1920, Cefalù. È notte. Al sorgere della luna gli ulivi che affollano la collina Santa Barbara sembrano “sradicarsi, muover dondolando, in tentativo di danza, in mutolo corteo, aspri, rugosi, piagati dalle folgori, maculati da lupe, da fumiggini, spansi o attorti con spasimo in se stessi”. Un’atmosfera magica ma anche angosciosa si sparge per la cittadina. Una porta si spalanca di colpo, ne esce barcollando un uomo che si morde le mani, si strappa la camicia al collo, inizia a correre ululando e urlando per le stradine silenziose. “Il luponario! Il luponario”, bisbigliano i suoi compaesani chiusi in casa al suo passaggio. L’uomo ogni tanto cade a terra, si inginocchia, si rotola nella polvere, batte i pugni contro il suolo, piange e ulula ancora. Giunge al mare e vorrebbe gettarsi dagli scogli, ma lo raggiunge, lo abbraccia e lo salva suo figlio Petro. Lui si divincola, corre verso il cimitero, si accascia su una lapide, finalmente si calma. 1920, Cefalù. È giorno. Fa molto caldo e “la vita chiede tregua al fervore del tempo, all’inclemenza dell’ora, chiede ristoro ai rèfoli, alle brezze, alle fragili ombre delle fronde, delle barche, alle fresche accoglienze delle stanze”. La bottega della Piluchera è affollata, si bevono vino, gazzosa, cedrata, persino acqua. Dal viale Margherita, procedendo su per via Mazzini e accompagnato da una strana musica “segreta d’ascosi pifferi, timballi e ciaramelle”, appare d’un tratto senza preavviso il corteo di forestieri più stravagante mai visto a Cefalù. Davanti a tutti marciano “due fantolini biondi, arricciolati”, vestiti di panni sgargianti. Seguono due donne in tunica color porpora e a piedi nudi. Chiude il corteo l’individuo più strano di tutti: è pieno di anelli e collane, ha un grande bastone dorato e con l’altro braccio tiene un neonato avvolto in panni di pizzo. È “un uomo maestoso, giacca d’alpagà sopra brache variopinte, (…) il cranio raso tranne una ciocca che come corno o fiamma gli si rizzava al colmo della fronte”…
Il magnifico romanzo di Vincenzo Consolo – nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 e morto a Milano, dove per una vita ha lavorato alla RAI, nel 2012 – è stato insignito del Premio Strega nel 1992. Magnifico per l’impianto narrativo complesso e sfaccettato, una vera sinfonia in cui la singola nota suonata dal singolo strumento è necessaria e contribuisce alla maestosità dell’insieme, magnifico per i temi affrontati (l’impatto dell’occultista Aleister Crowley e della sua corte variegata sull’ambiente della provincia siciliana degli anni Venti, e contemporaneamente l’avvento del Fascismo). Magnifico più di tutto per la lingua ricchissima, piena di arcaismi, neologismi e localismi. Non è raro imbattersi in prose ricercate, soprattutto nella narrativa italiana, lo sappiamo bene e lo riteniamo un difetto, un limite, un peccato originale. Ma Consolo è tra i pochissimi autori che possono permettersi uno stile così barocco, perché ha la sensibilità e l’approccio del poeta, maneggia la parola come fosse un orafo. Ecco perché le sue frasi profumano di zagara, di arancia, di acqua di mare, di notte d’estate, di sesso femminile. E la spiccata sensualità che la lingua di Consolo trasmette, come fosse un incantesimo arcaico, si adatta alla perfezione a raccontare le avventure di Mr. Crowley, che alla villa di Santa Barbara di Cefalù – da lui ribattezzata Abbazia di Thélema richiamando la sua dottrina, a sua volta così chiamata in onore del Gargantua di Rabelais – mise in scena una colorata rappresentazione di sé e delle sue rivoluzionarie idee in tema di religione, sesso e società, fondando una sorta di “comune” ante litteram. Libero amore, nudismo, abolizione dei vincoli e delle proprietà, droghe, rituali religiosi eretici. Uno scandalo che l’asfittica società siciliana non poteva tollerare (Crowley fu addirittura ribattezzato “u diavulu”) e che peraltro fu inquinato anche da voci false di cannibalismo, sacrifici umani, stupri, fino alla cacciata dell’occultista inglese dall’Italia ad opera delle autorità fasciste.