diversissimo nello stile, fu il maestro di Consolo per l’atteggiamento di fronte ai problemi e alle contraddizioni sempre più laceranti della Sicilia. Il secondo ne fu l’antitesi: tanto è lontano il suo Gattopardo dal Sorriso dell’ignoto marinaio, anche se entrambi hanno come oggetto lo stesso momento storico della Sicilia, percorsa da moti risorgimentali, liberata (o occupata) dai Mille a nome dell’Italia da unire, bersaglio infine di jacqueries contadine confuse, dai contemporanei, con scoppi di banditismo. È comunque da questo confronto – si disse che Il sorriso era l’anti-Gattopardo – che si può partire per qualunque discorso su Consolo.

Ma sarà intanto utile esporre lo schema del romanzo, e di quelli che seguirono. I primi due capitoli del Sorriso ci portano in mezzo agli aristocratici e ai borghesi illuminati, fra i quali si stanno diffondendo le idee liberali e mazziniane. Essi odiano i monarchi borbonici e sono pronti ad affrontare, se occorre, l’esilio e la morte, come accadrà dopo la fallita rivolta di Cefalù del 1857. Gli altri capitoli, dal III al IX, sono ambientati pochi anni dopo, quando la Sicilia si prepara a passare sotto il governo dei piemontesi. Questi capitoli sono tutti dedicati ai prodromi, agli sviluppi e alla tragica conclusione della rivolta popolare di Alcàra Li Fusi, scoppiata alla vigilia dello sbarco di Garibaldi. Dietro Alcàra sta forse, per Consolo, il ricordo di Bronte e della spietata repressione di Nino Bixio, descritta da Verga nel racconto Libertà. Il barone Mandralisca, possessore del ritratto di Antonello, segue la rivolta con istintiva comprensione, ma quando essa degenera, la vede con crescente orrore, e confessa la sua incapacità di comprendere e di giudicare. La narrazione d’autore si alterna a documenti ufficiali, brani di storici locali (come Francesco Guardione) o nazionali (come la Noterelle di uno dei Mille di Giulio Cesare Abba), che separano tra loro le varie parti d’invenzione.

Consolo aveva già pubblicato un romanzo, La ferita dell’aprile (1963), che al momento sfuggì all’attenzione dei critici e dei lettori. Si tratta di un Bildungsroman autobiografico, un unicum nella carriera dello scrittore (che, per parte sua, lo definiva un “poemetto narrativo”). Il romanzo narra la vita nella Sicilia del dopoguerra, fino all’occupazione dei latifondi e alla repressione ad opera dei governi democristiani.

Provando a completare il quadro dei romanzi di Consolo, siamo ben consapevoli di metterci in una posizione contraddittoria, dato che Consolo stesso ha più volte dichiarato che nel romanzo storico non credeva. Diciamo allora che, bypassando il problema, prendiamo in esame i suoi libri che esibiscono dei personaggi e una narrazione continuata.

Venne dunque Retablo (1987), con immagini di Fabrizio Clerici; il grande pittore, trasformato in personaggio settecentesco, appare nella seconda parte del romanzo, da milanese appassionato di antichità siciliane. È lui, che pure arde di un amore infelice per Teresa Blasco, la futura nonna siciliana di Manzoni, a tentar di risolvere i problemi del fraticello innamorato della prima parte della narrazione; ma intanto Consolo rende omaggio al mitico illuminismo milanese, visto dal traguardo della contemporaneità: per esempio, dalla rivolta, che divenne poco dopo anche giudiziaria, contro il mostro della corruzione.

Si avvicina certo a un vero romanzo Nottetempo, casa per casa (1992). Il tema centrale potrebbe essere sintetizzato come “l’irrazionale e la storia”, e fornirebbe argomenti alla negazione di principio del romanzo che Consolo ha fatto propria. Qui abbiamo, in singoli flash a luce radente, la ricostruzione dell’affermarsi del fascismo, negli anni Venti del secolo scorso, tra Cefalù e Palermo. Invece di raccontare questa vicenda, col rischio di ricadere nelle fauci dell’aborrito romanzo storico, Consolo evoca l’irruzione nell’isola di forme più o meno deliranti dell’irrazionale, dalla licantropia del padre di Petro, il protagonista, alle psicosi della sorella, alle esibizioni di un personaggio storico come l’inglese Aleister Crowley, inventore e officiante di riti satanici in cui alla promiscuità sessuale e alla droga si mescolano tutte le invenzioni più stravaganti di religioni e leggende esoteriche. Nel suo ricetto di satiri e donne assatanate avviene il congiungimento con un’altra irrazionalità, più titolata, quella dei dannunziani, numerosi nella Sicilia di allora. Sullo sfondo, le vecchie, indolenti abitudini insulari, le nuove mode francesi e inglesi, le corse automobilistiche. Componenti materiche di una storia negata alla Storia.

La contrapposizione, intellettuale quando non metafisica, luce-tenebre diventa anche definitoria per la stessa Sicilia, la cui bellezza luminosa, potenziata nei mosaici medievali, si contrappone a un’oscurità che prorompe da fonti quasi insondabili. Si noti che Petro è anche lui affetto da una forma di follia: divoratore di libri, parla con i personaggi della finzione nel silenzio delle sue letture. E, in una splendida sequenza di adynata, dirà di aver intinto la penna “nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana” sino a che non si sentirà capace di raccontare la Sicilia come la sta vedendo. L’impossibilità di fare storia è accompagnata, per il Petro di Nottetempo, da un più fiducioso sforzo di raccontare. È allora che l’oscurità dominatrice lo costringe a fuggire dalla Sicilia: per finire, comunque, in un più forte disincanto.

Ma è più tardi Gioacchino Martinez, il protagonista de Lo spasimo di Palermo (1998) abbozzato in modo da risultare molto simile a Consolo stesso, a farci quasi toccare con mano, una ad una, tutte le disillusioni di un siciliano che, fuggito disdegnoso dalla sua isola, trova in Lombardia situazioni che generano in lui analoghi sentimenti di rifiuto e di condanna. Nemmeno al figlio Martinez ha saputo dare gl’insegnamenti giusti: il giovane si è affiliato al terrorismo, vive esule a Parigi e gli nega persino il nome di padre. Non c’è dunque per Gioacchino, come per suo figlio, un avvenire cui guardare con fiducia, e a lui, come alla moglie tanto cara, non rimane che la tragedia. La tragedia, del resto, s’ingrossa nelle ultime pagine: la mafia spadroneggia, uccide, fa terribili attentati. Il protagonista guarda con ammirazione ai magistrati antimafia, di cui però, al momento, può solo registrare la sanguinosa sconfitta. E sogna, fantasticando di un vendicatore che, alla maniera di Judex, l’eroe cinematografico della sua infanzia, riuscirà a portare la giustizia nell’isola martoriata.

Tutti i romanzi appena ricordati, se ordinati in base alla cronologia dei fatti descritti o allusi, compongono, per momenti decisivi, una storia della Sicilia degli ultimi duecentocinquant’anni. Ma da questa mia grossolana rassegna tassonomico-cronologica resta fuori uno dei lavori più mirabili di Consolo, Lunaria (1985). In esso c’è un abbandono pieno all’invenzione. Invenzione tematica e invenzione formale. Il libro non è certo un romanzo, ma appartiene piuttosto a un “genere che non esiste”, a un conato di teatralità divertita fra entremés alla spagnola e teatrino delle marionette. Si sa che molta dell’elaborazione di Consolo è “letteratura sulla letteratura”. Ebbene, in Lunaria la falsariga è costituita da un racconto di Lucio Piccolo, L’esequie della luna (1967), con cui Consolo si pone felicemente in gara, non dimenticando naturalmente Leopardi. Voglio evocare un aneddoto sintomatico. Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.

Il mio percorso sembrerebbe aver trascurato i moltissimi scritti di Consolo di carattere saggistico o polemico. Ma in fondo no, se pensiamo che molti o moltissimi dei suoi saggi (raccolti in volumi come L’olivo e l’olivastro, del 1994, Le pietre di Pantalica, del 1988, Di qua dal faro, del 1999) possono essere visti, per tornare a un’etichetta un tempo di gran moda, come i correlativi oggettivi dei suoi romanzi. Perché al centro dei saggi c’è sempre la Sicilia, le sue contraddizioni e i suoi mali visti con disperata frustrante insistenza, con passione e con sarcasmo da un siciliano che fugge e ritorna incessantemente: solo che qui lo stile, non gravato dalla necessità di reggere qualche complesso intreccio fizionale, può piegarsi a un’evocazione quasi impassibile delle bellezze naturali e delle ricchezze archeologiche e artistiche dell’isola, devastate forse irrimediabilmente.

 

A questo punto possiamo tornare utilmente all’iniziale confronto con il Gattopardo. Anzitutto, il libro di Tomasi di Lampedusa è un romanzo portato avanti da un narratore onnisciente, come nella grande tradizione del genere. Il libro di Consolo, per contro, è consapevole delle tesi sulla morte del romanzo, cui sarebbe possibile soltanto sostituire un antiromanzo o un romanzo-saggio. Il pensiero di Consolo, però, non è tanto preso dalla riflessione teorica sul romanzo, quanto piuttosto dalle ragioni di un particolare sottogenere, quello del romanzo storico. Una riflessione che, si sa, portò il nostro maggior romanziere, Manzoni, a rinnegare I promessi sposi, dichiarandone l’assurdità teorica. Ma Consolo non era impressionato, come Manzoni, dall’impossibilità di intrecciare una narrazione fantastica con i fatti storici assodati, ma proprio dall’artificialità della storia stessa, cioè di qualunque costruzione verbale che pretenda di ordinare i fatti storici secondo una logica e puntando a una spiegazione complessiva. Nel periodo in cui Consolo ha scritto le sue opere fondative (in sostanza il ventennio successivo alla contestazione del ’68), le obiezioni alla storia come logica immanente della realtà erano vivissime; e non sono ancora finite, anzi continuano a mettere in crisi gli stessi specialisti.

Scrivendo, di fatto, dei romanzi storici, Consolo non cerca di attenuare le ragioni che stanno contro la storia. La sua soluzione è astuta: le narrazioni complessive degli eventi storici sono demandate dallo scrittore o ai documenti, che della storia costituiscono i materiali, o a cronisti e storici dell’epoca rappresentata; mentre conduce lui stesso la narrazione per quegli episodi che ha inventato e inserito nella narrazione, forte della licenza cui ogni scrittore ha diritto. Ma nella “sua” storia c’è un veleno, che Consolo non esibisce ma tiene certo presente: gli autori di cui riporta brani sono tutt’altro che attendibili; spesso anche soltanto per il loro stile retorico e imbonitorio. L’impossibilità della storia s’identifica con l’impossibilità di una buona storia. Citare gli storici – questi storici – è dunque un atto di sottile ironia.

Il secondo punto di distacco da Tomasi di Lampedusa, ancora più significativo, sta nello stile: plurilingue Consolo quanto è monolingue Tomasi, espressionista l’uno quanto è elegantemente classico l’altro. Occorre ricordare subito che gli scrittori meridionali, in Italia, sono raramente espressionisti. L’unico esempio di rilievo è forse, nel secondo Ottocento, il napoletano Vittorio Imbriani, certo non ignaro della Scapigliatura lombardo-piemontese. Ma Consolo, fattosi milanese ancora dai tempi dell’università, e rimasto anche in seguito milanese di residenza, pur nella forte nostalgia per la Sicilia, ha assimilato da quella cultura l’ammirazione per Gadda. Quando parla di “esplosione polifonica del ‘barocco’ Gadda” sembra quasi voler descrivere la propria, di scrittura.

Il terzo punto è quello del “messaggio”, come si diceva una volta. Nel Gattopardo, il senso, o la morale, della storia è demandato quasi esclusivamente alle estrinsecazioni esplicite del suo personaggio più riflessivo, il principe di Salina. Consolo, pur lasciando spesso trasparire il proprio pensiero, ne affida le articolazioni al dialogo, spesso serrato, tra i protagonisti. Per esempio, nel Sorriso, a Enrico di Mandralisca e a Giovanni Interdonato. Il primo rappresenta le posizioni dell’aristocrazia e della borghesia illuminate che parteciparono alle iniziative dei mazziniani e dei carbonari; il secondo – tra i due, il vero cervello politico e l’uomo che, verrebbe da dire, si sporca le mani –, rispecchia le idee dei democratici radicali. Mandralisca è protagonista dei capitoli I e IV, è mente giudicante del VI, è testimone narratore nei capitoli VII e VIII, è raccoglitore della documentazione del IX. La contrapposizione tra i due personaggi si precisa nel capitolo VI, grazie a una lettera che Mandralisca, secondo l’invenzione di Consolo, avrebbe spedito a Interdonato, quando questi si preparava, come giudice d’appello, al processo sui fatti di Alcàra Li Fusi, nel quale i colpevoli non ancora giustiziati furono da lui assolti per amnistia. Mandralisca spiega la propria rinuncia a un’azione politica con le riflessioni sulla rivolta di cui erano recentissimi i segni e ardevano ancora le passioni. Si mantiene fedele agli ideali di libertà, uguaglianza, democrazia discesi dalla Rivoluzione francese, ma ha anche l’impressione che essi siano formulati con il linguaggio delle classi dominanti, pur illuminate, e insomma del potere. Un linguaggio e una scrittura che sono anche quelli delle leggi e della storia ufficiale, inappropriate e inintelligenti rispetto ai bisogni, alle pulsioni, agli orizzonti mentali delle genti che sono sempre state oggetti, vittime, e che spesso non possiedono nemmeno una lingua adeguata per esprimere qualcosa che vada al di là dei bisogni materiali, e delle reazioni dell’istinto.

Si capisce che la posizione di Consolo è più vicina a quella di Mandralisca che a quella di Interdonato. Ma ciò che più interessa, come già anticipavo, è che Consolo non impone il suo punto di vista; lo fa solo trasparire. Mi pare di poter allora concludere che Consolo tenta un difficile equilibrismo: fare storia senza fiducia nella storia, prendere posizione pur rispettando le posizioni diverse. È come tenersi vicino un advocatus diaboli che sottoponga a critica il proprio lavoro di scrittore. Una vicinanza che lo aiutò. La posizione dialettica permette infatti a Consolo di esprimere un amore infinito per la sua Sicilia, e nello stesso tempo di condannarne le colpe antiche e, soprattutto, quelle recenti. E gli permette anche di assecondare una sorta di movimento pendolare tra l’ebbrezza stilistica e il rigore argomentativo che sono i due costituenti fondamentali delle sue narrazioni.

 

Nella fase della scrittura, le riflessioni sul romanzo storico, le esigenze di un impegno attuale in una Sicilia di cui Consolo conosce tutte le difficoltà e le contraddizioni, la ricerca di un linguaggio capace di comprendere in sé tutta la realtà dell’isola si richiamano, si connettono ma talora anche si ostacolano fra loro. Più che cercar di scoprire, in ciascuna delle opere, come si sviluppa una costruzione perfettamente calibrata, frutto di una razionalità priva di residui, meglio è allora abbandonarsi alla voce del narratore e riconoscere punto per punto quale sia stato, in quel preciso luogo, l’animus ispiratore. L’immagine del carcere a forma di chiocciola, spaventoso e sublime, in cui vengono rinchiusi, in attesa di giudizio, i colpevoli dell’eccidio di Alcàra Li Fusi non ancora passati per le armi potrebbe perfettamente essere presa a metafora della costruzione, formale e verbale, non solo del Sorriso dell’ignoro marinaio (come ho già avuto modo di scrivere, e come del resto insinua lo stesso Consolo) ma di tutti i suoi romanzi, vortice inarrestabile che trasporta, fonde e confonde avvenimenti, personaggi e voci della Sicilia. Si senta Consolo:

Subito un murmure di onde, continuo e cavallante, una voce di mare veniva dal profondo, eco di eco che moltiplicandosi nel cammino tortuoso e ascendente per la bocca si sperdea sulla terra e per l’aere della corte, come la voce creduta prigioniera nelle chiocciole (p. 118).

Ma una costruzione così complessa, apparentemente così poco razionale, nasce da motivazioni molto limpide, che vengono poi a coagularsi in finalità ben precise.

In primo luogo, rendere viva e presente la storia dolorosa che ha portato la Sicilia, nel passato terra di grandi fulgori, all’attuale decadenza, in cui l’isola appare soprattutto preda di un’organizzazione criminale e sfruttatrice. La riflessione storiografica del secondo dopoguerra, da cui Consolo era stato molto colpito, ha approfondito in lui il concetto che la storia è fatta dalle classi dirigenti, e complessivamente da coloro che sono stati, in forme diverse, i vincitori dei principali scontri sociali: lo scrittore ha ben presente quella corrente della storiografia che, dopo l’impresa dei Mille, considera il governo dei Savoia in Sicilia più affine al governo borbonico che a quello che ci si illudeva sarebbe stato installato dal Piemonte liberale. Insomma, rivendicazioni sociali e contestazioni politiche possono in buona parte coincidere.

Ma, se si esclude una soluzione paternalistica, come si può sperare che dal fondo dell’abiezione un popolo sempre represso sappia maturare la propria riscossa? La risposta offerta da Consolo, una risposta largamente simbolica, è stata quella del ricorso alla viva testimonianza, dell’innesto nel tessuto narrativo delle voci stesse del passato: le voci generano una conoscenza che può diventare la base ideale di questa riscossa. L’esempio più famoso è quello del IX capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, che riporta imprecazioni e maledizioni, ma anche richieste di perdono, aneliti di libertà, e persino tentativi di canto dei prigionieri semianalfabeti del carcere di Alcàra Li Fusi, traendoli dai graffiti lasciati dai prigionieri dell’Inquisizione nelle celle dello Steri di Palermo, non a caso valorizzati da Leonardo Sciascia. Ma mi piace anche ricordare un altro innesto particolarmente ricco di carica allusiva: le prime battute della partitura del settecentesco Stabat mater di Emanuele d’Astorga, preludio all’evocazione, nelle pagine finali dello Spasimo di Palermo, dell’attentato al giudice Borsellino, ucciso mentre stava salendo a casa della madre.

Una volta rinunciato alla storia, come conservare tutti i tesori di storicità della Sicilia? Qui Consolo trova una soluzione originalissima, che passa attraverso un ricorso molto particolare all’espressionismo. È come se lo scrittore siciliano fruisse di un sistema linguistico che, sotto la superficie di un italiano colto, tiene a propria disposizione un immenso magazzino di residui, i quali vengono alla superficie per associazioni mentali e si strutturano in costruzioni complesse. L’autonomia di queste costruzioni, spesso (ma non sempre) sorrette da un espediente retorico come la cosiddetta “enumerazione caotica”, è, come mostrerò tra poco, di tipo musicale, e valorizza tutte le possibilità di suggestione delle parole e dei suoni alludenti a una o un’altra epoca, a uno o un altro ambiente: ho appena ricordato le note dello Stabat mater del ragusano d’Astorga richiamate in forma di preludio al momento di evocare la tragica morte di Borsellino.

 L’espressionismo di Consolo si fonda sull’interferenza di registri e di strati idiomatici: e se l’apparenza è quella di un fulgore, di uno splendore barocco, è proprio sul piano, più profondo, della costruzione che si rifugia la “vera” storia, una volta sconfessata la storia degli storiografi. Consolo mostra infatti che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportare alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato: da quella dei greci delle colonie, e poi dei romani, a quella dei poeti di corte sotto Federico II, sino a quella degli scrittori d’oggi. In questa storia il dialetto siciliano, unica lingua delle classi subalterne, ha una grande forza di suggestione, così come ce l’ha un raro relitto linguistico, il dialetto galloitalico di San Fratello (località vicinissima alla Sant’Agata di Consolo), di cui il Sorriso dell’ignoto marinaio offre battute significative. E le melodie e i canti popolari, in questa prospettiva, hanno giustamente ampio spazio. Ecco allora che il plurilinguismo di Consolo apre finestre verso i momenti significativi della storia siciliana. I lettori intravvedono, dietro le parole o le note, gli ambienti e i sentimenti. Non a caso, lo scrittore si autodefiniva “archeologo della lingua”.

E qui si impone un’osservazione ultima, che mi pare però decisiva. L’amalgama linguistico presente nei punti più rilevanti delle evocazioni cambia secondo l’ambiente e i toni. È come un sovrapporsi di vecchie pergamene e di lapidi, di volumi polverosi e di canti vetusti, di litanie e di scongiuri; un sovrapporsi che ha come proprio collante il ritmo. Sì, perché in Consolo è fortissima l’attrazione di una prosa ritmica, che spesso nasconde lunghe tirades di versi. Ciò che tiene insieme questo plurilinguismo non è dunque un fatto concettuale, ma musicale, nel senso più ampio del termine: la prosa di Consolo, che gioca spesso col plurilinguismo ospitando frammenti in altre lingue, compresi il latino classico e il mediolatino, si caratterizza infatti per il suo sottofondo prosodico. Si può persino sostenere – e qualcuno, come Alessandro Finzi, lo ha sostenuto –, che quanto Consolo scrive è senz’altro una prosa ritmica, con i suoi nessi e le sue pause, una prosa ritmica che sembra quasi sollecitare una lettura ad alta voce.

Basti come esempio questo brano, il cui contenuto tragico sembra quasi lenito dall’armonia metrica che lo pervade. La divisione in endecasillabi qui offerta è, naturalmente, mia e non dell’autore:

Madri, sorelle e spose in fitto gruppo

nero di scialli e mantelline, apparso

per incanto prope alla catasta,

ondeggia con le teste e con le spalle

sulla cadenza della melopèa.

Il primo assòlo è quello d’una donna

che invoca a voce stridula, di testa,

il figlioletto con la gola aperta (p. 108).

 È insomma un ritmo di tipo musicale, sotterraneo e implicito, a unificare i materiali volutamente eterogenei che compongono i (non) romanzi di Consolo. Ed è questo ritmo musicale che aiuta a rendere vive, per il lettore delle sue opere – ma forse sarebbe meglio dire per il lettore-ascoltatore delle sue opere – le vicende narrate, antiche o meno antiche: quasi colonna sonora di un viaggio nella storia che è anche, o soprattutto, giudizio sul tempo presente.

 

 

                                                                         Cesare Segre

Milano, gennaio 2014

 

 

“La mia isola è Las Vegas”, raccolta di racconti di Vincenzo Consolo

recensione di Rosario Tomarchio

Qui Consolo ci racconta la sua storia di emigrato al nord, a Milano in particolare e la sua Sicilia da giovane, ci racconta anche le sue prime avventure giornalistiche e di scrittore di romanzi.

Nei cinquantadue racconti che compongono il libro, in particolare in quelli in cui descrive i luoghi della sua gioventù ci guida per mano, mentre descrive i paesaggi, i personaggi e ci lascia affascinanti con le storie che racconta e senza dimenticare un pizzico di critica politica. Molto interessante sotto il profilo storico si presenta il racconto “E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte”. Qui l’autore ripercorre le vicende storiche che riguardano Bronte dal 1979 al 19861.

Non un libro, ma una breve esposizione noi abbiamo voluto fare di questa storia, cucendo assieme notizie attinte da diversi libri. E forse sono proprio le cuciture, unico nostro lavoro, che alla fine risultano mal riuscite”.

Nel racconto La mia isola è Las Vegas che da anche il titolo alla raccolta immagina la sua terra di origine, la Sicilia come uno stato appartenente agli Stati Uniti con sale da gioco e con tutto quello che si può trovare a Las Vegas.

Nell’ultimo racconto dal titolo “La meraviglia del cielo e della terra” ci strappa una lacrimuccia con la storia di un semplice pastore Benedetto detto Bitto.

Mi sono sposato e ho due figli. Ma qui ripenso sempre con nostalgia al mio bosco della Miraglia, ripenso a quel cielo notturno che mio padre Delfio, che ormai pace all’anima sua sarà morto, m’insegno a leggere. Bosco e cielo che non posso qui far leggere ai miei figli”.

Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 ed è scomparso a Milano nel gennaio del 2012. Romanziere di fama internazionale ha esordito nel 1963 con la Ferita dell’aprile, edito da Mondatori, ma si è pienamente rivelato nel 1976 con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato da Einaudi. Nella sua lunga carriera ha ricevuto i più prestigiosi riconoscimenti letterari, tra cui il premio Pirandello nel 1985, il premio Grinzane Cavour nel 1988  e il premio Strega nel 1992.

Vincenzo Consolo è stato una delle voci più originali ed autorevoli della cultura italiana negli ultimi decenni. Le sue narrazioni, che rifiutano la forma standard del romanzo e la lingua vuota del nostro tempo, sono lette e ammirate e studiate in Europa e nel mondo.

Oubliette Magazine
9 maggio 2013

La Sicilia di Vincenzo Consolo in cinquantadue racconti

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La Sicilia di Vincenzo Consolo in cinquantadue racconti

 

da Napoli Monitor n. 51 / Novembre 2012

Sono passati alcuni mesi dalla scomparsa di Vincenzo Consolo, certo uno degli scrittori più affascinanti dell’ultimo cinquantennio. Ma per fortuna avremo da leggere ancora altri suoi libri, a cominciare da questo La mia isola è Las Vegas (Mondadori 2012, pagg. 250, € 19) che raccoglie cinquantadue racconti, tutti o quasi i suoi testi narrativi brevi. Sono testi molto godibili, che coprono un arco temporale molto ampio, dal 1957 al 2010; usciti in gran parte su quotidiani e su periodici, rimodulano la poco meno che leggendaria complessità dello stile di Consolo in una direzione fortemente comunicativa. D’altro canto vi ritroviamo tutta la ricchezza del suo stile: fra sapori dialettali, soprattutto ma non solo siciliani; lacerti di altre lingue; ampi strati di lingua colta, arcaismi, linguaggio letterario; franche, a tratti vertiginose discese verso la colloquialità. Ma la densità della scrittura di Consolo, lungi dall’essere riducibile alla sua lingua, è anche fatto strutturale, e mette radici nella capacità di unire una franca vena narrativa a molteplici altri modi discorsivi: dal saggio storico alla critica sociale, dall’indagine antropologica alle note di costume.

Al cuore del discorso c’è la rappresentazione della Sicilia, a cui rimanda il titolo, ripreso da un racconto, dove il narratore è un carcerato, condannato al 41bis, che dichiara il proprio rimpianto perché, all’epoca dello sbarco degli Alleati, la Sicilia non è riuscita a diventare il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti. Se così fosse stato, davvero avrebbe potuto diventare una specie di Las Vegas: cioè un luogo di gioco, di divertimento, di soldi a fiumi, di sesso facile e altro ancora. La nostalgia dell’ergastolano, è chiaro, va letta due volte a contropelo: perché non la possiamo condividere, e perché quel suo sogno mistificato ci rivela non tanto e non solo che cosa la Sicilia non è diventata, ma, ahimè, proprio quello che in qualche modo la Sicilia è invece poi davvero diventata.

Metafora ad alta densità del mondo tutto, la Sicilia di Consolo oscilla fra il vagheggiamento di un luogo che avrebbe potuto conciliare bellezza storica e naturale, vitalità e cultura, desiderio e conoscenza, fra scampoli d’idillio e prefigurazioni dell’utopia, e la constatazione, addolorata e indignata, dell’orrore reale, fra violenza mafiosa e scempio edilizio, degrado di valori e distruzione del paesaggio. In questo libro si alternano tre tipi di narratore: un narratore lontano dall’autore, portatore di valori degradati, come si è visto; un narratore dai connotati autobiografici, ma dissimulati; un narratore apertamente autobiografico. È quest’ultimo tipo di narratore che spesso si mette al servizio della ricostruzione storica di episodi lontani, come la strage di Bronte del 1860 (E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte) o recenti. Come, fra gli altri, nel memorabile Un filo d’erba ai margini del feudo, uscito su L’Ora il 16 aprile 1966, che rievoca l’assassinio mafioso del sindacalista Carmelo Battaglia. Ma anche nella rievocazione, intensamente ironica, della spedizione del Living Theatre a Cefalù, sulle tracce di Aleister Crowley, il santone decadente poi protagonista di Nottetempo, casa per casa.

Troviamo in questi racconti, fra le altre cose, non solo il versante impegnato e tragico di Consolo, ma anche una linea apertamente comico-grottesca: nei vivacissimi racconti di costume (come La prova d’amore), o nei racconti fantastici, un filone finora semisconosciuto. Consolo si fa comunque sempre portatore di un’idea forte di scrittura: non ci si può accontentare di “narrare”, bisogna “scrivere”, che è tutt’ altro. Nell’ intensissimo Un giorno come gli altri, egli rifiuta la vecchia alternativa fra la vita e la scrittura: se “dopo Freud siamo tutti nevrotici”, dopo Marx “siamo tutti intellettuali, siamo tutti politici, siamo tutti ‘filosofi dell’azione’”. Una lezione di etica, e anche di politica, di cui continuiamo ad avere bisogno.
Gianni Turchetta

Tra ricamo e labirinto: l’opera e la scrittura di Vincenzo Consolo

Tra ricamo e labirinto: l’opera e la scrittura di Vincenzo Consolo

Prima di leggere i libri di Vincenzo Consolo, ho letto qualche recensione e soprattutto alcune sue interviste che delineano una vera e propria ars poetica, presentandosi come manifesti letterari e civili di una grande e acuta profondità di pensiero, capaci da soli di far crescere l’interesse e la curiosità per la sua opera. E tutto questo, devo dire, per quella straordinaria disponibilità con la quale si mette direttamente al centro della problematica e, poi, per la sincerità confermata da ogni frase nel parlare apertamente del suo lavoro, delle sue ossessioni estetiche e non solo. Mi ha sconvolto innanzitutto la riflessione acutissima con la quale discute aspetti controversi di poetica narrativa in un momento in cui questi problemi sono diventati così complicati, fino a generare lunghe e spesso faticose, orgogliose dispute che finiscono per complicare ancor di più le cose.
Quella disponibilità, quella chiarezza e soprattutto quella sincerità, la franchezza, il suo modo di dire le cose senza nessuna intenzione di lusingare oppure di offendere la sensibilità del lettore costituiscono alcune delle qualità portanti del suo profilo letterario, capaci di configurare un modello di scrittore impegnato con la sua vita, con la vocazione e l’ardore nella propria scrittura e nel destino assunto, e assunto fino in fondo. Se la letteratura è ancora come dev’essere un problema di carattere, oltre il talento, oltre la vocazione vera, allora si può sostenere senza nessun rischio di approssimazione convenzionale che Vincenzo Consolo, a parte la dimensione particolare della sua scrittura, appartiene, a mio avviso, a quella tradizione di artisti per i quali il binomio arte e vita rappresenta un punto fermo di partenza e un punto fermo di arrivo; un progetto che fa coincidere il fuori e il dentro, realtà e coscienza, il destino, parola e cosa, società e individuo.

La ricchezza del suo lavoro, in tutti gli aspetti che riguardono il rapporto io-mondo, io-reale, e in particolar modo le scelte stilistiche, il problema linguistico così essenziale per uno scrittore italiano offrono una moltitudine di prospettive dalle quali si può partire nella valutazione della sua opera. Si è parlato a un certo momento di un carattere «intellettuale» della sua scrittura; ho già usato le virgolette per questo aggettivo, perché in effetti ogni costrutto che assume l’intento di un prodotto artistico non lo può escludere, non lo può evitare. Anche perché – si sa bene oggi forse meglio di ieri – esiste purtroppo una allucinante arte del consumo rivolta prevalentemente a un fruitore pigro, che va incontro alle sue aspettative più facili, alla sua comodità. Da questo punto di vista Consolo procede in una maniera tutta contraria: perché ha scelto di scrivere sulla realtà, di affrontarla, forse non per cambiarla – sarebbe soltanto un sogno da sempre – ma per portarla sul piano della coscienza per destare nel lettore la curiosità, il coraggio di assumere la realtà integrale con tutte le sue insidie, e le sue deformazioni.

Appunti di lettura. La metafora dell’«angelus novus»

Detto questo, vorrei iniziare sfogliando alcune mie pagine di appunti raccolti in presa diretta dai testi del Nostro. Sempre aperture di prospettive, di letture, di percezioni senza la preoccupazione, almeno per adesso, di articolare un discorso lineare dotato di quella coerenza che deve restare come prima condizione di una interpretazione, per dire così, organica.
Con la pubblicazione del suo primo libro, l’autore afferma di aver avuto già la consapevolezza di cosa sarebbero stati gli argomenti della sua scrittura e cosa gli interessava di più: «Mi interessava afferma lo scrittoreil mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia, e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo». C’è già tutto qui: la scelta della ʻtematicaʼ e l’opzione stilistica, i due pilastri di ogni lavoro letterario.
Ebbene, la Storia, ma quale Storia, della Sicilia, però la storia è già qualcosa di infinito, non solo per la durata, ma anche per la sua dialettica interna, per il modo in cui viene vissuta e, poi, scritta-descritta, di chi, per chi e da chi assunta e con tante sofferenze, con delle conseguenze purtroppo irreversibili e così via. È proprio qui che sento il bisogno di chiamare in causa la metafora ormai famosa che è quella benjaminiana dell’Angelus Novus. Ricordiamola: «… un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera».
Una metafora, questa benjaminiana, dell’angelus novus, che tra l’altro non identifica un angelo nuovo, bensì ci può ricordare anche la figura della Medusa con il suo sguardo mortale per chi cerca di affrontarla a viso scoperto; possiamo poi evocare anche la metafora del labirinto dove, anche se non vi sono delle macerie – oppure non si fanno vedere – c’è sempre lo sguardo impegnatissimo nel trovare quel punto debole del percorso da dove sperare di trovare la via d’uscita o meglio una via d’uscita…

Ritorniamo all’opera di Vincenzo Consolo, cercando di trovare un punto di riferimento in grado di indicarci quale via (non di uscita, ma di entrata nel suo mondo, nel suo labirinto) possiamo seguire. Operazione assai difficile; innanzitutto perché ce ne sono molte, voglio dire, ci sono molti punti di riferimento, nuclei semantici, nodi referenziali che possono diventare vere e proprie chiavi di lettura e di approccio; e, poi, in secondo luogo, operazione difficile proprio perché,  specie in uno scrittore come Consolo che ignora, rifiuta, addirittura respinge qualsiasi metodo prestabilito, assumere un punto di partenza o un altro come una sorta di filo conduttore nell’esegesi della sua opera sarebbe ancora una volta una scelta in limine, ugualmente rischiosa.
Percorriamo un’altra strada. Ecco, citiamo alcune sue considerazioni prese qua e là dalle quali si potrebbe iniziare un percorso esegetico. Procediamo, questa volta noi, in maniera metodica così da identificare una linea, diciamo così, tematica: «Quando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa fossero gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali»
Allora, la scelta tematica era già identificata, e anche assunta: raccontare la Storia e propriamente una Storia, non solo quella della Sicilia, ma anche una sua parte, alcune pagine scelte fra le tante, e poi vedremo qual era il criterio insito in quella scelta.
Invece, molto significativo mi pare qui far interferire questo orientamento tematico dello scrittore con la metafora di Benjamin: qui interviene per darci una conferma l’autore stesso quando afferma che ha cercato «di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese». Che cosa significhi pre-borghese non mi pare così difficile da capire ma solo riducendo il discorso, sempre in base alle affermazioni dell’autore, a quella tipologia sociale per la quale la Storia non ha alcun senso di progresso e tantomeno una base giustificatrice. Quel mondo, quindi, situato tra una civiltà ancora contadina nei suoi aspetti superficiali, formali, apparenti, e che ha perso la sua coerenza di una volta, quella parte di sapienza di cui parla ancora la letteratura orale, e il mondo borghese, che forse, se non sbagliamo noi, ha attraversato quello del sottoproletariato, nel senso che si è fatto sfruttare, abbandonandolo per poi strumentalizzarlo con il preciso scopo di approfittare del suo lavoro. In tutte queste due categorie si ritrova un punto comune: la povertà, è da essa che poi scaturisce sempre il tentativo di opposizione, di confronto, di lotta, con l’intera scenografia che si conosce: speranza, attesa, fede e diffidenza, l’impegno diretto, il tradimento da alcune parti, e, alla fine, le sconfitte; ma sconfitte che conferiscono sostanza alla storia, le danno la propria consistenza, nel bene e nel male…

L’idea di labirinto

Esiste poi un altro punto di riferimento (e di partenza), quello che ci porta all’idea di labirinto. Ecco, parlando vent’anni dopo, su Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo avverte: «I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcàra, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezza e rassegnato destino (…), a una terra di consapevolezza e di dialettica. Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale»*.
A proposito di Eliade, si può riflettere intorno a un’idea che potrebbe servire nell’operazione di decriptazione di alcuni significati portanti della letteratura consoliana e cioè quella indicata dal grande scienziato romeno con la formula l’incentramento del margine, o meglio centrare il margine; quell’arduo compito che Consolo assume così come intendiamo noi il suo operare sulla storia e sul reale e cioè quello riguardante strettamente la Sicilia, si potrebbe indicare almeno sul piano di un’ideologia letteraria, questo tentativo di porre al centro (dell’interesse e della preoccupazione del lettore e non solo) ciò che si è chiamato il problema della Sicilia, la Sicilianità come quel modo di vivere nella difficoltà.
Sempre con riferimento a Eliade, si deve invocare qui la sua metafora dell’eterno ritorno, che per altro è anche una metafora di estrazione romantica e, in particolar modo, nietzschana; tuttavia, in Eliade, la metafora si colloca puntualmente nel discorso sull’origine e sul dovere (quasi un segno di destino e di fatalità) di ritornare sempre al punto di partenza, e così si genera, inculcata nella nostra vera e propria identità, una circolarità che alimenta, intrattiene, potenzia la sofferenza, il dolore, una specie di pendant a quel male di vivere montaliano.

Ecco come si colloca Consolo in funzione del motivo del ritorno all’origine, che infatti è un altro motivo ricorrente nelle sue meditazioni-riflessioni.
Parlando del suo libro L’ulivo e l’olivastro, l’autore propone un aspetto particolare della sua Sicilia presente, ma sempre col riferimento al mito ulissiano e al tema del ritorno come un dovere ontico, come destino. «In Sicilia – afferma l’autore – si ritorna, non si può fare a meno. Così come Ulisse lascia la dolce terra dei Feaci per ritornare nella sua pietrosa Itaca. Non si può prescindere dai luoghi dove si è nati, dove si è cresciuti, dove si sono sentite le prime voci, dove si sono viste le prime luci. Sono luoghi che non si possono eliminare dalla nostra memoria. Si sente il sogno di tornare, malgrado tutto».
E di qui che si va verso la metafora della lumaca, collocata anch’essa nel labirinto, vista come una rappresentazione di un’ascensione dal basso verso l’alto, e che può significare anche lo sprofondare e il perdersi all’apice di questa stessa spirale. Diamo di nuovo la parola all’autore: «Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, …il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale…». Conclusione, una fra le tante, emblematica, direi, per il lavoro del Nostro.
Inutile evocare a questo punto una parola-concetto, una parola spia della scrittura di Consolo e appunto la parola greca nostos, che vuol dire proprio l’origine, quell’ipogeo come il dovere di partire sempre dalle radici, che non per caso si trovano nel sottosuolo, nel sottoterra, quel luogo che fa da controcanto, da contropartita alla Storia nella visione e nella rappresentazione di Vincenzo Consolo. E le cui immagini (di questi luoghi sotterranei, di queste caverne) sono un po’ il corrispettivo della profondità della lingua e della profondità della storia; è già un altro punto di partenza per addentrarci nell’opera consoliana.

La scrittura come ricamo

Ma si può continuare con l’idea di labirinto come una metafora così produttiva nel campo esegetico. Oltre il suo vastissimo e diversissimo campo semantico, mi pare opportuno sottolineare un fatto della poetica narrativa di Consolo: il rapporto che stabilisce tra l’idea di viaggio come esplorazione dello spazio, più quello del mare che della terra, il viaggio come anche ritorno, di un Ulisse che si trasforma così in un prototipo dell’eroe universale, un archetipo della sapienza, del conoscere, un navigatore ideale e insieme singolare. Pare superfluo ricordare che per Consolo, come per Dante, per Pirandello, la vicenda dell’eroe omerico con la sua intera disperazione riguarda lo spazio siciliano, e anche quello terribile e insieme affascinante Stretto di Messina che diventa anch’esso ricorrente nell’opera del Nostro.
Il tentativo di Ulisse, sommariamente indicato qui, punta sullo spazio cosicché, attraversarlo per conoscerlo equivale ad assumerlo. Un tentativo compiuto col sacrificio liminare, non di una sua possibile fine, morte, ma, con l’allontanamento dalla sua Itaca, coll’affrontare il rischio di perdere tutto ciò che aveva prima, regno e soprattutto l’amore incorporato nella figura di Penelope. Qui interviene un altro possibile punto di partenza per interpretare l’opera di Consolo: quello che potrebbe omologare la sua scrittura sullo stesso piano con la tela su cui Penelope sta ricamando, non qualcosa di utile, ma proprio l’attesa stessa che subentra così nel destino, suo, di Ulisse, di tutti noi.
La scrittura come ricamo non mi risulta fuori del progetto scritturale dell’autore di Le pietre di Pantalica. La invoca anche, se mi ricordo bene. Invece sul piano stilistico, espressivo, poetico, il labirinto si presenta davvero come un riferimento preciso, assolutamente non casuale, legato a una scelta che Consolo identifica in Calvino. Ed è per questo che si può chiamare in causa, per la sua specificità poetica, la famosa formula calviniana La sfida del labirinto; ma il riferimento non significa altro che un possibile percorso della critica nella ricerca di altre chiavi di lettura per poter dare effettivamente, se questo fosse possibile e plausibile, un senso al mondo che ci propone un autore che rimane – poiché così deve rimanere – ancora un mondo da interrogare, in un confronto sempre aperto con la coscienza del lettore…

La semantica del labirinto

Ma quale sarà a questo punto l’offerta indicata, più adatta, della ricca e lunga semantica del labirinto? Quel gioco che ha, come ricorda Kerenyi, un significato rituale e che come tale serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose? Rifacciamo in breve lo scenario di questo gioco che si presenta in due tempi, in due fasi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero, in cui gli attori sperimentano la perdita di sé; poi, il ritorno alla luce che rappresenti, diciamo, una nuova nascita, attestando la continuità della vita che di generazione in generazione rinnova se stessa. Fin qui, Kerenyi. Sono intervenute poi tante altre interpretazioni-soluzioni, come quella di Tagliaferri per il quale il labirinto potrebbe essere preso come una metafora di un utero materno e il filo di Arianna sarebbe allora un cordone ombelicale, il Minotauro diviene un embrione, un germoglio, un’ombra inquietante con cui dobbiamo confrontarci.
Per Calvino, si sa, si pone un altro tipo di richiesta, di interrogativo, di soluzione, attraverso un’idea – che abbiamo incontrato anche in Consolo, a proposito di un altro argomento –, ma non così distante da questa prospettiva, torno a ripetere, di natura poetica e, se si vuole, di poiesis, come il far poetico.
Per l’autore delle Cosmi-comiche, l’operatore interpretativo diventa un rapporto cartografico che include una distanza rispetto al labirinto: così, è facile trovare la via d’uscita quando il labirinto si osserva dall’esterno, quindi quando si dispone di una mappa totalizzante; invece, dal di dentro e allorquando le mappe sono parziali e contraddittorie, succede che non solo sia possibile la salvezza, ma si entra in una grave confusione, una specie di sostituzione dei topos, delle isole, appunto, perché avvicinandosi, il topos, l’isola cambia nome, ossia anche l’identità.
Ci fermiamo qui con la storia esegetica di un motivo-mito così complicato e insieme stimolante. Ma non prima di focalizzare almeno una suggestione per la scrittura di Consolo: il labirinto per lui si presenta in veste di Storia, o meglio una sua pagina sempre della storia siciliana, identificata in alcuni momenti di rottura, di confusione, di sconvolgimento, e perciò bisognosa non di una giustificazione, ma di una giusta ricostruzione in base alla quale sarà poi possibile denunciare quelle tracce, e quelle insidie, che ci provocano nel e dal presente.
Ed è per questo che rientra in scena proprio adesso la metafora benjaminiana dell’angelus novus; il quale, ricordiamoci, si trova fissato, prigioniero tra un passato per cui non basta la sua nostalgia a compiere il ritorno, ma non è possibile nemmeno andare avanti, nel futuro, per via di quella bufera che lo sconfigge.
Ma il presente dov’è? Il presente non esiste, sulla linea di una dialettica elementare, è soltanto un passaggio, un momento di transito, un limbo, quel purgatorio dantesco dove Virgilio ha quasi perso tutti i poteri e dove a Dante, come a tutti noi, è rimasto solo porsi degli interrogativi come soluzione di orientamento. Ma l’idea di labirinto è un motivo di riflessione per il Nostro.

Per Vincenzo Consolo, creatore di un’opera che non si impone né per la quantità (dimensione, diversità di motivi, di argomenti), né per l’imprudenza di lusingare i gusti, in gran parte pervertiti, corrotti dal consumismo, del lettore (un lettore che lo vuole, come sostiene, un po’ simile a se stesso), quindi per Vincenzo Consolo, la letteratura mi pare che sia una scommessa; e un riscatto: una scommessa con la Storia così come è sempre stata scritta-descritta, ma non vissuta; e un riscatto come tentativo di recupero per la mediazione della parola, diventata pietra, capace invece di esorcizzare il reale vero, quello vissuto, e mai tradito.

In questa prospettiva, poetica, sento il bisogno di identificare la formula paradigmatica per l’insieme della sua opera e che si può definire come testualizzazione del reale, ossia un tentativo di trasmutazione, nel logos, di quell’ontos inteso come topos, ipogeo o nostos che dir si voglia.

NOTA
* Archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmi-comiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kérenyi e in Eliade.

George Popescu
(n. 11, novembre 2012, anno II)