Vincenzo Consolo Le due radici

QUADERNO 2018 Le due radici

La metrica della memoria


foto: Giovanna Borgese Palermo 1975

La metrica della memoria

Un velo d’illusione, di pietà,

come ogni  sipario di teatro,

come ogni schermo; ogni sudario

copre la realtà, il dolore,

copre la volontà.

La tragedia é la meno convenzionale,

la meno compromessa delle arti,

la parola poetica e teatrale,

la parola in gloria raddoppiata,

la parola scritta e pronunciata. (1)

Al di là é la musica. E al di là é il silenzio.

Il silenzio tra uno strepito e l’altro

del vento, tra un boato e l’altro

del vulcano. Al di là é il gesto.

O il grigio scoramento,

il crepuscolo, il brivido del freddo,

l’ala del pipistrello; é il dolore nero,

senza scampo, l’abisso smisurato;

é l’arresto oppositivo, l’impietrimento.

Così agli estremi si congiungono

gli estremi: le forze naturali

e il volere umano,

il deserto di ceneri, di lave

e la parola che squarcia ogni velame,

valica la siepe, risuona

oltre la storia, oltre l’orizzonte.

In questo viaggio estremo d’un Empedocle

vorremmo ci accompagnasse l’Empedoklès

malinconico e ribelle d’Agrigento,

ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.

Per la nostra inanità, impotenza,

per la dura sordità del mondo,

la sua ottusa indifferenza,

come alle nove figlie di Giove

e di Memoria, alle Muse trapassate,

chiediamo aiuto a tanti, a molti,

poiché crediamo che nonostante

noi, voi, il rito sia necessario,

necessaria più che mai la catarsi.

(Catarsi, p.13-14, […])

 

Questi versi, strofe o frasi, sono tratte dal  Prologo della mia opera teatrale intitolata Catarsi, in cui  é messo in scena il suicidio sull’ Etna di un moderno Empedocle.

Ho voluto iniziare con questi versi perché la tragedia, in forma teatrale o narrativa, in versi o in prosa, rappresenta l’esito ultimo di quella che posso chiamare la mia ideologia letteraria, l’espressione estrema della mia ricerca stilistica. Espressione, in Catarsi, in forma teatrale o poetica, in cui si ipotizza che la scrittura, la parola, tramite il gesto estremo del personaggio, si ponga al limite della pronunciabilità, tenda al suono, al silenzio.

 

[…] Empedocle:

La tragedia comincia nel fuoco più alto (2)

                    In questa nuda e pura, terrifica natura,

in questa scena mirabile e smarrente,

ogni parola, accento é misera convenzione,

rito, finzione, rappresentazione teatrale.

 

Un testo, questo, dal linguaggio di voluta comunicabilità,privo di innesti dialettali,  lontano dal pastiche espressionistico praticato nelle mie opere narrative, intenzionalmente alto,  in qualche modo declamatorio, puntellato da rimandi impliciti e da esplicite citazioni di testi classici: da Hölderlin, naturalmente, ai frammenti di Perì Phùseos e di Katharmoì di Empedocle.

Per spiegare questo esito, devo partire dall’ esordio, dalla mia scelta di campo letterario, dalla prima impostazione stilistica. E il discorso cade fatalmente sulla scrittura, sulla lingua.

La lingua  italiana, sin dalla sua nascita, sappiamo, é stata, come dice Roland Barthes, “molto parlata”, nel senso che molto si é scritto su di essa. A partire dal suo grande  creatore, da Dante, con il De vulgari eloquentia. Il quale, oltre ad essere un saggio di poetica personale, é il primo trattato di linguistica italiana. “Chiamiamo lingua volgare” dice “quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando cominciano ad articolare i suoni […] Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono ‘grammatica’ (lingua letteraria regolata)”. E afferma, con un bell’ossimoro: “Harum quoque duarum nobilior est vulgaris” (Di queste due lingue la più nobile é la volgare). Da Dante dunque a Lodovico Castelvetro, ad Annibal Caro, e giù fino a Leopardi, a Manzoni, a De Amicis, fino a Pasolini. Molti  scrittori insomma hanno parlato di questo strumento, della lingua che erano costretti ad usare.

Mi voglio soffermare su Leopardi, sulle riflessioni che il poeta fa sulla società, sulla letteratura e sulla lingua italiana in quel gran mare che é lo Zibaldone. Leopardi confronta la lingua italiana con la lingua francese, stabilisce un continuo parallelo fra le due lingue, così apparentemente prossime e insieme così lontane. Lontane al punto, afferma tra gli altri Luca Serianni (3),  che per un adolescente italiano la lingua di Dante o del Novellino è ancora in gran parte comprensibile, mentre per il suo coetaneo francese La Chanson de Roland é un testo straniero, da affrontare con tanto di vocabolario.

Ma torniamo al nostro Leopardi. Il francese, egli dice, tende all’ unicità, mentre l’italiano é un complesso di lingue piuttosto che una lingua sola, potendo essa variare secondo i vari soggetti e stili e caratteri degli scrittori, per cui diversi stili sembrano quasi diverse lingue; il francese invece, sin dall’epoca di Luigi XIV, si é geometrizzato, é diventato lingua unica. E cita, Leopardi, Fénelon, il quale definisce la lingua francese una “processione di collegiali”.Diciamo qui tra parentesi che alla frase di Fénelon deve aver pensato Ernest Renan nell’affermare: “Il francese non sarà mai una lingua  dell’assurdo: e neanche sarà mai una lingua  reazionaria. Non si riesce a immaginare una vera e propria reazione che abbia per strumento il francese”. Ma a Renan ribatte Roland Barthes: “L’errore di Renan  non era errore strutturale ma storico; egli credeva che il francese, plasmato dalla ragione, conducesse necessariamente all’espressione di una ragione politica la quale nel suo spirito non poteva che essere democratica”. E concludeva: “La lingua non é né reazionaria né progressista: essa é semplicemente fascista; il fascismo infatti, non é impedire di dire, ma obbligare a dire”. Non capisco questo radicalismo linguistico di Barthes, espresso nella lezione inaugurale al Collège de France, ma  chiudendo la lunga parentesi, ritorno ancora a Leopardi, alla sua idea del francese geometrizzato. E non posso non esclamare:”Beati i francesi con la loro lingua unica, geometrica e cartesiana! Che é segno, quella lingua, dell’esistenza e della compiutezza di una società civile (“Oggi so che alla Francia mi lega soltanto l’amore per la lingua francese” scriveva Jean Genet durante il suo vagabondare per l’Europa) (4). Il complesso di lingue che é (o che é stato, fino agli anni Sessanta, fino all’analisi della trasformazione di questa lingua che ne fa Pasolini), l’italiano é di segno opposto: segno vale a dire dell’assenza o incompiutezza di una società civile italiana.

Lo Zibaldone, dicevo. Leopardi afferma che la lingua italiana, il toscano vale a dire, raggiunge la sua massima eleganza  nel Cinquecento. Finisce questa eleganza, questa centralità toscana, con la Controriforma, con l’esplosione di quel leibniziano cataclisma armonico, di quell’ anarchia equilibrata che va sotto il nome di Barocco. Per Croce però il Barocco non nasce dalla Controriforma, ma da una concomitante decadenza, dall’ affievolirsi di quell’ entusiasmo morale, di quello spirito del Rinascimento che aveva illuminato l’Europa. Era stata Firenze dunque centro di quella lingua attica, di quell’italiano platonico, di quella scrittura borghese, laica, elegante dei poeti, dei filosofi, degli scienziati a cui ogni scrittore, da ogni corte o convento, da ogni accademia o piazza, da ogni centro o periferia aspirava. Ma questa lingua dell’Ariosto e del Tasso, del Machiavelli e del Guicciardini, nel tempo si irrigidisce, si fa aulica, perde contatto col suo fondo popolare, si geometrizza, perde in estensione. Leopardi ammira la perfezione stilistica raggiunta dagli scrittori del nostro Secolo d’Oro, ma predilige l’immensità, la varietà, la vertiginosa libertà espressiva di uno scrittore secentesco, barocco, del gesuita Daniello Bartoli, l’autore della Istoria della Compagnia di Gesù. Dice: “Il padre Daniello Bartoli é il Dante della prosa italiana. Il suo stile, in ciò che spetta alla lingua, é tutto risalti e rilievi”. Risalti e rilievi come quelli del Resegone, che Manzoni ironizza ironizzando il Seicento, il tempo della disgregazione, del marasma sociale. Ironizza prima esplicitamente trascrivendo nell’introduzione  del suo grande romanzo il “dilavato e graffiato autografo” dell’anonimo secentista, inzeppato “d’idiotismi lombardi”, di “declamazioni ampollose”, di “solecismi pedestri” e seminato qua e là da qualche eleganza spagnola. (L’espediente del documento dell’anonimo secentesco pensiamo derivi al Manzoni da Cervantes, dal Don Chisciotte, dal sedicente manoscritto dell’arabo Cide Hamete Berengeli). E ironizza ancora nascostamente parodiando nell’incipit, in “Quel ramo del lago di Como”, un brano del Bartoli riguardante l’India, la regione del Gange, riportando così il disordine lombardo all’ordine, alla geometria fiorentina. Che era per Manzoni l’aspirazione all’ordine, all’armonia sociale, a un illuministico, cristiano Paese, di cui la lingua, comune e comunicativa, doveva essere espressione. Utopia mai realizzatasi, si sa. E dunque la moderna storia letteraria italiana, con le rivoluzioni linguistiche degli Scapigliati, di Verga e dei Veristi, con il preziosismo decadente di D’Annunzio, con la esplosione polifonica del “barocco” Gadda e degli altri sperimentalisti, da una parte, con lo sviluppo della “complessa” semplicità leopardiana dei rondisti e degli ermetici, con l’asciutta, scabra lingua di Montale, dall’altra, é la storia del convivere e dell’alternarsi della lingua rinascimentale e illuministica e della linea barocca e sperimentale. É la storia di speranza e di fiducia degli scrittori in una società civile; la storia di sfiducia nella società, di distacco da essa, di malinconia, di disperazione.

Da tali altezze scendendo al mio caso, a quel  che ho potuto o saputo fare, posso dire questo. Ho mosso i miei primi passi in campo letterario (e questo risale al 1963) nel momento in cui si concludeva in Italia la stagione del Neorealismo e stava per affacciarsi all’ orizzonte quel movimento avanguardistico che va sotto il nome di Gruppo ‘63. Il quale, come tutte le avanguardie, opponendosi alle linee letterarie che erano in quel momento praticate, dalla neo-realistica, alla illuministica e razionalistica, alla sperimentalistica, programmava l’azzeramento d’ogni linguaggio che proveniva dalla tradizione e proponeva un nuovo, artificiale linguaggio di difficile praticabilità. L’operazione non era nuova, naturalmente, era già stata fatta dal Futurismo, dal suo fondatore Marinetti, il quale aveva dettato il decalogo della nuova scrittura.

1) Bisogna distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono.

2) Si deve usare il verbo all’ infinito.

3) Si deve abolire l’aggettivo.

4) Si deve abolire l’avverbio…Etc…Etc…

Questa ideologia linguistica o stilistica marinettiana riproponeva uno dei teorici del  Gruppo ’63, affermando che bisognava praticare il “disordine sintattico e semantico come rispecchiamento del disordine della società”. Credo che si fosse nel campo della indecifrabilità, della pseudo-afasia, speculare alla indecifrabilità linguistica e alla pseudo-afasia del potere.

Dicevo che ho mosso i primi passi in quel clima letterario e insieme in quel clima politico in cui un partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana, dal ’48 ininterrottamente al potere, aveva cambiato profondamente l’assetto sociale e culturale del nostro Paese, aveva cambiato la nostra lingua.

Pasolini (sulla rivista Rinascita – dicembre ’64 – quindi in Empirismo eretico)  aveva pubblicato il saggio dal titolo Nuove questioni linguistiche in cui sosteneva che, con il neo-capitalismo, l’asse linguistico italiano s’era spostato dal centro meridione, da una realtà burocratica e contadino-dialettale, al centro settentrione, a una realtà piccolo-borghese aziendale e tecnologica. E analizzava un brano del discorso di un uomo politico emblematico, Aldo Moro (ucciso a Roma nel ’78, come sappiamo, da quei piccolo-borghesi criminali, mascherati da rivoluzionari, che sono stati i componenti delle Brigate Rosse), discorso pronunciato nel momento significativo dell’inaugurazione dell’Autostrada del Sole, autostrada che univa per la prima volta l’Italia dal Piemonte alla Sicilia. Diceva Moro: “ La produttività degli investimenti del piano autostradale dipende dunque dal loro coordinamento in una programmazione delle infrastrutture  di trasporto, che tenda a risolvere gli squilibri, ad eliminare le strozzature, a ridurre gli sperperi della concorrenza fra diversi mezzi di trasporto, a dare vita insomma ad un sistema integrato su scala nazionale”. E Pasolini concludeva dunque nel suo saggio: “Perciò in qualche modo, con qualche titubanza, e non senza emozione, mi sento autorizzato ad annunciare che è nato l’italiano come lingua nazionale” (si noti in questa frase l’amara ironia pasoliniana). Non era certo, questo italiano per la prima volta nazionale, uguale al francese unico e geometrizzato di cui parlava Leopardi, ma una sorta di sotto o extra-lingua, una astorica, rigida, incolore koinè.Sono passati più di quarant’anni dal 1964 e lascio immaginare la situazione linguistica italiana di oggi, dell’italiano strumentale e di quello letterario.

Esordivo in quel tempo, insieme a Luigi Meneghello, Lucio Mastronardi, Stefano D’Arrigo con La ferita dell’aprile, titolo di eco eliotiana. Un racconto in una prima persona mai più ripresa, una sorta di Telemachia o romanzo di formazione. Mi ponevo con esso subito, un po’ istintivamente e un po’ consapevolmente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’ impasto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo a un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile. E organizzavo insieme la scrittura su una scansione metrica, su un ritmo, con il gioco delle rime e delle assonanze. Prendeva così il racconto, nella sua ritrazione linguistica, nella sua inarticolazione sintattica, nella sua cadenza, la forma in qualche modo di un poemetto narrativo. C’era certo, dietro il libro, la lezione di Gadda e di Pasolini, c’era l’ineludibile matrice verghiana, ma c’era l’evidente polemica sociale, la diffidenza nei confronti del contesto storico, della sua lingua.

Tredici anni sono trascorsi tra il primo e il secondo libro. Un tempo lungo che poteva anche significare dimissione dalla pratica letteraria. Un tempo che ha coinciso – mi si permetta di dirlo – con la mia vicenda personale, con il mio trasferimento, nel ’68, dalla Sicilia a Milano. In questa città provai spaesamento per la nuova realtà, urbana e industriale, in cui mi trovai immerso, realtà di cui mi mancava memoria e linguaggio; per l’acceso clima politico, per i duri conflitti sociali di quegli anni. Fu un tempo quello di studio e di riflessione su quella realtà e sul dibattito politico e culturale che allora si svolgeva. Frutto di tutto questo fu la pubblicazione, nel 1976, del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

Un romanzo storico-metaforico, ambientato in Sicilia intorno al 1860, che voleva chiaramente rappresentare il grande rinnovamento, l’utopia politica e sociale che nel  Sessantotto si vagheggiava in Italia e altrove, che nel nostro Paese doveva frantumarsi a causa dei suoi esiti tragici, disastrosi. L’ambientazione storica e il ripartire dal luogo della mia memoria mi permetteva di raggiungere maggiore consapevolezza della mia scelta di campo letterario, scelta contenutistica e stilistica. La sperimentazione linguistica, per l’adozione della terza persona, si svolgeva ora sul piano dell’ironia e del discorso indiretto libero. L’esito era quindi la “plurivocità” ben individuata da Cesare Segre. In cui era incluso il linguaggio alto del protagonista, un erudito dell’800, e la lingua dei contadini, la cui estremità era rappresentata da un antico dialetto, il gallo-italico o mediolatino, che si parlava in Sicilia in isole linguistiche dell’azione del romanzo. La sperimentazione, nel romanzo, era anche sul piano della struttura. I cui jati, le cui fratture erano riempite da inserti storiografici, da documenti, la cui funzione era quella di connettere i vari lacerti narrativi. Mi veniva questo dalle sollecitazioni del Gruppo ’47 di Enzerberger, per le sue teorie  di Letteratura come storiografia.  Anche qui c’é la messa in crisi del genere romanzo, c’é ancora la polemica della scrittura narrativa nei confronti della società. Società di cui fa parte la cosiddetta industria culturale che mercifica e distrugge il romanzo.

 

Nei miei successivi romanzi perseguo e approfondisco sempre di più la sperimentazione linguistica. In essi c’é la messa in crisi del genere romanzo, e c’é ancora, come dicevo sopra, la polemica nei confronti della società. Società in cui, con la rivoluzione tecnologica, con l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, l’autore non riesce più a individuare il lettore. Italo Calvino, scrittore quanto mai razionalista o illuminista, estremamente comunicativo, al pari di Moravia, di Bassani, di Primo Levi, di Sciascia, e di altri di quella generazione, Calvino, nel contesto di una inchiesta, alla domanda, a quale tipo di lettore egli pensasse scrivendo, rispondeva: “A un lettore che la sa più lunga di me”. Non credo che Calvino, in questo nostro presente, potrebbe ancora rispondere in quel modo, oggi in cui non è immaginabile un lettore più o meno letterariamente avveduto, più o meno

colto dell’autore.

Viene quindi la pubblicazione di

Lunaria (1985), un  racconto, una favola dialogata, che fatalmente prende forma

teatrale.La favola, ambientata in un vago Settecento, alla corte di un viceré spagnolo di Sicilia, si ispirava a un frammento lirico di Leopardi, Lo spavento notturno,e ad una prosa di Lucio Piccolo, L’esequie della luna.  La metafora della caduta della luna significava la caduta della poesia, della cultura nel nostro contesto.   L’epoca e il tema favolistico,  mi facevano  approdare a soluzioni di apparente puro significante, come questa:

Lena lennicula

Lemma lavicula,

làmula,

lèmura,

màmula.

Létula,

màlia,

Mah.

Della stessa epoca e dello stesso clima quai favolistico è anche Retablo. E’ un viaggio nella Sicilia classica, una metafora della ricerca al di là della ideologia, della completa dimensione umana, della perduta eredità umanistica. Per i rimandi, le citazioni eplicite e no, per la struttura, il risultato del racconto è di un ipertesto letterario o di un palinsesto.

Nottetempo, casa per casa è ancora una narrazione scandita come un poema. Dico narrazione nel modo in cui è stata definita da Walter Benjamin. Il quale in Angelus Novus, nel saggio su Nicola Leskov, fa una netta distinzione tra romanzo e narrazione.

La storia di Nottetempo, casa per casa é ambientata negli anni Venti, nel momento del fascismo in Italia. Vi si parla della follia privata, individuale, dolorosa, innocente, e della follia pubblica, la follia della società, della storia. Personaggio simbolico é il satanista Aleister Crowley, che incarna il decadentismo estremo della cultura europea di quegli anni, di nuove metafisiche, di misticismi di segno nero o bianco. Il protagonista del racconto, Petro Marano, è un piccolo intellettuale socialista, é costretto all’esilio, a rifugiarsi in Tunisia. Il racconto termina con questa frase: “Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.”

 

Il libro successivo L’olivo e l’olivastro, inizia con questa frase: “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto”. Qui è negata la finzione letteraria, l’invenzione del racconto. Il libro è un viaggio nella realtà contingente e nella memoria. E’ il ritorno di un Ulisse a Itaca, dove non trova che distruzione, violenza, barbarie.

Ma devo ora tornare all’inizio di questa conversazione. Tornare alla tragedia Catarsi, in cui , l’antagonista di Empedocle, Pausania,  così recita:

–              Io sono il messaggero, l’anghelos, sono

il vostro medium, colui  a cui è affidato

il dovere del racconto, colui che conosce

i nessi, la sintassi, le ambiguità,

le astuzie della prosa, del linguaggio….

Cambia tono, diviene recitativo, enfatico.

PAUSANIA – E un mattino d’agosto lasciammo la dimora alta e luminosa, lasciammo i templi, le piazze, le arnie e le vigne, abbandonammo la patria nostra, la superba Agrigento che s’alza sopra il fiume…Spogli ed esposti, solitari, per boschi e per deserti giungemmo all’oriente, all’altro mare di quest’isola vasta, alla montagna immensa, presso la scaturigine del fuoco, del fragore, della minaccia…

Empedocle lo interrompe con un ghigno sarcastico.

EMPEDOCLE – Che menzogna, che recita, che insopportabile linguaggio! E’ proprio il degno figlio di questo orrendo tempo, di questo abominevole contesto, di questo falso teatro compromesso, di quest’era soddisfatta, di questa società compatta, priva di tradimento, d’eresia, priva di poesia. Figlio di questo mondo degli avvisi, del messaggio tondo, dei segni fitti del vuoto…Dietro il velo grasso delle sue parole di melassa, io potrei scoprire l’oscena ricchezza della mia città, la sua violenza, la sua volgarità, gli intrighi, gli abusi, i misfatti, le stragi d’innocenza, d’onore, di memoria, la morte quotidiana imbellettata come le parole morte di questo misero ragazzo, di questo triste opportunista…

Ecco, ne L’olivo e l’olivastro l’ánghelos, il narratore, non appare più sulla scena poiché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro che in tono lirico, in una lingua non più comunicabile, commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi. Avviene qui la ritrazione invece che l’irruzione dello spirito socratico, quello che Nietzsche, ne La nascita della tragedia vede nel passaggio dall’antica tragedia di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Lo spirito socratico è il ragionamento, la filosofia, è la riflessione che l’autore del romanzo fa sulla vicenda che sta narrando: è quindi, come quello dell’ánghelos o messaggero con lo spettatore, il dialogo con il lettore. La ritrazione, la scomparsa dello spirito socratico é l’interruzione del dialogo con il lettore; é lo spostamento della scrittura dalla comunicazione all’espressione.

Nelle mie narrazioni c’é sempre l’interruzione del racconto e il cambio della scrittura, il suo alzarsi di tono, svolgersi in forma ritmica, lirico-poetica. Sono questi per me le parti corali o i cantica latini.

Eric Auerbach, nel suo saggio sul Don Chisciotte, contenuto in Mimesis, scrive: “Cervantes (…) é (anche) un continuatore della grande tradizione epico-retorica, per la quale anche la prosa é un’arte, retta da proprie leggi. Non appena si tratti di grandi sentimenti e di passioni o anche di grandi avvenimenti, compare questo alto stile con tutti i suoi artifici”.

I grandi avvenimenti di cui parla Auerbach (e i sentimenti che essi provocano) con sistono per me, in questo nostro tempo, in questo nostro contesto occidentale,  nella cancellazione della memoria,e quindi della continua minaccia della cancellzione della letteratura, soprattutto di quella forma letteraria dialogante che é il romanzo. Il quale credo che oggi possa trovare una sua salvezza o plausibilità in una forma monologante, in una forma poetica.

Poesia che é memoria, e soprattutto memoria letteraria.

Questo ho cercato di fare nello Spasimo di Palermo, terzo tempo, con il Sorriso dell’ignoto marinaio e Nottetempo,casa per casa, di una trilogia. “Ostinata narrazione poetica, in cui il raccontare é in ogni momento ricerca di senso, un interrogazione sul valore della realtà e dell’esistenza…” (Giulio Ferroni)

Nello Spasimo  vi si narra ancora di un viaggio di ritorno, di un nòstos in un’Itaca dove non é che smarrimento, violenza e dolore, “..una landa ingrata, / dove si trovano strage e livore” dice Empedocle nel Poema lustrale.

Questa é la nostra Itaca d’oggi, la matrigna terra della giustizia negata, della memoria cancellata, dell’intelligenza offuscata, della bellezza e della poesia oltraggiate,  delle passioni incenerite.

 

Vincenzo Consolo

 

 

  • Pasolini P.P. Affabulazione – 1966 – prefazione di G.D. Bonino TO Einaudi 1992
  • Hölderlin F. Sul tragico –1795-1804 – prefazione R.Bodei Mi Feltrinelli 1994

3)  Serianni L.  Viaggiatori, musicisti, poeti,  MI Garzanti 2002

4)   Genet J., Diario del ladro, Il Saggiatore 2002

versione definitiva al 18.2.2009

La rappresentazione degli spazi nell’ opera di Vincenzo Consolo

Bellanova A.,

Un eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera
di Vincenzo Consolo, Université de Lausanne, 2019.

Il volume propone un’analisi geocentrata della produzione di Vincenzo Consolo, valutando un corpus di testi ampio e vario, che va dalle opere maggiori a articoli e testi sparsi. Osservando come,già a una lettura superficiale, gli spazi rappresentati si annuncino quali straordinari portatori di senso, ha dunque l’obiettivo, mediante uno studio delle modalità di costruzione dell’immagine

letteraria, di accendere l’attenzione non solo sugli spazi di cui l’autore parla direttamente, ma anche sulla nostra relazione con lo spazio. L’introduzione, oltre a portare esempi della ‘geograficità’ dell’opera di Consolo – indicazioni

spaziali, dettagli localizzativi e descrittivi, toponimi –, fa il punto sugli indirizzi di critica geocentrati, ovvero geocritica, geopoetica, geotematica e ecocritica.

La prima parte invece, partendo dalla scelta di un approccio che contamina più linee di indagine,dichiara anche la necessità degli strumenti della critica letteraria tradizionale, soprattutto in relazione alla pagina ‘palinsesto’ e alla polifonia che caratterizzano l’opera di Consolo. Individua dunque e passa in rassegna i modi più ricorrenti nella rappresentazione consoliana: il contributo della letteratura e dell’arte nella definizione degli spazi, il ruolo della Storia, i rimandi alle percezioni sensoriali, il legame tra spazio e lavoro dell’uomo. In particolare l’esplorazione della ‘palincestuosità’ in relazione all’immagine dei luoghi sortisce la valorizzazione di un’ampia serie di rimandi e aspetti, distinguendo tra interventi della letteratura suscitati dall’identità stessa dei realia oggetto di appresentazione (ad esempio il rimando a Scilla e Cariddi e all’Odissea per parlare dello Stretto di Messina, i numerosi riferimenti ai resoconti del Grand Tour, soprattutto in Retablo per la caratterizzazione dell’isola) e accostamenti con luoghi distanti, a loro volta oggetto di rappresentazione letteraria (come i luoghi manzoniani ne Il sorriso dell’ignoto marinaio). Importante l’attenzione riservata al ruolo dei classici greci e latini: non solo l’Odissea, referente d’eccezione ne L’olivo e l’olivastro o ne Lo Spasimo, ma anche l’Eneide in particolare nel finale di Nottetempo, casa per casa, la poesia arcadica, gli storici antichi ecc.Come i modi individuati si intreccino nella produzione dell’immagine dei luoghi più significativi è argomento della seconda parte che, muovendo da Sant’Agata di Militello, si allarga all’analisi

puntuale della rappresentazione di Cefalù, Palermo, Siracusa, grandi siti archeologici della Sicilia occidentale, Milano. Una terza parte invece, sulla base delle suggestioni e degli strumenti forniti dall’ecocritica, riflette sul tema ecologico nell’opera di Consolo, soffermandosi soprattutto sulla rappresentazione degli

spazi siciliani e mediterranei e sull’impegno etico che vi si accompagna. In particolare questa sezione si concentra sull’immagine letteraria degli effetti prodotti dal “miracolo indecente” (i casi dei poli industriali di Milazzo, area siracusana, Gela o la violenza della speculazione edilizia) a cui l’autore contrappone alcune isole di sopravvivenza, ovvero i Nebrodi e gli Iblei. ‘osservazione

dello spazio di carta e quindi la considerazione dei meccanismi rappresentativi impegnati ‒ ricca intertestualità, straniamento, notazioni percettive ‒ accompagnate dalla documentazione a proposito dei referenti geografici reali, consentono di comprendere la critica feroce all’industrializzazione e alla modernità, in quanto fautrici di una grave perdita in termini di biodiversità culturale: soffermandosi sulle rappresentazioni dei luoghi del passato e denunciando l’invadenza delle immagini distorte di quelli del presente, l’autore avvisa della necessità di ricordare, del bisogno di documentare un’identità a rischio. A questo aspetto si aggiunge inoltre l’analisi della descrizione dei danni causati da una natura violenta (eruzioni, terremoti) e, ancora più importante, della rappresentazione dei meccanismi di ricostruzione (lodevoli nel caso della Noto barocca, stranianti nel caso della Nuova Gibellina). Infine una quarta parte, incentrata sulla questione Mediterraneo. Mentre evidenzia la caratterizzazione del mare come spazio di molteplicità e migrazioni (significativo il motivo insistente della morte per acqua, con chiaro riferimento al personaggio eliotiano di Phlebas il Fenicio), lo studio rivela un’importante riflessione autoriale sulle emergenze della contemporaneità.

Dalle Conclusioni, pp. 366-367: «Il lettore [di Consolo] potrà, facendosi strada in uno spazio letterario labirintico, compilare mappe di senso e comprendere i luoghi dell’autore e il nesso esistente tra geografie di carta e geografie

reali? Se sì, forse sarà incoraggiato a scoprire la Sicilia, il Mediterraneo, chissà anche Milano. Ma, fatta salva la specificità dei luoghi chiamati in causa, si troverà inevitabilmente di fronte a una serie di riflessioni di più ampia portata, ciò che accade di fronte alla vera letteratura. Comprenderà che i luoghi non sono uno sfondo, non solo quelli della pagina scritta, ancor meno i loro referenti della

realtà: nessun luogo reale, infatti, è un semplice contenitore, uno scenario su cui sfilare. Mediterà allora sul proprio modo di percepire lo spazio, sulla relazione tra rappresentazione e realtà, sulla memoria e sul cortocircuito che si produce quando, nello scorrere del tempo, Itaca smette di essere Itaca mentre i ricordi restano fedeli al passato. Sarà costretto a pensare a quello che sta succedendo

al paesaggio, a tratti esteticamente splendido, a tratti deturpato, privato della sua identità. Ecco, si interrogherà sull’identità: se i luoghi non sono uno sfondo e smettono di essere quello che sono – fagocitati dall’omologazione, da interessi economici, dalla costruzione di barriere –, inevitabili e funeste sono le conseguenze anche sugli esseri umani. Così strettamente interrelate sono l’identità degli uomini e quella degli spazi. Ecco allora l’eccezionalità di baedeker dell’opera di Consolo: vi si può cogliere l’invito a scoprire alcuni angoli geografici, mediante il rilievo a proposito delle emergenze architettoniche o naturalistiche che attendono il lettore che voglia avventurarsi alla scoperta dello spazio reale, ma vi si troverà anche la presentazione dei deprecabili interventi che deturpano il paesaggio e la vita umana. Già questo basterebbe ad attestarne la particolarità, perché le guide di viaggio, anche quelle letterarie, si soffermano piuttosto sugli aspetti seducenti, evitando invece ciò che produrrebbe un’esperienza quanto meno sgradevole per il lettore-viaggiatore. Mentre, alternando la lente dello stupore e dell’idealizzazione a quella dell’indignazione, attrae e scoraggia,

il testo svela la complessità della nostra relazione con lo spazio, costringendo ad un’esperienza non sempre gratificante, e guida a una maggiore attenzione nei confronti dei luoghi, di tutti i luoghi, in quanto portatori di identità. Alla domanda che la contemporaneità continua a porsi “Come andare avanti adesso che la modernità è sfinita?” (F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna,

Mondadori, Milano 2013), l’opera risponde affermando il valore di ciò che è rimasto, traccia di passato nel presente: solo nella conservazione, nella cura possiamo sperare di non perdere noi stessi,ma questo non può accadere senza consapevolezza. Consolo dichiara insomma che i luoghi non sono uno sfondo, ma ci appartengono profondamente e rileva l’intimo scambio che esiste sempre tra ambiente e essere umano.Mi piace pensare allora che nei versi di Accordi, con l’ignoto tu, l’autore alluda proprio a questo, ad un’identità sua e di tutti i figli del Mediterraneo, un’identità nata da una relazione vecchia di secoli con la terra, le piante, i muri a secco, con i paesaggi: tolto tutto ciò, cosa saremmo?

Sei nato dal carrubo

e dalla pietra

da madre ebrea

e da padre saraceno.

S’è indurita la tua carne

alle sabbie tempestose

del deserto,

affilate si sono le tue ossa

sui muri a secco

della masseria.

Brillano granatini

sul tuo palmo

per le punture

delle spinesante».

NOTTETEMPO, CASA PER CASA

1920, Cefalù. È notte. Al sorgere della luna gli ulivi che affollano la collina Santa Barbara sembrano “sradicarsi, muover dondolando, in tentativo di danza, in mutolo corteo, aspri, rugosi, piagati dalle folgori, maculati da lupe, da fumiggini, spansi o attorti con spasimo in se stessi”. Un’atmosfera magica ma anche angosciosa si sparge per la cittadina. Una porta si spalanca di colpo, ne esce barcollando un uomo che si morde le mani, si strappa la camicia al collo, inizia a correre ululando e urlando per le stradine silenziose. “Il luponario! Il luponario”, bisbigliano i suoi compaesani chiusi in casa al suo passaggio. L’uomo ogni tanto cade a terra, si inginocchia, si rotola nella polvere, batte i pugni contro il suolo, piange e ulula ancora. Giunge al mare e vorrebbe gettarsi dagli scogli, ma lo raggiunge, lo abbraccia e lo salva suo figlio Petro. Lui si divincola, corre verso il cimitero, si accascia su una lapide, finalmente si calma. 1920, Cefalù. È giorno. Fa molto caldo e “la vita chiede tregua al fervore del tempo, all’inclemenza dell’ora, chiede ristoro ai rèfoli, alle brezze, alle fragili ombre delle fronde, delle barche, alle fresche accoglienze delle stanze”. La bottega della Piluchera è affollata, si bevono vino, gazzosa, cedrata, persino acqua. Dal viale Margherita, procedendo su per via Mazzini e accompagnato da una strana musica “segreta d’ascosi pifferi, timballi e ciaramelle”, appare d’un tratto senza preavviso il corteo di forestieri più stravagante mai visto a Cefalù. Davanti a tutti marciano “due fantolini biondi, arricciolati”, vestiti di panni sgargianti. Seguono due donne in tunica color porpora e a piedi nudi. Chiude il corteo l’individuo più strano di tutti: è pieno di anelli e collane, ha un grande bastone dorato e con l’altro braccio tiene un neonato avvolto in panni di pizzo. È “un uomo maestoso, giacca d’alpagà sopra brache variopinte, (…) il cranio raso tranne una ciocca che come corno o fiamma gli si rizzava al colmo della fronte”…

Il magnifico romanzo di Vincenzo Consolo – nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 e morto a Milano, dove per una vita ha lavorato alla RAI, nel 2012 – è stato insignito del Premio Strega nel 1992. Magnifico per l’impianto narrativo complesso e sfaccettato, una vera sinfonia in cui la singola nota suonata dal singolo strumento è necessaria e contribuisce alla maestosità dell’insieme, magnifico per i temi affrontati (l’impatto dell’occultista Aleister Crowley e della sua corte variegata sull’ambiente della provincia siciliana degli anni Venti, e contemporaneamente l’avvento del Fascismo). Magnifico più di tutto per la lingua ricchissima, piena di arcaismi, neologismi e localismi. Non è raro imbattersi in prose ricercate, soprattutto nella narrativa italiana, lo sappiamo bene e lo riteniamo un difetto, un limite, un peccato originale. Ma Consolo è tra i pochissimi autori che possono permettersi uno stile così barocco, perché ha la sensibilità e l’approccio del poeta, maneggia la parola come fosse un orafo. Ecco perché le sue frasi profumano di zagara, di arancia, di acqua di mare, di notte d’estate, di sesso femminile. E la spiccata sensualità che la lingua di Consolo trasmette, come fosse un incantesimo arcaico, si adatta alla perfezione a raccontare le avventure di Mr. Crowley, che alla villa di Santa Barbara di Cefalù – da lui ribattezzata Abbazia di Thélema richiamando la sua dottrina, a sua volta così chiamata in onore del Gargantua di Rabelais – mise in scena una colorata rappresentazione di sé e delle sue rivoluzionarie idee in tema di religione, sesso e società, fondando una sorta di “comune” ante litteram. Libero amore, nudismo, abolizione dei vincoli e delle proprietà, droghe, rituali religiosi eretici. Uno scandalo che l’asfittica società siciliana non poteva tollerare (Crowley fu addirittura ribattezzato “u diavulu”) e che peraltro fu inquinato anche da voci false di cannibalismo, sacrifici umani, stupri, fino alla cacciata dell’occultista inglese dall’Italia ad opera delle autorità fasciste.

David Frati 
http://www.mangialibri.com/libri/nottetempo-casa-casa

Il punto scritto: genesi e scrittura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio

DARAGH O’CONNELL

In un’intervista fatta a Vincenzo Consolo parecchi anni fa, lo scrittore siciliano ha parlato della “fantasia creatrice” come di un elemento femminile con il quale si può uscire dal cerchio della ragione, un cerchio simboleggiato dalla metafora della “chiocciola” nel Sorriso dell’ignoto marinaio (O’Connell, 2004: 238-253). Questa fantasia creatrice nel romanzo, si muove nei panni del personaggio Catena Carnevale la fidanzata che sfregia il sorriso ironico e pungente del ritratto e, in seguito, ricama la tovaglia di seta intitolata «L’albero delle quattro arance «. La descrizione nel libro di questa tovaglia e fondamentale e assomiglia per certi versi proprio allo stile della scrittura consoliana, ed e in realtà una metafora per il testo stesso, se non l’intero progetto letterario di Consolo. Leggiamo: Sembrava, quella, una tovaglia stramba, cucita a fantasia e senza disciplina. Aveva sì, tutt’attorno una bordura di sfilato, ma il ricamo al centro era una mescolanza dei punti più disparati: il punto erba si mischiava col punto in croce, questo scivolava nel punto ombra e diradava fino al punto scritto. E i colori! Dalle tinte più tenui e sfumate, si passava d’improvviso ai verdi accesi e ai rossi più sfacciati. Sembrava, quella tovaglia, – penso la baronessa, – ricamata da una invasa dalla furia, che con intenzione ha trascurato regole numeri misure e armonia, fino a sembrare che la ragione le fosse andata a spasso. (Consolo, 2015: 167-168) Questa analogia tra la scrittura letteraria e il ricamo e lo sfregio di Catena, richiama proprio la poetica distintiva di Consolo: una poetica palinsestica che prevede l’accumulo e l’elisione di vari testi di provenienza diversa, siano essi di stampo giornalistico, creativo o saggistico, in uno spazio di singolare gestazione autoriale fra polifonia e palinsesto (O’Connell, 2008: 161-184). Queste pagine intendono analizzare, da diversi punti di vista, il primo capitolo del longseller di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), delineando l’evoluzione del romanzo dalla sua forma primigenia fino alle più recenti rielaborazioni. Saranno messe a fuoco alcune varianti testuali (Messina, 2009: 143-202) e dichiarate le fonti, letterarie e non, sottese all’intero capitolo. Il primo capitolo e in effetti, a mio avviso, un grande palinsesto, e molte delle procedure adottatevi da Consolo richiamano una polifonia e una concezione alla Bachtin ell’enciclopedismo, la sua definizione di romanzo di Seconda linea. In più, il capitolo I sancisce in realtà molti aspetti della nuova poetica di Consolo, che in definitiva rappresenta lo spazio letterario in cui il passaggio da riso a sorriso e più evidente. Consolo conclude cosi la Nota dell’autore, vent’anni dopo aggiunta come postfazione dell’edizione Mondadori del 1997: […] che senso ha la riproposta di questo Sorriso? E la risposta che posso ora darmi e che un senso il romanzo possa ancora trovarlo nella sua metafora. Metafora che sempre, quando s’irradia da un libro di verità ideativa ed emozionale, allarga il suo spettro con l’allargarsi del tempo. (Consolo, 1997: 183)2 Sono passati vent’anni da queste enunciazioni, e oggi il testo sfaccettato di Consolo ha cominciato a ricevere il trattamento critico che merita. Abbiamo avuto oltre quarant’anni per metabolizzare e situare un romanzo della sua importanza, non solo nel contesto della narrativa italiana del ventesimo secolo, ma anche in quello dell’evoluzione poetica di Consolo. Si dovrebbe, pertanto, entrare nel cuore del dibattito su questo allargarsi del tempo, contribuire attivamente alla crescita di questo corpus critico-accademico con al centro la poetica di Consolo. Tuttavia, in questo approccio al capitolo I, ciò che più ci preme non e tanto il suo allargarsi nel tempo, quanto il suo restringervisi, cercando di individuare con esattezza i momenti cardine della composizione del testo. Sarebbe erroneo, in tanti sensi interconnessi, dire che Il sorriso e un testo nel fiore dei suoi quarant’anni. Quando leggiamo le mini-biografie sulle copertine dei libri di Consolo, siamo portati a credere che Il sorriso sia un prodotto testuale della metà degli anni ’70 e perfettamente inserito nel suo tempo. In realtà, va sottolineato che Il sorriso e un testo mutevole, «un lavoro perennemente mobile e non finibile», per dirla con Contini (1970: 5), la cui genesi può essere collocata intorno alla metà degli anni ’60 e le cui più recenti articolazioni possono essere datate al 1997. Questo saggio intende dimostrare che Il sorriso si può considerare come un atto letterario il cui incipit – non solo testuale, ma anche concettuale – e retrodatabile a cinquant’anni fa. Fuori dalla storia del testo in quanto tale, alcune delle tematiche e delle metafore de Il sorriso sono apparse in diverse guise, in altre narrazioni più tarde di Consolo. Sia Nottetempo, casa per casa sia L’olivo e l’olivastro si riferiscono esplicitamente al Ritratto d’uomo di Antonello (Consolo, 1992a: 138-139 [Consolo, 2015: 142-143]; Consolo, 1994: 124-125 [Consolo, 2015: 852- 853]). Per cui si può dire che Il sorriso, dal suo livello ipertestuale originario, 2 La Nota dell’autore, vent’anni dopo e successivamente riapparsa come saggio di chiusura in Consolo, 1999a, p. 276-282, con il titolo «Il sorriso», vent’anni dopo. 57 e diventato un ipotesto per le opere successive di Consolo3. Per di più, Il sorriso e il primo capitolo di una trilogia di romanzi che prendono le mosse da importanti momenti della storia siciliana e italiana: l’insorgere del fascismo nei primi anni ’20 e la sua correlazione in tempi più recenti con la nuova destra italiana, in Nottetempo, casa per casa (1992); e il fallimento del tentativo di creare una società giusta da parte della comunemente definita “generazione del dopoguerra”, simbolizzato dall’assassinio del giudice Paolo Borsellino, in Lo spasimo di Palermo (1998). Tralasciando queste considerazioni, la focalizzazione esclusiva su Il sorriso e, in particolare, sul capitolo iniziale del romanzo, si basa su alcune valide ragioni: anzitutto, il capitolo I risulta il più negletto di tutti, dato che la critica ha preferito studiare e interpretare i cosiddetti “capitoli caldi” della seconda meta del romanzo; poi, perché e il capitolo con la storia testuale più lunga, e dunque la sua gestazione dovrebbe apparire più evidente ad un’attenta analisi; infine, il capitolo inaugura una nuova poetica per Consolo dopo La ferita dell’aprile (1963): gli elementi di solito associati al romanzo – il significato del sorriso, la chiocciola, la compresenza di poesia e prosa, le forme metriche, gli stilemi, l’uso dell’elencazione, di forme dialettali e parodistiche, l’impegno dell’autore, e un’abbondante messe di intertesti, in breve, una polifonia – sono già tutti presenti nel loro insieme in questo capitolo. Certo i commenti dell’autore facilitano la lettura del primo capitolo del romanzo, e le riflessioni sono molto rilevanti, non solo per ciò che nascondono, ma anche per ciò che rivelano. Forse, quella più significativa riguardo al Sorriso appare nella Nota dell’autore chiamata in causa all’inizio, in cui, pur a distanza di venti anni, Consolo delinea i tre elementi fondamentali da cui la struttura del romanzo ha preso forma: I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcara, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezze […] a una terra di consapevolezza e di dialettica. (Consolo, 1997: 177-178) Dei tre punti sopraelencati, solo il primo e notoriamente escluso, e di là da venire. Inoltre, questo movimento ad assetto triangolare, emanante dai brani d’apertura del capitolo, e illuminante riguardo alla poetica di Consolo e a come (e dove) egli si vede situato all’interno della tradizione letteraria siciliana: in una posizione intermedia tra quella occidentale e quella orientale, che e come dire, tra 3 Seguo le categorizzazioni e classificazioni genettiane della “transtestualità”, vale a dire la trascendenza testuale del testo, rilevate da Gérard Genette (1997: 7-8): «si tratta appunto di quella che chiamerò d’ora in poi ipertestualità. Designo con questo termine ogni relazione che unisca un testo B (che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto) sul quale esso si innesta in una maniera che non è quella del commento». storia e mito. I movimenti spaziali da est a ovest nel primo capitolo del romanzo, e la decisione dell’autore di abbracciare le tradizioni storiche occidentali degli scrittori dell’isola, si scorgono nello stesso incipit4. Nel libro-intervista Fuga dall’Etna, riferendosi proprio alla prima parte del romanzo, Consolo afferma: Il libro e scritto nella prima parte in forma parodistica, mimetica, sarcastica se si vuole, quindi in negativo: faccio il verso a un erudito dell’Ottocento recluso nella sua mania antiquaria, che scrive i suoi saggi scientifici, che si occupa di malacologia, una materia quanto mai curiosa, eccentrica. (Consolo, 1993: 45) Se gli elementi parodistici, mimetici e sarcastici sono davvero presenti, e in abbondanza, nella prima parte del romanzo, Consolo pero non evidenzia tutti gli altri che danno “forma” a questo capitolo: un’angoscia delle influenze di altri scrittori, la ricerca di una nuova poetica, una concezione totalmente alterata di quello che è il genere del romanzo. L’analisi s’incentrerà proprio su questi elementi nascosti o impliciti, peraltro parzialmente rivelati dall’esame del graduale crescere del testo, gli inizi del quale si possono far risalire a un momento circostanziato della vita dell’autore, un evento che e l’emblema degli obiettivi dichiarati della sua poetica, vale a dire, la fusione dei due filoni, orientale e occidentale, della letteratura siciliana. E mia ferma convinzione, che l’incontro organizzato da Consolo tra i suoi due mentori, il poeta Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia, e il più chiaro esempio possibile del punto di partenza del futuro romanzo. Né Le pietre di Pantalica, Consolo racconta l’evento tenutosi il 7 marzo 1965, una data degna di nota, perché coincidente con la prima messa officiata in lingua italiana dopo il Concilio Vaticano Secondo: Sciascia arrivo da Caltanissetta al mio paese e assieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali». Avevo deciso di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Milano. «Non parta, non vada via» mi diceva Piccolo. «A Milano con tutti gli altri, rischia di annullarsi. La lontananza, l’isolamento danno più fascino suscitano interesse e curiosità.» Non potevo rispondergli che non ero ricco, che dovevo guadagnarmi la vita. Non potevo dirgli, soprattutto, che lì in Sicilia mi sembrava tutto finito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia. (Consolo, 1988: 142-143 [Consolo, 2015: 599])5 Ad un primo sguardo, nel brano sono proprio pochi gli accenni riferibili alla futura opera Il sorriso, perché Consolo taglia corto con la storia dell’incontro raccontando di altre esperienze con Piccolo. Invece nella Fuga dall’Etna riprende il racconto con un’interessante coda: 4 Per le discussioni sulla mappatura della letteratura siciliana del luogo, cfr. il mio saggio: O’Connell, (2005: 29-48); e O’Rawe (2007: 79-94). 5 La più antica traccia si trova in due quaderni autografi (Ms 3, Ms 4), per cui cfr. Messina (2009: 58 e n. 53). Questo uno dei ricordi più belli, che riprendo da Le pietre di Pantalica: «[…] “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali.” “C’e qui Consolo,” rispose Sciascia. “Consolo e ancora giovinetto,” replico Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone.» Sciascia era rimasto affascinato da quel poeta, da quel gran personaggio che era Piccolo. Erano, i due scrittori, quanto di più diverso, di più lontano si potesse immaginare, eppure nutrivano, l’uno per l’altro, stima e ammirazione. (Consolo, 1993: 23-24)6 Non è da ritenere una coincidenza il fatto che siano esattamente queste nostre terre, quei paesi medievali a costituire il contenuto o retroscena del primo capitolo del futuro romanzo. La sfida sottaciuta di Consolo a Piccolo diventa poi col tempo anche sfida a tutta la letteratura siciliana, e il romanzo che ne risulta e un romanzo i cui antenati sono certo Verga, De Roberto, Pirandello, Vittorini e Tomasi di Lampedusa, ma i cui “istigatori” potrebbero considerarsi Piccolo e Sciascia: sia detto per inciso, richiamati rispettivamente dal protagonista Enrico Pirajno Barone di Mandralisca (Piccolo) e del deuteragonista Giovanni Interdonato (Sciascia). Tredici anni di silenzio separano il primo romanzo di Consolo La ferita dell’aprile datato 1963 e Il sorriso. La concezione originale de Il sorriso, comunque, prende le mosse negli anni ’60 ed e connessa, almeno dal punto di vista ideologico, al periodo di “acuta storia”. Inoltre, e un romanzo siciliano in senso stretto, non solo perché tratta di storia siciliana, ma anche perché la sua nascita e il suo sviluppo sono databili al periodo 1963-1968, ovvero gli anni in cui Consolo visse in Sicilia prima di spostarsi a Milano definitivamente nel gennaio 1968. Ma Consolo, e chiaro, non smise di scrivere a meta anni ’60 per riprendere la penna in mano soltanto a metà degli anni ’70. Rimase attivo, sia sul piano creativo sia su quello giornalistico, durante gli anni che separano le date di pubblicazione dei due romanzi7. Tuttavia, ciò che si commenta e la preistoria effettiva del libro, ovvero come arrivo alla sua versione definitiva nel 1976. Quanto segue e la storia tracciata sulla fortuna di pubblicazione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, dalle prime apparizioni fino ad oggi. Testo e testi: variazioni e varianti. Nel numero luglio-settembre di «Nuovi Argomenti» del 1969, diretto da Alberto Carocci, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, appare per la prima 6 Le virgolette evidenzierebbero il passaggio citato da Le pietre di Pantalica fino a «una sfida verso il barone». In realtà, il passo da «C’e qui Consolo» a «una sfida verso il barone» non appaiono, come si è visto, in Le pietre di Pantalica. 7 Per la scrittura creativa, cfr. i racconti di quegli anni ora in La mia isola è Las Vegas (Consolo, 2012). Per quella giornalistica, anche se ne dà solo una visione parziale, Esercizi di cronaca (Consolo, 2013). Da non escludere sono anche gli articoli raccolti in Cosa loro. Mafie fra cronaca e riflessione. 1970-2010, (Consolo, 2017). Ed altri ancora, di vario argomento, risulta che ne siano conservati nell’Archivio Consolo. Volta un racconto dal titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio. A tutti gli effetti e ciò che diventerà il primo capitolo del futuro romanzo omonimo (Consolo, 1969: 161-174). Il racconto non presenta alcun antefatto o appendici. E di poco successivo, del 1975, un libro dallo stesso titolo con un’acquaforte di Renato Guttuso del famoso Ritratto d’uomo (edizione limitata in 150 copie). Il volume contiene i primi due capitoli di quello che sarà il romanzo che conosciamo (Consolo, 1975a). Corrado Stajano, amico di Consolo, avvalendosi di una celebre metafora pirandelliana, ha scritto un pezzo per Il Giorno per segnalare questa pubblicazione: Adesso Manusé ha esaudito il gran sogno della vita, e diventato editore e c’è la possibilità, dicono gli uomini di penna, che questo libro che ha stampato, […] possa creare un nuovo caso letterario. Perché qui si sono incontrate due corde pazze siciliane, quella di Manusé e quella dello scrittore del libro, o meglio dei primi due capitoli del libro pubblicato in questo volume, che gli editori, quando il romanzo sarà finito, certo si contenderanno, perché Il sorriso dell’ignoto marinaio e un nuovo Gattopardo, ma più sottile, più intenso del romanzo di Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia poetico, di venosa lava sanguigna e insieme razionalmente freddo nei suoi teoremi dell’intelligenza. (Stajano, 1975) La motivazione dell’articolo di Stajano sembra essere quella di voler forzare la mano di Consolo, spingendolo verso il completamento del romanzo. E anche notevole l’intento di fare pubblicità al romanzo futuro. Tuttavia, Stajano risulta anche molto ben informato del contenuto dei capitoli inediti e ciò suggerisce che al momento della pubblicazione della versione di Manusé la maggior parte del romanzo era già stata completata, o già comunque concettualmente concepita, e che Consolo ne stava discutendo apertamente con gli amici più fidati. Il romanzo completo, l’editio princeps, venne pubblicato l’anno successivo da Einaudi e fu accolto dagli elogi della critica (Consolo, 1976). Nel 1987 la Mondadori ne stampo un’edizione economica includendo una Introduzione firmata da Cesare Segre (Consolo, 1987). Nel 1991 Mursia pubblico una seconda edizione aggiornata dell’antologia di Leonardo Sciascia e Salvatore Guglielmino Narratori di Sicilia, che accoglie, con annotazioni, la prima sezione del capitolo I de Il sorriso (Consolo, 1991). Nel 1992 Einaudi ripubblico il romanzo (Consolo, 1992b) e nel 1995 ne apparve un’edizione scolastica, edita e annotata da Giovanni Tesio (Consolo, 1995).
Nel 1997 Mondadori ha pubblicato ancora una volta il romanzo insieme alla Nota dell’autore, vent’anni dopo (Consolo, 1997). Due successive riedizioni del romanzo sono state pubblicate sempre da Mondadori: la prima, nella collana Oscar scrittori del Novecento (Consolo, 2002); la seconda, in quella Oscar classici moderni (Consolo, 2004). Come si può intuire dalle date di pubblicazione, il periodo di gestazione de Il sorriso e stato decisamente lungo e in più va considerato che la versione originariamente pubblicata in «Nuovi Argomenti» differisce molto da quelle successive con una divisione in capitoli, anche perché parziale. Le varianti testuali tra le dieci versioni, edizioni e ristampe, databili dal 1969 al 1997, rivelano che Consolo ha rielaborato di continuo il suo testo. Che la maggior parte di esse siano quelle tra la versione di «Nuovi argomenti» e l’edizione del 1997, significa inoltre che Consolo ha ritoccato il testo dopo il 19768. Le varianti si diversificano per tipologia e importanza, partono dai più banali errori di battitura per arrivare alle sostituzioni e alle rielaborazioni di interi paragrafi. Questo di per sé suggerisce che il capitolo I e una sorta di workinprogress, un testo sempre compulsato dall’autore e completato da una serie di aggiunte accorpate nel corso degli anni. Lasciando da parte le fonti pubblicate, il cosiddetto emerso9, si può andare indietro fino al livello delle fonti precedenti alla pubblicazione e paratestuali che vanno a toccare il punto cruciale della genesi e gestazione del romanzo. Ho deciso di chiamarli pre-testi, nel senso che essi variano in tipologia, importanza e stato. Alcuni sono stati pubblicati e quindi dovrebbero rientrare nella categoria del paratesto, venendo così ad aumentare il nostro attuale bagaglio di nozioni sul romanzo. Pre-testi: genesi e gestazione Lo stato di incertezza che caratterizza i manoscritti autografi, i testi scritti a macchina, i saggi e gli altri “interventi autoriali”, con particolare attenzione alla gestazione del testo, sono noti. Anche il problema di datare il materiale presenta non poche difficolta. La tentazione, quando si ha a che fare con manoscritti e varianti testuali, e quella di sviluppare un approccio unilineare alla poetica dell’autore considerato; ascrivere a quell’autore certi presupposti fondamentali che tuttavia non sono facilmente verificabili. Nel caso di Consolo, al di là delle suddette edizioni del testo in forma di racconto e romanzo e dell’allettante realizzazione di varianti che intercorrono fra esse, esiste anche un ricco patrimonio di documenti non pubblicati. Nicolo Messina ha suggerito che sarebbe stato «illuminante, oltre che un’entusiasmante avventura, il poter penetrare grazie a un’edizione critica genetica all’interno della sua officina» (Messina, 1994: 40). Da allora, Messina si e imbarcato in questa avventura con una serie di articoli ispirati a un approccio filologico critico-genetico alle opere di Consolo, specialmente Il sorriso (Messina, 2005: 113-126). Oltre a ciò, Messina ha completato l’edizione critica del romanzo di cui si sentiva l’assoluta necessita e che è in sé stessa un vero capolavoro di critica-genetica10. Poiché Messina ha lavorato sui manoscritti e dattiloscritti, non mi ci soffermerò. 8 L’edizione del 1997 e il testo tenuto come base per lo studio di tutti gli altri, essendo la versione che ha ricevuto l’ultimo ne varietur dell’autore. Concordo in questo con Messina (2005: 121-124). 9 Ricorro alla denominazione di Messina (2005: 117-121). 10 Messina (2009). L’approccio critico-genetico di Messina e basato sui seguenti studi: Hay (1979), Degala (1988), Gresillon (1994), Tavani (1996) e Contat e Ferrer (1998). Ai fini del nostro discorso, pero, risulta assai significativo un dattiloscritto denominato Ds 2, o piuttosto le pagine che l’accompagnano (Ds 20), perché contengono una sorta di resoconto del futuro romanzo. In particolare, l’asserzione nella scheda Ds 20 che «sono due capitoli di un romanzo (capitoli o racconti autonomi, perché, nelle intenzioni dell’autore, intercambiabili e combinatori come carte da giuoco)», pone una serie di questioni che sono rilevanti per la genesi e la gestazione del testo. Ci sono numerose sovrapposizioni, intrecci tematici e corrispondenze lessicali tra i capitoli I e II del romanzo. Dal punto di vista strutturale, la narrazione di entrambi i testi e in parte focalizzata attraverso Mandralisca (capitolo I) e Interdonato (capitolo II) con corrispondenze tra i due. Il fatto che i capitoli I e II siano intercambiabili e combinatori, postula un’influenza di Italo Calvino sul metodo strutturale di Consolo, in particolare del saggio Appunti sulla narrativa come processo combinatorio (Calvino, 1995: 199-219). Nella spiegazione di Calvino dell’ars combinatoria tanti elementi avrebbero potuto colpire Consolo, non ultimi le citazioni da Strutture topologiche nella letteratura moderna di Hans Magnus Enzensberger11, Calvino tra l’altro afferma anche: La battaglia della letteratura e appunto uno sforzo per uscire fuori dai confini del linguaggio; e dall’orlo estremo del dicibile che essa si protende; e il richiamo di ciò che è fuori dal vocabolario che muove la letteratura. (1995: 211) E che Calvino nel saggio ritorni sul simbolo del labirinto dopo l’analisi fattane nel precedente La sfida al labirinto (1962), non avrà lasciato indifferente Consolo tutto preso dalla sua curiosa, personale concezione siciliana del labirinto in Il sorriso: cioè la chiocciola12. La questione della genesi del romanzo si può far risalire ancora più indietro, all’attività giornalistica di Consolo da metà degli anni Sessanta in poi. Al riguardo ci si può anche chiedere quale influenza abbia potuto esercitare il giornalismo sui suoi sforzi creativi. Per tanti aspetti il giornalismo consoliano e come un’istantanea dei multiformi interessi nutriti in quel tempo: letterari, artistici, politici e civili; e quando tutto ciò viene visto attraverso la lente de Il sorriso, ci si apre un’intrigante entrée nel mondo della sua attività creativa e poetica ancora in via di sviluppo. Consolo ha scritto per Tempo illustrato e, durante il suo primo periodo a Milano, ebbe una regolare rubrica intitolata Fuori casa nel giornale palermitano L’Ora13. Tuttavia, il suo rapporto con L’Ora 11 Avrà una diretta influenza su Consolo, si sa, il saggio di Hans Magnus Enzensberger (1966: 7-22). 12 Calvino (1995: 99-117) dove (116) si sostiene: «Quel che la letteratura può fare e definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che passaggio da un labirinto all’altro. E la sfida al labirinto che vogliamo salvare, e una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto». Consolo mette in scena la sua sfida al labirinto attraverso il personaggio secondario di Catena Carnevale in Il sorriso. 13 La rubrica, pubblicata dal dicembre 1968 al maggio 1969, e definita un piccolo gioiello» da Nisticò (2001: 113); e si può rileggere in Consolo (2013: 179-223). precede il suo trasferimento a Milano ed e indissolubilmente legata con le sue attività in Sicilia14. Nel 1965 e negli anni immediatamente adiacenti, un gruppo di intellettuali e scrittori cominciarono a frequentare il giornale, tra questi Sciascia, il fotografo Enzo Sellerio, lo scrittore Michele Perriera e Consolo stesso. Vittorio Nisticò, direttore de L’Ora nel periodo 1955-1975, ricorda con affetto la presenza e il contributo di Consolo in quegli anni 15. Nel 1966, a seguito dell’omicidio per mano mafiosa del leader sindacale socialista Carmine Battaglia a Tusa (provincia di Messina), Consolo scrisse un breve racconto ispirato all’uccisione, Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, pubblicato ne L’Ora (16 aprile) un mese dopo l’evento 16. Anche se non può facilmente e strettamente rientrare nella categoria del giornalismo, il racconto, come sostiene Sciascia, e «una sorta di reportage giornalistico» (Consolo, 1967b: 429), ed e forse la prova più significativa della scrittura creativa di Consolo dopo La ferita dell’aprile, perché presenta in forma embrionale alcuni elementi linguistici, strutturali e tematici che saranno precipui de Il sorriso. Consolo, senza dubbio, ebbe come modello Le parole sono pietre di Carlo Levi, in particolare la terza sezione in cui si narra la sua visita a Francesca Serio, la madre del sindacalista socialista Salvatore Carnevale, assassinato anch’egli dalla mafia (Levi, [1955] 1979). Non e una coincidenza che Consolo abbia firmato in seguito l’introduzione per una nuova edizione del “libro-indagine”, (Levi, 1979; Consolo, 1999a, 251-257) in cui scrive tra l’altro: A Sciara, Levi ha trovato, sul filo sottile che inseguiva della nuova coscienza contadina, il punto più vero e più alto della realtà siciliana di quegli anni. E più vero e più alto si fa allora il tono del libro: le pagine su Francesca Serio di commozione rattenuta dal pudore, di parole scarne e risonanti. (Consolo, 1999a, 256) Lo stesso senso di ingiustizia e indignazione permea Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, anche se nella storia di Consolo la figura della madre e abbattuta dal dolore e il compito di parlare viene lasciato alla figlia, «una giovane bellissima». All’inizio la incontriamo impegnata in un’attività che fa seriamente presagire le preoccupazioni testuali e metaforiche del futuro romanzo: «dietro i vetri di una piccola finestra, ricamava» (Consolo, 1967b: 432; Consolo, 2012: 20). Come personaggio, la figlia anticipa la figura liminale, altamente metaforica, 14 La prima collaborazione risalirebbe esattamente al 4 febbraio 1964, una recensione di Menabò, 6. Cfr. Salvatore Grassia, in Consolo (2013: 229-230). 15 Nisticò (2001: 113): «Amavamo di lui il garbo, la modestia, il senso di amicizia, gli accenni di sorridente ironia, non meno di quanto ci affascinassero i ricami della sua scrittura, la sua totale mediterraneità, quei fuochi improvvisi della sua passione letteraria e civile.» Il memoriale di Nisticò e senz’altro un affascinante resoconto di un giornale di sinistra in prima linea nella lotta contro la mafia in uno dei più difficili periodi storici. 16 Il racconto fu poi ripreso da Narratori di Sicilia, cit. [ed. 19671], (Consolo, 1967b: 429- 434); ora, col titolo Un filo d’erba al margine del feudo (Consolo, 2012: 18-22; 239). Sul caso Battaglia, cfr. Ovazza (1967) e Santino (2000: 232-233). della venticinquenne Catena del Sorriso, che nell’Antefatto il padre si augura di vedere «serena dietro il banco a ricamare» (Consolo, 1997: 11)17. Anche il cognome di Catena e intrigante: si chiama, infatti, Carnevale, nome che rafforza il legame con il “giovane”, ventiduenne, Salvatore del racconto e con la famiglia di Le parole sono pietre. La presentazione della giovane ragazza da parte di Consolo suggerisce a Traina «sviluppi successivi della narrativa consoliana», come «l’insistenza sul dettaglio cromatico e sull’immagine “rubata” dal passante, che si fa quasi, emblematicamente, quadro o fotografia». (Traina, 2001: 16). Questa tecnica di sospensione della realtà tramite l’immagine fissa, una forma di ipotiposi, e un aspetto prevalente della narrativa più tarda di Consolo. Il racconto di Consolo contiene inoltre una serie di espedienti e scelte lessicali che saranno ulteriormente ampliati nel romanzo. Ecco esempi di emergenza di scrittura “consoliana”, quale poi impronterà il romanzo: «Il sole batteva […] sulle pietre di via Murorotto e sul portale d’arenaria ricamata del Palazzo»; «[…] col suo castello sull’acqua smagliante e triangoli di vele sui merli» (Consolo, 1867b: 429 2 431; Consolo, 2012: 18-19). E successivamente, nel capitolo I de Il sorriso, leggiamo: «Vorticare di giorni e soli e acque, venti a raffiche, a spirali, muro d’arenaria che si sfalda […]»; «Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollano i lor merli di cinque canne sugli scogli» (Consolo, 1997: 12; Consolo, 2015: 132). Inoltre, va sottolineato che la predilezione di Consolo per la catalogazione o inserzione, soprattutto di toponimi, e presente in maniera decisa nel racconto. Entrando nella citta di Tusa, il narratore si mette a conversare con un «vecchio con lo scialle», che indica le montagne circostanti: «Motta» […]. E poi «Pettineo, Castelluzzo, Mistretta, San Mauro…» […]. Stesi io il braccio nel vuoto oltre la ringhiera e indicai il mare. «Quelle macchie azzurre sono isole, Alicudi, Filicudi, Salina… Più in là c’è Napoli, il Continente, Roma…» «Roma» ripeté il vecchio. Volse le spalle al mare e continuo a indicare verso le montagne, ora con un breve cenno del capo: «Cozzo San Pietro, Cozzo Favara, Fulla, Foieri…». (Consolo, 1967b: 430; Consolo, 2012: 18) Il nome di Roma non dice niente al «vecchio», egli ripete meccanicamente ed elenca rapidamente i toponimi del suo mondo, toponimi non registrati sulle mappe ufficiali, come se la loro enunciazione andasse a evocare una realtà diversa. Questo senso di “urgenza toponimica” e la sua sospensione sono ripetuti nel capitolo I del romanzo, dove ancora una volta l’elenco dei toponimi della costa tirrenica della Sicilia e predominante: «Erano del Calavà e Calanovella, del Lauro e Gioiosa, del Brolo…» (Consolo, 1997: 12; Consolo 2015: 128). L’antico passato greco di Tusa e evocato in una breve parentesi del racconto e anticipa il Consolo de Il sorriso: La valle declinava dolce fino alla balza d’Alesa (le sue mura massicce, l’agora, i cocci d’anfora e i rocchi di colonna affioranti tra gli ulivi, la bianca Demetra dal velo incollato sul ventre abbondante). (Consolo, 1967b, 431; Consolo, 2012: 19) 17 Il ricamo di Catena e una chiara metafora tessile del testo. Per ulteriori approfondimenti di questo aspetto consoliano, cfr. il mio saggio: O’Connell, (2003, 85-105). Genesi e scrittura ne Il sorriso dell’ignoto marinaio 65 Il nome di Tusa deriva dall’arabo “Alesa al-tusah” (“Alesa la nuova”), quando l’antica città greca di Alesa perse il primato nella zona nella seconda meta del ix secolo, e il centro fu spostato verso il sito dell’odierna Tusa (Ingrilli, 2000: 56). Nel romanzo, Consolo sancisce una sorta di nostalgia antico-archeologica tramite l’esposizione di ulteriori elenchi toponimici: Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Calacte, Alesa… Citta nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni, fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. (Consolo, 1997: 13; Consolo, 2015: 128- 129) Oltre a manifestare le preoccupazioni più importanti del Mandralisca per l’archeologia e il suo rifiuto di affrontare la realtà contemporanea, nella fattispecie quel che si rivelerà essere un cavatore di pomice ammalato di silicosi, la frase si riferisce agli antichi toponimi greci della regione dei Nebrodi sulla costa tirrenica, alcuni dei quali erano già stati citati da Cicerone tra le città della Sicilia vittime di Verre: Tyndaritanam, nobilissimam civitatem, Cephaloeditanam, Haluntinam [Alunzio], Apolloniensem, Enguinam, Capitinam perditas esse hac iniquitate decumarum intellegetis. (Verrine, II.3, 103) Tuttavia nell’edizione del 1997 c’è una variante del testo: «Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Apollonia, Alesa…». Consolo ha chiaramente sostituito la diade Alunzio e Calacte con l’altra Alunzio e Apollonia con l’evidente intenzione di migliorare l’allitterazione della frase e ottenere un elenco alfabetico pressoché perfetto, e in tal modo ha rivelato che alcune rielaborazioni de facto hanno avuto luogo tra le due edizioni cronologicamente estreme dell’intero romanzo. Consolo suggerisce il motivo della sostituzione in un saggio celebrativo di Cefalù pubblicato nel 1999: «Nascere dov’erano soltanto echi d’antiche città scomparse, Alunzio Alesa Agatirno Apollonia, che con la loro iniziale in A facevano pensare agli inizi della civiltà» (Consolo, 1999b: 17). Le somiglianze sono evidenti e ci permettono di visualizzare i processi che hanno delineato la creazione di questo capitolo. Non e un caso, quindi, che questa invocazione alla lettera A, alla storia antica, alla storia seppellita sotto i toponimi odierni dovesse avvenire nella fase iniziale di un romanzo intimamente connesso tanto con ciò che la storia nasconde quanto con ciò che essa rivela. Apollonia, inoltre, si ritiene che fosse l’antico toponimo dell’odierna San Fratello, un paese che ha una funzione estremamente metaforica in gran parte delle opere di Consolo, non ultima Il sorriso18. Consolo sta, quindi, mettendo uno dei suoi marker, o 18 La citta e evocata, in vario grado, in La ferita dell’aprile (1963), Lunaria (1985) e nel racconto «I linguaggi del bosco», in Le pietre di Pantalica (1988). In particolare il sanfratellano, usato o semplicemente citato da Consolo a più riprese, sembra attirare l’attenzione dello scrittore per la natura e ricchezza di lingua “periferica”, voce di una cultura particolare in netto contrasto con la lingua omologata “centrale” cui ricorre la cultura dominante. Segnali, alludendo a qualcosa che acquisisce via via importanza con il procedere del racconto. L’evocazione di antichi toponimi era riapparsa invero in Le pietre di Pantalica, in quel Il barone magico che si avvale ancora una volta della toponomastica poetica e suggerisce con gli stessi toponimi (e qualcuno nuovo) non solamente una topografia autoriale personalizzata, ma anche la loro contiguità con l’atto di scrittura e gli inizi della parola: Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena, Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai primordi, alle origini della civiltà. (Consolo, 1988: 147; Consolo, 2015: 603) Il passo tratto da Il sorriso condivide anche somiglianze con un’altra opera d’impostazione storica parallela, I vecchi e i giovani di Pirandello: Via Atenea, Rupe Atenea, Empedocle… – nomi: luci di nomi, che rendeva più triste la miseria e la bruttezza delle cose e dei luoghi. L’Akragas dei Greci, l’Agrigentum dei Romani, eran finiti nella Kerkent dei Musulmani, e il marchio degli Arabi era rimasto indelebile negli anni e nei costumi della gente. (Pirandello, 1973: 163) Il suo stato di intertesto e ulteriormente rafforzato appena più avanti, nello stesso quarto paragrafo, quando Consolo sostiene: «Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni» (Consolo, 1997: 13; Consolo, 2015: 129). Le affinità tra il pirandelliano nome: luci di nomi e il consoliano nomi […], suoni, sogni sono degne di nota. Forse sarà più significativo che Per un po’ d’erba ai limiti del feudo anticipi la tendenza di Consolo a usare documenti storici come discorsi compensativi all’interno delle proprie narrazioni, una pratica più pienamente realizzata ne Il sorriso dell’ignoto marinaio19. Sul portone del municipio era scolpito lo stemma della citta: un grosso cane muscoloso sopra una torre, le zampe posteriori contratte, sul punto d’avventarsi, i denti scoperti. (1860: «In più luoghi, come a Bronte, a Tusa e altrove, i Consigli municipali, costituiti dai Governatori distrettuali, erano composti di elementi della grossa borghesia o dell’aristocrazia di proprietari terrieri, avversi alle rivendicazioni contadine e ai fautori e capi del movimento per la divisione delle terre demaniali»). (Consolo, 1967b: 432; Consolo, 2012: 20) La parte del passo in corsivo e tratta da un documento contemporaneo allo sbarco di Garibaldi in Sicilia e sottolinea un fondamentale fattore storico del Risorgimento in Sicilia: l’opposizione delle classi dominanti in Sicilia al decreto del 2 giugno 1860 «col quale Garibaldi ordinava la divisione delle terre demaniali mediante sorteggio a tutti i capi di famiglia sprovvisti di terra, riservando una quota certa ai combattenti della guerra di liberazione ed ai loro eredi» (Romano, 1952: 139). 19 Segre esamina la funzione narrativa di tale pratica consoliana, anche se l’attenzione del saggio e incentrata esclusivamente sui documenti storici riprodotti in appendice e non su quelli incorporati nel testo stesso (Segre, 2005: 129-138). L’amara ironia che scaturisce dall’inclusione del documento sottolinea il fatto che in 106 anni poco era cambiato nella vita e nelle aspirazioni dei diseredati. E, forse, per questa ragione che Sciascia nella storia scorge il «gioco gattopardesco delle forze della conservazione» (Consolo, 1967b: 429). Da parte sua, di fronte alla staticità del corso degli eventi, Onofri sottolinea che l’immobilita storica, sancita dal documento legislativo, «trova finale suggello nella letteratura, testimonianza abbastanza precoce di quello che possiamo definire il circolo ermeneutico consoliano» (Onofri, 1995: 232). Tuttavia, a permeare queste pagine e soprattutto l’impegno di Consolo a favore della giustizia sociale. Nel racconto, dunque, si possono ritrovare le tracce evidenti del suo primo tentativo di scrivere qualcosa sui paesi medievali additati da Piccolo, pero attraverso il filtro dell’impegno di matrice sciasciana, cioè della sua stessa volontà di abbracciare i temi della giustizia sociale e politica. Sulla questione dell’inserimento di documenti storici nel narrato, il primo capitolo del Sorriso offre un accattivante esempio del metodo di Consolo. E riscontrabile nel diciannovesimo paragrafo e da nell’occhio proprio per quel che rivela delle procedure narrative impiegate dallo scrittore nei suoi testi multiformi. Il paragrafo, presentato per la sua maggior parte in corsivo, suggerisce una citazione o, almeno, una condizione narrante alternativa, una voce o un punto di vista diversi. Nel romanzo, l’unico altro luogo in cui una vasta porzione di testo e riportata in corsivo e nel Capitolo v, Il Vespero, in cui il passo incastonato non in tondo e mutuato direttamente da I promessi Sposi di Alessandro Manzoni: e la descrizione del momento della conversione dell’Innominato piegata da Consolo a tratteggiare il “tempo” e le sensazioni del personaggio Peppe Sirna (Consolo, 1997: 106; Consolo, 2015: 204-205; Manzoni, 2002: 409). Tranne il corsivo non c’è nel testo nessuna indicazione che si tratti di una citazione manzoniana. Nessuna indicazione, né note a piè di pagina né richiami all’autore, soccorre il lettore, il quale non può far altro che accettare la stranezza del passo ed andare avanti con la narrazione. Il brano e interrotto dall’improvviso cambiamento di registro impresso da Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, che esclama: «Uh, ah, cazzo, le bellezze!» (Consolo, 1997: 20; Consolo, 2015, 134), poiché la sua immaginazione prende il sopravvento sul resto del paragrafo. Ciò che precedeva in corsivo, pero, non è un parto dei rimuginii del protagonista del Sorriso, ma un qualcosa di abbastanza strano ed estraneo, e il frutto del pensare altrui, benché sia la mente del barone Mandralisca a rievocarlo. Si ha un indizio nella frase finale del paragrafo: Avrebbe fottuto il Biscari, l’Asmundo Zappala, l’Alessi canonico, magari il cardinale, il Pepoli, il Bellomo e forse il Landolina. Questo forse il Landolina e l’unica allusione, nel testo, ad una possibile fonte, anche se il lettore medio non ha modo né e in grado di saperlo. La parte in corsivo del brano, cioè i tre quinti del paragrafo, e, in effetti, una citazione diretta da una fonte che non sarebbe stata familiare per il Mandralisca, sebbene Consolo la abbia consultata come campione di stile di prosa degli intellettuali siciliani del tardo Settecento e del primo Ottocento. La fonte e proprio il Cavalier Saverio Landolina (1753-1814), figura dominante dell’archeologia siciliana all’inizio del xix secolo. La sua fama e la sua posizione di rilievo si dovevano alla scoperta della famosa Venere Anadiomene, fatta nel 1803 (Dizionario dei Siciliani illustri, 1939). Il testo in questione e da ricercare in una lettera datata 29 gennaio 1807 e indirizzata all’allora «Sopraintendente generale alle antichità», un certo Soratti Agnello, 1972: 218-219; Consolo, 1997: 19-20; Consolo, 2015: 134): Passando a visitare li monumenti del Tindaro ebbi il dispiacere di non ritrovare il più bel pezzo, che l’altra volta vi avevo ammirato. Erano due piedi con le gambe fino alle cosce di un giovane ignudo di elegantissimo greco lavoro, con un’ara dal lato sinistro ben ornata, di marmo alabastro bianco. Osservai ancora due grossi pezzi di marmo statuario, che insieme formavano il busto di un uomo di statura gigantesca; in uno dei detti pezzi si vede la corazza ornata di bassi rilievi, tra i quali si distinguano una bulla pendente sul petto con una testa molto crinita come si osserva in molte nostre medaglie. Dalla spalla destra era pendente sopra la mammella una fettuccia lavorata. Su la spalla sinistra era elegantemente rilevato il gruppo del pallio che doveva coprire le spalle. Sopra il ventre erano due ippogrifi. L’altro pezzo di marmo era il rimanente della corazza, cioè le fibule e le bulle pendenti sopra il sago che copriva le cosce le quali si vedono tagliate. Le bulle erano tutte figurate con varie teste di animali e qualcuna umana. L’esistenza di questi pezzi nel Tìndaro mi fa sospettare che potevano appartenere ad una statua dei Dioscuri, descritti sempre dai poeti in abito militare. Il brano di Landolina e citato pressoché alla lettera e le sole inter/estrapolazioni eseguite da Consolo vanno individuate nei tempi verbali e in quei segmenti del brano che si riferiscono al Landolina stesso. Questo tipo di intertestualità e abbastanza sconcertante per il lettore e, una volta rilevato, mostra il modo in cui si forgia lo stile di Consolo: testi dentro testi, siano essi citazioni poetiche di scrittori canonici o citazioni dirette da oscuri testi archeologici del xix secolo. La citazione letteraria diretta si può considerare ammissibile, se accettiamo che il punto di vista narrativo e qui quello del Mandralisca, com’e peraltro accertabile nel resto di questo capitolo iniziale, ma la citazione diretta da lettere di argomento archeologico e più problematica. Segre scrive che Consolo condivide con Gadda «la voracità linguistica, la capacita di organizzare un’orchestra di voci, il risultato espressionistico» e, assecondando le riflessioni di Bachtin, aggiunge che il plurilinguismo di Consolo e anche «nettamente plurivocità» (Segre, 1991: 83-85). Al riguardo i commenti bachtiniani sull’enciclopedismo nel genere del romanzo sono rilevanti, specialmente in quelli da lui definiti romanzi della seconda linea. Questo tipo di romanzo tende all’enciclopedicità dei generi, e si avvale anche dei generi inseriti. Il fine principale e introdurre nel romanzo la pluridiscorsività, la varietà delle lingue di un’epoca. Scrive Bachtin che i generi extraletterari sono introdotti non per “nobilitarli” e “letteraturizzarli” ma proprio perché sono extraletterari, perché era possibile introdurre nel romanzo una lingua extraletteraria (persino un dialetto). La molteplicità delle lingue dell’epoca deve essere rappresentata nel romanzo (Bachtin, 2001: 218). L’uso sapiente di Consolo di mescolare generi letterari ed extraletterari contrassegna Il sorriso come un complesso romanzo polifonico. Tuttavia, la funzione di memoria qui e profondamente testuale e quindi comparabile a un palinsesto. Un altro brano altamente significativo di Consolo in questi anni Sessanta appare ne L’Ora ed e un pezzo dedicato a Lucio Piccolo. L’articolo intitolato Il barone magico celebra in apparenza l’impresa poetica di Piccolo (Consolo, 1967a)20. Il testo di Consolo sarebbe un pretesto per la presentazione di tre poesie inedite di Piccolo e un frammento della sua prosa Balletto in tre tempi: L’esequie della luna21. Come nel caso di Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, Il barone magico anticipa molto del futuro Sorriso, ma se l’attenzione nel racconto era imperniata sull’indignazione civile dell’autore, il pezzo su Piccolo vede un Consolo lontano dalle questioni politiche e, invece, fortemente immerso nelle potenzialità magiche della parola, radicate nella seduzione del testo poetico. Se il primo era sciasciano nei presupposti e risultati, il secondo e, in gran parte, piccoliano nella sua espressività. Queste tendenze conflittuali dovevano risolversi nell’intensa fusione della scrittura de Il sorriso, in cui Consolo stesso divenne, per Stajano, uno «Sciascia poetico» (Stajano, 1975). E – si potrebbe forse aggiungere – anche un “Piccolo impegnato”. Questi, poi, sono gli scritti di Consolo fino al momento del trasferimento a Milano nel 1968, scritti che rivelano chiaramente che egli aveva già in mente le coordinate del futuro romanzo. Non che il suo rapporto con il giornale palermitano si fosse concluso con la decisione di lasciare la Sicilia, anzi le collaborazioni di Consolo con L’Ora s’intensificarono e divennero più “tradizionalmente” giornalistiche. I temi affrontati per il quotidiano erano abbastanza diversificati e variavano dalla politica, alla cronaca, alla critica d’arte, alle interviste e recensioni, come anche ad alcuni saggi di produzione creativa. Nel 1975 Consolo torno in Sicilia a lavorare al romanzo e ricomincio a frequentare L’Ora. La testimonianza di Nisticò e interessante per l’attenzione prestata agli interessi poliedrici di Consolo e alle attività da lui svolte contemporaneamente alla scrittura de Il sorriso: Nei primi mesi del ’75 Consolo si trasferì per un po’ di tempo a Palermo. […] si butto con manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. […] Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a Il sorriso dell’ignoto marinaio: il capolavoro che da li a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione. A dicembre ne pubblicammo in anteprima un capitolo: la festa in casa del barone Mandralisca. (Nisticò 2001: 113-114) 20 La maggior parte del materiale dell’articolo costituisce la prima sezione del suo successivo «Il barone magico» (Consolo, 1988: 133-135). 21 Le poesie erano Plumelia, L’andito e quella che sarà poi intitolata Non fu come credesti per lo scatto. Un altro esercizio giornalistico con attinenza diretta alla formazione del capitolo i e un articolo, datato al 1970, fremente d’indignazione civile per le deplorevoli condizioni di lavoro dei cavatori di pomice dell’isola di Lipari. Originariamente intitolato «Il paese dei vivi pietrificati», fu pubblicato su Tempo illustrato, ma sotto altro titolo e solo dopo aver subito pesanti interventi modificatori (Consolo, 1970)22. Ancora una volta, affiora il primo capitolo del romanzo che si occupa del destino dei cavatori di pomice di Lipari e della strana malattia da cui sono affetti: la silicosi, popolarmente conosciuta come Male di pietra. L’articolo di Consolo e degno di nota, in quanto mette in risalto un misto di strategie del discorso significative anche per la sua poetica narrativa (Consolo, 1997: 177). Le preoccupazioni di Consolo sono molteplici, ma ciò che dà forza all’articolo e nel fondo la messa a fuoco della percentuale insolitamente alta a Lipari di malati di silicosi e della loro breve aspettativa di vita. Come chiarisce l’ignoto marinaio del romanzo, a provocare la malattia e l’estrazione della pietra pomice senza rispettare le più elementari misure di sicurezza. Consolo definisce le cave «un kafkiano teatro di vita penale dove si aspetta da sempre il messaggio dell’imperatore»23. E una sorta di altra controversia liparitana, ma diversa da quella della Recitazione sciasciana, in quanto lo sfondo non e settecentesco e Consolo vi delinea una storia dei cavatori di pietra pomice sull’isola a partire dal 1838, quando il monopolio e dato in appalto ad un francese di nome Gabriel Barthe. Lo scrittore si addentra nella battaglia giudiziaria tra questi e il vescovo di Lipari Giovampietro Natoli per il controllo delle miniere: il vescovo ottenne la proprietà delle terre, rifacendosi a un decreto del re Roberto I d’Altavilla datato 108424! E non mancano accenni alla moglie del Guiscardo ovvero Adelasia di Monferrato, evocata nel primo capitolo del romanzo e sepolta a Patti. Questa serie di informazioni a prima vista insignificanti permette a Consolo di presentare l’effettivo proprietario delle cave di pietra pomice al momento della redazione dell’articolo: la mafia, legata al finanziere Michele Sindona, nato a Patti 25. Tuttavia, che le condizioni di lavoro dei cavatori non fossero cambiate 22 Sono grato a Caterina Consolo per avermi fornito una copia dell’originale Il paese dei vivi pietrificati, composto da 5 cartelle battute a macchina con annotazioni e correzioni di mano dell’autore, e aggiunte vergate da Caterina Consolo: il toponimo «Lipari» (indicante il tema), la data di redazione: «settembre», e il futuro del testo: «[pubblicato non integralmente]». La cartella finale e datata: «3 settembre 1970». 23 «Il paese dei vivi pietrificati», cit., c. 3. Omesso nella versione apparsa in Tempo illustrato. 24 Consolo cita dal documento storico riportandolo ne «Il paese dei vivi pietrificati», ma il passaggio non compare in «Cosi la pomice si mangia Lipari». 25 Il banchiere Sindona fu una figura di spicco che ebbe contatti stretti con la mafia, leader politici italiani e la Loggia Massonica di Licio Gelli: la P2 (ben nota per gli scandali in cui fu coinvolta). Cfr. Renda (1998: 400-404); Lupo (1996: 262-271). L’editore di Tempo Illustrato soppresse evidentemente ogni riferimento a Sindona e al fatto che il manager dell’impianto Italpomice, Gebhart Raisch, era presumibilmente un ex Maggiore delle SS. dal 1852, anno dell’azione del primo capitolo de Il sorriso, e ben descritto nel pezzo che segue: Alle spalle di Canneto e il monte Pelato, il monte grigio-bianco con pomice con tra le gole radi cespugli verdastri. […] Gli operai sono dentro le gallerie sparsi qua e là per il costone. Con solo le mutande addosso, sotto questo sole di agosto, sono neri, piccoli e neri contro il bianco abbagliante. Sembrano ragni o scarafaggi che si muovono sopra una parete di calce o di sale. Dall’altra parte della strada vi è il burrone che precipita fino al mare. Dalla costa sì partono e vanno fino al largo snelli pontili neri, geometrici, sui quali scorrono i nastri trasportatori che riempiono le stive delle navi attraccate all’altro capo26. Il passo ha notevoli affinità con un altro del capitolo I de Il sorriso in cui Mandralisca svia il minuzioso esame di Interdonato permettendo alla sua immaginazione di proteggerlo dalla vista di uno di questi ‘cavatori’ e rivelando cosi che Consolo sta visualizzando la scena attraverso il filtro del suo testo: Al di là di Canneto, verso il ponente, s’erge dal mare un monte bianco, abbagliante che chiama si Pelato. Quivi copiosa schiera d’uomini, brulichio nero di tarantole e scarafaggi, sotto un sole di foco che pare di Marocco, gratta la pietra porosa col piccone; curva sotto le ceste esce da buche, da grotte, gallerie; scivola sopra pontili esili di tavole che s’allungano nel mare fino ai velieri. Sotto queste immagini il Mandralisca cercava di nascondere, di rimandare indietro altre che in quel momento (frecce di volatili nel cielo di tempesta migranti verso l’Africa, verdi chiocciole segnanti sulla pietra strie d’argento, alte flessuose palme schiudenti le vulve delle spate con le bianche pasquali inflorescenze…)27 Il paese dei vivi pietrificati e poi un esempio di come i processi creativi di Consolo abbiano chiaramente influenzato la sua scrittura giornalistica, in un’inversione di tendenza rispetto agli scritti per L’Ora fin qui considerati. Questi articoli dimostrano che Consolo stava riconsiderando i temi Risorgimentali da tanti punti di vista e in differenti prospettive. Un ultimo punto da trattare, attinente alla gestazione del romanzo, e quello degli scritti consoliani relativi, ovvero ispirati, all’arte figurativa. Questa scrittura differisce considerevolmente da quella della produzione giornalistica ed e fatta principalmente di presentazioni per mostre di artisti contemporanei. Una in particolare, manifestando l’innata vocazione di Consolo a usare forme metriche nella prosa, esercito una diretta influenza sulla gestazione del capitolo i. Il testo, intitolato Marina a Tindari, fu scritto per la mostra personale di Michele Spadaro tenutasi a Como presso la Galleria Giovio il 15-30 aprile 1972. Un centinaio di copie del testo della presentazione di Consolo venne pubblicato 26 «Il paese dei vivi pietrificati», cc. 2-3. La parte di testo in corsivo e stata omessa nell’articolo di Tempo illustrato. 27 Consolo (1969) e Consolo (1975a) presentano entrambi la variante precedente «sotto un sole di foco che pare di Morea». Consolo ha scritto un altro pezzo per Tempo illustrato (2 ottobre 1971) con il titolo «C’era Mussolini e il diavolo si fermo a Cefalù». L’articolo porta avanti un’indagine sulla residenza di Aleister Crowley a Cefalù nei primi anni venti del Novecento ed e il primo indizio del futuro Nottetempo, casa per casa (1992). nello stesso anno dal fratello dell’artista, Sergio Spadaro, insieme a un breve saggio (Consolo, 1972)28. In Marina a Tindari, dopo un’introduzione di prosa prelevata direttamente da Consolo (1969), seguono ventiquattro versi: Quindi

Adelasia, regina d’alabastro,
ferme le trine sullo sbuffo,
impassibile attese che il convento si sfacesse.
— Chi e, in nome di Dio? — di solitaria
badessa centenaria in clausura
domanda che si perde per le celle,
i vani enormi, gli anditi vacanti.
— Vi manda l’arcivescovo? —
E fuori era il vuoto.
Vorticare di giorni e soli e acque,
venti a raffi che, a spirali, muro
d’arenaria che si sfalda, duna
che si spiana, collina,
scivolio di pietra, consumo.
Il cardo emerge, si torce,
offre all’estremo il fiore tremulo,
diafano per l’occhio cavo
dell’asino bianco.
Luce che brucia, morde, divora
lati spigoli contorni,
stempera toni macchie, scolora.
Impasta cespi, sbianca le ramaglie,
oltre la piana mobile di scaglie
orizzonti vanifica, rimescola le masse.

(Consolo, 1972: 15-16)

Nel primo capitolo di Consolo (1975a) il paragrafo 14 e un chiaro esempio delle numerose aggiunte testuali di questa edizione. Il paragrafo e costituito proprio da questo testo in versi di Marina a Tindari, ricondotto, per così dire, all’originaria prosa del catalogo, e in questa forma interpolato tale e quale da Consolo in nell’edizione di 1975a29. Echi di T. S. Eliot, Salvatore Quasimodo e Piccolo sono evidenti sin da una lettura iniziale. Il dato significativo, pero, e che la poetica di Consolo comporti anche l’innesto di altri testi nel romanzo. Questo accorpamento non è solo una forma di autocitazione, ma un radicale spostamento di materiali testuali e potenzialità poetiche: cioè la nuova poetica 28 Consolo scrisse anche per la personale di un altro pittore: Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971. Il titolo della presentazione era, nota interessante, Nottetempo, casa per casa. Secondo Messina (2005: 123), il testo scritto per la mostra avrebbe avuto una diretta ripercussione nella costruzione del capitolo vii de Il sorriso, dove sarebbe stato rifuso. Cfr. Messina (2009: 390-393); e inoltre p. 592-621 e 623-627, con le anastatiche del catalogo di Spadaro e di Marina a Tindari, seguite da quella del catalogo di Gussoni. 29 La disposizione in versi e opera del curatore del libretto, Sergio Spadaro, che ha inteso cosi visualizzare i metri intravisti nella prosa consoliana per il catalogo originario. Per un’analisi delle forme metriche nella prosa di Consolo, cfr. Finzi e Finzi (1978: 121-135). di Consolo comporta l’accumulo di diversi testi di varia provenienza, siano essi giornalistici, creativi o di ambito saggistico, in uno spazio a meta fra il polifonico e il palinsesto di singolare gestazione autoriale. Inoltre, in questo particolare esempio, lo spostamento di materiali testuali investe il rapporto di Consolo con l’arte figurativa e le potenzialità proteiformi di parola e immagine. Altrove lo scrittore ha dichiarato: [.,.] io non ho mai scritto una recensione di tipo logico critico dei pittori. I pittori mi interessavano quando mi davano lo spunto per scrivere delle pagine di tipo lirico narrativo, ed allora poi utilizzavo queste presentazioni per scrivere quelli che io chiamo gli ‘a parte’, la parte del coro quando s’interrompe la narrazione. Queste digressioni di tipo lirico espressivo che i latini chiamavano ‘cantica’. (Consolo, 2006: 235) Questo tipo di poetici a parte o di elementi lirico-narrativi a carattere digressivo, sono presenti con maggior frequenza nell’opera più tarda di Consolo e vi assolvono una funzione decisamente corale. L’esempio dedotto dal capitolo i de Il sorriso rappresenta la prima apparizione di questa procedura unica nell’opera di Consolo, una procedura che suggerisce anche il suo ruolo epifanico all’interno della prosa. Non si tratta di un’ekphrasis nel senso stretto del termine, ma la fonte prima svolge una funzione ecfrastica nel suo accentuare l’articolazione del campo visivo. Cosi, queste fonti testuali, giornalistiche, saggistiche e creative, insieme alle varianti testuali, offrono un aiuto inestimabile per la ricostruzione del capitolo i de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Esse evidenziano i momenti salienti della gestazione e forniscono spunti di approfondimento delle preoccupazioni dell’autore; sono parte integrante dei processi creativi del romanzo e ampliano la nostra conoscenza degli aspetti oscuri dell’intero testo; soprattutto, ci permettono di vedere Il sorriso come un prodotto testuale degli anni attorno al 1960, periodo intimamente collegato agli anni di Consolo in Sicilia. Una volta a Milano, lo scrittore inizio l’arduo cammino di tracciare la forma del suo romanzo, di riunirvi tutti i disparati elementi di questo testo mutevole.


Daragh O’Connel

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Tragedie siciliane : La Tauride di Vincenzo Consolo

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Addolorata Bellanova

TRAGEDIE SICILIANE: LA TAURIDE DI VINCENZO CONSOLO

Nel 1982 viene rappresentata nel teatro di Siracusa, per la regia di Lamberto Puggelli, l’Ifigenia fra i Tauri.1 La traduzione della tragedia, commissionata dall’INDA, è frutto del lavoro di stretta collaborazione tra Vincenzo Consolo e Dario Del Corno: uno scrittore moderno e un filologo.2 Volendo perciò proporre delle osservazioni sulle modalità di lavoro del primo e sul suo specifico contributo al risultato finale si incorre inevitabilmente in più di una difficoltà. Si possono comunque individuare delle tracce significative del lavoro di Consolo e si può inoltre riflettere sulle conseguenze che questa traduzione ha avuto nella produzione dello scrittore. Intanto, alcune premesse. A fronte delle indiscutibili professionalità e competenza del filologo, già espresse nel confronto con vari testi dell’antichità classica e nello studio del teatro antico, quali competenze ha Consolo nella traduzione e, nello specifico, nella traduzione dalle lingue classiche? Quali competenze ha per affrontare il testo arduo della tragedia euripidea? Sarà meglio specificarlo subito: Consolo non è un traduttore e non è un grecista. Le sue nozioni di greco risalgono alla formazione ricevuta da ragazzo presso il liceo di Barcellona Pozzo di Gotto. Ma l’incontro adolescenziale con la lingua e la letteratura antica deve essere stato per lui estremamente significativo. In particolare Consolo ama ricordare il fascino delle tragedie classiche messe in scena al teatro di Siracusa 3 e confessa una grande passione per Omero e per gli storici greci.4 Inoltre pur nell’imperfetta padronanza eitesti che il suo «grecuccio»5 gli permette, la frequentazione delle opere ricordate,oltre che la consapevolezza della sua identità siciliana e mediterranea,gli fa maturare una grande sensibilità nei confronti del mondo antico. Già prima di quest’opera di traduzione, Consolo ha ben chiaro quanto sia importante il legame tra la Sicilia e la cultura greca, nonché il valore fondante che la civiltà sorta nella Grecia antica ha avuto per l’intero Mediterraneo. Inoltre, anche se nelle prime opere mancano riferimenti espliciti al mondo antico, vi si può riconoscere già la spiccata propensione al plurilinguismo, la volontà di scavare e recuperare la memoria delle lingue mediterranee, quindi anche, in qualche modo, la memoria del greco, aspetto che caratterizzerà poi tutta la sua produzione. Queste osservazioni preliminari evidenziano il limite delle competenze tecniche di Consolo relativamente alla lingua del testo di partenza. Sottolineano però anche la sua spiccata sensibilità nei confronti della cultura greca e chiariscono la sua cifra stilistica, ovvero la grande ricchezza linguistica, in contrasto con la tendenza omologante contemporanea (in particolare bersaglio polemico è la lingua televisiva). Ciò ha il suo peso nel risultato finale della traduzione dell’Ifigenia, rappresenta cioè l’apporto propriamente consoliano al lavoro sul testo. 3 Consolo ha modo di conoscere la città e di innamorarsene proprio in occasione di una gita scolastica per le rappresentazioni teatrali, come racconta nell’articolo Siracusa, il mio primo talismano, in «L’Unità», 14 settembre 1989. 4 «E mi ricordai del tempo […] in cui per Omero, i tragici, per Erodoto, Diodoro, Tucidide, ero preso dalla passione per l’antico […]» (Vincenzo Consolo, Malophòros, in Id., Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 2012, pp. 83-94, a p. 91). Diverse le versioni dell’Odissea possedute e consultate da Consolo, come testimoniano le citazioni dalla traduzione di Giovanna Bemporad e da quella di Aurelio Privitera (ad esempio in Vincenzo Consolo, L’olivo e l’olivastro, Milano, Mondadori, 2012, pp. 3, 14, 15, 17, 22, 34). 5 L’uso di questo termine lascia evincere la consapevolezza che l’autore ha delle sue limitate competenze nella comprensione del greco antico (Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, in Id., Le pietre di Pantalica, cit., pp. 125-138, a p. 127).

Qualche nota sulla traduzione Veniamo alla traduzione. Come si sa, alla versione del mito che racconta del sacrificio della figlia di Agamennone, necessario perché le navi achee salpino alla volta di Troia, la tragedia di cui l’autore si occupa insieme a Del Corno preferisce l’altra, altrettanto nota, secondo la quale Ifigenia non muore ed è trasferita dalla dea Artemide nella lontana terra dei Tauri, mentre sull’altare acheo viene sgozzata una cerva. Nonostante sia salva, la figlia del re dei re ha un destino tragico: è infatti condannata a vivere in un luogo inospitale. La Tauride è terra sconosciuta, il mare è tempestoso, gli abitanti uccidono esseri umani in onore degli dèi. La distanza di Ifigenia dalla popolazione locale è enfatizzata dal suo ruolo di sacerdotessa. Poca cosa è la compagnia delle schiave greche. Il dolore dell’essere lontana dalla propria patria – dove si stanno svolgendo eventi ignoti, forse sciagure – è complicato dall’arrivo di Oreste, fratello bambino nella memoria, ora cresciuto e perciò irriconoscibile, straniero e quindi vittima ideale sull’altare dei barbari. L’intreccio è risolto in maniera romanzesca con l’agnizione tra fratello e sorella e la partenza dalla terra selvaggia, mediante l’appoggio della dea Atena. A parte una diffusa tendenza a esplicitare i riferimenti del mito sostituendo epiteti, perifrasi o termini generici,6 colpisce nella versione di Consolo e Del Corno la volontà di realizzare una traduzione poetica, attraverso l’uso di una lingua non colloquiale, arcaizzante e ricca dal punto di vista retorico, a tratti anche più del testo di partenza, che enfatizza la solennità della tragedia. In particolare si nota un elevato numero di anastrofi, che conservano quelle euripidee o sono apporto originale della traduzione: ad esempio, all’ inizio del primo monologo di Ifigenia, «e Atreo generò» traduce ἐξ ἧς Ἀτρεὺς ἔβλαστεν, ovvero «da lei nacque Atreo» (v. 3);7 «Attento sto», nella prima battuta di Pilade, traduce ὁρῶ (v. 68) che poteva essere reso più letteralmente con «Sto attento», «guardo»;8 «gli altari, le bianche colonne dei templi / di sangue umano s’arrossano»9 introduce l’inversione nel testo 6 Ad esempio l’espressione «Ulisse» piuttosto che «figlio di Laerte» per la traduzione del 533 (Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 30); «Simplegadi» invece che «azzurre rupi» per il 746 (ivi, p. 43) o ancora «Alcione» per «uccello» al v. 1089 (ivi, p. 62). In questi riferimenti, come in quelli che seguono, segnalo la pagina per una più comoda consultazione del testo: nella traduzione di Consolo e Del Corno manca infatti l’indicazione dei versi. 7 Ivi, p. 7.  8 Ivi, p. 9.  9 Ivi, p. 23.
τέγγει / βωμοὺς καὶ περικίονας / ναοὺς αἷμα βρότειον (vv. 404-406) che alla lettera andrebbe reso con «sangue umano bagna gli altari e le colonne del tempio».10 Effetto arcaizzante ha anche l’introduzione dell’ipallage nella traduzione «quando poi si aprirà l’occhio scuro della notte»,11 assente nel testo greco (v. 110 ὅταν δὲ νυκτὸς ὄμμα λυγαίας μόληι, «quando si schiuderà l’occhio della notte scura»). Ci troviamo di fronte ad una traduzione che difficilmente può definirsi letterale e che a tratti trasforma decisamente la sintassi del testo di partenza. È forse abilità poetica piuttosto che acribia filologica quella che traduce i 201-202 σπεύδει δ’ ἀσπούδαστ’ / ἐπὶ σοὶ δαίμων con «Atroce zelo un demone / dimostra contro di te»,12 mentre con una maggiore fedeltà al testo greco il passo andrebbe reso «Un demone sollecita per te / eventi non desiderabili » oppure, come traduce Albini nell’edizione Garzanti, «un demone affretta contro di te / eventi cui vorresti sottrarti».13 In queste scelte si può riconoscere la penna di Consolo? In realtà, anche se la tentazione di ricondurle alla sua grande ricerca linguistica può avere un senso, non possiamo affermarlo con certezza.Lo stesso dicasi per la scelta di una serie di termini che afferiscono alla sfera semantica della pazzia e che possono essere conseguenza della sensibilità particolare che Consolo ha per il problema della malattia psichica. Ricordiamo che il tema sarà centrale negli ultimi romanzi (la famiglia del protagonista Petro Marano in Nottetempo, casa per casa, del 1992; la moglie di Chino Martinez ne Lo Spasimo di Palermo, uscito nel 1998). Per il v. 211 leggiamo «immolata alla follia del padre»14 ma è piuttosto «vergogna», «onta», e, solo raramente, «demenza», il significato di λώβαι. Anche nella traduzione dei vv. 932 e 933 (l’argomento è il tormento causato a Oreste dalle Erinni) la scelta dei termini «convulsioni» e «attacchi» non è scontata.15 Lo stesso dicasi per l’uso di «follia» al v. 991 (πόνων),16 o per «pazzia» al v. 1031 (ἀνίαις),17 che sono un rafforzamento del testo greco dove piuttosto si parla di «sofferenza, fatica». Va però ricordato che la figura di Oreste tormentato dalle 10 La traduzione proposta per un confronto è quella di Albini nell’edizione Garzanti: Euripide, Ifigenia in Tauride-Baccanti, trad. di U. Albini, Milano, Garzanti, 1989, p. 140. 11 Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 11.  12 Ivi, p. 14.  13 Ivi, p. 128.  14 Ivi, p. 14. 15 Ivi, p. 53. 16 Ivi, p. 56. 17 Ivi, p. 58. Erinni, a cui si riferiscono per lo più i passi ricordati, ha molto a che fare con la follia. Perciò, anche se c’è da parte di Consolo una spiccata attenzione per il tema, la scelta di termini che enfatizzano la pazzia può essere frutto di una decisione condivisa. Diverso è il caso di tre interventi singolari che innestano nella traduzione arcaizzante tracce piuttosto evidenti di sicilianità, rispondendo in maniera netta al proposito consoliano di recupero delle lingue perdute o a rischio. Il primo è nel lungo discorso di Ifigenia al coro. Dopo il sogno angosciante che le ha fatto presumere la morte di Oreste, sogno su cui quasi si apre la tragedia, la donna dichiara la sua intenzione di fare sacrifici per il fratello. I versi 159-166 sono resi in questo modo nella traduzione di Consolo e Del Corno: […] Per lui voglio bagnare la terra di offerte, versare dalla coppa dei morti il latte di brade giovenche, lo spesso vino di Bacco e il miele ambrato delle api: mistura consòlo dei morti.18 L’originale consòlo traduce θελκτήρια, che ha il significato letterale di «che mitiga, che lenisce» e si riferisce alle offerte liquide da versare per il fratello morto. Il termine non va inteso come italiano arcaico per ‘consolazione’, piuttosto vi si deve riconoscere un rimando all’uso funerario, tipico dell’Italia meridionale e quindi della Sicilia, dell’offerta di cibo alla famiglia di un morto. Ma al di là della traduzione non certo usuale, la scelta di consòlo fa pensare a una σφραγίς vera e propria per l’evidente evocazione del nome dell’autore. Netto contributo di Consolo è anche l’uso del termine nutríco, sicilianismo che traduce ἐπιμαστίδιον (v. 231)19 ovvero ‘lattante’ (anche in questo caso è Ifigenia che parla, ricordando il fratello ancora bambino). E neppure è casuale la preferenza della parola zagara («zagara sacra dell’ulivo d’argento »), al posto di un più letterale ‘virgulto’ o ‘germoglio’ (‘virgulto del glauco ulivo’, ‘fiore dell’ulivo azzurro’) per θαλλόν (v. 1101),20 scelta che si fonda su un uso raro, specialmente siciliano, del termine zagara, di solito riferito al fiore degli agrumi, anche per le infiorescenze degli alberi di olivo.  18 Ivi, p. 13.  19 Ivi, p. 15.  20 Ivi, p. 62.  

  1. La forza dei nuclei tematici euripidei
    Lungo sarebbe il discorso a proposito dell’influenza della tragedia antica sull’ideologia di Consolo,21 sempre più evidente con il passare degli anni. Ma in questo caso ci occupiamo specificamente degli effetti prodotti dalla meditazione profonda sul testo dell’Ifigenia fra i Tauri. L’esperienza vissuta con Del Corno è definita «vivificante» in Le pietre di Pantalica, testo eponimo della raccolta del 1988, che proprio con il racconto della rappresentazione dell’Ifigenia a Siracusa si apre. In più Consolo aggiunge: «Avevo provato una sensazione di ritorno, ritorno alla giovinezza, al grecuccio del liceo sepolto dentro di me, ritorno alla terra natale, alla cultura d’origine, all’origine della cultura».22 La traduzione di un testo antico dunque, e specificamente la traduzione dell’Ifigenia, acquista un grande significato per lo scrittore. In particolare sono i nuclei tematici dell’opera antica ad assumere un grande peso nell’ opera consoliana. Il lavoro di riflessione sui temi è già testimoniato dal breve testo Tradurre l’Ifigenia, scritto a quattro mani con Del Corno, per accompagnare la traduzione. Opponendosi alla definizione di tragedia a lieto fine, abbastanza ricorrente a proposito dei drammi euripidei (si veda l’intervento provvidenziale del deus ex machina), i due traduttori riconoscono piuttosto nell’Ifigenia fra i 21 Consolo valorizza la via lirica del coro tragico, perché ritiene che questa sia l’unica rimasta,venute meno le possibilità di comunicazione reale con il pubblico. A proposito si veda Per una metrica della memoria, relazione tenuta dall’autore nel gennaio del 1996 presso il Centro Studi sul Classicismo di San Gimignano, nel quadro delle attività accademiche dell’Istituto italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Il testo ha trovato varie collocazioni, ad esempio Vincenzo Consolo, Per una metrica della memoria, in «Cuadernos de Filología Italiana», iii (1996),249-259. Alla luce di questa considerazione del coro tragico, vanno interpretati gli “a parte”,frequenti soprattutto in Nottetempo, casa per casa e in Lo Spasimo di Palermo. Sulla questione è utile anche consultare Alessandro Di Prima, La strategia del coro. Intervista a Vincenzo Consolo,in «Versodove», iv (2001), 13, pp. 68-71. Gli ultimi romanzi adottano inoltre epigrafi da tragedie antiche (epigrafe dall’Antigone sofoclea al IV capitolo di Nottetempo, epigrafe iniziale dal Prometeo incatenato eschileo a Lo Spasimo di Palermo). Tragedia o metatragedia può dirsi poi Catarsi del 1989. La critica ha spesso accennato alla questione. Più specifici ad esempio Luca Canali, Che schiaffo la furia civile di Consolo, in «L’Unità», 7 ottobre 1998; Carla Riccardi, Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo, in Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo, a cura di E. Papa, San Cesario di Lecce, Manni, 2004, pp. 81- 111; Domenico Calc
    , Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza, Catania, Prova d’autore, 2007, pp. 65-66. 22 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 127. Tauri «una tragedia di personaggi senza futuro». Solo a «una vuota e immota sopravvivenza fisica» possono aspirare Ifigenia e Oreste, perché essi sono bloccati nella loro identità di esclusi: Ifigenia rimarrà per sempre incatenata al suo destino di vergine sacerdotessa:di esclusa, di diversa, di relegata, non importa se fra i selvaggi abitatori della Tauride, o sulle sacre terrazze di Brauron; Oreste infine liberato dagli spettri del matricidio – nel cui tormento e nel disperato movimento era tuttavia la sua grandezza – sarà impegnato forse solo a cancellare il ricordo del suo furore.23 E sono per di più ancorati al loro passato, all’attimo del sacrificio Ifigenia, a quello del delitto Oreste. Il loro esilio, che non è solo esilio nella Tauride,ma esilio dalla vita, è condiviso dalle donne del coro. Le ancelle, espulse dalla civiltà greca in una terra barbara, inospitale, rischiano la perdita della loro identità culturale. Per salvarsi ricorrono alla memoria. Da questa scaturisce il canto, ovvero l’alto lirismo corale, in netta contrapposizione alla lingua, al mondo dei barbari (Toante, il mandriano, la guardia). Nei confronti del testo tragico, e di ogni altra tragedia antica, i traduttori riconoscono un debito di cultura e civiltà da parte della cultura e della civiltà del presente. E non mancano di individuare l’attualità del tema dell’esilio e della perdita di identità:24 Che di tutto questo la traduzione sia riuscita a salvaguardare e ad evocare qualche accenno, è la speranza di chi ad essa ha lavorato, con amore: trovando in questo lavoro la soddisfazione di rileggere quel passato che ha orientato la nostra storia, e scoprendo la terribile attualità di questa, come di ogni altra tragedia. Il nostro è tempo di esuli da patrie e identità culturali perdute, di lingue cancellate; è tempo di immobilità e di futuri deserti, di rimpianto per le mancate realizzazioni.25
    23 Vincenzo Consolo, Dario Del Corno, Tradurre l’Ifigenia, nel libretto di scena di Euripide, Ifigenia fra i Tauri. 24 Proprio alla comprensione dell’importanza di tale tema saranno da ascrivere alcune scelte di traduzione, che enfatizzano la  condizione dell’esilio: ad esempio «terra estrema, desolata » invece che ‘ignota, inospitale’, più letterale ma meno forte nella connotazione della Tauride, per ἄγνωστον ἐς γῆν ἄξενον al v. 94 (Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 10); oppure «mare fatale agli stranieri» al posto di ‘mare inospitale’ per πόντον ἄξενον al v. 341 (ivi, 20). 25 Consolo, Del Corno, Tradurre l’Ifigenia, cit. In Le pietre di Pantalica, sull’esilio, Consolo aggiunge:mi era apparsa, questa, come la tragedia dell’emigrazione, dell’esilio. Esilio d’Ifigenia e delle donne del coro da una terra umana, civile, in una terra disumana, barbara; tragedia della regressione e dello smarrimento,della perdita della propria cultura e della propria lingua, della perdita dell’identità. E Ifigenia e le donne del coro non fanno che sciogliere canti di nostalgia per la patria perduta, di dolore per la condizione in cui sono cadute.
    26 Questi sono, dunque, i nuclei di significato forti rintracciati nella tragedia antica. I personaggi euripidei e la terra straniera vengono accolti come simboli nell’opera di Consolo, e diventano uno strumento per parlare della contemporaneità. È prima di tutto l’autore a essere lontano dalla patria: lontano dalla Sicilia per la sua scelta di vivere al Nord, ma anche lontano da un altro tipo di patria, quella ideale della cultura e della civiltà, ormai negata dal presente. Ne scaturisce la condanna ad una Tauride senza speranza. Ma è anche in generale l’uomo contemporaneo a vivere l’esperienza dell’esilio in una realtà che snatura, che priva dell’identità negando i valori, la civiltà. Tauride, dunque, è la Milano della realtà, che ha tradito l’utopia ispirata negli anni della giovinezza da Vittorini e dagli altri scrittori emigrati: la città del Nord, che era parsa valida alternativa all’immobilismo dell’isola con la sua promessa di vitalità culturale, si è rivelata, agli occhi dell’intellettuale migrante, gretta, inospitale, luogo di perdita della memoria, campo fertile per l’attecchimento di ideologie razziste.27 La Sicilia a sua volta assume nella distanza i tratti di un’Argo del desiderio, sospirata, ma in cui sarebbe meglio non tornare mai: la tragedia euripidea, non a caso, si ferma alla fuga dalla terra straniera e tace sul ritorno, che non può che essere tragico, perché la reggia ha subito troppi lutti, ha visto troppi orrori e, perciò, tra le sue mura la ricomposizione dell’identità sarà impossibile. Il simbolo euripideo si sovrappone a quello omerico di Itaca, che è per antonomasia la patria della nostalgia. Ma se nel poema epico il ritorno di 26 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 127. 27 L’accostamento è esplicito in Id., Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli, 1993, p. 62. Ma Consolo sottolinea lo straniamento generato dalla grande città del Nord in molte altre occasioni, in particolare nelle pagine di Retablo o de Lo Spasimo di Palermo. Ulisse è scandito dalle tappe rassicuranti del sostegno di Atena e dei fedeli,del riconoscimento della cicatrice, dell’intesa del talamo, fino alla sconfitta dei Proci, così non è per Consolo: la Sicilia può essere Itaca, come può essere Argo, solo nella distanza,28 quindi nel ricordo che idealizza e preserva l’immagine del passato; nel momento dell’approdo la patria si rivela diversa,stravolta, preda dei pretendenti, nuova terra d’esilio. È diventata Tauride, dunque, terra straniera, perché non esiste più la civiltà di un tempo: non è più possibile ricomporre l’identità nel ritorno perché tutto è orrendamente mutato. La violenza e la sopraffazione, il miracolo economico «indecente» 29 hanno cambiato il paesaggio, i rapporti umani, hanno annientato i segni di sapienza e cultura locali. Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo.30 Le Itache non esistono, i luoghi del ritorno non esistono. Una volta che li si è abbandonati è impossibile tornare. Il nóstos non è un’esperienza semplice. Quando si va via, succede qualcosa nel tempo in cui si è lontani,e non si può mitizzare ciò che si è lasciato. E tornando si ritrova il peggio del peggio… I cambiamenti che ho trovato tornando in Sicilia, non sono certo miglioramenti. Quel libro [L’olivo e l’olivastro] vuole essere una registrazione del mio dolore per la perdita della Sicilia, per il processo generale di imbarbarimento… Io ho sempre desiderato di lavorare, magari in forma teatrale, intorno ad un personaggio, Ifigenia… Penso a questa donna, che il padre voleva uccidere, presa e portata in un luogo barbaro,lei che, figlia di un re, viene da Argo… E invece va a fare la sacerdotessa in Tauride dove deve compiere anche sacrifici umani. Per vent’anni ci rimane,subendo, proprio a livello culturale, una regressione terribile… E le resta quest’immagine di Argo, questa nostalgia… l’idea di coloro che ha 28 Si veda a proposito della forza di questo simbolo quanto afferma Jankélévitch in L’irreversible et la nostalgie (Vladimir Jankélévitch, L’irréversible et la nostalgie, Paris, Flammarion, 1983, pp. 370-371). Secondo il filosofo, anche l’eroe omerico è deluso nell’approdo a Itaca, che pure ha tanto desiderato. Il suo dramma, lo stesso che appartiene a tutti coloro che vivono lontano dalla propria terra, consiste in un sentimento di nostalgia perenne,non sanabile, a causa del cambiamento che il tempo ha prodotto nella patria e nell’ individuo. L’Itaca in cui torna Ulisse, infatti, è diversa da quella che l’eroe ha abbandonato partendo per la guerra di Troia. A nulla serve che, stando a quello che il mito racconta, i nemici vengano sconfitti, il vincolo coniugale sia ribadito, l’equilibrio ristabilito: non si torna indietro. 29 L’espressione è di Consolo (Il miracolo indecente, in «L’Unità», 9 novembre 2003). 30 Id., Fuga dall’Etna…, cit., p. 69. lasciato. Quando torna però la madre è stata assassinata, il padre pure, e non trova nemmeno più i suoi ricordi… Secondo me niente si può ricucire una volta che è stato strappato… Il dolore del ritorno può essere insopportabile. Meglio star fuori.31
    Tauride in Sicilia Cercherò di mostrare, attraverso esempi concreti tratti dall’opera di Consolo, quali esiti abbia avuto la traduzione della tragedia in termini di riuso dei simboli da essa veicolati. Mi riferisco in particolare a Argo e Tauride.Un primo caso è rintracciabile nel già citato Le pietre di Pantalica, che si apre con la rievocazione della messa in scena della tragedia Ifigenia fra i Tauri di Euripide all’interno del teatro di Siracusa32, e propone, alternando toni lirici e saggistici, una riflessione sulla forza simbolica degli elementi tragici per esprimere la contemporaneità, in particolare quella siciliana.La sacralità poetica dei versi euripidei in scena è esemplificata da Consolo attraverso la citazione di due passi: nel primo è Ifigenia che parla e rievoca il sacrificio voluto dal padre (vv. 361-371), il secondo invece è una delle manifestazioni di nostalgia del coro, che accompagna la decisione della sacerdotessa di fuggire con Oreste e Pilade (vv. 1094-1101).33 Il confronto tra la solennità dei versi antichi e la misera scenografia urbana genera amarezza e indignazione:31 Monica Gemelli, Felice Piemontese, Vincenzo Consolo (intervista), in L’invenzione della realtà. Conversazioni sulla letteratura e altro, Napoli, A. Guida, 1994, pp. 29-48, a p. 47. 32 Del teatro Consolo offre una descrizione suggestiva in apertura del testo (Le pietre di Pantalica, cit., p. 125). A proposito si veda Paola Capponi, Della luce e della visibilità. Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo, in «Quaderns d’Italià», (2005), 10, pp. 49-61, a 57. 33 «No, no, quest’orrore mai potrò cancellarlo! / Quante volte protesi le mani al viso del padre, / alle ginocchia; e m’aggrappavo implorando. / “Padre, padre! Che nozze nefaste / apparecchi per me; e mentre mi uccidi, / la madre e le donne di Argo cantano per me / l’imeneo, e tutta la reggia risuona di flauti: / ma io muoio, e sei tu a darmi la morte. / Morte era dunque il mio sposo, non Achille Pelide, / che tu mi avevi promesso. E sul carro / a nozze di sangue mi hai tratta, snaturato!”»; «Io, alcione senz’ali, con te / gareggio nel lamento / di nostalgia per l’Ellade in festa, / per Artemide propizia ai parti / che sui pendii del Cinto ha dimora / presso la palma frondosa, / l’alloro splendente / e la zagara sacra dell’olivo d’argento ». I due passi sono citati in Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 128. La traduzione è da Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., pp. 21 e 62. in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettio di motorette, sgommate, stridore di freni, grattare di marce, un sibilare acuto di sirene antifurto, un gracchiare d’altoparlante d’un vicino lunapark … Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin.34 La Siracusa di un tempo, bellissima, emblema di sublime grazia, vera civiltà, città per lo più silenziosa in cui l’udito era sollecitato solo dai richiami dei venditori ambulanti, che per la sua luce e la sua compostezza ha fatto innamorare il giovane Consolo nel 1950, ora non esiste più. Al silenzio di un tempo si oppone lo squallore sonoro del presente,35 rispetto al quale «il fragore del mare inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin». A ciò si aggiunge la miseria visiva: appena oltre il teatro, «strade, superstrade, tralicci, ciminiere serrano la città»36 e, ancora oltre, «un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini»,37 ovvero le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, mentre il centro storico, «la bellissima città medievale, rinascimentale e barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta»,38 e i luoghi più belli e unici sono andati perduti.39 Alla tragedia antica rappresentata, dunque, corrisponde un’altra tragedia, quella reale, che scaturisce dall’impero industriale e dalla trascuratezza moderna che colonizzano la Sicilia e imbarbariscono ciò che un tempo era modello di equilibrio e bellezza: è la tragedia della dissoluzione di una civiltà di cui la Siracusa del passato era simbolo. Il ritorno alla patria d’elezione – quella in cui Consolo aveva pensato di andare a vivere – è devastante, della scoperta che dell’immagine del ricordo non c’è più nulla. Siracusa 34 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., pp. 128-129. 35 Fernando Gioviale, L’isola senza licantropi. ‘Regressione’ e ‘illuminazione’ nella scrittura di Vincenzo Consolo, in Scrivere la Sicilia. Vittorini ed oltre. Atti del Convegno di Siracusa 16-17 dicembre 1983, Siracusa, Ediprint, 1985, pp. 123-132, a p. 124. Sullo squallore che caratterizza persino Siracusa Consolo si esprime anche in Flauti di reggia o fischi di treno, in «Il Messaggero », 19 luglio 1982, testo riutilizzato con alcune variazioni in Le pietre di Pantalica. 36 Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 129. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 «Le Latomie non sono più che cave aride e polverose, l’Orecchio di Dionisio un insignificante cunicolo, la Fonte Aretusa una pozzanghera fetida, il Fiume Ciane un rigagnolo avvelenato dove il suo famoso papiro sta lentamente morendo…» (ibidem). è idealmente accostata all’Argo del sogno e della nostalgia di Ifigenia, un luogo che non esiste più perché stravolto dall’orrore dell’omicidio. La terra straniera è sicuramente luogo inospitale di sofferenze e di nostalgia, ma l’Argo è ancora più barbara della Tauride. Ah Ifigenia, ah Oreste, ah Pilade, ah ancelle della sacerdotessa d’Artemide, quale disinganno, quale altro dolore per voi che tanto avete bramato la patria lontana! V’auguro, mentre veleggiate felici verso la Grecia, che venti e tempeste vi sospingano altrove, che mai possiate vedere Argo, distrutta durante il vostro esilio, ridotta a rovine, a barbara terra, più barbara della Tauride che avete lasciato. Vi resti solo la parola, la parola d’Euripide, a mantenere intatta, nel ricordo, quella vostra città.40 L’apostrofe amara ai personaggi della tragedia è in realtà meditazione sulla propria vicenda personale. Vi si accompagna l’affermazione della sacralità della parola, della letteratura, della memoria, che è fonte di valori contro l’insipienza che avanza e che è forse l’unica opportunità di preservare ciò che sta irrimediabilmente svanendo.41 Una riflessione dai toni simili è in L’olivo e l’olivastro dove l’esule, ovvero lo stesso Consolo, che vuole cantare la perduta Siracusa afferma di cercare versi da parodo tragica che siano dotati del tono grave di Ungaretti e di tutti gli altri poeti che si sono confrontati con la città. «Calava a Siracusa senza luna la notte e l’acqua plumbea e ferma nel suo fosso riappariva, 40 Ivi, p. 130. 41 Si veda a proposito Mario Minarda, La lente bifocale. Itinerari stilistici e conoscitivi nell’opera di Vincenzo Consolo, Gioiosa Marea, Pungitopo, 2014, p. 106. All’affermazione del valore della poesia si accompagna, anche in virtù di un giudizio scettico e pessimista sulla realtà, il dubbio a proposito del senso della traduzione e della messa in scena di una tragedia antica oggi. Ciò lo porta persino a commentare le scelte registiche, in particolare la scelta di esibire nel finale la dea Atena, deus ex machina, in una gabbia appesa ad un’autogru: «Se proprio voleva essere attuale, perché il regista non ha fatto calare dal cielo, pendente da un elicottero d’argento, la dea Atena, perché non giungere, come il barone di Münchhausen, a cavallo di un missile, d’uno di quelli che stanno installando qui, nella vicina Comiso? E non si chiamano appunto, questi missili, missili di teatro, del teatro d’Europa?» (Consolo, Le pietre di Pantalica, cit., p. 26). L’amaro sarcasmo punta il dito non contro regista e trovata scenica in sé quanto piuttosto su una contemporaneità scottante. Così la tragedia antica e quella contemporanea finiscono con il sovrapporsi mentre Consolo richiama un’altra sciagura, quella della base missilistica di Comiso su cui si concentra poi in Comiso (Id., Comiso, in Id., Le pietre di Pantalica, cit., pp. 139-144). soli andavamo dentro la rovina, un cordaro si mosse dal remoto». Il tono scarno e grave, ermetico e dolente vorrebbe avere d’Ungaretti o tutti i doni degli innumerevoli poeti per sciogliere, muovendo il passo come in parodo sopra le lastre di una piccola piazza, contro il tufo chiaro delle case, in vista, oltre la balaustrata che cinge la fontana, il forte d’Aretusa, del porto Grande e del Plemmirio, della foce dell’Anapo e del Ciane, in vista del bianco tavolato degli Iblei, sciogliere un canto di nostalgia d’emigrato a questa città della memoria sua e collettiva, a questa patria d’ognuno ch’è Siracusa, ognuno che conserva cognizione dell’umano, della civiltà più vera, della cultura. Canto di nostalgia come quello delle compagne di Ifigenia, schiave nella Tauride di pietre e d’olivastri. Ché questa è oggi la condizione nostra, d’esiliati in una terra inospitale, cacciati da un’umana Siracusa, dalla città che continuamente si ritrae, scivola nel passato, si fa Atene e Argo, Costantinopoli e Alessandria, che ruota attorno alla storia, alla poesia, poesia che da essa muove, ad essa va, di poeti che si chiamano Pindaro Simonide Bacchilide Virgilio Ovidio Ibn Hamdis esule a Majorca.42 Il richiamo ai versi ungarettiani di Ultimi cori per la terra promessa, che non a caso erano scelti anche come epigrafe al testo di Le pietre di Pantalica («Soli andavamo dentro la rovina»), enfatizza l’amarezza delle immagini tragiche. In una ideale tragedia che abbia come scenografia i luoghi simbolo della città, la poesia ungarettiana può forse avere la forza di una parodo della nostalgia, può cioè descrivere una condizione di sofferenza certamente personale ma che riguarda tutti coloro che rimpiangono «la civiltà più vera, la cultura». L’espressione del dolore di quest’esilio richiama di nuovo i personaggi e le immagini euripidee e il modello della parodo è fornito dal coro di donne greche dell’Ifigenia fra i Tauri.43 La solitudine «dentro la rovina» dei versi di Ungaretti attualizza lo sradicamento della Tauride euripidea e la 42 Id., L’olivo e l’olivastro, cit., p. 74. Sul passo si veda Roberta Delli Priscoli, Il mare, l’isola, il viaggio negli ultimi libri di Vincenzo Consolo, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVIII congresso dell’ADI, Padova 10-13 settembre 2014, a cura di G. Baldassari, V. Di Iasio, G. Ferroni, E. Pietrobon, Roma, Adi Editore, 2016, 1-10, alle pp. 3-5.43 Dopo il prologo e dopo l’uscita di scena di Oreste e Pilade, Ifigenia rientra accompagnata dal coro. Questa sezione rappresenta il nucleo centrale della prima parte della tragedia:Ifigenia è travolta dal lutto (pensa di aver perduto suo fratello) e prevede nuove sciagure, le schiave greche sono costrette a intonare canti barbari («Canto in risposta ai tuoi canti. / accompagnerò la mia padrona / con barbara cadenza in modo asiatico»; Euripide, Ifigenia fra i Tauri, cit., p. 14) ma sono solidali con lei, ne condividono la nostalgia e il lamento, deprecano l’inospitalità del mare della Tauride, ricordano con amarezza la patria che sono state costrette ad abbandonare.La meditazione si fa universale nell’accostamento ad altri luoghi del passato e del Mediterraneo mentre Siracusa incarna «la storia dell’umana civiltà e del suo tramonto».44 Qualche pagina più avanti la Tauride euripidea di nuovo viene utilizzata per parlare del degrado contemporaneo. Dalla meditazione sulla città di Siracusa scaturisce il racconto di una visita al di là del mare, lungo la costa africana. Tra i ricordi del passaggio alle rovine di Utica – «bassi muretti,pavimenti d’umili mosaici, qualche vasca, nudi ed esposti, in mezzo a tutta la vastità deserta intorno» –45 più del riferimento quasi inevitabile al Catone latino e a quello dantesco, colpisce la memoria delle piantine di un basilico profumatissimo che cresce in abbondanza tra le pietre e i mosaici e che viene poi offerto in dono da un vecchio arabo sorridente. Un particolare apparentemente senza importanza, che però, mentre riporta dall’aulico piano storico letterario a quello più concreto e tangibile degli usi e della gastronomia, definisce il prezioso patrimonio di piccole cose del Mediterraneo: Tra le pietre e i mosaici era un soave esalare di profumo di basilico riccio e fitto dentro vasche, vasi di terracotta. Era il profumo delle estati dei pomodori, delle cipolle, dei cetrioli, del basilico che i vecchi, uscendo per le strade sul tramonto, freschi e bianchi nelle camicie di cotone, mettevano all’orecchio; era di una intensità tale che si torceva nel profumo dolce e speziato della cannella.46 L’Utica di Consolo è rovine e basilico. Ma tutto il Mediterraneo in qualche modo è Utica. Tutto il Mediterraneo è fatto di «piccoli luoghi antichi e obliati» come Utica, in cui la natura si intreccia in maniera straordinaria con la memoria del passato.47 Proprio per questo, per la dimenticanza, per 44 Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 73. Identica espressione in Id., La dimora degli Dei, in Vincenzo Consolo, Giuseppe Voza, Salvatore Russo, La terra di Archimede, con fotografie di M. Jodice, Palermo, Sellerio, 2001, pp. 3-16, a p. 14. Significativo in L’olivo e l’olivastro è l’accostamento della decadenza di Siracusa alla caduta di Costantinopoli: nel testo infatti è inserito un passo della Historia turco byzantina di Ducas (Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 93) che contiene un lamento per la fine della città. Siracusa in preda al degrado dei moderni barbari dunque è come Costantinopoli in mano ai turchi. 45 Consolo, L’olivo e l’olivastro, cit., p. 91.46 Ivi, pp. 91-92.47 I mosaici e il basilico di Utica sono già ricordati in un passo di Malophòros, in un elenco di caratteristici e rapidi ritratti di piccoli luoghi carichi di passato, dalla Sicilia alla Grecia al Nord Africa: «Ci sono ormai posti remoti, intatti, non dissacrati, posti che smemorano del presente, che rapiscono nel passato? Io avevo provato questo rapimento a Tindari, affacciato alla balaustra della terrazza sul vertiginoso precipizio sotto cui si stende la spiaggia sinuosa l’incuria e l’anonimato di tanti tesori, la meditazione diventa amara: nell’enumerazione di antiche città, nell’anafora del verbo «ricordare», Consolo si trasforma in un «presbite di mente» tutto rivolto verso il passato, si trasforma in «infimo Casella» tutto proteso verso qualcosa che non c’è più: Ricordò i piccoli luoghi antichi e obliati, bagnati da quel Mediterraneo, ricordò Tindari, Solunto, Camarina, Eraclea, Mozia, Nora e Argo, Thuburdo Majius, Cirene, Leptis Magna, Tipaza… Ricordò la spianata delle moschee davanti al porto, il bagno d’Algeri […]. Pensò d’essere divenuto un confuso uomo, un presbite di mente che guarda al remoto ormai perduto, si ritrae in continuo dal presente, vecchio e scontento, di non essere in quel mondo che ombra, sagoma di nebbia, spirito lento, anima ancora carica di spoglia,nostalgia, infimo Casella smarrito sulla marina che arditamente intona versi alti, canta «Amor che ne la mente mi ragiona». No, non più. Odia ora. Odia la sua isola terribile, barbarica, la sua terra di massacro, d’assassinio, odia il suo paese piombato nella notte, l’Europa deserta di ragione. Odia questa Costantinopoli saccheggiata, questa Alessandria bruciata, quest’Atene, Tebe, Milano, Orano appestate, questa Messina, Lisbona terremotate, questa Conca d’oro coperta da un sudario di cemento, il giardino delle arance insanguinate. Odia questo teatro dov’è caduta la pietà, questa scena dov’è stata sgozzata Ifigenia, quest’Etna, questa Tauride di squadracce dove si consumano merci e vite, si svende onore, decenza, lingua, cultura, intelligenza…48 sa coi laghi marini, e sulla strada verso il teatro e il ginnasio, dove davanti alle casupole costruite coi blocchi di arenaria dei ruderi stavano vecchine, tutte nere e con bianchi fazzoletti damascati in testa, a filare come le Parche. L’avevo provato a Segesta, seduto sui gradini del tempio, in faccia all’orrido da cui saliva il gorgoglio delle acque del Kàggera; nel tragico silenzio di Micene, rotto dal suono di campani di greggi invisibili; nella sperduta piccola Utica, fra gli umili mosaici e il basilico che odorava di cannella; e qui a Selinunte, la prima volta che vi giunsi, in treno appunto, tantissimi anni avanti» (Id., Malophòros, cit., p. 89). Dello stesso tono la precedente osservazione sulle «stazioncine solitarie remote, di luoghi antichi,sacri, come quella di Segesta, di Cartaghe-Hannibal, di Pompei o di Olimpia» che sanno essere «commoventi, hanno ormai anche loro qualcosa di antico, di sacro» (ivi, p. 88). Omaggio ai «piccoli luoghi antichi e obliati» sono per lo più gli interventi apparsi su «L’Espresso» tra il 1981 e il 1982, dedicati a centri poco noti, come Miraglia, Valverde, Galati o Filosofiana. Il tono di questi articoli è però di solito quasi giocoso, un invito al godimento delle bellezze e delle ricchezze sconosciute. Come luogo antico e fuori dai soliti canali turistici è presentata anche Dion, stesa nella pianura ai piedi del Monte Olimpo (Id., Neró Metallicó, Roma, La lepre edizioni, 2009, pp. 31-32).48 Id., L’olivo e l’olivastro, cit., pp. 92-93. Il riferimento a Casella evidenzia il legame che Consolo sente con il passato, con ciò che non esiste più. Ma la sovrapposizione non è perfetta: il richiamo alla canzone Amor che ne la mente mi ragiona è immediatamente contraddetto dal «No, non più. Odia ora» e il canto non ha nulla della dolcezza
    del regno del Purgatorio, ma piuttosto una rabbia infernale, un tono che pretenderebbe «rime aspre e chiocce».Dai toni nostalgici Consolo passa a quelli indignati di un coro antico e professa odio prima nei confronti della sua Sicilia, diventata «terribile, barbarica,terra di massacro», una Tauride percorsa da «squadracce», poi verso l’Europa e verso l’intero Mediterraneo. Il dramma in atto ha proporzioni gigantesche e il riferimento ai simboli della tragedia euripidea sancisce la gravità della speculazione edilizia, dell’azione mafiosa: sulla cavea è stata sgozzata Ifigenia, si è prodotto cioè il sacrificio dei sacrifici, la morte della sacerdotessa che Artemide aveva voluto salva, la morte dell’esiliata e, con lei, la morte di ogni forma di giustizia, cultura, rispetto. Il presente è una Tauride senza speranza. Ai simboli euripidei Consolo ricorre anche in L’ape iblea. Elegia per Noto,testo teatrale del 1998,49 in cui all’elogio nei confronti della città che seppe rialzarsi dal disastroso terremoto del 1693 con la prodigiosa fantasia del barocco si sostituisce l’amarezza di fronte al degrado contemporaneo. Proprio per evidenziare la decadenza, l’incuria, Consolo introduce il lamento in prima persona di una Ifigenia smarrita, prima esiliata «nel fragore industriale», che è quello del polo siracusano, quindi di ritorno ad un’Argo di arnie e miele dove però non trova né arnie né miele, ma una «città / perduta, ottenebrata», «una Sarajevo / di lenta erosione»,50 un luogo cioè in cui non è possibile la ricomposizione dell’identità: L’Atride snaturato, la sorte avversa,bandì lontano,in terra stranea inospitale, regno d’ogni crudezza, scialo.Nei recessi bui, nel fragore industriale,bramai ognor la casa,conca di memoria brace di speranza.49 Uscito nel 2002, nel volume Oratorio, insieme a Catarsi (Id., Oratorio, Lecce, Manni, 2002).50 Ivi, p. 57.Vergine indurita, torno ora in Argo, all’alta reggia, alla chiara pietra, all’arnia, al miele. Torno e, oh, cieca m’aggiro nella città perduta,
  2.   ottenebrata, chiese, conventi vacui, deserte, mute le piazze.51Il mito della figlia di un Agamennone snaturato evidenzia la tragedia di Noto. Il riferimento forza la tradizione nel descrivere il ritorno di Ifigenia che però nulla realizza della tanto sospirata speranza: se al polo industriale ben si adatta l’immagine di Tauride dell’esilio, gli Iblei di api e miele invece non possono più essere la patria del sogno, l’alveare della memoria, e sono piuttosto un’Argo deludente. Nella amara scoperta dell’involuzione della propria patria, alla tragedia di Ifigenia si sovrappone quella di Antigone. La mancanza di cura del patrimonio culturale si configura come un’azione sacrilega, empia, come l’atto di un «Creonte  dissennato», che mette al di sopra delle leggi divine la sua autorità di despota.Chiusa nel mio nero,sola sulla scalea,piango per l’oltraggio,l’ingiustizia, l’empietà d’un Creonte dissennato.52 Quest’uso dei simboli tragici antichi per parlare di drammi siciliani ne testimonia la forza, intatta nonostante i secoli. Dell’esperienza “vivificante” della traduzione dell’Ifigenia fra i Tauri Consolo conserva figure e modelli, capaci di commentare il contemporaneo,53 in una prospettiva che privilegia 51 Ivi, pp. 57-58.  52 Ivi, p. 58. 53 La Di Legami (Flora Di Legami, Vincenzo Consolo, Marina di Patti, Pungitopo, 1990, 48-49) sottolinea soprattutto che per Consolo la scelta della tragedia più romanzesca dell’antichità equivale ad un ripetuto interrogarsi sulla natura e sul significato del narrare. L’Ifigenia euripidea dunque sarebbe per l’autore anche metafora della condizione straniata dell’intellettuale a tu per tu con una parola sempre più svuotata di senso, in esilio come Ifigenia e Oreste. Si veda anche Minarda, La lente bifocale…, cit., pp. 104-106: il critico evidenzia i luoghi noti, quindi la Sicilia, Milano, il Mediterraneo, e che si allarga facilmente al mondo intero.Al di là dell’interesse tematico c’è il riconoscimento della grandezza formale della poesia antica, la ricchezza di una lingua perduta, in grado di veicolare un complesso di valori. Ciò spinge Consolo a usare i versi euripidei anche per commentare gli eventi di Palermo, la strage di via d’Amelio. Il buio della lunga notte dell’infelice paese, lo strazio per le esequie funebri delle vittime, richiama le parole della poesia vera, la sola che dia «luce e sollievo nei momenti più bui e insostenibili»,54 ovvero alcuni versi dall’Ifigenia fra i Tauri.Vorremmo usare parole alte, degne, essendo le nostre fatalmente povere,consunte, parole prese dai libri delle antiche religioni o dai poemi immortali,dalle tragedie greche, per poter commentare gli eventi di Palermo, lamentare lo strazio per le esequie funebri dei cinque uomini giusti dilaniati dal tritolo insieme a un giudice giusto, e non per infiorare pietosamente, come si fa con le corone, la realtà tremenda, ma perché le parole ispirate e pure dei salmi o dei grandi poeti ci sembrano quelle che al di sopra di tutte diano luce e sollievo nei momenti nostri più bui e insostenibili. «Strazio da strazio nasce, / poiché le alate cavalle volsero il corso / e il sole altrove sospinse / l’occhio sacro del giorno», recita un coro di Euripide.55 Le parole dell’Ifigenia commentano i fatti – lo strazio sorto dalle limitazioni in merito ai funerali per le vittime – e rappresentano l’ultimo baluardo possibile contro la perdita dell’identità. Ecco spiegato allora il senso della traduzione di una tragedia greca nel presente, quando il mondo antico muore e sembra che non debba restare «neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto».56 Come le donne greche del coro dell’Ifigenia fra i Tauri che cercano di salvare la loro identità attraverso la memoria, Consolo ricorre alla poesia antica contro la Tauride del presente: è la sua tragedia siciliana. come il dramma del riconoscimento identitario tra i fratelli diventi nell’opera di Consolo il dramma collettivo del riconoscersi a stento nei disagi del presente. 54 Vincenzo Consolo, La lunga notte di questo infelice paese, in «L’Unità», 23 luglio 1992, ora in Id., Cosa loro, a cura di N. Messina, Milano, Bompiani, 2017, pp. 117-120, a p. 117. 55 Ibidem. 56 Id., Le pietre di Pantalica, cit., p. 132.__ 1 Euripide, Ifigenia fra i Tauri, trad. di V. Consolo e D. Del Corno, Istituto Nazionale del Dramma Antico, XXVII ciclo di spettacoli classici (27 maggio-4 luglio 1982), Siracusa, INDA, Nello stesso libretto anche le Supplici di Eschilo, tradotte da Scevola Mariotti e Giuseppe Di Martino. 2 Secondo Giusto Monaco, allora direttore dell’INDA, il duplice contributo, con competenze e sensibilità differenti, è garanzia di un felice risultato: «Per ciò che riguarda le traduzioni, il felice risultato dell’esperimento fatto nel ciclo precedente ha suggerito di confermare il metodo dell’affidamento di ciascun dramma a due autori, un filologo e uno scrittore di teatro moderno», in Giusto Monaco, Tra rigore culturale e aperture sociali, breve articolo che accompagna il libretto con le tragedie. Già negli anni precedenti infatti la traduzione dell’opera messa in scena era stata il risultato della collaborazione di due professionalità differenti: nel 1980 Umberto Albini e Vico Faggi avevano tradotto le Trachinie di Sofocle, Vincenzo di Benedetto e Agostino Lombardo Le Baccanti di Euripide. La scelta viene confermata nel 1984 con il Filottete di Maricla Boggio e Agostino Massaracchia.Da Levia Gravia quaderni annuali (2018)

Rileggere Consolo in altre lingue


Il racconto di Irene Romera Pintor, studiosa e traduttrice dello scrittore.

La sua scrittura incartata con un senso etico fortissimo, il suo personale plurilinguismo, il suo restare un meridionale al Nord, pur lavorando alla Rai di Milano per una vita intera: difficile schedare un personaggio come Vincenzo Consolo dietro un’etichetta o contenere la sua opera dietro un solo appellativo.
E poi la lingua italiana a volte non basta a spiegare la propria letteratura.
Riguardare al lavoro dell’intellettuale siciliano dietro la diversa prospettiva delle sue opere nelle traduzioni, cinque anni dopo la sua scomparsa, è il senso del seminario “Rileggere Consolo in altre lingue” che si svolgerà questa mattina alle 12, presso Palazzo Codacci Pisanelli (Aula3). A parlarne sarà Irene Romera Pintor docente di filologia italiana presso l’Università spagnola di Valencia, studiosa (tra le altre cose) dell’opera di Vincenzo Consolo, del quale ha curato e tradotto “Lunaria” (2003) e “Filosofiana” (2008 e 2011). Premiata per il primo lavoro con il premio per la Traduzione di Opere Letterarie e Scientifiche del Ministero degli Affari esteri italiano, Irene Romera Pintor ha organizzato sullo scrittore italiano anche vari convegni di studio in Spagna, curandone i relativi atti.
“Rileggere Consolo in altre lingue” è il nuovo appuntamento di cicli di seminari “Con testo a fronte. Poeti e testi a confronto”, a cura del Centro di ricerca Pens (acronimo di Poesia Contemporanea e Nuove Scritture) recentemente nato presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento e coordinato dal professor Antonio Lucio  Giannone, docente di Letteratura contemporanea dell’Università del Salento.
Irene Romera Pintor vaglierà, spiegherà e dimostrerà il valore di quest’opera poliedrica della letteratura italiana vista da un altro paese del contesto europeo, modulando quindi con un’altra lingua le operazioni linguistiche di Consolo, le sue caratteristiche e le sue scelte stilistiche in una più ampia visione artistica culturale.
Consolo è stato di recente anche inserito, con la sua opera omnia, nella collezione dei “Meridiani” di Mondadori. In quella occasione si è tenuta un’altra giornata di studi a Lecce, sempre organizzata dall’Università del Salento, sullo scrittore di Sant’Agata di Militello, acuto saggista e giornalista, per i rapporti che ebbe con il Salento e con l’università in relazione alla pubblicazione di due suoi volumi con l’editore pugliese Manni.  Si trattava di “Oratorio” del 2003 e di “La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo” del 2007 che vennero presentati in Puglia in entrambi i casi da Giannone  insieme a Consolo. Dedicare questo seminario nel calendario del Centro di ricerca Pens a Consolo, al di là dell’indubbio valore del personaggio, è anche una scelta nata dall’interno di un rapporto di particolare stima e di relazioni elettive che non si sono mai spezzate (in particolare con Giannone, che organizza anche questo evento con Pens).
Da “Di qua del faro” a “La ferita dell’aprile”, “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, “Retablo”, “Le pietre di Pantalica”, “L’olivo e l’olivastro”, “Lo spasimo di Palermo” e a tanti altri lavori, merita riletture questo scrittore dalle ampie vedute, fortemente impegnato e attento alle tematiche di una certa letteratura meridionale, ad un sentire che profuma di vento di mare e di salsedine, alle passioni di terre tumultuose e violate dalla dimenticanza e dalle ingiustizie, con la loro storia irrisolta.
Consolo, classe 1933, vincitore del concorso alla Rai nel ’68, giornalista per L’Ora dal ’64, consulente editoriale di Einaudi con Italo Calvino e Natalia Ginzburg, Premio Strega nel ’92 con “Nottetempo casa pere casa”, ha vissuto a Milano fino alla sua morte, nel gennaio del 2012. Ma pur avendo lavorato e abitato al Nord per la maggior parte della sua esistenza, restò un siciliano verace e si dedicò alla sua terra, anche come giornalista. Fu un autore proteso alla conservazione della memoria storica. Raggiunse la grande notorietà nel 1976 con “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, considerato presto il suo capolavoro, una sua rivisitazione del romanzo storico sui moti rivoluzionari in Sicilia nel 1860.

di Claudia Presicce
(articolo pubblicato su Nuovo Quotidiano di Puglia – 16 marzo 2017)

” La Luna ” brani di Vincenzo Consolo

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*
Quand’ecco all’improvviso distaccasi la Luna, rotola sul profilo del Grifone, Gibilrossa, Bellolampo, scivola sui merli delle torri, le curve delle cupole, le guglie, le banderuole in cima ai campanili, e s’appressa crescendo a dismisura, fino che viene ad adagiarsi nel giardino sopra i bastioni, tra le palme e le voliere, grande come il rosone d’una chiesa, e vomita scintille dal suo corpo.

(Lunaria)

In quel modo si spegne a poco a poco, annerando, mentre pigolano gli uccelli e passiscon sfrigolando i gelsomini, le pomelie, le aiole d’erbe, di fiori senza nome. Allora, guardando il cielo, vedo, dove lei s’era divelta, un’orma, una nicchia, un vano nero che m’attrae e dona nel contempo le vertigini…

(Lunaria)

… il cielo si schiariva, le stelle si spegnevano, sparivano, e la luna di tre quarti, perdeva la sua luce, impallidiva, si faceva di carta matta, una velina.

Appariva, di là della vallata, di là del Dessuèri e del Dittàino, di là d’Adrano, Jùdica e Centùripe, contro un cielo viola e lucescente, la cima innevata e il fumo del vulcano.

(Le pietre di Pantalica)

… supino, guardavo il cielo che da mosso si faceva violaceo e s’incupiva man mano.

Apparve una falce di luna, e mi tornarono in mente, chissà perché, a me che non ho mai amato il melodramma, le dolcissime note belliniane e le parole della preghiera di Norma: “Casta Diva, che inargenti ….”

(Le pietre di Pantalica)

Sorgeva l’algente luna in quintadecima e rivelava il mondo, gli scogli tempestosi e il mare alla Calura, stagliava le chiome argentee, i tronchi degli ulivi.

Sopra la collina Santa Barbara, in cima, sul declivio, per la pianura breve, contro la vaga luce mercuriale, parevan sradicarsi, muover dondolando, in tentativo di danza, in mutolo corteo, aspri, rugosi, piagati dalle folgori, maculati da lupe, da fumiggini, spansi o attorti con spasimo in se stessi.

Sale, sale pel cielo il turbine di lucciole, lo zingo fantasmatico, sale e suscita maree, turbamenti, lieviti, tristizie – se lento il progredire e inesorabile riduce la fiducia, incrina la quiete, sospinge alle discese scivolose, agli spenti catoi melanconici, l’estremo che s’involge, il colmo che trabocca, il pieno che tramuta in decrescenza sprofonda nel terrore, annega nell’angoscia.

(Nottetempo, casa per casa)

*
brani scelti da Claudio Masetta Milone

VINCENZO CONSOLO POETA DELLA STORIA

di Carmelo Aliberti

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Il nome di Vincenzo Consolo è stato associato, ormai quasi definitivamente, a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale. Consolo è convinto che “non si possano scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, perciò le sue creazioni narrative sono protese al setacciamento dell’ovulo della parola, alle alchimistiche operazioni di orchestrazione lessemo–stilematiche e sintattico-ritmiche al fine di far sprigionare dalla solfeggiata andatura del periodo, il soffio segreto dell’elegia. Infatti la sua prosa riecheggia di sonorità liriche, ricca di figure retoriche, allitterazioni, assonanze, paronomasie che, nello scandire i momenti evocativi della memoria e i temi scottanti dell’attualità, particolarmente della storia siciliana, si innalza ai vertici della poesia, con una chiarezza razionale di stampo illuministico.

Vincenzo Consolo nasce a S. Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio del 1933 da padre borghese e da madre popolana. Visse l’infanzia durante gli anni della Seconda guerra mondiale, turbato dalle crudeltà del conflitto e dalla lotta partigiana, per cui insieme alla famiglia si trasferì in campagna, dove, tuttavia, continuò a riecheggiare l’eco dei bombardamenti, scompigliando anche gli incontri gioiosi dei bambini, compagni di gioco del nostro e vittime innocenti della guerra. Tornato al paese natale, dopo lo sbarco degli alleati, le dolorose vicende di quegli anni fornirono allo scrittore il materiale per comporre il suo primo romanzo. Dopo aver frequentato gli studi presso i salesiani, consegue la licenza liceale al “Valli” di Barcellona P.G. (ME). Quindi si iscrive alla Cattolica di Milano dove, dopo essere stato costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, si laurea in Giurisprudenza a Messina con una tesi in Filosofia del diritto; svolge poi encomiabilmente l’apprendistato di notaio tra il paese natale e Lipari. Presto, però, prevale in lui la vocazione letteraria, sfociata nella composizione del suo primo romanzo “La ferita dell’aprile”. Il testo è ambientato negli anni della “guerra fredda” in un paese della Sicilia settentrionale, e narra le lotte politiche del Secondo dopoguerra, filtrate nel racconto in prima persona del protagonista, un ragazzo che studia in un istituto religioso in un paese di contadini e di pescatori, dove i “carusi” spiano la vita della piccola comunità patriarcale, attraversata dalla tragedia esistenziale. Trasferitosi a Milano nel 1968, le acque del suo mare, tra le coste siciliane e le Eolie e il paesaggio e la storia delle vittime della civiltà contadina e dello stupro della tragedia siciliana, offrono le ragioni profonde della trama del suo capolavoro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), con cui Vincenzo Consolo è conosciuto dal grande pubblico. La genesi del libro non è stata continua; infatti la stesura, per volere dell’autore, fu interrotta dopo i primi due capitoli che furono pubblicati, in edizioni numerate, con un’iscrizione di Renato Guttuso, ma l’attenzione suscitata, indusse Consolo a completare l’opera, con l’aggiunta di altre sette sezioni, dopo dieci anni, su pressante invito dell’editore Einaudi. Il romanzo presenta una struttura complessa ed è ambientato nella Sicilia degli anni 1856 – 1860, cioè negli ultimi anni del regime borbonico, a ridosso della spedizione dei mille e della rivolta contadina di Alcara li Fusi (maggio 1860), repressa nel sangue dai garibaldini di Bixio.
Il protagonista realmente esistito, é facilmente collegabile al contesto di una rigorosa storicità, in cui si dipana anche la vicenda del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il barone Enrico Piraino di Mandralisca, protagonista del romanzo di Consolo, e il principe Fabrizio Salina, protagonista del Gattopardo, sono entrambi aristocratici illuminati e assistono al passaggio dallo stato borbonico a quello unitario nazionale; al radicale pessimismo di don Fabrizio, di idee democratiche e patriottiche, ma lontano dalle vicende politiche e chiuso nelle sue ricerche scientifiche, si contrappone l’illusionistica speranza del Mandralisca, dapprima umbratilmente serpeggiante negli accadimenti ribellistici, ma progressivamente sempre più palese, fino all’epifania finale, paradigmata dalle epigrafi che scandiscono la tragedia dei martiri – eroi, innalzata e premessa ipotetica della redenzione della plebe siciliana. Il romanzo di Consolo è caratterizzato da due metafore fondamentali: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, ironico e pungente simbolo dell’apparente rifiuto aristocratico verso ogni forma di impegno, e la chiocciola, concretizzazione simbolica del labirinto della storia, dalle ampie entrate e dall’uscita sinuosa, speculare emblematicità del percorso delle vicende umane. L’opera è caratterizzata da moduli narrativi complessi, espressi in terza persona e con proiezioni in spazi neutri, la “lettura e la “memoria”, redatte e osservate dal protagonista, con scene corali, ora inflesse in enigmatiche articolazioni, ora riflesse sui tabulati della tragedia, sono declinate con contrapposti regimi narrativi, connotati dalla lingua brillante del Mandralisca, e dalle molteplici inflessioni popolari, sopra cui si staglia la cesellatura linguistica dello scrittore che dispiega galassie paesaggistico –naturali e implosive oscillazioni emotive, in scansioni descrittive di aureo impianto lirico – semantico. La scelta dei molluschi si traduce, come si è detto, in metafora della vita, in cui si condensano sia le tematiche del libro, che le strutture linguistiche e lessicali. Altro personaggio chiave è Giovanni Interdonato, come il Mandralisca realmente vissuto, protagonista gradualmente emergente da una sorta di baluginante ambiguità, fino alla chiarificazione del suo ruolo di mente nel movimento di liberazione della Sicilia.

Dopo aver chiarito le corrispondenze semantiche tra il sorriso di costui, incontrato su una nave diretta dalle Eolie a Cefalù, i rapporti con il Mandralisca e con altri elementi della nobiltà siciliana destinata al declino, affiorano alla ribalta della storia i contadini della sua terra, protagonisti della sanguinosa rivolta di Bronte, tutti processati per strage, ma alla fine tardivamente assolti per interessamento dell’Interdonato, con segrete interferenze plasmatiche del barone Mandralisca, rivelatosi determinante nell’indicazione e decrittazione dei documenti apposti in appendice, che imprimono chiarezza alle iniziali sinuosità della progressione storico – narrativa.

Enrico Mandralisca non è un nobile, ottusamente custode degli interessi di classe, è consapevole del nuovo corso della storia, non ripiega narcisisticamente nelle bolge della nostalgia, ma sostiene, con modalità correlate al sussulto degli eventi i rivoluzionari che intendono liberare la Sicilia dalle ataviche sedimentazioni di sudditanza, per renderli protagonisti del proprio destino esistenziale e storico.

Il barone sa che la storia è una “scrittura continua di privilegiati” e vorrebbe raccontarne una dove i contadini sono i protagonisti della stessa, ma si accorge che la scrittura dei “cosiddetti illuminati” è sempre “un’impostura”, perché questi si rifanno alle idee astratte di Libertà, Eguaglianza, Democrazia, Patria, che i vinti non sono in grado di capire; solo quando essi conquisteranno da soli quei valori, i discendenti saranno capaci di definirli con parole nuove. Il nobile intellettuale conclude con il riconoscimento dell’inutilità della scrittura e della necessità assoluta dell’azione, perciò, ritiene utile lasciare tutti i suoi beni a favore di una scuola, per i figli dei popolani in modo che imparino a scrivere e narrare la loro storia, per poterne capire gli orrori e coscientemente lottare contro le sopraffazioni subite per conquistare la libertà.

Anche nel romanzo successivo “Retablo” (1987) il racconto scivola su diversi piani narrativi e quadri storici staccati, come le scene variegate di una narrazione continua. Si narra dell’impossibile amore di due protagonisti, il pittore girovago milanese in viaggio in Sicilia, Fabrizio Clerici, e il prete siciliano Isidoro, per due donne, da cui rimarranno sempre lontani. Lo sfondo è una Sicilia lontana, preziosa, agreste. La lingua è ben studiata, con la strategica posizione di lessemi e stilemi idonea ad omogeneizzare lo spazio tra sequenze descrittivo – narrative e pause sono re con l’elencazione paesaggistico – oggettuale, in un intrico d’espressioni secondarie e subordinate condensate in una ampia tavolozza di immagini, situazioni e frammenti realistici, riprodotti con spiralizzante bulinatura neo – post – barocca, che imprime al romanzo una virtuosistica e profondamente vitalistica unità, al di là degli apparenti oscillamenti strutturali e nominali.

Lunaria” (1985) è un originale testo dialogato, sotto forma di favola destinata al palcoscenico che nella Sicilia del ‘700, riscopre il mito della caduta della luna. Il testo inizia nel primo Novecento, quando un anziano barone, in odore di irreversibile declino storico, scrive poesie in cambio di pane, ispirandosi soprattutto alla lun. Dopo anni, il manoscritto del barone, attraverso il ritrovamento di un giovane di Palermo, perviene a Consolo che lo rielabora in testo teatrale, dove mito, storia e poesia, risultano riplasmati sincronicamente nella metrica e nell’ambientazione epocale della Palermo settecentesca, governata da un viceré. Il centro narrativo è caratterizzato appunto dalla “caduta della luna”, che richiama a “L’esequie della luna” di Lucio Piccolo e alle pagine leopardiane delle “Odi”. Ma in Consolo i ritagli testuali delle correlazioni si dispiegano nel ventaglio della teatralizzazione della vita che diventa ansia e vertigine, panico, terrore, di fronte all’eternità e all’iniquità fatuamente terapizzata dall’uomo con inganni e illusioni, che non cancellano il male della Storia. Per cui, alla fine, il vicerè, tra riecheggiamenti leopardiani e intonazione pirandelliana, è costretto, di fronte all’impossibilità della Materia a dischiudersi: “Non sono più il viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete rappresentato una felicità che non avete. Vero re è il sole, tiranno indifferente. E’ finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica solida la cangiante terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima […] sipario dell’eterno”.

Qui la lucreziana giostra dei mutamenti fonomenologici si fonde all’originario immobilismo aristocratico paradigmato dalla mobilità dei registri logico – strutturali, pirandelliani, e avvolti nell’angosciosa indifferenza del lirismo leopardiano. Il motivo della luna i rivela ora ingrediente logico del percorso narrativo consoliano; infatti, innalzato in aree di sublimità lirico – razionale in “Lunaria”, era già presente nella opera adolescenziale “Triangolo e luna”, distrutto dallo scrittore.

A differenza degli scrittori citati, la luna, nell’opera di Consolo, oltre alla insita accezione semantico – filosofica, diventa anche occasione di polemica contro ogni forma di imbrigliante istituzione, anche linguistica, utilizzata anche con l’obiettivo di creare un linguaggio letterario originale. Con tale opera, ridotta a forma dialogica di livello alto, e perciò non teatralmente rappresentabile, Consolo ha inteso rappresentare il tramonto di una cultura e di una civiltà.

Nelle “Pietre di Pantalica” (1988) la storia della Sicilia, riemersa dal sipario della preistoria, e indagata fino ai crudeli anni recenti, dove la scrittura, immersa a captare tracce esaltanti del passato, preme all’interno della sottile rifrangenza delle reliquie e lo scrittore, nella memorabile pagina de suo diario, risulta testimone straziato del precipitare della sua isola verso ogni forma di dissacrazione di carattere morale e umana, che assurge a metafora della crudeltà e dell’iniquità del mondo. Ritornano le riflessioni pessimistiche e una storica catena di sconfitte, ma anche una rinnovata sfida della ragione, a cui è riconducibile il nucleo sotterraneo dell’anima e l’identità genetica dello scrittore.

Un particolare successo ha riscosso la pubblicazione del romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). In questo romanzo, Consolo affronta la storia dell’Italia, alle origini del fascismo, nei primi anni Venti. Qui il giovane intellettuale Pietro Marano, turbato dalle tensioni del primo dopoguerra, aderisce al movimento anarchico – socialista e, dopo aver subito le violenze delle squadracce del regime, attenta con una bomba al palazzo del barone don Ciccio, corrotto sostenitore del fascismo. La dura repressione costringe Pietro ad allontanarsi dalla Sicilia e, lasciato il movimento anarchico, mentre abbandona la sua terra, in seguito ad una operazione di profonda riflessione, ripudia ogni forma di violenza, purtroppo generatrice in quel tempo di efferatezza, di crudeltà e di sopraffazioni. Nella quiete dell’esilio, recuperata una lucida razionalità, decide di ritrovare attraverso il racconto, le vere ragioni di tanto orrore. In questo nuovo romanzo, si registra in Consolo, una visione diversa della storia. Se la scelta finale del protagonista del “Sorriso dell’ignoto marinaio” era l’azione, ora lo scrittore ritiene che solo la letteratura può ricostruire, attraverso il disordine doloroso degli eventi, il vero senso della storia e dei suoi orrori. È il trionfo della letteratura, attraverso cui soltanto si può ridare senso alla morte e ad ogni forma di aberrazione e di irrazionalità. È il romanzo corale di una intera civiltà, dove nobili e contadini, artigiani, disertori ed emigranti, anarchici e squadristi, animano le umane vicende di una Sicilia che sta per essere travolta da tanto dolore e da tanto degrado umano. Lo scritto, anche se ambientato in un’epoca precedente, riflette anche la premonizione dello scrittore di un ritorno del crollo delle ideologie e il preludio di una nuova era di oscurantismo culturale, condizione da cui sono nate sempre nella storia le involuzioni istituzionali verso la tirannide.

L’olivo e l’olivastro” (1994) è un libro al di fuori dei consueti canoni di scrittura. Il protagonista non ha un nome, ma può essere individuato, nonostante l’uso della terza persona, nell’Io narrante dello stesso Consolo. Due sono i grandi temi, apparentemente divergenti, ma che in realtà costituiscono un motivo unico del viaggio del narratore per la Sicilia, sulla scia del naufragio collettivo; come “L’olivo e l’olivastro”, nati dallo stesso tronco, hanno destini diversi, così il primo percorre i luoghi epici di Omero e dei Malavoglia, alla scoperta di civiltà millenarie, comunità immaginarie e mestieri perduti, e rappresenta l’ulivo (che richiama al mito dell’Odissea, quando Ulisse, distrutto dal vano peregrinare, si rifugia nell’isola dei Feaci e si ristora sedendosi sotto un albero di ulivo, accanto a cui cresce l’olivastro), simbolo di una Sicilia innalzata al sistema della ragione, che rievoca amori e passioni. L’olivastro (a volte scatenamento di matta bestialità) rappresenta, invece, quella moderna dello sfacelo architettonico, ambientale e sociale, la nuova Sicilia, flagellata da episodi di rimbarbarimento, di perdita di identità, di orrori, di inquinamento, come quello provocato dalla costruzione della raffineria di Milazzo, dove prima sorgevano sterminati campi di gelsomino. Ad una terra che soffre il dramma storico della disoccupazione e vive nell’eterna tensione della più assoluta precarietà e dell’inappagamento, si contrappone un Nord, dove la tendenza a ridurre l’uomo a mero strumento di produttività, ha ridotto gli spazi di libertà ed ha creato altre condizioni di infelicità, come traspare in questi anni, senza alcuna possibilità di finzione. La Sicilia dalle due anime, rappresentata tra viaggio della memoria e discesa nel labirinto della pietà, viene riscattata dall’immagine della negatività assoluta, nella riaccensione finale della straziante utopia, che fiorisce negli interstizi della catastrofe storica e della selvatica bestialità dell’isola mediante l’illusione della salvezza attraverso la cultura, creditata dalla civiltà greca e ancora viva nella forza del pensiero. Ora il linguaggio è percorso da una più accentuata tensione poetica che sembra accarezzare gli stupri storici e ecologici, con cui la Sicilia ha pagato il prezzo di un’illusoria industrializzazione, con lo scempio del suo incantevole paesaggio, che continua a vibrare nei ritmi del melodico periodare.

Il romanzo “Lo spasimo di Palermo” (1992) è un “nòstos”, il racconto di un ritorno, quello del protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, ai luoghi odioso – amati della sua infanzia e della giovinezza, Palermo e la Sicilia. Ambientato nel periodo dalla fine della guerra ai nostri giorni, su una linea di evoluzione cronologica del pensiero di Consolo, l’opera contiene al suo interno, il romanzo della Sicilia e dell’Italia – tra Milano e Palermo – dell’ultimo mezzo secolo, in un flusso della memoria tra i mali della storia individuale e collettiva fino alle ben note cronache, dell’assassinio di un giudice, a cui si contrappone la storia letteraria d’Italia, caratterizzata da tanta letteratura siciliana. Emblema del romanzo è la chiesa di S. Maria dello Spasimo, oltraggiata nei secoli ed ora restaurata, ed il quadro di Raffaello ivi dipinto, che mostra lo sgomento della Vergine di fronte a Cristo in ginocchio sotto la croce, in un simbolico atteggiamento di implorazione e di pietà per la perdizione dell’uomo di questi anni, che ha smarrito la rotta dell’identità di nobile creatura. C’è il romanzo di Gioacchino Martinez e suo padre, ucciso dai nazisti, il romanzo di Gioacchino e suo figlio, esule a Parigi per la sua adesione al terrorismo politico, c’è il romanzo d’amore di Gioacchino e Lucia, dolcissimo e disperato fino all’annegamento nella follia. C’è il fluire romanzesco della vita verso l’oblio, da cui si salva la voce immortale della poesia, ricantata nelle pagine dei più grandi scrittori, consegnati dalla memoria all’immortalità del futuro, in una sorta di utopistica sopravvivenza della sublimità della letteratura, di cui Consolo avverte di essere fibra consustanziale, già preannunciata in “Nottetempo, casa per casa”. Ne deriva una struttura, lontana da un prefissato schema narrativo, ma formatosi per sovrapposizione di circolari frammenti, disorganicamente ricomposto in una sfuggente dimensione spazio – temporale. Sui fotogrammi di violenze, sopraffazioni e fratture della storia di una pena lacerata, dilaga il regno del silenzio, in cui galleggia il protagonista – scrittore schiacciato dall’inefficienza pragmatica e dalla vacuità della parola, evirata di ogni vitalismo propulsivo. Emerge sul destino sociale e sul racconto del dolore e del silenzio, l’operazione della scrittura sperimentale del protagonista, che, però, si interrompe con l’ultima esperienza della sua vita. Allora decide di tornare alla sua isola, dove muore, come un Ulisse ucciso dai Proci, cioè dai pirandelliani “giganti della montagna”, senza volto e senza ragione, metaforicamente i sacri mostri del nostro tempo, che hanno devastato storia, memoria e tutto.

Sono gli anni straziati della violenza del terrorismo e della mafia, in cui Gioacchino, dopo aver tentato la rivolta, nell’ambito della scrittura distruggendo le convenzioni letterarie, responsabili dello “sfascio” sociale, è condannato alla sconfitta, anche della scrittura. Anche la chiusura del romanzo, con l’uccisione del giudice Borsellino, nel luglio del 1992, risulta desolatamente pessimistica e sancisce la sconfitta della ragione di fronte alle barbarie della società post – moderna.

La narrativa di Consolo, come quella di Sciascia, è pervasa da un forte sentimento civile che vede l’intellettuale misurarsi con i più sconvolgenti eventi della storia e misura la possibilità di incidenza della letteratura sugli ingorghi delle vicende della nostra Sicilia. Ma se lo scrittore nel suo ultimo romanzo abbandona l’intreccio del romanzo, rimpiange di non avere il dono della poesia, attraverso le cui forme di comunicabilità è possibile ritrovare ed esprimere la logica del mondo.

Dal punto di vista strutturale, i romanzi di Consolo risultano molto intrecciati sia sul piano spazio-temporale, che sulla linearità della fabula, su cui s’intrecciano documenti e citazioni, flussi di coscienza e lacerti di un intenso lirismo, in cui le oscillazioni interiori del personaggio diventano le occasioni poetiche dello scrittore.

Il lettore non è guidato da un trasparente filo conduttore, ma tra le geometriche rappresentazioni delle cose e dei sentimenti, nel sedimentarsi di fratture logiche e spiralizzazioni immaginifiche, sorrette da una straniante tecnica-linguistica orchestrata da un lucido razionalismo descrittivo di stampo illuministico, può trovare un collegamento tra spazio letterario e spazio comunicativo, tra procedimento logico e dialogico della narrazione, un modo di superamento delle diverse innovazioni artistiche, infarcite di stilemi e lessemi arcaico-letterarie-dialettali, che risentono della lezione di Gadda, sempre tesa al sublime e al tragico, binomio inscindibile che solo nella poesia ritrova la sua armonica funzionalità.

La vocazione intellettuale di Consolo si manifesta fin dal 1952 quando si allontana dalla Sicilia per andare a studiare Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, dove nella creazione letteraria affiora la cultura meridionalistica e neorealista come avviene per altri scrittori conterranei della diaspora.

Nel suo primo soggiorno milanese egli coltiva dentro di sé un modello di letteratura rappresentato dalla realtà contadina e una tipologia espressiva di stampo sociologico e di facile comunicatività ma già ne “La ferita dell’aprile” e nella produzione successiva, a partire dal “Sorriso dell’ignoto marinaio”, s’impone una scelta di scrittura iperletteraria, attraverso sui, da un lato lo scrittore si colloca accanto alla sperimentazione di Gadda e di Pasolini, dall’altro include l’utopia vittoriana di giustizia che rimarrà antagonistica con gli sviluppi involutivi della storia della sua Sicilia.

Allora incomincerà quella costante discesa di un siciliano nelle drammatiche pieghe dolorose della sua terra vilipesa nella sua dignità e nei suoi diritti dal sedimentarsi di regimi oppressivi, per cui il viaggio rappresenta il tema archetipico del “nostos” ricorrente anche nelle opere successive, come nelle “Pietre di Pantalica”, dove il viaggio si manifesta come immersione totale dell’anima fino alle più ataviche radici della storia siciliana, alla riscoperta di una identità italiana, eterna ed assoluta, fino all’“Olivo e l’olivastro” e alla storia disperata del popolo siciliano, scandita ne “Lo spasimo di Palermo”, dove la rivisitazione di una tragedia storica viene letta nei protagonisti, trucidamene seppelliti nei gorghi di un tempo di spaventosi orrori.

Come ha sottolineato lo stesso Consolo, la sua narrativa riveste “romanzi di ritorno all’isola” e deve essere interpretata come resoconto di un’esperienza di viaggio; “L’olivo e l’olivastro”, infatti, è un diario, tra narrativa e saggistica, in sintonia con la concezione estetica di Consolo, del ritorno doloroso in una Sicilia, “terra di tanti mali”, del passato, mescolati alla devastazione dei valori umani del presente, ma anche utero materno, in cui si agitano nuove ostinate speranze, assieme all’urgenza di nuovi doveri, ma dove l’ulisside consoliano conclude il suo viaggio, senza ritrovare più simboli per l’umana redenzione, perché la terra della memoria è stata radicalmente devastata dallo scempio di tanti Proci imbestialiti, che l’hanno ridotta a rovine.

La conclusione di una Sicilia irredimibile, dove l’isola può essere paragonata alla Troia incendiata di Omero, rappresenta anche l’incupirsi della visione consoliana, che coinvolge l’intera storia italiana, infatti, lo scrittore Gioacchino Martinez, per sfuggire allo sfacelo politico e socio-culturale di una invisibile Milano, dove si era recato alla ricerca di nuovi spazi di civiltà, come Vittorini di “Conversazione in Sicilia”, è ridisceso nella natia Palermo, ora mortalmente imprigionata nella spirale della violenza e del malaffare.

In questi ultimi anni lo scrittore tace. La sua vana creatività sembra essersi prosciugata nella inguaribile ferita della sua isola. Tuttavia, non si arresta la sua attività pubblicitaria, in cui continua a denunciare le devianze e la barbarie dell’Italia contemporanea.

La sua pena di vivere, tuttavia, scorre in maniera autobiografica nelle pagine del testo “Madre Coraggio” (in cui viene evocata idealmente la madre di Vittorini), Consolo scrive: “E qui, al sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate giornaliere con Piera un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la sproporzione tra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato e la grande tragedia che si stava svolgendo laggiù”[1].

Il suo negativismo storico si è esteso ai popoli dell’intero pianeta, ma la necessità di testimoniare sopravvive intatta per poter consegnare al futuro dell’umanità la memoria di un tempo apocalittico.

L’attuale silenzio narrativo dello scrittore è stato interpretato come convinzione dell’impossibilità della letteratura di poter redigere un’immagine credibile del mondo, per il fatale estinguersi dell’utopia che nella tradizione letteraria siciliana si è opposta all’omologazione delle riflessioni e della stessa scrittura, travolgendo gli eroi verghiani, vittoriniani e sciasciani. Infatti, nella nuova generazione di scrittori, sembra aprirsi ad un dialogo con le letterature nazionali e internazionali, dove dato esistenziale e denuncia disillusa del gattopardismo convivono armonicamente nell’attuale classe dirigente siciliana, verso la quale Consolo ha espresso, sia in letteratura, sia nella sua attività pubblicistica e nel suo impegno personale, il suo disgusto e la sua convinta condanna.

BIBLIOGRAFIA

Per quanto riguarda la bibliografia degli scritti di e su (anche stranieri) Vincenzo Consolo, si veda il numero monografico di “Nuove Effemeridi”, viii, 1995/i, 29, a lui dedicato, che contiene una foltissima e significativa antologia della critica.

Di seguito, diamo la prima edizione delle opere: La ferita dell’aprile, Milano 1963; Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, in AA.VV., Narratori di Sicilia, a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, Milano 1967; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Un giorno come gli altri, in AA.VV., Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano 1983; Lunaria, Torino 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988, Catarsi (1989), in AA.VV., Trittico, cit.; Nottetempo, casa per casa, Milano 1992; Neró metallicó, Genova 1994; L’olivo e l’olivastro, Milano 1994. Importante, il libro-intervista Fuga dall’Etna, Roma, 1993. Questi gli scritti critici più importanti, a esclusione dei tanti interventi giornalistici: G. Finzi Strutture metriche nella prosa di Consolo, in “Linguistica e Letteratura”, iii, 1978; M. Fusco, Questions à Vincenzo Consolo, in “La Quinzaine litteraire”, 31 marzo 1980; L. Sciascia, L’ignoto marinaio, in Id, Cruciverba, Torino 1983; G. Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983. Con vecchie e nuove varianti, Milano 1983; M. Fusco, Récit et histoire, Université de Picardie 1984; A.M. Morace, Consolo tra esistenza e storia. La ferita dell’aprile, in Id., Spettrografie narrative, Roma 1984; F. Gioviale, Vìncenzo Consolo: la memoria epico-lirica contro gli inganni della storia, in Id., La narrativa siciliana d’oggi, successi e prospettive, Palermo 1985; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze narrative della prosa contemporanea, in AA.VV., Storia della letteratura italiana. Il Novecento, tomo 2, Milano 1987; C. Segre, introduzione a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987; G. Amoroso, Vincenzo Consolo, in AA.VV., La realtà e il sogno. Narratori italiani del Novecento, a cura di C. Mariani e M. Petrucciani, vol. i, Roma 1987; N. Tedesco, “Retablo”: Consolo tra restauro della memoria e ira (1988), in Id., La scala a chiocciola, Palermo 1991; N. Zago, C’era una volta la Sicilia. Su “Retablo” e altre cose di Consolo (1988), in Id., L’ombra del moderno, cit.; N. Tedesco, “Le pietre di Pantalica”. L’irrequietudine e la carta della letteratura, in Id., Interventi sulla Letteratura italiana. L’occhio e la memoria, cit.; G. Amoroso, Narrativa italiana 1984-1988, Milano 1989; N. Tedesco, Ideologia e linguaggio nell’opera di Vincenzo Consolo, in AA.VV., Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, a cura di D. Perrone, Marina di Patti 1989; G. Turchetta, Consolo: Pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degli orrori, in “Linea d’ombra”, gennaio 1989; G.C. Ferretti, introduzione a La ferita dell’aprile, Milano 1989; N. Di Girolamo, Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo, in “Arenaria”, agosto-settembre 1990; F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id, Intrecci di voci, Torino 1991; S. Perrella, Tra etica e barocco, in “L’Indice”, maggio 1992; M. Onofri, Vincenzo Consolo: Nottetempo, casa per casa, in “Nuovi Argomenti”, 3a serie, 1992, 44, ottobre-dicembre; M. Onofri, L’umano e l’inumano nascono dallo stesso ceppo, in “L’Indice”, dicembre 1994; J. Farrell, Metaphors and false histories, in AA.VV., Italian Writers of the Nineties, a cura di L. Pertile e Z. Baranski, Edinburgh 1994; J. Farrel, Translator’s afterword in Id., The Smile of the Unknown Mariner, Manchester 1994; A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna 1997.

[1] V. Consolo, Viaggio in Palestina, Roma, Nottetempo, 2003, p. 70.

Carmelo Aliberti

 il 7 febbraio 2017 Terzo millennio rivista letteraria

La Sicilia comasca di Consolo nei “Meridiani”

Di Lorenzo Morandotti

Nei “Meridiani” di Mondadori è approdata, a cura e con un saggio di Gianni Turchetta e con un testo introduttivo del filologo Cesare Segre, l’opera letteraria dello scrittore Vincenzo Consolo, molto legato al Lario. “Voglio subito enunciare un giudizio complessivo – esordisce Segre – Consolo è stato il maggior scrittore italiano della sua generazione. La sua scomparsa ha turbato tutto il quadro della narrativa del nostro Paese, rimasto senza un punto di riferimento alto e, per me, indubitabile”.

Pubblichiamo qui il testo integrale dell’intervista al maestro di Sant’Agata di Militello, scomparso nel 2012, apparsa sul nostro giornale il 19 novembre 1997. Consolo era assiduo frequentatore del Lario. Nel 1993, fresco vincitore dello Strega, nella sala del comune di Albavilla, aveva presentato con il giornalista Lorenzo Morandotti del “Corriere di Como” il suo romanzo “Nottetempo casa per casa”. L’autore dell’articolo-intervista a Consolo, Dario Campione, così commenta oggi sul suo blog: “Ho ritrovato parole sorprendentemente attuali, a testimonianza del fatto che i grandi temi restano sempre sullo sfondo della vita degli uomini, sono il loro palcoscenico naturale. Rileggere Consolo a 20 anni di distanza dà la misura della sua grandezza di scrittore e di osservatore della realtà italiana”.

Vincenzo Consolo in Altolago nella chiesa di San Giacomo di Livo

Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo ha instaurato un intenso rapporto con il territorio altolariano. In uno dei suoi libri più fortunati, Retablo, si parla diffusamente di Gravedona e delle Tre Pievi, terra di emigrazione (dal Cinquecento all’Ottocento) verso Palermo e la Sicilia. Eccone anche per darne un saggio della ricca prosa di Consolo, una citazione dal romanzo, che ritroviamo anche nel “Meridiano” pubblicato da Mondadori: “Con gran sorpresa riconobbi, sulla soglia di una botteghella, un uomo della terra di Stazzona, ove la mia famiglia possedea cascine e campi, e una casa in cui s’andava nell’estate e ancora vanno di tempo in tempo i miei parenti (…) Mi mostrò orgoglioso la sua bottega di panniere. ben avviata, fiorente, pur nel poco tempo in cui si dimorava qui in Palermo.”
Sempre più frequenti sono state, negli ultimi anni, le sue visite sul Lago di Como. In Retablo il protagonista, il pittore Fabrizio Clerici, compie un viaggio dalla Lombardia alla Sicilia. È anche il libro con il quale lei si è legato al territorio lariano. Come è nata l’idea del romanzo?

«Retablo è innanzitutto un omaggio alla letteratura, al Manzoni, rievocato attraverso il personaggio di Teresa Blasco, ma anche nel figlio del mercante gravedonese emigrato in Sicilia, che il Clerici incontra a Palermo, proprio nell’ultimo capitolo, nel momento in cui abbandona l’isola. Quel ragazzo si chiama Lorenzo e manda, attraverso il pittore, un paio di orecchini alla sua fidanzata, Lucia. Il romanzo contiene anche un omaggio al grande Cervantes attraverso il gioco del Retablo, riflessione sull’inganno necessario, l’inganno della poesia. Una società privata della poesia è una società che impazzisce, una società che si aliena. Sino a quando coltiviamo la memoria non correremo questo rischio. Se perdiamo la poesia perdiamo la memoria e quindi siamo veramente destinati alla follia della storia. E sappiamo a quali disastri, a quali orrori può condurci la follia della storia».
Che cosa l’ha colpita dell’Alto Lago, al punto da eleggerlo a luogo letterario?
«L’estremità di questi luoghi, questo Nord profondo che si incontra con la Sicilia grazie all’emigrazione. Credo che l’emigrazione sia veramente il cammino delle civiltà. Tutte le grandi civiltà si sono infatti formate attraverso le emigrazioni, a partire da quella greca. L’Altolago è un luogo della memoria, come dimostrano ad esempio i tanti oggetti sacri che la “Nazione Lombarda”, insediatasi nella Palermo del Seicento e del Settecento, mandava al luogo di origine, e che ancora oggi sono conservati nelle chiese. La memoria spesso si perde, viene cancellata. Sull’emigrazione lombarda in Sicilia sono state pubblicate parecchie ricerche, lavori meritori perché spiegano il fenomeno e ne dimensionano la portata. Sono le stesse ricerche di cui anch’io mi sono servito. Soltanto la letteratura, il romanzo, è però in grado di assegnare un significato alla storia, a dargli poesia. La letteratura scava nel profondo e restituisce ai fenomeni storici il loro senso più vero e profondo».
Si è mai chiesto perché si emigra?
«Tutte le emigrazioni sono sempre dovute a necessità economiche. Credo che la stessa cosa sia successa in quel lontano Seicento agli uomini delle Tre Pievi, quando per ragioni di carestia e di fame sono arrivati a Palermo, in questa grande capitale che allora era una sorta di crocevia del mondo. Da lì infatti passavano tutte le navi dirette a Oriente o verso le coste africane. Era una metropoli ricca, dove grande era anche la vitalità culturale ed economica. I valori in cui ci si riconosce, nell’emigrazione, sono quelli dell’onestà, della probità, del lavoro, della tolleranza, i valori della solidarietà. Questi lombardi, questi emigrati comaschi, proprio perché avevano questo senso dell’onestà del lavoro, del lavoro fatto bene – erano degli artigiani provetti – trovarono a Palermo la loro dimensione, il loro destino. Queste famiglie esistono ancora, oggi il più importante gioielliere di Palermo si chiama Barraja, ma si possono fare tantissimi altri esempi. Hanno trovato tolleranza, perché a Palermo, in quegli anni, c’era, proprio per eredità culturale, tolleranza e solidarietà per chi veniva da fuori, e hanno saputo con il loro lavoro, con la loro sapienza artigianale, con la loro probità, trovare lì, in questo luogo così lontano e così diverso da quelli che avevano lasciato, una nuova identità, un nuovo futuro e, in definitiva, il loro destino».
Perché la metafora del viaggio è così importante per gli scrittori di ogni epoca e di ogni tradizione culturale?
«Viaggiare per scoprire i luoghi in cui i propri antenati sono emigrati, ad esempio, è un fatto di memoria, è un modo di difendere la propria identità. Oggi una diversa organizzazione del mondo, l’esplosione della cosiddetta rivoluzione tecnologica, l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, tendono a cancellare la nostra memoria, la nostra identità, e quindi a farci vivere in un presente infinito dove non riusciamo a immaginare neanche il futuro più prossimo. Credo che l’impegno di ciascuno di noi debba essere quello di conservare la memoria di tutto quanto ci ha preceduto e quindi: consapevolezza del presente e progettazione del futuro. Non facciamoci ridurre a oggetti, cerchiamo di rimanere soggetti della nostra vita e della nostra storia».
I suoi libri sono considerati difficili, il linguaggio in cui lei si esprime è volutamente colto, a volte caratterizzato da arcaismi e locuzioni dialettali. Da dove nasce questo modo di scrivere?
«Il mio linguaggio scaturisce da uno scavo profondo in un giacimento prezioso, di cui non ho alcun merito. È il giacimento linguistico lasciato da tutte le civiltà che sono passate nella mia terra. Scavando in questo patrimonio ho cercato di immettere in circolo parole sepolte dall’oblio. Fra queste lingue preziose, tra questi reperti lessicali, che vanno dal greco al latino, all’arabo, allo spagnolo, una lingua particolarmente importante per me è stata l’antico lombardo, che si parlava nella pianura padana intorno all’800 dopo Cristo. Quando i Lombardi, dopo essere venuti in Sicilia con i Normanni per cacciare gli Arabi dall’isola, decisero di insediarvisi definitivamente, formarono delle colonie linguistiche (su questa Lombardia siciliana ha molto fantasticato e mitizzato uno scrittore come Vittorini: inConversazione in Sicilia c’è infatti la figura del “Gran Lombardo”). Ho adottato questa lingua, che è un medio-latino, o gallico che dir si voglia, proprio come estremità linguistica, da cui partire per giungere poi alla lingua della comunicazione».
Non le sembra a volte di esagerare, di tentare un gioco estremo, di correre il rischio di cedere di fronte al fascino della forma?
«La mia lingua letteraria non è usata soltanto per un gioco formale. Sono nato vicino ad una di queste isole linguistiche, San Fratello, dove il medio-latino gallico si è conservato integro. I sanfratellani, proprio perché parlavano una lingua diversa (e avevano di conseguenza usi e costumi differenti) erano oggetto di critica, di dileggio, qualche volta anche di beffa».
A questa sua sperimentazione assegna un significato particolare?
«Investe tutto il significato della mia ricerca. Mi sono posto subito, sin dal mio primo gesto di scrittore, su una linea “sperimentale”, non ho cioè adottato il codice linguistico della comunicazione, ma quello dell’espressione, situandomi così su una linea che parte da lontano, da Verga, e poi, in tempi più recenti, passa attraverso Gadda e Pasolini. Ho conosciuto un mondo che adesso è scomparso, quello della cultura contadina, ed ho assistito alla grande trasformazione italiana, cioè alla cancellazione di questa cultura contadina e all’avvento di quella industriale. Credo che in Europa nessun paese come l’Italia abbia vissuto una trasformazione così rapida e profonda. Ciò ha messo in crisi parecchi scrittori. Pasolini, ad esempio cerca disperatamente di raccontare questa grande trasformazione. Nel momento in cui ho cominciato a scrivere si concludeva anche una stagione importante, nella letteratura come nel cinema: il neorealismo. Scrittori come Pratolini o Carlo Levi (e nel cinema registi come Roberto Rossellini e Vittorio De Sica) con grande generosità avevano immaginato, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una nuova società, e si erano quindi espressi in un linguaggio di estrema comunicazione, credendo così di poter ricostruire la realtà dalle macerie in cui era stata ridotta».
Ma il suo mestiere di scrittore nasce da un’esigenza di raccontare la società italiana o di trasformarla? Si tratta insomma di una scelta stilistica o di una scelta politica?
«Credo entrambe. L’Italia non ha mai avuto una società coesa proprio perché non si è mai affermata, nel nostro Paese, una lingua comune. Il problema della lingua è stato agitato da parecchi scrittori della nostra letteratura: Leopardi, ad esempio, guarda oltralpe, afferma che il francese tende all’unità, è una lingua che si è geometrizzata a partire dall’epoca di Luigi XIV, mentre in Italia esistono un’infinità di lingue. La Francia ha “perso l’infinito” che aveva in origine, mentre l’Italia lo ha mantenuto, ha mantenuto cioè la possibilità di alimentare la propria lingua attraverso l’apporto delle parlate popolari, dei dialetti. Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, porta come esempio di possibilità infinita di orchestrazione dell’Italiano uno scrittore del Seicento, Daniello Bartoli. Bartoli era un gesuita, autore di una straordinaria Storia della Compagnia di Gesù, un’opera usata come pretesto per descrivere luoghi esotici, lontani, e in particolare l’estremo oriente e la Cina. Non è un caso che il padre del romanzo italiano, Alessandro Manzoni, nel momento in cui, con un gesto di generosità civile, cerca di dare una lingua agli italiani “sciacquando i panni in Arno”, “attacchi” il suo grande romanzo parodiando proprio Bartoli. “Quel ramo del lago di Como” non è altro che la mimesi, la scimmiottatura di una descrizione della Cina del Bartoli. Per quanto mi riguarda, rinunzierei a quello che Leopardi chiama l’infinito che c’è e c’è stato nella nostra lingua, pur di avere una società dove tutti possano comunicare in un’unica lingua della verità e della giustizia».

Corriere di Como 14 Aprile 2016