Il segreto della scrittura di Vincenzo Consolo

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“Il sorriso dell’ignoto marinaio” è certamente il più significativo contributo di Vincenzo Consolo alla letteratura italiana contemporanea. Questo romanzo ha il raro requisito, che è dei classici, di poter essere letto ad apertura di pagina. Come per i veri grandi scrittori la vicenda non è che l’occasione su cui si articola la forma e questa può e deve essere gustata a prescindere dall’intreccio se l’autore ha raggiunto, nella forma, il livello dell’arte.
Ad un orecchio attento la scrittura di Consolo manifesta una profonda musicalità che sconfina palesemente nel verso. Lo spettacolo atroce del massacro di Alcara Li Fusi del 1860, coi cadaveri squartati nella fonte a cui gli asini rifiutavano di abbeverarsi, viene così descritto, in un testo di apparente prosa, qui artificialmente segmentato negli endecasillabi mascherati che ne compongono la struttura profonda: “A la fontana del perenne canto / di sette bocche fresche d’acqua chiara / persin gli scecchi volsero la testa, / e i muli schifiltosi per natura, / [omesse 12 sillabe di un verso irregolare] / immondo di carogne pregne a galla / nella vasca, macelleria di quarti / ventri, polmoni e di corami sparsi / sui pantani e rigagnoli d’intorno / non sai se di vaccina, becchi, porci / [cani o cristiani] / lo stesso al lavatoio un po’ più sotto / fra mezzo a ruote, palle, rocchi bianchi / di rustico calcare; e dal mulino /…”
Ed ecco il lamento delle donne raffrenato, al contrario, nella sua drammaticità, e stilizzato negli schemi classici del compianto: “Madri, sorelle, spose in fitto gruppo / nero di scialli e mantelline, apparso / per incanto prope alla catasta / ondeggia con la testa e con le spalle / sulla cadenza della melopèa. / Il primo assòlo è quello di una donna / che invoca in vece stridula, di testa, / il figlioletto con la gola aperta.”
Vediamo ancora la descrizione dell’arrivo della nave: “Guardò la vaporiera lì di fronte: / lance e gozzi, partiti dalla riva, / s’erano fatti sotto alla fiancata / per lo scarco di merci e passeggeri / e tutti i terrazzani, a la marina, / vociavano festosi e salutavano.
Si tratta di straordinarie sequenze di endecasillabi ed è questo il metro di gran lunga prevalente e quasi esclusivo. È interessante notare che Consolo ha poi ammesso, con sorpresa, che le strutture formali che abbiamo rilevato erano uscite inconsapevolmente dalla sua penna. La musica l’aveva dentro e le parole vi si adattavano!
In un’epoca in cui sembra perduta la sensibilità metrica ed è in disuso da tempo perfino la retorica, la parola anzi ha assunto una connotazione negativa, e molta “poesia” appare null’altro che prosa tagliata a pezzi senza criteri riconoscibili per cui segmenti di frasi vengono semplicemente disposti in righe successive, un autore che, in una elegantissima scrittura, esprime tale sensibilità musicale appare come una manifestazione di cultura classica profondamente assimilata. Leggere Consolo non è come leggere Sciascia, Bufalino o Camilleri che spesso gli vengono comparati. E’ vero che spesso Consolo impasta al contesto termini siciliani, ma non ne abusa, per quanto si affermi che questa è una caratteristica del suo linguaggio letterario. Nei testi citati troviamo solo l’asinello che diventa ”scecco”, ma lo diventa per ragioni metriche, non per vacuo esibizionismo. Semplicemente lì ci stava bene.
E così pure Consolo usa mirabilmente la paratassi. In un discorso senza subordinate il quadro viene dipinto con efficacia attraverso immagini che si succedono e si sovrappongono in quella che viene indicata di salito come “enumerazione caotica”, ma di caotico rende solo l’impressione perché il quadro, in tal modo, viene dipinto con pennellate veloci, quando non tollererebbe il ritmo lento e contorto dell’ipotassi. Se ne ha un esempio se esaminiamo in questa luce il primo dei passi riportati.
Avevo rilevato questi aspetti formali in un saggio apparso sulla rivista “Linguistica e Letteratura” già nel lontano 1978, quando da poco il romanzo di Consolo era apparso come una meteora luminosa nel cielo della nostra letteratura e credo che questi aspetti di originalità che rendono così interessante e piacevole la lettura, e marginale la vicenda rispetto alla forma, meritino un posto più ragguardevole di quanto mi sembra voglia stabilire la critica.
Da fanatico formalista ho contato e comparato i versi presenti in alcuni capitoli. Forse il lettore troverà interesse queste insolite annotazioni: nel primo capitolo sono presenti, in media, ben 33 versi ogni cento righe di testo, ma nel settimo capitolo si sale all’incredibile frequenza del 74% per discendere al 50%, che è sempre un livello assolutamente straordinario, nell’ultimo capitolo. D’altra parte è abbastanza facile porre in evidenza la presenza di numerose forme lessicali tipiche del linguaggio poetico come: “ Crescean, avea, cattivitate, vorria, narrator, cogliea, spirto, scendea, giugnea, ecc”, e utilizzate chiaramente per ragioni metriche.
Il saggio mi ha consentito di diventare amico di Consolo. La sua scrittura mi ha certamente arricchito, gli sono grato per questo e mi piace ricordarlo nella sua casa di Milano dove, insieme a Caterina, sua devota, simpatica e intelligente consorte, mi ha più volte ricevuto per parlare di letteratura e anche, amichevolmente, di politica, pur essendo noi, in questo campo, culturalmente piuttosto lontani. Ma il cuore era dato all’arte e lui sapeva che lo ammiravo sinceramente e suppongo apprezzasse l’impegno e il notevole tempo che avevo impiegato per studiare il suo stile. Vincenzo capiva tutto e guardava il mondo con occhi comprensivi. Per questo forse il suo sguardo ricordava quello benevolo e un po’ ironico del ritratto di Antonella da Messina, conservato nel museo Mandralisca, quello ricordato nel titolo del suo maggiore romanzo, titolo anch’esso incastonato nell’endecasillabo del “sorriso dell’ignoto marinaio”.
Alessandro Finzi
del 2000

I ritorni


Isola. L’archetipo omerico delle isole fantastiche, isole di violenza e inganno, di utopie e distopie, di deserti e di silenzi, di linguaggi sorgivi ed ermetici, è scivolato per tutta la letteratura occidentale, è passato per tutti i grandi poeti e scrittori, dall’antichità fino ad oggi. Non è questo archetipo che qui ci interessa, ma l’altro, quello più importante dell’Odissea, di questo grande poema della nostra civiltà: l’archetipo del nóstos, del ritorno. Del ritorno in Sicilia dei narratori moderni.

Ma non è più ora, la Sicilia, la fantasmatica isola della primordiale natura minacciosa e devastante, non è più, il suo isolamento, nella terribilità di quel suo stretto passaggio. Ora l’isola è affollata dei più vari segni storici, antichi e immobili per fatale arresto, quali rovine trasferite in una dimensione metafisica, è ricca di frantumi di civiltà, di frammenti linguistici, è composita culturalmente, problematica socialmente. Tutto questo ha fatto sì che nel tempo, paradossalmente, quel breve braccio di mare che la staccava dal Continente si ampliasse a dismisura e la rendesse più estrema rispetto a un centro ideale, la relegasse, a causa della sua eredità linguistica, della sua dialettalità, ai margini della comunicazione.

Da qui, la necessità, l’ansia negli scrittori isolani di lasciare il confine e d’accentrarsi, di uscire dall’isolamento e di raggiungere i centri storici, culturali, linguistici.

Primo fu Verga, nella letteratura siciliana moderna, a compiere il viaggio, a lasciare Catania e ad approdare a Firenze, centro di quella cultura rinascimentale che aveva illuminato l’Europa, del neodantismo romantico, di quella lingua attica restaurata da Manzoni dopo la sua esplosione, la sua frantumazione in senso barocco e in senso dialettale, lingua a cui ogni scrittore, da ogni periferia, cercava d’approssimarsi; a Firenze, in quel 1869, capitale del nuovo Regno d’Italia.

Tracce di una certa qual fiorentinizzazione dello scrittore si trovano subito in ambientazioni, in episodi di Eva, Tigre reale, Eros, e maldestre, ingenue assunzioni linguistiche si riscontrano nella Storia di una capinera. Ma non era, Verga, un aspirante al perfezionismo linguistico; a lui il toscano poteva servire per liberarsi da incertezze lessicali e sintattiche, da retaggi dialettali, a farsi padrone di una lingua media, di servizio, per le sue narrazioni. E del resto Luigi Russo afferma che Verga non si mostrò appassionato per la Firenze ben parlante, che in lui era “scarso accademismo linguaiolo e letterario”. “Firenze” dice “fu per lui soltanto un’altra atmosfera, l’orizzonte più largo, qualche cosa di diffuso di cui bisognasse respirare l’aria.”

Ma di diffuso, in Firenze, c’era l’aulicità del suo passato, una certa ritualità mondana e la struttura burocratico-ministeriale che da poco vi si era installata. C’era una società letteraria, i cui componenti più rappresentativi erano Dall’Ongaro, Prati, Aleardi. Altrove, a Milano, era il movimento, la modernità, l’impresa. A Milano erano le case editrici. Qui, da Lampugnani, nel ’71, Verga aveva pubblicato la Storia di una capinera, romanzo alla moda di derivazione diderotiana e manzoniana, che gli aveva dato successo, fama.

Da Milano Verga tornerà in Sicilia, vi tornerà prima con la memoria, con le “memorie pure della sua infanzia”, operando la famosa svolta stilistica, convertendosi a una nuova etica. In Sicilia, a Catania, tornerà realmente nel 1893, ferito per l’incomprensione a cui era andata incontro la sua opera, chiudendosi in un orgoglioso silenzio.

“Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto…” Questo celebre attacco è di Conversazione in Sicilia di Vittorini, il romanzo pubblicato nel 1941, che risuonava, in una livida aria, come un rintocco di campana, lento e triste, che dava voce, nell’atrocità della guerra in corso, nel ricordo della guerra di Spagna, al dolore inesprimibile d’ognuno.

Concepito in un momento buio e tragico della storia, Conversazione è per l’autore un necessario viaggio alla terra dell’infanzia, della memoria, della madre e delle madri, per ritrovare, tornando, energia e speranza, il linguaggio oppositivo e propositivo dei padri, della ideologia. Ed è insieme, come quello di Ulisse, un viaggio oltre i limiti del reale, una discesa agli Inferi, nel regno delle ombre, dei morti, per raggiungere, con la conversazione, la più intima, assoluta comunicazione, per dare e avere conforto, dare e avere ragione della morte a causa della guerra. L’eroe Silvestro, traversato lo Stretto-Acheronte sul battello-traghetto, dopo aver assunto il cibo iniziatico, pane e pecorino, approda in una Sicilia invernale, in un’isola di piccoli siciliani disperati, umiliati dalla miseria e dalla malattia, ma anche di fieri e indomiti “gran lombardi”, di uomini che parlano di “nuovi doveri”, di personaggi una volta attivi e ora chiusi nella non speranza, che annegano il furore nell’oblìo del vino. Guida nella discesa memoriale e catartica, nei gironi della naturalità e della carnalità, del risentimento e della libertà, è la madre Concezione, possente e sapiente, una madre che non trattiene il figlio nella zona incantata e regressiva dell’infanzia, che lo lascia tornare ai doveri di uomo, al lavoro di linotipista, di compositore di parole.

Vittorini inaugura, con Conversazione, per la prima volta nella letteratura siciliana – letteratura d’interni o di piazza, di stasi – oltre Verga o contro il mondo circolare, chiuso verghiano, oltre Pirandello, il viaggio di ritorno, viaggio non solo memoriale, ma reale. E attinge lo schema, l’istanza, alla grande letteratura, a Omero, Virgilio, ma anche a Cervantes, a Gogol’, Fielding, e soprattutto alla letteratura americana, letteratura di grandi spazi e di quasi incessante movimento. Di questa letteratura ancora, di Hemingway, Steinbeck, Caldwell, facendolo germogliare su ceppo ermetico, riprende lo stile, se non la stilizzazione. Schema di viaggio, movimento, che è esigenza ideologica, necessità etica.

Speculare a Conversazione, di opposto senso e di opposta conclusione, di diverso stile, linguaggio, lontano da ogni mito, simbolo, da ogni utopia, è, dello stesso anno 1941, un altro viaggio di ritorno, quello di Don Giovanni in Sicilia di Brancati.

Già fascista, Brancati entra in crisi ideologica ed esistenziale. A minare le sue certezze c’era già stato il dialogo a distanza con l’esule Borgese. Lasciata Roma, la capitale del potere, torna nel ’37 in Sicilia e lì, nella lucida e impietosa osservazione della piccola borghesia, attraverso la rappresentazione comica, corrosiva di questa classe priva di sicurezza e di cultura, attraverso i suoi tic, le sue follie, la meschinità dei suoi padri e il potere devastante delle madri, le infanzie morbose e ammorbate dei suoi figli, le loro sensuali pigrizie corporali e intellettuali, Brancati restituisce il ritratto di una classe, siciliana e no, italiana e no, che aveva dato potere al fascismo e nel fascismo aveva trovato identità.

Dopo aver pubblicato nel ’38 Gli anni perduti e Sogno di un valzer, pubblica dunque nel ’41 Don Giovanni in Sicilia. Con questo romanzo lo scrittore va al centro della sua polemica, al cuore del problema: al dongiovannismo, al gallismo, al vagheggiamento vale a dire verbale e fantastico, da parte di uomini bloccati in una incancrenita adolescenza, della donna. E non poteva scegliere, Brancati, come teatro della sua vicenda, una città più adeguata di Catania. Una città sotto il vulcano, continuamente minacciata e invasa dalla natura, vitalistica e sensuale, nera e abbagliante. Giovanni Percolla, il protagonista, conduce qui, fino ai quarant’anni, tutelata da una plurima madre rappresentata da tre sorelle nubili, circondata da amici a lui somiglianti, un’esistenza bovina, pigra, torpida, una vita di vischiose abitudini, di sonni, sogni, allucinazioni. In cui è possibile ogni ottundimento, ogni regressione. Sposatosi con la “continentale” Ninetta e trasferitosi a Milano, sembra diventato un altro uomo, attivo, volitivo, raziocinante. Ma tornato in Sicilia, tornato alle sorelle, alle loro malie, subito sprofonda nel letto suo “scivoloso e caldo” di scapolo, rientra nell’utero della terribile madre. “Dopo un minuto di sonno, duro come un minuto di morte…” dice Brancati. In quel letto l’anima infantile di Giovanni Percolla rimarrà per sempre isolata, esiliata, come quella del professor La Ciura, del racconto Lighea di Lampedusa, dopo la visione o l’allucinazione della sirena.

Un nóstos classico, un omerico ritorno ad Itaca dell’eroe dalla guerra è il vasto e complesso Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Ma è anche, soprattutto, un viaggio, un ritorno nella lingua, nei linguaggi, come nell’Ulisse di Joyce.

Anticipato, con una parte, che aveva il titolo di I giorni della fera, nel 1960, sulla rivista “Il menabò”, diretta da Vittorini e Calvino, il romanzo veniva pubblicato quindici anni dopo con il nuovo titolo. Ma già Vittorini, in appendice all’anticipazione, pur ammettendo l’alta valenza letteraria del lavoro in corso di D’Arrigo, mette le mani avanti e afferma: “Debbo avvertire i lettori ch’io non ho nessuna simpatia né pazienza per i dialetti meridionali […], i quali sono tutti legati a una civiltà di base contadina, e tutti impregnati di una morale tra contadina e mercantile, tutti portatori di inerzia, di rassegnazione, di scetticismo, di disponibilità agli adattamenti corrotti, e di furberia cinica”. E conclude: “I dialetti che sarebbe auspicabile di veder entrare nelle elaborazioni linguistiche della letteratura dei giovani sono, a mio giudizio, i padani, i settentrionali, che già risentono della civiltà industriale…”. È evidente, in queste affermazioni, tutto l’antiverghismo di Vittorini, è evidente la sua concezione progressiva della storia – la concezione di Cattaneo, di Michele Amari – la sua fede marxiana e gramsciana, la sua scelta operaistica, la sua utopia industriale. Industria a misura d’uomo, sull’esperienza olivettiana e sulla tenace volontà direttiva, sulla profonda convinzione democratica di un dirigente di stato come Mattei, sulla recente scoperta del petrolio in Sicilia, a Gela, che avrebbero ancora portato lo scrittore siracusano-lombardo a compiere un secondo viaggio in Sicilia con Le città del mondo, pubblicato postumo. Alla luce oggi dei vari crolli, di cui siamo stati partecipi e testimoni, di crolli ideologici, industriali, linguistici, sarebbe lungo qui analizzare le concezioni politiche e culturali di Vittorini, le sue generose e poetiche indicazioni per una risoluzione degli atavici “mali” meridionali.

Di Horcynus Orca dicevamo, di D’Arrigo. Egli, certo, riprende e amplifica i moduli lirici vittoriniani, affolla il testo di corposi simboli, ma il suo linguaggio va verso altre direzioni, va verso quella sperimentazione che, partendo da Verga, arrivava in quegli anni, in estensione, fino a Gadda, in digressione, fino a Pasolini. Ma la ricerca di D’Arrigo è importante nel suo movimento digressivo, nella sua dimensione verticale. Mette in campo davvero una grande Orca linguistica, D’Arrigo. Usando due registri, dialogico e narrativo, partendo da livelli comunicativi, normativi, con scarti progressivi sprofonda nell’espressionistico, in un vortice di dialettalismo, di sicilianismo topologico, con l’infinita iterazione e deformazione lessicale – parole composte, diminutivi, accrescitivi, vezzeggiativi e spregiativi – con indugi, divagazioni, accumuli, innumerevoli approssimazioni che quasi mai si ricongiungono col referente. Si ha l’impressione che D’Arrigo abbia trasformato il cerchio salmodiante dei proverbi verghiani in un vortice, in un gorgo linguistico, simile al gorgo di Cariddi. E ancora, che il suo, oltre quello liminare di Aci Trezza, riproduca ed esalti il linguaggio di una realtà mobile, equorea qual è Scill’e Cariddi, in cui lo iato, per l’incessante furia distruttiva della natura, si è fatto più vasto, più profondo: lo iato fra mito e storia, natura e cultura, individuo e società. Riproduce ed esalta insomma, D’Arrigo, il linguaggio della paura, che è proprio dei pescatori, degli abitanti dello Stretto.

Siamo qui ancora, in questo scrittore di assoluta vocazione e dedizione letteraria, nella sfiducia nei confronti della storia, siamo nel pessimismo, nel fatalismo verghiano. In Horcynus sembra che ’Ndria Cambria sia il giovane Luca Malavoglia che, sopravvissuto alla battaglia di Lissa, ritorna al paese e non trova più la casa del nespolo, la Provvidenza, trova Aci Trezza sconvolta, i familiari, i compaesani scomparsi o perduti, degradati. Siamo qui ancora nella siciliana non speranza, nell’assenza di una civile società in cui l’individuo possa riconoscersi, con la quale stabilire il linguaggio logico della comunicazione.

Sullo schema del ritorno si svolge anche la vicenda del mio libro L’olivo e l’olivastro, in cui l’archetipo omerico del nóstos non è messo en abîme, ma esplicitato, fin nel titolo. È riletto, ripercorso anzi succintamente, il mito del ritorno dell’eroe greco nel tentativo di scoprirvi ulteriori significati, per dare significato al mio viaggio, alla mia narrazione. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definita Walter Benjamin in Angelus Novus. Dice in sintesi, il critico, che la narrazione è antecedente al romanzo, che essa è affidata più all’oralità che alla scrittura, che è il resoconto di un’esperienza, la relazione di un viaggio. “Chi viaggia, ha molto da raccontare” dice. “E il narratore è sempre colui che viene da lontano. C’è sempre dunque, nella narrazione, una lontananza di spazio e di tempo.” E c’è, nella narrazione, un’idea pratica di giustezza e di giustizia, un’esigenza di moralità.

L’olivo e l’olivastro è il naturale e necessario esito di una ricerca letteraria. È uno spostare il romanzo, che presuppone, nella sua struttura, nelle scansioni riflessive, comunicative l’esistenza di una società, verso la narrazione, verso il poema narrativo.

Nei libri che fin qui abbiamo esaminato, da Conversazione in Sicilia a Horcynus Orca, non è mai presupposta l’esistenza di una società; nessuno di quei libri può dirsi dunque romanzo, ma dirsi invece narrazione, poema narrativo. In Sicilia, questo, priva da sempre di una società, in quest’Itaca desiderata, raggiunta e rifiutata. In altri luoghi di questo Paese era presupposta la società, in Toscana, in Piemonte, in Lombardia. Ma oggi, in questa nostra civiltà di massa, in questo mondo mediatico, esiste ancora la possibilità di scrivere il romanzo? Crediamo che oggi, per la caduta di relazione tra la scrittura letteraria e la situazione sociale, non si possano che adottare, per esorcizzare il silenzio, i moduli stilistici della poesia; ridurre, per rimanere nello spazio letterario, lo spazio comunicativo, logico e dialogico proprio del romanzo.

“La racine de l’Odyssée c’est un olivier” dice Paul Claudel.

Sappiamo che dopo l’uccisione dei Proci, dopo il rito di purificazione con lo zolfo dei luoghi della strage, il riconoscimento e il ricongiungimento di Ulisse e di Penelope avviene dopo la rivelazione del segreto: il loro talamo era costruito su un tronco di ulivo.

Nel viaggio di ritorno degli scrittori siciliani manca questa conclusione, manca questo alto simbolo della civiltà.

Anche nel mio ritorno. E l’assenza più clamorosa dell’ulivo si incontra a Gela, in questo luogo di mitizzazione e di speranza del vittoriniano Le città del mondo.
Anche nel mio ritorno. E l’assenza più clamorosa dell’ulivo si incontra a Gela, in questo luogo di mitizzazione e di speranza del vittoriniano Le città del mondo.

Foto di copertina di Giuseppe Leone

Vincenzo Consolo
Di qua dal faro. Mondadori Editore – 1999

La grande vacanza orientale-occidentale


Vincenzo Consolo

Una costa diritta, priva di insenature, cale, ai piedi dei Nèbrodi alti, verdi d’agrumi, grigi d’ulivi. Una spiaggia pietrosa e un mare profondo che a ogni spirare di vento, maestrale, tramontana o scirocco, ingrossava, violento muggiva, coi cavalloni sferzava e invadeva la spiaggia. Era un correre allora dei pescatori dalle loro casupole in fila là oltre la strada di terra battuta, era un chiamare, un clamoroso vociare. Le donne, sugli usci, i bambini2 in braccio, ansiose osservavano. I pescatori, i pantaloni fino al ginocchio, tiravano svelti le barche, in bilico sui parati,3 fino alla stradina, fin davanti ai muri delle case. D’inverno era ferma la pesca, le barche stavano sempre tirate sulla spiaggia. Una accanto all’altra, il nudo albero contro il cielo, gli scalmi consunti, strisce e losanghe lungo i fianchi, grandi occhi stupefatti o poppute sirene alle prore. Era il Muto il pittore di barche. Con buatte4 e pennelli, la mano ferma, l’occhio appuntato, faceva spuntare sul legno purrito5 quelle sue creature fantastiche. Ferma la pesca per il mare furioso, i pescatori dovevano allora piegarsi a un altro lavoro. Andare, in novembre, in dicembre, dentro i frantoi. Li vedevi salire in paese, passar per le strade un po’ mesti, avviliti, entrare nei magazzini dei padroni di terre per fare i facchini. Col sacco unto a cappuccio, portavano a spalla pesi enormi d’olive, sansa, otri grondanti. Con la buona stagione, riprendeva la pesca. Salpavano al vespero, con cianciòli,6 lampare,7 andavano a forza di remi a ottanta, novanta passi per la pesca di sarde e anciòve. 8 Le lampare, la notte, una appresso all’altra all’orizzonte, sembravano la luminaria per la festa del Santo. Ed erano sferzate, a tempo, dalla fascia lucente del faro di Capo d’Orlando. Gli altri due fari remoti, di Cefalù e Vulcano, quand’era sereno, sciabolavano lievi incrociandosi in mare. Ma contro la pesca v’era anche la luna, quando crescendo giungeva al suo pieno, e tonda, sfacciata, schiariva ogni tenebra, suscitava dai fondali ogni branco, assommava9 per la vastità del mare i pesci allocchiti.10 E pure nella stagione11 capitava il fortunale. Nuvoloni s’ammassavano, gravavano sull’acqua, vorticavano a tromba, lampi e tuoni segnavano il fondo. Il mare improvviso gonfiava, mugghiava, sulle creste spingeva, nei valloni affossava gozzi e caicchi,12 l’onda violenta schiumava contro le pietre della spiaggia. Suonavano allora le campane,13 del Castello,14 della Matrice, e tutti accorrevano sulla spiaggia con corde e torce, in aiuto dei pescatori in pericolo. Amavo quella spiaggia del mio paese, amavo la vita di mare dei pescatori, pur non essendo della marina, ma d’altro ambiente e quartiere, di quello centrale di proprietari, bottegai, artigiani. La fascia più alta, delle ultime balze dei colli, era invece di contadini, carrettieri, ortolani.
Tre quartieri, tre mondi separati tra loro, che s’univano15 soltanto in occasioni di feste e calamità, incendio o naufragio, che tutti smuoveva. Le vacanze, les grandes vacances, secondo le professeur, che indicavano un termine, mentre in me le immaginavo e volevo d’un tempo infinito, le passavo giorno e sera su quella spiaggia pietrosa coi figli dei padroni di barche, pescatori da sempre, generazione dopo l’altra, ciascuno con storie, imprese, leggende, nomi e soprannomi precisi: Corso, Contalànno,16 Scaglione…17 Più tempo in acqua passavo con loro che sopra la terra, con loro sul gozzo a remare, andare da una parte o dall’altra, verso Acquedolci, Caronia,18 a Torre del Lauro o verso Torrenova,19 Capo d’Orlando,20 Gioiosa… Andavamo il giorno, con ami ed esche, a ricciòle,21 àiole,22 pettini, e la sera23 con lontro24 e acetilene, a tòtani e calamari. Tornavamo inzuppati per gli spruzzi rabbiosi di quelle bestie appena fuori dall’acqua. Su quella spiaggia era la mia libera vita, più bella, ma in essa era anche il ricordo recente del tempo più nero: su quel mare, quella spiaggia era passata la guerra. Dal mare venivano i lampi, i fischi allarmanti, gli scoppi che fracassarono case. Nel mare mitragliarono la barca dei Corso, ferirono uomini. Fu allora che la gente si mise a sfollare, sparpagliarsi per le campagne, a Vallebruca, Fiorita.25 Sulla spiaggia il mare rigettò un morto annegato, un tedesco, corroso alla testa, alle mani, il gonfiore del corpo che premeva contro il panno, i bottoni della divisa, le nere polacche,26 gli pendeva dal collo un cordone a cui era appeso un fischietto. Lo coprirono i militi con un pezzo di vela. Dal mare sbarcarono gli anfibi con sopra gli americani, bianchi, neri, donne con biondi capelli che scendevano da sotto l’elmetto. Poi la vita si staccò da quella spiaggia, dai compagni, dalle avventure. Rientrai nel centro e, acculturato, fui preso dal desiderio di conoscere il mondo che mi stava alle spalle, la terra che si stendeva al di là della barriera dei Nèbrodi. Immaginai quella terra come una infinita teoria di rovine, di antiche città, di teatri, di templi al sole splendenti o bagnati dal chiarore lunare, immersi in immensi silenzi. Silenzio come quello di Tindari, su alla chiesetta della nera Madonna27 sul ciglio roccioso del colle che netto precipita in mare.28 E nella greca città che alta domina il golfo, sta di fronte a Salina, Vulcano, Lipari, celesti e trasparenti sull’orizzonte. Nella cavea del Teatro, risuonavano i miei passi e, al Ginnasio, le statue acefale, togate là sotto l’arco, erano fantasmi che mi venivano incontro da un tempo remoto. Silenzio, solitudine, estraneamento ancora giù in basso nella landa renosa, 29 fra le dune e i laghi marini d’ogni verde e azzurro, nel folto di canne da cui svolavano gabbiani e garzette.30 Sull’aperta spiaggia erano legni stinti, calcinati, relitti di barche che un qualche fortunale aveva travolto, sospinto su quelle sabbie. Brulichìo e clamore incontrai invece a oriente, a Naxos, Taormina, Siracusa, Gela e pure nel cuore dell’isola, a Enna e Casale di Piazza Armerina. Il deserto, il silenzio era all’interno tra una stazione e un’altra, i soli rumori, in quella nudità infinita, in quel giallo svampante, lo sferragliare, sbuffare e fischiare del treno. Un trenino mi portò ancora a Segesta, a Selinunte, a Marsala. In questo «porto di Allah», sapevo, avrei dovuto incontrare il Minosse prima d’esser proiettato, oltre il breve braccio di mare, su Mozia. Bussai alla porta e fui introdotto in un piccolo studio. Apparve poi l’uomo imponente, che rispose al saluto31 con un cenno del capo. Si sedette dietro la scrivania e mi scrutò per un po’. Cominciò quindi, severo, a fare32 domande:33 chi ero, da dove venivo, che sapevo di Mozia, dei Fenici, quale interesse mi spingeva a visitare l’isola dello Stagnone. Risposi puntuale a ogni domanda. M’osservò ancora, e cominciò quindi a dire: così giovane in giro da solo, e non avevo con me neanche un baedeker,34 una macchina fotografica come tutti i turisti, neanche un cappello di paglia per il sole cocente… Scosse la testa, sorrise, prese quindi la penna scrisse su un foglio. Il colonnello Lipari, amministratore della famiglia inglese Whitaker, proprietaria di Mozia, mi aveva finalmente dato il permesso di accedere all’isola. Mi portai sul molo dello Stagnone, fra i cumuli del sale, mi misi a sventolare il fazzoletto. Si staccò dopo un po’ una barca dall’isola e puntò verso il molo. L’uomo ai remi mi aiutò a salire. Nel tragitto, si vedeva il fondo basso del mare, spiccavano tra l’ondeggiare delle poseidonie i bianchi lastroni di pietra dell’antica strada sommersa. All’approdo, l’uomo mi disse che al tramonto avrebbe suonato una campana, che era quello il segnale della chiusura, dell’ultima barca per tornare all’Infersa, 35 la salina di fronte. Andai lungo le mura di calcare coi capperi cascanti dagli interstizi, lambite dal mare, salii sulla scala della torre, oltre la postierla, 36 giunsi alla porta37 che introduce alla strada per il Santuario. Tutto intorno allo spiazzo dei basamenti, dei blocchi di pietra e del pietrame dell’area sacra era un verde tappeto di giummàre38 sovrastato dai pini di Aleppo, e da quel verde s’alzavano stormi di gazze e calandre.39 Per la fornace dei vasai giunsi poi alla Necropoli e al Tofet. Affioravano qui le bocche dei vasi imprigionati nel terreno argilloso, urne contenenti le ossa dei fanciulli che quei Fenici sacrificavano alla gran madre Astarte o al gran padre Baal. Furono i Siracusani che, dopo la vittoria di Imera, imposero a quei «barbari» di cessare il rito crudele. E Montesquieu, nel suo Esprit des lois, così esultava: «Le plus beau traité de paix dont l’histoire ait parlé est, je crois, celui que Gélon fit avec les Carthaginois. Il voulut qu’ils abolissent la coutume d’immoler leurs enfants. Chose admirable!… »40 Ammirevole sì, quel trattato, ma l’illuminato barone francese dimenticava che quegli stessi Siracusani, dopo la vittoria, avevano crocifisso tutti i greci che avevano combattuto accanto ai Fenici-Cartaginesi. È crudeltà, massacro, orrore dunque la storia? O è sempre un assurdo contrasto? Quei fenici41 che sacrificavano i loro figli agli dèi erano quelli che avevano inventato il vetro e la porpora, e la scrittura segnica dei suoni, aleph, beth, daleth… l’alfabeto che poi usarono i greci e i latini, usiamo anche noi, quei Fenici che, con i loro commerci, per le vie del mare portarono in questo Mediterraneo occidentale nuove scoperte e nuove conoscenze. A Porta Sud scoprii quindi la meraviglia di quel luogo, il Cothon, il porto artificiale di quegli avventurosi navigatori, di quei sagaci commercianti. Era una piscina rettangolare in cui dal mare, per un breve canale, affluiva l’acqua.
Ai quattro lati, sui bordi, i blocchi squadrati, s’ergevano le mura di magazzini, darsene, s’aprivano scale. Non resistetti e mi tuffai in quell’acqua spessa di sale, nuotai e sguazzai in quel porto fenicio. Al sole poi, davanti a quel mare stagnante, mi sembrava di veder sopraggiungere, a frotte, le snelle barche dalle vele purpuree, il grande occhio apotropaico dipinto sulle alte prore. Occhi come quelli che dipingeva il Muto sulle barche dei pescatori del mio paese.42 L’ultimo approdo43 della lontana mia estate di privilegio — privilegio archeologico come quello ironicamente invocato da Stendhal, a me concesso da un padre benevolo — fu fra le rovine di Selinunte. Dal mattino al tramonto vagai per la collina dei templi, in mezzo a un mare di rovine, capitelli, frontoni, rocchi di colonne distesi, come quelli giganteschi del tempio di Zeus che nascondevano sotto l’ammasso antri, cunicoli; e fra boscaglie d’agave, mirto intorno ai templi di Hera, d’Atena… Raggiunsi poi, sotto il sole di mezzogiorno, l’Acropoli sull’altra collina oltre il Gorgo di Cottone, esplorai altri templi, are, case e botteghe, percorsi strade, piazze, tutta la cinta muraria, quelle mura per cui erano penetrati i soldati d’Annibale e avevano distrutto la superba città. Sostai al fresco di una postierla per mangiare il panino, bere la gassosa, ormai calda e schiumante. Formiconi trascinavano sopra il grasso terriccio le molliche di pane. Dopo la sosta di fresco e ristoro, scivolai per il pendio che porta, oltre il fiume Selino, alla Gaggèra, dov’erano i templi più antichi, della Malophoros, di Ecate, di Zeus Meilichios. E poi, lungo il viottolo che costeggia il Selino, arrivai alla spiaggia di sabbia dorata, al porto sepolto. E mi sembrò d’arrivare, dopo tanta calura, fatica, estraneamento per il viaggio nel remoto tempo di Selinunte, alla remissione, alla landa priva dei segni del tempo, ma che conteneva ogni tempo, compreso quello della mia memoria, di fronte all’infinito del mare, ch’era solcato di barche e, lontano, da una nave bianca, che forse andava, per quel Canale di Sicilia, verso Tunisi, Malta o Algeri Per la spiaggia, affondando i passi nella vergine sabbia, m’avviai nel villaggio di Marinella, dove giunsi quando il sole era appena calato nel mare lasciando nel cielo un fuoco dorato. Una strada di terra battuta separava la locanda dalla trattoria di tavole e frasche costruita sulla battigia. Dissi alla padrona che volevo alloggiare, passare la notte, e anche mangiare. «Solo sei?»44 mi chiese scrutandomi. Dissi di sì. «Iiihhh, così piccirillo,45 da solo?» Ero piccolo, sì, di statura, e anche magrino, ma dissi a quella, rizzando la testa, che avevo già quindici anni. «Uh, va be’» disse ridendo. E: «Siediti. Aspetta qua, che vado a preparare il letto» e traversò la strada, entrò nella locanda. Il mare sbatteva contro le palafitte di quel capanno e si ritraeva con lieve risacca. La solitudine e quello sciacquìo a cadenza mi facevano chiudere gli occhi per il sonno. Entrò un uomo baffuto, mi vide là sonnacchioso. «Chi sei, che vuoi?» mi chiese. Dissi che aspettavo la signora, là nella locanda, che volevo mangiare e dormire. «Mia moglie» disse. E squadrandomi: «I soldi ce li hai?». «Certo, certo…» e li tirai fuori dalla tasca, glieli feci vedere. Arrivò un pescatore con una cesta di pesci sopra un letto di alghe. «Le sarde, le vuoi?» mi chiese il padrone. Annuii. Ne prese due misure di piatto fondo. Si mise poi davanti all’uscio a preparare la brace con i sarmenti di vite, arrostì le sarde sulla graticola spalmandole d’olio, limone e origano. Quando tornò la padrona, ci sedemmo tutti e tre a un tavolo e mangiammo. Lui, il marito, ingoiando una sarda dopo l’altra con forti risucchi, beveva e beveva, beveva pure la moglie e anche a me diedero non so quante volte quel vino nero di Partanna.
«Bevi, bevi!» diceva lui. «Bevi, bevi!» diceva lei «Mette sangue ‘sto vino, fa crescere» e rideva. Alla fine non sentii, non capii più nulla, crollai con la testa sul tavolo. Mi risvegliai l’indomani nel letto della locanda. Per la finestra, la prima scena che vidi del mondo fu la collina dell’Acropoli coi templi già illuminati dal sole. 44.


1. Uscito dapprima su Alias, 32, 12-13, supplemento di Il Manifesto, 7 agosto 1999 (d’ora in poi 1999), con l’occhiello editoriale: «Le spiagge di Consolo. Un periplo dell’adolescenza in mare, dai Nèbrodi a Naxos a Mozia», il racconto — con lo stesso titolo, ma in una versione ampliata — ha poi circolato in formato di minuscolo libro. Il lepidum novum libellum è stato pubblicato da una nota libreria partenopea in un’apposita collana: «Storie in trentaduesimo. III», Napoli: Edizioni Libreria Dante & Descartes, 2001 (d’ora in poi 2001). Il testo qui riportato è quello che, a conclusione delle giornate di studio sivigliane, lo stesso A. ha letto ricorrendo a 2001, di cui così potrebbe considerarsi l’apografo salvo però indicazione contraria. Nell’attuale edizione le eventuali varianti sono, nel testo, segnalate dal corsivo e, nelle note, identificate dalla data di quelle precedenti. Note a cura di Nicolò Messina. 2. bimbi 1999.
3. Tecnicismo marinaro. Grossi pezzi di legno, su cui poggiano altri assi, utilizzati per tirare in secco o varare le imbarcazioni. 4. Adattamento di sic. buatti, pl. di buatta «(recipiente di) latta», di chiara ascendenza transalpina: cfr. fr. boite. Sono qui le latte di vernice per dipingere e decorare le fiancate delle barche. 5 Adattamento di sic. purritu «imputridito, marcio, fradicio».
6. Tipo di rete circolare per la pesca notturna, simile alla lampara intesa lato sensu (cfr. infra). 7. Grosse lampade ad acetilene o gas per la pesca notturna di pesci e cefalopodi, attirati appunto dalla loro luce; per estensione, anche le imbarcazioni munite di lampade ovvero le reti usate. Termine di non stretto uso meridionale. 8. Adattamento di sic. anciovi, pl. di anciova «acciuga, alice», quasi calco di cat. anxova con l’opposizione /t∫/: /∫/ nel segmento mediano. Cfr. anche sp. anchoa. Conferma l’origine catalana Alberto VÀRVARO, Vocabolario etimologico siciliano, I, con la collab. di Rosanna SORNICOLA, Palermo: Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1986, p. 50-52. Cfr. inoltre Andreas MICHEL, Vocabolario critico degli ispanismi siciliani, Palermo: Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1996, p. 216. 9. È l’assommare marinaresco «tirare a galla, tirare su dal fondo». Cfr. anche nell’uso intrans. sic. assummari «venire a galla, in superficie». 10. Come è noto, allocchito vale «allibito, sbalordito, attonito», con allusione ai grandi occhi dell’allocco, rapace notturno del genere Strigiformi. Ma come escludere il palpitare in sostrato di sic. alluccuti nel senso più pregnante di «storditi, intronati»? 11. Nella copia personale di 1999, conservata nell’Archivio Consolo (d’ora in poi 1999 Archivio) e verosimilmente compulsata prima di 2001, l’A. pare voler precisare, interpolando così a matita: nella buona stagione. L’aggiunta non passa però in 2001, né pertanto viene qui tradita. La lezione unanime sembra peraltro calco di sic. a staciuni, «l’estate»: la stagione per eccellenza del bel tempo, proprio il periodo che l’A. rimemora. D’altronde il «tempo» ricordato è chiarito un po’ piú sopra, là dove si legge appunto: con la buona stagione. 12. Imbarcazione di tipo orientale, a vela o remi (< turco kayik). 13. campane, con /,/ biffata a matita 1999 Archivio. 14. castello 1999, castello corretto a matita Castello 1999 Archivio. 15. s’univan 1999. Al settenario (che […] soltanto) rinuncia 2001. 16. Contallànno 1999. 17. Corso, Contallànno, Scaglione sottolineati a matita 1999 Archivio. 18. Caroni 2001, Caronia 1999. In 2001, indubbio refuso tipografico facilmente emendabile. Si tratta infatti di Caronia, ovviamente Marina, frazione del Comune di Caronia (prov. di Messina) come le altre due località: Acquedolci e Torre del Lauro. 19. Torrenova: 1999, Torrenova: corretto a penna nera Torrenova, 1999 Archivio. 20. D’Orlando 1999. 21. Adattamento di sic. rriccioli, pl. di rricciola «leccia o seriola», specie di pesce della famiglia dei Carangidi (Seriola dumerili). 22. L’accento diacritico evita di confondere con l’omografo it. aiòle, variante di aiuole, il lemma sic. adattato aiuli, pl. di aiula «mormora», tipo di pesce (Litognathus mormyrus). 23. sera, 1999. 24. Assente anche dall’autorevole Grande Dizionario della Lingua Italiana, è ancora una volta un sicilianismo adattato. Cfr. Vocabolario Siciliano, ed. Giorgio PICCITTO e continuatori, II, Catania — Palermo: Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1985, p. 542, s.v. lòntraru e lontru «rete per la pesca dei totani». L’informazione non sembra però corretta, perché il lontro serve per la pesca dei cefalopodi in generale, ma non è una rete, bensì un attrezzo dal corpo affusolato con una o due corone di ami rivolti verso l’alto. Il termine ricorre anche in Campania, dove però designa un’imbarcazione dal fondo piatto e con la prua rialzata, adatta alla navigazione in acque fluviali o lacustri. 25. Fiorita. Sanguinera aggiunto in margine a matita 1999 Archivio. 26. polacche. 1999. Adattamento di sic. polacchi, pl. di polacca, it. polacchina «stivaletto».
27. È la nigra et formosa del cap. I di Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori, 2004, p. 11: «Ora, sopra la rocca, sull’orlo del precipizio, il piccolo santuario custodiva la nigra Bizantina, la Vergine formosa chiusa nel perfetto triangolo del manto splendente di granati, di perle, d’acquemarine, l’impassibile Regina, la muta Sibilla, líbico èbano, dall’unico gesto della mano che stringe il gambo dello scettro, l’argento di tre gigli.» 28. Cfr. Salvatore QUASIMODO, Vento a Tindari, v. 2-3 e 6: «mite ti so | fra larghi colli pensile sull’acque | dell’isole dolci del dio?[…] | Salgo vertici aerei precipizi». 29. Agg. derivato da rena «sabbia», esito di [l’a]rena < l’arena. La forma piena del lemma, senza l’errata discrezione dell’articolo, è un crudo latinismo, calco letterario di lat. (h)arena. Pur tuttavia si avanza anche l’ipotesi non certo audace di un semplice adattamento di sic. rrinusu < rrina, unico modo dato ai siciliani di significare «sabbioso, sabbia». Il collocarsi in un’area di contatto tra diacronismo alto e colto e diatopismo ancora vivo e usato in forma adattata non è tendenza infrequente in Consolo e può anzi considerarsi uno dei tratti distintivi della sua lingua. 30. Uccello del genere Egretta, airone minore. 31. salute 1999. 32. far 1999. 33. le domande: 1999.
34. Deonomastico allusivo al libraio-editore tedesco Karl Baedeker (1801-1859), fondatore di una collana di guide turistiche tascabili per viaggiatori dell’Ottocento. Uso ironico-colto del sinonimo comune guida, che fa pensare alla seriosità dei tanti visitatori centro e nordeuropei del sito archeologico di Mozia. Il giovane Consolo ha un’aria ben diversa, non ha certo l’attrezzatura di rigore, ma è pur sempre animato da grande curiositas. 35. Inferra 1999, 2001. Refuso tipografico passato dall’una all’altra edizione e da emendare. È una delle due saline di fronte all’isola. L’altra è la salina Ettore. 36. La piccola porta secondaria nei pressi della monumentale Porta nord della città di Mozia. 37. Porta 1999. 38. Adattamento di sic. ggiummari, pl. di ggiummara «palma nana» (Chamaerops humilis), palma dalle foglie palmate e pieghettate. 39. Uccello del genere Melanocorifa che si fa notare per il canto. 40. la costume 2001, 1999. Il brano (De l’esprit des lois, ed. Laurent VERSINI, Libro X, cap. V) è citato anche nell’episodio In Mozia de’ Fenici di Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 121. Da Retablo si rileva la lezione corretta la coutume contro l’altra, in cui il trascurabile refuso tipografico sarebbe tutt’al piú agevolvemente emendabile in le costume. 41. Fenici 1999. 42. del mio paese, della spiaggia, delle spiagge perdute della mia memoria. aggiunge ed explicit 1999. 43. L’ultimo approdo […] illuminati dal sole. omette 1999. 44. Tipica Wortordnung siciliana con il verbo in posizione finale. 45. L’adattamento di sic. picciriddu «piccolino» rende il lemma semanticamente più comprensibile, perché rievoca il più noto napoletanismo piccirillo.



Uomini e paesi dello zolfo

di Vincenzo Consolo

    Siamo nel regno del latifondo, del feudo, quel regno che gli stessi antenati di Lampedusa, che così bene lo descrive ne Il Gattopardo, hanno contribuito, col loro assenteismo, con la loro incuria, con i loro criteri economici medievali, a desolare, a desertificare, renderlo quella distesa infinita di solitudinee miseria che è.

    E’ l’eucaliptus, di cui parla lo scrittore, l’unico albero che s’incontra in quella distesa, solitario, in gruppi, in boschetti nelle valli e per i dirupi franosi, l’eucaliptus, quest’albero maligno e velenoso come un serpente, che “si trasforma in una vera e propria pompa vivente che, se in un primo momento può risultare utile a bonificare certi terreni acquitrinosi, finisce con il diventare poi un mostro insaziabile, capace di prosciugare in breve tempo sorgenti, disseccare falde sotterranee, depauperare il suolo sottostante…” scrive Fulco Pratesi. L’eucaliptus diventa simbolo del gabelloto del feudo, del soprastante, del campiere, del picciotto, di quella gerarchia che, per delega del proprietario lontano, ha angariato il contadino, il bracciante, ha sfruttato il lavoro di questi e ha spogliato spesso il proprietario della terra; simbolo del gabelloto mafioso, come le alte, snelle palme davanti alle masserie, alle ville dei feudatari erano simbolo di proprietà e d’aristocrazia.

         Ma continuiamo il nostro viaggio all’interno dell’isola, dove altre piante, altri simboli s’incontrano. E altro paesaggio. Ci accorgiamo che, a poco a poco, le curve dei colli calvi, che si sciolgono in pendìi, in vallate, si spezzano, s’increspano, s’accavallano, si fanno dure e aspre: dai bruni o grigi terreni a mano a mano s’alzano frastagli di rocce calcaree, i fianchi dei colli, ora ripidi, mostrano le radici di quelle rocce, gli strati; le fiumare hanno tagliate netti quei fianchi, hanno scavato tra un colle e l’altro profondi abissi.

        E quelle rocce biancastre, lungo i fianchi, sui profili delle alture sembrano residui d’ossa calcinate di gigan­teschi animali preistorici. Nei loro fianchi, negli anfratti, cresce lo spino, l’agave, l’ampelodesmo, il cardo, la giummara, la ginestra spinosa, il pomo di Sodoma… E sopra vi volteggiano i neri corvi… Sembrano luoghi, questi, di maledizione biblica, luoghi come la disuma­na, barbara, d’atroce esilio per Ifigenia, terra dei Tauri (“in questa terra estrema, desolata”, dice Euripide). E qui, dove la roccia si frantuma e s’allarga, è il chiarchià­ru […]

        Ma andiamo avanti, avanti, e, come in una paurosa di­gressione onirica, in una metafisica discesa agli Inferi, ar­riviamo in luoghi ancora più desolati, se è possibile, più disumani. Là, dove il calcare si sfalda, si fa poroso, friabi­le, argilla e gesso giallognolo, cristalli di gesso, tuffu niuru (tufo nero), marna turchina, là è lo zolfo. Siamo nel cosid­detto altipiano dello zolfo, quello che va da Caltanissetta ad Agrigento. Se si guarda una cartina geologica della Si­cilia, come la francese Carte Sulfurière de la Sicile del 1874, dove i giacimenti di zolfo sono segnati a macchie rosse, si vede che le sparse tracce, partendo dalla periferia, dal Pa­lermitano (Calatafimi, Lercara Friddi), dal Catanese e dall’Ennese (Assoro, Licodia Eubea), a mano a mano s’infittiscono, s’addensano, tra Cianciana e Valguarnera, di­vengono un continuo lago rosso attorno a Girgenti, da Aragona a Serradifalco.

        Vasto luogo infernale, crosta, volta d’un mondo sot­terraneo dove malvagie divinità catactonie si manife­stano in alto per acque salmastre, gorgoglìi di pozze motose, soffi di vapori gassosi; dove Plutoni sarcastici si acquattano in attesa di Kore innocenti che non saranno mai rese alla luce, alla pietà delle madri. Siamo scivolati insensibilmente nel mito, ma avvolto nel mito doveva essere in antico lo zolfo, religioso e magico il suo uso. “Ma egli parlò alla cara nutrice Euriclea: / — Porta lo zolfo, o vecchia, il rimedio dei mali; portami il fuoco: / voglio solfare la sala” (Odissea, XXII). Così Odisseo pu­rifica i luoghi dove sono stati uccisi i Proci. Solo sotto i Romani abbiamo notizia che lo zolfo affiorante viene raccolto, quello sotterraneo viene scavato, fuso (E cuni­culis effusum, perficitur igni, Plinio), solidificato in pani (è attestato dalle lastre di terracotta con marchio delle officine di Racalmuto conservate al Museo nazionale di Palermo), largamente impiegato in medicina e nell’in­dustria tessile. E c’è un piccolo particolare nella storia della Sicilia sotto i romani, nel II secolo a.C., di un fram­mento di zolfo che si fa simbolo di rivolta e di riscatto. Racconta Diodoro Siculo, e con lui ripetono gli storici ottocenteschi siciliani, da Nicolò Palmeri a Isidoro La Lumia, che lo schiavo Euno, per acquistar prestigio presso i compagni, emetteva dalla bocca fiamme miste ad oracoli, fiamme con l’artificio di una noce svuotata e riempita di zolfo. E fiamme di zolfo uscivano dalla sua bocca guidando gli schiavi ribelli alla conquista di Enna. Altre fiamme di zolfo, altre rivolte vedremo più avanti, in tempi molto più vicini, se non di schiavi, di quelli che possiamo chiamare i dannati del sottosuolo: gli zolfatari.

        Sì, si hanno ancora notizie della conoscenza in Sicilia dei giacimenti di zolfo nel periodo arabo, normanno, angioino e ancora nel Quattro, Cinque, Seicento, ma quella che è la storia vera e propria dell’industria zolfifera dell’isola, dell’estrazione sistematica dello zolfo e della sua esportazione, comincia nel Settecento, sotto i Borboni, con la prima rivoluzione industriale, con la scoperta di un nuovo metodo per la preparazione dell’acido solforico, che larghissimo impiego aveva nell’in­dustria tessile, e della soda artificiale. Zolfo allora si chiedeva alla Sicilia, da dove veniva inviato su velieri fino al mercato di Marsiglia. Sul finire del Settecento, miniere attive erano a Palma di Montechiaro, Petralia Sottana, Racalmuto, Riesi, San Cataldo, Caltanissetta, Favara, Agrigento, Comitini, Licodia Eubea. Novantamila cantàri se ne esportavano, al prezzo di un ducato a cantàro. Ed ecco che le sotterranee divinità plutoniche, signore delle tenebre e della morte, si trasformano in benigne divinità della speranza. Il mito si distrugge, si razionalizza, i pozzi e le gallerie che inseguono la vena gialla dello zolfo non nascondono più paure metafisi­che, ma reali, concreti pericoli di crolli, d’allagamenti, di scoppi, di incendi. La febbre dello zolfo prende tutti, proprietari terrieri, gabelloti, partitanti, picconieri, com­mercianti, bottegai, magazzinieri, carrettieri, artigiani, arditori, carusi; attira avveduti stranieri, esperti di spe­culazioni e di profitti.

         È una febbre, quella dello zolfo, che cresce col tempo, una drammatica epopea che si sviluppa nell’arco di due secoli, tra congiunture, crisi, crolli di prezzi, riprese e miracoli, raggiunge il suo acme tra la fine dell’Ottocen­to e gli inizi del Novecento, decresce fino a sparire ver­so gli anni ‘50. Lasciando tutto come prima, peggio di prima. Lasciando, sull’altipiano di cui abbiamo detto, la polvere della delusione e della sconfitta, un mare di de­triti, cumuli senza fine di ginisi, di scorie, un vasto cimi­tero di caverne risonanti, di miniere morte, sopra cui i tralicci arrugginiti, i binari contorti dei carrelli fischiano sinistri ai venti dell’inverno; son tornati a ricrescere i ce­spugli spinosi del deserto, a strisciare le serpi, a volteg­giare i corvi. E tornata a regnare, su quell’altipiano, la metafisica, eliotiana desolazione:

        Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono

          Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,

          Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto

          Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,

          E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,

          L’arida pietra nessun suono d’acque.

        Ma nell’arco di quei due secoli, dallo zolfo, per lo zolfo, è nata e cresciuta in Sicilia una nuova categoria di lavoratori; nelle zone zolfifere, nei paesi delle miniere é nato e si è sviluppato un nuovo modo d’essere siciliano, una nuova umanità; dallo zolfo e per lo zolfo è nata una storia politica e sociale, una letteratura.

        Idealmente restringendo nel tempo e ipotizzando im­provviso l’esplodere e lo svilupparsi dell’industria zolfi­fera, c’è da immaginarsi la corsa di masse di uomini ver­so questa nuova possibilità di lavoro, verso questa nuova speranza. Dai popolosi paesi dell’interno dell’isola, dai miseri centri del feudo, in questa sterminata landa dove da secoli le possibilità di lavoro dipendevano dalla volontà, dal capriccio del gabelloto e dei suoi sottostanti, dalla soggezione a costoro, dove le giornate lavorative si riducevano a poche nell’arco dell’anno, dove il contadi­no era angariato, oltre che dalla iniqua divisione dei pro­dotti, da tasse, decime e balzelli vari, a cui bisognava ag­giungere le tangenti illegali, dove squadre di lavoratori stagionali, mietitori o spigolatori, erano costretti al nomadismo, dove la vita insomma raggiungeva inimmagi­nabili livelli di sfruttamento e di miseria, la miniera, la zolfara appare come un miraggio nel deserto. Tutti ora hanno possibilità di lavoro, dagli uomini più giovani, saldi e robusti, agli anziani, ai deboli, ai menomati, alle donne, ai bambini. Nella miniera, dentro la miniera, Co­me in esilio o in extraterritorialità, trova rifugio finanche il disgraziato che ha appena saldato un debito con la giu­stizia o che con questa ha ancora dei conti in sospeso.

        Senonché la miniera riproduce immediatamente, nel­la gerarchia padronale, nei vari gradi di sfruttamento, nella precarietà, nel rischio, nei danni, nella stessa spi­rale di miseria, quella che era la vita contadina in super­ficie, nel feudo. Come se la situazione orizzontale della campagna, in una rotazione di novanta gradi, si fosse verticalizzata: così la miniera, dalla sua bocca, e via via nei vari livelli, fisicamente, visivamente, è la rappresen­tazione di un’ingiusta, insostenibile situazione sociale. In superficie, dunque, invisibili, lontani, in alto nei loro palazzi di Palermo, di Girgenti o di Catania, erano i proprietari del suolo, che per legge erano anche pro­prietari del sottosuolo in cui era imprigionato lo zolfo, che senza preoccupazione e rischio alcuno ricevevano dal gabelloto, dal concessionario, l’estaglio, la grossa quota del prodotto. Scriveva il professore Caruso-Rasà nel 1896 ne La questione siciliana degli zolfi:

       Quando, nello scorso febbraio, ebbi occasione di conoscere qui a Torino il giovane Notarbartolo di Villarosa, il famoso lionpalermitano, che per una scommessa fatta con lo zio, du­ca di San Giovanni, compiva a piedi il viaggio da Palermo a Torino [in codeste imprese, impegnati in simili fatue avventu­re consumavano la loro vita molti giovani rampolli della no­biltà siciliana, ndr], volli, sapendolo proprietario di molte zol­fare in quel di Villarosa, chiedergli degli appunti e delle notizie che avrebbero potuto servirmi in questo studio, sul quale allora già lavoravo. L’intervista che io ebbi col giovane aristocratico palermitano fu per me poco edificante. Egli sa­peva di esser padrone di certe zolfare nel territorio di Villaro­sa, ma non sapeva né il numero, né il nome e mi confessò can­didamente che né egli né suo padre erano mai andati a visitarle.

           

         E ci immaginiamo quest’incontro tra lo scrupoloso professore siciliano, insegnante di economia politica nella Regia Università della capitale piemontese, e il “noncurante” Notarbartolo.

       Ancora in alto, lontani, erano gli sborsanti, i finanzia­tori dell’impresa, i gabelloti, i magazzinieri, gli esporta­tori: tutta una categoria parassitaria che dal lavoro della miniera traeva profitti.

       Sempre fuori della miniera, carrettieri, fabbri ferrai, bottegai (la bottega apparteneva spesso al proprietario della miniera, al gabelloto o a persona di fiducia che ap­plicava agli zolfatari il cosiddetto truck system). E anco­ra, più vicini, più strettamente legati alla miniera: calca­ronai arditori, addetti cioè alla preparazione dei calca­roni e alla fusione dello zolfo; i vagonari,che spingevano i carrelli sui binari dalla bocca della miniera fino ai cal­caroni. E quindi, dentro la miniera, distribuiti a diversi livelli come i dannati nei vari gironi: i capimastri, picco­nieri, glispesalori, pompieri, carusi.

       Ma, se si guarda bene, tutto questo vasto apparato, tutta questa realtà economica poggia principalmente sulle spalle di due soli lavoratori: il picconiere e il caruso. L’uno a colpi di piccone estrae lo zolfo, l’altro dalle visce­re della terra lo trasporta alla superficie, alla luce. L’uno e l’altro legati tra loro indissolubilmente oltre che da un contratto (spesso giudicato infame, disumano: il famoso soccorso morto), da uno stesso destino di pena, di fatica, di dannazione, di pericolo; l’uno e l’altro legato da inestri­cabili fili di dominio e soggezione, violenza e passività, benevolenza e rancore, amore e odio, acquiescenza e ri­bellione, fedeltà e tradimento. Sono gli ultimi due anelli, i picconiere e il caruso, di una lunga catena che nelle tenebre più fitte della miniera, all’estremo limite della condizione umana, sul confine tra vita e morte, hanno mes­so a nudo, come i loro corpi, la loro anima, gli istinti primordiali dell’uomo, al di là di ogni remora, di ogni regola di ogni condizionamento sociale.

       Attorno al picconiere e al caruso, vi sono poi gli altri protagonisti, v’è il coro degli altri dannati.

       Gli uomini della zolfara hanno operato una rivoluzione (o involuzione: giudichi ognuno come vuole) culturale, in ogni caso una rottura con quella che era l’arcaica, tradizionale cultura contadina. La quale era di rassegnazione, portatrice di valori statici, immutabili, di prudenza e “saggezza” ereditate dai padri, di confor­mità a una morale e a una “dignità” piccolo-borghese. La quale si esprimeva in un dire sentenzioso, in prover­bi, in collaudate massime sapienzali. Tutta la letteratu­ra siciliana, d’estrazione e tema contadino (da Verga in poi, fino alla svolta di Vittorini) esprime un sottoprole­tariato e proletariato in abiti e con aspirazioni piccolo-borghesi. Così viene fuori dagli studi etnologici di un Pitrè, di un Salomone-Marino, di un Guastella; così vie­ne fuori nei romanzi e nelle novelle di Verga, in quelli di Capuana, nelle novelle di Pirandello. L’unico libro in cui i contadini non siano mascherati da piccolo-borghe­si è I mimi siciliani di Francesco Lanza. Ma questo si spiega forse col fatto che Lanza, e i suoi contadini, sono d’un paese zolfifero, di Valguarnera.[…]

Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Milano, 1999, pp. 11-18.

Uomini e paesi dello zolfo

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UOMINI E PAESI DELLO ZOLFO
Inviato da Vincenzo Consolo di Vincenzo Consolo

[…] Ma continuiamo il nostro viaggio all’ interno dell’isola, dove altre piante, altri simboli s’incontrano. E altro paesaggio. Ci accorgiamo che, a poco a poco, le curve dei colli calvi, che si sciolgono in pendii, in vallate, si spezzano, s’increspano, s’accavallano, si fanno dure e aspre: dai bruni o grigi terreni a mano a mano s’alzano frastagli di rocce calcaree, i fianchi dei colli, ora ripidi, mostrano le radici di quelle rocce, gli strati; le fiumare hanno tagliate netti quei fianchi, hanno scavato tra un colle e l’altro profondi abissi. E quelle rocce biancastre, lungo i fianchi, sui profili delle alture sembrano residui d’ossa calcinate di giganteschi animali preistorici. Nei loro fianchi, negli anfratti, cresce lo spino, l’agave, l’ampelodesmo, il cardo, la giummara, la ginestra spinosa, il pomo di Sodoma… E sopra vi volteggiano i neri corvi… Sembrano luoghi, questi, di maledizione biblica, luoghi come la disumana, barbara, d’atroce esilio per Ifigenia, terra dei Tauri (“in questa terra estrema, desolata”, dice Euripide). E qui, dove la roccia si frantuma e s’allarga, è il chiarchiàru […] Ma andiamo avanti, avanti, e, come in una paurosa digressione onirica, in una metafisica discesa agli Inferi, arriviamo in luoghi ancora più desolati, se è possibile, più disumani. Là, dove il calcare si sfalda, si fa poroso, friabile, argilla e gesso giallognolo, cristalli di gesso, tuffu niuru (tufo nero), marna turchina, là è lo zolfo. Siamo nel cosiddetto altipiano dello zolfo, quello che va da Caltanissetta ad Agrigento. Se si guarda una cartina geologica della Sicilia, come la francese Carte Sulfurière de la Sicile del 1874, dove i giacimenti di zolfo sono segnati a macchie rosse, si vede che le sparse tracce, partendo dalla periferia, dal Palermitano (Calatafimi, Lercara Friddi), dal Catanese e dall’Ennese (Assoro, Licodia Eubea), a mano a mano s’infittiscono, s’addensano, tra Cianciana e Valguarnera, divengono un continuo lago rosso attorno a Girgenti, da Aragona a Serradifalco. Vasto luogo infernale, crosta, volta d’un mondo sotterraneo dove malvagie divinità catactonie si manifestano in alto per acque salmastre, gorgoglìi di pozze motose, soffi di vapori gassosi; dove Plutoni sarcastici si acquattano in attesa di Kore innocenti che non saranno mai rese alla luce, alla pietà delle madri. Siamo scivolati insensibilmente nel mito, ma avvolto nel mito doveva essere in antico lo zolfo, religioso e magico il suo uso. “Ma egli parlò alla cara nutrice Euriclea: / — Porta lo zolfo, o vecchia, il rimedio dei mali; portami il fuoco: / voglio solfare la sala” (Odissea, XXII). Così Odisseo pu-rifica i luoghi dove sono stati uccisi i Proci. Solo sotto i Romani abbiamo notizia che lo zolfo affiorante viene raccolto, quello sotterraneo viene scavato, fuso (E cuniculis effusum, perficitur igni, Plinio), solidificato in pani (è attestato dalle lastre di terracotta con marchio delle officine di Racalmuto conservate al Museo nazionale di Palermo), largamente impiegato in medicina e nell’industria tessile. E c’è un piccolo particolare nella storia della Sicilia sotto i romani, nel II secolo a.C., di un frammento di zolfo che si fa simbolo di rivolta e di riscatto. Racconta Diodoro Siculo, e con lui ripetono gli storici ottocenteschi siciliani, da Nicolò Palmeri a Isidoro La Lumia, che lo schiavo Euno, per acquistar prestigio presso i compagni, emetteva dalla bocca fiamme miste ad oracoli, fiamme con l’artificio di una noce svuotata e riempita di zolfo. E fiamme di zolfo uscivano dalla sua bocca guidando gli schiavi ribelli alla conquista di Enna. Altre fiamme di zolfo, altre rivolte vedremo più avanti, in tempi molto più vicini, se non di schiavi, di quelli che possiamo chiamare i dannati del sottosuolo: gli zolfatari. Sì, si hanno ancora notizie della conoscenza in Sicilia dei giacimenti di zolfo nel periodo arabo, normanno, angioino e ancora nel Quattro, Cinque, Seicento, ma quella che è la storia vera e propria dell’industria zolfifera dell’isola, dell’estrazione sistematica dello zolfo e della sua esportazione, comincia nel Settecento, sotto i Borboni, con la prima rivoluzione industriale, con la scoperta di un nuovo metodo per la preparazione dell’acido solforico, che larghissimo impiego aveva nell’ industria tessile, e della soda artificiale. Zolfo allora si chiedeva alla Sicilia, da dove veniva inviato su velieri fino al mercato di Marsiglia. Sul finire del Settecento, miniere attive erano a Palma di Montechiaro, Petralia Sottana, Racalmuto, Riesi, San Cataldo, Caltanissetta, Favara, Agrigento, Comitini, Licodia Eubea. Novantamila cantàri se ne esportavano, al prezzo di un ducato a cantàro. Ed ecco che le sotterranee divinità plutoniche, signore delle tenebre e della morte, si trasformano in benigne divinità della speranza. Il mito si distrugge, si razionalizza, i pozzi e le gallerie che inseguono la vena gialla dello zolfo non nascondono più paure metafisiche, ma reali, concreti pericoli di crolli, d’allagamenti, di scoppi, di incendi. La febbre dello zolfo prende tutti, proprietari terrieri, gabelloti, partitanti, picconieri, commercianti, bottegai, magazzinieri, carrettieri, artigiani, arditori, carusi; attira avveduti stranieri, esperti di speculazioni e di profitti. È una febbre, quella dello zolfo, che cresce col tempo, una drammatica epopea che si sviluppa nell’arco di due secoli, tra congiunture, crisi, crolli di prezzi, riprese e miracoli, raggiunge il suo acme tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, decresce fino a sparire verso gli anni ‘50. Lasciando tutto come prima, peggio di prima. Lasciando, sull’altipiano di cui abbiamo detto, la polvere della delusione e della sconfitta, un mare di detriti, cumuli senza fine di ginisi, di scorie, un vasto cimitero di caverne risonanti, di miniere morte, sopra cui i tralicci arrugginiti, i binari contorti dei carrelli fischiano sinistri ai venti dell’inverno; son tornati a ricrescere i cespugli spinosi del deserto, a strisciare le serpi, a volteggiare i corvi. E tornata a regnare, su quell’altipiano, la metafisica, eliotiana desolazione: Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo, Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole, E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo, L’arida pietra nessun suono d’acque. Ma nell’arco di quei due secoli, dallo zolfo, per lo zolfo, è nata e cresciuta in Sicilia una nuova categoria di lavoratori; nelle zone zolfifere, nei paesi delle miniere é nato e si è sviluppato un nuovo modo d’essere siciliano, una nuova umanità; dallo zolfo e per lo zolfo è nata una storia politica e sociale, una letteratura. Idealmente restringendo nel tempo e ipotizzando improvviso l’esplodere e lo svilupparsi dell’industria zolfifera, c’è da immaginarsi la corsa di masse di uomini verso questa nuova possibilità di lavoro, verso questa nuova speranza. Dai popolosi paesi dell’interno dell’isola, dai miseri centri del feudo, in questa sterminata landa dove da secoli le possibilità di lavoro dipendevano dalla volontà, dal capriccio del gabelloto e dei suoi sottostanti, dalla soggezione a costoro, dove le giornate lavorative si riducevano a poche nell’arco dell’anno, dove il contadino era angariato, oltre che dalla iniqua divisione dei prodotti, da tasse, decime e balzelli vari, a cui bisognava aggiungere le tangenti illegali, dove squadre di lavoratori stagionali, mietitori o spigolatori, erano costretti al nomadismo, dove la vita insomma raggiungeva inimmaginabili livelli di sfruttamento e di miseria, la miniera, la zolfara appare come un miraggio nel deserto. Tutti ora hanno possibilità di lavoro, dagli uomini più giovani, saldi e robusti, agli anziani, ai deboli, ai menomati, alle donne, ai bambini. Nella miniera, dentro la miniera, Come in esilio o in extraterritorialità, trova rifugio finanche il disgraziato che ha appena saldato un debito con la giustizia o che con questa ha ancora dei conti in sospeso. Senonché la miniera riproduce immediatamente, nella gerarchia padronale, nei vari gradi di sfruttamento, nella precarietà, nel rischio, nei danni, nella stessa spirale di miseria, quella che era la vita contadina in superficie, nel feudo. Come se la situazione orizzontale della campagna, in una rotazione di novanta gradi, si fosse verticalizzata: così la miniera, dalla sua bocca, e via via nei vari livelli, fisicamente, visivamente, è la rappresentazione di un’ingiusta, insostenibile situazione sociale. In superficie, dunque, invisibili, lontani, in alto nei loro palazzi di Palermo, di Girgenti o di Catania, erano i proprietari del suolo, che per legge erano anche proprietari del sottosuolo in cui era imprigionato lo zolfo, che senza preoccupazione e rischio alcuno ricevevano dal gabelloto, dal concessionario, l’estaglio, la grossa quota del prodotto. Scriveva il professore Caruso-Rasà nel 1896 ne La questione siciliana degli zolfi: “Quando, nello scorso febbraio, ebbi occasione di conoscere qui a Torino il giovane Notarbartolo di Villarosa, il famoso lion palermitano, che per una scommessa fatta con lo zio, duca di San Giovanni, compiva a piedi il viaggio da Palermo a Torino [in codeste imprese, impegnati in simili fatue avventure consumavano la loro vita molti giovani rampolli della nobiltà siciliana, ndr], volli, sapendolo proprietario di molte zolfare in quel di Villarosa, chiedergli degli appunti e delle notizie che avrebbero potuto servirmi in questo studio, sul quale allora già lavoravo. L’intervista che io ebbi col giovane aristocratico palermitano fu per me poco edificante. Egli sapeva di esser padrone di certe zolfare nel territorio di Villarosa, ma non sapeva né il numero, né il nome e mi confessò candidamente che né egli né suo padre erano mai andati a visitarle.” E ci immaginiamo quest’incontro tra lo scrupoloso professore siciliano, insegnante di economia politica nella Regia Università della capitale piemontese, e il “noncurante” Notarbartolo. Ancora in alto, lontani, erano gli sborsanti, i finanziatori dell’impresa, i gabelloti, i magazzinieri, gli esportatori: tutta una categoria parassitaria che dal lavoro della miniera traeva profitti. Sempre fuori della miniera, carrettieri, fabbri ferrai, bottegai (la bottega apparteneva spesso al proprietario della miniera, al gabelloto o a persona di fiducia che applicava agli zolfatari il cosiddetto truck system). E ancora, più vicini, più strettamente legati alla miniera: calcaronai e arditori, addetti cioè alla preparazione dei calcaroni e alla fusione dello zolfo; i vagonari, che spingevano i carrelli sui binari dalla bocca della miniera fino ai calcaroni. E quindi, dentro la miniera, distribuiti a diversi livelli come i dannati nei vari gironi: i capimastri, i picconieri, gli spesalori, i pompieri, i carusi. Ma, se si guarda bene, tutto questo vasto apparato, tutta questa realtà economica poggia principalmente sulle spalle di due soli lavoratori: il picconiere e il caruso. L’uno a colpi di piccone estrae lo zolfo, l’altro dalle viscere della terra lo trasporta alla superficie, alla luce. L’uno e l’altro legati tra loro indissolubilmente oltre che da un contratto (spesso giudicato infame, disumano: il famoso soccorso morto), da uno stesso destino di pena, di fatica, di dannazione, di pericolo; l’uno e l’altro legato da inestricabili fili di dominio e soggezione, violenza e passività, benevolenza e rancore, amore e odio, acquiescenza e ribellione, fedeltà e tradimento. Sono gli ultimi due anelli, i picconiere e il caruso, di una lunga catena che nelle tenebre più fitte della miniera, all’estremo limite della condizione umana, sul confine tra vita e morte, hanno messo a nudo, come i loro corpi, la loro anima, gli istinti primordiali dell’uomo, al di là di ogni remora, di ogni regola di ogni condizionamento sociale. Attorno al picconiere e al caruso, vi sono poi gli altri deuteragonisti, v’è il coro degli altri dannati. Gli uomini della zolfara hanno operato una rivoluzione (o involuzione: giudichi ognuno come vuole) culturale, in ogni caso una rottura con quella che era l’arcaica, tradizionale cultura contadina. La quale era di rassegnazione, portatrice di valori statici, immutabili, di prudenza e “saggezza” ereditate dai padri, di conformità a una morale e a una “dignità” piccolo-borghese. La quale si esprimeva in un dire sentenzioso, in proverbi, in collaudate massime sapienzali. Tutta la letteratura siciliana, d’estrazione e tema contadino (da Verga in poi, fino alla svolta di Vittorini) esprime un sottoproletariato e proletariato in abiti e con aspirazioni piccolo-borghesi. Così viene fuori dagli studi etnologici di un Pitrè, di un Salomone-Marino, di un Guastella; così viene fuori nei romanzi e nelle novelle di Verga, in quelli di Capuana, nelle novelle di Pirandello. L’unico libro in cui i contadini non siano mascherati da piccolo-borghesi è I mimi siciliani di Francesco Lanza. Ma questo si spiega forse col fatto che Lanza, e i suoi contadini, sono d’un paese zolfifero, di Valguarnera.[…]
Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Milano, 199
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CIANCIANA.INFO – Il portale su Cianciana : 19 June, 2017

La scoperta di Cefalù (Come un racconto)

In una Finisterre, una periferia, un luogo dove i segni della storia – segni bizantini: chiese, conventi, romitori arroccati su picchi inaccessibili – s’erano fatti labili, sfuggenti, dove la natura, placata – immemore qui dei ricorrenti terremoti dello Stretto, delle eruzioni dell’Etna -, s’era fatta materna, benigna – nelle piane, nelle valli, sopra i monti erano oliveti agrumeti noccioleti, erano fitti boschi di querce elci cerri faggi -, ai piedi dei Nebrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle Eolie celesti e trasparenti mi capitò di nascere. Nascere dov’erano soltanto echi d’antiche città scomparse, Alunzio Alesa Agatirno Apollonia, che con la loro iniziale in A facevano pensare agli inizi della civiltà.

In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi – ritrazione, malinconia -, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi accenti di parole, gesti – erano qui pescatori di alici e sarde liberi da condanne del fato, alieni da disastrosi negozi di lupini; erano piccoli proprietari terrieri, affittuari, contadini, ortolani, innestatori e potatori, carbonai; erano lungo le strade carretti disadorni, monocromi, giallognoli o verdastri -, in tanta sospensione o iato di natura e di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti per capire l’approdo casuale, immaginare il mondo oltre i confini di quel limbo.

E poiché, sappiamo, nulla è sciolto da cause o legami, nulla è isola, né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva necessità che mi assali di viaggiare, uscire da quella stasi ammaliante, potevo muovere verso Oriente, verso il luogo tremendo del disastro, il cuore del marasma empedocleo, muovere verso la natura più profonda, l’esistenza.

Ma per paura di assoluti e infiniti, di stupefazioni e gorgoneschi impietrimenti, verghiani immobilismi, scelsi di viaggiare verso Occidente, verso un Maghreb dai forti accenti, verso i luoghi della storia, i segni più incisi e affastellati muovere verso la Palermo fenicia e saracena, verso Panormo, Bahlarm, verso le moschee, i suq e le giudecche, le tombe di porfido di Ruggeri, di Guglielmi e di Costanze, le cube, le zise e le favare, la reggia mosaicata del “Vento Soave”, del grande Federico, il divano dei poeti, il trono vicereale di corone aragonesi e castigliane; muovere verso l’incrocio ai Quattro Canti d’ogni raggio del mondo, delle culture e delle favelle più diverse. Andando, mi trovai così al preludio, all’epifania, alla porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai a Cefalù.

Era prima soltanto questo paese un faro che lampeggiava nelle notti il-luni, incrociava col suo fascio luminoso i fari opposti di Capo D’Orlando e di Vulcano; era, nei limpidi tramonti d’aprile o di settembre, la sagoma dorata del capo, la Rocca sopra il mare. Oltre Santo Stefano delle fornaci, delle giare maronali, oltre Torremuzza, Tusa, Finale, Pollina, per innumeri tornanti sopra precipizi, lungo una costa di scogliere e cale, di torri di guardie e di foci di fiumare, s’arrivava prossimi alla Rocca. Ed erano prima la cala scoscesa e il promontorio della Calura, lo sconquasso primordiale dei massi che, come precipitati dall’alto, da Testardita, dalla Ferla, sul mare s’erano arrestati. Meravigliava, nell’appressarmi a Cefalù, l’alzarsi del tono in ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nella gente. Adorni di nastri, specchi, piume, bubbole erano i muli aggiogati ai carretti variopinti, i retabli sulle sponde delle gesta d’Orlando e di Rinaldo. Piccola, scura, riccioluta era la gente, o alta, chiara, i capelli colore del frumento, come se, dopo secoli, ancor distinti, uno accanto all’altro scorressero i due fiumi, l’arabo e il normanno. E fui alla radice della Kefa o Kefalé, la grande rocca di calcare che dal tempo più remoto aveva dato il nome alla città.

“Grande rocca di quasi rotonda forma parrebbe posata presso alla riva dalle braccia di cento Polifemi. Arido n’è il suolo, brusco, tagliente il contorno; le pietre lavate da secoli e secoli dall’acqua, bruciate perennemente dal sole, han preso or rancia, or verdastra pei licheni la tinta (…) Si aprono in cima alla rocca tali fenditure che finiscono di sotto in forma di grotte: poterono un giorno esser dimora delle prische famiglie, mentre oggi vi fabbricano i nidi gli sparvieri e i nibbi e vi belano le capre…”

Così, con prosa elegante, descrive la rocca lo storico dell’Ottocento

Salvo di Pietraganzili. Quella massa imponente di pietra era lo sprofondo buio del tempo in cui fioriva il mito, la favola. Si favoleggiava di Giganti, Ciclopi che sulla Rocca, nelle sue caverne erano vissuti. Il misterioso tempio megalitico poi, detto di Diana, dedicato certo ad arcaiche divinità ctonie, dava adito alle congetture più varie, ad accese dispute fra eruditi. Fra i quali da sempre era aperta anche le disputa se la primitiva città fosse posta sulla riva del mare. Non era questa Cefalù di ere remote che cercavo, ma la città della storia, dell’inizio di quella storia che può dirsi siciliana, in cui si è formato il modo d’essere dei siciliani. Cercavo la Cefalù “narrabile”, quella città che, con la dominazione musulmana, incominciava a stendere i suoi segni più vivaci e duraturi.
Davanti al gran baluardo, incoronato da mura lungo tutto il suo tondo fianco, sormontato dal castello, la strada si biforcava. Andava da una parte verso la costa del mare, toccava il Faro, la Tonnara, le mura megalitiche sopra gli scogli sferzati dalle onde, giungeva alla Giudecca, alla Candelora. Dall’altra, serpeggiando, oltrepassando il torrente Sant’Oliva, la contrada Santa Barbara, il bivio per Gibilmanna, scendendo per la strada Carruba, giungeva a Porta di Terra. Qui ero all’inizio dell’avventura, del viaggio, ero sulla porta del mondo denso, ricco di Cefalù, davanti al palinsesto in cui ogni lettera, parola spiccava chiaramente, al prezioso codice, breve ma profondo, che doveva esser letto, la trama solida su cui poteva nascere il racconto.
“Ad una giornata leggera da Sahrat’ al hadid giace nella spiaggia del mare Gafludi, fortezza simile a città, coi suoi mercati, bagni e molini, piantati dentro lo stesso paese, sopra un’acqua che erompe dalla roccia, dolce e fresca e dà da bere agli abitanti. La fortezza di Cefalù è fabbricata sopra scogli contigui alla riva del mare. Essa ha un bel porto al quale vengono delle navi da ogni parte. Il paese è molto popolato. Gli sovrasta una rocca dalla cime di un erto monte, assai malagevole a salire per cagione della costa alta e scoscesa”.

Questa è la Cefalù vista da Edrisi, il geografo alla corte di Ruggero, la Cefalù ancora araba sotto la dominazione normanna. E così la vede il viaggiatore Ibn-Giubayr, musulmano di Granada: “Questa città marittima abbonda di produzioni agrarie, gode grande prosperità economica; è circondata di vigne e di altre piantagioni, fornita di ben disposti mercati. Vi dimora un certo numero di Musulmani.
La sovrasta una rupe vasta e rotonda, sulla quale sorge una rocca che non se ne vide altra più formidabile, e l’hanno munita ottimamente contro qualsiasi armata navale, che improvvisamente l’assalisse venendo da parte dei Musulmani, che Iddio sempre li aiuti”.

Musulmana dunque Cefalù ancora sotto i Normanni, con le sue varie razze e lingue, araba, berbera, africana, spagnola; musulmana e insieme bizantina, e insieme ebrea, e ora anche nordica, normanna. Immaginarla prima, la città, prima della calata dei conquistatori normanni, era certo Cefalù una piccola Sousse, Tunisi o Granada. Un paese di contadini e pescatori, di artigiani, di mercanti, brulicante nel fitto intrico di strade, vanelle, piani, bagli, nei mercati odorosi di spezie, nel porto, nella tonnara, su cui all’alba, nel giorno, al tramonto, dai minareti delle moschee calava la voce cantilenante del muezzin che invitava alla preghiera ad Allah.
Questa vita, questo vitalismo maghrebino scorgevo ancora nei visi, nei gesti, varcata la soglia di Porta di Terra, nei quartieri sopra il fianco della Rocca, le Falde, il Borgo, Francavilla, Saraceni, nelle strade che, scendendo come torrentelli, sfociavano in via Fiume, alla Porta a Mare, al Porto. E venne quindi il segno più forte, più sconvolgente, l’impressione sulla trama umile, quotidiana, dell’impronta guerriera dei biondi normanni, dei crociati della Riconquista.
Come un San Giorgio in corazza d’argento, su bianco destriero, sbarcato qui per prodigio, miracolo, in questa naturale fortezza, ai piedi della Rocca possente, Ruggero immagina che qui sarebbe stata la sua dimora ideale, il suo baluardo concreto e simbolico contro ogni minaccia, ogni assalto, ogni tentativo di ritorno da parte dei fedeli di Allah.
Nel punto più eminente, contro la Rocca, dov’era già forse un tempio greco e quindi una moschea, realizza il suo sogno, il suo audace progetto d’un tempio-castello che parlasse con voce forte la lingua latina, imponesse il rito di Roma. Capaci i suoi architetti di concepire un castello normanno, un Duomo-fortezza, ma ignari, loro, d’ogni ulteriore disegno che un tempio reclama. E allora, quel re, non poté fare a meno d’introdurre nel tempio altre lingue che nel paese ancora correvano. Che grande epopea sarà stata la costruzione del duomo! Le maestranze più varie per memoria, esperienza, ispirazione, murifabbri, manovalanza di diversa razza, fede, costume, tutti insieme per innalzare quel monumento superbo, quella meraviglia del mondo. Gli urbanisti poi ridisegnavano sull’intrico, sul labirinto della vecchia medina, dell’araba Glafundi, una nuova città razionale, geometrica, un incrocio di strade diritte, una sequenza ordinata di case. Era ancora una metamorfosi dentro il breve cerchio delle arcaiche mura, a ridosso della Rocca possente. Percorro allora la strada maestra, il corso Ruggero, che da Porta Reale, dalla chiesa della Catena, da meridione a settentrione, taglia in due questa città. E’ un teatro, la strada, è una via Atenea d’Agrigento, in cui sono fiorite le novelle di Pirandello, o una via Toledo di Palermo, da cui s’è levato il canto infiammato di Lucio Piccolo. Ogni casa, palazzo, ogni muro, pietra di questa strada è documento, memoria. Ed è, il corso stretto e diritto, affollato di gente come le antiche agorà, di gente che s’incontra, parla, dibatte, testimonia la propria esistenza.
Andando, tra un cantone e un altro, si aprono strade, su un verso le Falde, giù verso il mare. Si aprono vicoli, cortili, di case basse, finestre, balconi impavesati di panni, edicole infiorate, donne davanti alle porte, artigiani, bambini che razzolano, saltano sul geometrico acciottolato, su per rampe di scale.
Ed emergo come da un cunicolo, da un antro di Sibilla, al vasto respiro, alla luce, alla meraviglia del piano del Duomo. Entro nel cuore di questa città nell’ora sua giusta, quando il sole volge al tramonto e dalla punta opposta di Santa Lucia incendia ogni cosa, il mare, la terra, dà ai palazzi, al castello ardito del Duomo, alla Rocca che lo sovrasta il colore suo proprio, arancio e oro, d’una Bagdad o d’una Bisanzio mediterranee, il tono di una suprema, compiuta civiltà.
“L’ora classica della bellezza di Cefalù è l’ultima parte del giorno”, scrive Steno Vazzana. A tanta bellezza che rapisce, blocca il pensiero, sento il bisogno di opporre una logica, una prosa pacata che chiarisca tanta clamorosa apparenza, guidi per gradi alle sue profonde radici. Volevo capire insomma la ragione del mio viaggio, trovare l’appiglio del racconto, lo spunto della metafora, lasciando la piazza, andando giù per la strada Badia, m’imbatto nel Museo, nel suo fondatore, quel cefaludese che molto prima di me, nel modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel mio viaggio dal mare alla terra, dalla natura alla cultura, dall’esistenza alla storia: Enrico Piraino barone di Mandralisca.
Sposata la cugina di Lipari, Maria Francesca Parisi, fa la spola, lo studioso, fra il cuore della “storica” Cefalù e il cuore della “naturale” Lipari, scava in quest’isola, in quest’onfalo profondo, scopre e trasporta nella sua casa della strada Badia statuette, lucerne, vasi, monete, maschere, arule, conchiglie. Rinviene il cratere attico del Venditore di tonno che sembra riprodurre, nella scena dipinta sulla sua superficie, un mimo del siracusano Sofrone.
Una scena di vita reale, quotidiana, deformata in comico teatro. Recupera in una spezieria di Lipari il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Il viaggio di quel ritratto sul tracciato di un simbolico triangolo avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava allora per me di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di cultura, di arte, sbocciata per la mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per una catastrofe naturale che si sarebbe abbattuta su quella città distruggendola, cacciata in quel regno della natura che è l’isola vulcanica, viene salvata da Mandralisca e riportata in un contesto storico, dentro le salde mura, sotto la rocca protettiva di Cefalù.
E non è questo poi, fra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi fra Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà? Il simbolico viaggio poi dalla natura alla cultura si svolgeva anche verticalmente grazie a un simbolo offerto ancora dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale (archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmicomiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kerényi e in Eliade). Quest’uomo, questo erudito, spettatore e partecipe del grande evento risorgimentale, mecenate illuminato, sagace architetto del risorgimento sociale e culturale della sua patria cefaludese, appassionato conservatore di memorie, Mandralisca, il suo Museo, la sua Biblioteca furono il felice approdo del mio viaggio, la guida del viaggio dentro Cefalù, la sua storia, la sua bellezza, le sue strade, i suoi monumenti, la sua gente, i suoi personaggi, le sue vicende; mi permisero, la sua conoscenza e il possesso della sua singolare realtà, di muovere il racconto. Racconto in due tempi, di due sfondi storici cruciali – il 1860 e il 1920 – che interpretava metaforicamente il presente, leggeva in Cefalù i segni riflessi di questo nostro mondo. Questa, in alcune parti, la mia restituzione narrativa di Cefalù.
“Mentre ancora gli invitati sorseggiavano cherry di Salaparuta e malvasia, il barone fece cenno a Sasà d’accendere le dodici candele dei moretti. S’accostò al leggio e, nel silenzio generale, tolse il panno che copriva il dipinto. Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto.
L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso.
Tutta l’espressione di quel volto era fissato, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini”.

“Il San Cristoforo entrava dentro il porto mentre che ne uscivano le barche, caicchi e gozzi, coi pescatori ai remi alle corde vele reti lampe sego stoppa feccia, trafficanti, con voci e urla e con richiami, dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e la banchina, affollata di vecchi, di donne e di bambini, urlanti parimenti e agitati; altra folla alle case saracene sopra il porto: finestrelle balconi altane terrazzini tetti muriccioli bastioni archi, acuti e tondi, fori che s’aprivano impensati, a caso, con tende panni robe tovaglie moccichini svolazzanti. Sopra il subbuglio basso, il brulicame chiassoso dello sbarcatoio e delle case, per contrasto, la calma maestosa della rocca, pietra viva, rosa, con la polveriera, il Tempio di Diana, le cisterne e col castello in cima. E sopra la bassa file delle case, contro il fondale della rocca, si stagliavano le due torri possenti del gran duomo, con cuspidi e piramidi, bifore e monofore, soffuse anch’esse d’una luce rosa sì da parere dalla rocca generate, create per distacco di tremuoto o lavorì sapiente e millenario di buriane, venti, acque dolci di cielo e acque salse corrosive di marosi”.

“Lo studio del barone sembrava quello d’un sant’Agostino o un san Girolamo, confuso e divenuto un poco squinternato nell’affanno della ricerca della verità, ma anche la cella del monaco Fazello e insieme il laboratorio di Paracelso. Per tutte le pareti v’erano armadi colmi di libri nuovi e vecchi, codici, incunaboli, che da lì straripavano e invadevano, a pile e sparsi, la scrivania, le poltrone, il pavimento. Sopra gli armadi, con una zampa, due, sopra tasselli o rami, fissi nelle pose più bizzarre, occhio di vetro pazzo, uccelli impagliati di Sicilia, delle Eolie e di Malta. Il cannocchiale e la sfera armillare. Dentro vetrine e teche, sul piano di tavolini e consolle le cose più svariate: teste di marmo, mani, piedi e braccia; terre cotte, oboli, lucerne, piramidette, fuseruole, maschere, olle e scifi sani e smozzicati; medaglie e monete a profusione; conchiglie e gusci di lumache e chioccioline. Nei pochi spazi vuoti alle pareti, diplomi e quadri. In faccia alla scrivania, nel vuoto tra due armadi, era appeso il quadro del ritratto d’ignoto d’Antonello; sulla parete opposta, sopra la scrivania, dominava un grande quadro che era la copia, ingrandita e colorata, eseguita su commissione del barone al pittore Bevelacqua, della pianta di Cefalù del Passafiume, che risale al tempo del Seicento. La città era vista come dall’alto, dall’occhio di un uccello che vi plani, murata tutt’attorno verso il mare con quattro bastioni alle sue porte sormontati da bandiere sventolanti. Le piccole case, uguali e fitte come pecore dentro lo stazzo formato dal semicerchio delle mura e dalla rocca dietro che chiudeva, erano tagliati a blocchi ben squadrati dalla strada Regale in trasversale e dalle strade verticali che dalle falde scendevano sul mare. Dominavano il gregge delle case come grandi pastori guardiani il Duomo e il Vescovado, l’Ostèrio Magno, la badia di Santa Caterina e il Convento dei Domenicani. Nel porto fatto rizzo per il vento, si dondolavano galee feluche brigantini. Sul cielo si spiegava a onde, come orifiamma o controfiocco, un cartiglione, con sopra scritto COEPHALEDUM SICILIAE URBS PLACENTISSIMA. E sopra il cartiglio lo stemma ovale, in cornice a volute, tagliato per metà, in cui di sopra si vede il re Ruggero che offre al Salvatore la fabbrica del Duomo e nella mezzania di sotto tre cefali lunghi disposti a stella che addentano al contempo una pagnotta”.
(Il sorriso dell’ignoto marinaio – Milano, 1976)

“Sbucato al piano Duomo, Petro si trovò davanti a tanta gente inaspettata, disposta contro le mura per tutti i quattro lati della piazza, le porte chiuse dei caffe, dell’Associazione Combattenti, Mutilati e Invalidi di Guerra, della Cooperativa Riscatto, del Partito Socialista e di quello Popolare, dal lato di palazzo Legambi, dell’Oratorio del Sacramento, di palazzo Maria e Piraino, al lato opposto di palazzo Attanasio, del Seminario, del Vescovado, dal Distretto fino alla scalinata in fondo, le cui tre rampe formavano una piramide di lutto per le vesti, per gli scialli delle donne sedute fittamente sui gradini…- sopra era il cancello sormontato da volute reggenti la cascata dei fiocchi d’un galèro, l’inferriata ai bordi del sagrato tra pilastri ch’erano i piedistalli di santi bianchi vescovi papi patriarchi avvolti in gonfi manti, con lunghe barbe mitrie triregni, con libri pastorali bozze di cattedrali, sopra erano le chiome delle palme contro gli archi del portico, il portale in penombra, la Porta dei Re, sopra, la loggia ad archi intersecati fra le possenti torri quadre con monofore e bifore delle celle campanarie, sopra, le torrette e le cuspidi a poliedro a piramide del Vescovo e del Conte, sopra, le banderuole contro la viva roccia, la tonda Rocca a picco murata e merlata lungo il ciglio, la gran croce di ferro sorgente da ginestre spini, i bracci il puntale contro il cielo a chiazze, a nuvole vaganti”.

“Oltre la caserma Botta e il teatro, al piano Arena, presso porta d’Ossuna, Petro discese alla spiaggia. Camminò fin dove si stringeva, cominciava la scogliera, la cortina delle case saracene sulle mura, le torri, i propugnacoli, sfociava da sotto l’arco acuto dei Martino, l’acqua del Lavatoio, la vena sotterranea. Era affollata d’uomini che spingevano gli almali, con urla pungoli bastoni, dentro il mare. Sopra la Rocca dominante, dietro per le campagne, Sant’ Elia Pacenzia Giardinello Carbonara, giù fino alla punta opposta Santa Lucia, erano i fuochi svampanti di vigilia. Suonarono le campane per la festa del domani, al Duomo al Carmine all’Annunziata, uscirono dal porto in quello scuro le barche con l’acetilene pei tòtani polpi calamari”. “Guardò il cielo perciato dalle stelle, l’infinità di esse, brillanti più del giusto, e le masse lucescenti, le scie, le Pleiadi, le Orse. E giù, nel buio lieve, la mole della Rocca, le case del paese accovacciate sotto, strette fra la sua base e il mare, intorno al guardiano, il maniero, la grande cattedrale. Dal piano d’essa, da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, con le famiglie dentro, padri fi-gli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso”.

“Gli appariva quel monumento inondato di luce in su quell’ora, familiare insieme estraneo, lontano, avamposto com’era di conquista nordica in questa porta, introito di Barberia, innaturale innesto, imposizione d’una religione e d’un potere trascendenti in una civiltà di sensi, di immanenze. Ma gli andava incontro come fascinato, tirato da un richiamo. Salì la scalinata e gli sembrò a ogni grado d’ascendere a un monte dove poteva compiersi il mira-colo, trascolorare il mondo, trasfigurarsi. Traversò il sagrato, la penombra del prònao e si trovò avanti alla Porta dei Re, sotto il portale di marmo spiegato sull’arco come un flabello, festoni segni zodiacali l’Agnello trafitto dallo stendardo.
Varcò la soglia. Un suono grave d’organo, un odore untuoso di fiori ceri incensi lo coinvolse. E lampe delle ninfe, miriadi di fiamme d’olio, di candele che stellavano navate presbiterio, e il raggio portentoso che dall’ogiva al fondo sgorgando apriva nel mezzo un cammino luminoso, schiarava nell’abside, nella conca nelle vele del cielo nelle ali, preziose tessere, faceva apparir figure, suscitare un regno di riflessi, cristalli di colore. Luceva di luce d’oro nel suo superno albergo, nel suo nimbo, nell’alto e al centro di ogni altro, un dio trasfigurante, un Pantocratore sibillino e aperto nell’abbraccio, nel libro dei messaggi, EGO SUM LUX…” “Guardava i registri bassi, nella curvatura del coro, nelle ali, ai lati della fonte abbagliante, delle cornici, delle strombature infiorate, incluse fra le bande, le colonne di serpentino, di porfido, la chioma dei capitelli mosaicati, le teorie dei Teologi di Roma e di Bisanzio, dei Santi Guerrieri, dei Pontefici, dei Diaconi, dei Profeti, dei Re, dei Prototipi nei festoni tondi. E ancora, meraviglia!, i Santi Testimoni, gli Apostoli Celebranti. Sopra, e quasi non osava, fra giovani principi in dalmatica, diadema stola pantofole gemmati, labaro e pane nelle mani, ali spiegate, Arcangeli in corteo, in ali diafane e vibranti per Lei, l’Orante, la Platitera, Colei che contiene l’Incontenibile, Signora, Panaghia,
Madre della Madre dei Santi, Immagine dell’Immagine della Città di Dio (…) Dopo solamente osò guardare in alto, al lago d’oro, alla cuna sfavillante, perdersi nella figura coinvolgente, nel severo volto e consolante, nel tremendo sguardo e protettivo dell’Uomo che trascolora, si scioglie nella luce, nell’abbaglio. Sopra, al cielo dei Cherubini e Serafini, librati nell’ali di pavoni, di tortore, cardelli.

Oltre, oltre ogni splendida parvenza, velario di gemme, specchio d’oro, parete di zaffiro, arazzo di contemplazione, tappeto di preghiera, rapimento, estasi, oblio, iconostasi allusiva, schermo del Mistero, dell’Amore infinito, della Luce incandescente”
(Nottetempo, casa per casa – Milano, 1992)
Si concludeva così il racconto del mio approdo a Cefalù. Da cui, come l’Ulisse dall’isola di Circe, non potevo più ripartire. Sarei rimasto per sempre in questo paese della memoria ritrovata, in questo scrigno d’ogni segno, in questo porto della conoscenza da cui solo salpa il naviglio della fantasia.

Altro viaggio a Cefalù, altro racconto straordinario è quello di Giuseppe Leone fissato nelle bellissime immagini di questo libro. Viaggiatore frenetico e instancabile per tutte le contrade di Sicilia è il grande fotografo, è un vittoriniano personaggio de Le città del mondo alla ricerca incessante d’ogni scintillio di bellezza, sopravvivenza, nell’Isola che svanisce, sprofonda ogni momento nell’oblio di sé, nell’insignificanza; alla ricerca dell’umanità più vera, della sua dimora, del suo paesaggio sempre più violato. E ci ha dato, Leone, la sconfinata nudità della Sicilia interna, il profondo silenzio e l’armonia dell’altopiano ibleo, il barocco ardito e malioso del Val di Noto, l’esplosione vitale delle feste in città e paesi, il lavoro, le fiere, le cavalcate di contadini sopra i Nebrodi.
Il commosso e lirico ritratto d’oggi di Cefalù è una ulteriore tappa del lungo suo viaggio. In cui di Cefalù ha colto l’essenza sua profonda, l’espressione unica, incomparabile con ogni altra. L’ha colta nelle strade, nella gente, nei movimenti, negli umili angoli, nei sublimi monumenti.

Vincenzo Consolo

Sant’Agata Militello, 31 ottobre 1998
Foto di Giuseppe Leone

La donna nella letteratura siciliana

La donna nella letteratura siciliana

Di vinte, prima ancora che di vinti è il mondo verghiano. Già dalla novella epifanica, dalla soglia che segna il nuovo corso, la “conversione” dell’autore, da quella Nedda (in cui dalla cornice del camino di una dimora milanese, dalla sua fiamma, si sprofonda nel mondo memoriale, si passa la fiamma gigantesca del focolare della fattoria del Pino, sulle falde dell’Etna) ci viene incontro una donna , Nedda, appunto, la varannisa, la “povera figliola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana”. E non è caso la scelta di questo primo personaggio “verghiano”. Se lo scrittore –è sedimentato nella sua memoria – che ruolo ultimo è della donna in quel mondo chiuso, eternamente immobile, fuori da ogni riscatto storico, inferiore a quello d’ogni bracciante o carrettiere, pastore o cavamonte, castaldo o proprietario. La donna, prima dell’uomo, è vittima d’ogni beffa del destino, d’ogni accadimento del fato. Quando poi essa si ribella, vuole uscire da quel cerchio di condanna, quando rompe con la legge dei costumi, le regole della società, perché spinta dalla forza dell’istinto o da quella del sentimento, come accade a La Lupa o a L’amante di Gramigna, è relegata ai margini, fuori dal paese, fuori dal consorzio umano, paga il suo gesto con la morte o con l’esilio. Il naufragio della Provvidenza, il fallimento della famiglia dei pescatori di Acitrezza investe prima di tutti le donne, che scontano la catastrofe con la follia, la ritrazione dalla vita o il disonore. C’è ne I Malavoglia una galleria di personaggi femminili che portano i segni del dolore che annienta, della pena che pietrifica, sono il coro d’una tragedia senza catarsi. Prima, e più straziante, è la Locca, la pazza che muta e solitaria va sempre cercando il figlio morto nel naufragio della barca. La Longa, Maruzza quindi, che la scomparsa del marito Bastianazzu, del figlio Alessi in guerra, porta alla malattia e alla morte. E Mena, la Sant’Agata, che le disgrazie familiari danno rinunziare all’amore, al matrimonio con Alfio Mosca (con un gesto rituale – contro rito di ritrazione, di voto alla necessaria verginità – rimette alla treccia la spadina d’argento che l’era stata tolta a suo tempo per poterle spartire i capelli sulla fronte). Lia infine, la sorella,che con la fuga in città, dove l’attende un destino di prostituzione, segnerà il punto più basso della decadenza, del degrado.
In Mastro don Gesualdo, nello spostamento dell’azione nell’entroterra, in classi sociali più alte, in un paese, Vizzini, più strutturato, più “storico” di Acitrezza, con palazzi, chiese,conventi, con vaste terre intorno, con tante “chiuse”;
le donne, più degli uomini, vivono come naufraghe su una zattera dove può avvenire ogni crudeltà, ogni ferocia. Ferocia che non viene più dalla natura, ma dagli uomini, dalla loro religione della “roba”. E in roba sono qui trasformate le donne, in oggetti di compravendita, di scambio, di promozione sociale. A loro è negato amore, pietà, ruolo sociale. Bianca Trao e la figlia Isabella sono accomunate in un uguale destino: un amore infelice le ha costrette a un matrimonio senza amore, a divenire oggetti di scambio, di compravendita. Ma la creatura più toccante è la primitiva Diodata, docile e fedele come un cane, oggetto sessuale di don Gesualdo, schernita e derisa, che viene venduta a Nanni l’Orbo. Un mondo senza luce, senza speranza, quello femminile di Verga, una notte di neri scialli dove non appare una stella, una leopardiana luna di conforto.
Pirandello rompe il fatale cerchio verghiano, trasforma l’antica tragedia nel moderno dramma con l’acido dell’umorismo, riporta il mondo a una progressione lineare attraverso la parola, la dialettica, il sofisma, l’infinito processo verbale. Ma nel dibattito quella linea si frantuma, in essa si aprono voragini, la dura pietra vulcanica si sfalda, si polverizza, la realtà perde consistenza, l’identità dei personaggi precipita nell’indeterminatezza, nello smarrimento. Nell’universo pirandelliano, nell’interno borghese, nella “stanza della tortura”, come la chiama Macchia, è ancora la donna a subire perdita, cancellazione, ad essere di volta in volta quell’apparenza, quella forma in cui la volontà maschile tenta di chiuderla. Ed essa parla, irride, accusa, entra nel gioco dialettico, ma non può mai sottrarsi al suo ruolo di specchio su cui si riflette la crisi, che rimanda i mutevoli fantasmi che gli uomini di volta in volta gli pongono davanti. Nelle novelle, nel teatro, nei romanzi è una teoria infinita di donne negate, frantumate, straziate, da Marta Ajala de L’esclusa, a L’amica delle mogli, alla figliastra dei Sei personaggi, alla Sconosciuta di Come tu mi vuoi, alla Velata di Così è (se vi pare). L’apparizione di quest’ultima nel dramma è il simbolo più alto, e più poetico, della drammaturgia pirandelliana: la Velata è meno di una maschera, d’un fantasma, è la negazione, l’assoluta assenza, il vuoto invaso della follia, dell’allucinazione.
La donna, in Pirandello, è il messaggero, l’angelo che nella crisi della civiltà occidentale annuncia l’imminente disastro, la catastrofe incombente:il buio della ragione, l’abisso della distruzione e della morte. Così è anche in Kafka, Musil, Joys e, in tutti i grandi profeti del nostro secolo.
Lontano da Pirandello è Vittorini, ma vicino a Verga, e per opposizione. Egli rifiuta l’antistoricismo verghiano, il fatalismo, la rassegnazione. Rifiuta il ruolo subalterno e passivo della donna; fa diventare anzi, la donna, protagonista, portatrice di ogni libertà, di ogni volontà. In Conversione in Sicilia smantella il mito della sacralità della madre. “Benedetta vacca” dice Silvestro alla madre Concezione. Ed è la frase, per la prima volta nella narrativa siciliana, un punto di rottura, una svolta nel senso di una democrazia desiderata. Nei romanzi e nei racconti vittoriniani c’è il capovolgimento del ruolo femminile, ma c’è insieme lo spostamento di una realtà effettuata verso il territorio dell’utopia.
Antivittoriniano non intenzionale è Brancati. Nel suo mondo comico, grottesco, nella lucida critica della piccola borghesia, la donna riprende ancora il ruolo subalterno, ma con le sue rivalse di inganni, di malizie, è strumento di regressione maschile, di vagheggiamento degli ottusi “galli” della provincia italica. Don Giovani in Sicilia viene pubblicato nel ’41, lo stesso anno del vittoriniano Conversazione. Le soluzioni dei due romanzi vanno però in senso diametralmente opposto. Don Giovanni Percolla, con moglie ed esperienza milanesi, tornato a Catania, nella casa materna, immediatamente regredisce, sprofonda nel letto suo scivoloso e caldo dell’adolescenza, rientra nell’utero della terribile madre, s’immerge nel sonno, nell’oblio, nella perdita di sé: “Dopo un minuto di sonno, duro come un minuto di morte…”
In Lampedusa le donne, quelle collocate nel mondo dorato e tarlato della nobiltà, vivono nell’incoscienza d’essere sull’orlo di un tramonto, di una fine, e ripetono come scimmiette, gesti e detti di un trito rituale. L’incoscienza le condannerà ancora una volta alla rinunzia della vita, alla cristallizzazione del tempo, alla fissazione maniacale, come le signorine Salina. La donna nuova è Angelica, dalle origini maleodoranti e innominabili, fiore lussureggiante di una borghesia in ascesa, avida e mafiosa, bellissima e sensuale, porta però nei “denti di lupatta” i segni del suo futuro di ferocia e di cinismo.
Logico, dialettico,pirandelliano è Leonardo Sciascia. Il suo processo verbale, il suo serrato spirito inquisitorio non si appunta su una classe, una cultura, non investe l’esistenza, non si dispiega nel chiuso di una stanza, ma si svolge fuori, nella piazza, nel contesto storico, civile, politico. La sua radicale polemica è contro i trasgressori, i violatori di uno statuto, delle regole del convivere liberale e democratico. La polemica è quindi contro la corruzione del potere politico, contro soprattutto il connubio tra potere e mafia che fatalmente genera la più grave delle violazioni delle regole: il delitto, la soppressione vale a dire del primo e più sacro dei bene, della vita umana. Tutti i polizieschi di Sciascia si svolgono su questi principi illuministici. Le donne in quei racconti entrano nei ruoli tradizionali di una cultura borghese e mafiosa. E sono di volta in volta vittime di quel sistema, complici o spettatrici conniventi. Non c’è, e non può esserci, nei racconti sciasciani, la donna di nuova cultura, quella a cui, al di là dell’utopia vittoriniana, nella storia, i principi socialisti avevano dato consapevolezza di classe, che avevano sottratto all’ipoteca mafiosa, la donna che, accanto al marito, al figlio bracciante, zolfataro, sindacalista, aveva lottato contro il potere corrotto e sfruttatore. Ma questa storia – della fine dell’800, del primo e del secondo Dopoguerra – raramente è entrata nella narrativa siciliana.

Vincenzo Consolo

Milano, 1 luglio 1996
pubblicato sulla rivista L’indice di Torino

Foto Giuseppe Leone

Dalla Sicilia alla luna


Come la rosa, il mare o l’intimo usignolo, la Luna – «sole delle statue», come la definisce Cocteau – è stata una fonte inesauribile di ispirazione in tutte le letterature. E se – come afferma Consolo – quel giorno dell’estate 1969, in cui l’astronave Apollo profano la Luna, è stato un giorno nefasto per la poesia, nulla ci impedisce di pensare che l’astro ha riconquistato tutti i suoi poteri dal momento in cui uno degli astronauti ha dichiarato che, vista dalla Luna, la Terra è una piccola scintillante sfera blu. Di colpo, l’immagine di Paul Eluard – la Terra è blu come un’arancia»- è sembrata profetica. Se è vero che in Ariosto la Luna è oggetto della più memorabile delle invenzioni (con il paladino che vi scopre tutto quello che gli uomini banno perduto nel corso dei secoli, e in particolare gli slanci e i sospiri degli innamorati), è pur vero che la Luna non ha ispirato soltanto i poeti. Nel secondo secolo della nostra era, Luciano di Samosata aveva descritto i Seleniti come esseri che filavano e tessevano vetro e metalli nutrendosi di -estratti d’aria; allo stesso modo Swift li ricorda nei Gulliver’ Travels: considerazione dalla quale possiamo concludere che la cosiddetta science-fiction si trovava già nella Storia vera del Greco. Ma nel diciassettesimo secolo, ispirandosi alle idee di Copernico e attingendo soprattutto al Somnium Astronomicum di Keplero (opera sulla topografia della Luna e la natura dei suoi abitanti, che l’autore finge letta in sogno), Cyrano de Bergerac scriveva /Histoire comique des Etats et Empires de la Lune. In quest’opera gli abitanti della Luna – cacciatori di allodole che, raggiunte da frecce infuocate, cadono già arrostite – credono che Cyrano sia una sorta di scimmia e come tale lo trattano. In seguito, la fantasia degli scrittori ha continuato a popolare l’amato satellite e ha perseverato nel considerarlo irraggiungibile meta di un viaggio impossibile. Non ultimo André Malraux, che nella sua prima opera – Lunes de papier (1921) – sognava lune-palla che s’involavano verso il Regno della Morte. Da parte sua, Roger Caillois osservava che Newton non ha scoperto la legge di gravita, come si crede, vedendo cadere delle mele da un albero, ma notando che, mentre la mela cadeva, la Luna non cadeva affatto. Oggi, il siciliano Vincenzo Consolo sogna la caduta della Luna in un dialogo poetico-filosofico, mascherato da libretto d’opera barocca, che si intitola appunto Lunaria. Questo testo ha una genesi curiosa: il punto di partenza è un lavoro del barone Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a sua volta autore de Il Gattopardo. Il barone Piccolo, benché ricchissimo, credendo di essere improvvisamente caduto in miseria, volle porvi rimedio scrivendo un testo destinato alla scena… Nacque così L’esequie della Luna, che Pasolini – dal fiuto sempre inquieto e infallibile – pubblicò sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1967, e che, alcuni anni dopo, un giovane regista decise di mettere in scena. Poiché il poema in prosa di Piccolo era diabolicamente ermetico, fu chiesto a Consolo di farne l’adattamento. Cammin facendo, preso dall’avventura della creazione letteraria, Consolo si allontano talmente, e talmente bene, dal testo di Lucio Piccolo, da dar vita a un nuovo testo, Lunaria appunto, che di quello originario conserva solo il germe. Cosi come, d’altronde, certe pagine di Leopardi – che per primo aveva sognato la caduta della Luna – erano state il germe delle Esequie del barone. Il lettore è trasportato nella Sicilia del diciottesimo secolo in cui un viceré – che apostrofa il sole trattandolo da tiranno e da barbaro perché oltraggia i loculi del sonno» – non crede né al suo potere né alla sua missione, convinto com’è che malinconica è la Storia» e che esiste solo il tutto, ossia l’universo, «questo incessante cataclisma armonico, quest’immensa anarchia equilibrata». Non sarà che il viceré è uno iettatore? In effetti, la notte in cui sogna la caduta della Luna, quella si stacca; se ne ritrovano pezzi, qua e là nella campagna circostante, il più piccolo dei quali è sufficiente a fare impallidire tutti i lumi del palazzo… Si pensi, tra la letteratura contemporanea, quelle opere teatrali ibride, solitarie, quali Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas o The Antiphon di Djunta Barnes: come quelle, Lunaria non sembra possa essere rappresentata in teatro, ma riserva alla lettura abbacinanti bellezze.

Un palinsesto filosofico
Paolo Mauri

Rubare i sogni non è reato e Leopardi fece una volta un sogno bellissimo, che era quasi un incubo (anche gli incubi possono essere belli). Nel sogno .[.. ] il poeta vede la luna staccarsi improvvisamente dal cielo, diventare via via più grande man mano che precipita, e rovinare di colpo in mezzo a un prato. In cielo soltanto un barlume, al posto dell’ astro caduto, anzi una nicchia. Visione tale da recare non poco tur-bamento, in cotal guisa / Ch’io n’ agghiacciava; e ancor non m’assicuro. Svanito il sogno, il turbamento rimase. Racconta Vincenzo Consolo che tentò di dargli forma teatrale, un giorno, il barone Lucio Piccolo: che era anche, come non tutti sanno, un raffinato poeta. Ma non gli riuscì. Ci ha riprovato ora Consolo stesso, che forse deve a Piccolo l’idea di trasferire il sogno in Sicilia. Lunaria, questo il titolo dell’operina di Consolo …], è infatti una messinscena siciliana, proiettata in un Settecento non ben precisato e animato da un Viceré abulico che guarda il suo tempo senza troppo apprezzarlo, mentre volentieri tende l’orecchio ai più grandi ed eterni dilemmi umani. …. Lo abbiamo detto all’inizio: rubare un sogno non è reato e meno che mai lo è in letteratura. Se ha certamente ragione Gérard Genette quando dice che ogni testo letterario è in realtà un palinsesto, nel senso che ogni storia, ogni libro, viene riscritto sulla base di un libro precedente, Consolo sembra dargli doppiamente ragione Lunaria […] è un palinsesto i cui strati sono in bella evidenza. Non tanto, o meglio non solo, per il dichiarato prestito leopardiano; in tutta la costruzione di Consolo circola un’aria iperletteraria, erudita, avverti un controllatissimo gioco di incastri. A cominciare dalla lingua: un italiano (quando non è dialetto o spagnolo), tornito, sapientissimo, musicale, un mosaico in cui s’incastonano autentiche rarità, da speleologo dei dizionari. Questa lingua, più mossa, più increspata di quella impiegata a suo tempo nel romanzo ha la funzione di rendere l’azione astratta e quindi (qui sì) dichiaratamente teatrale, simbolica. E un mondo, quello della luna che cade, che non scende a noi, ma al quale dobbiamo salire. Tocca a noi, lettori-spettatori, carpire il segreto musicale di un incubo da favola e adattarvi le nostre orecchie, disabituate al frastuono di una sintassi e di un lessico avari di concessioni al già detto. Restituendo al parlato quella patina d’antico di cui (dato il tempo in cui si svolge l’azione) ha bisogno, Consolo si rivela dunque “falsario” abilissimo.
Ma c’è di più. Resuscitando questo antico e fanciullesco sogno, Consolo vuole anche dirci che esso non troverebbe posto nello smagato mondo di oggi, che sulla luna addirittura ci è andato. Squisitamente para-leopardiana è la conclusione filosofica. La felicità, se la si vuol provare, bisogna recitarla, magari in un teatrino bizzarro e mentale come questo. Rovescio notturno del mito di Fetonte che rovinò con il carro del sole, il sogno della caduta della luna non può appartenere a una civiltà agreste. L’ultima che si è concessa un rapporto irripetibile con la notte e che a luci spente ha concepito favole, idilli e umano terrore.

(la Repubblica, 2 luglio 1985)

Quando la luna cadde alla corte del Viceré

Antonio Prete
Leggo Lunaria, l’operetta di Vincenzo Consolo che ha per “protagonista” la luna, a distanza di qualche mese da alcune mie – come chiamarle? – meditazioni esegetiche attorno alla luna leopardiana, alla sua teofania nei Canti, alla sua luce che insieme vela e rivela il paesaggio naturale, dischiudendo, nella notte un altro paesaggio, quello dell’interiorità. Che cammini velata di nubi viola, o che tremi di solitudine e di bagliore in un cielo di ghiaccio, la luna leopardiana illumina quel limitare della coscienza sul quale l’impensato dialoga con le forme del pensiero, ciò ch’è perduto cerca una nuova lingua. La luce lunare racconta in Leopardi l’essenza stessa della poesia. Così, è stato forse questo mio recente vagabondare critico (e lunatico) nei Canti, fino al Tramonto della luna, a farmi da appassionata guida nel racconto dialogato di Lunaria, in questo cuntu che .[..] ruota attorno al sogno leopardiano che narra la caduta della luna […]. Oppure è stato l’improvviso ritorno di immagini che avevano accompagnato, nell’estate del 76, proprio nelle trasparenze di alcuni meriggi siciliani, la lettura del Sorriso dell’ignoto marinaio, a introdurmi nel nuovo racconto […].
Il racconto raccoglie, così mi sembra, sovrapponendoli con delicata arguzia, frammenti di generi non più frequenti, anzi polverosi di letterario oblio: il Trauerspiel, tuttavia spogliato dei suoi emblemi funerei e delle sue allegorie di cenere incastonate nel fulgore della corona, insomma rivisitato più dalla parte della Torre hofmannsthaliana che dei suoi barocchi luttuosi modelli: l’operetta morale, riscritta con una dilatazione degli scenari e della partiture linguistiche della visualità e della coralità; la favola teatrale, aperta a ritmi popolari, a cadenza di proverbi, sospesa tra documento etnografico ed evocazione magica, tra fonti descrittive e levità di narrazione. Ma quel che unisce questi frammenti, e allontana i generi nel loro esile e circoscritto compito di stimolo, è la lingua, vero oggetto di questa narrazione. Una lingua che contamina flessuose e immaginose movenze barocche con insistenze “stralunate”, da lessico lussurioso e tuttavia straniato. Più che l’intrico dell’arabesco, c’è la sua ossessione di luce, attraverso la complicità tra ripetizione e variazione. Una lingua fatta di calchi, mimetismi libreschi, citazioni, ridondanze tornite e autoironiche. L’elencazione è insieme tecnica che ravviva e ritmo adeguato alla teatralità eccessiva e malinconica della favola. La lingua artificiale e musicale, parlata da villani e villanelle della Contrada e dal messaggero Mondo, irrompe, metafora d’una primordialità contemplativa perduta, nei linguaggi declamatori della corte. Nel finale, deposte le insegne del potere, il Viceré recita l’amplificazione gnomica che portava il pubblico del teatro barocco nel cuore del gran teatro del mondo: la sua vanitas: «Vero re è il Sole, tiranno indifferente, occhio che abbaglia, che guarda e che non vede. È finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica salda la cangiante Terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima, tenera face, allusione, segno, sipario dell’eterno». Che il vero testo d’avvio, non dichiarato, della favola di Consolo, e di L’esequie della luna di Piccolo, non sia il leopardiano Spavento notturno, ma il bellissimo verso de Il tramonto della luna, dove nella cesura si raccoglie l’evento e l’allegoria del vivere: «Scende la luna; e si scolora il mondo»? Con l’assenza della luna, sul paesaggio scende la notte d’un immensa vanitas, ma il silenzio che sopravviene allo scenico reclino della luna dischiude l’invisibile, come accadrà, dopo Leopardi, ai notturni di Rilke. Ma qui, chiusa la picciola favoletta» di Lunaria, eccomi tornato a quel meditare lunatico…

(Il Manifesto, 1 agosto 1985)

Non ci si allontana dalla Sicilia con Retablo, romanzo che, in Francia, esce contemporaneamente a Lunaria. Di primo acchito Retablo può essere considerato come appartenente allo stesso filone del Concierto barocco di Alejo Carpentier, ma in più possiede quelle malinconiche digressioni metafisiche che non hanno mai tentato il grande romanziere cubano. L’argomento trattato è il viaggio intrapreso da Fabrizio Clerici, pittore di anticaglie», nelle estreme terre della penisola: va in cerca di rovine e di vestigia del passato, sulle orme di quel monaco Fazello che «basandosi sulla parola antica di Diodoro» scopri «circondata dalla macchia e dalla palude, la defunta Selinunte». Gli fa da guida un fraticello. Briganti che sono monaci che hanno gettato la tonaca alle ortiche, pastori e cantastorie che salvaguardano la memoria dell’isola, contadini occupati a ripulire i campi da quelle antichità contro le quali urta il vomere dell’aratro: ecco i personaggi che popolano questo racconto il cui tempo è, senza sosta, “allegro con brio”. Le parole sono come perni sui quali la frase ondula, scende, risale, si attarda chiamandone altre che accorrono, si alternano, si snodano, vibrano, scintillanti di metafore. Il lettore è riportato in un passato trasfigurato, a quella prima meraviglia incredula e reciproca che dovettero provare, messe a confronto, la Lombardia illuminista (impersonata dal cavalier Clerici) e quella Sicilia dalla quale i Greci e gli Arabi non sono mai partiti. Retablo ha il tono brioso di un divertissement in cui anche l’erudizione si presta al gioco. Ma, come in Lunaria, dietro il sorriso si cela lo stesso pianto; sì: «malinconica è la Storia». E la mirabile statua che scivola dalla barca del cavaliere, forse – tutta incrostata di madrepore – un giorno sarà ritrovata. Agli occhi della divinità, al di là del tempo, non ci sarà alcuna differenza tra la Nike di Samotracia e la conchiglia prodotta da una bestiola mucosa che porta in sé una riserva di sale e di madreperla, destinata ad essere versata in uno stampo di geometrica perfezione. Va notato, per concludere, che Fabrizio Clerici è il nome di un grande pittore italiano contemporaneo, i cui soggetti prediletti sono città immaginarie, labirinti sventrati, insomma: ogni pietra scolpita ed erosa. Rendiamo omaggio, infine, all’arduo lavoro dei traduttori. […]

(Hector Bianciotti, Le Monde, 22 aprile 1988; traduzione di Marina Di Leo)

da Nuove Effemeridi, rassegna trimestrale di cultura. pagine -107 – 108 – 109



Consolo, disperazione in Sicilia

L’intervista Viaggio, reportage, discesa agli inferi: esce «Udivo e l’olivastro». Così lo scrittore racconta il suo ritorno a casa.

E’ un risentimento profondo, non so se chiamarlo odio. L’odio. in fondo, è furore per un amore tradito, per un’offesa, ha la stessa intensità dell’amore: se si arriva all’odio significa che si ama tantissimo». L’olivo e l’olivastro è il titolo del prossimo libro di Vincenzo Consolo. E sin dal titolo si rivela quell’accostamento di opposti che dà forma a tutto il «romanzo»: amore e odio, appunto, dolcezza e atrocità, fuga e desiderio di ritorno, passione e violenza, umanesimo e irrazionalità, lussureggiante bellezza e disfacimento. Insomma, olivo e olivastro. Romanzo? Forse. Ma anche diario di viaggio in diciassette capitoli, anche reportage, anche pamphlet, leggenda, invettiva, poesia, persino saggio. Racconto: per esempio, nel capitolo dedicato al breve e disperato soggiorno di Caravaggio a Siracusa. Memoria: nelle bellissime pagine in cui si rievoca la madre ormai incapace di riconoscere il figlio. Un libro ad albero, dal cui tronco spuntano rami nervosi, rami spogli, rami frondosi e mobili. Olivo e olivastro: nati da un unico ceppo e indissolubilmente intrecciati tra loro, come nel cespuglio sotto cui Ulisse si nascose appena giunto nell’isola di Scheria, abitata dai Feaci. «L’immagine dell’olivo e dell’olivastro – dice Consolo – compare nell’Odissea, quando l’eroe è al massimo della degradazione umana: ferito, nudo, solo. Omero dice che da uno stesso arbusto vengono fuori rami d’olivo e d’olivastro. E’ una specie di indicazione di quel che Ulisse si era lasciato alle spalle e di quel che lo aspettava nel futuro: da una parte la natura malvagia e minacciosa, il selvatico, il bestiale: dall’altra il coltivato, l’umano, l’armonia. Infatti, arrivato nell’isola dei Feaci, Ulisse troverà una città molto alta, un’utopia, un modello di perfezione. Ulisse poteva rimanere lì, in quel regno beato, ma sente l’urgenza della realtà e della storia, la necessità di tornare a Itaca». Urgenza del ritorno, urgenza della memoria: «Anche per me è un desiderio che brucia. – dice Consolo – e quando torno provo molto dolore e pochissimo conforto, tutto mi pare omologato nel male, nella perdita. Io ho sentito l’esigenza di raccontare il disastro». Niente giornalismo, però, tiene a precisare Consolo: «La differenza tra giornalismo e letteratura è che la letteratura lavora con la memoria». E viene in mente la polemica aperta recentemente da Bocca. «Lo scrittore, attraverso la memoria. riesce a dare spessore al presente», Un viaggio nell’isola delle meraviglie e della barbarie, ma un viaggio universale, nello strazio della nostra civiltà. A Milazzo, dove accanto allo stabilimento esploso, alle canne fumarie delle industrie, ai morti carbonizzati, cresce il gelsomino delicato. A Siracusa, dove nella dissoluzione urbanistica si rimane inebriati dal profumo intenso del basilico. Il viaggiatore, come Ulisse che cerca la sua Itaca, non riconosce più la sua terra. Ovunque trova desolazione: a Gela, a Catania, a Palermo, a Ortigia. Non riconosce più il barocco di Noto, un tempo rigoglioso, vede Cefalù. Trapani, Segesta devastate dai terremoti, si inoltra nell’inferno di acidi e diossine che esalano dalle raffinerie di Melilli. Torna a Trezza, il paese dei Malavoglia. Parte da Gibellina e la ritrova irrimediabilmente deformata. «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo? », si chiede con rabbia. Viaggio agli inferi. «Credo che la letteratura siciliana – dice Consolo – sia letteratura della stasi. Il più statico è il mondo verghiano, dominato dal fato.  Quello che ha cercato di rompere il «cerchio della fatalità e della condanna è stato Pirandello, attraverso la dialettica e il ragionamento: ma tra «sferiva la chiusura del mondo contadino e marinaro in un’altra chiusura, piccolo-borghese: è quella che Macchia ha chiamato la camera della tortura. Poi Vittorini, con conversazione in Sicilia, ha portato il viaggio nella letteratura siciliana. Io oscillo tra questi due opposti. Ma l’esigenza di muoversi o di star fermi dipende anche dalle speranze che si nutrono nella storia. Questo è un libro di grande disperazione, anche se ci sono qua e là. piccoli barlumi di sopravvivenza». E poi il libro di Consolo ci parla di letteratura: si apre con una dichiarazione di apparente sfiducia: «Ora non può narrare». Come, non può narrare? «Nel libro – dice Consolo viene agitato il tema dell’afasia. Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori e ti viene voglia di chiuderti. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere. Per narrare bisogna essere angeli, messaggeri, avere degli interlocutori in cui trovare comprensione. Se viene meno questa speranza, lo scrittore rischia l’afasia: basta pensare a Empedocle, a Ezra Pound, a Hòlderlin». E c’è l’afasia del vecchio Verga, raccontata in un capitolo del libro. Eccolo, l’autore dei Malavoglia, al suo ottantesimo compleanno, chiuso nel suo soliloquio, nell’amarezza dell’incomprensione, insensibile ai festeggiamenti e muto persino davanti a Pirandello chiamato a celebrarne ufficialmente la grandezza: «Verga ha subito una grave ingiustizia. E’ l’ingiustizia perpetrata ogni volta nei confronti degli scrittori che non adottano il codice linguistico imperante. Io ho voluto narrare il momento del suo risentimento e della sua ritrazione. Fu preso per un traditore, perché a un certo punto abbandonò il linguaggio mondano, assolutamente comunicabile, che piaceva tanto nei salotti nobili milanesi. Quando riscopre la memoria, sceglie una lingua intraducibile ma di estrema verità e poesia: a quel punto non viene più capito». Dalla parte di Verga, della sua lingua, una scelta che oltrepassa la superficie formale e che affonda nelle profondità della narrazione. Come le esplosioni barocche di Consolo, che da sempre bruciano nel corpo del suo racconto: «In una lettera, Calvino scriveva a Sciascia: io sento che tu raffreni la matrice barocca che c’è dentro la tua scrittura… Forse Sciascia aveva paura di sconfinare. Sono convinto che qualsiasi scrittore periferico sia spinto verso l’uso di un linguaggio eccentrico. Sciascia diceva che era un cultore del pensiero e che non sapeva pensare in dialetto. In me c’è questo bisogno, forse perché sono nato alla confluenza tra due mondi antitetici: la Sicilia orientale, contrassegnata dalla presenza della natura, dell’Etna, dei terremoti e quindi portata al lirismo; e la Sicilia occidentale, più razionalistica, attratta dallo storicismo. Ecco, io vorrei essere un illuminista ma la mia scrittura mi porta irresistibilmente verso il barocco. Vivo in continua oscillazione tra questi due poli». L’olivo e l’olivastro.
Paolo Di Stefano
Corriere della Sera, 3 settembre 1994
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Consolo (Mondadori, pagine 149,)
Gibellina: un sudario di calce
di Vincenzo Consolo

Da «L’olivo e l’olivastro»

Nel nudo, nel crudo terreno, nella desolata vaghezza, nella memoria dissolta, nell’estraneità, nell’assenza, sorge l’arroganza, l’offesa, il teatro di marmo, di cemento, di bronzo, sorge alto sopra l’asfalto il fiore stridente, la stella texana, la porta per la fiera del vuoto, per la città metafisica. Di larghe strade, di rampe, di scale, di spalti, portici, logge, vaste piazze, anfiteatri deserti, folgorati dal sole, tagliati dall’ombra, di cubi, sfere, coni, cilindri, giardini di pietra, ghirigori di ferro, porte di marmo, cancelli, cerchi, ellissi, frecce, rombi, triangoli, sibillini alfabeti, il sarcasmo della reliquia innestata del frammento, l’arco il portale il timpano infranto. L’ombra alle spalle e il rimbombo sopra le lastre, fra le astratte sculture imponenti, le architetture della città costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansia perenne (…). Ora tu, eroe sconfuto, vieni fuori da una casa del nuovo paese, cammini sulla strada deserta, li guardi intorno smarrito,lo t’incontro, ti chiedo. «Sono nato a Gibellina, di anni ventitré… », rispondi. «Che dico?… Mi chiamo Nicola, sono nato a Gibellina, ho lavorato nelle cave di Meirengen. vicino Basilea. Ho là moglie, figli che non vogliono più tornare in questo paese». «Ti riconosco, Nicola, e son passati tanti anni, sei incanutito… T’ho incontrato alla stazione di Milano…». «Anch’io ti riconosco, e sei vecchio, hai una faccia diversa… Vorrei rivedere l’altro paese». Andiamo per quella campagna brulla, di radi alberi, di rocce, di stoppie, di palme solitarie. Arriviamo al colle, ai ruderi spianati e coperti da un’immensa colata di cemento, da una coltre bianca, da un sudario di calce. Non so dov’era la mia casa, dov’era il castello, la piazza, la chiesa…», lamenta Nicola.
L’emigrazione, i terremoti, lo sfascio del paesaggio la violenza, la corruzione delle coscienze: «La mia letteratura? La trovo tra Verga e Vittorini»


Studi per Vincenzo Consolo


Conversazione con Vincenzo Consolo
Anna Fabretti


Il testo dell’intervista che pubblichiamo appartiene ad un tempo quasi remoto, a una fase della carriera letteraria di Vincenzo Consolo, allora appena sessantenne, in cui la fama ottenuta con Il sorriso dell’ignoto marinaio e con i successivi romanzi lo consacra come uno dei maggiori scrittori italiani della fine del secolo. Il 25 giugno 1994 andai per la prima volta a Milano a incontrarlo e registrai più di due ore di conversazione.

Trascritto minuziosamente dalla diligente studentessa di allora, il testo è rifiutato una prima volta alla pubblicazione o, per meglio dire, è accettato con tanti e tali tagli da indurmi a una giustificata rinuncia. Si perde poi nei meandri di una valanga informatica che travolge il supporto su cui era stato registrato. Per un’incredibile coincidenza, sarà poi ritrovato, su fogli di carta ingiallita, usciti da una preistorica stampante a nove aghi, nel fondo di un cassetto da cui nessuno avrebbe mai potuto stanarlo se non la curiosa allegria di un bambino. In breve, questa la ragione dell’ingiustificabile ritardo di stampa.

Nella revisione del testo ho privilegiato una struttura senza domande, che riordina con la dovuta fedeltà il lungo discorso di Vincenzo Consolo, le argomentazioni e i riferimenti. La continuità del discorso prevale sulla discontinuità della conversazione e permette, a mio parere, di cogliere più estesamente le idee enunciate, come se si trattasse più di una lezione che di un dialogo. Come si vedrà, molti dei temi qui in nuce sono poi stati ripresi e sviluppati altrove, sia nelle numerose interviste, sia negli articoli sia nei saggi2. Il discorso si sviluppa dunque intorno ad alcuni blocchi tematici, fitti di rimandi interni, che danno al testo coesione e coerenza. Particolare attenzione è data al nucleo della sperimentazione, all’idea manzoniana della scrittura come «metafora», al rapporto con Pirandello e con Verga.

Mi auguro, nel chiudere queste pagine, di avere dato la giusta luce alle parole dell’autore, sciogliendo, almeno in parte, un debito di riconoscenza che a lui mi lega, proprio da quel lontano 1994.

Il rapporto con le avanguardie, con diverse forme di sperimentazione letteraria

Antonio Pizzuto non era un autore d’avanguardia, o almeno non militava nell’ultima avanguardia italiana, che – sappiamo tutti – è il Gruppo 63. Ma non è per caso che Pizzuto sperimentava per conto suo ed era arrivato a determinati esiti ed era stato scelto, eletto, come nume tutelare degli avanguardisti del Gruppo 63. E dunque io, mentre cominciavo a scrivere, prendevo le distanze, sia dagli avanguardisti del Gruppo 63, sia da Pizzuto (Cherchi 1987), perché la mia sperimentazione è su un altro crinale, in un altro alveo, ed è la sperimentazione di tipo storicistico di tutti gli scrittori – senza andare lontano nel tempo, parlando del romanzo moderno – a partire da Verga sino a Gadda, passando attraverso Pasolini.

6E che cosa significa questo? Significa che lo sperimentatore è colui che lavora sul codice linguistico dato e cerca di rompere questo codice linguistico che, come tutti i codici, diventa rigido nei confronti di quella che Pirandello chiama la Vita. Il compito dello scrittore è di rompere il codice per immettere la Vita, poiché il codice è una Forma. Bisogna rompere tutte le forme per immettere la realtà.

La realtà di Verga, qual era? La realtà di Verga non era mai stata italiana, era una realtà di una periferia geografica, qual era la Sicilia, e di una periferia umana, qual era il grado più basso della condizione umana, quella dei pescatori di Aci Trezza. Ora, per Verga, far parlare questi personaggi in lingua toscana sarebbe stata una contraddizione. Questa è stata la grande rivoluzione linguistica, la grande sperimentazione di Verga. Bisognerebbe fare tutta la storia di Verga, di com’è arrivato a questa sua conversione, a questa caduta da cavallo sulla via di Damasco. Verga è un caso classico di conversione letteraria. Partì imboccando una strada, che è la strada – come sappiamo – del romanzo mondano; esce dalla Sicilia, va a Firenze prima, scrive dei romanzi di successo anche molto conosciuti, ma il romanzo che gli servì da biglietto da visita è stato La storia di una capinera, che era un tema molto alla moda, di derivazione diderotiana e manzoniana, cioè quello della malmonacata. Quindi, quando da Firenze si sposta a Milano, si presenta con questo biglietto da visita molto mondano, viene accolto nei salotti, e pensa di continuare a scrivere i romanzi che aveva letto fino a quel punto, ma si trova in una città che è in un momento storico particolare. Ricordiamoci che era il 1872. Milano era in preda alla prima rivoluzione industriale, la città era in pieno subbuglio, nascevano nuovi quartieri, quartieri operai, nuove industrie, si apriva la Pirelli. Il fatto è che, di fronte a questo sommovimento del panorama sociale, del panorama politico – perché avvenivano allora, con la crescita del capitale, i primi scontri sociali, c’erano i primi scioperi, le prime organizzazioni operaie – Verga rimase spiazzato, perché capì che la letteratura che aveva praticato sino a quel momento non rappresentava il contesto storico in cui lui si muoveva. E quindi, come scrive Sapegno, ritornò alla Sicilia della sua infanzia, al mondo intatto e fermo della sua infanzia, che era una sorta di Sicilia immota, la Sicilia del mito, la Sicilia del ricordo. E incominciò qui la sua svolta, la sua grande sperimentazione linguistica, avendo come parametro naturalmente la lingua di Manzoni. Ecco io credo, come credono in tanti, che lui abbia scritto contro Manzoni, contro il toscano di Manzoni.

Ricordiamoci che il toscano di Manzoni era un toscano rivoluzionario, nel momento in cui Manzoni lo scriveva, perché doveva dare una lingua agli italiani; quello di Manzoni era un intento di tipo ideologico, di tipo politico, di unificare questo paese linguisticamente. Quando passa il momento manzoniano, in cui l’unità è avvenuta, in cui la nazione rischiava di diventare nazionalismo, si lasciano fuori dall’indagine letteraria strati popolari e zone di questo paese che la letteratura non aveva riflettuto fino a quel momento, se non a livello dialettale. Verga si incarica quindi di portare in letteratura questi personaggi, che sono i vinti, quelli che lui, nella sua concezione immobile del fato, aveva immaginato come vinti. Parte dal primo gradino della società: concepisce un grande affresco e la rivoluzione linguistica. Da Verga in poi, comincia il filone moderno della letteratura italiana e della sperimentazione linguistica, ma nell’alveo della tradizione.

Quando c’è l’avvento del fascismo – e questo bisogna tenerlo presente perché la letteratura non si muove nel vuoto, si muove nella storia – avviene una sorta di imposizione del codice linguistico nazionale, per cui si scriveva in toscano e il romanzo di tipo sperimentale incominciò a diventare sospetto. Si formarono delle correnti letterarie che vanno sotto il nome di Ronda o di Voce, che immaginavano una sorta di lingua pura, di lingua metallica, assolutamente formale. Il romanzo cadde in disuso e venne di moda il frammento, ci fu il periodo del frammentismo, dell’elzeviro, che era la bella prosa.

Non bisogna poi dimenticare le due esperienze che precedono il fascismo e sono parallele ma speculari: da una parte, questa specie di orgia linguistica e lussureggiante che era stata la lingua dannunziana e che aveva pervaso tutta la borghesia e la piccola borghesia italiana, per cui, quando si scriveva, bisognava scrivere secondo i moduli dannunziani. Dall’altra parte, c’era stata l’esperienza devastante, azzerante dei futuristi, dei marinettiani. Si tratta di due fenomeni speculari: voglio dire che tutti e due, sia Marinetti che D’Annunzio, non facevano altro che riflettere la lingua del potere e al potere interessava azzerare i codici della lingua per poter costruire una lingua del potere stesso.

  • 3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

Io penso veramente che le avanguardie non siano altro che la faccia speculare del codice linguistico del potere; quando poi finiscono, decadono, adottano la lingua del potere, la lingua della conformazione. Mentre la sperimentazione è più inquieta, perché opera nella tradizione e cerca di immettere le voci della verità, non delle voci artificiali, di gruppi di letterati. Finito il fascismo, crollata questa doppia lingua, Pasolini fa un’analisi molto dettagliata e molto bella nel 1964, quando scrive il suo famoso saggio sulla nascita della lingua italiana e fa una disamina di quel che era la lingua italiana fino a quel punto3.

Caduto il fascismo, naturalmente si sente l’esigenza di tornare alle vecchie sperimentazioni, con immissioni, con sperimentazioni linguistiche, e si ha il grande fenomeno di Gadda. Non si può immaginare niente di più lontano di uno scrittore come Gadda da Verga. Verga è casto, parco, asciutto: la sua lingua non era dialettale, ma era – come dice Pasolini – una lingua toscana irradiata di dialettalità; aveva abbassato il codice linguistico toscano a livello della sintassi e della paratassi dialettale siciliana, mettendo in campo tutti i modi di dire, i proverbi. Verga aborriva il dialetto, perché sapeva bene che il dialetto era un’altra cosa. Aveva avuto una polemica con Capuana sull’uso del dialetto in letteratura, e non solo con Capuana, ma anche con un altro scrittore siciliano che si chiama Alessio Di Giovanni, che gli aveva proposto di tradurre in siciliano I Malavoglia. Verga si era assolutamente opposto, perché sapeva qual era la sua rivoluzione linguistica. Parlando appunto di Gadda, sono due scrittori molto lontani: quanto uno è monocorde, così parco, così pietroso, tanto l’altro è polifonico, ricco, barocco. Gadda, in un’intervista uscita in un libro recente (questa intervista credo sia uscita al momento della pubblicazione del Pasticciaccio brutto de via Merulana), a chi gli faceva i nomi di Zola, di Queneau, di altri scrittori francesi, di una sperimentazione esterna all’Italia, ha risposto di considerarsi figlio di Verga. Si riconosceva appunto in questo filone della sperimentazione linguistica italiana a partire da Verga, solo che gli strumenti usati da Gadda erano diversi da quelli usati da Verga. In Gadda c’è la polifonicità dei dialetti: recupera tutti i dialetti italiani (questo grande calderone) per rappresentare il paese, mentre Verga usava un registro monocorde dell’irradiazione.

Pasolini, insieme a Gadda, è stato l’autore che nei romanzi ha sperimentato anche linguisticamente attraverso la tecnica della digressione; i personaggi partivano dall’italiano, poi man mano scivolavano verso il dialetto. Io mi riconosco in questo filone, considero come mio padre tutelare Verga, non credo negli azzeramenti, non credo nelle avanguardie, perché credo che la letteratura sia una continua sperimentazione, sperimentazione non solo linguistica, ma anche sperimentazione sulle strutture narrative, sulla struttura stessa del romanzo. Per quanto mi riguarda, io non ho usato né la digressione pasoliniana o gaddiana né l’irradiazione di tipo verghiano. Io ho usato quello che chiamerei l’innesto: innesto di parole, di fonemi, di lessici, che sono stati espunti dal codice linguistico nazionale, che mi ritrovo nella memoria, nel mio bagaglio regionale, nella storia linguistica siciliana. Parole di lingue che le varie dominazioni hanno lasciato in Sicilia, le varie civiltà se non vogliamo chiamarle dominazioni. E quindi io cerco di immettere questi vocaboli, che non sono italiani ma che hanno una loro dignità filologica, che vengono da altre lingue. Sono vocaboli che di volta in volta possono venire dal latino o dal greco, dall’arabo o dal francese, dallo spagnolo e che sono il segno della ricchezza storica, civile e linguistica della regione di cui io parlo. I miei personaggi, e anche lo stesso io narrante nei miei romanzi, recuperano questi vocaboli che sono stati cacciati via, che sono stati sepolti.

Io ho spesso paragonato il mio lavoro di ricerca linguistica al lavoro dell’archeologo: cerco di scavare per tentare di disseppellire questi resti, questi reperti linguistici, e di metterli alla luce, di metterli in circolo. Poi, naturalmente, obbedisco ad altri criteri: sono i criteri della sonorità, del polisenso che può avere un vocabolo di più sensi piuttosto che un unico senso. Ubbidisco a tante esigenze in questa mia sperimentazione. In questo mi sento lontano da Pizzuto, perché io sono sempre spinto da un intento storicistico nella mia ricerca, cerco di essere sempre aggrappato alla storia e la mia sperimentazione non è solamente in senso formale. Mi preoccupo sempre che ci sia un equilibrio tra il contenuto e la forma, tra quello che voglio dire e il modo in cui lo dico. In Pizzuto invece c’era lo scivolamento solo in un senso formale, e la sua scrittura diventava come una musica atonale, una scrittura astratta, dove la linea narrativa non si svolgeva più, le parole diventavano puro suono senza il significato, era puro significante. In quello mi sento molto lontano da Pizzuto e capisco perché gli avanguardisti avessero scelto Pizzuto come loro nume tutelare, proprio perché era la pura sperimentazione formale.

Il rapporto con Luigi Pirandello

La lezione pirandelliana l’ho appresa attraverso Sciascia. Credo che il mio nome si possa accostare a Pirandello in questo: che c’è in me l’ansia… Voglio dire che c’è in me il desiderio, il bisogno, la volontà di uscire dall’immobilismo verghiano; perché io credo che in Sicilia ci siano due modi per essere scrittori: appartenere al filone verghiano o appartenere al filone pirandelliano. Voglio dire che ci si può immettere nella zona del mito, ci si può immettere nella zona dei temi dell’assoluto dell’esistenza e chiudersi in questa sorta di concezione fatalistica della vita, dell’esistenza della condanna del fato nel modo in cui l’aveva concepito Verga, di una vita circolare senza assolutamente nessuna via di uscita. Io credo che la modernità di Pirandello consista nell’aver cercato di rompere questo cerchio e di riportare il discorso letterario non sulla circolarità, ma sulla linearità. E Pirandello l’ha fatto attraverso la dialettica, l’ha fatto attraverso la parola, quindi ha rotto quella chiusura del proverbio, del modo di dire ereditato dai padri, dalla tradizione, così come l’aveva concepito Verga, questo parlare come se fosse un salmodiare di Sacre Scritture, della Bibbia o del Corano; erano delle formule quasi sacre che si ripetevano. Pirandello ha cercato di far uscire l’uomo dalla sua condizione di condanna attraverso la ribellione, la rottura di questo codice linguistico e quindi la dialettica, l’interrogarsi sul perché di questa condanna, il chiedere conto a qualcuno del perché di questa condanna. Ne viene fuori un mondo ancora più straziante in Pirandello: è quello che Giovanni Macchia chiama «la stanza della tortura» (Macchia 1981), è un continuo torturarsi. C’è questa grande rivoluzione pirandelliana nel teatro e nella sua prosa – a parte i romanzi di tipo storico – di uscire dal cerchio verghiano e di rompere la fatalità della tragedia greca, di portarla sul piano della commedia moderna attraverso l’umorismo, attraverso l’ironia, attraverso l’articolazione della parola e del discorso, quindi attraverso la comunicazione. Ora, questo è un modo illuministico, un modo moderno di concepire la condizione dell’uomo e io ho cercato, per il mio destino di centralità – sono nato nella Sicilia centrale e mi sono trovato in bilico tra questi due mondi, il mondo orientale di Verga, che è invaso dalla natura, che protende verso il lirismo e verso il mito, e il mondo occidentale, che è il mondo più dialettico, il mondo più storicistico, più della ragione, a cui appartiene Pirandello, a cui appartiene Sciascia – io ho cercato di conciliare questi due opposti e quindi la mia scrittura forse consiste in questa continua oscillazione tra il mito e la storia, tra il lirismo e la dialettica. Io, sotto questo bisogno dell’espressività o dell’espressionismo, come l’ha chiamato Segre, credo che si scorga il martellare della ragione, della dialettica, dello storicismo. In questo io mi sento anche erede di Pirandello. Per esempio Vittorini, che apparteneva alla Sicilia orientale – veniva da Siracusa – e quindi era fortemente invaso anche lui dalla natura, aveva una propensione al lirismo, che non poteva spegnere; anche lui aveva sentito il bisogno di uscire dall’immobilità, aveva concepito i suoi racconti, i suoi romanzi come viaggi, come movimento; però l’aveva fatto soltanto esteriormente, perché poi anche Vittorini, alla fine, risulta un grande formalista. Tuttavia c’era questa esigenza del movimento, del fare, del togliersi dall’immobilità della rassegnazione, del dolore. Mentre in Pirandello tutto questo dolore diventa essenza, diventa parola, in Vittorini è soltanto nella vicenda raccontata il movimento, ma formalmente, stilisticamente, rimane chiuso anche lui dentro la forma.

Il teatro, la teatralità, la «vastasata»

Pirandello per forza doveva poi alla fine salire sul palcoscenico, perché la sua scrittura è teatrale, è una scrittura dialettica, dialogica, fortemente teatrale; quindi ha sentito il bisogno del teatro e di rompere le pareti del teatro, di creare la quarta dimensione.

La «vastasata» era il teatro popolare, molto scurrile, per i facchini, perché «vastaso» viene da «bastizo», che in greco significa «portare addosso» e quindi da noi esiste questa parola «vastaso» che è detta in doppio senso: sia come professione («u vastasu» è colui che porta, il facchino), ma anche nel senso metaforico della parola, che vuol dire sporcaccione, colui che usa il linguaggio scurrile. C’era quindi una forma di teatro siciliano, soprattutto palermitano, che si chiamava la «vastasata», che era un po’ come le atellanae, come il teatro romano più scurrile. Cocchiara (1926) si è occupato di questa forma di teatro, che usa un linguaggio molto sboccato, molto diretto, un teatro di tipo carnascialesco, che poi usciva dagli argini del carnevale e diventava un teatro per tutto l’anno, perché quella licenziosità si ammetteva soltanto nel periodo del carnevale, ma poi ha finito per essere recitato tutto l’anno.

Pirandello, Sciascia e lo zolfo

Essere dentro o fuori dalla miniera di zolfo significa che i parenti di Pirandello erano proprietari di zolfare e Sciascia era nipote di uno zolfataro. La differenza sta in questo. Pirandello stesso ha fatto il guardiano per un breve periodo, quando voleva smettere di studiare, in una zolfara. Suo padre era un proprietario e commerciante di zolfo e forse il nucleo del dolore pirandelliano viene da questa personalità del padre, che era molto forte, e da questo mondo tremendo e anche terribile dei commercianti di zolfo, dei proprietari. Sono tutti e due scrittori di tipo logico-dialettico, ma l’uno verso la zona dell’esistenza (Pirandello), l’altro verso la zona civile, politica, perché anche tutta la letteratura di Sciascia è una letteratura dialettica, quella dell’indagine, del delitto ecc.

È questa la grandezza di Pirandello. Dove avviene questa tortura? Nel chiuso di una stanza, in un interno borghese, mentre la dialettica di Sciascia avviene nella piazza del paese di Racalmuto, dove si discute dell’amministrazione comunale, del circolo dei civili, perché l’uno era figlio di zolfataro, l’altro era figlio di proprietari dello zolfo. È questa la differenza per cui io dico «dentro» o «fuori» della miniera. Erano tutti e due sulfurei, sia Pirandello che Sciascia. La presenza dello zolfo è stata molto importante in questi due scrittori, credo che abbia veramente segnato le loro personalità. Io ho scritto un saggio sulla letteratura dello zolfo, uscito in un libro che si chiama ‘Nfernu vero, delle Edizioni del Lavoro (Grimaldi 1985). È una di quelle cose che dovrò ripubblicare. È una disamina di quella che è stata la letteratura scaturita nella zona delle zolfare in Sicilia.

La parodia, l’«abrasione»

Il mio romanzo su cui i critici si sono più soffermati, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nella scrittura è la parodia di una scrittura, non è la scrittura dell’autore: è la parodia di un erudito dell’Ottocento, che è il barone di Mandralisca, che poi cade in crisi. È, dicevo io, una scrittura in negativo perché, nel momento in cui questa scrittura si dichiara, nello stesso tempo si nega, perché è parodistica, perché è abrasiva, l’intento è abrasivo. E quindi, a un certo punto, c’è la rottura di questo linguaggio ottocentesco, dell’erudizione ottocentesca, con le scritte dei condannati a morte, c’è questo stacco linguistico, questa frattura. Il libro è molto complesso, perché bisognerebbe parlare anche della struttura oltre che del linguaggio. Questi giochi sono però sempre in bilico, perché è una scrittura in negativo che a momenti, nei momenti di commozione, si rovescia in scrittura in positivo, nella rievocazione degli orrori; quando il barone descrive la strage di cui è stato testimone, c’è molta pietà e allora la parodia si smette, diventa adesione, non è più parodia.

Anche Retablo è il massimo della parodia, è una parodia settecentesca di Fabrizio Clerici, che è un uomo del nostro tempo. Ma sotto questa parodia vengono fuori dei momenti di grande sarcasmo nei confronti di una certa Sicilia retorica, che è quella di Alcamo. Poi c’è naturalmente la commozione di fronte a una certa bellezza della Sicilia. Questo è un libro che nasce dalla polemica: è l’allontanamento di un intellettuale, di un artista, da Milano, da una Milano fortemente ideologica che in quel momento – era la Milano degli Illuministi – ed era la polemica di chi scriveva, contro il cristallizzarsi solamente dell’ideologia, che riflette solo il dato politico dell’uomo e non il momento globale umano. E questo personaggio, innamorato di Teresa Blasco (dentro ci sono molti segni, molte metafore), che poi è la nonna di Manzoni, il padre della letteratura italiana moderna, ha questo senso: che l’ideologia con la poesia (che è rappresentata da Teresa Blasco) genera uno scrittore come Manzoni. E quindi Fabrizio Clerici che si allontana dalla città ideologica, dalla città illuministica, va alla ricerca della poesia e la cerca nel luogo in cui è nata la sua donna e quindi prova commozione di fronte alla bellezza, ma vede anche gli orrori, vede quello che deve vedere la letteratura, che nessuna ideologia, nessuna storiografia riesce a vedere. Soltanto l’arte riesce a vedere gli orrori e le bellezze dell’esistenza, della vita, quindi ecco le scene di Alcamo, la commozione di fronte alle antichità, che a volte sono anche ironizzate; ad esempio, quando c’è la statua dell’efebo di Mozia che cade in mare, c’è l’ironia del feticismo delle antichità, ci sono tutti questi segni. È anche quello un libro molto parodistico, che vuole liberare determinate metafore moderne; poi c’è un’invettiva contro Milano da parte di Fabrizio Clerici, che era un’invettiva di uno – di chi scrive – che aveva amato questa città, che se ne era disamorato perché vedeva questa città deteriorarsi, diventare quello che sappiamo. C’è un momento in cui lui dice «arrasso, arrasso», in cui c’è l’enumerazione di una Milano che era la Milano del momento in cui io scrivevo e in cui tutti i personaggi che lui cita nella sua invettiva sono riconoscibili; quando parla del politico ladro, del prete trafficone, del poeta decadente, del gazzettiere: c’è tutta la Milano degli anni Ottanta, la Milano di Craxi.

La dialettica Milano-Sicilia era molto più ridotta prima, era la dialettica – fin dal mio primo libro – tra la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale. Io sono sempre stato dilaniato tra due polarità. Poco fa, facevo l’esempio di Verga e Pirandello; questo bisogno di conciliare gli opposti l’ho sempre sentito, allontanandomi dalla Sicilia. Retablo è proprio molto emblematico in questo senso, di questa polarità più ampia Milano-Sicilia. Dovrebbe essere il mondo della politica, della ragione, del vivere civile con il mondo del mito, della poesia, del lirismo, con tutto quel che significa, in un certo senso anche la Sicilia, il mondo verghiano; perché Pirandello aveva preso, anche se stava ad Agrigento, le distanze dalla Sicilia, per poterne parlare in modo logico, in modo razionale, dialettico.

La scrittura, la distanza memoriale

In Retablo c’è anche l’idea dello scrittore come «castrato» della vita. È la ripresa della frase di Pirandello «la vita o la si scrive o la si vive». È l’idea della condizione dell’artista, di questa nostalgia struggente di una vita da cui ci si apparta continuamente, e quindi c’è il tendere la mano, sempre per cercare di afferrare la vita che, intanto, mentre tu ti apparti per tentare di rappresentarla, scorre per conto proprio.

  • 4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni pater (…)

L’idea su cui si fonda Retablo è quella della lontananza che consente la scrittura, l’idea della distanza memoriale. Poi lo scrittore si riattualizza compiendo quel salto mortale che è la metafora, perché l’artista – lo scrittore soprattutto – ha sempre bisogno di volgere la testa indietro per attingere alla memoria, a quel patrimonio che si porta dietro e che non è l’attualità4. Questa necessità di volgere la testa indietro per attingere alla memoria è la distanza memoriale. Io non concepisco letteratura senza memoria. Non capisco tutta la querelle stupida che c’è stata negli anni scorsi tra i giornalisti, che sono i nuovi scrittori perché parlano dell’attualità, e degli scrittori che sono inattuali. C’è un grande discorso da fare su questo momento che stiamo vivendo, su questo secolo in cui c’è stata l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa e quindi la messa in crisi dello scrittore. E lo scrittore, per difendere lo spazio letterario, deve sempre di più ricorrere alla memoria, perché non è possibile per uno scrittore raccontare in termini assolutamente di comunicazione l’attualità, raccontarla in modo così diretto come fanno i giornali ogni mattina o come fa la televisione. Perciò molto spesso si confonde il giornalismo con la letteratura e molti aspirano a far omologare, a far diventare la letteratura giornalismo.

Quando è uscito il mio ultimo libro, Nottetempo, casa per casa, c’è stato un famoso giornalista, il quale ha una rubrica su L’Espresso, che ha osservato con molto candore:

Ma questo Consolo, quando scrive degli articoli sui giornali è chiarissimo, molto logico, e quando scrive i romanzi usa dei vocaboli come questi…

e indicava tutta una sfilza di vocaboli che a lui sembravano strani, molto ricercati. Si chiedeva il perché di questa dicotomia, di questa disparità, e metteva il dito – come si dice – nella piaga, cioè non capiva la differenza tra quella scrittura che Barthes chiama «scrittura d’intervento», la scrittura giornalistica, e la scrittura letteraria. Non vedeva la necessità dell’altra scrittura perché lui, da giornalista, vorrebbe che la letteratura fosse come il giornalismo.

Tutto ormai deve diventare giornalismo e anche questi grandi giornalisti, come Bocca o come Pansa, dicevano qualche anno fa: «Siamo noi i nuovi narratori, i nuovi Balzac». Il loro è un linguaggio passivo, d’accatto, sono dei gerghi che poi si scimmiottano, si ripetono. Ci sono delle formulette che inconsciamente, naturalmente si trasmettono l’uno con l’altro e ripetono passivamente perché loro non hanno un problema di linguaggio, quindi hanno bisogno di usare un linguaggio che è già consumato, per essere il più comunicativi possibile. E stiamo parlando di parole, non consideriamo quello che è il mondo delle immagini…

Il rapporto fra segni verbali e segni iconici

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio la figuratività è portata proprio come una cifra, c’è l’iconografia dell’ignoto marinaio. In Retablo la topologia figurativa è fondata poeticamente sull’assenza di un referente concreto. In tutto il libro c’è un’interruzione continua quando Isidoro deve parlare di Rosalia, c’è sempre un’interruzione, perché poi c’è il disvelamento alla fine. Rosalia rimane il vagheggiamento, l’eterno femminino, rimane anche l’ambiguità dell’altro, perché la parola veritas è una parola naturalmente ironica, perché la verità è quella effigiata dallo scultore Serpotta, la verità nuda, prorompente; ma questa fanciulla, che è molto ambigua – non si capisce se abbia amato Isidoro o se l’abbia ingannato, preso in giro, giocato –, è poi l’inganno dell’amore, l’inganno della poesia, che però sono degli inganni assolutamente necessari all’uomo, senza i quali non potremmo vivere. La citazione iniziale di Jacopo da Lentini evidenzia già tutto il tracciato del libro. L’uso di una certa topologia figurativa, del riferimento a una tradizione «alta» della poesia, è continuamente ribaltato, rovesciato, a fini parodici.

In Retablo, già la parola «retablo» è iconica, è una composizione pittorica e nello stesso tempo è anche spettacolo teatrale. In Cervantes, il retablo diventa lo spettacolo teatrale; infatti c’è l’illusione del «retablo de las maravillas», il nome è preso da Cervantes. Nella tradizione pittorica siciliana che ci hanno portato gli spagnoli, c’è la parola «retablo», una composizione pittorica in più riquadri, dove si racconta una storia. Ma c’è anche questo teatrino delle illusioni che è la letteratura. E quindi Rosalia è l’interprete principale di questo teatrino. Il primo capitolo e l’ultimo, che sono i pannelli laterali del retablo, seguono lo schema del contrasto, del contrasto d’amore, con le due voci – prima Isidoro, poi lei, Rosalia, che risponde, come in Rosa fresca aulentissima.

Altro dato importante è il colorismo. La pesca del corallo è una cosa molto mediterranea, soprattutto Trapani era uno dei centri della pesca del corallo, dove c’era un grande artigianato e quindi c’è l’amore di tutta questa memoria, ma anche di questa materia marina; è una concrezione marina il corallo, che ricorda molto la grazia femminile, con questo rosa acceso che dà luminosità al volto delle donne, più degli smeraldi che sono molto freddi, freddi come le stelle; è una pietra più carnale.

Il corallo che viene usato per la descrizione di Rosalia, come il verde che viene usato per Teresa Blasco, alla fine si fondono. Rosalia amata da Isidoro, Rosalia amata da Vito Sammataro, Teresa Blasco, alla fine diventano un’unica immagine, un solo profilo. C’è un momento in cui Fabrizio Clerici disegna il profilo di una donna e ognuno vede la propria Rosalia: è l’idea propria di tanta poesia italiana, almeno fino al Cinquecento, e di tanta lirica a sfondo teologico, l’idea della rappresentazione dell’assenza, dell’irrealizzazione.

La religione, la religiosità

Nei miei libri c’è una sorta di critica alla religione come potere, anche alla condizione clericale come condizione innaturale, perché i miei preti e i miei frati molto spesso impazziscono, perdono i freni. Anche nelle Pietre di Pantàlica c’è un altro frate pazzo (oltre a frate Nunzio, frate Isidoro, fra’ Giacinto), Frate Agrippino, che si fustiga. C’è questa innaturalità della costrizione del potere della religione sull’uomo, però c’è anche il recupero di una religiosità più autentica, più armonica con la vita, con il mondo, che è quella del pastore di Segesta; quello è un luogo pregreco, dove poi sono arrivati i Greci, dove c’erano gli Elimi e quindi c’erano dei templi di dee catactonie, sotterranee, dove si facevano dei sacrifici con gli elementi naturali, con il latte, con il miele. Poi c’è stata una sorta di sincretismo con l’arrivo dei Greci, del recupero di queste forme epocali, arcaiche. E quindi c’era il bisogno di una religione che fosse più consona con la natura, meno di frattura con la natura, di una religione che non fosse un apparato di potere, che non fosse costrizione. C’è questo, non il gusto di essere dissacratore. Il racconto dei frati nel convento della Gancia è una sorta di parodia boccaccesca, un po’ grottesca, un po’ atroce. Anche don Gregorio Nanfara, in Filosofiana, è un esempio di impostura. Don Gregorio era l’impostore locale, che era stato in seminario, sapeva un po’ di latino e imbrogliava la povera gente come Vito Parlagreco, perché quest’ultimo era uno che cercava il tesoro dentro questa tomba, mentre il furbo don Gregorio sapeva che il tesoro erano i vasi, di cui si appropria e che poi avrebbe rivenduto. È sempre l’idea del più acculturato che frega il più ignorante, con tutte le sue formule latine, con i suoi libri, vivendo di questa mistificazione, di questa impostura; quindi è la denuncia della religione come impostura, come acquisizione di determinate formule per ingannare.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio c’è poi l’idea manzoniana della scrittura come potere, come impostura. La scrittura come strumento del potere, nel Sorriso è questo. Manzoni fa dire a un popolano la stessa cosa; infatti Renzo è stato fregato dal latino di don Abbondio e da Azzeccagarbugli.

Vincenzo Consolo, Milano, 1986

Vincenzo Consolo, Milan, 1986

© photographie de Giovanna Borgese

BIBLIOGRAPHIE

Cherchi G., 1987, «Mille e una notte», L’Unità, 11 novembre.

Cocchiara G., 1926, Le vastasate, Palermo, Sandron.

Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.

Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani».

Grimaldi A., 1985, Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, saggio introduttivo di Vincenzo Consolo, Roma, Edizioni del Lavoro.

Macchia G., 1981, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori.

Pasolini P. P., 1964, «Nuove questioni linguistiche», Rinascita, 26 dicembre.

NOTES

2 Si rimanda, a questo proposito, all’importante lavoro che Gianni Turchetta ha svolto per il «Meridiano» dedicato a Consolo: cfr. Consolo 2015.

3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. […] La lezione di Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile».