Qui arriviamo a uno dei punti focali della sua ultima produzione: sempre più diventa preponderante il ruolo svolto dalla poesia nella struttura del romanzo. Naturalmente, non si tratta in sé di una novità assoluta; è una cosa che appartiene a tutto il Novecento, ma nelle sue ultime opere questo elemento acquista un peso nuovo. Se è vero – come lei dice – che Nottetempo, casa per casa è la continuazione del Sorriso dell’ignoto marinaio, io vedo nell’opera più recente un notevole stacco sia di poetica, sia di epoca storica. È vero che il modello che sta dietro al Sorriso dell’ignoto marinaio, come si è detto prima, è Manzoni; ma rispetto a Manzoni c’è una rottura, anche dal punto di vista epistemologico, notevole. L’altra questione fondamentale è la rottura col populismo, da una parte, e con il continuum storicistico dall’altra. Lei ha detto testualmente, in una recente intervista, che «la prosa non è più in grado di narrare la nostra realtà»; addirittura, ha detto che i veri grandi scrittori di prosa della nostra epoca sono i giudici che inquisiscono i politici e così via. Sembra insomma che l’ultimo serbatoio di conoscenza per lo scrittore possa essere solo La poesia. Non crede che in questo ci sia il rischio di ricadere nel lirismo? Nella sua stessa prosa si vede il segno dei tempi, il segno che qualcosa è cambiato dal 68, dall’epoca della politica, dell’opposizione; che siamo ormai in un epoca limita per rimanere all’opposizione, come credo lei voglia fare, ci si deve «rifugiare» nella poesia. Quando, per esempio, nel gruppo della neo-avanguardia, per dirne una, la poesia era l’obiettivo polemico principale.
Non so se c’è concessione al lirismo nel mio ultimo romanzo. C’è, sì, una maggior diffidenza verso la scansione prosastica, che vuol dire una maggiore ritrazione rispetto alla comunicazione. In confronto al Sorriso, questo libro è più compatto, più chiuso in una sua gabbia ritmica, in una sua densità segnica. Ho voluto scrivere una tragedia – niente è più tragico della follia – con scene-capitoli, con intermezzi del coro, che sono le frequenti digressioni lirico-espressive in cui il narrante s’affaccia e commenta o fa eco in un tono più alto, più acceso. Perché questo compattare, perché l’eliminazione dalla scena del messaggero, dell’anghelos, del personaggio-autore che si rivolge agli spettatori-lettori e narra in termini non espressivi ma assolutamente comunicativi il fatto che è avvenuto altrove, in un altro tempo? Perché è caduta la fiducia nella comunicazione, nella possibilità, ora, in questo nostro presente, della funzione sociale, politica della scrittura. Non rimane che la ritrazione, non rimane che l’urlo o il pianto, o l’unica forza oppositiva, alla dura e sorda notte, la forza della poesia, della tragedia, la prima, la più alta delle arti secondo Hölderlin.
Esimi studiosi, soprattutto nel campo letterario, parlano a proposito del post-moderno addirittura di rottura epocale: fra il 1950 e il 1960 il costume delle popolazioni nel mondo, i modi di vita, i rapporti tra le persone sono profondamente mutati per effetto della terza rivoluzione industriale. Lei crede invece che sia una sostanziale continuità?
No, credo che ci sia più rottura che continuità, in campo politico-sociale, economico, industriale e quindi in campo letterario. Il romanzo sta avendo un doppio destino. Da una parte, sta degenerando (nel senso che sta mutando di genere), sta diventando, rispetto a quello che conoscevamo come romanzo, qualche cosa d’altro che non so ancora definire. A questa degenerazione si possono ascrivere romanzi-fiume di estrema comunicazione e fruizione, come si dice, scritti nella nuova lingua tecnologico-aziendale o mass-mediale e quindi di immediata traducibilità: le masse sono uguali in tutto il mondo e parlano tutte la stessa lingua. Sono romanzi d’intrattenimento, didascalici, ludici e di gratificazione mondana. Dall’altra parte, avviene una sorta di revanchismo letterario, di recuperi di vecchie estetiche che erano state sepolte: neo-rondismi, neo-formalismi, nuove prose d’arte, psicologi-smi, esistenzialismi… Si stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario penso sia quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da «felici pochi». Pensare a un romanzo letterario che sia largamente e immediatamente letto è assolutamente illusorio o utopico.
A proposito di Retablo, di cui non abbiamo ancora parlato, si può dire che lei nell’87 già prefigurasse un po’ la situazione dei nostri giorni. Anche in quel caso un intellettuale si allontanava da Milano…
Un intellettuale, un artista anzi, Fabrizio Clerici, si allontanava da Milano e andava in Sicilia, alla ricerca della matrice culturale e umana della donna di cui era perdutamente innamorato, Teresa Blasco, che nella realtà, nella storia, è stata la madre di Giulia Beccaria. Teresa Blasco al pittore Clerici preferirà insomma Cesare Beccaria. La metafora del racconto è ancora una volta nel rischio di tener separate ideologia e poesia. Clerici si allontana da una Milano illuminista, dalla città dei Verri, e del Beccaria, del Lambertenghi, da un luogo fortemente ideologizzato in cui crede che non ci sia spazio per la poesia (ma la poesia la porta in grembo Teresa Blasco, che tramite la figlia genererà Manzoni), si allontana per andare in una Sicilia mitica, dei templi greci, dell’Arcadia, delle ninfe e dei satiri, e sbatte invece il naso contro una realtà di miserie, violenze, piaghe, orrori, ma anche di bellezze e ricchezze umane.
In Retablo il livello metaforico è molto elevato: Milano è una città pseudo-settecentesca, ma in effetti è molto novecentesca. In essa già si consumava una specie di rito che in questi giorni per lei è stato oggetto di critiche, quando ha adombrato l’idea di abbandonare questa città.
Siamo tornati al punto di partenza, alla prima domanda, alla mia dichiarazione di lasciare Milano in caso di vittoria della Lega Nord. Avevo iniziato col dire che sono stato vittima di mitologie. Ecco, a Milano mi s’era infranto il mito della civiltà industriale, urbana, della città del Politecnico, del luogo cioè dove in qualche modo esisteva la probità e la trasparenza amministrativa e una certa equità sociale s’era realizzata. Lasciamo gli anni bui e tragici degli autunni caldi, della strategia della tensione, gli anni di piombo, gli anni manzoniani di rivolte, assalti ai forni, di peste, di follia e di desolazione, e arriviamo alla Milano pacificata e trionfante degli anni ottanta, alla Milano craxiana: un orrore! Non può immaginarlo chi non ha vissuto quegli anni a Milano. C’era un clima spensierato, cinico, di ottuso scialo: un carnevale o un paese di cuccagna alla Breughel. Si era passati dalla tragedia alla volgarità. Voglio qui leggervi un passo di Retablo. Si tratta di un’invettiva di Clerici rivolta alla sua città, affidata a una lettera per Teresa Blasco. I personaggi che egli cita sono riconoscibilissimi, uno per uno. Devo avvertire che la parola arasso significa lontano. «O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involu-to! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, 1l ciarlatan, 1l falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via via, lontan!». Ecco, nell’87 scrivevo questo. C’era disamore e furore nei confronti di una città che era diventata inospitale. Inospitale come la Tauride di Euripide. In quel deserto, in quel campo di macerie succeduto allo scialo, sono spuntati i leghisti. Non il movimento politico in sé m’interessa, ma il clima culturale e morale da cui i leghisti sono sbucati, un clima, una couche che mi allarma. Una regressione, ripeto, esprime la Lega, una Vandea. Mi aveva allarmato, fin dal loro primo apparire, il ripiegamento linguistico, la ritrazione nel dialetto, il revanchismo e l’aggressività: no, non mi sembra che siano portatori di idee, di un progetto politico, ma di velleitari e pericolosi risentimenti. La mia dichiarazione ha voluto essere un’opposizione, solitaria e donchisciottesca quanto si vuole, alla loro intolleranza, al loro chiasso assordante. Opposizione soprattutto a quegli intellettuali – gli stessi di sempre – che dal carrozzone democristiano e socialista s’erano affrettati a salire sul carro o carroccio leghista, agli altri che, zitti e prudenti, stavano ad aspettare lo svolgersi degli eventi.
Tornando al rapporto tra letteratura e storia e alla metafora, non si può non rimanere colpiti dalle considerazioni che lei faceva a proposito dei sensi di colpa di Ulisse e dell’umanità di questo secondo dopo guerra. E anche dalla considerazione che faceva sulla necessità del romanzo storico. Ci si può chiedere però di cosa si deve occupare e si occupa di fatto la letteratura, e di cosa per necessità di statuto deve continuare ad occuparsi la storiografia. Perché se non c’è letteratura, se non c’è romanzo senza metafora si mette a rischio l’efficacia della storiografia e del romanzo storico; se la metafora è sempre metafora di una condizione umana necessariamente alienata, come io credo che sia la condizione umana, la storia che ne risulta è una storia immobile: il rischio, insomma, è che non si colgano più le differenze, non si colgano più le trasformazioni di questa alienazione, e lo dico alla luce delle sue parole di oggi, ma sono le stesse impressioni che ho avuto leggendo Le pietre di Pantalica. Il racconto delle occupazioni delle terre nel secondo dopoguerra e il racconto delle manifestazioni pacifiste a Comiso danno la stessa emozione, che è poi quella dell’impossibilità di coniugare l’individuale e il generale, il percorso soggettivo e l’oggettivo, l’individuo che si scontra sempre e comunque con qualcosa di troppo grande: è certo una riflessione sulla condizione umana, ma le contraddizioni di oggi sono ben più gravi di quelle di ieri, il pericolo dell’incubo atomico è ben peggiore del problema dell’occupazione delle terre nel dopoguerra, e così si perdono le dif-ferenze. Mentre prima di questa conversazione pensavo che anche per lei il compito dello storico e del romanzo storico – che ha in più lo stile – fosse proprio quello di cogliere l’essenza di queste trasformazioni, invece adesso ho l’impressione che colga l’essenza delle permanenze. Gli storici, e anche i migliori tra essi, hanno speso anni a raccontare anche la parte «normale», non solo drammatica, del Mezzogiorno; ma forse è in questo che si differenziano storia e letteratura. Ma allora, mi chiedo, il romanzo storico in che cosa è «storico», se suo compito è quello di raccontare la permanenza delle sofferenze umane?
Tante domande in una. E difficili anche. Tento di rispondere. La letteratura non so di cosa deve occuparsi. La mia, intanto, non si occupa di assoluti, di Dio o di dei, di esistenza, di miti, di utopie o di mondi fantastici. Si occupa di relativi: dell’uomo, qui e ora, nella sua dimensione privata e nella sua collocazione pubblica, civile, storica. Certo, una letteratura, un romanzo siffatto dà l’immagine di una storia immobile, perché è critico, oppositivo, e non può lamentare e denunziare le «normalità». Queste, se mai sono esistite, forse è meglio chiamarle differenze, gli storici hanno il compito di registrare. Ho sempre detto anche in una ipotetica società perfetta, il romanzo (diciamo storico), non la poesia, ha sempre il dovere di stare all’opposizione, proprio perché quella coniugazione che lei dice, dell’individuale e del generale, è un’aspirazione, un’infinita approssimazione. Leopardianamente penso che la vita sia infelicità e dolore, che l’unico mezzo per «aggiustare» la vita sia la «confederazione» tra gli uomini, l’unico luogo quello civile, politico. Il romanzo storico è tale in quanto utilizza la storia per i propri fini, per fare cioè di una storia, metafora. Ho scritto un racconto dal titolo Un giorno come gli altri (pubblicato in Racconti italiani del ‘900, nei Meridiani di Mondadori), in cui immagino o sogno di trovarmi nella città di Ebla, l’antica città dove l’archeologo Matthiae ha rinvenuto un intero archivio di stato su tavolette d’argilla, in compagnia di Giovanni Pettinato, lo scopritore della lingua eblaita. Il glottologo ricompone alcune tavolette sparse a terra, legge i segni cuneiformi sopra incisi, e mi dice: «È un racconto, un bellissimo racconto scritto da un re narratore… Solo un re può narrare in modo perfetto, egli non ha bisogno di memoria e tanto meno di metafora: egli vive, comanda, scrive e narra con-temporaneamente…». Noi non siamo, ahimè, re, neanche viceré, non siamo Clinton né Agnelli, abbiamo dunque, scrivendo romanzi storici, il dovere dell’opposizione e della critica al potere. Alcuni racconti, come quelli pubblicati su «Linea d’ombra», sono quasi a livello cronachistico… Sono racconti scritti in una prosa quasi referenziale. Sono spesso ambientati a Milano, nel presente, e quindi non smuovono la mia memoria, non m’impegnano sul piano della ricerca linguistica. La loro valenza letteraria, se mai ce l’hanno, bisogna cercarla al di là dello stile, in altre implicazioni. Ad un altro tipo di scrittura sono stato obbligato, ad esempio, nella sezione di Le pietre di Pantalica intitolata Eventi. Racconto lì appunto l’estate del 1982 in Sicilia, partendo da Siracusa, passando per Comiso e arrivando a Palermo. Nella Palermo della peste e dei massacri, del centinaio di morti dall’inizio dell’anno, dell’assassinio di Pio La Torre e dei coniugi Dalla Chiesa. Racconto in prima persona, con una immediatezza da reportage giornalistico. Fu tale allora per me l’urgenza di dire, dire della Sicilia di quel momento, che abbandonai il romanzo storico, lo stile, i tempi lunghi della metafora. L’urgenza, l’impellenza provocata dall’atrocità del fenomeno della mafia e del potere politico portò Sciascia, ad esempio, dopo il Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore, a fare la grande svolta verso il romanzo poliziesco, il giallo politico. Costruendo storie che erano una parodia della realtà, ma di una tale penetrazione e di una tale restituzione della verità che riuscivano ad anticipare lo svolgimento della realtà stessa, ad essere profetiche. La stessa cosa fece Pasolini, fuori dalla finzione letteraria, della parodia, con i suoi interventi sui giornali, con la forza dei suoi jaccuse, delle sue provocazioni e delle sue requisitorie, dei suoi Scritti corsari. Non li rimpiangeremo mai abbastanza questi due scrittori civili italiani.
C’è qualcosa di letterario, di intellettuale in questo suo pendolarismo tra la Sicilia e Milano? La seconda domanda si collega alla prima: alla fuga corrisponde un altro polo di aggregazione che evidentemente non è solo fisico ma di fazione letteraria e se vogliamo anche metaforica?
C’è, prima di tutto, la mia vicenda umana, la mia storia di vita, che poi forse diventa vicenda intellettuale e letteraria. Dicevo che mi sono trovato, fin dal mio muovere i primi passi, nella piccola geografia siciliana, alla confluenza dei due mondi, tra due poli, e sono stato costretto al pendolarismo nel tentativo di trovare una mia identità. I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo dell’attuale mondo milanese. Voglio dire che continuo sempre a scrivere della Sicilia, ma con la consapevolezza, spero, della storia di oggi, del nostro mondo postindustriale, come lo colgo e leggo a Milano. Anche Verga – si parva… – da Milano cominciò a scrivere della sua Sicilia, a Milano tornò con la memoria alla Sicilia, a quel mondo «solido e intatto della sua infanzia», come dice Sapegno. Girando le spalle a quella città in piena rivoluzione industriale e sociale che non capiva e che lo «spaesava», alla Milano in cui rimase per diciotto anni, ma girando contemporaneamente le spalle alla Sicilia di allora, quella della corruzione e della mafia che avevano messo in luce Sonnino e Franchetti, dei contadini e degli zolfatari che in nome del socialismo cominciavano a chiedere giustizia. Scrisse insomma Verga i suoi capolavori su una Sicilia fuori dalla storia, mitica, del mito negativo della «ineluttabilità» del male, su una Sicilia solida e intatta appunto, cristallizzata. Fuga da Milano significa ritorno e aggregazione all’altro polo da cui avevo a suo tempo preso le distanze, significa ritorno reale e letterario? No so, credo di no. Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo prigionieri, a Milano, a Roma, à Palermo, della tessa realtà, afflitti tutti dallo stesso male. La mia dichiarazione di lasciare Milano aveva un valore linguistico, era un gesto simbolico di protesta. E ha irritato o inquietato tanta gente. Un vecchio critico milanese, un uomo compromesso col potere democristiano, è arrivato a insultarmi. Non voglio apparire megalomane, ma temo di esser diventato inviso a certi gruppi di potere culturale milanese, a certi cronisti di grandi testate giornalistiche. Ho ricevuto però anche tantissimi messaggi di consenso, di solidarietà. «Il Giornale» di Montanelli, all’indomani delle elezioni, così scriveva in un corsivo improntato al rispetto e alla civiltà: «Un’ombra ha turbato ieri le coscienze di non pochi milanesi, la decisione dello scrittore Vincenzo Consolo, siciliano di nascita e milanese d’adozione, di lasciare il capoluogo lombardo in seguito alla vittoria della Lega…». «L’indipendente» invece, in un ignobile corsivo, mi invitava a fare le valigie e ad andarmene. Me ne andrò sì, quando vorrò io, ma non so dove. So solo che ora, alla mia età, essendone Stato privato per tanti anni, sento il bisogno di rivedere le albe, i tramonti, di stare in un luogo dove il paesaggio fisico e quello umano non mi offendano. No so se esiste questo luogo, lo devo cercare. E forse sarò vittima di un’altra utopia.
Un’ultima domanda: si può ancora parlare di una componente mitico-utopica dell’attività dello scrittore, del letterato?
Mi sono sempre sforzato di essere laico, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è 1l romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico – anche quelli che scrivono di Dio o di miti fanno ideologia, coscientemente o no -, cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.
Vincenzo Consolo Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993
Spesso la ricezione di un’opera d’arte passa attraverso dei filtri letterari, e nel caso del ritratto di Antonello da Messina un filtro importante è stato, per la nostra generazione, senz’altro il suo libro. Tra l’altro, l’impressione che si ha nel vedere l’ignoto del quadro è che le somigli molto. Quale è stato il suo rapporto con il ritratto di Antonello, quando lo ha visto per la prima volta? E come ha immaginato le sue vicissitudini: si tratta di una fantasia che risale all’infanzia, all’adolescenza, o ha più a che fare con un’esperienza di maturità?
Ho visto quel quadro in anni lontani, non riesco a ricordare quando. Da ragazzino, certo. Lo vidi poggiato su un cavalletto, senza cornice, vicino a una finestra, illuminato dalla luce solare. Mi sembrò un quadro grande, e invece è di piccole dimensioni, 30×25 (adesso sembra più piccolo, ed è diventato quasi invisibile per ragioni di sicurezza è stato relegato in un angolo, distante da chi guarda, imprigionato dietro un vetro che fa da specchio e schiacciato da una mostruosa cornice aggettante). Il personaggio effigiato mi appari familiare e insieme lontano, enigmatico. Era uno che «somigliava» a tante persone che avevo conosciuto o che mi vedevo intorno. Quegli occhi, quel sorriso ironico, quella forza realistica, concreta dell’aspetto
(Cesare Brandi dice che ha la consistenza di un cristallo), rappresentava certo l’archetipo dell’uomo siciliano, con tutte le componenti etniche e culturali dietro, giunto, dopo la tempesta della giovinezza o la precarietà sociale, alla sicurezza della maturità, della cultura e del censo.
Quando cominciai a scrivere il romanzo, il quadro si caricò di vari significati, fra cui questo.
Il viaggio del Ritratto d’ignoto, nel simbolico tracciato di un triangolo avente per vertici Messina, Lipari a Cefalù voleva dire: un’altissima espressione di cultura e di arte sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per il terremoto abbattutosi sulla città dello Stretto distruggendola, cacciata in quel cuore della natura qual è un’isola vulcanica come Lipari, scoperta da un uomo sapiente e appassionato come il barone di Mandralisca, viene infine salvata e riportata nella sicurezza di Cefalù, preambolo, porta del gran mondo palermitano. E non questo, tra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, passaggi perigliosi tra gli scogli di Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà? Tornava nel libro l’essermi trovato alla confluenza di due mondi siciliani, all’ incrocio della natura e della storia. E ho voluto rappresentare questo movimento, questo arrivare dal mare e approdare alla terra, dall’esistenza alla storia (c’è più volte nel romanzo l’arrivo in porto di un veliero).
Il movimento poi, verticalmente, dal basso verso l’alto, è simboleggiato dal carcere a forma di chiocciola, di spirale, dalle scritte che i carcerati hanno lasciato col carbone sulle pareti: in una progressiva e ascendente presa di coscienza sociale e politica.
Ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. «Questo libro è la storia di un parricidio» ha detto, riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra (mi pare che sia Sklovskij a dire che la storia della letteratura è una storia di parricidi). Lo sfregio è fatto da un personaggio, Catena Carnevale, che appare in limine, nell’Antefatto, ma che muove tutto il racconto, tutta l’azione. La ragazza, un’intellettuale, figlia dello speziale di Lipari, sfregia l’uomo del ritratto al quale perfettamente somiglia il fidanzato, Giovanni Interdonato, fuoruscito, clandestino per ragioni politiche, indignata perché la «rivoluzione» tarda a venire. All’uomo del ritratto somigliano anche il vescovo, il capo della polizia, lo stesso barone Mandrali-sca.. Non somigliano invece i cavatori di pomice o i contadini rivoltosi di Alcara. Il gioco delle somiglianze, circolare e chiuso, col ritratto vuol dire che dalla ragione si può uscire dall’ alto con il disordine e il furore della fantasia creatrice. La faccia contrapposta di Catena è quella dell’eremita allucinato, simbolo dell’uscita dal basso per disgregazione della ragione, per annientamento.
L’aspetto saliente del libro, da un punto di vista meno formale, è che per la prima volta viene scritto un romanzo storico il cui tema centrale è proprio la messa in questione della storia, la ricerca di una nuova scrittura della storia. E tutto ciò viene ottenuto mediante un montaggio fra i capitoli di invenzione, che pure parlano di personaggi storici, e i documenti posti in appendice, straniati dal contesto per creare un mutuo dialogo fra queste varie visioni del mon-do. Il che è anche un modo di dire che non esiste una storia, ma che le storie possono essere tante.
Anche la storiografia non ha più ormai da parecchio tempo la presunzione di descrivere fatti oggettivi, ma cerca di far interagire diverse prospettive nel tentativo di darne una ricostruzione attendibile. Eppure, nel libro, c’è una sorta di sfiducia nella possibilità di avvicinarsi al verosimile, se non al vero, anche attraverso questo metodo: alla fine si ricorre alla «tan-gente» utopica, all’affermazione della speranza che i protagonisti della storia, soprattutto quelli dei cet! subalterni, trovino da soli le parole per raccontarsi. C’è, perciò, una contraddizione tra il tentativo di altissima mediazione intellettuale e il ricorso alla speranza in una immediatezza espressiva, che appare come una caduta un po’ demagogica…
Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni «possano scrivere da sé la storia». Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica. A parte il fatto che gli acculturati quasi sempre fatalmente, passano dall’altra parte… Ma lasciamo andare questi discorsi pericolosi. Il punto è la responsabilità di chi ha il potere della scrittura (parliamo ancora dell’arcaica scrittura. Pensiamo alla pericolosità di chi ha oggi in mano il potere dei media, di giornali e della televisione). Dire che quelli che non hanno questo potere sono le vittime,sono quelli che più soffrono l’ingiustizia, può sembrare populista. Sì, questo è il rischio, ma io l’ho affrontato mettendo in scena nel romanzo mille dubbi.
Piazza Armerina il 5 giugno 1966
Il libro è scritto nella prima parte in forma parodistica, mimetica, sarcastica se si vuole, quindi in negativo: faccio il verso a un erudito dell’Ottocento recluso nella sua mania antiquaria, che scrive i suoi saggi scientifici, che si occupa di malacologia, una materia quanto mai curiosa, eccentrica. L’erudito cozza suo malgrado contro la storia e entra in crisi: si trova davanti a un massacro, ed essendo un uomo di coscienza, non cinico, perora la causa dei rivoltosi che stanno per essere condannati a morte, scrive lettere al presidente del tribunale, Giovanni Interdonato. Questo è un espediente per un cambio di persona o di voce. L’altro scarto o frattura totale arriva alla fine, con le scritte sul muro del carcere. Naturalmente, nel primo cambio di voce, la scrittura non è più parodistica, cambia segno, si fa positiva, di adesione dell’autore alla voce del personaggio (è il gioco ambiguo della letteratura). La struttura del romanzo è spezzata. Non ho voluto scrivere il romanzo storico di matrice ottocentesca, compiuto, rotondo, sapienziale o pedagogico, d’intrattenimento o di consolazione (avrei contraddetto i presupposti da cui ero partito). Ho fatto così vedere l’ordito che sta sotto l’invenzione letteraria, ho esibito, fra un episodio e un altro, dei documenti storici. Ho tolto insomma i colori all’affresco (e quello storico, per la distanza temporale, come dice Leopardi, è quanto mai seducente).
Finora abbiamo girato attorno ad un nome, tra quelli che è possibile intravedere dietro la sua scrittura, e che non è siciliano, ma milanese, e cioè Manzoni. Qual è il suo rapporto, se c’è, con Manzoni! Perché le parole che lei ha usato sono quasi una filigrana manzoniana: il palinsesto, l’erudito, l’ironia e insieme il rapporto-scontro tra la realtà dello scritto e quella della storia, e poi la storia intesa come problema, come dramma. Siamo d’accordo sul suo rapporto con i siciliani, e anche forse con Gadda e Pasolini, ma Manzoni come lo sente?
Si sa, Manzoni è il nome fondamentale sacramentale forse dovrei dire, della letteratura italiana moderna, del romanzo storico. E noi scrittori siciliani, «inclini» alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. Nell’adolescenza avevo letto altri autori, D’Azeglio, Guerrazzi, Grossi, il siciliano Luigi Natoli, i cui romanzi, privi di metafora, e di tante altre cose, erano solo delle ponderose e soporifere storie romanzate. La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile. Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi storici (ne sento sempre più la necessità). L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni venti, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi… Il sorriso e Nottetempo formano un dittico. Ho sottolineato questo legame fra loro non solo con il luogo dell’azione, Cefalù, ma anche con altri segni. Gli incipit dei due racconti cominciano con la congiunzione «e»; il primo si apre con un’aurora, col sorgere del sole; il secondo con un notturno, col sorgere della luna. Nel primo ho voluto insomma raccontare la nascita di un utopia politica, della speranza di un nuovo asseto sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la follia della storia, il dolore e la fuga. Il protagonista, Pietro Marano, fugge dalla Sicilia, dal caos, dal fascismo che arriva (fugge da Milano, da Palermo), da un tempo atroce e allarmante. Ho studiato gli anni venti, soprattutto in Sicilia, su libri, riviste, su un giornale che si stampava a Cefalù, «L’idea». Mi sono imbattuto, in quel paese, in personaggi veri, storici, interessanti, fra cui il mago satanista inglese Aleister Crowley, e li ho fatti muovere insieme a personaggi di invenzione, come sempre avviene nei romanzi storici. Del resto Manzoni nel suo famoso saggio sul romanzo storico chiarisce bene il concetto: sono i personaggi della storia che vanno insieme, camminano insieme ai personaggi di invenzione letteraria, e corrispondono e somigliano gli uni agli altri. Tutti devono avere la luce del loro tempo, e insieme devono riflettere il nostro.
Tornando al Sorriso dell’ignoto marinaio, questo ragionare da letterati sulla storia ha una precisa contestualizzazione, nel senso che avviene all’inizio degli anni settanta quando trova altri momenti di espressione letteraria, per esempio nel romanzo alla Morante. Naturalmente la storia di cui lei parla è qualcosa di più della storiografia, della storia quale disciplina, è una specie di controaltare denso e composito di quello che è il portato delle forme razionali della cultura, è la storia come rappresentazione complessiva che gli intellettuali danno di un mondo e dei suoi poteri. Qui forse c’è qualche punto di vicinanza con la Morante, nonostante le differenze che vi separano, e sarebbe interessante sentire da lei quale era il clima degli anni settanta rispetto a questo tema.
Ho trovato allora interessanti le teorie messe in campo dal Gruppo 47 tedesco, quello di Enzensberger, di Kluge, di altri. I tedeschi venivano da un’esperienza tremenda, quella del nazismo e dei campi di sterminio, e in Germania era in atto una sorta di rimozione di quella grande colpa che li schiacciava, che non li faceva vivere. Il Gruppo 47 voleva ostinatamente ricordare quello che era successo attraverso la storiografia, additare le colpe, parlarne, invece di seppellire tutto, nel tentativo di provocare una sorta di catarsi collettiva. Ci sono ad esempio due libri di Alexander Kluge, Descrizione di una battaglia e Biografie, di un realismo freddo, lucido, di puntigliosa scientifica documentazione che lasciano Senza fiato. Di quella logicità spietata che spesso hanno i tedeschi. Quegli scrittori per me (non ridano i germanisti) si possono dividere in pasticceri (Günther Grass, ad esempio, altri espressionisti) e in analisti. Kluge, Schmidt, Johnson, Enzensberger appartengono a questa seconda categoria. Quello della Morante non è un romanzo storico-metaforico, piuttosto è una rivisitazione della storia narrata attraverso una sotto-storia, quella dei vinti, degli umili. I capitoli si aprono con la storiografia ufficiale e quindi, in opposizione, l’autrice racconta la storia ignota degli innocenti, degli emarginati, delle vittime. La storia è mossa dalla pietà, dall’amore per gli umili, gli indifesi, per quelli che hanno pagato più di tutti per il fascismo e per la guerra. Ricordate il vecchio Brecht? «…Roma la grande / è piena d’archi di trionfo. Su chi / trionfarono i Cesari?… / Ogni dieci anni un grand’uomo. / Chi ne pagò le spese?…». Per me c’era l’esigenza della metafora, l’esigenza cioè di rappresentare gli anni settanta attraverso lo schema storico. Credo sempre più alla necessità e alla validità di quella scelta, della scelta cioè del romanzo storico, che vuol dire critico, vuol dire ideologico, per le ragioni cui sopra ho accennato, che sono interne alla letteratura, di ordine diciamo estetico, ma anche, soprattutto, per ragioni di ordine etico. Il più grande romanzo della civiltà occidentale, l’Odissea, è diviso in due parti: la Telemachia e l’Odisssea vera e propria. La prima è narrata in terza persona è quello il romanzo d’iniziazione, di formazione); la seconda parte è narrata in prima persona.
Il passaggio dalla terza alla prima persona, dal racconto oggettivo al soggettivo, avviene nella terra dei Feaci, quando il re Alcinoo invita l’ignoto naufrago a dire chi è e da dove viene. «Io sono il figlio di Laerte, Ulisse, / tra gli uomini famoso per le astuzie; / la mia gloria va fino al cielo. / Abito nella chiara Itaca…» risponde l’eroe (cito nella bella traduzione di Giovanna Bemporad). E comincia quindi un lungo flash back, un racconto quasi onirico, fantastico, che si svolge in mare, dal momento che le navi hanno doppiato il capo Malea, un racconto di mostri, giganti, sirene, maghe, maliarde, di oblii, metamorfosi, tempeste, perdite, follia e morte. Sembra, quello di Ulisse, un racconto di tipo psicoanalitico, in cui il narratore fa riemergere dalla profondità del mare o della sua coscienza tutti i mostri che si portava dentro, i mostri generati dai suoi rimorsi. Ulisse infatti era il più colpevole degli eroi greci, perché il più astuto e il più consapevole, il più umano (Agamennone pagherà con la morte e con la maledizione nella sua stirpe la grande colpa iniziale). Ulisse aveva inventato la macchina sleale, il cavallo di legno che aveva determinato La sconfitta dei Troiani, aveva seminato morte e distruzione. Ulisse dunque si porta dentro questa grande colpa e compie un viaggio di dolore e di espiazione. Finito il racconto in prima persona, soggettivo, riprende quello in terza persona. Ulisse raggiungerà, con la nave dei Feaci, Itaca, dove, per ritrovare l’armonia perduta, riprendere il suo posto familiare e sociale, dovrà combattere i nemici reali, i Proci. Ecco, credo che nel nostro tempo, i mostri individuali, del nostro subconscio, sono emersi dagli abissi, si sono oggettivizzati, sono diventati mostri reali. Dopo Hiroshima e Auschwitz, dopo Stalin e Sarajevo, dopo tutti gli orrori di oggi, quei mostri profetizzati da Kafka o da Musil, da Eliot, da Joyce o da Pirandello, sono diventati mostri della storia. Questi mostri credo che la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità.
Anche per questo, per questa sostanza metaforica, si è parlato, a proposito della sua prosa, di un carattere teatrale, che del resto appartiene molto anche alla tradizione siciliana. Retablo, il romanzo successivo al Sorriso dell’ignoto marinaio, è la dimostrazione lampante di questa dimensione teatrale della sua scrittura, della composizione per quadri, di una propensione a scomporre l’unità della scena.
Più che a quella teatrale, credo che appartenga alla tradizione della narrazione orale. La narrazione epica dell’antica Grecia era orale. Ma anche nella tradizione araba, passata poi in Sicilia, la narrazione era orale. Nei romanzi di Tahar Ben Jelloun, in Creatura di sabbia, Notte fatale e nell’ultimo, A occhi bassi, ci sono sempre personaggi che in traduzione vengono chiamati cantastorie ma che in effetti sono contastorie, narratori orali che narravano nelle piazze (ancora ci sono nella piazza Jama el Fna di Marrakesh), come in Sicilia, fino a pochi anni fa quelli che narravano dei Paladini di Francia. I poemi narrativi credo che siano nati così, dall’oralità, avevano bisogno di un ritmo, proprio per un fatto mnemonico. Nella tradizione araba c’è uno stile che si chiama makamet, che consiste in una sorta di prosa ritmica, nata per ragioni pedagogiche. Nella mia scrittura c’è uno slittare della prosa verso un ritmo poetico. Sento la necessità di far questo perché credo che la lingua della narrativa ha bisogno di «risacralizzarsi» (non solo, certo, attraverso l’espediente esterno del ritmo), di ritrovare dignità. La lingua oggi è talmente privata di identità, talmente appiattita, quotidianamente incenerita dai media, che è terribilmente difficile trovare una lingua per narrare. D’altra parte in Italia non c’è una grande tradizione di lingua narrativa. La nostra vera tradizione è quella dei poemi narrativi, popolari o aulici come l’Orlando furioso o la Gerusalemme liberata Gli scrittori italiani hanno dovuto sempre andare all’estero per poter scrivere in prosa, da Manzoni a Calvino, a Sciascia, mutuare cioè la loro dalla prosa francese o adottare una sorta di koiné funzionale di tipo transnazionale come Pirandello o Moravia. Penso che quando uno scrittore ha scoperto qualcosa di nuovo, di importante e ha urgenza di comunicarlo, allora la lingua diventa strumento del messaggio. Pirandello ha fatto questo, Svevo… Altrimenti, per rimanere nel campo letterario, si ha l’obbligo dello stile.
Volevo chiederle qualcosa proprio a proposito della lingua. Leggendo i suoi romanzi, ho sempre avuto la sensazione che si trattasse di un lingua quasi completamente inventata. Mi dicevo: adesso vado a vedere sul Devoto-Oli se esiste questa parola e sono quasi certa di non trovarla. Devo dire che non ho mai tentato questa ricerca, però mi piaceva molto quest’idea… e immagino anche che sia difficile per lei rispondere alla domanda che sto per farle perché è difficile razionalizzare il processo attraverso il quale nasce questa creazione, questa invenzione della lin-gua. Lei ha parlato di memoria storica, cioè della necessità per chi scrive, soprattutto per chi scrive romanzi storici, di fare una ricerca storica sull’ambien-te, il contesto, la situazione, i personaggi di cui si tratta; ha parlato anche di una memoria personale, di una lingua che evidentemente deriva da una formazione personale, familiare. Credo che per quanto la riguarda ci sia di mezzo anche il dialetto, il dialetto siciliano: ecco, l’alchimia di tutto questo come succede, come nasce?
No, le parole non si trovano nel Devoto-Oli né nel Fanfani o nel Tommaseo. Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. È quella particolarità storico-linguistica avvertita da Sciascia.
Questa cifra linguistica estrema mi ha accompagnato poi negli altri libri, nel Sorriso, in Lunaria… C’è un racconto ne Le pietre di Pantalica intitolato I linguaggi del bosco, in cui metto a fuoco proprio la mia «ideologia» linguistica. Quelle parole, irreperibili nei vocabolari italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo… Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati. Faccio qualche esempio. Nel Sorriso, di avvoltoi che si librano sopra cadaveri, dopo una strage, dico che stavano «arraggiati in cielo a volteggiare». Arraggiati voleva significare a forma di raggiera e insieme arrabbiati, famelici. In Nottetempo la sorella del protagonista, Lucia, ha un attacco di follia durante una gita a Bàida, un villaggio sopra Palermo. Bàida in arabo significa bianca, di bianco era vestita a sua volta la ragazza, cioè del colore-simbolo della follia. Superata la barriera sonora, quella sorta di ron ron ruffiano, credo che il lettore potrebbe essere stimolato a scoprire questi significati nascosti.
Vincenzo Consolo Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993
Il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la letteratura. H. M. Enzensberger, Letteratura come storiografia
La Sicilia e Milano Partiamo dalla fine: in una delle sue ultime dichiarazioni pubbliche, che ha suscitato particolare clamore, lei ha affermato di voler abbandonare Milano, dopo la vittoria elettorale della Lega Nord. Una rottura che segue un lungo amore: in effetti, Milano sembrava aver rimpiazzato, nella sua vita presente, la Sicilia da cui era andato via tanti anni fa. Cosa è successo? Che cosa si è spezzato, nel suo rapporto con Milano?
Voglio premettere, prima di rispondere alla domanda, che le interviste obbligano a mettere in campo continuamente un io che rischia di apparire ingombrante e irritante, se non ridicolo. Io non ho mai amato la prima persona (ecco che mentre affermo questo mi contraddico), ho sempre scritto, dopo il racconto d’esordio o di formazione, in terza persona. L’intervista, d’altra parte, mi dà l’occasione o offre il pretesto per riesumare personali ricordi, per estrinsecare pensieri e convinzioni. Credo che questo in qualche modo la giustifichi. La domanda parte dalla dichiarazione, in occasione delle elezioni amministrative del 20 giugno 1993, che, se avesse vinto la Lega Nord di Bossi, avrei abbandonato Milano. Rileggo qui, per una migliore comprensione di chi ascolta la mia dichiarazione apparsa su «I Messaggero», lo stesso giorno delle elezioni, col titolo un po’ melodrammatico Tu non mi avrai, città di leghisti. «Se nell’odierno secondo turno delle elezioni comunali dovesse vincere a Milano il candidato della Lega Nord Formentini, io mi sentirò costretto ad andarmene da questa città dove risiedo da venticinque anni, dove lavoro, dove, è naturale, ho intrecciato relazioni affettive, professionali, culturali. Mi sentirò costretto a sradicarmi da questa città, come venticinque anni fa m’ero sradicato dalla mia Sicilia, e a scegliere un’altra città, un’altra regione in cui andare a vivere e a lavorare. Me ne andrò da Milano, voglio chiarire, non in quanto meridionale che teme di essere minacciato, schiacciato nella sua identità culturale, nella sua collocazione sociale, nei suoi diritti civili da forze politiche al potere che trovano la loro genesi e la loro ideologia nell’esprimere bisogni e Istanze di popolazioni di una zona geografica – il Nord di questo Paese – ma in quanto cittadino di Milano, in quanto lavoratore, in quanto, è la parola che si usa – intellettuale. Me ne andrò, voglio chiarire, non in quanto militante dell’altro schieramento politico che aveva nel candidato Dalla Chiesa il suo rappresentante e che dalle elezioni uscirebbe sconfitto. Me ne andrò quindi non come un ghibellino cacciato dai guelfi vincitori (credo di avere abbastanza ironia per non vedermi tale). Mi rendo conto intanto che questa mia dichiarazione, che ho già fatto altrove, potrà apparire a chi legge, come è apparsa a Giorgio Bocca, insensata, carica di esibizionismo, di prevenzione e presunzione, inopportunamente provocatoria, ma credo che essa possa trovare una sua motivazione e legittimità nel fatto che altri intellettuali milanesi – editori, scritori giornalisti ben più autorevoli e famosi di me – hanno dichiarato la loro simpatia e adesione politica allo schieramento della Lega Nord e quindi, implicitamente, la loro soddisfazione e felicità nel trovarsi a vivere in una Milano amministrata da domani dai leghisti. Mi rendo conto che non c’è proporzione, non c’è confronto tra il risultato di una elezione che esprime convinzioni e volontà di migliaia e migliaia di cittadini e la parola e il gesto di un sin-golo, di un individuo politicamente insignificante, di uno scrittore isolato, e solitario, sciolto cioè da legami politici, quale io sono, quali credo dovrebbero essere gli scrittori: liberi da impegni partitici, ma legati da impegni ideali, morali, storici. Il probabile futuro sindaco di Milano, il Formentini, potrebbe, sarcasticamente, sferzatamente, pronunciare, calcolando diversità e distanza tra i personaggi in causa, parodiandola, la famosa frase che Togliatti indirizzò all’eretico Vittorini concludendo la polemica sul “Politecnico”: “Consolo se n’è juto e suli ci ha lasciati” Assai dubitando che Formentini, il quale dichiara di frequentare, nella raffinata collezione della Pléiade, classici come Flaubert, con lo stesso sussiego con cui un ricco dichiara di nutrirsi a caviale e champagne, abbia una qualche contezza di uno scrittore di estrazione meridionale, di stampo paesano, di tono dialettale quale io sono. E potrebbe ripetere Formentini quelle famose parole della canzonetta napoletana o dire altro di meno sarcastico ma di più diretto e violento, ricorrendo a quel linguaggio antieufemistico, esplicito, di aggressività metropolitana che i leghisti sanno usare. Non sono esperto di partiti, non studio i loro programmi, non conosco la morfologia e la sintassi della lingua politica della contingenza e della prassi, ma credo di conoscere la paratassi di una metalingua politica che parla non di Lega Nord o Lega Sud, ma di uomini in un contesto storico e civile, di qualsiasi città o regione, ricca o povera che sia, di una lingua che parla della loro dignità, dei loro diritti, parla di apertura verso i socialmente deboli, di giustizia, di solidarietà, di cultura, di libertà. So che questo Paese non si è unito perché un eroe di nome Garibaldi, sbarcando a Marsala, l’ha liberato da vecchi poteri fatiscenti e consegnato a una “borghese” monarchia come quella dei Savoia e a un economista accorto come Cavour, ma si è unito effettualmente nel 1945, dopo aver sofferto per un ventennio la dittatura fascista, aver subito morte e distruzione per una guerra folle, aver combattuto per riconquistare libertà e dignità. E dunque subito mi mette in sospetto un movimento politico di nome Lega Nord (come ieri in Sicilia mi metteva in sospetto il movimento indipendentista sostenuto dai ricchi agrari), che è nato in regioni opulente, privilegiate dalla politica di quasi cinquant’anni del governo, centrale, che, per risentimento verso quel governo, verso un regime politico che ha consegnato questo Paese alla mafia e alla corruzione politica, propugna una nazione di regioni confederate. In cui – mi sembra chiaro – quelle del Nord, separando da quello delle altre il proprio destino economico e politico, si possano agilmente spostare verso un cuore dell’Europa forte e chiusa dalle sue mura e dai suoi baluardi di fabbriche e di banche. E viene chiamato, questo progetto politico della Lega Nord, rivoluzione. Mi ricorda, questa rivoluzione, quella del Vespro siciliano – sì, abbiamo quasi sempre la tendenza, noi intellettuali siciliani, a misurare tutto con i nostri metri – spacciato dagli storici dell’Ottocento come rivoluzionario (ma gli storici, si sa, lavorano per il loro tempo) e scoperto nella sua realtà reazionaria da Benedetto Croce. “Il Vespro siciliano, che ingegni poco politici e molto rettorici esaltano ancora come grande avvenimento storico, laddove fu principio di molte sciagure e di nessuna grandezza”, scrive il filosofo nella sua Storia del Regno di Napoli. E quindi ancora Vittorini, che introduce la Storia del Vespro dell’Amari con un saggio dal titolo Di Vandea in Vandea: “Per questo il Vespro era vitale e ostinato; perché Vandea locale, nasceva concorde con la reazione ghibellina in tutta l’Italia…”. I nuovi movimenti, i nuovi partiti, Leghe o Reti o quant’altro, si muovono oggi, certo, su un campo di macerie. Ma come sempre sulle macerie, di terremoti o guerre o crolli di regimi, possono nascere nuove utopie, progetti di nuove società aperte e progressive. Ma possono anche nascere, per paura di perdere conquiste e privilegi, Vandee di reazione, di regressione». La domanda da voi posta, dicevo, parte dalla fine. E dunque sono costretto a fare un lungo flash-back, una lunga digressione, sono costretto a partire dall’inizio, a narrare di fatti ormai remoti (che sia questa la letteratura, la narrativa: una infinita digressione affabulante per sfuggire a una risposta logica e immediata?). A questo punto della mia vita sono costretto a fare un bilancio e devo concludere amaramente che sono stato fino adesso vittima di miti, e forse lo sarò ancora nei giorni che mi restano. Sono stato vittima del mito della realtà meridionale contadina, e successivamente del mito del Nord, di Milano, della realtà industriale. Ho compiuto gli studi universitari a Milano negli anni cinquanta abbandonando una Sicilia che conoscevo poco. Sono nato in un paese sulla costa settentrionale dell’Isola, alla confluenza delle province di Palermo e di Messina con alle spalle quella muraglia cinese che è la catena appenninica siciliana dei Nèbrodi, delle Madonie e dei Peloritani. Chi nasce in quella costa tende sempre a scivolare avanti e indietro, verso Palermo o verso Messina, e ignora la realtà che sta dietro quella barriera montuosa, la realtà della Sicilia interna; tende a prendere il treno, salire sul traghetto, attraversare lo Stretto e andare in Continente. C’è tutta una letteratura sul traghetto, sul traghetto che va e su quello che torna, da Verga a Vittorini, a Stefano D’Arrigo. Ho fatto gli studi a Milano, all’Università Cattolica e non per ragioni religiose o ideologiche (ero uscito dal liceo Valla di Barcellona di Sicilia, dove avevo conosciuto e frequentato Nino Pino Ballotta, professore di veterinaria, poeta e grande anarchico, con profonde convinzioni socialiste e libertarie), ma perché volevo conoscere il Nord e perché in quella Università c’era andato un anno prima un mio compaesano. Una mattina velata di nebbia del novembre del 1952 arrivai a Milano ed entrai nel convitto universitario Augustinianum di via Necchi, accanto a piazza Sant’Ambrogio. Il compaesano mi disse subito che dovevo «ruffianarmi» – disse proprio così – il direttore del convitto, don Mario Giavazzi. Lo stesso compaesano era indeciso se dopo la laurea entrare nella Polizia, fare il doganiere o darsi alla politica (che voleva dire far carriera nella Democrazia Cristiana). La Cattolica era allora frequentata dai figli della buona borghesia milanese e lombarda e da tutta una massa di meridionali, in gran parte mandati qui dai parroci e dai vescovi, spesso muniti di un certificato di povertà che permetteva loro di alloggiare gratuitamente nel convitto. Io non avevo il certificato, pagavo 20 mila lire al mese per la stanza-cella e per i pasti. Dal Meridione erano approdati alla Cattolica in quegli anni i due fratelli De Mita, Ciriaco e En-rico, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi e tanti altri che poi sarebbero entrati a far parte della classe dirigente italiana, del grande potere democristiano. Sprazzi di ricordi: padre Gemelli, il frate fondatore e rettore della Cattolica, con una grossa testa e gli occhi terribilmente saettanti, immobilizzato su una sedia a rotelle, spinto da un valletto per i corridoi e i bellissimi chiostri bramanteschi dell’Università, che incuteva soggezione e imponeva silenzio al suo passaggio agli studenti e soprattutto a quelle studentesse che per caso avevano dimenticato di indossare l’obbligatorio grembiule nero. Padre Gemelli si vantò una volta, durante una predica, di aver scoperto lo scultore Giacomo Manzù, al quale aveva commissionato, per la cappella dell’Università, per il collegio maschile e per quello femminile, un Cristo e dei santi dai piedi e dalle mani incredibilmente lunghi. Una volta, in occasione della Giornata dell’Università Cattolica, in cui si raccoglievano soldi in tutta Italia per l’ateneo, venne in visita il cardinale Schuster. Apparì, etereo e magico come una figura onirica, in piazza Sant’Ambrogio, scivolò leggero e benedicente, nelle pieghe della sua porpora, nel suo viso gotico e diafano ricamato di venuzze, nei suoi occhi cerulei, tra due ali di studenti plaudenti. Prima di varcare il portone d’ingresso dell’Università, si fermò, si volse verso noi giovani e disse, ispirato, convinto e convincente: «Cosa fate qui, cosa fate? Andate, andate per il mondo a convertire le genti!…». E venne pure un giorno all’Università, per una conferenza nell’aula magna, l’onorevole Oscar Luigi Scalfaro, fresco di scandalo per la scenata in un ristorante romano alla signora scollacciata. Ciriaco De Mita, ch’era allora già un capo, organizzò una protesta con gli studenti meridionali, connotati come «di sinistra». Nell’anfiteatro dell’aula, non appena Scalfaro cominciò a parlare, noi contestatori, a uno a uno, ci alzammo e platealmente uscimmo, passando sotto l’alta cattedra dell’oratore. Il quale, imperturbabile, continuò a parlare, con la sua bella dizione scandita, con le sue erre molli. Nella piazza Sant’ Ambrogio, oltre alla fabbrica in cotto con i due campanili della celebre basilica romanica (qui ho assistito una mattina, per caso, al matrimonio di Dario Fo e Franca Rame, allora poco noti: lui in tight, magro, con dentoni sporgenti, lei bionda e rosea come una bambola di lenci, il bel corpo fasciato in un abito bianco, la testa coperta da un romantico cappello a larghe tese), oltre alla basilica «là fuori di mano», c’era, in un grande fabbricato, un convento sette-centesco, il Centro Orientamento Immigrati. Era in atto in quegli anni la grande emigrazione italiana, il grande esodo dal Sud verso il Nord, verso il centro Europa. Gli emigranti venivano prelevati alla Stazione Centrale, caricati su appositi tram e scaricati in piazza Sant’ Ambrogio. Accolti nel Centro erano sottoposti a visita medica da parte di delegazioni straniere, francesi, svizzere, belghe (per gli emigranti che andavano in Germania il Centro di smistamento era a Verona). Al Centro di piazza Sant’ Ambrogio restavano tre o quattro giorni. Quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, a Milano venivano equipaggiati di casco, lanterna e mantellina cerata. I minatori siciliani passavano così dalle zolfatare del Nisseno o dell’Agrigentino, che allora chiudevano per la crisi dello zolfo, alle miniere del Belgio. E alcuni di loro avrebbero trovato lì la morte, nell’esplosione della miniera di Marcinelle. Il poeta dialettale Ignazio Buttitta avrebbe scritto un poema su quella tragedia, evocando uno di questi emigrati. «Turi Scordu, surfararu, / abitanti a Mazzarinu / cu lu trenu di lu suli / s’avvintura a lu distinu…». In piazza Sant’Ambrogio, accanto al Centro degli emigranti, c’era una caserma della Celere. A noi studentelli privilegiati poteva capitare d’incontrare in quella piazza o nelle latterie e trattorie delle vicine via Terraggio e via Nirone il compaesano che emigrava o quello in divisa da poliziotto, col manganello alla cintola (c’erano scioperi in quegli anni e la polizia del ministro Scelba caricava gli operai che protestavano). A me è capitato d’incontrare, vestito da poliziotto, Giacomino, uno che giocava con me al pallone all’oratorio. Non so se gli studenti meridionali che poi diventeranno potenti uomini politici, quelli che, dopo la laurea, venivano mandati da don Mario Giavazzi a Bologna, al Centro di studi sociali diretto da Dossetti, non so se hanno visto allora in piazza Sant’ Ambrogio gli emigranti e i poliziotti. Durante gli anni alla Cattolica avevo deciso di fare lo scrittore, di tornare in Sicilia a scrivere Volevo raccontare la realtà contadina siciliana, con una scrittura di tipo sociologico, di estrema comunicazione. Le mie letture erano allora soprattutto storico-politiche, di autori meridionali e meridionalisti. Carlo Levi del Cristo e de Le parole sono pietre mi sembrava lo scrittore esemplare, oltre ad altri scrittori di memorie e di testimonianza. Ma seguivo anche, con passione mista, devo dire, a senso di colpa, le vicende letterarie in Italia e all’estero. Ricordo che lessi, con un senso di trasgressione, di peccato, se pure per ragioni diverse, libri come La mia Africa della Blixen e come i due Tropici di Miller, pubblicati da Feltri-nelli, ma che non erano venduti in Italia. A me li acquistò un amico a Parigi. In Sicilia, nel 1958 mi misi a insegnare educazione civica e cultura generale nelle scuole agrarie. Andavo in sperduti paesi di montagna, partendo in treno la mattina presto, passando poi su corriere, tornando la sera con mezzi di fortuna. Insegnai a Mistretta, a Caronia, grossi centri sopra i Nèbrodi che una volta erano vivi e fiorenti e che in quegli anni si andavano svuotando. I padri dei miei alunni erano emigrati, i figli avrebbero seguito la stessa sorte. A Caronia mi colpì il gran numero di suicidi che si verificarono nell’arco di un anno. Quando mi accinsi a scrivere il primo libro, le intenzioni e le convinzioni andarono da una parte e l’istinto o la passione mi portarono da un’altra. Il racconto non era di tipo realistico-testi-moniale, ma memoriale e metaforico, la scrittura non era di tipo logico, referenziale, ma fortemente trasgressiva ed espressiva. Il libro è La ferita dell’aprile, pubblicata nel 1963 nella collana «Il Tornasole» di Gallo e Sereni, che è un libro straordinariamente nuovo, un’assoluta novità rispetto al realismo sociale. Non so se a quell’epoca aveva già letto Gadda o meno, ma la prosa che ne viene fuori è sicuramente di tipo espressionista.
Avevo letto Gadda, avevo letto le sperimentazioni pasoliniane di Ragazzi di vita e di Una vita violenta. In letteratura non si è innocenti.
Non credo nell’innocenza in arte. Bisogna avere consapevolezza di quello che è avvenuto prima di noi e intorno a noi, bisogna sapere da dove si parte e dove si vuole andare. Ritenevo che fosse conclusa la stagione del cosiddetto neorealismo e avevo l’ambizione di andare un po’ oltre quell’esperienza. Mi sono trovato così fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria, una vera spinta oppositiva, la consapevolezza che le cancellazioni, gli azzeramenti avanguardistici, la loro impraticabilità linguistica, che si può rovesciare nel conservatorismo più bieco, sono speculari alla impraticabilità linguistica o all’afasia del potere. La nuova lingua italiana, tecnolo-gico-aziendale-democristiana era uguale a quella del Gruppo 63. Nel solco della sperimentazione linguistica di Gadda e Pasolini dicevo. Senza dimenticare il solco per me più congeniale di Verga. La mia sperimentazione però non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettal-gergale di Pasolini o la deflagrazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico e una «plurivocità», come poi l’avrebbe chiamata Cesare Segre, che mi permettevano di non adottare un codice linguistico imposto. Tutto questo m’era permesso dall’argomento del racconto: corale, di personaggi adolescenti (l’adolescenza è la stagione trasgressiva ed inventiva per eccellenza).
Queste ascendenze di tipo culturale (Pasolini, Gadda) hanno avuto qualche mediazione di tipo scolastico, universitario? C’è stato qualche studioso che l’ha indirizzato in questa direzione? Come è arrivato alla letteratura? Che importanza hanno avuto nella sua formazione due scrittori siciliani come Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo?
Nessun maestro, nessun professore. Quella di scrivere è stata una scelta solitaria. Solitaria e avventurosa era del resto allora la scelta di scrivere, era il mallarmeano «coup de dés». Oggi credo che ci sia meno azzardo. Gli scrittori oggi vengono allevati in serra, nascono e crescono nel terreno dell’Azienda, dell’Accademia, del Salotto, del clan, della confraternita, sono curati e assistiti fin dalla nascita, sono docili e bravi, non si sorprendono e non danno sorprese.
A Milano avevo visto una volta sola Vittorini, avevo conosciuto Vittorio Sereni. La comunicazione avveniva attraverso le riviste e soprattutto attraverso le collane letterarie. Allora gli editori avevano collane di ricerca letteraria che non erano indirizzate al profitto. Mi riferisco ad esempio alla einaudiana Gettoni di Vittorini e alla mondadoriana Tornasole di Sereni e Gallo. Credo che quel lavoro di ricerca lo svolgano oggi le piccole case editrici. In Sicilia cercai di mettermi in contatto con persone che parlassero la mia stessa lingua, che avessero i miei stessi interessi.
(Un poeta, mio amico, Basilio Reale, col quale m’ero confrontato e insieme al quale avevo mosso i primi passi, era rimasto a Milano). Presi a frequentare Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.
Il primo, di Capo d’Orlando, un paese a pochi chilometri dal mio, lo conoscevo fin da ragazzino. Era un barone, per me inavvicinabile. Ma un giorno lo incontrai per caso in una tipografia dove era andato per farsi stampare le poesie, mandate poi a Montale, che gli valsero il premio San Pellegrino e che lo fecero conoscere nel mondo letterario.
L’anno scorso, a Natale, ho avuto in regalo quel prezioso e ormai introvabile libretto, dal titolo 9 liriche, dal figlio del signor Zuccarello, il proprietario della tipografia Progresso di Sant’Agata di Militello. Frequentai assiduamente Piccolo, questo grande poeta di sconfinata cultura, cugino e antagonista di Tomasi di Lampedusa. Fu lui a insegnarmi la vera letteratura, la poesia e, insieme, a farmi amare certi libri di erudizione provinciale, ottocentesca, storie, guide, cataloghi, «pieni di insospettabile poesia» diceva, che furono miniere lessicali per me.
Ma presto non mi bastò più il solo mondo piccoliano: il fantastico, l’onirico, l’esoterico, 1l senso panico della natura, quello visionario, magico della vita, la poesia lirica, barocca, tesa e accesa fino alla preghiera, al rapimento estatico.
Cercavo, per arginare e contrastare quella malia, una scansione prosastica, razionale, una dimensione storica, critica, civile.
La trovai nel cuore più caotico e tenebroso di Sicilia, nel regno delle divinità ctonie, nell’inferno dell’aridità e dello zolfo. Lo trovai a Caltanissetta, in Leonardo Sciascia.
Avevo scoperto questo scrittore sin dai suoi primi libri: Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia, Morte dell’inquisitore, Il Consiglio d’Egitto. Quella sua prosa cristallina e tagliente, di stampo agrigentino, di vibrazione francese e insieme di corposità spagnola, mi sembrò che per la prima volta nella letteratura siciliana, chiusa tra la poematica dialettale stagnazione verghiana e la vittoriniana stilizzazione tosco-americana (certo, bisogna considerare le eccezioni di De Roberto, di Pirandello, di Borgese eccezioni dati e quindi di Lampedusa, ma apriremmo qui un lunghissimo capitolo), mi sembrò, dicevo, che spalancasse un balcone da cui irrompeva luce e ossigeno.
Non conoscevo personalmente Sciascia e non osavo scrivergli. Lo feci soltanto quando pubblicai il mio primo libro e glielo mandai con una lettera in cui gli dichiaravo la mia riconoscenza per quello che mi aveva insegnato. Mi rispose: «Caro Consolo, proprio il giorno in cui ho trovato qui la sua lettera, e il libro, a Palermo avevo infruttuosamente cercato La ferita dell’aprile, di cui avevo letto recensione su “Paese
sera”
…». E alla fine aggiungeva: «Mi piacerebbe sapere quali sono i luoghi del suo racconto: per documentarmi su quelle particolarità storico-linguistiche che insorgono nel libro, e che hanno, a me pare, peculiare carattere». Dopo altri scambi di lettere e dopo un invito, andai a Caltanissetta a trovare Sciascia. Non ci andavo dagli anni della mia infanzia.
Era il settembre del ’43 quando feci il mio primo viaggio in Sicilia. Dico viaggio in Sicilia come se mi fossi mosso da un’altra terra, da una qualche regione al di là dello Stretto o al di là del Faro, come si diceva una volta. E in effetti era, la zona da cui partivo, il Val Dèmone, la Sicilia ai piedi dei Nèbrodi, tutt’affatto diversa dall’altra, sconosciuta, che si svolgeva al di là dei monti; la Sicilia delle vaste terre, del latifondo, dei grandi altipiani, della nudità e della scabrosità, delle solitarie masserie, dei paesi fittamente aggrumati sulle alture, dei cieli bassi, infiniti. Su un camion sgangherato, mio padre ed io percorremmo strade dissestate dalla guerra (l’occupazione degli Alleati s’era conclusa a Messina verso la metà dell’agosto appena scorso), strade che si interrompevano sopra i torrenti e le fiumare dove i ponti erano stati fatti saltare (bisognava proseguire per alvei pietrosi e polverosi o sopra traballanti ponticelli di legno), strade con ancora ai margini carcasse di carri armati, di camion, di cannoni, d’altri ordigni: i segni della guerra erano ancora là, in quei simulacri squarciati e affumicati dei giorni bui e tremendi della storia. La nostra meta era l’interno dell’Isola, alla ricerca di frumento, di fave, di lenticchie, di cicerchie, che da noi, terra di agrumi e di olive, mancavano del tutto.
Per quelle terre assolate e desolate, s’incontrava ogni tanto un contadino che con un cenno della mano ci invitava a fermarci per offrire, a noi viandanti, grappoli d’uva. Era ancora, quella, l’antica Sicilia contadina che neanche l’uragano della guerra era riuscito a cancellare.
Lasciato il bosco della Miraglia, per Troina, Nicosia e Leonforte, dopo Vallelunga, Villalba e Mussomeli, arrivammo un tardo pomeriggio a Caltanissetta. Nella piazza Garibaldi, affollata di gente, contadini, zolfatari (forse la piazza dove, nell’alba silenziosa, alla partenza della corriera, si diffondeva la voce «implorante e ironica» del venditore di panelle de Il giorno della civetta), un uomo vendeva un giornale. «La forbice, La forbice!» strillonava l’uomo. Nella mia scienza di diligente scolaro di terza elementare, stigmatizzai dentro di me quel nome di giornale al singolare, non sospettandone l’allusione: Forbice come discussione critica, come fronda sui e ai fatti pubblici, i fatti nati nello spazio breve di quella piazza, tra la Cattedrale e il Municipio, e che riguardavano tutta la comunità. Una conversazione pubblica e democratica subito ripresa dopo il periodo fascista e l’interruzione della guerra. Vent’anni dopo compivo il secondo viaggio a Caltanissetta, in un giorno di luglio del 64. Da Termini Imerese la littorina s’inoltrava in mezzo a un deserto di stoppie, di rocce, di colline nude e vaporanti, sostava davanti a stazioncine solitarie che portavano nomi di paesi invisibili – Roccapalumba, Fontanamurata, Marianopoli, Xirbi… -, dove c’era un solo ferroviere che agitava la sua paletta. Caltanissetta sembrava costruita sulle pareti d’una miniera o di una cava, una sorta d’infernale imbuto dantesco. Era una città priva di monumenti, di bellezze, se si fa eccezione di due chiese barocche e d’un massiccio seicentesco palazzo Moncada. I fumi delle numerose zolfatare vicine, spinti dal vento sulla città, ingrigivano pietre e piante, scolorivano finanche gli abiti delle donne. Eppure Caltanissetta è stata da sempre la città degli zolfatari più consapevoli della loro condizione di operai e più combattivi, degli intellettuali, degli ingegni più vivaci dell’Isola. A Caltanissetta s’era rifugiato, lasciando Roma, Vitaliano Brancati. A Caltanissetta, durante la guerra, era giunto in treno, la valigia piena di stampa clandestina, Elio Vittorini. Viene prelevato alla stazione da un compagno operaio che lo porta a casa sua e gli fa mangiare, alle quattro del mattino, un fumante piatto di spaghetti. A me sembrò, quella città, a confronto con la quieta zona del Messinese, col mio sonnolento paese, una piccola Atene. Attorno a Sciascia ruotavano poeti, pittori, saggisti, narratori, l’omonimo editore Salvatore Sciascia, per il quale Leonardo dirigeva una bella rivista letteraria, Galleria, e una collana di poesia. In questo sperduto centro zolfifero siciliano, in quegli anni pubblicavano i loro versi poeti che si chiamavano Paso-lini, Roversi, Romano, Caproni, Leonetti, Bevilacqua, Bodini, Fortini, Compagnone… A me sembrò, Sciascia, un uomo che corrispondeva perfettamente al grande scrittore che era. Quella sua parca misura di gesti e di parole, quel suo controllato ma intenso disporsi verso gli altri, quella sua serena dimensione familiare – la moglie, le due figlie, quel suo modesto appartamento di maestro, nel girone alto della città, in via del Redentore – mi sembrarono, nella Sicilia turbinosa, vociante, istintiva e spesso isterica, un approdo, un’oasi di ragione e d’armonia. Ma si capiva, nella vigile attenzione verso il mondo, nello sguardo acuto sugli uomini e le cose, che per lo scrittore quell’isola era una conquista, un approdo di salvezza dopo essersi lasciato alle spalle la tempesta. Quale? La Sicilia, certo. La Sicilia della piazza, ma anche la Sicilia della casa. Intuì forse che io, immerso nella tempesta, non avevo trovato ancora rifugio, terra d’approdo; che forse mai, leggendo quelle mie pagine di scrittura torbida ed espressiva, l’avrei trovata; che forse il mio destino, sulla pagina, nella vita, sarebbe stato quello della latitanza, della continua fuga dal marasma: della fuga dall’Etna. La conversazione tra me e Sciascia s’interruppe solo con la morte nell’89 dello scrittore. Parlavamo di politica, di storia, di letteratura, del destino della Sicilia, del malaffare politico e della mafia. Questo uno dei ricordi più belli, che riprendo da Le pietre di Pantalica: «L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una domenica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano. Sciascia arrivò da Caltanissetta al mio paese e insieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”. “C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone». Sciascia era rimasto affascinato da quel poeta, da quel gran personaggio che era Piccolo. Erano, i due scrittori, quanto di più diverso, di più lontano si potesse immaginare, eppure nutrivano, l’uno per l’altro, stima e ammirazione. Sciascia scrisse sul poeta delle pagine dal titolo Le soledades di Lucio Piccolo, incluse ora in La corda pazza. Intanto, il mondo contadino che avevo pensato di raccontare continuava a dileguarsi, a sparirmi sotto gli occhi. La scuola in cui insegnavo, in cui gli alunni, una volta diplomati in agraria, sarebbero stati costretti ad emigrare e a trasformarsi in operai, a Torino, a Sesto San Giovanni, in Svizzera o in Germania, mi sembrava una finzione, un’impostura. La Sicilia era ormai chiusa nelle strettissime maglie d’un potere mafioso, criminale. L’alternativa per me era quella di consegnarmi nelle mani di quel potere, farmi complice, accettando un qualsiasi incarico di tipo culturale, dei suoi furti e dei suoi assassinii, oppure fare le valigie, salire sul Treno del sole e emigrare. Decisi di partire. «Vai , mi disse Sciascia, «vai. Qui non c’è, niente da fare. Fossi più giovane, senza famiglia partirei anch’io. C’era anche la sollecitazione di una rivista letteraria come Il menabò, diretta da Vittorini e Calvino, che dibatteva sul rapporto tra industria e letteratura, a conoscere la nuova realtà industriale italiana, la nuova realtà sociale delle grandi città del Nord, in seguito all’immigrazione meridionale, a rappresentarla; e l’invito anche, da altra parte, agli scrittori a lasciare le vecchie professioni cosiddette liberali ed entrare nell’industria: era nato insomma il mito industriale, della fabbrica a misura d’uomo come l’Olivetti di Adriano.
Rimaniamo per un momento a Sciascia e Piccolo. Una sua peculiarità è quella di avere individuato in questi due scrittori quasi due archetipi della condizione siciliana: quella di Piccolo è una condizione lirica, legata alla società agraria; quella di Sciascia, anche per filiazione da Pirandello, è piuttosto legata a una realtà siciliana paesana e cittadina, si potrebbe quasi dire operaia. Come si sono composte, o incrociate, o sovrapposte nella sua esperienza letteraria queste due sensibilità?
Lo stare a metà, al confine o alla confluenza dei due mondi, la Sicilia orientale e quella occidentale, era per me rischioso. In quella quiete o idillio in cui mi trovavo, in cui i segni della storia S’erano fatti labili, sfuggenti, e quelli della natura benigni, materni, il rischio era di scivolare nel sonno o nella malinconia, perdermi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti. Dalla mia Finisterre potevo muovere verso il centro del caos, verso il Vulcano, o verso lo iato dello Stretto, verso le fate morgane e i terremoti; o muovere verso l’occidente dei segni della storia profondi e affollati. I due mondi avevano generato due letterature differenti: mitica, affabulante, lirica, fortemente segnata dalla forma l’una; l’altra, storicistica, civile, logica, dialettica, fino al sofisma pirandelliano e alla requisitoria sciasciana. Sì, Piccolo e Sciascia erano per me gli archetipi di quei due mondi.
Capii che quella mia rischiosa marginalità, quella mia incerta posizione poteva diventare punto di partenza nella costruzione di una identità. La quale poteva consistere nel far da ponte di passaggio fra quei due mondi, di composizione di quei due opposti. Poteva, quella identità, consistere in un movimento continuo dalla natura alla cultura, dal mito alla storia, dalla fantasia alla ragione, dalla poesia alla prosa. E mi sembrò poi questo movimento, questo partire ogni volta da lontano, dal profondo, e approdare al presente, alla superficie, l’essenza della narrativa: un ibrido, un incrocio di comunicazione ed espressione, di logico e di magico.
La novità più significativa del suo primo libro, La ferita dell’aprile, sta forse nella prosa: una prose che le permetteva di afferrare le cose, oltre che le parole, diversamente dallo sperimentalismo di Gadda e Pasolini. Vi è per esempio una corposa presenza, che ritornerà poi anche nel Sorriso dell’ignoto marinaio e soprattutto ne Le pietre di Pantalica, degli oggetti della tradizione contadina e popolare. Che cosa vuol dire l’evocazione di questa memoria della civiltà materiale?
Mi sono trovato, dicevo, nella dimensione spaziale, in una situazione di confine, di passaggio; nella dimensione temporale, in un momento di profonda trasformazione, di radicale cambia-mento: della fine del mondo contadino e della nascita di un altro mondo, di un’altra civiltà («Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione: stiamo calmi, pazienza…» ho scritto da qualche parte). Parlo degli anni a cavallo tra il ’50 e ’70. C’era stato il grande esodo verso il Nord, i contadini avevano buttato via i loro oggetti, le loro memorie e quindi avevano abdicato alla loro identità per potersi inserire nella civiltà urbana e industriale. Vittorini, proclamando diffidenza, giustamente, verso i dialetti, e soprattutto verso quelli meridionali, portatori di rassegnazione e conservazione, invitava linguisti e scrittori a studiare le nuove koiné, i nuovi linguaggi che si sarebbero formati dall’incontro dei dialetti meridionali con quelli settentrionali. Nessuna nuova koiné è sorta, lo sappiamo, ma una superkoiné, una sopra-lingua, un nuovo italiano generato dal nuovo assetto economico e sociale e imposto dai media, quell’italiano tecnologico-aziendale che ha studiato e illustrato Pasolini nel 1964 in Nuove questioni linguistiche (ora in Empirismo eretico). Trovandomi dunque nel momento del grande passaggio, ho sentito la necessità di conservare la memoria di quel mondo finito, trapassato. Questa credo che sia la funzione della letteratura, quella di memorare. E una lotta, quella della letteratura, contro il potere, che cerca sempre di cancellare la nostra memoria per non farci avere consapevolezza del presente e non farci immaginare il futuro. Il nome del primo narratore della nostra civiltà, di Omero, significa ostaggio: di chi, di che cosa? Della memoria, della tradizione. Non si può scrivere sulla frattura, sulla cancellazione, sul vuoto. Da qui nasce forse la mia necessità di riesumare un certo patrimonio lessicale, di nominare gli oggetti, di evocare personaggi emblematici di quel mondo scomparso. Il poeta-etnologo Antonino Uccello è il personaggio centrale e simbolico de Le pietre di Pantalica. L’uomo che materialmente (e l’avverbio qui prende una doppia significazione) ha fatto – raccogliendo gli oggetti buttati via dai contadini, custodendoli in un museo, il museo della memoria – ciò che dovrebbe fare sulla pagina lo scrittore.
Questo è un fatto di grande drammaticità, su cui forse non abbiamo riflettuto abbastanza…
Neanche la sociologia se ne è occupata abbastanza. In Europa, nessun paese come l’Italia ha subito un cambiamento così radicale e repentino, con le tremende conseguenze: culturali, linguistiche, politiche, etiche… Conseguenze che ancora oggi paghiamo.
Ad un certo punto della sua biografia sembra che avvenga una rottura rispetto a questo mondo siciliano, di cui ci ha tracciato fin qui tutte le coordinate, sia dal punto di vista letterario, che da quello sociologico: è il momento dell’emigrazione a Milano nel 1968, data cruciale che cambia le cose al punto da portarla a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio, un romanzo che sembra una dichiarazione d’amore finale, ma anche una presa d’atto rassegnata della fine irreversibile di un mondo. Vincenzo Consolo a Sant’Agata Militello, 1967- piazza Duomo.
Sì. Come ho raccontato prima, quando ho visto che quel mondo che volevo rappresentare era finito, che dal punto di vista politico in Sicilia non c’era più speranza, ho fatto la valigia e sono ripartito per Milano, per quella Milano che avevo lasciato poco più di una decina d’anni prima. Voglio qui ricordare un episodio significativo del clima politico che s’era instaurato in Sicilia, e non solo lì. Nel marzo del ’66, a Tusa, un paese sopra i Nèbrodi, dalla mafia dei pascoli, comandata da maggiorenti democristiani, viene ucciso un sindacalista, Carmine Battaglia (ho scritto poi su «L’Ora» di Palermo un racconto dal titolo Per un po’ d’erba al limite del fendo). Vado al funerale. Arriva, con una macchina di rappresentanza, con autista e segretario, un assessore socialista appena entrato nel governo regionale di centrosinistra, scende, va incontro deciso al gruppo dei comunisti che aspettavano con le loro bandiere di mettersi in corteo, e dice, minaccioso: «Non facciamo scherzi. Il morto è nostro!». No, non c’era più speranza.
Una curiosità, a questo punto: lei parla sempre del potere, però non esprime mai critiche nei confronti delle forze di sinistra…
Se per forze di sinistra intendiamo il partito comunista, sì, gli si possono fare infinite critiche. Ma mi sovviene d’una frase di Brancati che Moravia amava citare: «In Sicilia, per essere almeno liberali bisogna essere comunisti». Frase che può sembrare paradossale, ma in Sicilia i paradossi sono di casa. L’unica speranza laggiù era dunque il partito comunista, con tutte le sue ipoteche, con tutti i suoi errori. Prima di emigrare a mia volta, andavo spesso alla stazione ferroviaria del mio paese a vedere quei treni, provenienti da Palermo e diretti in Continente, che venivano letteralmente assaliti – scene tremende – dagli emigranti che lì convergevano dai paesi dell’entroterra. Una volta una donna, con tutte le sue valigie e i suoi fagotti, disperata, si mise a insultare la sua terra, come se fosse stata una persona: «Porca Sicilia, puttana Sicilia!» urlava. C’era quel giorno alla stazione un deputato regionale del Pci, un intellettuale, uno ché poi a Roma avrebbe diretto la rivista Critica marxista. Lo affronto e gli chiedo: «Cosa avete fatto voi per evitare tutto questo?!». Mi risponde qualcosa che non sento neanche. Che risposta poteva mai darmi? Gli giro le spalle e vado via. I comunisti, certo, di fronte alla decisione del governo credo che abbiano potuto far poco; spero che non siano stati d’accordo nella decisione di spostamento o deportazione di braccia da lavoro dal Sud al Nord. Ma forse l’hanno voluto anche loro. C’era, anche nei marxisti, la mitologia operaia e operaista. Voglio comunque ribadire che il comunismo e il socialismo erano in Sicilia una grande speranza, l’unica speranza.
Era una speranza rivolta soprattutto alla Sicilia agraria, o c’era anche altro?
Lo scontro tra contadini e agrari o fra contadini e potere politico espresso dagli agrari si giocava sulla riforma agraria, sullo scorporo dei feudi, sull’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate, e aveva radici lontane: nei Fasci socialisti.
Ci furono morti nel 1893-94, nel 19-20, negli anni 43-50. Quando infine la riforma agraria si attuò, non aveva più senso: l’economia agricola stava cominciando a morire e, in più, ai contadini erano state assegnate pietraie o terre irraggiungibili, impraticabili, prive d’acqua. Quella democristiana fu uguale alla riforma agraria attuata nel ’39 dal fascismo, passata guerrescamente sotto il nome di «Assalto al latifondo»: una burla, una beffa. Credo che il partito comunista abbia potuto far poco in tutto questo. Credo che le decisioni siano state prese fuori d’Italia, a Bruxelles.
A riguardo però bisogna anche considerare alcuni meccanismi economici «spontanei». C’era un problema, stando ai parametri delle agricolture occidentali più progredite: c’era una forte sovrappopolazione, un carico eccessivo di braccia sulla terra. Naturalmente con un altro governo il processo poteva essere fisiologicamente regolato; così non avvenne, e ci fu invece l’esodo più drammatico…
Certo, arrestare la storia non si può. Se l’agricoltura a un certo punto non ha più funzione… Ma da questo a far diventare le regioni meridionali terre di conquista e di rapina… In Sicilia sono arrivati i petrolieri del Nord ad impiantare le loro raffinerie ad Augusta, a Melilli, a Priolo, a Gela, a Milazzo (qui, ancora nel giugno del ’93, sette uomini morivano carbonizzati per lo scoppio di una caldaia), rastrellando sovvenzioni dallo stato, dalla regione, sconvolgendo il paesaggio fisico e quello umano. Hanno deturpato e degradato città come Augusta (in mezzo ai tralicci e alle miriadi di ciminiere di fuochi e di fumi vi sono le antiche rovine di Tapsos e di Megara Iblea, dove arrivarono i primi coloni greci), come Siracusa, che sono patrimoni culturali che appartengono a tutti; hanno fatto diventare orrendi inferni, paesi da Far West, giungle di degrado e di violenza cittadine come Gela o Licata. Quel mito industriale si è rivelato appunto un’illusione (anche Vittorini ha creduto in quel mito scrivendo quel romanzo, uscito postumo, dal titolo Le città del mondo): i frutti che si sono raccolti sono stati ben miseri e sono stati pagati a caro prezzo, in sconvolgimenti e in veleni (a Melilli le donne partorivano bambini deformi). La gente in quei paesi ha continuato ad emigrare e i tecnici arrivavano lì dal Nord, rimanendo, con le loro famiglie, separate dal resto della popolazione, come i tecnici americani nel Kuwait.
Sono i temi di un saggio di Enzensberger che a lei piace spesso citare e che ha un titolo programmatico: Letteratura come storiografia: da una parte una pratica accademica della storia, tesa a trovare una ragione «oggettiva» dei fenomeni; e dall’altra parte la letteratura, che cerca di trovare le ragioni individuali, di compiere una descrizione particolare, specifica di quello che accade, una descrizione, soprattutto, filtrata dalla coscienza dei singoli individui. Ma torniamo a Milano, al 68 a Milano.
Ritorno a Milano. Non è stato facile. Avevo trentacinque anni e andavo incontro a una nuova avventura. L’emigrazione poi è una tale violenza: verso il proprio ambiente, gli amici, i parenti, se stessi. Ho viaggiato la notte di San Silvestro del 67. Nei pressi di Salerno, ho dovuto trattenere, afferrandolo per la giacca, un uomo completamente sbronzo che voleva scendere dal treno in corsa. Il giorno di Capodanno del 68 sono arrivato in una Milano fredda, piena di neve. L’indomani mi sarei dovuto presentare al posto di lavoro, alla Rai. Che mi si rivelò subito, come e più di qualsiasi ente pubblico siciliano, completamente ipotecata dal potere politico, dalla mafia partitica (dall’Opus Dei, ai fascisti, ai democristiani, ai socialisti, ai comunisti). Era il regno dell’ignoranza, dell’impostura, della stupidità. Mi ci trovai subito male, naturalmente, e l’azienda si trovò male con me. Subito mi emarginò, cercò in tutti i modi di farmi fuori, di licenziarmi: non avevo un partito dietro, ero senza tessera. Mi vergognavo di lavorare alla Rai, la consideravo nefasta come una fabbrica di armi. Così dicevo: «Lavoro in una fabbrica di armi» a chi mi chiedeva.
Un principe siciliano, nella sua bella casa di corso Magenta, mi diceva che qualche anno prima di me era arrivato a Milano con trecentomila lire in tasca. Io ne avevo cinquecentomila di lire in tasca, ma non avevo certo le sicurezze del principe, non avevo il palazzo a Palermo e la villa settecentesca a Bagheria. Quei soldi erano tutto il mio patrimonio, quanto ero riuscito a risparmiare negli anni d’insegnamento. Ero comunque sempre con la valigia sotto il letto, subito a tornare indietro. Per fortuna conobbi subito la donna che poi diventò mia moglie, che era ricca di concretezza, e di ottimismo. Era poi una delle cinque o sei persone che avevano letto il mio primo libro, che l’editore s’era affrettato a mandare al macero. Dal 68 al ’76 subii una sorta di blocco, non riuscii a scrivere, mi resi conto che non avrei mai potuto raccontare in forma letteraria la realtà milanese: mi mancava la memoria del mondo industriale, mi mancava il linguaggio. A Milano mi si presentò subito una realtà sociale in conflitto, drammatica. Quindici giorni dopo il mio arrivo, avvenne il terremoto nella valle del Belice. Avevo fatto, l’estate prima, un giro per quei bellissimi paesi che non conoscevo: Partanna, Santa Ninfa, Gibellina, Montevago, Santa Margherita Belice… Il cuore d’un antico mondo contadino. Mi sembrò quindi quel viaggio come una sorta di ricognizione di congedo, da quei paesi materialmente cancellati dal disastro naturale, dalla Sicilia che sarebbe stata cancellata in altro modo. Andai alla Stazione Centrale con un fotografo siciliano a vedere gli scampati che arrivavano, che dovevano raggiungere parenti nell’hinterland milanese. Giornalisti radiotelevisivi, con la Promessa di accompagnarli in macchina nei vari Paesi, carpivano frasi, singhiozzi, lacrime e poi li abbandonavano lì nei sotterranei d’accoglienza della stazione. Spaesamento e blocco, dicevo, a Milano. Riuscivo soltanto a scrivere sui giornali, a raccontare quello che accadeva su «L’Ora» di Palermo, in una rubrica settimanale che si chiamava pateticamente Fuori casa (ma Fuori di casa era pure il titolo d’una raccolta di corrispondenza dall’estero di Montale), e su Il Tempo illustrato, un settimanale dove allora scrivevano, tra gli altri, Pasolini, Bocca, padre Davide Maria Turoldo. Ho pubblicato varie inchieste su quel giornale, ne ricordo una sulle cave di pomice dell’isola di Lipari. Erano cave di proprietà di Sindona. Forse da lì mi venne l’idea del secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nel vedere quei cavatori di pomice ammalati di silicosi muoversi fra i cunicoli della montagna bianca e abbagliante, in una dimensione di condanna metafisica; e anche, forse, da altre cose che m’ero portato dentro dalla Sicilia: la memoria di un paese come Cefalù, il Ritratto d’ignoto di Antonello che avevo visto al museo. Capii insomma che per poter raccontare Milano, il momento storico che stavamo vivendo, sarei dovuto ripartire dalla Sicilia, dalla mia memoria, dal mio linguaggio. Potevo raccontare in modo metaforico, ricorrendo al romanzo storico. Per questo sono riandato indietro nel tempo, arrivando a un topos storico frequentato da quasi tutta la letteratura siciliana, da Verga a De Roberto, a Pirandello, a Sciascia, a Lampedusa: il 1860. Si parte sempre da lì, dall’Unità d’Italia, per cercare di capire le ragioni del malessere siciliano, meridionale, e quali siano stati gli errori, i problemi che ci siamo portati dietro e che si sono perpetuati nel tempo. Va da sé che a me non interessava né Garibaldi né Bixio, ma altro; erano i temi che si dibattevano allora, negli anni settanta, che mi interessavano: l’intellettuale di fronte alla storia, il valore della scrittura, la storiografia e la letteratura, la sorte di chi non ha la capacità e la possibilità di esprimersi, di chi ha sempre pagato le spese della storia, il superamento della ragione e dell’ironia con la fantasia creatrice… Questi erano i temi del romanzo, che voleva essere nuovo, originale dal punto di vista strutturale e linguistico. Dal ’63 al ’76 erano passati tredici anni: una pausa scandalosa, da latitante o da dilettante.
Si tratta, comunque, solo parzialmente di una pausa, perché nel ’69 uscì un’anteprima del Sorriso dell’ignoto marinaio pubblicata su «Nuovi Argomenti»,
Sì, il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti», L’avevo mandato prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna Banti, perché il tema che faceva da Leitmotiv era il ritratto di Antonello. Longhi, in occasione della mostra del 53 a Messina di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico siciliano. Nessuno mi rispose. Nel 69 venne a Milano Longhi Per presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Lo avvicinai. «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto a Paragone…». Mi guardo con severità, mi rispose: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinato mai avrebbe potuto pagare Antonello. Quello effigiato lì era un ricco, un signore. Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il racconto a Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti». Il romanzo uscirà nel ’76 da Einaudi.
È significativa la sua vicenda: lei torna a Milano e pur avendo tutti gli strumenti razionali per analizzare quella realtà urbana e industriale non riesce a raccontarla. Dunque, per rappresentare in scrittura letteraria una realtà non bastano gli strumenti razionali, ma bisogna poter disporre di qualche altra cosa.
Beh, l’altra cosa è lo stile. Lo stile, il linguaggio sono quello che si spera faccia nascere la poesia, perche altrimenti non vedo come la letteratura possa distinguersi dalla storiografia, dall’indagine sociologica. La letteratura e tale in quanto è scrittura, in quanto è stile.
E lo stile e la scrittura sono inscindibili dall’attraversamento personale di una esperienza storica. Inscindibili dalla memoria. Memoria lontana di cose viste e udite, di cose lette, con cui la memoria vicina, il ricordo si fonde e prende forma e senso.
Vincenzo Consolo Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993
Ci sono giorni, tremendi giorni d’inquiete primavere, di roventi estati senza fine, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza estrema, insopportabile. Un mondo – cieli tersi di cristallo, acque immote di basalto, terre spoglie di calcare – un mondo attonito per la tragedia che appena s’è conclusa o sospeso nell’attesa del disastro. È il mondo, la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, l’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta; è il dolore che impietrisce e intenebra la Madre, smarrisce il Fratello adolescente. Sì, nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o Andalusia, sopra i Golgota di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio e del riscatto; nelle sue Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie; nella sua Messina, sopra i tavolati degli Iblei, per la valle del Belice si sono succeduti i terremoti; per gli immensi fianchi della sua Etna sono colate le lave d’ogni tempo. Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e di fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di fuoco, ha avuto il potere di travolgere, di ridurre alla paura, al sonno, alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della comprensione, della capacità e del bisogno del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso. Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Acitrezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria – la Bagaria, la bagarria: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione -, un paese di polvere e di sole, di tufo d’oro e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di Mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro duro e inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo ultimo, mortale. La salvezza era solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione, di verità e di poesia. Verga peregrinò e s’attardò in «continente» per metà della sua vita con la fede in un mondo irreale, di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi ogni velo di errore, di illusione, perché scoprisse dentro sé il mondo «solido e intatto» della sua memoria, ch’era stato sempre lì in agguato, pronto a ghermirlo, a gettarlo giù dal cavallo dell’incoscienza sul terreno della crisi, a fargli ritrovare il suo linguaggio. E ripartendo dalle situazioni, dai luoghi estremi, dalle falde dell’Etna, da Tebidi, dalla cava presso Monserrato, partendo da creature minime, innocenti, da Nedda, Jeli e Rosso Malpelo, il rischio subito fu quello dell’«innesto» del naturalistico, del dialettale nel linguaggio appena ritrovato («…quei corsivi che “bucano” la pagina» dirà un critico). Ma poi, dalla casa del Nespolo, dalla lava solidificata d’una immemorabile tempesta che sconfina e scioglie nel mare infido e fatale di Acitrezza, il linguaggio uniformemente «irradiato» di dialettalità, si fa sicuro canto, melopea, si fa parodo e stasimo della tragedia dei Malavoglia, della tragedia umana. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono, o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo: forte, all’epoca. ‘intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava a lui davanti a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua apparenza e nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella «dimora vitale» di Bagheria, si trovò a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il Venti e il Trenta, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, con il suo campiere, e il contadino, decisa la volontà in ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò i morti di Riesi e di Gela, che fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel: colui che, da lì a qualche anno, salito su un aeroplano. avrebbe martirizzato Guernica l’inerme, Guernica l’innocente: preludio infame di più vasti martini, d’olocausti. Si stagliarono allora subito le «cose» di Guttuso nello spazio con una evidenza e una vita straordinarie, parlarono di realtà assoluta e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che «bucano» la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro singolare, inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è il suo Fantasticherie, è il manifesto, la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire. La quale comincia, per questo pittore tragico d’una terra tragica, col vasto poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva. ineluttabile al pari di un’avversa deità, di un «destino», che si presenta con la violenza di un vulcano. La Juga dall’ Eina è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un «utero tonante» – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi; vengono avanti come valanga ostinata e orgogliosa di vita, vengono con le loro azzurre falci. coi loro mossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix; vengono tutti, uomini e animali, vibranti di vitalità come le masse di Gericault. Dall’allesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’oflesa investe Favo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Coya, di Gongora, di Unamuno. La Fucilazione in compagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo di dolore e raccapriccio, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie vaganti all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio, Guttuso inchioda alla loro colpa, con questo scandalo, con questo manifesto, i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificale, benedivano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei di sempre, non era né la nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era, come nella Flagellazione di Piero, in cui si relegava in secondo piano il tema sacro e avanzava nel primo una conversazione filosofica o civile, nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, anche Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. «Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati […] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee…» scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana, voce rattenuta di dolore e di furore, la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. Tornava l’eroe alla terra delle madri, della memoria, per ritrovare senso e ragione nella follia della storia, trovare nuovo linguaggio, «nuovi doveri». «Io ero quell’inverno in preda ad astratti furori…» narrava. E sono, negli anni atroci della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagheria, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara.
In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte senza fine, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica disumana, dalla perenne paura del crollo e della fine. Una pagina di tale orrore e di tale pietà solo Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo (e in contrappunto Pirandello con Ciaula scopre la luna). E Malpelo è sicuramente il caruso piegato de La zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In tutto poi il peregrinare per il mondo: nell’affrontare temi «urbani», ampiamente storici, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo lin-guaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura, il terremoto nella valle del Belice. E La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, come gli antichi cortei funerari, la marcia verso un’acropoli di distruzione e di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dall’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da sicure mani, la lampada raggiante e allarmante di Guernica, sono le lampade alle finestre nella notte dell’incendio a Vizzini in apertura del Mastro don Gesualdo, e sono insieme il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche le realtà più estreme, più mude, più insopportabili, le realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo. Simbolo di una solare, guttusiana luce che ci aiuta a risalire il colle anche nella notte del disastro e dell’alienazione, della perdita del senso della realtà e della verità. Notte nella quale oggi stiamo vivendo.
Sant’Agata Militello, 16 agosto 1991
Pubblicato in forma diversa in Art e Dossier n.63 Giunti Editori. Firenze dicembre 1991
Non sappiamo se esiste o possa mai esistere una scienza che studia la luce in rapporto ai luoghi (topofotologia?). Speriamo che non esista, che non possa mai esistere. Perché vogliamo (noi che temiamo le razionalizzazioni, la distruzione delle fantasie, la loro riduzione in mappe, grafici, numeri: ah quella luna profanata, la sua caduta, il suo mito, la sua fantasia frantumata! Ah le sue misure, i nomi dei suoi “mari”. “. dei suoi monti, dei suoi crateri!) vogliamo che luoghi e luci – luoghi bruciati, smaterializzati dalla luce – rimangano pur sempre mari o cieli su cui navighi solo la poesia. Luogo di luce, di incroci o giochi di luce è ad esempio quell’isola del Mediterraneo che si chiama Sicilia. Luce che si modula, cambia da capo a capo, da costa a costa, da montagna a montagna, da pianura a pianura. Abbiamo potuto constatare (o è stato un abbaglio?), percorrendo l’isola, che, oltrepassato il capo Gallo, improvvisamente la luce cambia, si fa diversa da quella del Tirreno; che aggirato il capo Peloro, a torre Faro, sopra il gorgo di Cariddi, diversa è la luce dello Jonio; e ancora diversa oltre gli Iblei, da Siracusa a Pachino, all’Isola delle Correnti; che luce sua è, diversa dalle luci dei mari e delle coste, quella della sconfinata landa desolata dell’interno, oltre la barriera delle Madonie e dei Nébrodi. E non è altra la luce rossastra, infuocata, fenicia o africana, di Mozia, del Lilibeo o Selinunte, da quella bianca e cristallina di Taormina, di Megara o di Ortigia, altra dalla luce nera di Catania e dell’Etna? La luce terrosa di Palermo da quella marina, acquorea di Messina? La luce delle Egadi da quella delle Eolie, delle Pelagie? Messina, la spirale del suo porto, lo iato, la fenditura dello Stretto… Visto dalla platea di Paradiso, o dalle acque stagne di Ganziri, visto dai palchi dei colli di San Rizzo, dal Faro Superiore o Castanèa delle Furie, è un teatro unico, fantastico, una rappresentazione senza fine dove si spiegano velari, si squarciano, s’involano; dove rifrazioni di lastre immateriali, d’invisibili specchi sciabolano, s’incrociano, si spezzano; dove piovono, s’ammassano gravi cascami d’astri sfaldati; dove sorgono illusioni, sortilegi, fate morgane, allucinazioni; dove a volte il mondo crudamente e crudelmente si denuda, mostra tutta la sua desolazione, la sua angoscia (il dolore assoluto, senza scampo dello sfondo d’una qualche Crocefissione d’Antonello). E allor mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico, e affisso a un’eterna luce o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminabili e vani, scale, tra mezzo a cattedrali, regge di nuvole e di raggi. Mi pare quando che ho l’agio e il tempo di staccarmi d’ogni reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi nomi belli di villaggi o pel mio levarmi presto, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che mi fuga infine l’ombre i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, lo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo. E se dallo Stretto andiamo oltre il golfo, il capo di Milazzo, altro teatro, più vasto e più fantasioso vi si spiega: quello di Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi, Alicudi … Isole ora sfumate, lontane, fuggenti dietro cortine, velari, vapori, illusorie come Sirene; ora corpose, evidenti, reali, prossime e avanzanti sulle acque, con ali di meduse, pomici, alghe, fluttuanti come le Simplegadi. Andiamo verso il Tindari, i ricami delle rene, le acque morte, i giunchi velieri marciti sotto la sua rocca prominente. Questo il teatro che mi si parò davanti appena aperti gli occhi, questo il quadro, la memoria più antica e indelebile. E cos’è allora la memoria d’un pittore nato sopra lo specchio di sommo sortilegio e sommo inganno, sopra l’occhio verde e tremendo di Gorgona, sopra la lastra versicolore, il vetro di Murano, sopra quel Mar Morto e quello Stige, quel cielo rovesciato, quel ceruleo abisso che è la Laguna, la natura più intima, la segreta sorgiva di quel mare che scorre e che si mesce allo Jonio, all’Egeo? Nato in una città invisibile, Stambul e Samarcanda riflessa dentro l’acque, madrepora vagante, sargasso stralucente, mamona che si dona e che si nega? Nato in Venezia e lì imprigionato, nella marea che sale, nel cielo che s’abbassa, nelle acque e nelle brume smemoranti, che celano splendori, miracoli, potenze, ogni beltà, ogni arte? Nella città che sorge all’orizzonte, oltre le soglie, s’erge nei cieli della Luna, di Venere, del Sole, nel cielo delle Stelle, nel centro dei cerchi luminosi?
Quali nei pleniluni sereni Trivia ride tra le ninfe eterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vidi sopra migliaia di lucerne… (1)
E possibile ancora memorare, dire, riportare tanto abbaglio, tanta viva sorgente d’ogni luce, d’ogni trasparenza? Solo per allusioni, per astrazioni, per ritmi, per intermittenze, per pulsazioni, per fotoni, per piani e fasci di luce, per accenni d’infinito, per tagli, lame di giallo, bianco, per fuochi intensi, per vermigli, per modulazioni di cieli, e di acque, per azzurri profondissimi, per altre arti e per altre nostalgie, per inusitate visioni forse è possibile. Possibile, meravigliosamente ardita e luminosa fu la parola d’un Poeta fra luci e visioni d’altro mondo che ad ogni altro avrebbe tolto il passo, il fiato.
Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non si profonde che i fondi sien persi, tornan de’ nostri visi le postille, debili sì, che perla in bianca fronte… (2)
Bisogna superare ostacoli d’intimidatorie citazioni, stagni di brucianti ironie (e già temo l’ironia di questa metafora ippica) per parlare di un fotografo come Enzo Sellerio. Un signore che, costretto a dire di sé in rapporto alla fotografia, mette subito le mani avanti, sfodera una figura retorica come la preterizione attraverso un autorevole citazione di Rudolf Arnhcim che lapidariamente afferma: «L’arte rischia di venir sommersa dalle chiacchiere», a cui egli stesso, Sellerio, cementa altra pietra, o altra intimidazione, con la frase: «E la fotografia pure, qualunque cosa sia». Ma io temerariamente parlo perché non sono, come si dice, un addetto ai lavori, non sono un critico, e quindi spero che il mio parlare, al di qua o al di là dell’oggetto in parola, o dell’oggetto parlato, non si sommi alle chiacchiere sommergitrici (le attuali chiacchiere che, afferma sempre il Nostro, facilmente possono sgorgare dalla lettura delle 537 paginette – notare l’esattezza del conto – a cui assommano i saggi di Barthes, Benjamin, Freund, Sontag); io parlo perché, contro ogni dubbio di Sellerio, sono convinto che la fotografia — la sua fotografia — sia arte (cd ecco che questo giudizio mi mette in contraddizione con quanto ho detto sopra); parlo perché ho da sempre nutrito profonda ammirazione per quest’arte di Sellerio (le prime sue foto che vidi furono quelle pubblicare da Michele Gandin su •Cinema Nuovo- e che avrebbero dovuto illustrare Banditi a Partinico di Danilo Dolci: era il 1955, mi pare, ed io ero studente a Milano; l’anno in cui usciva, in volume, Le parole sono pietre di Carlo Levi; qualche anno prima era uscita l’edizione illustrata dalle foto di Crocenzi di Conversazione in Sicilia di Vittorini; immagini, libri che mi facevano conoscere o riconoscere la mia Sicilia lontana, che mi avrebbero indotto a tornare nell’Isola della quale volevo scrivere, volevo testimoniare); parlo infine, ma primieramente come motivo, per consonanza: perché, voglio dire a me narratore, il genere fotografico di Sellerio mi sembra simile al genere narrativo: la sua fotografia simile al racconto. «La qualifica di fotografo-giornalista esiste, ma non quella di fotografo-letterario: perché non è lecito fare un lavoro di ricerca simile a quello dello scrittore?» si chiede Sellerio (intervista a Maurizio Spadaro per la sua tesi al DAMS, 1988-89). Ma questo lavoro di ricerca Sellerio l’ha sempre fatto, sin dalla sua prima fotografia. Perché la sua è stata, è fotografia «letteraria» (ma metto tra virgolette questa parola ambigua, pericolosa), è fotografia narrativa. E cerco di spiegarmi. Ho sostenuto in altri luoghi che lo scrittore ha due modi di esprimersi: scrivendo, appunto, c narrando. Che il narrare, operazione che attinge alla memoria, è uno scrivere poetico; che è un rappresentare il mondo, ricrearne cioè un altro sulla carta. Gravissimo peccato detto tra parentesi, che merita una pena, come quella dantesca degl’indovini, dei maghi, degli stregoni (Inferno, XX canto):
| Come ‘I viso mi scese il lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso; chè dalle reni era tornato il volto, ed in dietro venir vi convenia, perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.
Sì, il narratore, attingendo alla memoria, procede sempre con la testa rivolta indietro (e il suo narrare può quindi apparire operazione inattuale, regressiva). Ha però, il narratore, al contrario dei dannati dell’Inferno, una formidabile risorsa, compie, dal passato memoriale, quel magnifico salto mortale che si chiama metafora: salto che lo riporta nel presente e qualche volta più avanti, facendogli intravedere il futuro. Si narra, io credo, riportando, nell’operazione del narrare, la propria memoria esistenziale e la propria memoria culturale. Perché noi siamo, si, figli della natura, ma siamo anche — dirci soprattutto – figli della cultura. Nasciamo, e subito veniamo incisi dai segni culturali. Lo scrivere invece, al contrario del narrare, può fare a meno della me- moria, è un’operazione che attinge al pensiero, alla logica. «Che cos’è per lei la fotografia?» chiedeva il critico Diego Mormorio 1983). E Sellerio: «Non le risponderò certo tentando una definizione. lo credo, e l’ho verificato più volte, che nell’atro di fotografare, in certi stati di grazia, scatti una specie di telemetro interiore che fa coincidere quello che si vede con quello che si sa». E, questo che si sa, cos’è, se non la memoria, la memoria culturale? Quindi, il fotografo enumera casi in cui memorie pittoriche, memorie letterarie sono riemerse nell’atto del suo fotografare. E Malata, Partinico 1954 rimanda a Femme au lit di Vuillard, Monastero di clausura di Santa Caterina, Palermo 1967 rimanda a Vermeer, Quartiere della Kalsa (o Fucilazione dei bambini), Palermo 1960, rimanda a Goya, Musica sacra al Duomo, Monreale 1959 rimanda alla America di Kafka, e c’è ancora Brueghel, c’è Millet, c’è Antonello, c’è Picasso, c’è Conversazione di Vittorini; e Chaplin e Bufuel, e tanto cinema francese degli anni ’40, e Cartier Bresson e Robert Capa… Non si finirebbe mai, con i rimandi, le citazioni volute e non volute, consce ed inconsce. Insomma, la fotografia, come ogni altra espressione d’arte non è innocente, la naïveté è un’illusione, quando non è impostura. Non è innocente l’obiettivo fotografico. Non è obiettivo. Neanche l’obiettivo di Giovanni Verga. Né quello della macchina a cassetta avuta in eredità dallo zio Salvatore, né quello della Kodak e quello della Express Murer acquistate a Milano, né quello della Aestman acquistata a Londra. L’impassibilità dell’obiettivo di Verga rimase solo una fede, una credenza. Ho avuto occasione di vedere le 400 e più foto, in massima parte fino ad oggi indite, scattate da Verga, e ho potuto constatare che in esse c’è naturalmente tutta la concezione letteraria dell’autore dei Malavoglia, c’è la sua estetica, la sua cultura, la sua ideologia. Quasi tutti i personaggi ritratti, pescatori e contadini, proprietari, popolani o borghesi, parenti o amici, uomini o donne, bambini o vecchi, tutti sono sempre in posa davanti al muro di una casa, accanto a una porta o a una finestra: come pronti, dopo quella uscita al sole per la posa, a rientrare nel conforto, nell’illusoria protezione delle mura domestiche, perché il fuori è sempre minaccia, è ineluttabilmente perdita, è iattura. Sono, quelli di Verga, come si sa, personaggi isolati e soli davanti al destino e la fissità della stampa fotografica sembra certificare, confermare questa immutabilità. «Mektoub» («E scritto»), dicono gli Arabi, e quindi è immutabile; sono, quelli di Verga, personaggi irrigiditi in una epopea tragica. I personaggi di Sellerio, al contrario, sono usciti, si sono staccati dalle case (negli interni sono rimasti solo i vecchi, i malati, le monache di clausura), si sono sparpagliati per le vie, le piazze, i vicoli di città e paesi, per i sentieri di campagna, per le montagne, per i giardini di aranci: un’umanità che pullula, che lavora, che gioca, che fa festa… formano questi personaggi, l’umana compagnia, tutti fra sé confederati, per dirla con Leopardi: un contesto storico, insomma, una società. E qui dunque non siamo più nella poesia tragica, ma siamo, come dicevamo sopra, nel racconto. Racconto laico, moderno. Racconto che nasce da una società, essa rappresenta e ad essa si rivolge. E il suo linguaggio, quindi, non è solo d’espressione, ma è anche di comunicazione. È linguaggio critico. E la critica, assieme alla poesia, ha certi acuti lirismi, ha certo struggente dramma, nasce dalla metafora. No, la fotografia di Sellerio, come ogni vera arte, non è naturalistica, ma è allusiva, è metaforica. Cadono nel ridicolo certe sperimentazioni linguistiche cosiddette concettuali, come quella, per esempio, di un fotografo che avrebbe voluto fotografare, in tutta la sua estensione, il muro di Berlino, e, incollando fotogramma a fotogramma, riprodurlo naturalisticamente. Siamo alle incomprensibili sperimentazioni cinematografiche di uno Straub che mette la cinepresa al centro della Piazza della Bastiglia o davanti a una fabbrica del Cairo e vuole riprodurre naturalisticamente tutto quanto si presenta davanti al suo obiettivo. «Chiedo perdono se proprio in un libro sulla Sicilia manca la violenza che qui, se non l’unico, resta un modus vivendi fondamentale scrive il Nostro nella nota introduttiva al suo Inventario Siciliano. Manca quindi nel suo Inventario la lupara, mancano i morti ammazzati dalla mafia, manca l’urlo, manca l’espressionismo traboccante di tutta l’infelicità sociale di Palermo e della Sicilia. Ma lo stile di Sellerio, il suo linguaggio, non è espressionistico. Esso si regge sul difficile equilibrio tra la parola e la cosa, tra il significato e il significante, tra l’informazione e l’espressione; tra la storia e la poesia, infine. Non c’è la violenza, non c’è la lupara. Ma c’è l’umano, il troppo umano. C’è amore, pietas, verso tutte le creature ritratte: verso i bambini, le donne, i lavoratori. In contrappunto, fuori dall’impaginazione della foto, sono la violenza, il crepitare del fucile; c’è l’offesa alle nobili creature ritratte. Ecco, dal momento che questo suo stile, questo suo linguaggio non è stato più capito o egli ha pensato che non fosse più capito, io credo che Sellerio abbia voluto smettere di scrivere il suo «E qui, forse, con queste fotografie di Robert, uomo di trentatré anni in terra di Sicilia, come con quelle della Spagna e della Cina, incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvio quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali e impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature umane sofferenti. E ti vedrai quindi sfilare sotto gli occhi, a mille a mille, scene di guerre e di disastri, di morti e di massacri, d’intimità violate, di dolori esposti all’indifferenza e al ludibrio. L’abitudine, si sa, tannino che s’incrosta, nerofumo di camino, cancro che divora e che trasforma, ricopre, spegne la ragione, e l’idiozia è madre della degradazione e delle crudeltà. .Monsieur Guy de Maupassant va s’animaliser…. Scusate l’autocitazione. Questo è un brano di un mio racconto intitolato Il fotografo, in cui parlo di Robert Capa. Ma quando lo scrivevo, pensavo anche ad Enzo Sellerio. Il Sellerio che così dichiarava: «La professione di fotografo, come io la intendevo, cominciava ad andare in crisi. Sotto l’incalzare della televisione i periodici di maggior prestigio, anche negli USA, chiudevano via via i battenti: destino che non fu risparmiato qualche anno dopo a “Life”». E ancora: -Io avevo fotografato essenzialmente i luoghi della mia città che mi erano più cari e dove la vita era la continuazione della sua storia. Oggi quel paesaggio è completamente mutato… Non mi interessa la città nuova con i suoi mostri di cemento armato, né la nuova fauna umana che vi abita, dimentica del suo passato e incapace di immaginarsi un futuro… Questa città e quest’Isola le lascio ai giovani che possono fotografarle con minore angoscia». Ma non è solo la mutazione del paesaggio intorno che gli ha fatto cadere la penna di mano. È anche la mutazione dei linguaggi, che si son fatti sempre più urlanti, scomposti, sgrammaticati, sopraffacendo la poesia. È la rivoluzione tecnologica che ha ucciso il rigore, lo stile. E più aumentano gli oggetti, i materiali, i supporti (grandangolare, occhio di pesce, automatismi elettronici ecc…), così, come nella classifica che dava Kant delle arti a seconda della maggiore o minore materia che esse contenevano, sempre meno appare l’arte nella fotografia. «C’era una volta un fotografo. Fotografava moltissimo: profili e primi piani, ritratti dalle ginocchia in su e figure intere; sapeva sviluppare e fissare, dare i toni e riprodurre. Era una meraviglia! Ma non era mai contento, perché era un filosofo, un grande filosofo e un inventore…. Questo è l’attacco di un raccontino di Strindberg. Ecco, quel fotografo scontento, quel filosofo deluso che è Sellerio ha smesso – o dice di avere smesso — di narrare fotografando e s’è messo a praticare un’altra scrittura: l’editoria. I suoi splendidi libri — dal primo del 69, I veleni di Palermo, fino agli ultimi due Cristalli di quest’anno, Zolfare di Sicilia e La storia dei Whitaker, e ancora tutta l’impostazione grafica dei libri di narrativa, di saggistica, di storia dell’altro settore della Casa editrice Sellerio, quello di Elvira, dicono ancora e sempre del suo rigore, del suo stile. Stile che gli viene ancora una volta dalla sua cultura, dalla frequentazione delle più prestigiose riviste internazionali, di grafici come il grande Fleckhaus. Sono libri troppo noti e finanche largamente imitati, questi libri, per parlarne qui ampiamente. E voglio quindi tornare al Sellerio fotografo, al grande reporter, al maestro di quella scuola fotografica palermitana, o più estesamente siciliana, di cui prima o dopo bisognerebbe scrivere la Reporter. Viene da riportare, referre, riferire. È il messaggero del teatro greco che assiste alla tragedia che si è svolta in altro luogo e arriva sulla scena a riferire: ricreando il fatto, colla sua sensibilità, colla sua memoria, colla sua cultura, con il suo stile. Dipende da noi, da noi spettatori, se non abbiamo ancora perso il senso delle parole, intendere il linguaggio, la metafora di quell’anghelos. L’anglo-angelo melvilliano Billy Budd, nell’impossibilità di farsi capire, di dimostrare la sua innocenza, reagisce gestualmente alla sopraffazione del potere e ne paga le conseguenze. Ma nell’impossibilità di farsi capire oggi, nell’assordante chiasso, nell’urlante totalitarismo dei media, la reazione può essere l’afasia scandita da un’amara intelligente ironia. Quella che, per esempio, nel dilagare del baconiano «mosso» di tanta fotografia di oggi, di fronte al ritratto di una massaia contro le sue casseruole, fa dire: «Il messaggio è chiarissimo: la donna è mobile, le pentole no». «Fotografare significa scegliere e senza scelta non può esservi stile» dice Sellerio. Il fatto è che tanti fotografi oggi non scelgono. ma sono scelti; ridotti a passivi strumenti, come la camera che tengono in mano, a media dell’impero delle merci.
Vincenzo Consolo
28 ottobre – 18 novembre 1989 – Messina Testo di Vincenzo Consolo
Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico e affisso a un’eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare (vecchiaia puttana!) ora che ho l’agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita, di distaccarmi dal reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi bei nomi dei villaggi, per cui mi muovo tra la mia e la casa dei miei figli. Forse pel mio alzarmi presto, estate e inverno, sereno o brutto tempo, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che fuga infine l’ombre, i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, questo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo. Inciso nel suo azzurro, nel luglio, nell’agosto, dalle linee nere, dai ferri degli altissimi tralicci, alti quanto quei delle campate ch’oscillano sul mare, dal Faro a Scilla, che sono ormai l’antenne verticali e quelle orizzontali, ritte come spade sui musi delle prore, delle feluche odierne chiamate passerelle. Ferme, in attesa, ciascuna alla sua posta, o erranti, rapide e rombanti, alla cattura del povero animale.
Viene il momento allora, per i vocii e i frastuoni dei motori, sul mare (barbagliano parabrezza d’auto, di camion che lontano corrono lungo i tornanti della costa calabra, sopra Gallico, Catona; barbagliano vetri e lamiere dei grandi gabbiani, degli aerei aliscafi), sulla strada alle mie spalle, che corre, tra le case e il mare, giù verso Messina, il porto, fino a Gazzi, Mili, Galati, su verso Ganzirri, Rasocolmo, San Saba, viene il momento di rintanarmi.
Mi metto allora a lavorare ai modelli in legno dello spada, azzurro e argento, tonno, alalonga, aguglie, ai modelli dei lontri veri, delle feluche antiche, a riparare reti e ritessere ricordi, miei, della mia vita, qui, sopra questo breve nastro di mare, quest’infinito oceano di fatti, d’avventure, o per il mondo.
Sono nato (e chi lo sa più quando?) a Torre Faro, da rinomato padrone lanzatore, padre Stellario Alessi, terzo di cinque figli. I maschi, Nicola, Saro e io, di nome (solo di nome) Placido, ancora quasi lattanti, non lasciavamo in casa a nostra madre forchetta per mangiare, che legavamo in cima a una canna a mo’ di fiocina per infilzare polipi bollaci costardelle, ogni pesce che per ventura capitava a tiro del nostro occhio e braccio. Era l’istinto che ci portava verso il mestiere, come aveva portato nostro padre, suo padre indietro, ci portava verso il destino del mare, dello Stretto, del pesce spada, sopra feluche e lontri, ci portava a lance, palamidare, palangresi.
Nicola morì soldato e Saro nel suo letto, di spagnola. E io non mi ricordo più quando salii sul lontra e lanciai l’arpione la prima volta. Ho solo negli occhi la vista della draffinera, di quelle preziose del ferraro mastro Nino, che s’inchioda nella pelle lucida, colore dell’acciaio, nel cuore della carne, del pesce che s’impenna, che s’inarca, alta la spada sopra il fior dell’acqua, e s’inabissa, sferzando forte con la luna della coda, rapido sparendo con tutto il filo della sàgola, il filo del sangue che disegna la sua strada. Strada che finisce nella morte. Ho negli occhi la ciurma che lo tira in barca, grande, pesante, inghiaccato alla coda, la bocca aperta, la spada in basso, come un cavaliere che ha perso la battaglia; negli occhi, l’occhio suo tondo e fisso, che guarda oltre, oltre noi, il mare, oltre la vita. Ho nell’orecchio le voci di mio padre, i suoi comandi, le voci della ciurma: «Buittu, viva san Marcu binidittu!». Dopo la femmina, fu la volta del maschio, che s’aggirava, pesante e rassegnato, come in offerta, torno alla barca, a tiro del mio ferro.
Da allora, ho negli occhi e nel ricordo una schiera infinita di pesci indraffinati, di spade a pezzi succhiate nel midollo, di teste, di pinne, di code resecate.
Mio padre, vecchio e privo d’altri maschi, privo ormai di vista e resistenza, fu costretto a scender dall’antenna, ad ingaggiare, per la stagione che arrivava, uno di Calabria, dove sono gli antennieri più acuti dello Stretto, pur se i comandi, in vista dello spada, li fanno in lingua tutta loro. «Appà, maccà, palè, ti fò…» urlano.
Il giovane, Pietro Iannì, che sempre da caruso era stato guida sulle postazioni delle rocche alte di Scilla, di Palmi, di Bagnara, sposò poi Assunta, mia sorella, e se ne tornò al paese. Fu per il loro primo figlio, pel battesimo, ch’io conobbi quella che divenne poi la mia sposa. Figlia di padrone di barche, padre Séstito, era picciotta bella e assennata. Muta e travagliante. Ma non di fora, come le bagnarote libere e spartane che vanno a commerciare pesce, intrallazzare sale, avanti e indietro sempre sui traghetti, ma, di casa, e al più sulla spiaggia, tra le barche dei suoi. Bruna, il fazzoletto in testa, gli occhi sfuggenti che spiavan di traverso, stretta alla vita, i fianchi dentro quel maremoto di pieghe della gonna, il busto che sbocciava in sopra ardito e snello: così m’apparve in prima a quella festa. Il matrimonio, con tutti gli accordi e i sacramenti, si fece nella chiesa bella del Carmelo, e il trattamento, nella casa capace della sposa. Fu quel giorno che mio padre, in presenza dei Séstito, pronunciò il testamento, disse che le barche, gli attrezzi per la pesca, tutto passava a me, ch’io sarei stato da quel giorno il padrone nuovo.
Poco durò lo spasso per le nozze. Me la portai, Concetta, la mia sposa, nella casa nostra, lì vicino alla chiesa, davanti al monumento con l’angelo di marmo a cui la guerra tagliò di netto un’ala, in faccia alle barche nostre, al mare, alla rocca di Scilla dall’altra parte. Le feci conoscere Messina, il porto, con tutta la confusione dei bastimenti fermi, delle navi in movimento, dei ferribotti, la Madonna lì alla punta della falce, alta sopra la colonna, sopra il forte del Salvatore; il Duomo, dove restò incantata, a mezzogiorno, per il campanile e l’orologio, ch’è una delle meraviglie di questo nostro mondo: suonano le campane, canta il Gallo, rugge il Leone, la Colomba vola, passa il Giovane, il Vecchio, passa la Morte con la falce; sorge la chiesa di Montalto, passa l’Angelo, San Paolo, torna l’Ambasceria da Gerusalemme, la Madonna benedice… Me la portai per i viali, a Cristo Re, a Dinnammare, su fino a Camaro, a Ritiro, ai colli di San Rizzo. Ma lei, lei, sempre pronta, sottomessa, era però come restasse sempre straniata, come legata con la mente alla terra di là, oltre lo Stretto. E più mi dava figli (tre volte partorì in cinque anni) più sembrava crescere in lei il silenzio e lo scontento. C’era fra noi, che dire? come una distanza, uno stretto, una Scilla e Cariddi fra cui non si poteva navigare. Eppure, santissima Madonna!, la trattavo con ogni cura e affetto, l’adornavo di vesti, di ori; la portavo alla festa di Ganzirri, alla processione di San Nicola sul Pantano, alla trattoria di don Michele; e a Messina, alla festa dell’ Assunta a Mezzagosto. Una volta tirai anch’io per voto (voto che si capisce quale fosse, d’avere finalmente quella donna, per cui potevo morire, indraffinato come un pescespada), tirai per la corda la gran Vara, scalzo, senza camicia, e lei accanto a me, sciolti i capelli, certo per un voto suo segreto che mai mi rivelò.
Un luglio, ad apertura della pesca, per l’ammalarsi dell’antenniere mio, fu lei a suggerirmi, come per caso, quel nome d’un parente suo lontano, Polistena Rocco, rinomato fra Bagnara e Scilla. E arrivò quest’uomo snello, alto, d’una chioma riccia come quella del gigante Grifone sul cavallo. Tanto che là, in cima, stava per tutte l’ore senza un cappello, solo riparo quel suo casco nero di chiocciole o di cozze. Lo vidi e l’odiai. Non so perché. Forse per il suo portamento, il suo sorriso, la fama per cui ognuno rideva e mormorava, d’una sua dote fuori d’ordinario, la fama, scapolo com’era all’età sua, di grande ladro, d’amatore tenace e senza cuore. Mi parve che Concetta, al suo arrivare, mi parve che appena appena mutasse nell’umore, nel modo suo di fare; parlava più frequente, con me, coi figli, sorrideva finanche qualche volta. L’odiai. E quando alzavo il braccio per colpire il pesce, che lucido e dritto guizzava sotto l’acqua con la spada, mi sembrava di colpire, di piantare in quell’uomo la draffinera. E il mare lo vedevo tutto rosso, poi argento, poi blu, poi nero come la notte.
Pel tempo che durò la sua presenza al Faro (due, tre estati, non ricordo), pur senza un segno, un fatto, un motivo vero, cresceva sempre più la mia pazzia, l’ossessione dell’inganno. E sì che non eravamo più di primo pelo, né io né quello né Concetta. Durò fino a quell’anno in cui cominciò il grande mutamento, l’anno vale a dire in cui passarono in disuso remi, lo ntri, feluche, si mutarono le barche in passerelle. E ci vollero quindi, per i motori, l’antenne, tanti soldi. Decisi per questo (ma forse fu una scusa) di sbarcare, disarmare tutto, licenziar la ciurma, il calabrese.
Per mantenere la famiglia m’imbarcai come marinaio, io padrone, sopra il Luigi Rizzo, il vaporetto che collegava Milazzo a Lipari, Vulcano … Fuori dal porto, costeggiando la penisola del Capo, oltre il Castello, davanti alla casa di quell’ammiraglio che nella Grande Guerra era stato eroe, assieme a un poeta, per una impresa ardita contro il nemico, il battello che portava il suo nome, lanciava il fischio di saluto. Allora qualcuno, una serva, un parente, rispondeva sventolando dal terrazzo un panno bianco. Il battello d’estate era sempre pieno di turisti: scoprii così il mondo. Mi feci, per cancellar l’amore per Concetta, gran traffichiere, facile predatore di straniere. D’inverno, nelle soste a Lipari sotto il Monastero, nelle soste forzate per il brutto tempo, m’intrecciai con una di là, ché sono, le donne di quell’isola, svelte, calamitose, seducenti.
Tornavo al Faro, a casa, a ogni turno di riposo, tornavo per le feste. E lei, Concetta, era sempre chiusa nel suo mondo, sempre indifferente. In più ora sembrava solo presa dai figli, ch’erano ormai cresciuti e le davano maggior lavoro.
Il colmo della sua freddezza nei confronti miei lo provai un’estate. Forse per sfida o forse nell’intento di smuoverla allo scontro, portai una straniera fino a Torre Faro, fino alla punta estrema del Peloro, all’incrocio dei mari, dove la rema forma i gorghi, quelli che la tedesca chiamava del mostro di Cariddi. Passammo davanti alla mia casa. Lei ci vide, da dietro la finestra, ed ebbe come un riso di sprezzo, di compatimento.
Dopo quel fatto, decisi di sbarcare, di tornare al mio mestiere della pesca. Anch’io, come gli altri, misi da parte remi e lontri, comprai un motore per la mia feluca e cominciai a correre, a inseguire lo spada sullo Stretto. Avevo preso un’antenniere nuovo di Fiumara Guardia, e il mio braccio di vecchio lanzatore era tornato ad essere forte e preciso come nel passato. Fu in uno di questi erraggi, nell’inseguire il pesce dalla posta mia, che mi scontrai con una passerella che per abuso aveva catturato il pescespada. Lì, sull’antenna della feluca pirata, rividi allora dopo tanto tempo il calabrese. La questione della preda fu portata davanti al Consiglio, che sentenziò naturalmente a mio favore. Ma al Polistena, che seppi era il padrone della passerella, feci sapere che il giudizio per me, oltre il Consiglio, era nel riparar lo sfregio col duello: che si facesse trovare sulla spiaggia, proprio sotto il Faro. Fu lì puntuale, come convenuto. Stavamo appressandoci, quando, a un passo l’uno dall’altro, cominciarono a fischiare sopra le nostre teste le palle dei fucili. Eravamo proprio sotto il campo del tiro al piattello. Ci buttammo per terra, la faccia contro la rena. E restammo così, impediti a muoverei, non so per quanto tempo. Ci spiavamo con la coda dell’occhio. Poi improvviso fu lui a ridere per primo, a ridere forte, e trascinò me nella risata, mentre i piatti in aria venivano dai colpi sbriciolati. Dopo, quando ci fu il silenzio, ed era quasi l’imbrunire, ci alzammo, ci guardammo in faccia. Fu lui, Rocco, a tendermi la mano. Non lo vidi più. Sparì dalla mia vista e dalla mia vita. Anche perché sparì in uno con Concetta tutto il rancore mio e la gelosia.
Mi disse lei, là all’ospedale Margherita, affossata nel letto, gli occhi negli occhi, la mano serrata nella mia: «Ah, Placido, come si può passare una vita senza capire!»
Da allora, quando mi lasciò la mia Concetta, sentii che cominciavo a farmi vecchio. Donai tutto, passerella e reti ai miei figli, lasciai il Faro e venni qui ad abitare in una nuova casa.
Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come un trapassato… Ma vivo nei ricordi. E vivo finché ho gli occhi nella beata contemplazione dello Stretto, di questo breve mare, di questo oceano grande come la vita, come l’esistenza.
Non c’è
turista che viaggiando per la Sicilia – minimo che sia il suo interesse alle
cose dell’arte – tra Palermo e Messina non si senta obbligato o desideroso di
fermarsi a Cefalù: e dopo averne ammirato il Duomo e sostato nella piazza
luminosa che lo inquadra, non imbocchi la stradetta di fronte e a destra per
visitare, fatti pochi passi, il Museo di Mandralisca. Dove sono tante cose –
libri, conchiglie e quadri – legati, per testamento del barone Enrico
Mandralisca di Pirajno, al Comune di Cefalù: ma soprattutto vi è,
splendidamente isolato, folgorante, quel ritratto virile che, tra quelli di
Antonello da Messina che conosciamo, è forse il più vigoroso e certamente il
più misterioso e inquietante.
E’un piccolo
dipinto ad olio su tavola (misura 30 centimetri per 25), non firmato e non
sicuramente databile (si presume sia stato eseguito intorno al 1470). Fu
acquistato a Lipari, nella prima metà del secolo scorso, dal barone
Mandralisca: e glielo vendette un farmacista che se lo teneva in bottega, e con
effetti – è leggenda, ma del tutto verosimile – che potevano anch’essere
fatali: per il ritratto, per noi che tanto lo amiamo. Pare che, turbata da
quello sguardo fisso, persecutorio, ironico e beffardo, la figlia del
farmacista l’abbia un giorno furiosamente sfregiato. La leggenda può essere
vera, lo sfregio c’è di certo: ed è stato per due volte accettabilmente
restaurato.
Lo sfregio – e ce lo insegna tanta letteratura napoletana, e soprattutto quel
grande poeta che è Salvatore Di Giacomo – è un atto di esasperazione e di
rivolta connaturato all’amore; ed è anche come un rito, violento e sanguinoso,
per cui un rapporto d’amore assume uno stigma definitivo, un definitivo segno
di possesso: e chi lo ha inferto non è meno «posseduto» di chi lo ha subito. La ragazza che ha sfregiato il
ritratto di Antonello è possibile dunque si sia ribellata per amore, abbia
voluto iscrivere un suo segno di possesso su quel volto ironico e beffardo. A
meno che non si sia semplicemente ribellata – stupita – all’intelligenza da cui
si sentiva scrutata ed irrisa.
Proveniente
dall’isola di Lipari, quasi che in un’isola soltanto ci fossero dei marinai,
all’ignoto del ritratto fu data qualifica di marinaio: «ritratto
dell’ignoto marinaio». Ma altre ipotesi furono avanzate: che doveva essere un barone,
e comunque un personaggio facoltoso, poiché era ancora lontano il tempo dei
temi «di genere» (il che non esclude fosse un
marinaio facoltoso: armatore e capitano di vascello); o che si trattasse di un
autoritratto, lasciato ai familiari in Sicilia al momento della partenza per il
Nord. Ipotesi, questa, ricca di suggestione: perché, se da quando esiste la
fotografia i siciliani usano prima di emigrare farsi fotografare e consegnare
ai familiari che restano l’immagine di come sono al momento di lasciarli,
Antonello non può aver sentito un impulso simile e, sommamente portato al
ritratto com’era, farsene da sé uno e lasciarlo?
Comunque,
una tradizione si è stabilita a denominare il ritratto come dell’ignoto
marinaio: e da questa denominazione, a inventarne la ragione e il senso, muove
il racconto di Vincenzo Consolo che s’intitola Il sorriso dell’ignoto
marinaio. Ma la ragione e il senso del racconto non stanno nella felice
fantasia filologica e fisionomica da cui prende avvio e che come una frase
musicale, più o meno in sottofondo, ritorna e svaria. La vera ragione, il senso
profondo del racconto, direi che stanno – a volerli approssimativamente
chiudere in una formula – nella ricerca di un riscatto a una cultura, quale
quella siciliana, splendidamente isolata nelle sovrastrutture, nei vertici:
così come quelle cime di montagne, nitide nell’azzurro, splendide di sole, che
dominano paesaggi di nebbia.
Ma prima di
parlare del libro, qualcosa bisogna dire del suo autore. Siciliano di
Sant’Agata Militello, paese a metà strada tra Palermo e Messina (sul mare,
Lipari di fronte, i monti Peloritani alle spalle), Consolo – tranne gli anni
dell’università e quelli del recente trasferimento, passati a Milano – è
vissuto nel suo paese e muovendosi, per conoscerli profondamente nella vita,
nel modo di essere, nel dialetto, nei paesi a monte del suo, nell’interno: che
sono paesi lombardi, della «Lombardia siciliana» di Vittorini – sorti cioè
dalle antiche migrazioni di popolazioni dette genericamente lombarde. Solo che
Consolo, a misura di come li conosce, oltre che per temperamento e formazione,
è ben lontano dal mitizzarli e favoleggiarne, come invece Vittorini in Conversazione
in Sicilia e più – non conclusa apoteosi – ne Le città del mondo.
Quel che più attrae Consolo è, di questi paesi, forse l’impasto dialettale, la
fonda espressività che è propria alle aree linguistiche ristrette, le lunghe e
folte e intricate radici di uno sparuto rameggiare. Perché Consolo è scrittore
che s’appartiene alla linea di Gadda (sempre tenendo presente che un Verga e un
Brancati non sono lontani): ma naturalmente, non per quel volontaristico arteficiato
gaddismo – che peraltro ambisce a riconoscersi più in Joyce che in Gadda – che
ha prodotto in Italia (e forse, senza Gadda, anche altrove) libri senza lettori
e testi, proprio dal punto linguistico, di assoluta gratuità e improbabilità.
Altro elemento
da tenere in conto, è quella specie di esitante sodalizio che Consolo ha
intrattenuto per anni con Lucio Piccolo. E qui bisognerebbe parlare di questo
straordinario e poco conosciuto poeta siciliano: ma rimandiamo il lettore ad
altro nostro scritto, pubblicato nel volume La corda pazza.
Tutto, in come è Consolo e in com’era Piccolo, li destinava a respingersi reciprocamente l’età, l’estrazione sociale, la rabbia civile dell’uno e la suprema indifferenza dell’altro; eppure si era stabilita tra loro una inconfessata simpatia, una solidarietà apparentemente svagata ma in effetti attenta e premurosa, una bizzarra e bizzosa affezione. Il fatto è che tra loro c’era una segreta, sottile affinità: la sconfinata facoltà visionaria di entrambi, la capacità di fare esplodere, attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia. Che poi lo strumento avesse la peculiarità della classe cui ciascuno apparteneva – di «degnificazione» per Piccolo, di «indegnificazione» per Consolo – non toglie che si trovassero, ai due estremi del barocco, vicini. (Il termine «degnificazione» lo si usa qui nel senso di Pedro Salinas quando parla di Jorge Guillén: e quindi anche il suo opposto, «indegnificazione»). Il primo libro di Consolo, La ferita dell’aprile, pubblicato nel 1963 e ora ristampato da Einaudi, non ricordo abbia suscitato allora attenzione né ho seguito quel che ora, dopo Il sorriso dell’ignoto marinaio, ne hanno detto i critici: probabilmente, chi allora l’ha letto ha avuto qualche perplessità a classificarlo tra i neorealisti in via d’estinzione; e chi l’ha letto ora, difficilmente riuscirà a trattarlo come un libro scritto prima. Il che è ingiusto, ma tutto sommato meglio che l’intrupparlo tra i neorealisti. Tra il primo e il secondo son corsi bel tredici anni (e speriamo non ci faccia aspettare tanto per il terzo): ma c’è tra l’uno e l’altro un preciso, continuo, coerente rapporto; un processo di sviluppo e di arricchimento che è arrivato alla piena, consapevolmente piene, padronanza del mezzo espressivo (e dunque del mondo da esprimere). Anni, dunque, passati non invano, ma intensamente e fervidamente: a pensare questo libro, a scriverlo, a costruirlo; in margine, si capisce, ad altro lavoro, anche giornalistico (di cui restano memorabili cose: non ultimi gli scritti sul Gattopardo e su Lucio Piccolo). A costruire questo libro, si è detto. E lo ribadisco polemicamente, per aver sentito qualcuno dire, negativamente, che è un libro costruito. Certo che lo è: ed è impensabile i buoni libri non lo siano (senza dire dei grandi), come è impensabile non lo sia una casa. L’abitabilità di un libro dipende da questo semplice e indispensabile fatto: che sia costruito e – appunto – a regola di abitabilità. I libri inabitabili, cioè i libri senza lettori, sono quelli non costruiti; e oggi sono proprio tanti. Un libro ben costruito, dunque, questo di Consolo: con dei fatti dentro che sono per il protagonista «cose viste», e «cose viste» che quasi naturalmente assumono qualità, taglio e luce di pittura ma che non si fermano lì, alla pittura: provocano un interno sommovimento, in colui che vede, una inquietudine, un travaglio; sicché infine Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, descrittore e classificatore di molluschi terrestri e fluviali, si ritrova dalla parte dei contadini che hanno massacrato i baroni come lui. E facilmente viene da pensare – almeno a me che so del rapporto che legava Consolo al barone Lucio Piccolo di Calanovella, che ho letto tutto ciò che Consolo ha scritto di questo difficile e affascinante rapporto – che nel personaggio del barone di Mandralisca lo scrittore abbia messo quel che mancava all’altro barone da lui conosciuto e frequentato, a quell’uomo che aveva «letto tutti i libri» e soltanto due, esilissimi e preziosi, ne ha scritti di versi: la coscienza della realtà siciliana. Il dolore e la rabbia di una condizione umana tra le più immobili che si conoscano. «Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change».
Leonardo Sciascia
brano tratto da “Cruciverba” einaudiana collana “Gli struzzi” 1983
Sfogliando il grande
libro (1300 pagine) di Stefano D’Arrigo
Vent’anni di lavoro,
e tant’attesa – È l’odissea di un marinaio reduce in Sicilia alla fine
dell’ultima guerra mondiale.
Annotava Moravia da qualche parte che alla povertà e
infelicità di una terra corrisponde ricchezza e felicità di letteratura, poesia
e romanzo. E portava l’esempio dell’America Latina, con Borges e Marquez e
tutti gli altri scrittori di quella vasta regione dove la letteratura (il
romanzo) cresce ancora rigogliosa e splendida. Bisognerebbe, a questa di
Moravia, aggiungere l’osservazione che non di tutte le terre solamente povere è
una letteratura che si possa dire propria di una determinata regione, ma di
quelle – come insegna Americo Castro – dove più o meno s’è formato il “modo
d’essere”, dove cioè la realtà da “descrivibile” è diventata “narrabile” e
quindi “storicizzabile”. Com’è appunto della Spagna e dell’America Latina. Ma:
e il romanzo del Settecento in Inghilterra e quello dell’Ottocento in Francia,
che infelici non erano ma forse solo inquiete nella loro borghesia? E il romanzo
russo? E il romanzo americano? Restano solo domande, per noi che ci muoviamo
disarmati. Perché allora bisognerebbe affrontare il vastissimo discorso sulla
letteratura, il romanzo: cos’è e perché nasce, che funzione e che destino ha.
E questo lo lasciamo agli specialisti, a quelli che riescono
a spiegare le cose e le ragioni delle cose.
A noi solo il piacere di goderle, quelle cose, il piacere di
leggere un romanzo: Qui solo vogliamo dire che quell’equazione
povertà-infelicità e ricchezza letteraria cade bene anche per la Sicilia e per
quella letteratura che si chiama siciliana.
E quando una storia della letteratura dell’isola si farà,
oltre alla stagione felice del Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, si dovrà
pure dire di un’altra, quella di Brancati, Vittorini, Sciascia, Lampedusa,
Addamo, Castelli, Bonaviri … ultimo, nel tempo, è da ascrivere a questa
anagrafe Stefano D’Arrigo, scrittore messinese, di cui a giorni sarà in
libreria il poderoso romanzo “Orcynus Orca” edito da Mondadori.
Ma torniamo per un momento a Castro per avanzare
un’ulteriore osservazione riguardo alla letteratura siciliana.
E più che a Castro, a Sciascia, che adatta quello schema
alla realtà siciliana e dice “storicizzabile” la Sicilia di dopo i normanni e
da questo momento fa nascere il modo d’essere siciliano.
Ora, l’isola, non sempre e non dappertutto ebbe uguale
sorte. Gli arabi, per esempio, lasciarono il loro segno più nella parte
occidentale che in quella orientale; il feudo nel Val di Mazara e la piccola
proprietà nel Val Demone hanno fatto si che le popolazioni delle due zone
fossero in qualche modo diverse. E
diverso è il siciliano dell’interno da quello della costa. Occidentale e
orientale, marino e dell’interno, continentale, ha per noi significato riguardo
agli scrittori, nella misura in cui essi rispecchiano nelle loro opere, nella
materia che assumono e esprimono, queste diversità. Verga ci sembra Marino (e
non per via dei malavoglia), De Roberto continentale, come Pirandello e
Sciascia e Lampedusa. D’Arrigo ci sembra autore marino (e non perché il suo
romanzo si svolge sullo stretto).
Vogliamo dire che gli scrittori siciliani sono diversi (come diversi
sono gli artisti: Greco o Migneco sono diversi da Guttuso) per la diversa
realtà che esprimono, a seconda cioè se quella realtà si muove nel
descrivibile, nel narrabile o nello storicizzabile: se partecipa più o meno al
modo d’essere siciliano. Sciascia,
sintetizzando Castro, dice che’ descrivibile “una vita che si svolge dentro un mero
spazio vitale”. E ci soccorre anche
Addamo scrivendo: “ … Nella prevalenza della natura c’è esattamente il limite
della storia”.
Ora, le regioni, le città, le popolazioni che per varie
ragioni hanno dovuto fare i conti con la natura prima ancora che con la storia,
o a dispetto della storia, da esse, ci sembra, non possono venire fuori che
scrittori, che opere i cui temi sono il mito, l’epos, la bellezza, il dolore,
la vita, la morte,… vogliamo dire che queste opere, quando sono vere opere, si
muovono dall’universale al particolare e sono siciliane per accidente; mentre
le altre, al contrario, partono dal particolare e vanno all’universale e sono
siciliane per sostanza. Ma questa non è
che una semplicistica classificazione, nella quale, come nel letto di procuste,
la realtà scappa da tutte le parti.
Tuttavia: una città
come Messina, per esempio, al limite e al confine, distrutta, ricostruita e
ridistrutta da terremoti, ci sembra un luogo dove la vita tende a svolgersi
dentro un mero spazio vitale. E
figurarsi poi la vita di quella città invisibile e mobile che si stende sullo
stretto, quella dei pescatori della costa calabra, e della costa siciliana, di
Scilla e Cariddi, Scill’e Cariddi, anzi, arcaica e sempre uguale, vecchissima e
sempre nuova, piccola e vastissima, come il mare. “Lu mari è vecchiu assai. Lu mari è amaru. A lu mari voi truvari fumu?”
dicono i pescatori. Ed è qui, su questo mare, su queste acque che si svolge il
romanzo di D’Arrigo.
La morte marina
“Orcynus Orca” è un
romanzo di 1257 pagine a cui l’autore ha lavorato per circa vent’anni. È la storia d’un Ulisse, ‘Ndrja Cambria,
marinaio della fu regia marina, pescatore del faro, a Cariddi, che durante
l’ultima guerra, nell’autunno del ’43, a piedi percorre la costa della
Calabria, da Amantea a Scilla, per tornare al suo paese. Quella lingua di mare,
lo stretto, lo ferma. Tutto è devastato,
distrutto, non ci sono più ferribotti e né barche. Le femminote, le mitiche, arcaiche, libere e
matriarcali donne di Bagnara sono ferme anche loro per le coste, in attesa di
riprendere, come prima, il loro contrabbando di sale. Ferme e in attesa sotto i giardini di aranci
e bergamotti, in mezzo ai gelsomini, alle olivare e tra le dune delle spiagge.
Solo una d’esse possiede una barca, la potente magara
Ciccina Circè che, impietosita e ammaliata, trasborda quel reduce, su un mare
notturno di cadaveri e di fere bestine.
Dopo tanta struggente nostalgia per la sua Itaca, all’approdo, l’isola
appare al reduce sconvolta, diversa, avvilita, scaduta per causa della guerra,
ma anche per causa dello stesso ritorno che, come tutti i ritorni, è sempre
deludente e atroce. Ritrova il vecchio
padre, i compagni pescatori, i pellisquadre d’una volta.
Ma qui, a Cariddi, sulla spiaggia della “Ricchia, compare
improvvisa l’orca, l’Orcynus Orca, com’è scritto sui libri di zoologia,
l’orcaferone”… quella che dà la morte, mentre lei passa per immortale: lei, la
morte marina, sarebbe a dire la morte, in una parola.
Solitario,
terrificante scorritore di oceani e mari: puzza lontano un miglio, lo precede
il terrore, lo segue il deserto e la devastazione. Il mostro arenato, scodato e irriso dalle
fere, i feroci delfini dei due mari, il Tirreno e lo Jonio, muore spargendo
fetore di cancrena. L’enorme carogna verrà trainata sulla spiaggia dagli
inglesi e dai pellisquadre. Il viaggio
di ritorno di ‘Ndrja Cambria diventa così viaggio verso un mondo alterato,
corrotto: viaggio verso la morte. Ma
viaggio anche verso la verità, l’origine della vita. Orcynus è anche orcio, grembo materno,
liquido rifugio, mare, principio e fine della vita. ‘Ndrja Cambria morirà, ucciso sul mare dello
stretto, striscia di mare, profonda, abissale, canale e oceano, iato, rottura
“naturale” tra una terra e le altre, tra una “storia” e le altre, ucciso da un
colpo d’arma che lo raggiungerà alla fronte
È quasi impossibile
riassumere questo vastissimo romanzo, magmatico, scandito in quarantanove
episodi, dove si muove un’infinita schiera di personaggi e figure. Romanzo dentro il quale tuttora siamo
immersi, come in un’avventura, un viaggio eccezionale e affascinante. E per poterne riferire in termini pacati e
chiari bisogna prima uscirne, bisogna che cessi lo stupore e l’incanto.
“Vogliamo adesso soltanto riferire, accennare anche alla lingua usata
dallo scrittore. Lingua che è il
dialetto proprio dei pescatori dello Stretto, gergo, suono e atteggiamento,
assunti e reinventati dall’autore con conoscenza e sapienza magistrale e resi
con ritmo e musicalità, larga, polifonica.
Una lingua che è
ammiccante, allusiva, ora tenera e carezzante, ora dura e sentenziosa, che
procede circolarmente, per accumuli, e arriva fino al cuore delle cose.
E riferire vogliamo
anche dello scrittore, di Stefano D’Arrigo. Nato ad Alì nel 1919, passa subito
a Messina. Ragazzo, navigava per le Eolie.
Sarà entrato nelle celle delle acque saline e calde delle terme di San
Calogero, dentro bocche, crateri spenti; si sarà imbattuto nelle necropoli
degli uomini antichi, venuti dal mare, nelle olle, negli orci, nei giaroni in
cui rannicchiati come nel grembo materno seppellivano i morti, la testa a
oriente, verso il sole. Si sarà
incantato davanti a tutto quanto dal mare si fa schiuma, conchiglia, roccia,
terra, e in tutto che si sfalda e ritorna al mare.
L’incontro con Vittorini
A Messina,
all’università, fa un giornale murale. D’Arrigo scriveva a un suo amico, Felice
Canonico, disegnava. Vittorini, chissà
per quali vie, da Milano sa di questo giornale e scrive perché vuole vederlo,
vuole leggerlo. Gli mandano un numero
con un interessante articolo di D’Arrigo, “La crisi della civiltà”. È il 1946.
Laureatosi in lettere con una tesi su Hoederlin (“Doveva forse sembrarmi
di scorgere in lui, malgrado lui, qualcosa di quel conflitto tra poesia e
follia, tra civiltà e barbarie che fa la Germania e in cui alla fine soccombono
civiltà e poesia”).
Nel 1947 parte per
Roma. Qui si occupa d’arte. Suoi amici sono Guttuso (e in certe pagine di
D’Arrigo c’è quell’aura dei quadri di Guttuso, dei quadri dei pescatori del
periodo di Scilla), Mazzullo, Canonico, ma anche Zavattini, De Sica, Ungaretti,
Ciarletta. Nella soffitta dello scultore
di Graniti, Peppino Mazzullo, si riuniscono, mettono ogni sera un tanto a
testa, e mangiano panibi e bevono vino.
Il pittore Felice Canonico se ne torna a Messina ed è a lui che poi
D’Arrigo si rivolge per sapere tutto sulla fera dello Stretto, sul
delfino. Canonico va dal direttore
dell’istituto talassografico di Messina e così può avere trattati scientifici,
storie antiche sul delfino, leggende. E
fa anche per D’Arrigo un bel disegno del pesce, un disegno scientifico, a
inchiostro di china, come quelli che faceva il durer dei granchi, dei cetacei.
Nel 1957 D’Arrigo
pubblica un libro di versi, “Codice siciliano” presso l’editore Scheiwiller di Milano.
Ma è nel 1960 che D’Arrigo viene conosciuto: Vittorini pubblica sulla rivista
“Menabò 3” due parti, cento pagine, de “I giorni della Fera”, come si chiamava
prima il romanzo. Scrisse allora
Vittorini sulla rivista: “Quanto qui ora
pubblichiamo di lui non è opera compiuta. Fa parte di un “Work in progress”
ch’io non sono riuscito ad appurare in che anno, e come, e perché, sia stata
iniziata, e come sia andata avanti finora ma che ritengo possa restare soggetta
a mutamenti e sviluppi anche per un decennio.
Di impegno complesso, estremamente ingenuo e estremamente letterario ad
un tempo, è di quel genere di lavori cui una volta, fino a metà circa dello
scorso secolo, accadeva di vedere dedicare tutta un’esistenza”.
Impegno totale
La rivista di Vittorini
era uscita nell’agosto del ’60. Nel settembre di quell’anno conobbi D’Arrigo a
Messina stupefatta e sciroccosa come i fondali dei quadri d’Antonello, alla
libreria di Giulio D’Anna, sul viale San Martino. Ci trovammo, non ricordo bene come, a parlare,
a chiacchierare. Io avevo appena finito di leggere le sue pagine sul “menabò” e
ne avevo ricevuto una grande impressione.
D’Arrigo, più che rispondere alle mie, mi fece lui
delle domande, domande a non finire, su quello che lui aveva pubblicato e io
avevo letto, voleva su tutto la mia impressione di lettore “messinese”: sul
linguaggio, il ritmo, i personaggi…
Lo incontrai l’anno
dopo, sempre a Messina, casualmente per la strada. Mi disse che era venuto giù
da Roma per verificare, a Sparta, ad Acqualatroni, alcuni modi di dire dei
pescatori, parole, frasi. Era pieno di
fervore, di vita. Si capiva che il
lavoro lo teneva in una forma di frenesia, di entusiasmo creativo. E lo rividi poi ancora a Roma nel 1964. Andai
a trovarlo a casa, a Monte Sacro. Era
già cominciato il suo completo isolamento. Lavorava dalla mattina alla sera. Il
libro era là nel suo studio, in bozze.
Bozze sulla scrivania, sulle sedie, attaccate al muro e con lunghe
strisce di carta scritte a mano incollate al margine inferiore del foglio e che
arrivavano fino al pavimento.
D’Arrigo era diverso da quello che avevo conosciuto a
Messina. Era tutto calato dentro il suo
libro, nel lavoro duro, massacrante, totale che richiedeva il libro. Mi disse che soffriva di cattiva circolazione
alle gambe per la vita sedentaria che faceva, lui che aveva giocato da
attacante nella squadra di calcio del Messina.
Sono passati anni. Di tanto in
tanto leggevo, come tutti, di lui sui giornali, brevi note che annunciavano
l’imminente pubblicazione del libro presso l’editore Mondadori.
Nel ’73 sono ancora
andato a trovare D’Arrigo a Roma. Mi
apre la porta e rimane sorpreso, impacciato per la visita improvvisa. Non vede
nessuno ormai da anni. Dopo un lungo
tempo di silenzio, seduti l’uno di fronte all’altro, D’Arrigo comincia a
sciogliersi a parlare, in un flusso straripante di racconto, dove c’è tutto,
memoria, progetto, speranza ma soprattutto sentimento e risentimento. Mi parla della moglie Jutta (è assente perché
al lavoro), che per tanti anni ha accettato questo calvario accanto a lui,
senza mai lamentarsene, stancarsi, sfiduciarsi, sempre spronandolo, con
speranza intatta e chiara. “A Jutta, che
meriterebbe di figurare in copertina con il suo Stefano” c’è scritto ora sul
frontespizio del libro. Parla degli
amici che se ne sono andati, quelli morti
(Niccolò Galo, Vittorini) e quelli allontanatisi, scomparsi in una città
grande, caotica e lontanissima che si chiama Roma. E parla di Messina, della sua Messina, della
Sicilia.
– Perché un giorno
non ce ne torniamo tutti laggiù? – mi dice – e cacciamo via tutti i
politicanti, gli affaristi, i mafiosi.
– E poi, dopo una
lunga pausa: – Ma no, non è possibile – dice – è un’utopia.
Ma del libro non parla e io non oso fargli domande. E il libro è lì, sempre in bozze sparse, sul tavolo
e anche sul divano. E c’è anche la prima
pagina, la controcopertina col titolo.
“Orcynus orca” si chiama ora e non più
“I giorni della fera”. E poi di
Dante – è grande in tutte le dimensioni – dice – è iperbolico. La Divina Commedia è il mio libro De
Chevet. Mi è servito molto, soprattutto
per la lingua. Quello che mi scandalizza sempre è il Manzoni, col suo “Bagno”
in Arno.
Al momento che devo
partire, non vuole lasciarmi andar via, vuole ancora parlare e parlare con me,
in quel suo flusso di ricordi, di sentimenti e risentimenti.
Certo, D’Arrigo,
rappresenta un caso, una eccentricità, un fenomeno di impegno totale alla letteratura, alla
poesia, che non si riscontra forse più nel mondo d’oggi. Non si sa ancora che ripercussioni avrà il
suo libro nei lettori, nei critici.
Il rischio più grosso in cui potrà incorrere è quello di essere chiuso, cristallizzato nel fenomeno, nel personaggio. E questo lui lo sa e lo teme. Ma ha anche temuto fino a ieri, soprattutto, portare a termine il libro, distaccarsene, non lavorarci più, consegnare col “va bene, si stampi”, quelle mille e duecento pagine di bozze all’editore. Perché, quando opere come “Orcynus Orca” possono dirsi concluse? Quando si può dire conclusa una vita, la vita, anche se minacciata dall’orca atomica, dall’orca tecnologica, dall’orca della disumanizzazione?