Si apre lo Zibaldone di Leopardi con questi versi: “Era la luna nel cortile, un lato Tutto ne illuminava, e discendea Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…”1 . E quindi, ancora nello Zibaldone (3 ottobre 1828) Leopardi riporta un brano del Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820 del barone de Meyendorff, il quale parla dei Kirkisi e dice: “Plusieurs d’entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins”2 . Si sa che da questo brano di Meyendorff, dei Kirkisi che intonano tristi canti guardando la luna, prende spunto Leopardi, per scrivere il suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?”3 . chiede il pastore errante, e si chiede: “Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? (…) (…) ed io che sono? Così meco ragiono…”4 .
1 LEOPARDI, G. (1970: 474): Canti con una scelta di prose, a cura di Francesco Flora [diciottesima edizione], Verona: Edizioni Scolastiche Mondadori. 2 Cfr. LEOPARDI, G. (1970: 281). 3 LEOPARDI, G. (1970: 281, vv. 1-2). 4 LEOPARDI, G. (1970: 288, vv. 85-90).
Ci sembra che questo pastore del deserto asiatico si faccia filosofo, che, sotto quel profondo infinito sereno, sotto quella luna venga posseduto dallo spirito socratico. Così come Euripide, ci dice Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, inaugura la tragedia moderna per l’irruzione nelle sue opere di quello stesso spirito socratico: vale a dire dello spegnersi del canto, del canto corale come in Eschilo e in Sofocle, e dello sgorgare del pensiero, del ragionamento, dell’assillante e paralizzante argomentazione. “Ed io che sono?” si chiede il pastore asiatico. “Io sono” afferma invece con energia un altro errante, il nomade della valle dell’Indo o del deserto egiziano che percorre il Maghreb, giunge in Spagna, in Sicilia, nel Napoletano. Diciamo del gitano posseduto dal lorchiano duende, il gitano che distoglie lo sguardo dalla luna, dal cielo, per appuntarlo sulla terra. Del gitano che ritrova la misura umana, la finita geografia della sua esistenza, e questa afferma, con forza: con il canto, il cante jondo, il movimento, la danza, canto e movimento come quelli dei coreuti della antica tragedia greca. Ma rivolgiamo ancora lo sguardo alla luna, alla luna dei poeti, di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, rivolgiamo lo sguardo alla luna di Leopardi. Quasi tutti i Canti del poeta di Recanati sono illuminati dalla tenera luce dell’astro notturno, dell’ “eterna peregrina”, da La sera del dì di festa, a Alla luna, a La vita solitaria, a Il tramonto della luna. Dice in quest’ultima: “Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo…”5 . E in altri, in altri Canti ancora balugina la luna. E quando non è la luna, sono le “vaghe stelle dell’Orsa” o il “fiammeggiar delle stelle” sopra la desolata coltre di lava de La ginestra. Ma la luna, la leopardiana luna, si stacca dal cielo e cade sulla terra nell’idillio intitolato Spavento notturno o Il sogno. E così Alceta narra il suo sogno a Melisso:
5 LEOPARDI, G. (1970: 370, vv. 10-12).
“(…) Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all’improvviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s’approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato (…) Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro…”6 . Nel sogno di Alceta, di Leopardi, la spaventevole caduta della luna fa scolorire il mondo. Ma ci sono poi altri poeti che la rimettono in cielo, nel cielo della poesia. Lorca, ad esempio, gioiosamente, con un gioco quasi di fanciullo: “Alta va la luna bajo corre el viento (…) luna sobre el agua. Luna bajo el viento”7 . E ancora, “La quilla de la luna Rompe nubes moradas”8 . “Los niños se comen la luna Como si fuera una cereza”9 . “La luna está muerta, muerta; Pero resucita en la primavera”10. Risuscita la luna in Montale, Caproni, Luzi. E luminosamente in Andrea Zanzotto così:
6 LEOPARDI, G. (1970: 398-399, vv. 3-9 e 17-20). 7 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Nocturnos de la ventana [A la memoria de José de Ciria y Escalonte, Poeta (1)]”. 8 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921): Poema del cante jondo, “Poema de la Saeta: A Francisco Iglesias [Madrugada]”. 9 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Teorías [Tío-vivo]”. 10 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde: A Laurita, amiga de mi hermana]”.
“Luna puella pallidulla Luna flora eremitica, Luna unica selenitica, distonia vita traviata, atonia vita evitata…11”. E la luna infine, la luna che profuma d’oriente, di Lucio Piccolo: “La luna porta il mese e il mese porta il gelsomino”12. Ma è una luna, quella di Piccolo, che, come nel sogno di Alceta del leopardiano Spavento notturno, si frantuma, cade sulla terra e mai più risuscita. Lucio Piccolo di Calanovella. E bisogna purtroppo dire ogni volta di questo grande poeta scoperto da Montale, dell’autore di Gioco a nascondere e Canti barocchi, Plumelia, La seta, Il raggio verde, bisogna dire, per la fama planetaria che raggiunse l’autore de Il Gattopardo, che Lucio Piccolo era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Era del Capo d’Orlando ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in macchina. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una sua gioia incomprensibile. M’accadeva d’incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva. Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia Progresso. Entra, seguito dall’autista don Peppino. “Ecco qua” dice Piccolo. “Queste sono le poesie” e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di numero di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri che
11 Cfr. ZANZOTTO, A., 13 settembre 1959 (Variante), in IX Ecloghe (1962), in ZANZOTTO, A. (1999): Le poesie e prose scelte, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta (ed.), Milano: Mondadori. 12 Poesia dal titolo “La luna porta il mese”, in PICCOLO, L. (1956: 62): Canti barocchi e altre liriche, prefazione di Eugenio Montale, collana «I poeti dello Specchio», Milano: Mondadori.
avevo portato là per farli rilegare, vecchi libri che scovavo sulle bancarelle: almanacchi, guide, storie locali. Disse: “M’accorgo di non essere il solo ad amare questi libri. Sì, le guide, gli almanacchi, sono pieni di insospettabile poesia”. E aggiunse: “Ho una intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa”. Questo fu verso la fine del ‘53: era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria e in Sicilia una Madonna di gesso piangeva al capezzale di un operaio comunista. Quel libretto stampato dalla tipografia Progresso, intitolato 9 liriche, venne inviato a Montale, e quando poi, nel 1956 Mondadori pubblicò Canti barocchi, Montale ne scrisse la prefazione. Scrisse: “(…) mi colpì in queste liriche un afflato, un raptus che mi facevano pensare alle migliori pagine di Dino Campana. Il lessico è spesso ricercato, ma la parola ha poco peso, l’armonia è quella di un moderno compositore politonale”. E ancora: “Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando (…) Un uomo molto singolare, un uomo sempre in fuga, per certi aspetti affine a Carlo Emilio Gadda, un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo”13. Quest’uomo io ho frequentato per anni, da lui ho appreso cos’è la cultura, cos’è la poesia. Il 17 febbraio del 1967 pubblicavo su L’Ora di Palermo un lungo articolo su Lucio Piccolo dal titolo “Il barone magico”. In quell’articolo davo l’anticipazione di una prosa, intitolata L’esequie della luna che il poeta stava componendo. Scrivevo: “L’esequie della luna è un balletto in tre tempi. Lo si chiama balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico e Pastorale ne formano i tre tempi. Il racconto è questo. La luna, fanciulla che s’ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese): ne vediamo gli effetti alla corte di un viceré, in un convento di trepide suore e in campa
13 Libretto “9 Liriche” stampato nello Stabilimento tipografico di Sant’Agata senza data. Montale nella prefazione pubblicata in Canti barocchi e altre liriche, (cit.), dice di aver ricevuto il libretto il giorno 8. 4. 1954 – La prefazione di Montale è da p. 9 a 19.
gna, dove infine la Luna, fanciulla ricomposta in un’urna, viene sepolta presso le acque” 14. Nel settembre del 1967, Piccolo così communicava allo scrittore Corrado Stajano: “Intanto ho scritto una sorte di narrazione-fantasia, volutamente barocca e ingenuamente romantica, L’esequie della luna, opera più che altro nostalgica…”15. E ancora a Stajano, nell’ottobre dello stesso anno, scriveva: “Ho scritto recentemente una sorta di racconto fantastico (al quale già pensavo da lungo) in cui le parole dovrebbero essere rappresentative come le figure di un balletto. Clima dei Canti barocchi. È un canto estremamente nostalgico verso la Palermo di quando ero bambino proiettata sopra un immaginario Seicento dove opera o meglio non opera il burattinesco Viceré. La caduta del satellite significa appunto l’estinguersi dei residui del romanticismo-barocco (…). il quale fatto coincide pure con la crisi della nostra epoca (…) Comunque i resti vengono portati al riposo vicino le acque (notare questo riferimento ricorrente del simbolismo equoreo-eracliteo!) delle piccole comunità rurali, le quali sono le sole ancora ad intravedere barbagli, lucori zodiacali ecc…”16. Nel dicembre del 1967, la rivista Nuovi Argomenti, diretta da Carrocci, Moravia e Pasolini, pubblicava L’esequie della luna di Lucio Piccolo. In quello stesso numero appariva una parte de Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e Pilade di Pier Paolo Pasolini. Il Pasolini che già nel 1964 aveva scritto il saggio Nuove questioni linguistiche in cui diceva della mutazione della lingua italiana dovuta al cosiddetto “miracolo economico”, al neo-industrialesimo e alla correlata espansione dei mezzi di comunicazione di massa. Il Pasolini che diceva della fine del mondo contadino in Italia, della sua plurimillenaria cultura e
14 Consolo, V. (1967): “Il barone magico. Quattro inediti di Lucio Piccolo, il poeta siciliano dei Canti barocchi, presentati da Vincenzo Consolo”, en L’Ora, Libri, Venerdì 17 febbraio, p. 9. 15 Lettera del 12 settembre 1967, in “Galleria”, Anno XXIX, n. 3-4 maggio-agosto 1979, p. 99 (Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta). 16 Lettera ottobre 1967, stessa rivista “Galleria” come sopra pp. 99-100.
dell’avvento della cultura di massa, del neo-capitalismo e della cultura piccolo-borghese. Lo stesso Pasolini poi che nel febbraio del 1975, pochi mesi prima della sua atroce morte, scriveva l’articolo sulla scomparsa delle lucciole. Leopardi, Pasolini, Piccolo: è pur vero che i poeti sono vati, sono “entusiasti”, vale a dire en theòs, vale a dire vaticinanti. Ed è pur vero che la vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Piccolo, nel 1967, aveva, con L’esequie della luna, aveva sì voluto rappresentare il tramonto di una cultura, che egli chiama “romantico-barocca”, ma aveva come presagito ciò che sarebbe successo da lì a qualche anno, la caduta del mito della luna appunto, della profanazione dell’astro dei poeti. Il 21 luglio 1969, l’astronave americana di nome Apollo -il fratello gemello di Diana approda sulla superficie dell’astro e degli uomini vi danzarono sopra con i loro scarponi di metallo. Nel romanzo incompiuto Un’isola nella luna William Blake ci dice che in quell’isola si parlava il linguaggio del nonsense. Ma un bel preciso e incisivo senso hanno quelle orme lasciate dall’astronauta sulla superficie della luna. Orma che è segno di violazione, di possesso. Scrive Sergio Perosa in L’isola la donna il ritratto: “La metafora principe del possessso è quella dell’orma, del footprint. Si può pensare per un momento (…) all’orma che lascia l’astronauta Armstrong sulla luna alla prima discesa della storia”17. Piccolo muore in quello stesso anno, il 1969. L’editore Vanni Scheiwiller racconta che Piccolo avrebbe voluto far musicare il suo L’esequie della luna da Gianfrancesco Malipiero e che avrebbe voluto, per la scenografia e i costumi, i disegni del pittore Fabrizio Clerici. Il desiderio di Piccolo non si è poi avverato, L’esequie della luna è rimasta solo una prosa da leggere. Nel 1969 io ero emigrato già da un anno a Milano. M’ero portato nel bagaglio l’idea o il progetto di un romanzo storico, apparso poi nel 1976 presso Einaudi col titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio.
17 PEROSA, S. (1996: 48): L’isola la donna il ritratto, Torino: Bollati Boringhieri.
Nel 1985, ancora presso Einaudi, apparve il mio Lunaria. La dedica, nel libro, è questa: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”18. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto. Il mio Lunaria era esplicitamente scritto su Leopardi e su Piccolo, ma anche su tanti altri poeti e scrittori. Partivo dunque da Leopardi e da Piccolo per rovesciarne l’assunto. La mia luna, sì, come dice Lorca “está muerta, muerta; / Pero resucita en la primavera19”. Risuscita in una contrada senza nome, una contrada che prenderà il nome di Lunaria. Credo sia chiara la metafora: la luna, sì, è caduta nel nostro contesto, nella nostra cultura occidentale, è caduta qui da noi la poesia. In luoghi ignoti, in contrade senza nome, in quelli che noi chiamiamo terzi, quarti o quinti mondi, in quei luoghi, pur afflitti di povertà e malattie, in quelle primavere della storia l’umanità sa creare ancora la poesia. Dice il mio Viceré Casimiro: “Se ora è caduta per il mondo, se il teatro s’è distrutto, se qui è rinata, nella vostra Contrada senza nome, è segno che voi conservate la memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali, il bisogno dell’inganno, del sogno che lenisce e che consola”20. Il terrifico sogno dell’Alceta leopardiano si è dunque mutato nel sogno necessario, nel sogno che lenisce e che consola: il sogno della poesia. Cesare Segre, in Intrecci di voci, nel capitolo intitolato Teatro e racconto su frammenti di luna, mette a confronto e analizza L’esequie della luna e Lunaria. Scrive: “In Consolo, la figura del Viceré, dopo l’iniziale scena, comica, d’ignavia, si rivela progressivamente la coscienza della vicenda. Se ricordiamo che il Viceré scopre alla fine la sua natura di attore che impersona il Viceré, potremmo dire che quando egli pencola verso il comico è il
18 Consolo, V. (1985): Lunaria, «Nuovi Coralli 365», Torino: Einaudi. 19 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde…]”, cit. 20 Consolo, V. (1985: 62).
Viceré, quando è serio e meditativo è l’attore, distaccato tanto dal personaggio quanto dalla vicenda 21”. E trova consonanza e ulteriore sviluppo, l’affermazione di Segre, con quanto nota Irene Romera Pintor, l’autrice della magnifica traduzione in castigliano di Lunaria. Scrive: “Cierto, la sombra de La vida es sueño planea sobre las melancólicas ensoñaciones del Virrey, que ya no cree en su poder ni sabe siquiera quién es. Pero ningún crítico hasta ahora ha señalado la relación que sobre todo tiene Lunaria con El Gran Teatro del Mundo”22. E io ringrazio Irene Romera Pintor per questa rivelazione di un così alto rimando. La ringrazio per tutto il suo generoso lavoro su Lunaria.
Milano, 22 ottobre 2005
21 Cfr. SEGRE, C. (1991): “Teatro e racconto su frammenti di luna”, in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, “Einaudi Paperbacks 214”, Torino: Einaudi, pp. 87-102 (cfr. in particolare p. 93). 22 Cfr. CONSOLO, V. (2003): Lunaria, edizione, introduzione, traduzione e note a cura di I. Romera Pintor, Madrid: Centro de Lingüística Aplicada Atenea (cfr. in particolare p. 12).
Tag: Lucio PIccolo
Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo
Struttura-azione di poesia e narratività
nella scrittura di Vincenzo Consolo
Maria Attanasio
Scrittrice
Alla ricerca di un’espressività nuova rispetto all’omologazione linguistica della contemporaneità, la scrittura di Vincenzo Consolo assume le modalità ritmiche e la densità metaforica della poesia: una vera e propria struttura-azione testuale che fa interferire la lingua della memoria e la memoria della lingua, la sequenzialità del tempo narrativo e la verticalità di quello della poesia. Benché tutti i suoi libri siano traboccanti di citazioni, epigrafi e continui riferimenti a poeti d’ogni luogo e tempo — da Omero a Teocrito, ad Ariosto, a Iacopo da Lentini, a Shakespeare, a Leopardi, a D’Annunzio, a Dante, e a tanti altri — Vincenzo Consolo non ha mai pubblicato un libro di poesie, a differenza degli altri scrittori contemporanei siciliani — Sciascia, Addamo, Bufalino, Bonaviri, D’Arrigo, ad esempio — la cui narrativa è stata spesso affiancata o preceduta da un’autonoma produzione poetica. Eppure è poeta, il più poeta tra i narratori siciliani; non si tratta di una generica liricità che crocianamente trasborda in ogni genere, ma di una testualità che, dentro le sequenze del tempo narrativo dei romanzi, e in quelle argomentative della saggistica, fonde libertà espressiva e referenzialità compositiva,ragioni etiche e motivazioni estetiche, ideologia e parola: immaginifica interazionetra la lingua della memoria, che restituisce il passato come metafora del presente, e la memoria della lingua, che, immergendosi nella lievitante stratificazione culturale e mitica delle parole, restituisce significatività al linguaggio; esemplare è in questo senso un racconto appartenente a Le pietre di Pantalica, I linguaggi del bosco, in cui lo scrittore racconta l’esperienza di un fanciullo che, durante un soggiorno in campagna, apprende dalla selvatica amica Amalia ad ascoltare il bosco — il suono del vento tra gli alberi, il gorgoglio dell’acqua, l’oscurata parola delle bestie — e a rinominare con una lingua argotica ogni cosa Fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che in quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava.1 metafora della necessità di una espressività nuova in una contemporaneità che, in nome del mercato e del profitto, opera, anche a livello linguistico, una marginalizzazione dei valori di un mondo a carattere antropocentrico. E in questi ultimi anni più che mai: la definizione di «guerra umanitaria» ad esempio, o l’umanizzazione di borse e mercati che «tremano, soffrono, si esaltano, si deprimono, sono euforiche», ecc., mentre, ridotti a puri beni strumentali dell’economia, gli uomini sono diventati semplici «risorse», talvolta da «rottamare». Vincenzo Consolo ha sempre respinto la piatta orizzontalità della lingua — quella da lui definita «tecnologica-aziendale» che, diffusa dai mezzi di informazione, rende afasica la realtà — spingendo invece la sua prosa a contaminarsi con altri generi, soprattutto con la verticalità immaginativa e demercificata del linguaggio poetico. La poesia è infatti oggi l’unica tra le arti che non diventa merce, perché il suo linguaggio, traboccando sempre dalla pura formulazione linguistica, non può mai totalmente identificarsi con quello della comunicazione: «coscienza anticipante», rispetto ai valori del proprio tempo, ma anche coscienza critica nei confronti del linguaggio del proprio tempo. La sua ricerca espressiva si muove perciò verso una scrittura che sia, insieme, esperienza di verità — non di semplice realtà — e testimonianza di libertà. Verità della storia — nella storia — e libertà della parola — nella parola — costituiscono infatti la struttura ideologicamente portante della sua narratività, che nella metafora del viaggio — presente e centrale in tutti i suoi libri — si congiungono, corrispondendo spesso — il viaggio e la scrittura — all’inizio e alla fine dello sviluppo narrativo; tappe necessarie di un processo conoscitivo che, coniugando storia ed esistenza, diventa presa di coscienza, parola, il cui nucleo — insieme motivazione e finalità — è sempre l’uomo, «Prima viene la vita, — scrive in Retablo — quella umana, sacra, inoffendibile, e quindi ogni altro: filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza…». 2
- Vincenzo CONSOLO, Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori,1988, p. 155.
- Vincenzo CONSOLO, Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 131.
Tra il primo romanzo, La ferita dell’aprile (Mondadori, 1963) e l’ultimo, Lo spasimo di Palermo (Mondadori, 1999), il rapporto tra storia e parola — e quindi il senso della metafora del viaggio — si modifica però profondamente. Se fino a Retablo il viaggio è avventura conoscitiva e utopia, che dilatano il tempo, ingannano la morte — la causa vera del viaggio, per Fabrizio Clerici, il protagonista di questo libro, «è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno dell’ere passate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’ nostri desideri»3, nella produzione successiva perde ogni connotazione conoscitiva, diventa nostos, amara verifica in un «paese piombato nella notte», «nell’Europa deserta di ragione»; Chino Martinez, il protagonista de Lo Spasimo di Palermo, ha infatti la consapevolezza che ogni viaggio è «tempesta, tremito, perdita, dolore, incontro e oblio, degrado, colpa sepolta rimorso, assillo senza posa». 4 La modificazione del senso della storia modifica anche quello della parola, con un’accentuazione sempre più espressiva ed espressionista del suo linguaggio, e con un utilizzo in funzione narrativamente destrutturante, rispetto a un tradizionale concetto di romanzo; un utilizzo, in questo senso, presente fin dalle prime opere. In un saggio del 1997, Il sorriso dell’ignoto marinaio vent’anni dopo, che conclude la raccolta di saggi Al di qua dal faro, scrive: Il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodie, fratture, spezzature, oltranze immaginative, dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che nella loro limpida, serena geometrizzazione escludevano le voci dei margini.5 Una vera e propria «struttura-azione» di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia. Lo scrittore sente però fortemente il malioso richiamo che da essa proviene: la straniante fascinazione di forme, suoni, segni, paesaggi che, intrecciandosi o alternandosi agli echi drammatici e stridenti della storia, come una sorta di respiro profondo attraversa tutta la sua scrittura; non si tratta di una schi-Ibid., p. 177. Op. cit., p. 98.Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 2001, p. 282. zofrenia espressiva, ma di una strutturale complementarietà, come complementari — all’interno di una complessiva visione del mondo — sono in Dante e Leopardi, filosofia e sentimento, ideologia e poesia. E non è un caso che entrambi, insieme a Omero, a Eliot e a Lucio Piccolo, siano i poeti di riferimento più presenti nella sua scrittura, che assume talvolta il carattere di una visionaria riscrittura, pulsante di echi, parole, reperti linguistici, risalenti dal fondo del già scritto. In una sorta di rarefatto silenzio leopardiano, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio — mentre il bastimento con il Mandralisca e tutto il suo carico di storia ed esistenze, approda davanti alla Rocca di Tindari — risuona, al di sopra dei tempi e degli spazi della narrazione, la voce visionaria dello scrittore a richiamare dal buio dei millenni Adelasia, la solitaria badessa centenaria, che torna ad aggirarsi tra le celle ormai disabitate, a interrogare invano l’immemore fluire Quindi Adelasia, regina d’alabastro, ferme le trine sullo sbuffo, impassibile attese che il convento si sfacesse. Chi è, in nome di Dio? — di solitaria badessa centenaria in clausura domanda che si perde per le celle, i vani enormi, gli anditi vacanti. — Vi manda l’arcivescovo? — E fuori era il vuoto. Vorticare di giorni e soli e acque, venti a raffiche, a spirali, uro d’arenaria che si sfalda, duna che si spiana, collina, scivolio di pietra, consumo. Il cardo emerge, si torce, offre all’estremo il fiore tremulo, diafano per l’occhio cavo dell’asino bianco. Luce che brucia, morde, divora lati spigoli contorni, stempera toni macchie, scolora. Impasta cespi, sbianca le ramaglie, oltre la piana mobile di scaglie orizzonti vanifica, rimescola le masse.6 Lo stesso cosmico smarrimento dei sensi e dell’intelletto lo restituisce attraverso il protagonista di Retablo, che, sul colle di Segesta, davanti alla grandiosità dell’arte e della natura, vede spalancarsi le inaudite voragini del tempo: Sedetti su lo stilòbate, fra le colonne, sotto l’architrave da cui pendeva e oscillava al vento il cappero, il rovo, l’euforbia, a contemplare il deserto spazio, ascoltare il silenzio spesso su codesto luogo. Un silenzio ancora più smarrente per lo strider delle gazze, dei corvi, che neri sopra il cielo del tempio e sopra il vuoto della gran voragine grevi volteggiano, per frinire lungo di cicale e il gorgogliare dell’acque del Crinisio o Scamandro che dall’abisso, eco sopra eco, sonora si levava. 7 finendo con la letterale citazione di un verso de L’Infinito leopardiano. «E sedendo e mirando…». C’è una circolarità geografica nella scrittura consoliana: gli stessi luoghi — esemplari di una perduta bellezza, come i resti della grecità, o di una aggrovigliata contemporaneità, come la Palermo barocca, o la tecnologica Vincenzo CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi, 1976, p. 8. Op. cit., p. 79. Milano — ritornano ciclicamente nelle sue opere; Segesta tornerà infatti a essere rappresentata ne L’olivo e l’olivastro: E là, nel centro, nel recinto aperto in ogni lato, verso ogni punto, esposto alla notte dell’estate che porta sulle brezze odori arsicci di fieni, nepitelle, porta le scansioni del silenzio, del buio, strida, pigolii, sprazzi verdastri, gialli, luccichii, aperto in alto all’infinito spazio, mi pongo arreso, supino, e vado, mi perdo nella lettura stupefatta del libro immenso, in incessante mutamento, nella scrittura abbagliante delle stelle, dei soli remoti, dei chiodi tremendi del mistero…..Rimango immobile e contemplo, sprofondo estatico nei palpiti,nei fuochi, nei bagliori, nei frammenti incandescenti che si staccano, precipitano filando, si spengono, finiscono nel più profondo nero.8 Un testo di una straordinaria intensità poetica; l’immagine di quei «chiodi tremendi del mistero» resta, ad esempio, ostinata a perciare la mente: l’enigma dell’improvviso ritrovarsi esistenti nel tempo. Interminabili potrebbero essere le citazioni, tratte da tutti i suoi libri, a esemplificazione della variegata e lirica restituzione della natura; del paesaggio soprattutto, colto in tutte le ore e le stagioni: dalla campagna alla città al mare, la cui plurale valenza simbolica nella sua scrittura meriterebbe una trattazione a parte; nella lunga e illuminante intervista, pubblicata ne La fuga dall’Etna (Donzelli, 1993), lo scrittore definisce infatti il mare, come un luogo di invasione e possessione della natura, dell’esistenza, dei miti e dei simboli: simboli ambigui, spesso, insieme, di valori opposti, stridenti come la vita e la morte. Ma la percezione del luogo nella sua scrittura non è mai orizzontale e univoca: nella sua spazialità affiorano memorie, miti, scritture, esistenze, visioni; e non solo nei luoghi dell’arte o in quelli della storia, ma anche in quelli abituali e scontati del quotidiano, come, ne Lo spasimo di Palermo, la stanza di un albergo: Scricchiolii, la guida scivolosa nella curva e il fiato di sempre venefico e pungente, mai tarme blatte, mai topi in quest’ammasso d’alberi e fasciami disarmati, forse madrepore, alghe secolari, fermenti sigillati di mari tropicali, lo sciabordio è nelle tubature verniciate, nel rigagnolo sotto il marciapiede. L’angustia è forzata dagli specchi, uguale gentilezza è impressa su carta tende copriletto, lo stridore è nel giallo degli eterni girasoli.9 A volte è invece il sentimento a far scattare la tensione lirica, privilegiatamente l’amore nelle sue diverse espressioni: come dolcissima e lacerante coniugalità ne Lo Spasimo di Palermo, come sconvolgente passionalità in Retablo, il meno storico dei suoi romanzi, benché ci sia anche in questo, come in tutta la sua produzione, una precisa lettura etica e di classe; nucleo motivante è, in Vincenzo CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 128. Op. cit., p. 11-12. questo libro, l’esistenza, nel suo rapporto, a volte conflittuale, di ragione e sentimento, di arte e verità; un tema, quest’ultimo, già fortemente presente, direi centrale, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Ma la scrittura per Vincenzo Consolo non è mai rotonda frontalità espressiva, levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; aldilà della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita: Oh mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mio sogno e mio pensiero, cos’é mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo ha sempre declinato in mito, in racconto favoloso e leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora?10 Per rappresentare il delirio amoroso di Isidoro, in Retablo, lo scrittore fa perciò interferire iperletterarietà e leggerezza, ricerca espressiva e liricità; scava infatti nelle sonorità del nome Rosalia, trovando in esso occultati tutti i sensi e i segni della passione. Ognuna delle due parti del nome genera infatti una appassionata proliferazione di figure d’amore; se «Rosa» è l’immaginifica sorgente di tutti fiori, i colori, gli aromi, di tutte le sfumature di bellezza dell’amata: Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino,bàlico e viòla; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia,… Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel core.11 il «li» di «Lia» invece si moltiplica in una spirale di indicibili tormenti amorosi: Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come sangue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi, per mia dannazione.12 Il testo non è fine a se stesso, ma fa da attacco al romanzo, immettendo subito il lettore nel cuore tematico del racconto — la vita, l’amore, l’arte — ; presentando i protagonisti — Isidoro, Rosalia, Fabrizio Clerici — ; e profilando l’antefatto e i fatti. Già nel libro d’esordio — La ferita dell’aprile — lo scrittore apre la narrazione con una una bellissima prosa, scandita dal ritmo dell’endecasillabo: il ricordo del protagonista che rivede se stesso adolescente, in viaggio verso la vita e la consapevolezza storica:Op. cit., p. 109.Op. cit., p. 15.Ibid., p. 16.
Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista, sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti.13 Una lirica dilatazione memoriale, che, con un procedimento tipico della poesia contemporanea, a volte si traduce in contratta densità metaforica, tesa al coinvolgimento emozionale e interpretativo del lettore: esemplare è nello stesso libro la descrizione del panico dei viventi, e della natura tutta, di fronte all’eruzione: La strada è occhi grandi, dilatati, fronti pesanti sull’arco delle sopracciglia, gambe invischiate lente a trascinarsi, schiene ricurve sotto il cielo basso, la mano gonfia con le dita aperte; il gallo sul pollaio che grida per il nibbio, e il cane che risponde petulante. Il cane e un altro cane e tutti i cani: sì, si spaccò l’Etna.14 La presenza di incipit di poesia — in funzione lirica o tragica — aumenta sempre più, libro dopo libro, in funzione di anticipazione metaforica dello sviluppo narrativo, come il testo, tutto assonanze e rime, che da’ inizio al capitolo quarto di Nottetempo casa per casa: Nella vaghezza sua, nell’astrattezza, nella sublime assenza, nella carenza di ragione, di volere, nell’assoluta indifferenza, nel replicare cieco, nella demenza, rivolge a un luogo solo la dura offesa, strema la tenerezza, frange il punto debole, annienta.15 Nella risuonante atmosfera che la rima in «enza», scandendo la prosa, genera, s’imprime tragico e dissonante il conclusivo, «Crudo o Vile o Nulla, vuoto vorticoso che calamita, divora, riduce a sua immagine, misura». Nella produzione consoliana degli anni novanta, una visione sempre più pessimistica della storia tende a instaurare un rapporto inversamente proporzionale tra la rappresentazione della fine di un mondo a carattere antropocentrico e il vitalismo del linguaggio, in funzione di una strutturazione poematica del romanzo, che procede per accumuli lessicali, per addensamenti sonori di consonanze, rime, per grovigli metrici, settenari, novenari, decasillabi, endecasillabi soprattutto. Lo spostamento in senso poematico della sua narratività è l’esito ultimo di sua riflessione critica sul rapporto scrittura-realtà, che avviene nella seconda metà degli anni ottanta: da un lato — scrive in Fuga dall’ Etna — in concomitanza con il «clima spensierato, cinico, di ottuso scialo» della situazione politica italiana di quegli anni — «un carnevale o un paese della cuccagna alla Vincenzo CONSOLO, La ferita dell’aprile, Torino: Einaudi, 1977, p. 3. Ibid., p. 69. Vincenzo CONSOLO, Nottetempo casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 41.
Brughel», che lascerà, però, «un campo di macerie»; 16 dall’ altro con la scrittura teatrale di Lunaria e di Catarsi. In entrambe le opere i versi si alternano al dialogo: una distinzione puramente formale, anzi grafica, perché nella loro testualità non c’è alcuno scarto tra versi e prosa; esemplare è l’attacco in prosa — in realtà in endecasillabi — del primo scenario di Lunaria: «E’ vasto il vasto regno della Spagna vasto come i castelli di Castiglia, va oltre il mare, s’espande miglia e miglia…». 17 In Lunaria — una favola teatrale ambientata in una Palermo settecentesca — lo scrittore procede in un’ardita sperimentazione linguistica, portando, soprattutto nelle parti in versi affidate al coro, fino al non sense il gioco linguistico: attraverso ripetizioni consonantiche o sillabiche (ad esempio la funzione della consonante «n», e della vocale «o», in questi versi: «Nutta, nuce, melanìa/ voto, ovo sospeso,/ immoto»);18 attraverso l’uso della rima, che spesso si ripete — la stessa — verso dopo verso, facendo assumere alle immagini quasi la ritmicità di una giocosa litania, «minna d’innocenti/ melassa di potenti/tana di briganti, tregua di furfanti»; 19 e spesso anche attraverso un uso puramente sonoro del significante, che azzera il significato; gioco, ironia, divertissement, che l’uso di un lessico alto, ricercatissimo, commisto di aulicità, dialetto, di termini derivati da tutti i saperi e da tutte le lingue, morte e vive, accentua, «luna, lucore,/ allume lucescente/ levia particula/ fiore albicolante»).20 Ma il risuonante non sense delle cantilene di Lunaria, nulla ha a che fare con il linguaggio afasico della neoavanguardia, esattamente speculare all’afasia del potere per Vincenzo Consolo; nella sua poesia c’è sempre una parola,un verso, una soluzione espressiva che effrange il seduttivo canto di sirena del puro significante. La metamorfosi del protagonista in luna è, ad esempio, una metamorfosi anche linguistica: il vicerè viene come avvolto da un velame di «l»e di «u» di luna, «Lena lennicula,/lemma lavicula,/ làmula/ lémura, mamula./Létula/ màlia,/ Mah.», 21 un «mah» finale di una trasgressiva sonorità rispetto ai versi precedenti; quel suono però in persiano significa luna, in arabo vuol dire acqua, mentre in italiano rimanda al dubbio, alla perplessità, e anche alla forma tronca della parola madre. Luna, acqua, dubbio, madre: occultati e oscuramente vibranti nel suono di quel monosillabo. In Catarsi, attraverso il dramma di un Empedocle contemporaneo — il direttore di un centro di ricerca, che, coinvolto in uno scandalo, è in procinto di buttarsi nell’ Etna — lo scrittore invece indaga il rapporto tra parola e realtà nella società contemporanea. Sul tema della comunicazione infatti drammaticamente si confrontano il protagonista,Empedocle, e l’antagonista, Pausania, che, con la forza persuasiva della parola vorrebbe farlo desistere, rivendicando il suo ruolo di anghelos, di Op. cit., p. 61. Vincenzo CONSOLO, Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 7.
- Ibid., p. 5.Ibid., p. 6. Ibid., p. 49. Op. cit., p. 21.
«colui che conosce i nessi, la sintassi, le ambiguità, le astuzie della prosa, del linguaggio»; 22 ma nella situazione estrema in cui Empedocle si trova nessuna parola può raggiungerlo, «Se le parole si fanno prive di verità, di dignità, di storia, prive di fuoco e suono, se ci manca il conforto loro, non c’è che l’afasia. Non c’è che il buio della mente, la notte della vita.»23 dice infatti a conclusione della scena terza. Nell’introduzione a Oratorio (Manni, 2002) — che oltre alla ripubblicazione di Catarsi, comprende anche L’ape iblea (elegia per Noto) del 1998 — in riferimento allo scritto teatrale del 1989, Vincenzo Consolo ribadisce e approfondisce la sua riflessione teorica. Verificando nella contemporaneità gli elementi costitutivi della tragedia greca, afferma che, oggi, non c’è legittimità d’esistenza per l’Anghelos, — il comunicatore che, narrando l’antefatto agli spettatori seduti nella cavea, dava inizio alla messinscena tragica — perché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi.24 Nell’assenza di ascolto, di referente, nel tempo «dell’assoluta insonorità di un contesto istituzionale», s’interrompe ogni rapporto di transitività tra realtà e scrittura: orfana, senza oggetto, davanti alla violenza senza riscatto della storia, al sonno senza risveglio della ragione, la parola non può più disporsi in racconto, ma con una lingua «estrema e dissonante» squarciare la testualità narrativa, destrutturarla, spostando il romanzo «sempre più verso la parte espressiva, la parte poetica». In realtà non si tratta di una radicale innovazione, piuttosto dello sviluppo di elementi espressivi di poesia — il lamento e l’invettiva — già presenti nei suoi romanzi, benché con un segno ideologico diverso. A conclusione storica de La ferita dell’aprile, si leva una voce dal fondo della narrazione, che da una più alta prospettiva di giustizia e di pietà, rappresenta con grande forza poetica la strage di Portella della Ginestra del 1 maggio del 1947: N’ammazzarono tanti in uno spiazzo (c’erano madri e c’erano bambini), come pecore chiuse nel recinto, sprangata la portella. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò buttò buttò riversi sulle pietre una rosa maligna nel petto e nella tempia: negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto. Disse una vecchia, ferma, i piedi larghi piantati sul terreno: — Femmine, che sono sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca?. Non è la fine: sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso.25 Vincenzo CONSOLO, Catarsi in Trittico (Bufalino, Consolo, Sciascia), Catania: Sanfilippo,
1989, p. 21. Ibid., p. 25. Vincenzo CONSOLO, Oratorio, Lecce: Manni, 2002, p. 6. Op. cit., p. 122-123.
un requiem per i morti di Portella, in cui però alla rappresentazione della violenza della storia si contrappone quella di una ostinata resistenza ad essa, attraverso la plastica immagine della vecchia con le gambe ben piantate nel terreno. Snodo poetico e ideologico del libro, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, «il canto lamentoso, il pianto rotto, il cordoglio», riguardano la rivolta e la strage dei braccianti ad Alcara Li Fusi, e la fine della speranza di giustizia sociale che in Sicilia motivò l’adesione popolare al processo unitario («Sì, bisogna scappare, nascondersi. Bisogna attendere, attendere fermi, immobili, pietrificati»);26 ma anche, a mio parere, nascono dalla necessità dello scrittore di dare espressione allo spessore di sofferenza delle tante jaqueries, anonime e inespresse nella grande storia. Il brano oltrepassa la connotazione linguistica ottocentesca del personaggio del Mandralisca: è la voce dell’autore che, con un ritmo metaforico accelerato, entra in scena a indicare la cieca notte della storia «all’ estremo della notte già le orde picchiano alle porte, sgangherano e scardinano con calci chiodati, lasciano croci di gesso su bussole e portelli»):27 notte di morti, spari, inseguimenti, ma anche di una possibile sortita verso la luce, Muovi il tuo piede qui, su questa terra, entra, fissa la scena; in questo spazio invaso dalla notte troverai i passaggi, le fughe, esci se puoi dalla maledizione della colpa, senti: il rantolo tremendo si snoda in prospettiva, mantegnesco.28 In Retablo, invece, il lamento diventa invettiva contro «il secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto!», e contro la città che nel Settecento meglio lo rappresentava — e ancora oggi meglio rappresenta il secolo — l’«attiva, mercatora», Milano, stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacabìnt e pien de vanitaa, il governatore ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola;29 città che ritorna, oggetto di un’invettiva ancora più amara e disperata, ne Lo Spasimo di Palermo: simbolo dell’«illusione infranta», del disastro storico e morale dell’Occidente, città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, «tecnologico» ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.
30 Op. cit., p. 112. Ibid., p. 113.Ibid.Op. cit., p. 103.Op. cit., p. 91.
Dopo Nottetempo casa per casa l’invettiva e il lamento si amplificano, acquistando una totale autonomia rispetto alla narrazione: diffusa voce extranarrante, inclusiva di vicende e destini, che, rispondendo a un consapevole disegno poematico del romanzo, blocca gli eventi, immobilizza il racconto senza possibilità di dialettico sviluppo e di autonoma parola nell’afasia della società di oggi. Ne L’olivo e l’olivastro cade infatti ogni steccato di genere tra poesia e prosa, tra poema e romanzo; il rimando da capitolo a capitolo — le tappe di una contemporanea odissea — non risponde né alla sequenzialità narrativa, né tantomeno a un’organizzazione saggistica. Un’angolazione di poesia fa visionariamente implodere la simultaneità dei tempi della lingua nella sequenzialità di quello narrativo, connotando espressivamente eventi e personaggi. I luoghi si verticalizzano, materializzando — in un continuum di passato e presente, di bellezza e desolazione — la densità di storia e di vissuto che vibra oscurata dietro ogni paesaggio, ogni muro, ogni piazza, ogni città; il viaggio di Odisseo – Consolo verso l’Itaca – Sicilia non è infatti un viaggio «in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella vastità del mare, è come fosse il suo un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo»,31 dimensione di struggente lirismo si alterna a una poesia di dolente espressività: alla restituzione lirica di poche oasi di civiltà e di memoria — Siracusa, Cefalù, Caltagirone — si contrappone quella, indignata e drammatica, di una degradata contemporaneità, che trova tremenda esemplificazione in Gela, città «della perdita d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasia, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo», 32 simbolo dell’irreversibile fine di un’Atene civile, «che — scrive Vincenzo Consolo nel lamento-invettiva di grande forza tragica, a conclusione morale del libro — nessuno può liberare dall’oltraggio». Lo scarto tra parola e realtà, tra racconto e afasia, si acutizza ne Lo spasimo di Palermo, in cui una lingua vertiginosamente espressionista disarticola l’apparenza di romanzo in gorghi di immagini, assonanze, rime, enjambement. Il libro si apre infatti con una sorta di proemio in cui lo scrittore addensa il senso e la connotazione metaforica della sua scrittura («Avanzi per corridoi d’ombre, ti giri e scorgi le tue orme. Una polvere cadde sopra gli occhi, un sonno nell’assenza. Il fumo dello zolfo serva alla tua coscienza. Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza»):33 un criptico viatico di poesia per il lettore, che insieme al protagonista — trasparente doppio dell’autore — sta intraprendendo un viaggio nell’immobilità della storia e nella fascinazione maliosa ma non consolatoria della parola.Quasi tutti gli undici capitoli in cui è diviso il romanzo sono introdotti da brevi preludi di un’immaginifica ed enigmatica densità, del tutto irrelati rispetto alla narrazione; un solo esempio: il preludio del IV capitolo,
- Op. cit., p. 19.Ibid., p. 79.Op. cit., p. 9.Muro che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla, antro fra ruderi sferzato dalla pioggia, ironiche statue in prospettiva, teschi sui capitelli, maschere sui bordi delle fosse, botteghe incenerite, volumi che in mano si dissolvono, lei al centro d’un quadrivio accovacciata, lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri.34 Sono i misteri dolorosi di una via crucis, che, sviluppandosi capitolo dopo capitolo, tocca tutte le stazioni della contemporaneità — dal terrorismo alla speculazione edilizia, alla mafia, alla guerra, alla tenebra della follia, alla condizione di emarginazione urbana «degli stanziali dei margini» — i poveri, i disperati, i migranti — che vivono, oscuri e oscurati, negli squallidi anfratti delle città contemporanee, Stanno nel tempo loro, nell’immota notte, chiusi nel sudario bruno, ermetici e remoti, stanno come vessilli gravi sui confini, nel passo breve tra il moto e la paralisi. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, muri, statue in volute di drappi, spiegamento d’ali, slanci fingono l’estro, sono la massa ironica contro illusioni, inganni, monito dell’esito, del lento sfaldamento.35 L’intervento poetico e tragico dello scrittore spesso taglia verticalmente la narrazione, assorbendo il narrato nella restituzione metaforica di una condizione storica dove ogni giustizia è morta, ogni pietà s’è spenta. Sulla stasi e il silenzio della storia («Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime del tempo. La storia è sempre uguale»),36 si stende il requiem della poesia: rito di morte e, insieme, esorcismo contro la morte, di una scrittura che sul ciglio degli abissi «si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente»; 37 barocca fascinazione tonale di un linguaggio risuonante di rime, nominazioni, fastose metafore, che, simultaneamente, si pone come emergenza espressiva, ed estremo gesto di libertà ideologica, in una condizione umana coatta dalle istituzioni di potere e dall’assertorietà definitoria, ma anch’essa ideologica, del linguaggio, «La lingua — dice Vincenzo Consolo citando in un articolo della rivista Autodafè Roland Barthes — non è né reazionaria, né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire…». Non resta allora che l’afasia o la poesia. E Vincenzo Consolo sceglie la poesia.
- Ibid., p. 45.Ibid., p. 70-71.Ibid., p. 9.Ibid., p. 12.
Quaderns d’Italià 10, 2005
foto di Claudio Masetta Milone
Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo
Nicolò Messina Universitat de Girona
Il contributo tenta di delineare la storia del farsi dell’opera più studiata di Vincenzo Consolo sulla scorta dei testimoni già sottoposti a recensio (edizioni a stampa, dattiloscritti, manoscritti). Parole chiave: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, edizioni critico-genetiche, ecdotica di testi moderni e contemporanei. Abstract The contribution attempts to outline the history of the creation of Vincenzo Consolo’s most studied work, based on the supply of accounts already submitted to review (printed, typed and manuscript editions). Key words: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, critical-genetic editions, critical editions of modern and contemporaneous texts. 1. In limine Nella presentazione della nuova collana «Clásicos Modernos» di una delle più prestigiose case editrici spagnole, José Saramago, senz’altro nel suo castigliano deliziosamente lusitaneggiante e con il suo abituale tono deciso, asseriva pubblicamente: «Estamos hechos de pasado. El presente no existe y el futuro no sabemos lo que es». 1 La frase potrebbe ben costituire l’esergo di queste pagine, che hanno per oggetto-soggetto Il sorriso dell’ignoto marinaio, e l’aggancio è almeno doppio. 1. L’incontro pubblico, organizzato dalle edizioni Alfaguara, si è tenuto al Círculo de Bellas Artes di Madrid il 27 settembre 2004. L’idea della collana è dovuta — a detta della stessa direttrice editoriale di Alfaguara, Amaya Elezcano — a un suggerimento del Nobel portoghese. La collana, inaugurata da Jacques el fatalista di Denis Diderot, annovera tra i primi volumi, già in libreria, anche i manzoniani Los novios nella traduzione fattane da Esther Benítez. Cfr. El País (Martes 28 de septiembre de 2004): 42. 114 Da un lato, infatti, e non appaia aneddotico, il Sorriso è stato la scorsa primavera ripubblicato da Mondadori in una collana che curiosamente ricorre alla medesima etichetta: «Classici moderni»; 2 dall’altro, poi, l’affondo di Saramago — non a sproposito in un oggi affetto da multiformi amnesie — rivendica in sé e per sé il ruolo della memoria senza la quale non siamo, e non certo perché atteggiati a conservatori idolatri del vissuto umano, perché abbarbicate, irremovibili ostriche verghiane3 o stanchi e immalinconiti laudatores temporis acti. Al riguardo, quale migliore sintonia con Consolo? Il quale — è risaputo — da sempre s’oppone vigile all’appiattimento stritolante sull’unica dimensione temporale del presente, comodo, se non programmaticamente ricercato dagli autarchi che s’ispirano al pensiero unico. Ecco perché forse Consolo, da sempre, fa letteratura ricorrendo a metafore storiche. D’altra parte, come piú di uno ha sottolineato, è certo intorno alla funzione attiva, alla forza propulsiva della memoria che quaglia la metafora del Sorriso: un ieri, ottocentescamente databile, in dialettica con l’oggi del lettore (la metà degli anni Settanta del secolo breve appena concluso, ma anche la metà del primo decennio di questo nostro nuovo secolo).4 2. Cfr. piú avanti il riferimento bibliografico completo. 3. Per fugare ogni possibile dubbio sulla propulsività della memoria, da non intendere pertanto quale attaccamento […] allo scoglio di un rassegnato immobilismo, non è fuori luogo citare per esteso, il noto passo di Fantasticheria (1879), che, pur estrapolato dal suo contesto e con tutti i sottili distinguo dell’autore, sembra presago di un certo fatalismo misoneista, improntato piú all’inutilità che all’impossibilità di ogni reazione umana alle condizioni e ai ruoli assegnati; manifestazione, in breve, di una sorta di noluntas: «Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava príncipi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano — forse pel quarto d’ora — cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione.» (G. VERGA, Tutte le novelle, ed. Carla RICCARDI, Milano: Mondadori, 1979; 19965, p. 135-136) 4. Per felici coincidenze, alle giornate sivigliane all’origine di queste note partecipava anche Maria Attanasio, fine autrice di poesie (Interni, Parma: Guanda, 1979; Nero barocco nero, Caltanissetta-Roma: Sciascia, 1985; Eros e mente, Milano: La Vita Felice, 1996; Amnesia del movimento delle nuvole, Milano: La Vita Felice, 2003; 20043), che si rivela scossa dall’identica volontà di resistenza all’oblio, a giudicare dai frutti delle ore da lei dedicate alla prosa: Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Palermo: Sellerio, 1994; Piccole cronache di un secolo, Palermo: Sellerio, 1997 (con Domenico AMOROSO); Di Concetta e le sue donne, Palermo: Sellerio, 1999. Proprio da quest’ultimo, commosso, bel libro testimonianza si estrapolano deliberatamente due brani assai eloquenti sull’etica dello scrivere: «Un tempo ogni città, piccola o grande, affidava la storia civile della comunità alla scrittura del cronista; insieme agli eventi civici e allo straordinario egli spesso registrava anche l’ordinario di essa […] sottraendone la memoria alle azzeranti generalizzazioni della storia, che per sua natura emargina in un’impenetrabile zona d’ombra l’alfa e l’omega costitutivi della sua trama» (p. 32); «Non restava che […] testimoniare direttamente questa piccola storia di ordinaria militanza, una tra le tante di quegli anni. || Senza però sottrarsi al Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 115 2. De finibus terminisque constituendis Su Consolo e Il sorriso dell’ignoto marinaio, in particolare, l’interesse critico non è mai tramontato. Ingente è ormai la letteratura secondaria. Da un lato, ne fanno fede le bibliografie via via aggiornate e desumibili da volumi e riviste: dalla prima monografia di Flora Di Legami5 al numero omaggio di Nuove Effemeridi, 6 dal libro di Attilio Scuderi7 a quello recente di Giuseppe Traina,8 dal «ritratto» di Enzo Papa9 alla premessa editoriale dell’ultima ristampa dell’opera.10 Dall’altro, chiara eco se ne riceve anche da collectanea a seguito di convegni dedicati allo scrittore: si rammentino almeno quelli organizzati nel solo ultimo torno di tempo a Parigi, Siracusa, Siviglia.11 Anche i lettori, dilettanti e non solo professionisti della letteratura, compresi quanti si escludono dal novero degli estimatori più ferventi dell’opera consoliana, riconoscono unanimi nel libro, in questo libro, un classico: non sorprende perciò il suo inserimento in una collana ad hoc, né che qualcuno, come Sergio Pautasso, dichiari apertamente il piacere di rileggerlo o che qualche coinvolgimento emozionale, né fingere un’ipocrita oggettività: memoria emotivamente condivisa per i protagonisti che ancora camminano per le strade, gesticolano odiano amano, continuano a resistere come possono, e s’incazzano in questo smemorato Occidente dove la supponenza della mondializzata economia di nuovo si autocelebra, in nome del mercato e del profitto, universale essenza dell’uomo contro l’uomo. E la sua spregiudicata ancilla — la politica — l’asseconda, insieme a Marx e a Voltaire, gettando l’utopia, come un nastro smagnetizzato, nelle discariche della storia.» (p. 35) 5. F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti (Messina): Pungitopo, 1990. 6. Nuove Effemeridi. rassegna trimestrale di cultura, 29, [Palermo: Guida] 1995. 7. A. SCUDERI, Scritture senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna: Il Lunario, 1998. 8. G. TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze): Cadmo, 2001. 9. E. PAPA, «Ritratti critici di contemporanei: Vincenzo Consolo», Belfagor, LVIII 344, 2003, 179-198. 10. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori, 2004, p. XIV-XVII. 11. Ancora in corso di stampa gli atti del convegno Vincenzo Consolo. Éthique et écriture, tenuto alla Sorbonne Nouvelle venerdì 25 e sabato 26 ottobre 2002, con interventi di Guido Davico Bonino, Maria Pia De Paulis, Denis Ferraris, Giulio Ferroni, Rosalba Galvagno, Walter Geerts, Valeria Giannetti, Claude Imberty, Jean-Paul Manganaro, Antonino Recupero, Marie-France Renard, Cesare Segre. Sono invece usciti quelli del convegno siracusano: Enzo PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo. Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2-3 maggio 2003), San Cesario di Lecce: Manni, 2004, con contributi di Paolo CARILE, «Testimonianza» (p. 11-13); Maria Rosa CUTRUFELLI, «Un severo, familiare maestro» (p. 17-22); Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo» (p. 23-58); Massimo ONOFRI, «Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale» (p. 59-67); Sergio PAUTASSO, «Il piacere di rileggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, o dell’intelligenza narrativa» (p. 69-80); Carla RICCARDI, «Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo» (p. 81-111); Giuseppe TRAINA, «Rilettura di Retablo» (p. 113-132). Le relazioni presentate alle giornate di studio sivigliane, Vincenzo Consolo. Per i suoi 70 (+1) anni (Universidad de Sevilla, Facultad de Filología, 15-16 ottobre 2004), costituiscono il nucleo di questo numero di Quaderns d’Italià. 116 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina che altro, come Massimo Onofri, ammetta Consolo in un canone resistente allo stesso variare delle mode critiche.12 D’altronde, il ruolo principe rappresentato dal Sorriso nel corpus consoliano è a più riprese e in vari modi e gradazioni sottolineato dallo stesso autore: in interviste13 o anche in interventi sparsi, dalla postfazione all’edizione mondadoriana del ventennale14 alla lectio magistralis in occasione dell’investitura a doctor honoris causa dell’Università di Roma Tor Vergata (18 febbraio 2003). Delineato tale scenario, arduo intervenire su quest’opera. Per l’occasione, quindi, con formula ciceroniana, mihi fines terminosque constituam e sottoporrò al dibattito critico un qualcosa di forse più congeniale alla mia natura di manovale della filologia: un tentativo di tracciare una storia o, meno ambiziosamente, una cronaca del farsi del libro dalla sua «preistoria» in avanti, sistematizzando materiali sparsi, più o meno noti, e aggiungendovi, con cautela, alcuni elementi nuovi. Una certa prudente reticenza è peraltro consigliabile, dettata com’è dallo svolgimento in atto di una ricerca, ormai quasi in dirittura d’arrivo, intesa proprio all’allestimento di una edizione critico-genetica del Sorriso. Insomma, ricorrendo alle categorie di avantesto, paratesto e testo, le mie intenzioni saranno più perspicue e, ancor di più, se si preciseranno le coordinate di una prospettiva ecdotica in cui nulla va «ricostruito», perché niente è stato «distrutto»; e nemmeno si tende a restituire in via ipotetica un archetipo smarrito e forse mai tangibilmente esistito, per definizione optimus e via via degradatosi nelle sue imperfette, corrotte riproduzioni, giacché l’opera, nella lezione licenziata dall’autore, è a nostra portata di mano. È una prospettiva di contro più complessa e solo nominalmente, per così dire, capovolta: in essa, difatti, i testimoni recentiores, già dopo Giorgio Pasquali ammessi non deteriores, non sono però di necessità accettabili come senz’altro meliores — anzi meta raggiunta, immigliorabile e addirittura ottima dell’iter creativo — e pertanto suggellati dal definitivo ne varietur dell’autore. Essi semmai presuppongono, trovano giustificazione fondante nei testimoni antiquiores, o piuttosto antiquissimi (dalla nota sparsa allo scartafaccio, ai prodotti delle successive fasi e decantazioni scrittorie), i quali al cospetto dei recentiores o ultimi, espressione dell’optima voluntas dell’autore, sarebbero certo da considerare tout court 12. Cfr. rispettivamente i saggi accolti in E. PAPA, (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 69-80 e 59-67. 13. Dalle lontane Mario FUSCO (ed.), «Questions à Vincenzo Consolo», La Quinzaine Littéraire, 321, 1980, 16-17; a Marino SINIBALDI (ed.), «La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo», Leggere, 2, 1988, 8-15; dalla più organica uscita in volume dal titolo guttusiano (è la didascalia di un quadro [olio su tela, cm.147,2 x 256,5] del 1940, finito l’anno prima e conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma), V. CONSOLO, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma: Donzelli, 1993, a quelle recentissime, l’una a cura di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 123-138, o l’altra leggibile in internet, a cura di Dora MARRAFFA e Renato CORPACI, Italialibri, www.italialibri.net, 2001. 14. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori, 1997, p. 173-183; poi in ID., Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 276-282, ed anche nell’ultima riproposta del Sorriso, ed. 2004, p. 167-175. destituiti di tutti i valori loro attribuibili dalla stemmatica classica, in quanto — pur prossimi al codice x dell’opera — non si collocherebbero al di sotto di esso, non ne costituirebbero una fase cronologica più bassa, inferiore, bensì soltanto e nient’altro che il più alto, superiore e superato, perciò trascurabile, stadio magmatico embrionale. E tuttavia, per ciò stesso, tali reperti vanno sottoposti ad accurata recensio e collatio, e risultano necessari e imprescindibili per studiare il di-venire del testo dalla prima intelaiatura verso la tessitura rifinita, proprio perché nella genesi dell’opera rappresentano il caos primordiale, l’arché primigenia, non formata, l’impulso d’avvio e soprattutto la prova dei vari movimenti del testo fino al risolutivo colpo di timone dell’autore, insomma una sorta di illuminante pre-archetipo.15 3. L’emerso Per comodità converrà sin dall’inizio tracciare la mappa delle edizioni a stampa [in grassetto l’ulteriore precisazione cronologica], anche perché sono quelle consultabili ed accessibili, e ad esse si rimanderà spesso: 1969 «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Nuovi Argomenti, Nuova Serie, n. 15 [luglio-settembre]: edizione parziale, cap. I, senza Antefatto né Appendici I e II; 1975 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Gaetano Manusé, edizione numerata con un’incisione firmata di Renato GUTTUSO: edizione parziale, cap. I, con Antefatto e Appendici I e II; e cap. II, L’albero delle quattro arance, senza Appendici I e II [autunno]; 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi: editio princeps [finito di stampare 10 luglio, 1ª ed.; 18 settembre, 3ª ed.]; 1987 Il sorriso dell’ignoto marinaio, intr. Cesare SEGRE, «Oscar oro. 9», Milano: Mondadori [marzo]; 1992 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Nuovi Coralli. 464», Torino: Einaudi; 1995 Il sorriso dell’ignoto marinaio, ed. commentata a cura di Giovanni TESIO, intr. Cesare SEGRE, «Letteratura del Novecento», Milano: Elemond Scuola [dicembre]; 1997 Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori [febbraio]; 2002 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar scrittori del Novecento», Milano: Mondadori [gennaio]; 2004 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori [marzo]. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 117 15. Solo qualche riferimento bibliografico ormai canonico: Louis HAY (ed.), Essais de critique génétique, Paris: Flammarion, 1979; Amos SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XX siècle. Théorie et pratique de l’édition critique, Roma: Bulzoni, 1988; Almuth GRÉSILLON, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris: P.U.F., 1994; Giuseppe TAVANI, «Filologia e genetica», Cuadernos de Filología Italiana, 3 (1996): 63-90; Michel CONTAT & Daniel FERRER (edd.), Pourquoi la critique génétique? Méthodes, théories, Paris: CNRS Éditions, 1998. 118 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina Non è agevole fissare date precise di avvio di una scrittura, neanche — si sa — nel caso di scrittori ancora produttivi con cui poter dialogare. Nel caso del nostro libro, ad ogni modo, tutto il movimento del testo — è ovvio — sarà iniziato verosimilmente tra l’a quo di La Ferita dell’aprile, il «mese più crudele» di eliotiana memoria, cioè il 1963,16 e la prima «orditura» licenziata dall’autore: quel Il sorriso dell’ignoto marinaio apparso su Nuovi Argomenti (luglio-settembre 1969), che corrisponde grosso modo al futuro cap. I del libro, ma non è ancora corredato né dell’Antefatto, né delle due Appendici documentarie a firma del protagonista, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca.17 È un dato accertato, comunque, che le pagine appena ricordate, già dotate evidentemente, all’avviso dell’autore, di una loro autonomia e compiutezza narrativa, erano state in precedenza mandate, ma senza esito, alla rivista Paragone di Roberto Longhi e Anna Banti. A motivare l’invio è appunto il Trittico siciliano di Longhi, scritto in occasione della grande mostra del 1953 a Messina su Antonello e la pittura del ‘400 in Sicilia, ma il critico, in un incontro pubblico a Milano nel 1969, all’autore che chiedeva notizie del suo racconto così rispondeva severamente: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». 18 Rievocando l’episodio, Consolo cerca di giustificarlo così: Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare Antonello. Quello effigiato lí era un ricco, un signore. Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria.19 Il testo veniva, allora, risolutamente spedito a Enzo Siciliano ed usciva finalmente su Nuovi Argomenti, la rivista di Alberto Carocci, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. La memoria personale dell’autore, corroborata dalla testimonianza di Caterina Pilenga, conosciuta subito dopo il trasferimento a Milano nel Capodanno del 1968, e da un certo punto in possesso di «ambo le chiavi | del cor» consoliano,20 questa doppia memoria fornisce altri dati di notevole interesse nella cronologia del farsi dell’opera. 16. Dal colophon si estraggono i seguenti dati più precisi: «[…] impresso nel mese di settembre dell’anno 1963 […] Il Tornasole — Pubblicazione periodica mensile — Registrazione Tribunale di Milano n. 6273 del 14-3-1963 […]». Dell’opera si attende l’imminente versione spagnola a cura di Miguel Ángel Cuevas. 17. La pubblicazione — sia concessa l’indiscrezione — avrebbe fruttato all’autore un compenso di Lit. 16.000. In una lettera della direzione della rivista del 12 dicembre 1969, infatti, si conferma l’avvenuta pubblicazione (nel «numero testé pubblicato») e si comunica l’emissione di un assegno di tale importo. 18. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 37-38. 19. Ibid., p. 38. 20. Così viene presentata la futura moglie: «una delle cinque o sei persone che avevano letto» con entusiasmo la Ferita su segnalazione di Raffaele Crovi (Ibid., p. 35). Il quale è tra l’altro fra In primo luogo, riporta la chiusura del racconto, con quelle verosimili fattezze, a quell’anno 1968 e informa dell’avvenuta stesura, a quella data, e prima dell’arrivo a Milano nel gennaio 1968, anche del futuro cap. II L’albero delle quattro arance; inoltre, conferma che, dopo il fisico manifestarsi in Nuovi Argomenti, il progetto narrativo, di cui il racconto pubblicato è la prima concretizzazione, viene momentaneamente accantonato, anche se l’autore è nel frattempo preso dalla stesura del futuro cap. III Morti sacrata, che nessuno ha letto, tranne la moglie Caterina, e di cui alcuni sono a conoscenza (Corrado Stajano); infine, aggiunge che nel 1975 Consolo ottiene dalla RAI, nella cui sede milanese lavorava,21 un permesso di sei mesi, lascia Milano e torna in Sicilia dove collabora al giornale L’Ora di Vittorio Nisticò22 ed è raggiunto quell’estate da Caterina. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 119 i pochi frequentati da Consolo, oltre al conterraneo Basilio Reale, sin dal tempo del primo soggiorno milanese (G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 11): sono i tre anni della frequenza della Cattolica (1952-56), che saranno poi seguiti dal servizio militare a Roma, dalla laurea a Messina, dal praticantato notarile, dall’inizio del lavoro d’insegnante nel 1958 (E. PAPA, art. cit., p. 194). 21. A sottolineare i difficili rapporti di lavoro, l’azienda viene definita, una «fabbrica di armi» (V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 34). 22. Vale la pena di riportare sull’esperienza giornalistica consoliana un brano dello stesso V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, I, Palermo: Sellerio, 2001, p. 113-114: «[…] Vincenzo Consolo, sebbene vivesse ormai a Milano, da inquieto esule qual era, non perdeva occasione per tornare in Sicilia, dai suoi a Sant’Agata, e far sosta, potendo, anche al giornale. In fondo, tra i nostri scrittori era quello che sentivamo più di casa, il più famigliare. Amavamo di lui il garbo, la modestia, il senso di amicizia, gli accenni di sorridente ironia, non meno di quanto ci affascinassero i ricami della sua scrittura, la sua totale mediterraneità, quei fuochi improvvisi della sua passione letteraria e civile. Tra il ‘68 e il ‘69 pubblicammo una sua rubrica di annotazioni, «Fuori casa», un piccolo gioiello di giornalismo che diventa letteratura. || Nei primi mesi del ‘75 Consolo si trasferì per un po’ di tempo a Palermo; glielo avevo chiesto perché ci desse una mano in vista delle importanti elezioni amministrative di giugno e di un evento che ci interessava direttamente: la candidatura di Leonardo Sciascia al consiglio comunale di Palermo. Era, la venuta di Consolo, un ritorno in redazione dopo l’esperienza di alcuni anni prima, quando si era trasferito da Sant’Agata per lavorare al giornale e impratichirsi del mestiere. Ma si era trattato di un’esperienza durata relativamente poco, interrotta dalla decisione di andarsene a Milano e dare, da allora in poi, la priorità assoluta alla letteratura; sarebbe stata lei la sua vita, il suo destino. || Tuttavia un desiderio di giornalismo, sebbene latente, rimase sempre vivo, e pronto a venir fuori quando si presentava l’occasione buona. Fu così in quei mesi del ‘75, quando facendo la spola tra la casa materna di Sant’Agata e la nostra redazione, si buttò con manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. Partecipando dapprima con articoli e interviste alla campagna per il buon governo e la candidatura di Sciascia, poi nell’estate andando in giro col taccuino del cronista a seguire a Trapani il processo al «mostro di Marsala» (l’uomo che aveva fatto morire tre bimbe gettandole vive in un pozzo), o la vicenda del sequestro Corleo, il patriarca delle esattorie. In pieno agosto, si era persino spinto, e credo anche divertito, a fare un «viaggio» di osservazione tra gli uffici semideserti di Palermo capitale. Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a «Il sorriso dell’ignoto marinaio»: il capolavoro che da lí a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione. A dicembre ne pubblicammo in anteprima un capitolo: la festa in casa del barone Mandralisca.» 120 Siamo dunque, estate del 1975, alla vigilia dell’edizione numerata in 150 esemplari con incisione firmata di Renato Guttuso per i tipi di Gaetano Manusé, edizione nel cui colophon è dichiarata la data dell’«autunno MCMLXXV». Manusé, da Valguarnera Caropepe di Sicilia, titolare prima di una bancarella poi di una libreria antiquaria a Milano, si era dichiarato interessato a pubblicare qualcosa di Consolo e, saputo dalla moglie Caterina, sollecitata in tal senso, dell’esistenza di un prosieguo del racconto già apparso sulla rivista moraviana, propone la pubblicazione per bibliofili del Sorriso. Basta ricordare che della composizione e tiratura si occuperà Martino Mardersteig della Stamperia Valdonega di Verona, erede della prestigiosa Officina Bodoni di Verona fondata dal padre Giovanni Hans, e che per l’occasione Leonardo Sciascia coinvolgerà Renato Guttuso il quale, rileggendo il ritratto di Antonello, appresterà un’incisione in cui viene rovesciata l’angolazione dell’immagine rispetto all’attante: il trequarti del misterioso personaggio non è rivolto a sinistra, ma a destra.23 Domenica 30 novembre 1975, la pagina culturale di Il Giorno di Milano pubblica un lungo articolo di Corrado Stajano, dal titolo redazionale molto allettante.24 Al corrente delle alterne, combattute vicissitudini dello scriptorium di Consolo, conscio di quanto vi sta accadendo, Stajano fa una mossa a sorpresa: recensisce il libro appena uscito, ma ad un tempo, parlandone come della parte di un tutto imminente, sembra voler forzarne la definitiva confezione. Dopo aver presentato, difatti, le attività del libraio, così scrive: Adesso Manusé ha esaudito il gran sogno della vita, è diventato editore e c’è la possibilità, dicono gli uomini di penna, che questo primo libro che ha stampato, […] possa creare un nuovo caso letterario. Perché qui si sono incontrate due corde pazze siciliane, quella di Manusé e quella dello scrittore del libro, o meglio dei primi due capitoli del libro pubblicati in questo volume, che gli editori, quando il romanzo sarà finito, certo si contenderanno, perché «Il sorriso dell’ignoto marinaio» è un nuovo «Gattopardo», ma più sottile, più intenso del romanzo di Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia poetico, di venosa lava sanguigna e insieme razionalmente freddo nei suoi teoremi dell’intelligenza. Uno scritto che arriva dentro l’impensata bottiglia di Manusé e che non ha nulla in comune con nessuno dei 17 mila libri che si pubblicano ogni anno in Italia. Gli articoli pubblicati nel 1975 sono: «Un moderno Ulisse fra Scilla e Cariddi. Sfogliando il Gran libro di Stefano D’Arrigo» (22 febbraio); «L’avventurosa vita di Emilio Isgrò» (4 aprile); «Il malgoverno e l’impegno politico di Sciascia. Conversazione con Alberto Moravia» (30 maggio), «Il malgoverno e l’Università. Conversando con il Rettore dell’Università di Palermo, Giuseppe La Grutta» (13 giugno); vari servizi per il «Processo al “Mostro di Marsala”» (20, 21, 25, 30 giugno; 5, 11 luglio) e sul sequestro dell’esattore Luigi Corleo (18, 19 luglio); «A colloquio con il tenore Di Stefano» (14 luglio); «Tanta scienza e un po’ di show» (26 luglio); «Che ne pensa Grassi, sovrintendente della Scala, del “caso Lanza Tomasi”?» (29 luglio); «In giro per gli uffici ad agosto» (9, 13 agosto); «Il giallo Majorana visto da Sciascia» (9 settembre). 23. L’incisione all’acquaforte viene eseguita a Palermo, in una stamperia vicina alla Galleria Arte al Borgo frequentata dallo scrittore di Racalmuto. 24. C. STAJANO, «Il sorriso dell’ignoto marinaio. Due siciliani pazzi per un libro “unico”», Il Giorno, Domenica 30 novembre 1975, 3. E più avanti, in chiusa, fornisce anticipazioni sulla fabula e sprona, quasi rimbrotta l’autore: Vincenzo Consolo, con tutte le sue contropoetiche, politicamente motivate, è troppo scrittore per rinunciare a scrivere, come avrebbe voluto. Gli è successa la sorte descritta da Roland Barthes ne «Il grado zero della scrittura»: «Partito per uccidere la letteratura, l’assassino si ritrova scrittore». […] ora sta lavorando ai capitoli finali del romanzo, la rivoluzione contadina di Alcara Li Fusi, la repressione dello Stato italiano dopo la speranza portata da Garibaldi. Interdonato è il procuratore generale del processo contro i contadini, violenti contro la violenza. Mandralisca gli scrive una lunga memoria, i contadini cercano di narrare loro, la loro storia. Ci riusciranno? «Il sorriso dell’ignoto marinaio» […] è l’ultima difesa di uno scrittore che non voleva scrivere più perché, quando il mondo s’incendia, la vita è meglio viverla che raccontarla. C’è da pensare che, sotto la forte pressione morale-psicologica delle tre colonne di Stajano, Consolo raccogliesse il guanto della sfida che vi era insita e che, nello scorcio del 1975 e il primo semestre del 1976, con un lavoro che non si fa fatica ad immaginare, con il Leopardi da lui tanto amato, «matto e disperatissimo», stendesse e organizzasse il resto dell’opera: gli attuali capitoli IV-IX. Einaudi finisce, infatti, di stampare la prima edizione del libro quale sarà conosciuto dal vasto pubblico, l’editio princeps, il 10 luglio 1976 e ne farà circolare altre due stampe identiche, la terza licenziata il 18 settembre dello stesso anno. 4. Tra emerso e sommerso Questi in buona sostanza i punti fermi del farsi del testo, i momenti fondanti della sua storia esterna. Se ne trae l’immediata idea di un progetto in crescendo, in progressione geometrica.25 Ma questi dati, relativi al merito e alle vicende dei soli testimoni a stampa, rappresentano solo l’emerso del testo e, in una prospettiva ecdotica critico-genetica, vanno naturalmente confrontati con quelli di quante altre fonti sia ancora possibile sottoporre a recensio e collatio. E qui, come anche per ogni altra opera di qualsivoglia altro scrittore, qualunque sforzo risulterebbe vano se l’autore volesse tutelare ad oltranza la legittima riservatezza della propria fucina, del proprio scriptorium. Il lavoro insomma Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 121 25. Forzando la suggestiva immagine del fondamentale saggio di Cesare SEGRE, «La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino: Einaudi, 1991, p. 71-86 (trattasi dell’«Introduzione» dell’edizione 1987 del Sorriso, p. V-XVIII, ripubblicata in quella del 1995, p. V-XIX), è come se tessere autonome (dal racconto iniziale, cap. I e II, all’integrazione del resto) si siano andate collocando a formare il mosaico dei gradini della scala tortile, ad imbuto dantesco, che — se si vuole accogliere l’interpretazione dei simboli di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 61-70 — avrebbe consentito la discesa agli inferi e l’ascesa salvifica del protagonista. 122 si bloccherebbe o potrebbe andare avanti solo con le carte di scrittori conservate in biblioteche, fondazioni, centri appositi (l’esempio più noto, Pavia) o variamente e comunque riscattate, come per gli oltre 40 volumi già pubblicati della Collection Archives, 26 il cui comitato scientifico è presieduto dal prestigioso romanista italiano Giuseppe Tavani.27 Nel caso del Sorriso, la generosa disponibilità dei coniugi Consolo, informati della necessità di queste esplorazioni per il mio studio, e in particolare l’amorevole scrupolosità di Caterina nel preservare materiali rivelatisi preziosi, hanno consentito di accumulare ingente informazione sulla scorta degli altri testimoni superstiti: tre bozze di stampa, di cui una eliminanda perché descripta, tre cartellette di dattiloscritti e un fascicolo dattiloscritto rilegato con l’opera intera; cinque manoscritti. Ma prima, per completare il quadro dell’emerso, bisognerà rendere conto anche della contemporanea attività scrittoria del Nostro, in qualche misura dialogante con il progetto non ancora ben definito in quel lasso di tempo. La preistoria del Sorriso, quei tredici anni di lunga gestazione, grosso modo dal 1963 al 1976, sono affiancati da altre scritture. Da una parte, le collaborazioni giornalistiche, tra cui spiccano: la rubrica Fuori casa, tenuta su L’Ora di Palermo;28 e vari reportages per Tempo illustrato. Ai fini dello studio del Sorriso sembrano importanti diversi di tali scritti. In primo luogo, il racconto Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, uscito prima su 26. La collana, diretta da Amos Segala e posta sotto il patrocinio dell’UNESCO, è affidata a un Consiglio di firmatari europei e latino-americani del Protocollo Archivos — ALLCA XX (Association Archives de la Littérature Latino-américaine, des Caraïbes et Africaine du XXe siècle) e sottoposta alla valutazione di un Comitato scientifico internazionale. Le pubblicazioni seguono le indicazioni emerse dai seminari di Parigi (1984) e Oporto (1985), poi confluite nel volume di A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit. 27. Oltre all’art. cit., imprescindibili sono per equilibrio e dottrina: G. TAVANI, «Le Texte: son importance, son intangibilité»; «Teoría y metodología de la edición crítica», «Los textos del Siglo XX», «Metodología y práctica de la edición crítica de textos literarios contemporáneos»; «L’édition critique des auteurs contemporains: vérification méthodologique», tutti in A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit., rispettivamente: p. 23-34, 35-51, 53-63, 65-84, 133-141. Cfr. inoltre: G. TAVANI, «L’edizione critico-genetica dei testi letterari: problemi e metodi», in Venezia e le lingue e letterature straniere. Atti del Convegno, Università di Venezia, 15-17 aprile 1989, Roma: Bulzoni, 1991, p. 323-331; «L’apporto dell’edizione di testi moderni alla pratica ecdotica, ovvero: l’apporto della pratica ecdotica all’edizione di testi moderni», in Anna FERRARI (ed.), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno di Roma, 25-27 maggio 1995, Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1998, p. 545-554. 28. Cfr. l’elenco completo degli articoli firmati da Consolo per il giornale in V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia, op. cit. In particolare, la rubrica Fuori casa inizia il 7 dicembre 1968 e va avanti con cadenze irregolari per tutto il primo semestre del 1969 (11 gennaio, 24 febbraio, 10 marzo; 5, 24 e 25 maggio). Dello stesso anno sono: la recensione a Elio VITTORINI, Le città del mondo (27 settembre 1969) e un articolo sui rapporti tra mafia siciliana e americana (30 settembre 1969). L’Ora, 29 poi in un’autorevole silloge di narratori siciliani:30 un racconto strutturato come cronaca di una visita a Tusa alla famiglia di Carmine Battaglia, ucciso dalla mafia, in cui si innesta un breve brano documentario del 1860 sull’avversione dei nobili latifondisti al decreto garibaldino del 2 giugno 1860 lesivo dei propri privilegi. L’impianto rappresenterebbe quindi il primo, timido apparire, non più di un accenno, di un modo costruttivo esemplato su modelli tedeschi, sul quale, per sua stessa affermazione, Consolo scommette con forza nel Sorriso31 e anche in seguito.32 Poi, su Tempo illustrato, un’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle Eolie affetti da silicosi, come quello dell’incipit del Sorriso, in pellegrinaggio al santuario di Tindari,33 e un’altra su Cefalù e quell’Aleister Crowley che apparirà molto dopo in Nottetempo, casa per casa (1992), e di cui si ha traccia in un quaderno ms del Sorriso che così contribuisce a datare.34 Infine, ancora su L’Ora, il resoconto dell’inaugurazione di una mostra di Guttuso, i cui appunti iniziali e primo svolgimento si trovano in un altro quaderno ms alla cui datazione ci si potrà così approssimare.35 Dall’altra parte, si annoverano le presentazioni di vari cataloghi di mostre, di cui due soprattutto rilevanti per la costituzione testuale del Sorriso: l’una di un’esposizione di Luciano Gussoni (1971), l’altra di un’esposizione di Michele Spadaro (1972), rilevanti in quanto i cataloghi sono latori di due lacerti rifusi rispettivamente nei capitoli VII e I.36 Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 123 29. L’Ora, 16 aprile 1966. All’assassinio sono dedicati sul giornale, sempre in prima linea contro la mafia, articoli di Mauro DE MAURO (in seguito vittima della cosiddetta lupara bianca) e Mario FARINELLA (24, 25, 26, 28 marzo 1966) e di Felice CHILANTI (9 aprile 1966). 30. Leonardo SCIASCIA & Salvatore GUGLIELMINO (edd.), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, p. 428-434. 31. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 32. Se si guarda solo alle opere limitrofe al Sorriso, il metodo sarà applicato, per le appendici erudite, a Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 71-85 (Milano: Mondadori, 1996, p. 93- 129) e, per gli inserti documentari, al racconto lungo «Ratumemi», in Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori, 1988, p. 47-74, altra storia di feudi del secondo dopoguerra, tematicamente piú affine a Per un po’ d’erba… 33. «Così la pomice si mangia Lipari», Tempo illustrato, 17 ottobre 1970, di cui non si ha alcuna traccia nei mss. sottoposti a recensio. In Ms 2 si riscontra invece la prima attestazione di «Una Sicilia trapiantata nella nebbia», che uscirà sempre su Tempo illustrato. L’articolo è conservato nel Fondo personale Consolo con l’annotazione di Caterina Consolo: «1970», senza indicazione del giorno e del mese, ma nel corpo si ravvisa un post quem: «ottobre». 34. Ms 2, ff. 1-5. Cfr. «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre 1971. 35. Ms 4, ff. 41v -33v . Cfr. «Guttuso torna nella “sua” Milano», L’Ora, 18 ottobre 1974. Sempre nell’ambito delle arti figurative, un altro articolo di alcuni mesi prima: «Bruno Caruso provoca Milano», L’Ora, 9 febbraio 1974. 36. V. CONSOLO, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971; ID., «Marina a Tindari», in Michele Spadaro, Como, Galleria Giovio, 15-30 aprile 1972; poi anche in ID., Marina a Tindari, commento a cura di Sergio SPADARO, tiratura in cento esemplari numerati fuori commercio, Vercelli, Arti grafiche Cav. Piero De Marchi, 1972, p. 15-18. Quest’ultima presentazione è firmata e precisamente datata, com’è consuetudine dello scrittore: «Vincenzo Consolo || (27 febbraio 1972)». Nella fase preparatoria delle giornate di studio di Siviglia, ognuno in possesso e informato di un solo testimone, ci siamo scambiati i dati con il collega Miguel Ángel Cuevas. 124 5. Il sommerso Tornando ora ai testimoni manoscritti e dattiloscritti del Sorriso, non è questa la sede per proporne una descrizione esaustiva. Si cercherà invece di metterne in evidenza la portata facendo solo due esempi su versanti apparentemente diversi. Intanto, sulla loro scorta, sarà possibile qualche correzione di tiro cronologica. Tra i quaderni mss, gli antiquiores, numerati appunto Ms 1 e Ms 2, contengono frammenti confluiti nella lezione di Nuovi Argomenti. Tra il 1969 e il 1975 si collocherebbero gli altri due, denominati Ms 3 e Ms 4: sono latori, infatti, di lacerti non presenti nell’edizione 1969 e interpolati come due scatole cinesi in quella del 1975: l’uno, Ms 3, di un inciso avente per confini: «Lasciò la speronara […] alla sua casa a Cefalù» (ff. 31-30v ), l’altro, Ms 4, di un ulteriore innesto nel tronco dell’inciso precedente: «Dietro questi pezzi […] Caserta e di Versailles» (f. 18). Questi stessi due quaderni Mss 3 e 4 sono inoltre legati dal ricordo, presente in entrambi, del primo incontro tra Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo avvenuto in un giorno segnalato, il primo in cui grazie a una disposizione del Concilio Vaticano II si celebrava la messa in lingua italiana: domenica 7 marzo 1965.37 L’appunto potrebbe essere trattato alla stregua di un indizio temporale e, per come e dove è tradito, una sorta di a quo / ad quem. 38 Il riuso da parte dell’autore di Ms 4, vergato capovolto, assicura poi la trasmissione dell’articolo giornalistico su Guttuso già ricordato e da datare perciò ante il 18 ottobre 1974. Se, infine, contestualmente ai dati appena forniti, consideriamo che Ms 3 tramanda varie stesure di Morti sacrata (futuro cap. III), le prime prove di Val Dèmone (futuro cap. IV), un appunto che rinvia a Il Vespro (futuro cap. V) e che Ms 4 tramanda brani di Val Dèmone e la Lettera di Enrico Pirajno all’avvocato Giovanni Interdonato (futuro cap. VI), si potrebbe inferire che, se non proprio intorno al 1965 (incontro Sciascia-Piccolo), già alla data del 1974 (articolo sulla mostra di Guttuso) o tutt’al più, in ultima istanza, nel 1975 prima dell’edizione Manusé, il Sorriso fosse per buona parte, quasi per intero in movimento. Allo stato attuale, mancherebbero attestazioni mss databili solo dei capitoli VII, VIII, IX. 37. Cfr. Ms 3, ff. 17v e 20; Ms 4, f. guardia 1v . 38. L’appunto sarà sviluppato in Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 142 e ricordato in Fuga dall’Etna, op. cit., p. 23-24, dove viene ulteriormente esteso (testo in corsivo nostro): «Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”. “C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone». L’interesse per il poeta aveva già dato frutto in un’intera pagina del giornale di Nisticò con un articolo: «Il barone magico: Lucio Piccolo», L’Ora, 17 febbraio 1967, accompagnato da quattro canti inediti. Si noti che «Il barone magico» è il titolo scelto da Consolo per il trittico che costituisce la penultima parte della sezione Persone, seconda e centrale di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135, 136-144, 145-149. Se andiamo ora, secondo esempio, alle tre cartellette di dattiloscritti, se ne potrà ricavare informazione sia dai fascicoli contenuti, sia anche dai bifogli di cartoncino colorato (rosa) che li raccolgono e conservano. Ed è informazione di peso circa il crescere del progetto di scrittura e la graduale definizione dell’architettura dell’opera. Solo qualche breve accenno. Si confronti ad es. la copertina della cartelletta denominata Ds 1, contenente prime stesure dei capp. I-VI, con annotazioni a mano di Caterina Consolo, con varie modifiche di titolo, con quella della cartelletta designata Ds 3, contenente tutta l’opera tranne il cap. VI (Lettera…), sulla quale appare già lo schema definitivo autografo con le date relative alla scansione del tempo interno dell’opera, in corrispondenza dei singoli capitoli: un’articolazione in tre parti (la prima: cap. I + App. I e II, cap. II + App. I e II; la seconda: capp. IIIV; la terza: capp. VI-IX) + Appendici finali, numerate «10)» e intitolate inizialmente «10) La fucilazione» e poi poste sotto l’epigrafe generica «10) Appendici»; e ancora qualche titubanza sulla collocazione di Morti sacrata (il capitolo prima segue «3) Val Dèmone» ed è quindi numerato «4)», ma poi entrambe le numerazioni vengono emendate ed invertite). Ancora più illuminante il fascicoletto numerato Ds 1.1, intitolato polisemicamente Carte per gioco e con l’eloquentissimo sottotitolo «(Racconti e cose da raccontare fin dal tempo di Garibaldi)», il quale sembra in tutto e per tutto lo schema strutturale di un’opera non nata, o piuttosto la crisalide che si trasformerà nella futura farfalla:39 le Carte sono articolate in tre tempi: «narrativo» (e sarebbe il Sorriso del 1969, quello di Nuovi Argomenti, preceduto però da un «Antefatto» scritto ex novo e seguito da un’appendice documentaria (Lettera di Enrico Pirajno barone di Mandralisca al barone Andrea Bivona),40 «storico» (con riportati brani documentari storici sulla strage di Alcara e un bollettino di guerra), «magico o poetico», dedicato a Lucio Piccolo, brano che con qualche variante vedrà la luce molto tempo dopo nelle Pietre di Pantalica. 41 È evidente, e non può non sorprendere, come in tempi insospettati ed alti nella cronologia del Sorriso, fossero già tutti presenti i principali semi, gli elementi lievitati nel futuro libro: l’invenzione diegetica, l’analitico storico d’influenza tedesca, il poetico; ci fossero i personaggi e i fatti: insomma, come scrive Enrico Pirajno di Mandralisca, per un momento alter ego dell’autore, «il timbro e il tono, e le parole» (Sorriso, ed. 2004, p. 119). Sembra pure chiaPer una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, 2005 125 39. Il titolo è allusivo: nugae, carte da gioco (tre come i tempi), cartelle dss «per giocare», e verosimilmente anche nel senso traslato del jouer, del play, «da eseguire, interpretare, rappresentare». Ancor di più il sottotitolo, con l’accenno al già raccontato (la propria pièce iniziale) e alle cose o fatti otto-novecenteschi ancora in cerca d’autore, un autore che sappia come raccontarli, e in quale chiave: diversa dalla canonica, allora, da quella suggerita dagli auctores?, non alla Verga, Pirandello, Tomasi, Sciascia? 40. Sarebbe la prima attestazione della futura «Appendice prima» del cap. I. 41. È il primo dei tre capitoletti riuniti — come già detto — sotto il titolo «Il barone magico» nella sezione Persone di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135. 126 come fosse già maturata la scelta del «romanzo storico-metaforico»42 con un occhio rivolto al Manzoni, ma superandone il paternalismo espressivo grazie all’insegnamento di Verga,43 e l’altro ai tedeschi del Gruppo 47, gli «analitici» Hans Magnus Enzensberger, Alexander Kluge ed altri, di cui aveva dovuto leggere pagine sul Menabò vittoriniano (9, 1966) e nelle traduzioni dei primi anni Settanta,44 e che lo riportavano forse al Manzoni che ritratta e, ormai spinto alla negazione dei suoi stessi precetti poetici, è capace solo di redigere la Storia della colonna infame45 che a tutti i costi vuol pubblicare in solido con I promessi sposi (1842).46 Scorgiamo già all’orizzonte, insomma, il Sorriso quale è arrivato a noi, e nella chiave e forma, scelte dall’autore, di «romanzo ideologico», cioè di romanzo «critico», di una ideologia che consiste «nell’opporsi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.»47 42. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70; all’insegna della convinzione più volte manifestata, ed esplicitata dall’esergo di questo stesso libro-intervista (p. 1), che: «Il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la letteratura (H. M. ENZENSBERGER, Letteratura come storiografia)». 43. C. RICCARDI, «Inganni e follie della storia », in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 91. 44. Ibid., p. 82 e p. 109, n. 3. E, prima, cfr. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 45. Nell’a parte, quasi alla fine del cap. VII del Sorriso, viene alla fine omesso un brano dell’Introduzione della Storia manzoniana, che viene bensì riportato nella fonte di quel passo (in corsivo nostro il lacerto tradito da Luciano Gussoni, op. cit. e poi espunto): «Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con squilli lame della notte, perché il silenzio, la pausa ti morde. || Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. «…La rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale…; il timor fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono state issate le colonne dell’infamia. || Ma tu aspetta, fa’ piano. […]» (Sorriso, ed. 2004, p. 130). 46. Un’incisiva descrizione della macerante riflessione manzoniana viene proposta da Giovanni ALBERTOCCHI, Alessandro Manzoni, Madrid: Síntesis, 2003, p. 106-116. 47. In questi termini viene esplicitata la definizione in V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70. Dalla facile accusa di ideologismo mette al riparo la pregnante valutazione di M. ONOFRI, «Nel magma italiano», in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 60: «Consolo, ecco il punto, è un miracoloso scrittore politico: laddove il miracolo sta nel fatto che la politica gli si eserciti sulla pagina per via di un’oltranza di stile.»
scarica pdf
11359730n10p113
‘Il dovere del racconto’
La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo
La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo, le cime imbandierate delle impalcature della Galleria, la cella campanaria di S. Ambrogio, la cupola di S. Maria delle Grazie, la sestiga sopra l’Arco della Pace; s’addensava tra gli ippocastani ed i tigli del Parco, e dai Giardini, scivolava le acque dei Navigli. Era una giornata di novembre del 1872, una di quelle giornate milanesi d’autunno in cui chi approda in città per la prima volta, chi approda dal Sud rimane meravigliato – guardando in alto – che il sole velato e docile possa essere fissato ad occhio nudo al pari di una rossastra luna notturna.
In quella giornata di novembre arrivava a Milano un Siciliano di nome Giovanni Verga. Aveva abbandonato da parecchio gli studi di giurisprudenza e aveva deciso, aiutato dalla madre Caterina Di Mauro, di trasferirsi in Continente per dedicarsi alla letteratura.
Certo, non è che la sua esclusiva professione di letterato, di scrittore, per uno che usciva da una famiglia borghese o di piccola nobiltà appena benestante, non fosse avventurosa; ma crediamo che la famiglia Verga avesse approvato la decisione del figlio perché c’era stato il precedente di Domenico Castorina, loro cugino, poeta e romanziere, mandato in altitalia a spese del comune di Catania per completare e pubblicare un poema in versi. C’era forse anche la suggestione del locale mito artistico per eccellenza, del “cigno di Catania” Vincenzo Bellini, che in Continente aveva raggiunto fama e gloria; e poi Giovanni, precoce come Bellini, aveva dato già buona prova del suo talento e della sua passione letteraria: aveva scritto a 15 anni il suo primo romanzo “Amore e Patria”, a 20 “ I carbonari della montagna”, a 23 “Sulla laguna”.
Milano non era la prima tappa a nord di Verga; c’era stato già un soggiorno di sei anni a Firenze dove si era trasferito nel 1865; Firenze, nuova capitale politica del Regno e vecchia capitale letteraria e linguistica d’Italia. In questa Firenze splendida e suggestiva per un giovane provinciale ambizioso e determinato, Verga abbandona i temi storici e patriottici dei primi romanzi per avventurarsi in quelli amorosi, passionali e mondani. A Firenze, sono ora infatti ambientate “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”. Ma subito, come punto dalla nostalgia, abbandonati i salotti, i concerti, le passeggiate in carrozza alle cascine, ritorna in Sicilia, a Vizzini, alla sua viva memoria di adolescente, al ricordo di una fanciulla timida, triste, malaticcia, chiusa in un convento come una capinera in gabbia, con il romanzo che gli darà la notorietà e gli farà da biglietto da visita per il suo ingresso nel mondo e nella mondanità milanese. La “Storia di una capinera” e l’esotismo del suo autore, giovane meridionale sottile ed elegante, olivastro e pallido, capelluto e baffuto, dall’occhio color della lava, romantico e fatale insomma, fanno subito di Verga un personaggio di spicco nei salotti: nel salotto della contessa Maffei, della Castiglione, Cima, Ravizza, Gargano. “La prima volta che lo vidi fu a causa della Maffei, una domenica sera, e le due salette erano piene di signore, tra cui sei o sette giovani e belle, e queste lo circondavano in tal modo che io non potei appressarmi a lui”; questo scrive Roberto Sacchetti. Il successo dello scrittore Siciliano con le donne scatenerà la gelosia feroce –oltre che a un certo razzismo- di Carducci, il quale temeva che anche la sua amante Lidia fosse caduta vittima del fascino del “bel tenebroso”: un uomo che mette una brutta corona baronale sulla sua carta da visita, che si lascia dare falsamente del cavaliere, e che scrive un romanzo epistolare, e con tutto questo è anche Siciliano, non può che essere altro che un vigliacco, ridicolo, “parvènu”. Ma contrariamente a quanto possa far credere quest’ira schiumosa del vate d’ Italia, e anche senza sposare la tesi di una misoginia verghiana sostenuta da Carlo Matrignani nell’introduzione a Giovanni Verga dei “Drammi intimi” di Sellerio, ora Verga non è un personaggio brancatiano, non è un “Paolo il caldo” che dissipa il suo tempo e il suo talento passando ossessivamente da una aventura amorosa ad un’altra, è un metodico e intransigente lavoratore che concede ai riti mondani solo le poche ore di libertà. Dalla sua prima dimora in piazza della Scala, e di qui alle sue successive dimore in via Principe Umberto e Corso Venezia, muoveva per andare al “Cova”, al “Biffi”, alla “Scala” per passare la serata in uno dei salotti alla moda, per fare le sue passeggiate per le vie del centro. Di una eleganza un po’ troppo puntigliosa nel suo “tight”, nella sua marsina, forse eccessivamente inamidata nella forma, non frequentava certo l’osteria del “Polpetta” di via Vivaio, il ritrovo degli “Scapigliati”, anche se con alcuni di questi aveva stretto rapporti di amicizia. Ma, come sempre capita agli immigrati, sono i conterranei che più frequenta il Verga: quella piccola colonia di Siciliani formata da Onofrio, Farina, Auteri, Navarro della Miraglia, Scontrino, Avellone, a cui si aggiungerà poi Capuana, che il Verga con incessanti lettere aveva convinto a trasferirsi a Milano: “Tu hai bisogno di vivere alla grand’aria come me, e per noialtri infermi di nervi e di mente la grand’aria è la vita di una grande città, le continue emozioni, il movimento, la lotta con noi e con gli altri, se vuoi, pur così…; tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo, appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti; costà tu ti atrofizzi” così scrive nel ’ 74 Verga al suo più caro amico e confratello. Scrive così il Verga che certo vuole strappare dalla provincia il Capuana, sottrarlo alle divagazioni e dissipazioni che gli impegni politici e privati imponevano allo scrittore di Mineo; ma crediamo che, dopo due anni di soggiorno milanese, sente come il bisogno – di fronte a quella realtà, nell’affrontare quella vita che vertiginosamente cambiava sotto i suoi occhi – di un compagno di strada, di un amico fidato, con cui discutere per potere capire. “Si Milano è proprio bella, amico mio, e qualche volta c’è proprio bisogno d’una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni e restare al lavoro”, aveva scritto al Capuana. Ma era soltanto della Milano quando Verga vi giunse nel ‘ 72?
Nel ’ 72 Milano contava 250.000 abitanti; era una città in pieno fermento industriale ed edilizio. Gli opifici della seta e dei latticini, della pasta, della gomma e di altri prodotti ammodernavano i propri impianti. La ditta Pirelli & C, fondata dal ventiquattrenne ingenier Giovanni Battista Pirelli, inaugurava la sua fabbrica per la produzione di oggetti in gomma plastica e guttaperca. Dalla nuova Stazione Centrale partivano le linee per il Veneto, il Piemonte, la Toscana, la Liguria, l’Emilia, il Lazio e giù fino alle Marche. La città in fermento aveva anche bisogno di ristrutturarsi e di espandersi: si sistema poi la piazza del Duomo; erano già stati iniziati i lavori per la Galleria la cui esecuzione, affidata ad una società inglese, era diretta dall’architetto Mengoni che in bombetta e spolverino si faceva fotografare sulle impalcature. Da quelle impalcature il povero Mengoni poi, accidentalmente precipiterà trovando la morte. Il duca Melza d’Eril offre al comune una vasta area per nuovi palazzi fuori Porta Nuova. A Porta Ticinese sorge una nuova stazione sussidiaria, e sorgono anche case operaie in via Solforino e Montebello. Il 4 settembre 1872 veniva inaugurato in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci. Nello stesso anno era stato aperto al pubblico il Teatro “Dal Verme”, quel teatro “Dal Verme” dove si darà poi la “prima” della Cavalleria rusticana. Sempre nel ‘ 72 si organizzano a Roma e Torino congressi di sezioni e federazioni operaie aderenti all’Internazionale dei Lavoratori.
Cominciavano tra il ‘ 75 e il ‘ 76 le inchieste in Sicilia promosse dal Parlamento e condotte da studiosi come Fianchetti e Sonnino, da giovani colti e disinteressati, come dice Capuana nel saggio “La Sicilia e il brigantaggio”. Dalla Sicilia arrivavano dalle delegazioni dei prefetti le notizie più preoccupanti sulla mafia, sulle condizioni dei contadini e degli zolfatari; dell’inchiesta Fianchetti e Sonnino, quello che aveva colpito di più la opinione pubblica era stato il capitolo supplementare dal titolo “Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare Siciliane”; si alzava per la prima volta il velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta, e l’Italia ne rimaneva inorridita. Anticipando quì in tanto un nostro assunto – di cui diremo più avanti – se “Nedda” del ‘ 75 può essere stata scritta dal Verga sulla spinta di un bisogno di un ritorno sentimentale in Sicilia, in una Sicilia contadina sepolta nella memoria, vista e conosciuta nella sua verità negli anni dell’adolescenza, possiamo ipotizzare che “Jeli il pastore” e “Rosso malpelo”e “Vita dei campi” dell’ 80 siano stati dettati dalla presa di coscienza di un’altra Sicilia, attraverso lo specchio delle sopradette inchieste? Presa coscienza dell’assoluta naturalità dell’intatto mondo ultraliminare, presociale del tredicenne guardiano di cavalli di Tepidi e di Jeli, della disumana, terrifica, quasi onirica, quasi metafisica condizione cunicolare, labirintica del capomonte Malpelo; l’una e l’altra tanto simili alle condizioni dei contadini e dei “carusi” delle zolfare di Franchetti e Sonnino.
Ma andiamo con ordine; ritorniamo a Milano, ritorniamo alla profonda trasformazione, al fermento di innovazione in campo industriale, sociale, urbanistico di cui la società è preda a partire dal 1872, innovazione e trasformazione che trova il suo culmine e la sua massima espressione nell’Esposizione Nazionale dell’ 81. Quell’anno Verga abita in Corso Venezia, all’angolo dei Bastioni di Porta Manforte, e l’Esposizione si svolge vicino a casa sua da via Senato ai Bastioni di Porta Venezia, occupando il boschetto e i Giardini. Molti letterati che credono nel progresso inneggiano all’Esposizione: Boito tiene una conferenza nel padiglione delle arti; alla Scala, durante i giorni dell’Esposizione si rappresenta il “Ballo Excelsior”, l’opera Romualdo Marengo su libretto di Luigi Manzotti. I temi dei vari quadri del balletto sono: l’Oscurantismo, la Luce, il Primo battello a vapore, i Prodigi dell’invenzione, il Genio dell’elettricismo, e via di queste immagini; il balletto si conclude con l’inno alla Scienza al Progresso, alla Fratellanza, all’Amore. Scrive Manzotti nella prefazione al libretto: ”Vidi il monumento innalzato a Torino in gloria del portentoso traforo del Cenisio, e immaginai la presente composizione coreografica, e la titanica lotta del progresso contro il regresso, che io presento a questo intelligente pubblico, e la grandezza della civiltà che vince, abbatte e distrugge per il bene dei popoli l’Antico potere dell’Oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia”: ce n’era abbastanza… E anche se il simbolismo retorico dell’ “Excelsior”, il suo ingenuo declamatorio ottimismo in un progresso al ritmo di mazurca non sono da paragonare alle “magnifiche sorti e progressive” del Mariani, o al “migliore dei mondi possibili” del Leibniz, avranno sicuramente suscitato nell’animo di Verga reazioni o sentimenti simili a quelli espressi nel leopardiano pessimismo cosmico della “Ginestra”, o nel volterriano scetticismo rappresentato con sprizzante ironia dal Candido. E non certo il solo, leggero Ballo Excelsior (ammesso che Verga l’abbia visto rappresentato alla Scala), ma tutto quanto avveniva sotto i suoi occhi, l’affacciarsi alla ribalta e prendere direzione e potere economico di una nuova intraprendente borghesia imprenditoriale, da una parte, dall’altra, un organizzarsi e prendere parola di una plebe che si fa popolo, si fa mondo del lavoro e che antagonisticamente reclama e difende i suoi diritti. Non a Firenze ma a Milano gli si rivela tutto questo, nella Milano industriosa e laboriosa, capitale della scienza e della tecnica, gli si rivelano due mondi in movimento, due realtà insieme complementari e in conflitto, che dai salotti nobiliari, dalle strade del lusso, dai luoghi conclamati dell’arte difficilmente si potevano scorgere; e neanche si intravedevano dalle crepuscolari patetiche portinerie, dai bastioni, dai viali, dalle gallerie, dai veglioni alla Scala, dalle osterie, da tutti i luoghi frequentati da dimesse e rassegnate sartine, commesse, doganieri, servette, soldati, ballerine, da tutte le persone che “non sbraitano, non stampano giornali, non si mettono in prima fila nelle dimostrazioni” (questo è un brano tratto da “Per le vie”, un racconto intitolato “Piazza della Scala” di Verga). A Milano si rivelano al Verga delle nuove storie, gli si rivela una nuova storia di cui non ha cognizione, memoria, linguaggio e di fronte alla quale si ritrae sbigottito, si ritrae da questo capitalismo inventivo e intraprendente per rifugiarsi nell’arcaico capitalismo terriero e feudale della sua Sicilia.
Nasce a questo punto nello scrittore il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia e riprendere contatto con la sua terra, alla quale egli ritornava con l’animo del figliol prodigo, come all’unico bene che ancora gli rimanesse intatto e solido dopo tanta dissipazione.
Ben vicino e tangibile, eppure indecifrabile e remoto come un miraggio, come l’ideale oggetto di una suprema e già disperata nostalgia” scrive Natalino Sapegno. Un mondo intatto e solido fuori dalla storia, e in contrasto, nel suo movimento circolarmente chiuso, con l’illusione del cammino progressivo della storia. Recupera quindi il suo mondo, Verga, memorialmente e soprattutto linguisticamente, con una lingua che appartiene al mondo narrato e anche al soggetto narrante, che poi significa – per la teoria dell’impersonalità di Verga – al mondo che si narra da sé. Una lingua che non è matericamente e naturalisticamente la sua lingua dialettale, ma un italiano irradiato di sentimento e di ideologia dialettale, una lingua periferica in conflitto con la lingua centrale: conflitto da cui nasce la poesia, come dici Luigi Russo. Non finiremo mai di ringraziare gli ingegneri e gli industriali milanesi che, con il loro attivismo ed il loro progressismo, ci hanno restituito uno scrittore della grandezza del Verga; gli stessi ingegneri e industriali, la stessa borghesia milanese, che in anni più recenti, ci darà uno scrittore come Carlo Emilio Gadda.
L’81, storica data dell’Esposizione Nazionale e della pubblicazione dei “Malavoglia”, non è l’anno della caduta di Verga da cavallo sulla via di Damasco, o sui viali del parco di Monza; la conversione naturalmente ha radici più profonde, comincia a serpeggiare da epoche remote, dal ’74 almeno, dall’anno di pubblicazione di “Nedda”, e ancora dal ’75, quando Verga pubblica sull’Illustrazione Universale di Emilio Treves, in quattro puntate, una strana novella, un racconto gotico, nero: “Storie del Castello di Trezza”; quel racconto è affatto giovanile, primitivo, è vecchio di già; “è un mio vecchio peccato di gioventù, quella novella” scriverà Verga al suo traduttore Edoardo Rod e aveva a quell’epoca 35 anni e una solida fama di scrittore; in quella brutta novella Verga si scopre a guardare giù da sopra gli spalti del Castello di Trezza, il mare ed il paese di Acitrezza; guarda attraverso Donna Violante, uno dei personaggi del racconto: “il mare era levigato e lucente, i pescatori sparsi per la riva o aggruppati davanti agli usci delle loro casupole chiacchieravano della pesca e del tonno e della salatura delle acciughe; lontano lontano, perduto fra la bruma distesa, si udiva a intervalli un canto monotono e orientale; e sorprese sé stesa, lei così in alto nella fama dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così in basso, ai piedi delle sue torri; poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto.” Siamo qui ad una vera propria epifania, ad un “introibo”, e qui forse bisognerebbe – dopo aver raffrontato questo Castello di Trezza con la torre di Sandycove sulla spiaggia all’apertura dell’Ulisse di Joyce, da cui parte l’Odissea linguistica di Stephen Dedalus: “introibo ad altare Dei” incomincia con sarcastica solennità il suo amico Mulligan-Cristostomo – soffermarsi sulla posizione così in alto da cui si guarda al mondo degli umili e scoprire che Verga, nonostante la scientificità e l’obiettività del suo punto di vista, nonostante l’impersonalità del risultato, non sfugge a quanto Natalino Sapegno dice dei veristi: “Il verista italiano rimane in sostanza il gentiluomo che si piega a contemplare con pietà sincera ma un tantino condiscendente la miseria materiale e morale in cui le plebi sembrano immerse senza speranza in un prossimo futuro”; sono insomma, i veristi italiani secondo Sapegno, tutti afflitti dal complesso del “signor Marchese con… asterischi” del XXVIII capitolo dei Promessi Sposi, l’erede di don Rodrigo che serve a tavola Renzo, Lucia, Agnese e la mercantessa, ma che non si abbassa a mangiare insieme a quella buona gente.
E’ un serpeggiare, quello della conversione, con “Nedda” e con “Storie del Castello di Trezza”, sotterraneo e subcoscenziale; ma dopo il suo sgorgare alla superficie con “Cavalleria Rusticana” e con “La Lupa”, ancora intrise nel loro impeto di pietre dialettali e di terriccio toscano, ecco che con “Fantasticheria” siamo alla piena coscienza, siamo come al manifesto della nuova poetica, alla dichiarazione d’intenti del suo futuro lavoro il quale raggiungerà da lì a poco le vette di “Jeli il pastore” e “Rosso Malpelo” e si dispiegherà nei due grandi poemi dei “Malavoglia” e di “Mastro don Gesualdo”
Con l’abbandono di Milano, col ritorno a Catania in quella sua casa di via S. Anna, tutto denunzia la volontà dello scrittore di rimanere chiuso nella prigione di una rigorosa solitudine. Risalendo dal limite estremo della spiaggia, dai faraglioni del mare di Acitrezza, su verso le chiuse e le masserie di Vizzini, fino alle soglie dei palazzi nobiliari di Palermo, ripercorrendo tutti i livelli linguistici a noi noti, da quelli dei pescatori e dei contadini a quelli dei proprietari terrieri Siciliani, Verga sarà incapace di andare oltre. Dalla frase musicale d’attacco del primo romanzo del ciclo dei vinti “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”, all’ultima tragica frase del Mastro don Gesualdo che si spezza in un crescendo come in un’opera di Wagner “tutto! Pigliatevi tutto! Lasciatemi stare! L’Alia, la Canziria! Lasciatemi stare!” Verga non sarà più capace di orchestrare, di modulare le frasi nei saloni del Palazzo palermitano del duca di Leira. Risentito e scontento, dissiperà così il suo tempo a Catania, tra la casa e il Circolo dell’Unione, la conduzione del giardino d’agrumi di Novaluccello, le beghe giudiziarie, la cura e l’amministrazione dei beni dei nipoti, la corrispondenza con Tina di Serdevolo e i periodici viaggi in Lombardia e in Svizzera; e si chiuderà man mano in sé stesso, in una solitudine e in un’accidia senza rimedio. Dice sempre di lavorare alacremente alla “Duchessa di Leira”, ma pubblica i due bozzetti teatrali “Caccia al Lupo” e “Caccia alla Volpe” e pubblica anche, forse sulla spinta delle rivolte socialiste del ’93 di contadini e zolfatari, in opposizione ad esse, “Dal tuo al mio”, un dramma teatrale che poi diventerà romanzo: il 2 settembre 1920 si rifiuterà di presenziare, al Teatro Massimo di Catania, ai festeggiamenti in suo onore per l’ottantesimo compleanno. Pirandello, in quella occasione, leggerà il suo celebre saggio sul grande scrittore catanese, e Verga l’indomani andrà a trovarlo in albergo per dirgli: “perdonami, Luigi; a te tutta la mia gratitudine; ma dall’Italia ufficiale non voglio onoranze”. Diceva questo a quel Pirandello che, con precise disposizioni testamentarie, si sottrarrà a sua volta, morendo, alle manifestazioni ufficiali che il regime fascista gli avrebbe con certezza tributato.
Verga muore nel gennaio del 1922 nella sua casa di Catania. Lì si concludeva la vita di questo grande scrittore emigrato al Nord e ritornato nella terra da cui era partito, la vita del primo autore della letteratura Siciliana moderna che sente il bisogno di lasciare la periferia d’Italia, d’Europa, di lasciare l’Isola e approdare a Milano, al centro “ideale”, a quella che Salman Rushidie chiama la “patria immaginaria”. Dopo e insieme a Verga è il confrère Luigi Capuana che approderà a Milano nel 1887 e vi rimarrà fino al 1880. Verga “scrive” Milano nelle dodici novelle di Per le vie, e scrive in un libro collettivo dal titolo Milano nella sua vita, nell’arte, nei suoi costumi e nell’industria (1896) un testo, I dintorni; e Capuana, nello stesso volume, appare il brano In Galleria.
È Verga che terrorizza la necessità della ” distanza “, della lontananza dalla Sicilia per scrivere della Sicilia. In una lettera del 1878 scrive a Capuana: “… da lontano, in questo genere di lavori, l’ottica qualche volta, quasi sempre, è più efficace d’artistica, se non più giusta, e da vicino i colori sono troppo sbiaditi… “. Questa affermazione di Verga si può costare a un’altra di Nikolaj Gogol’: ” io posso scrivere della Russia stando a Roma. Solo da lì essa si erge dinanzi in tutta la sua interezza, in tutta la sua vastità “.
Nel 1918 arriva a Milano, proveniente da Roma, Giuseppe Antonio Borgese, arriva in una città tutta imbandierata per le celebrazioni della vittoria della Grande Guerra. E sulla prima guerra mondiale e sul dopoguerra, Borgese, già famoso per i suoi saggi letterari, scriverà il romanzo Rubè , che si svolge tra Milano, il Lago Maggiore, Roma e la Sicilia, la terra del protagonista Filippo Rubè. Scrive già da anni, Borgese, sul Corriere della Sera, e a Milano insegna alla Accademia Scientifico-Letteraria; nel ’26, sarà creata per lui, all’università, la cattedra di estetica. Nel 1931, lo scrittore abbandonerà Milano ed emigrerà in America per ragioni politiche, per opposizione al fascismo. E in America pubblicherà, nel 1935, il libro Golia, marcia del fascismo. E in Golia ritornerà a scrivere di Milano, delle ragioni culturali politiche per cui possa esser nato in questa città, nel paese un fenomeno come Mussolini, possa esser nato il fascismo. Racconta, fra l’altro, di una serata del gennaio del 1919 alla Scala, il cui il vecchio socialista Leonida Bissolati teneva una conferenza. Da un palco di proscenio, Mussolini insieme a Marinetti cominciò a rumoreggiare, a disturbare la conferenza. Bissolati si fermò e guardò verso quel palco e riconobbe Mussolini.
” Volse la testa verso gli amici che gli erano vicini e disse a bassa voce:’ Quell’uomo no!’. Quell’uomo invece da lì a tre anni, partendo da Milano, avrebbe compiuto la famosa marcia su Roma. Quell’uomo sarebbe stato accettato e osannato per vent’anni in questo nostro sciagurato Paese.
Nel 1933 Elio Vittorini è a Firenze, sua tappa, come quella di Verga, prima di trasferirsi a Milano, dove si stabilirà definitivamente nel dicembre di quello stesso anno.
” Sai che è la più bella città del mondo? Anzitutto è città: quando si è dentro si pensa che il mondo è coperto di case… ” Scrive all’anglista Lucia Rodocanadi. Il siracusano Vittorini ha, nei confronti dell’industriosa e industriale Milano, un atteggiamento opposto a quello di Verga, rifiutandosi il ripiegamento nella passività e rassegnazione di Verga, la sua visione metastorica, il suo “fatalismo”, l’arcaico mondo contadino Siciliano. Milano è per Vittorini la città degli Illuministi, di Manzoni e di Cattaneo, la città attiva, degli operai che hanno coscienza di “classe” e un atteggiamento attivo nei confronti della storia, la città dell’industria a misura d’uomo, il cui modello è rappresentato da un imprenditore come Adriano Olivetti. “Scrive” Milano, Vittorini, con Conversazioni in Sicilia, in cui il protagonista ed io narrante Silvestro, nel momento più buio e tragico del Paese, dell’Europa, nel tempo del fascismo della guerra, in preda ad “astratti furori”, lasciasi il suo lavoro di tipografo e compie, come Ulisse, il viaggio di ritorno, il nostos, nella terra natia, nella terra della madre, delle madri. Ma non rimane lì impigliato, li prigioniero, come il Don Giovanni in Sicilia di Brancati; dopo lo sprofondamento del luogo della memoria, ritorna ai suoi doveri di “compositore di parole”, di scrittore, ai suoi doveri di uomo, di cittadino. Scrive la Milano della ‘ 43, Vittorini, la Milano della guerra e della lotta antifascista con Uomini e no. E anche di società, di contesti democratici con La Garibaldina, Erica e i suoi fratelli, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, Le donne di Messina, Le città del mondo… E c’è ancora un altro grande Vittoriani “milanese”, l’intellettuale e operatore culturale, il direttore di Riviste letterarie e politiche come Il Politecnico e Il Menabò, il direttore di collane letterarie come la Medusa, la Corona, e i Gettoni…
Un anno dopo Vittorini, nel ’34, provenendo dalla Sardegna, si stabilisce a Milano il geometra del Genio civile, il poeta, cognato di Vittorini, Salvatore Quasimodo. Il lirico, il siculo-greco Quasimodo, è costretto anche lui, per l’orrore della guerra, a lasciare la “terra impareggiabile”, l’isola della memoria, per scrivere di Milano, scrivere le liriche di Giorno dopo Giorno.
“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’uomo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillava arrivi al testamento”.
Così cantava con dolore e orrore il poeta civile Quasimodo. Cantava della Milano straziata dalla guerra, oltraggiata dal fascismo, della Milano”insudiciata”, come ha scritto Alberto Savinio, dalla distruzione e dalla morte.
“Invano cercai tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del naviglio…”
( Milano, agosto 1943)
Milano 14 dicembre 2003
Finita la carrellata sugli scrittori siciliani a Milano, mi si perdoni se parlo anche di me.
Sono arrivato a Milano con l’idea di una città diversa da tutto il contesto italiano, la Milano dove abitavano Vittorini e Quasimodo, attratto dalla presenza di questi due scrittori.
C’era già allora una corrente di scrittori che migrava dalla Sicilia per approdare a Roma, io non pensavo a Roma perché era la città del potere politico, io pensavo che la mia necessità di lasciare l’estremità, di lasciare l’isola era naturalmente per Milano.
Sono arrivato nel ‘51 per studiare all’università, in una Milano con ancora tutte le ferite del secondo dopoguerra. Sono andato a studiare all’Università Cattolica, non per convinzioni di natura religiosa, ma perché il collegio universitario mi dava allora la possibilità di avere una stanza ed i pasti a 20mila lire al mese. C’erano molti meridionali che approdavano allora a questa università, c’erano molti che sarebbero diventati la futura classe dirigenziale italiana, c’erano i fratelli De Mita, Gerardo Bianco futuro onorevole democristiano,…
Io stavo molto “in periferia”: sono stato un anno al collegio universitario, quando andai a salutare il direttore del pensionato, mi chiese se ero stato lì da loro, infatti io ero stato sempre defilato, mi interessavano altre cose, mi interessava la Milano culturale, la Milano di Vittorini. Invidiavo il mio compagno di università Raffaele Crovi che era amico del figlio di Vittorini e frequentava casa Vittorini, io lo odiavo per questo suo privilegio e non osavo presentarmi in casa di Vittorini perché non avevo delle carte con cui presentarmi. Conobbi Vittorini poi molti anni dopo, nel ’63, quando arrivai a Milano per la pubblicazione del mio primo romanzo presso Mondadori. Vittorini allora aveva un ufficio presso quella casa editrice e fui presentato.
Dopo un anno di collegio mi trasferii nella pensione della signora Colombo che parlava solo in dialetto milanese, allora c’era molta popolarità e dialettalità milanese.
Osservavo in quegli anni la piazza Sant’Ambrogio che poi ho chiamato “la piazza dei destini incrociati” approdavano nella piazza schiere infinite portate dai tram senza numero dalla stazione centrale. Erano immigrati che arrivavano dal meridione, che approdavano in questa piazza perché c’era allora il “centro orientamento immigrati”. Io osservavo gli immigrati e mi ricordo quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, che dopo avere passato le visite mediche venivano già equipaggiati con il casco la cerata e la lanterna, credo che questi 200 minatori furono poi vittime della tragedia di Marcinelle. Altri venivano mandati in Francia in Svizzera e via discorrendo.
In questo edificio di piazza Sant’Ambrogio vi era anche una caserma della Celere, e quindi si incrociavano i destini: da una parte gli studentelli privilegiati, dall’altra i migranti, e poi i celerini dell’onorevole Scelba, ed ad uno studentello come me poteva capitare di incontrare un mio compaesano.Incontrai Giacomino, un ragazzo del mio paese, con la divisa di poliziotto ed il manganello in mano pur essendo un ragazzo molto mite. Capitava di incontrare quelli che sarebbero stati mandati alla scuola sociale di Bologna per diventare onorevoli e classe dirigente democristiana italiana.
Mi ero convinto in quegli anni di voler fare lo scrittore, i miei due vangeli erano stati “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi e “Conversazione in Sicilia” di Vittorini, erano due poli di attrazione. Mi ero convinto che dovevo fare lo scrittore e che non potevo farlo se non in Sicilia: errore gravissimo, sono stato lì 11 anni e poi ho capito che non c’era nulla da fare… Ho frequentato in quegli anni due personaggi antitetici per me entrambi molto importanti, uno era un poeta “puro” Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Lampedusa, poeta straordinario, barocco di tipo mistico e spagnolo con riferimenti quali San Giovanni della Croce, dall’altra parte Leonardo Sciascia. Viaggiavo fino a Caltanissetta dove allora abitava Sciascia e a Capo d’Orlando dove abitava Lucio Piccolo, che mi diceva “venga pure a fare conversazione”, ma per me la conversazione era una vera lezione di letteratura, che andavo a prendere da lui che era di una cultura sconfinata.
Nel ‘68 ho fatto le valige in un giorno emblematico per ritornare a quella che ho chiamato “la patria immaginaria”, ritornando a Milano il 1 gennaio del ’68. Mentre nel novembre del 52 avevo trovato la città piena di nebbia, quel primo di gennaio la trovai piena di neve, allora nevicava a Milano, adesso non nevica più… Dovevo presentarmi al lavoro, avevo vinto un concorso e quella era la ragione per cui mi trasferivo, avevo bisogno di lavorare. Ho vissuto questa città e mi sono sentito sempre milanese perché ho creduto in questa città diversa dal contesto italiano, diversa dalla mia Sicilia, ma anche da Roma e da qualsiasi città italiana.
L’ho vista trasformarsi negli anni, con molta pena. Era la città delle utopie e delle fantasie, che, come sempre, si frantumano contro gli scogli della realtà, sappiamo tutto quello che è successo in questa città e nel paese. Viviamo in una città che nessuno di noi riesce ad accettare, diventata il simbolo della regressione e del degrado del nostro paese.
Ho scritto un libro che si chiama “Retablo”, che descrive il desiderio ed il bisogno di allontanarsi da questa città attraverso un personaggio che si chiama Fabrizio Clerici. E’ un personaggio contemporaneo, ma con un cognome che già appariva nel libro di Savinio “Ascolta il tuo cuore città” che io ho trasferito nel Settecento. Fabrizio è un pittore innamorato di una signorina che si chiamava Teresa Blasco, figlia di uno spagnolo e di una siciliana. Teresa e una donna molto bella, corteggiata dai giovanotti illuministi milanesi, dal Beccaria e da tanti altri in quel di Gorgonzola, dove la famiglia Blasco aveva la villa.
Quindi Fabrizio Clerici, non corrisposto nella sua passione amorosa decide di compiere un viaggio nella terra della donna che lui ama, cioè nella Sicilia. Viaggio romantico alla ricognizione di una Sicilia ideale del Settecento, dove come tutti i viaggiatori romantici si cerca di vedere l’Arcadia, la Grecia, ma la Grecia non c’è più in Sicilia, esiste l’infelicità sociale, che esisteva anche nel Settecento, i conflitti, il banditismo, l’ignoranza, le malattie… Fabrizio apre gli occhi come uomo coscenziale e vede la realtà che non conosceva e rimane coinvolto, anche linguisticamente in questo suo viaggio attraverso la Sicilia classica.
Poi ho esplicitato il disamore e la disillusione nei confronti di Milano in un libro più recente che si chiama “Lo Spasimo di Palermo”, che rappresenta non solo lo spasimo di Palermo, ma lo spasimo anche di Milano e dell’intero paese. Il romanzo comincia con un flash back che dal secondo dopoguerra ci porta fino al 1992; il protagonista è uno scrittore che si chiama Gioachino Martinez, il quale aveva scelto Milano per sfuggire all’orrore e alla violenza siciliana, era approdato a Milano quale sua città ideale ed anche qui, dopo anni di consolazione, trova violenza e trova orrore, terrorismo e degrado culturale. Decide di tornare a Palermo dove ancora troverà violenza e morte. Il paese è ormai omologato e non c’è più una Itaca, un luogo dove tornare, per nessuno di noi in questa società. Le città ideali si sono frantumate sotto i nostri occhi e l’Itaca che abbiamo lasciato durante la nostra assenza è stata distrutta ed è stata conquistata dai Proci, oggi viviamo in un mondo di Proci, in un mondo di orrore dove niente più è accettabile.
Voglio ricordare una pagina di addio a Milano, sullo schema dell’addio manzoniano, dello scrittore Gioacchino Martinez:
“Nessuna pena no, nessun rimpianto a lasciare dopo anni quell’approdo della fuga, quell’ asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza. Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità.
Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tecnologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.”
“Addio ai campanili in cotto, alla romanica penombra, a Chiaravalle, a Morimondo. Addio alla casa di Manzoni, a San Fedele, all’alto marmo nel centro del Famedio. Alle vie verghiane, alla gaddiana chiesa di san Sempliciano. Allo Sposalizio della Vergine, emblema saviniano della città chiusa di Milano, del suo equilibrio, e della sua utile mediocrità. Addio a Brera di Beccaria e Dossi, addio a Porta a Tessa Quasimodo Sereni, al Montale del respiro vasto della bufera, dei meriggi assorti, degli orti, dei muri di salino costretto nella depressione della pianura, nel dorato cannello dell’imbuto cittadino. Alla casa dei fervori e dei furori di Vittorini, delle utopie infrante e dei lirici abbandoni. Al rifugio in Solferino dove Sciascia patì la malattia, sua del corpo e insieme quella mortale del Paese. Addio alla Vetra, al Mora e al Piazza, alla Banca del tritolo e della strage, all’anarchico innocente steso a terra come il Cristo del Mantegna, ai marciapiedi insanguinati, alle vite straziate di giudici civili militari studenti giornalisti…Amaro a chi scompare. Qui è la babele, il chiasso, la caverna dell’inganno, il loto dell’oblio, l’Eea dei filtri della mutazione, del grugnito inverecondo…”
l’emigrazione impossibile. In leggere Milano collana dell’edizione unicopli Le città letterarie, dicembre 2006.
Conferenza tenutasi nell’aula magna dell’università statale di Milano il 4
dicembre del 2003.
La Lingua della scrittura a Vincenzo Consolo
a cura di Annagrazia D’Oria
La pubblicazione di Oratorio presso le edizioni Manni e un incontro a Milano in un’atmosfera tutta siciliana (la signora Caterina ha gentilmente offerto autentico latte di mandorla preparato in casa; sulla scrivania palpitavano pagine di appunti su una donna della Sicilia) sono state occasioni per questa breve intervista a Vincenzo Consolo. Di seguito anticipiamo il “Prologo” da Catarsi in Oratorio, a giorni in libreria.
Oggi la lingua letteraria è quella nazionale del linguaggio televisivo. Viene comunque usata dalla maggior parte degli scrittori: alcuni (pochi) la usano in maniera strumentale con un chiaro intento di opposizione, altri l’accettano per conformismo, come unica possibilità di esistere nel mercato. Tu che cosa pensi? Quali sono le tue idee sulla narrativa italiana?
In questo nostro tempo si è rotto il rapporto tra testo letterario e contesto situazionale e quindi non è più possibile adottare le forme de romanzo tradizionale (oggi si producono e si consumano cosiddetti “romanzi” che non hanno più nulla da spartire con la letteratura); non è più possibile raccontare in una prosa comunicativa, usare una lingua che è divenuta povera, rigida (la famosa nuova lingua italiana come lingua nazionale di cui ci ha detto Pasolini), una lingua priva di profondità storica, invasa dal potere dei media e del mercato.
C’è una soluzione per continuare a scrivere?
Oggi, l’unico modo per rimanere nello spazio letterario da parte di uno scrittore è quello di scrivere non più romanzi, ma narrazioni. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definito Walter Benjamin. In Angelus Novus, nel saggio sull’opera di Nicola Leskov, Benjamin fa una precisa distinzione tra romanzo e narrazione. La narrazione, dice, è un genere letterario preborghese affidato all’oralità (racconti orali erano la Bibbia, i poemi omerici). Per ragioni mnemoniche, la prosa allora prendeva man mano forma ritmica, poetica. Nella narrazione insomma è assente quello che Nietzsche chiama “spirito socratico”.
Che cosa intende per “spirito socratico”?
Cos’è? È la riflessione, il ragionamento, la “filosofia” che l’autore mette in campo interrompendo il racconto. Questo è avvenuto, cioè l’irruzione dello spirito socratico, ci dice Nietzsche, nel passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Questo è avvenuto nella nascita del primo grande romanzo della nostra civiltà occidentale, nel Don Chisciotte. “Il povero don Chisciotte aspira a un’esistenza mitica, ma Sancio lo riporta coi piedi per terra, introducendolo violentemente nella sua realtà, grazie alla quale era nato un nuovo genere: ‘il romanzo” scrive Américo Castro in Il pensiero di Cervantes. Ora, nella narrazione moderna o postmoderna, non è che si ritorni all’antica tragedia o al mondo mitico, ma si riflette, si commenta o si lamenta non in forma diretta, comunicativa, ma in forma espressiva, vale a dire indirettamente, vale a dire metaforicamente. Questo significa accostare la prosa alla forma poetica, contraendo la sintassi, verticalizzando la scrittura, caricando di significati le parole e caricando la frase di significante, di sonorità.
Ho espresso questa mia concezione della narrativa nel saggio La metrica della memoria e l’ho messa in pratica in tutti i miei libri narrativi, ma soprattutto nell’ultimo, Lo spasimo di Palermo ed anche, in senso metaforico, nell’opera teatrale Catarsi.
Parlaci di Catarsi…
E’ messo in scena, in quest’opera, un Empedocle contemporaneo (con riferimento, certo, a quello di Hölderlin) nel momento estremo del suicidio e nell’estremità spaziale del cratere dell’Etna. Momento e spazio che non permettono più comunicazione, frasi, parole, ma soltanto urla o suoni bestiali. Antagonista di Empedocle, il giovane suo allievo Pausania, ipocritamente invece continua a comunicare con un immaginario pubblico della cavea, si fa insomma falso messaggero, impostore. In tutti i miei libri, dicevo sopra, a partire da La ferita dell’aprile, e quindi ne Il sorriso dell’ignoto marinaio e negli altri vi sono degli “a parte”, brani in cui s’interrompe il racconto, il tono si alza, la prosa si fa ritmica.
Insomma un cantuccio come i cori della tragedia manzoniana, un intervento liberatorio della poesia che ha ancora una forza…
Sì, sono questi insomma dei cantica o Cori, digressioni lirico-poetiche, commenti non filosofici ma lirici. La filosofia per me consiste nel creare un testo che sia un iper-testo, che abbia cioè in sé rimandi, citazioni, espliciti o no. Ne Il gran teatro del mundo di Calderon, gli attori, all’inizio del dramma, indossano in scena i costumi e quindi cominciano a recitare. Questa invenzione mi aveva colpito e quindi in Lunaria, un’altra mia opera teatrale, ho capovolto li gesto: gli attori alla fine della rappresentazione si spogliano dei costumi in scena. Il senso è la fine dell’illusione. Dell’illusione necessaria, che dura il tempo di una rappresentazione teatrale o della lettura d’una poesia e che ci difende dall’angoscia dell’esistenza e dalla malinconia della storia. Finita l’illusione, c’è il ripiombare nella dura realtà. Che per noi moderni è diventata insopportabile, e scivoliamo quindi nell’alienazione o nella violenza. Soltanto i greci avevano una grande capacità di sopportazione della realtà.
Torniamo agli scrittori, al linguaggio, ma soprattutto al legame con la propria terra. Nel tuoi libri a Sicilia è una realtà viva e concreta, metafora del mondo e delle sue leggi ingiuste e violente…
Allora ci sono scrittori che chiamerei di tipo orizzontale, nel senso che essi possono parlare indifferentemente di qualsiasi luogo. E sono spesso anche grandi scrittori come Stevenson, Conrad, Hemingway o Graham Greene, per fare solo alcuni nomi. Ci sono scrittori invece che non sanno o non possono staccarsi dal luogo della propria memoria, con questo luogo devono fare i conti, di questo luogo fanno metafora. Per tanti scrittori, ed anche per me, questo luogo è la Sicilia. La quale è un’isola terribilmente complessa. Ha una complessità storico-culturale dovuta alle varie civilizzazioni che in essa si sono succedute. La presa di coscienza della sua complessità è stata la ricchezza e insieme la dannazione degli scrittori siciliani.
C’è un esempio importante dell’ineludibilità del tema Sicilia, ed è quello di Verga. Lo scrittore divaga per meta della sua vita, affronta temi cosiddetti mondani e scrive in un impacciato italiano. A Milano, nel 1872, avviene la sua famosa crisi e, nella crisi, “sente il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia”., Il bisogno al ritornare con la memoria “al mondo intatto e solido della sua terra” scrive Sapegno. E inventa un “italiano irradiato di dialettalità”
, come dice Pasolini. Ogni scrittore siciliano ha declinato dunque la Sicilia in modo diverso. Detto semplicisticamente, in modo storicistico o esistenziale. Verga ha una concezione metastorica, una visione fatalistica della condizione umana, e si è parlato quindi di fato greco, ma in Verga non avviene assoluzione della colpa, non c’è liberazione. Per verga, bisognerebbe piuttosto parlare di fatalismo islamico. “Quel che è scritto è scritto” recita il Corano.
E la Sicilia di Pirandello?
Pirandello ha interpretato la complessità della condizione siciliana, complessità che provoca smarrimento, perdita di identità. Riguardo a Pirandello bisognerebbe piuttosto parlare di grecità. Nel teatro greco c’era il Prosopeion o Prosopon, ch’era insieme la maschera e la faccia, ma anche il modo come gli altri ti vedono.
Il Prosopon Pirandello l’ha trasferito nel mondo siciliano: non sai chi sei, sei di volta in volta colui che gli altri decidono, sei uno, nessuno e centomila; sei poi costretto, nel gioco sociale, a portare la maschera…
E negli altri scrittori siciliani?
La concezione esistenziale e insieme determinista che, partendo da Verga passa per Pirandello contraddetta da una versi fino a Lampedusa, è contraddetta da una forte linea storicistica, che da De Roberto, per Brancati e Vittorini, arriva fino a Sciascia. Nella concezione metastorica di
Lampedusa c’è una forte ambiguità. L’autore del Gattopardo doveva chiudere i conti, secondo me, con De Roberto, con Viceré (De Roberto dice, contraddicendo Verga: non ce nessun mondo dei vinti. Nella storia siciliana ha vinto sempre il cinismo. l’opportunismo, il trasformismo della classe dominante, dei nobili. vincitori sono sempre loro, mentre i perdenti e gli eternamente ingannati e sfruttati sono i popolani). Lampedusa dunque scrive un romanzo storico con una visione positivista del mondo. Afferma che dalle classi sociali di volta in volta ne emerge una, si raffina man mano nel tempo, arriva alla perfezione (estetica, culturale), quindi decade, tramonta, si spegne come si spengono le stelle in cielo. E quindi emerge un’altra classe (ineluttabilmente insomma alla nobiltà succede la borghesia). C’è una sorta di meccanicismo, di determinismo in questa concezione. Ai leoni e ai gattopardi devono necessariamente succedere gli sciacalli (che diverranno gattopardi a oro volta), ai Salina devono succedere i Sedara. Con questa sua concezione, Lampedusa assolve la classe a cui apparteneva, la nobiltà feudale, principale responsabile di tutti i mali della Sicilia. E assolve anche i borghesi mafiosi alla Sedara: era ineluttabile che questi arrivassero a potere, il loro emergere, è un esito del determinismo storico (con buona pace di “quell’ebreuccio”, di Marx, di cui Salina non ricorda il nome).
E Sciascia?
Sciascia, da illuminista, non accetta nessun meccanicismo nella storia, storia in cui le responsabilità dei mali sociali sono da attribuire al potere, alla sua volontà. Da qui i suoi primi temi illuministi sulla pena di morte, sulla tortura o l’impostura de ll consiglio d’Egitto e di Morte dell’inquisitore, da qui i suoi romanzi polizieschi, necessitati dalla contingenza in Sicilia, in Italia, del potere politico degenerato, dei legami tra potere politico e mafia, dei delitti e dele. stragi del potere politico-mafioso. Ma i romanzi polizieschi di Sciascia sono singolari, opposi ai romanzi polizieschi classici: non vi si arriva mai all’individuazione dell’assassino o degli assassini perché i romanzi di Sciascia sono polizieschi politici. L’individuazione degli assassini comporterebbe l’indagine e quindi la condanna del potere di se stesso. S’e mai visto un potere politico che condanna se stesso? Parliamo dei tuoi libri. In tutti ci sono dei temi fissi: la storia, la riflessione sul potere, sull’emarginazione, sull’oppressione dei deboli, sull’impegno politico e civile dell’intellettuale e usi sempre una lingua particolare, ricca di metafore. Quali sono le tue radici culturali?
Dopo questa lunga premessa parliamo anche di me, un poco, non tanto, come invece vuole di sé Zavattini.
Sono nato come scrittore nel ’63 e già dal primo libro mi sono mosso con la consapevolezza della letteratura, soprattutto della siciliana, di cui abbiamo sopra discorso, che mi aveva preceduto e di quella che si stava svolgendo intorno a me. Mi sono mosso con una precisa scelta degli argomenti da narrare (stori-co-sociali) e del modo in cui narrarli.
Sono nato, biologicamente, in una zona di confluenza del mondo orientale e del mondo occidentale della Sicilia, di incrocio vale a dire tra natura e storia. Potevo quindi optare per l’oriente, per i disastri dei terremoti dello stretto di Messina e delle eruzioni dell’Etna, optare per la violenza della natura ed affrontare temi metastorici, esistenziali, temi verghiani insomma. Ho optato invece per il mondo occidentale, dove sulla natura prevalgono i segni forti della storia. E sono approdato a Cefalù (con I sorriso dell’ignoto marinaio), che era per me la porta del gran mondo palermitano, del mondo occidentale.
Ho voluto narrare argomenti o temi storico-sociali e lo stile da me scelto non è stato comunicativo, non ho adottato una scrittura di tipo illuministico o razionalistico, ma lirico-espressiva con l’assunzione o innesto di parole o formule di lingue del passato che nel dialetto siciliano si sono conservate (dico del greco, latino, arabo, francese o spagnolo). Al contrario degli scrittori che immediatamente mi precedevano, scrittori illuministi o razionalisti (Moravia, Morante, Calvino o Sciascia, quest’ultimo a me più vicino), mi collocavo nella linea sperimentale, quella che, partendo da Verga, giungeva a Gadda, Pasolini, Mastronardi, Meneghello, D’Arrigo..
Ho voluto compiere insomma un azzardo, far convivere cioè argomenti storico-sociali con un linguaggio lirico-espressivo. Questa convivenza era nella realtà rappresentata da due personaggi, un poeta e uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.
Hai scritto: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e si articola come la storia di una continua sconfitta della ragione”.
Ma, alla fine, i tuoi libri non comunicano una sconfitta al lettore, bensì una passione civile, l’esortazione ad usare sempre di più, anche se amaramente, anche se sconfitta, la ragione.
E questo fin dal primo romanzo… ” primo mio romanzo, La ferita dell’aprile, di formazione o iniziazione, è di personale memoria (il Dopoguerra, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni regionali in Sicilia, la vittoria del Blocco del popolo, la strage di Portella della Ginestra, le elezioni del 48 e la vittoria della Democrazia cristiana…), un racconto scritto in una prima persona che non ho mai più ripreso.
Ho quindi immaginato e attuato il mio progetto letterario che è rappresentato principalmente da una trilogia – Il sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo- che riguarda tre momenti cruciali della nostra storia, il Risorgimento, il Fascismo, gli anni Settanta, con la contestazione e il terrorismo, fino agli anni Novanta, con le due stragị politico-mafiose di Palermo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Stragi di cui quest’anno, in questo bel nostro tempo di governo di centro-destra, ricorre il decennale. Anno e governo che s’inaugurano con gli atroci fatti di Genova.
Vincenzo Consolo
Prologo
Un velo d’illusione, di pietà,
come il sipario del teatro,
come ogni schermo, ogni sudario
copre la realtà, il dolore,
copre la volontà.
La tragedia è la meno convenzionale,
la meno compromessa delle arti,
la parola poetica e teatrale,
la parola scritta e pronunciata.’
Al di là è la musica. E al di là è il silenzio.
Il silenzio tra uno strepito e l’altro
del vento, tra un boato e l’altro
del vulcano. Al di là è il gesto.
O il grigio scoramento,
il crepuscolo, il brivido del freddo,
l’ala del pipistrello; è il dolore nero,
senza scampo, l’abisso smisurato;
è l’arresto oppositivo, l’impietrimento.
Così agli estremi si congiungono
gli estremi: le forze naturali
il deserto di ceneri, di lave
e la parola che squarcia ogni velame,
valica la siepe, risuona
oltre la storia, oltre l’orizzonte.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
vorremmo ci accompagnasse l’Empedokles
malinconico e ribelle d’Agrigento,
ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.
Per la nostra inanità, impotenza,
per la dura sordità del mondo,
la sua ottusa indifferenza,
come alle nove figlie di Giove
e di Memoria, alle Muse trapassate,
chiediamo aiuto a tanti, a molti,
poiché crediamo che nonostante
noi, voi, il rito sia necessario,
necessaria più che mai la catarsi.
Tremende sono le colpe nostre
e il rimorso è un segno oscuro
o chiaro che in questa notte spessa
tutto non è perduto ancora.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
vorremmo ci accompagnasse Pasolini,
il suo entusiasmo, il suo oracolo, la sua invettiva.
Ci accompagnasse l’urlo di Jacopone,
la chiara nudità, il gesto largo,
che tutto l’aere abbraccia, l’armonia,
del soave mimo, del santo mattaccino.
1 Pasolini, Affabulazione
da Catarsi in Oratorio, 2002
La scoperta di Cefalù (Come un racconto)
In una Finisterre, una periferia, un luogo dove i segni della storia – segni bizantini: chiese, conventi, romitori arroccati su picchi inaccessibili – s’erano fatti labili, sfuggenti, dove la natura, placata – immemore qui dei ricorrenti terremoti dello Stretto, delle eruzioni dell’Etna -, s’era fatta materna, benigna – nelle piane, nelle valli, sopra i monti erano oliveti agrumeti noccioleti, erano fitti boschi di querce elci cerri faggi -, ai piedi dei Nebrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle Eolie celesti e trasparenti mi capitò di nascere. Nascere dov’erano soltanto echi d’antiche città scomparse, Alunzio Alesa Agatirno Apollonia, che con la loro iniziale in A facevano pensare agli inizi della civiltà.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi – ritrazione, malinconia -, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi accenti di parole, gesti – erano qui pescatori di alici e sarde liberi da condanne del fato, alieni da disastrosi negozi di lupini; erano piccoli proprietari terrieri, affittuari, contadini, ortolani, innestatori e potatori, carbonai; erano lungo le strade carretti disadorni, monocromi, giallognoli o verdastri -, in tanta sospensione o iato di natura e di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti per capire l’approdo casuale, immaginare il mondo oltre i confini di quel limbo.
E poiché, sappiamo, nulla è sciolto da cause o legami, nulla è isola, né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva necessità che mi assali di viaggiare, uscire da quella stasi ammaliante, potevo muovere verso Oriente, verso il luogo tremendo del disastro, il cuore del marasma empedocleo, muovere verso la natura più profonda, l’esistenza.
Ma per paura di assoluti e infiniti, di stupefazioni e gorgoneschi impietrimenti, verghiani immobilismi, scelsi di viaggiare verso Occidente, verso un Maghreb dai forti accenti, verso i luoghi della storia, i segni più incisi e affastellati muovere verso la Palermo fenicia e saracena, verso Panormo, Bahlarm, verso le moschee, i suq e le giudecche, le tombe di porfido di Ruggeri, di Guglielmi e di Costanze, le cube, le zise e le favare, la reggia mosaicata del “Vento Soave”, del grande Federico, il divano dei poeti, il trono vicereale di corone aragonesi e castigliane; muovere verso l’incrocio ai Quattro Canti d’ogni raggio del mondo, delle culture e delle favelle più diverse. Andando, mi trovai così al preludio, all’epifania, alla porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai a Cefalù.
Era prima soltanto questo paese un faro che lampeggiava nelle notti il-luni, incrociava col suo fascio luminoso i fari opposti di Capo D’Orlando e di Vulcano; era, nei limpidi tramonti d’aprile o di settembre, la sagoma dorata del capo, la Rocca sopra il mare. Oltre Santo Stefano delle fornaci, delle giare maronali, oltre Torremuzza, Tusa, Finale, Pollina, per innumeri tornanti sopra precipizi, lungo una costa di scogliere e cale, di torri di guardie e di foci di fiumare, s’arrivava prossimi alla Rocca. Ed erano prima la cala scoscesa e il promontorio della Calura, lo sconquasso primordiale dei massi che, come precipitati dall’alto, da Testardita, dalla Ferla, sul mare s’erano arrestati. Meravigliava, nell’appressarmi a Cefalù, l’alzarsi del tono in ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nella gente. Adorni di nastri, specchi, piume, bubbole erano i muli aggiogati ai carretti variopinti, i retabli sulle sponde delle gesta d’Orlando e di Rinaldo. Piccola, scura, riccioluta era la gente, o alta, chiara, i capelli colore del frumento, come se, dopo secoli, ancor distinti, uno accanto all’altro scorressero i due fiumi, l’arabo e il normanno. E fui alla radice della Kefa o Kefalé, la grande rocca di calcare che dal tempo più remoto aveva dato il nome alla città.
“Grande rocca di quasi rotonda forma parrebbe posata presso alla riva dalle braccia di cento Polifemi. Arido n’è il suolo, brusco, tagliente il contorno; le pietre lavate da secoli e secoli dall’acqua, bruciate perennemente dal sole, han preso or rancia, or verdastra pei licheni la tinta (…) Si aprono in cima alla rocca tali fenditure che finiscono di sotto in forma di grotte: poterono un giorno esser dimora delle prische famiglie, mentre oggi vi fabbricano i nidi gli sparvieri e i nibbi e vi belano le capre…”
Così, con prosa elegante, descrive la rocca lo storico dell’Ottocento
Salvo di Pietraganzili. Quella massa imponente di pietra era lo sprofondo buio del tempo in cui fioriva il mito, la favola. Si favoleggiava di Giganti, Ciclopi che sulla Rocca, nelle sue caverne erano vissuti. Il misterioso tempio megalitico poi, detto di Diana, dedicato certo ad arcaiche divinità ctonie, dava adito alle congetture più varie, ad accese dispute fra eruditi. Fra i quali da sempre era aperta anche le disputa se la primitiva città fosse posta sulla riva del mare. Non era questa Cefalù di ere remote che cercavo, ma la città della storia, dell’inizio di quella storia che può dirsi siciliana, in cui si è formato il modo d’essere dei siciliani. Cercavo la Cefalù “narrabile”, quella città che, con la dominazione musulmana, incominciava a stendere i suoi segni più vivaci e duraturi.
Davanti al gran baluardo, incoronato da mura lungo tutto il suo tondo fianco, sormontato dal castello, la strada si biforcava. Andava da una parte verso la costa del mare, toccava il Faro, la Tonnara, le mura megalitiche sopra gli scogli sferzati dalle onde, giungeva alla Giudecca, alla Candelora. Dall’altra, serpeggiando, oltrepassando il torrente Sant’Oliva, la contrada Santa Barbara, il bivio per Gibilmanna, scendendo per la strada Carruba, giungeva a Porta di Terra. Qui ero all’inizio dell’avventura, del viaggio, ero sulla porta del mondo denso, ricco di Cefalù, davanti al palinsesto in cui ogni lettera, parola spiccava chiaramente, al prezioso codice, breve ma profondo, che doveva esser letto, la trama solida su cui poteva nascere il racconto.
“Ad una giornata leggera da Sahrat’ al hadid giace nella spiaggia del mare Gafludi, fortezza simile a città, coi suoi mercati, bagni e molini, piantati dentro lo stesso paese, sopra un’acqua che erompe dalla roccia, dolce e fresca e dà da bere agli abitanti. La fortezza di Cefalù è fabbricata sopra scogli contigui alla riva del mare. Essa ha un bel porto al quale vengono delle navi da ogni parte. Il paese è molto popolato. Gli sovrasta una rocca dalla cime di un erto monte, assai malagevole a salire per cagione della costa alta e scoscesa”.
Questa è la Cefalù vista da Edrisi, il geografo alla corte di Ruggero, la Cefalù ancora araba sotto la dominazione normanna. E così la vede il viaggiatore Ibn-Giubayr, musulmano di Granada: “Questa città marittima abbonda di produzioni agrarie, gode grande prosperità economica; è circondata di vigne e di altre piantagioni, fornita di ben disposti mercati. Vi dimora un certo numero di Musulmani.
La sovrasta una rupe vasta e rotonda, sulla quale sorge una rocca che non se ne vide altra più formidabile, e l’hanno munita ottimamente contro qualsiasi armata navale, che improvvisamente l’assalisse venendo da parte dei Musulmani, che Iddio sempre li aiuti”.
Musulmana dunque Cefalù ancora sotto i Normanni, con le sue varie razze e lingue, araba, berbera, africana, spagnola; musulmana e insieme bizantina, e insieme ebrea, e ora anche nordica, normanna. Immaginarla prima, la città, prima della calata dei conquistatori normanni, era certo Cefalù una piccola Sousse, Tunisi o Granada. Un paese di contadini e pescatori, di artigiani, di mercanti, brulicante nel fitto intrico di strade, vanelle, piani, bagli, nei mercati odorosi di spezie, nel porto, nella tonnara, su cui all’alba, nel giorno, al tramonto, dai minareti delle moschee calava la voce cantilenante del muezzin che invitava alla preghiera ad Allah.
Questa vita, questo vitalismo maghrebino scorgevo ancora nei visi, nei gesti, varcata la soglia di Porta di Terra, nei quartieri sopra il fianco della Rocca, le Falde, il Borgo, Francavilla, Saraceni, nelle strade che, scendendo come torrentelli, sfociavano in via Fiume, alla Porta a Mare, al Porto. E venne quindi il segno più forte, più sconvolgente, l’impressione sulla trama umile, quotidiana, dell’impronta guerriera dei biondi normanni, dei crociati della Riconquista.
Come un San Giorgio in corazza d’argento, su bianco destriero, sbarcato qui per prodigio, miracolo, in questa naturale fortezza, ai piedi della Rocca possente, Ruggero immagina che qui sarebbe stata la sua dimora ideale, il suo baluardo concreto e simbolico contro ogni minaccia, ogni assalto, ogni tentativo di ritorno da parte dei fedeli di Allah.
Nel punto più eminente, contro la Rocca, dov’era già forse un tempio greco e quindi una moschea, realizza il suo sogno, il suo audace progetto d’un tempio-castello che parlasse con voce forte la lingua latina, imponesse il rito di Roma. Capaci i suoi architetti di concepire un castello normanno, un Duomo-fortezza, ma ignari, loro, d’ogni ulteriore disegno che un tempio reclama. E allora, quel re, non poté fare a meno d’introdurre nel tempio altre lingue che nel paese ancora correvano. Che grande epopea sarà stata la costruzione del duomo! Le maestranze più varie per memoria, esperienza, ispirazione, murifabbri, manovalanza di diversa razza, fede, costume, tutti insieme per innalzare quel monumento superbo, quella meraviglia del mondo. Gli urbanisti poi ridisegnavano sull’intrico, sul labirinto della vecchia medina, dell’araba Glafundi, una nuova città razionale, geometrica, un incrocio di strade diritte, una sequenza ordinata di case. Era ancora una metamorfosi dentro il breve cerchio delle arcaiche mura, a ridosso della Rocca possente. Percorro allora la strada maestra, il corso Ruggero, che da Porta Reale, dalla chiesa della Catena, da meridione a settentrione, taglia in due questa città. E’ un teatro, la strada, è una via Atenea d’Agrigento, in cui sono fiorite le novelle di Pirandello, o una via Toledo di Palermo, da cui s’è levato il canto infiammato di Lucio Piccolo. Ogni casa, palazzo, ogni muro, pietra di questa strada è documento, memoria. Ed è, il corso stretto e diritto, affollato di gente come le antiche agorà, di gente che s’incontra, parla, dibatte, testimonia la propria esistenza.
Andando, tra un cantone e un altro, si aprono strade, su un verso le Falde, giù verso il mare. Si aprono vicoli, cortili, di case basse, finestre, balconi impavesati di panni, edicole infiorate, donne davanti alle porte, artigiani, bambini che razzolano, saltano sul geometrico acciottolato, su per rampe di scale.
Ed emergo come da un cunicolo, da un antro di Sibilla, al vasto respiro, alla luce, alla meraviglia del piano del Duomo. Entro nel cuore di questa città nell’ora sua giusta, quando il sole volge al tramonto e dalla punta opposta di Santa Lucia incendia ogni cosa, il mare, la terra, dà ai palazzi, al castello ardito del Duomo, alla Rocca che lo sovrasta il colore suo proprio, arancio e oro, d’una Bagdad o d’una Bisanzio mediterranee, il tono di una suprema, compiuta civiltà.
“L’ora classica della bellezza di Cefalù è l’ultima parte del giorno”, scrive Steno Vazzana. A tanta bellezza che rapisce, blocca il pensiero, sento il bisogno di opporre una logica, una prosa pacata che chiarisca tanta clamorosa apparenza, guidi per gradi alle sue profonde radici. Volevo capire insomma la ragione del mio viaggio, trovare l’appiglio del racconto, lo spunto della metafora, lasciando la piazza, andando giù per la strada Badia, m’imbatto nel Museo, nel suo fondatore, quel cefaludese che molto prima di me, nel modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel mio viaggio dal mare alla terra, dalla natura alla cultura, dall’esistenza alla storia: Enrico Piraino barone di Mandralisca.
Sposata la cugina di Lipari, Maria Francesca Parisi, fa la spola, lo studioso, fra il cuore della “storica” Cefalù e il cuore della “naturale” Lipari, scava in quest’isola, in quest’onfalo profondo, scopre e trasporta nella sua casa della strada Badia statuette, lucerne, vasi, monete, maschere, arule, conchiglie. Rinviene il cratere attico del Venditore di tonno che sembra riprodurre, nella scena dipinta sulla sua superficie, un mimo del siracusano Sofrone.
Una scena di vita reale, quotidiana, deformata in comico teatro. Recupera in una spezieria di Lipari il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Il viaggio di quel ritratto sul tracciato di un simbolico triangolo avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava allora per me di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di cultura, di arte, sbocciata per la mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per una catastrofe naturale che si sarebbe abbattuta su quella città distruggendola, cacciata in quel regno della natura che è l’isola vulcanica, viene salvata da Mandralisca e riportata in un contesto storico, dentro le salde mura, sotto la rocca protettiva di Cefalù.
E non è questo poi, fra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi fra Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà? Il simbolico viaggio poi dalla natura alla cultura si svolgeva anche verticalmente grazie a un simbolo offerto ancora dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale (archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmicomiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kerényi e in Eliade). Quest’uomo, questo erudito, spettatore e partecipe del grande evento risorgimentale, mecenate illuminato, sagace architetto del risorgimento sociale e culturale della sua patria cefaludese, appassionato conservatore di memorie, Mandralisca, il suo Museo, la sua Biblioteca furono il felice approdo del mio viaggio, la guida del viaggio dentro Cefalù, la sua storia, la sua bellezza, le sue strade, i suoi monumenti, la sua gente, i suoi personaggi, le sue vicende; mi permisero, la sua conoscenza e il possesso della sua singolare realtà, di muovere il racconto. Racconto in due tempi, di due sfondi storici cruciali – il 1860 e il 1920 – che interpretava metaforicamente il presente, leggeva in Cefalù i segni riflessi di questo nostro mondo. Questa, in alcune parti, la mia restituzione narrativa di Cefalù.
“Mentre ancora gli invitati sorseggiavano cherry di Salaparuta e malvasia, il barone fece cenno a Sasà d’accendere le dodici candele dei moretti. S’accostò al leggio e, nel silenzio generale, tolse il panno che copriva il dipinto. Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto.
L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso.
Tutta l’espressione di quel volto era fissato, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini”.
“Il San Cristoforo entrava dentro il porto mentre che ne uscivano le barche, caicchi e gozzi, coi pescatori ai remi alle corde vele reti lampe sego stoppa feccia, trafficanti, con voci e urla e con richiami, dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e la banchina, affollata di vecchi, di donne e di bambini, urlanti parimenti e agitati; altra folla alle case saracene sopra il porto: finestrelle balconi altane terrazzini tetti muriccioli bastioni archi, acuti e tondi, fori che s’aprivano impensati, a caso, con tende panni robe tovaglie moccichini svolazzanti. Sopra il subbuglio basso, il brulicame chiassoso dello sbarcatoio e delle case, per contrasto, la calma maestosa della rocca, pietra viva, rosa, con la polveriera, il Tempio di Diana, le cisterne e col castello in cima. E sopra la bassa file delle case, contro il fondale della rocca, si stagliavano le due torri possenti del gran duomo, con cuspidi e piramidi, bifore e monofore, soffuse anch’esse d’una luce rosa sì da parere dalla rocca generate, create per distacco di tremuoto o lavorì sapiente e millenario di buriane, venti, acque dolci di cielo e acque salse corrosive di marosi”.
“Lo studio del barone sembrava quello d’un sant’Agostino o un san Girolamo, confuso e divenuto un poco squinternato nell’affanno della ricerca della verità, ma anche la cella del monaco Fazello e insieme il laboratorio di Paracelso. Per tutte le pareti v’erano armadi colmi di libri nuovi e vecchi, codici, incunaboli, che da lì straripavano e invadevano, a pile e sparsi, la scrivania, le poltrone, il pavimento. Sopra gli armadi, con una zampa, due, sopra tasselli o rami, fissi nelle pose più bizzarre, occhio di vetro pazzo, uccelli impagliati di Sicilia, delle Eolie e di Malta. Il cannocchiale e la sfera armillare. Dentro vetrine e teche, sul piano di tavolini e consolle le cose più svariate: teste di marmo, mani, piedi e braccia; terre cotte, oboli, lucerne, piramidette, fuseruole, maschere, olle e scifi sani e smozzicati; medaglie e monete a profusione; conchiglie e gusci di lumache e chioccioline. Nei pochi spazi vuoti alle pareti, diplomi e quadri. In faccia alla scrivania, nel vuoto tra due armadi, era appeso il quadro del ritratto d’ignoto d’Antonello; sulla parete opposta, sopra la scrivania, dominava un grande quadro che era la copia, ingrandita e colorata, eseguita su commissione del barone al pittore Bevelacqua, della pianta di Cefalù del Passafiume, che risale al tempo del Seicento. La città era vista come dall’alto, dall’occhio di un uccello che vi plani, murata tutt’attorno verso il mare con quattro bastioni alle sue porte sormontati da bandiere sventolanti. Le piccole case, uguali e fitte come pecore dentro lo stazzo formato dal semicerchio delle mura e dalla rocca dietro che chiudeva, erano tagliati a blocchi ben squadrati dalla strada Regale in trasversale e dalle strade verticali che dalle falde scendevano sul mare. Dominavano il gregge delle case come grandi pastori guardiani il Duomo e il Vescovado, l’Ostèrio Magno, la badia di Santa Caterina e il Convento dei Domenicani. Nel porto fatto rizzo per il vento, si dondolavano galee feluche brigantini. Sul cielo si spiegava a onde, come orifiamma o controfiocco, un cartiglione, con sopra scritto COEPHALEDUM SICILIAE URBS PLACENTISSIMA. E sopra il cartiglio lo stemma ovale, in cornice a volute, tagliato per metà, in cui di sopra si vede il re Ruggero che offre al Salvatore la fabbrica del Duomo e nella mezzania di sotto tre cefali lunghi disposti a stella che addentano al contempo una pagnotta”.
(Il sorriso dell’ignoto marinaio – Milano, 1976)
“Sbucato al piano Duomo, Petro si trovò davanti a tanta gente inaspettata, disposta contro le mura per tutti i quattro lati della piazza, le porte chiuse dei caffe, dell’Associazione Combattenti, Mutilati e Invalidi di Guerra, della Cooperativa Riscatto, del Partito Socialista e di quello Popolare, dal lato di palazzo Legambi, dell’Oratorio del Sacramento, di palazzo Maria e Piraino, al lato opposto di palazzo Attanasio, del Seminario, del Vescovado, dal Distretto fino alla scalinata in fondo, le cui tre rampe formavano una piramide di lutto per le vesti, per gli scialli delle donne sedute fittamente sui gradini…- sopra era il cancello sormontato da volute reggenti la cascata dei fiocchi d’un galèro, l’inferriata ai bordi del sagrato tra pilastri ch’erano i piedistalli di santi bianchi vescovi papi patriarchi avvolti in gonfi manti, con lunghe barbe mitrie triregni, con libri pastorali bozze di cattedrali, sopra erano le chiome delle palme contro gli archi del portico, il portale in penombra, la Porta dei Re, sopra, la loggia ad archi intersecati fra le possenti torri quadre con monofore e bifore delle celle campanarie, sopra, le torrette e le cuspidi a poliedro a piramide del Vescovo e del Conte, sopra, le banderuole contro la viva roccia, la tonda Rocca a picco murata e merlata lungo il ciglio, la gran croce di ferro sorgente da ginestre spini, i bracci il puntale contro il cielo a chiazze, a nuvole vaganti”.
“Oltre la caserma Botta e il teatro, al piano Arena, presso porta d’Ossuna, Petro discese alla spiaggia. Camminò fin dove si stringeva, cominciava la scogliera, la cortina delle case saracene sulle mura, le torri, i propugnacoli, sfociava da sotto l’arco acuto dei Martino, l’acqua del Lavatoio, la vena sotterranea. Era affollata d’uomini che spingevano gli almali, con urla pungoli bastoni, dentro il mare. Sopra la Rocca dominante, dietro per le campagne, Sant’ Elia Pacenzia Giardinello Carbonara, giù fino alla punta opposta Santa Lucia, erano i fuochi svampanti di vigilia. Suonarono le campane per la festa del domani, al Duomo al Carmine all’Annunziata, uscirono dal porto in quello scuro le barche con l’acetilene pei tòtani polpi calamari”. “Guardò il cielo perciato dalle stelle, l’infinità di esse, brillanti più del giusto, e le masse lucescenti, le scie, le Pleiadi, le Orse. E giù, nel buio lieve, la mole della Rocca, le case del paese accovacciate sotto, strette fra la sua base e il mare, intorno al guardiano, il maniero, la grande cattedrale. Dal piano d’essa, da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, con le famiglie dentro, padri fi-gli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso”.
“Gli appariva quel monumento inondato di luce in su quell’ora, familiare insieme estraneo, lontano, avamposto com’era di conquista nordica in questa porta, introito di Barberia, innaturale innesto, imposizione d’una religione e d’un potere trascendenti in una civiltà di sensi, di immanenze. Ma gli andava incontro come fascinato, tirato da un richiamo. Salì la scalinata e gli sembrò a ogni grado d’ascendere a un monte dove poteva compiersi il mira-colo, trascolorare il mondo, trasfigurarsi. Traversò il sagrato, la penombra del prònao e si trovò avanti alla Porta dei Re, sotto il portale di marmo spiegato sull’arco come un flabello, festoni segni zodiacali l’Agnello trafitto dallo stendardo.
Varcò la soglia. Un suono grave d’organo, un odore untuoso di fiori ceri incensi lo coinvolse. E lampe delle ninfe, miriadi di fiamme d’olio, di candele che stellavano navate presbiterio, e il raggio portentoso che dall’ogiva al fondo sgorgando apriva nel mezzo un cammino luminoso, schiarava nell’abside, nella conca nelle vele del cielo nelle ali, preziose tessere, faceva apparir figure, suscitare un regno di riflessi, cristalli di colore. Luceva di luce d’oro nel suo superno albergo, nel suo nimbo, nell’alto e al centro di ogni altro, un dio trasfigurante, un Pantocratore sibillino e aperto nell’abbraccio, nel libro dei messaggi, EGO SUM LUX…” “Guardava i registri bassi, nella curvatura del coro, nelle ali, ai lati della fonte abbagliante, delle cornici, delle strombature infiorate, incluse fra le bande, le colonne di serpentino, di porfido, la chioma dei capitelli mosaicati, le teorie dei Teologi di Roma e di Bisanzio, dei Santi Guerrieri, dei Pontefici, dei Diaconi, dei Profeti, dei Re, dei Prototipi nei festoni tondi. E ancora, meraviglia!, i Santi Testimoni, gli Apostoli Celebranti. Sopra, e quasi non osava, fra giovani principi in dalmatica, diadema stola pantofole gemmati, labaro e pane nelle mani, ali spiegate, Arcangeli in corteo, in ali diafane e vibranti per Lei, l’Orante, la Platitera, Colei che contiene l’Incontenibile, Signora, Panaghia,
Madre della Madre dei Santi, Immagine dell’Immagine della Città di Dio (…) Dopo solamente osò guardare in alto, al lago d’oro, alla cuna sfavillante, perdersi nella figura coinvolgente, nel severo volto e consolante, nel tremendo sguardo e protettivo dell’Uomo che trascolora, si scioglie nella luce, nell’abbaglio. Sopra, al cielo dei Cherubini e Serafini, librati nell’ali di pavoni, di tortore, cardelli.
Oltre, oltre ogni splendida parvenza, velario di gemme, specchio d’oro, parete di zaffiro, arazzo di contemplazione, tappeto di preghiera, rapimento, estasi, oblio, iconostasi allusiva, schermo del Mistero, dell’Amore infinito, della Luce incandescente”
(Nottetempo, casa per casa – Milano, 1992)
Si concludeva così il racconto del mio approdo a Cefalù. Da cui, come l’Ulisse dall’isola di Circe, non potevo più ripartire. Sarei rimasto per sempre in questo paese della memoria ritrovata, in questo scrigno d’ogni segno, in questo porto della conoscenza da cui solo salpa il naviglio della fantasia.
Altro viaggio a Cefalù, altro racconto straordinario è quello di Giuseppe Leone fissato nelle bellissime immagini di questo libro. Viaggiatore frenetico e instancabile per tutte le contrade di Sicilia è il grande fotografo, è un vittoriniano personaggio de Le città del mondo alla ricerca incessante d’ogni scintillio di bellezza, sopravvivenza, nell’Isola che svanisce, sprofonda ogni momento nell’oblio di sé, nell’insignificanza; alla ricerca dell’umanità più vera, della sua dimora, del suo paesaggio sempre più violato. E ci ha dato, Leone, la sconfinata nudità della Sicilia interna, il profondo silenzio e l’armonia dell’altopiano ibleo, il barocco ardito e malioso del Val di Noto, l’esplosione vitale delle feste in città e paesi, il lavoro, le fiere, le cavalcate di contadini sopra i Nebrodi.
Il commosso e lirico ritratto d’oggi di Cefalù è una ulteriore tappa del lungo suo viaggio. In cui di Cefalù ha colto l’essenza sua profonda, l’espressione unica, incomparabile con ogni altra. L’ha colta nelle strade, nella gente, nei movimenti, negli umili angoli, nei sublimi monumenti.
Vincenzo Consolo
Sant’Agata Militello, 31 ottobre 1998
Foto di Giuseppe Leone
Dalla Sicilia alla luna
Come la rosa, il mare o l’intimo usignolo, la Luna – «sole delle statue», come la definisce Cocteau – è stata una fonte inesauribile di ispirazione in tutte le letterature. E se – come afferma Consolo – quel giorno dell’estate 1969, in cui l’astronave Apollo profano la Luna, è stato un giorno nefasto per la poesia, nulla ci impedisce di pensare che l’astro ha riconquistato tutti i suoi poteri dal momento in cui uno degli astronauti ha dichiarato che, vista dalla Luna, la Terra è una piccola scintillante sfera blu. Di colpo, l’immagine di Paul Eluard – la Terra è blu come un’arancia»- è sembrata profetica. Se è vero che in Ariosto la Luna è oggetto della più memorabile delle invenzioni (con il paladino che vi scopre tutto quello che gli uomini banno perduto nel corso dei secoli, e in particolare gli slanci e i sospiri degli innamorati), è pur vero che la Luna non ha ispirato soltanto i poeti. Nel secondo secolo della nostra era, Luciano di Samosata aveva descritto i Seleniti come esseri che filavano e tessevano vetro e metalli nutrendosi di -estratti d’aria; allo stesso modo Swift li ricorda nei Gulliver’ Travels: considerazione dalla quale possiamo concludere che la cosiddetta science-fiction si trovava già nella Storia vera del Greco. Ma nel diciassettesimo secolo, ispirandosi alle idee di Copernico e attingendo soprattutto al Somnium Astronomicum di Keplero (opera sulla topografia della Luna e la natura dei suoi abitanti, che l’autore finge letta in sogno), Cyrano de Bergerac scriveva /Histoire comique des Etats et Empires de la Lune. In quest’opera gli abitanti della Luna – cacciatori di allodole che, raggiunte da frecce infuocate, cadono già arrostite – credono che Cyrano sia una sorta di scimmia e come tale lo trattano. In seguito, la fantasia degli scrittori ha continuato a popolare l’amato satellite e ha perseverato nel considerarlo irraggiungibile meta di un viaggio impossibile. Non ultimo André Malraux, che nella sua prima opera – Lunes de papier (1921) – sognava lune-palla che s’involavano verso il Regno della Morte. Da parte sua, Roger Caillois osservava che Newton non ha scoperto la legge di gravita, come si crede, vedendo cadere delle mele da un albero, ma notando che, mentre la mela cadeva, la Luna non cadeva affatto. Oggi, il siciliano Vincenzo Consolo sogna la caduta della Luna in un dialogo poetico-filosofico, mascherato da libretto d’opera barocca, che si intitola appunto Lunaria. Questo testo ha una genesi curiosa: il punto di partenza è un lavoro del barone Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a sua volta autore de Il Gattopardo. Il barone Piccolo, benché ricchissimo, credendo di essere improvvisamente caduto in miseria, volle porvi rimedio scrivendo un testo destinato alla scena… Nacque così L’esequie della Luna, che Pasolini – dal fiuto sempre inquieto e infallibile – pubblicò sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1967, e che, alcuni anni dopo, un giovane regista decise di mettere in scena. Poiché il poema in prosa di Piccolo era diabolicamente ermetico, fu chiesto a Consolo di farne l’adattamento. Cammin facendo, preso dall’avventura della creazione letteraria, Consolo si allontano talmente, e talmente bene, dal testo di Lucio Piccolo, da dar vita a un nuovo testo, Lunaria appunto, che di quello originario conserva solo il germe. Cosi come, d’altronde, certe pagine di Leopardi – che per primo aveva sognato la caduta della Luna – erano state il germe delle Esequie del barone. Il lettore è trasportato nella Sicilia del diciottesimo secolo in cui un viceré – che apostrofa il sole trattandolo da tiranno e da barbaro perché oltraggia i loculi del sonno» – non crede né al suo potere né alla sua missione, convinto com’è che malinconica è la Storia» e che esiste solo il tutto, ossia l’universo, «questo incessante cataclisma armonico, quest’immensa anarchia equilibrata». Non sarà che il viceré è uno iettatore? In effetti, la notte in cui sogna la caduta della Luna, quella si stacca; se ne ritrovano pezzi, qua e là nella campagna circostante, il più piccolo dei quali è sufficiente a fare impallidire tutti i lumi del palazzo… Si pensi, tra la letteratura contemporanea, quelle opere teatrali ibride, solitarie, quali Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas o The Antiphon di Djunta Barnes: come quelle, Lunaria non sembra possa essere rappresentata in teatro, ma riserva alla lettura abbacinanti bellezze.
Un palinsesto filosofico
Paolo Mauri
Rubare i sogni non è reato e Leopardi fece una volta un sogno bellissimo, che era quasi un incubo (anche gli incubi possono essere belli). Nel sogno .[.. ] il poeta vede la luna staccarsi improvvisamente dal cielo, diventare via via più grande man mano che precipita, e rovinare di colpo in mezzo a un prato. In cielo soltanto un barlume, al posto dell’ astro caduto, anzi una nicchia. Visione tale da recare non poco tur-bamento, in cotal guisa / Ch’io n’ agghiacciava; e ancor non m’assicuro. Svanito il sogno, il turbamento rimase. Racconta Vincenzo Consolo che tentò di dargli forma teatrale, un giorno, il barone Lucio Piccolo: che era anche, come non tutti sanno, un raffinato poeta. Ma non gli riuscì. Ci ha riprovato ora Consolo stesso, che forse deve a Piccolo l’idea di trasferire il sogno in Sicilia. Lunaria, questo il titolo dell’operina di Consolo …], è infatti una messinscena siciliana, proiettata in un Settecento non ben precisato e animato da un Viceré abulico che guarda il suo tempo senza troppo apprezzarlo, mentre volentieri tende l’orecchio ai più grandi ed eterni dilemmi umani. …. Lo abbiamo detto all’inizio: rubare un sogno non è reato e meno che mai lo è in letteratura. Se ha certamente ragione Gérard Genette quando dice che ogni testo letterario è in realtà un palinsesto, nel senso che ogni storia, ogni libro, viene riscritto sulla base di un libro precedente, Consolo sembra dargli doppiamente ragione Lunaria […] è un palinsesto i cui strati sono in bella evidenza. Non tanto, o meglio non solo, per il dichiarato prestito leopardiano; in tutta la costruzione di Consolo circola un’aria iperletteraria, erudita, avverti un controllatissimo gioco di incastri. A cominciare dalla lingua: un italiano (quando non è dialetto o spagnolo), tornito, sapientissimo, musicale, un mosaico in cui s’incastonano autentiche rarità, da speleologo dei dizionari. Questa lingua, più mossa, più increspata di quella impiegata a suo tempo nel romanzo ha la funzione di rendere l’azione astratta e quindi (qui sì) dichiaratamente teatrale, simbolica. E un mondo, quello della luna che cade, che non scende a noi, ma al quale dobbiamo salire. Tocca a noi, lettori-spettatori, carpire il segreto musicale di un incubo da favola e adattarvi le nostre orecchie, disabituate al frastuono di una sintassi e di un lessico avari di concessioni al già detto. Restituendo al parlato quella patina d’antico di cui (dato il tempo in cui si svolge l’azione) ha bisogno, Consolo si rivela dunque “falsario” abilissimo.
Ma c’è di più. Resuscitando questo antico e fanciullesco sogno, Consolo vuole anche dirci che esso non troverebbe posto nello smagato mondo di oggi, che sulla luna addirittura ci è andato. Squisitamente para-leopardiana è la conclusione filosofica. La felicità, se la si vuol provare, bisogna recitarla, magari in un teatrino bizzarro e mentale come questo. Rovescio notturno del mito di Fetonte che rovinò con il carro del sole, il sogno della caduta della luna non può appartenere a una civiltà agreste. L’ultima che si è concessa un rapporto irripetibile con la notte e che a luci spente ha concepito favole, idilli e umano terrore.
(la Repubblica, 2 luglio 1985)
Quando la luna cadde alla corte del Viceré
Antonio Prete
Leggo Lunaria, l’operetta di Vincenzo Consolo che ha per “protagonista” la luna, a distanza di qualche mese da alcune mie – come chiamarle? – meditazioni esegetiche attorno alla luna leopardiana, alla sua teofania nei Canti, alla sua luce che insieme vela e rivela il paesaggio naturale, dischiudendo, nella notte un altro paesaggio, quello dell’interiorità. Che cammini velata di nubi viola, o che tremi di solitudine e di bagliore in un cielo di ghiaccio, la luna leopardiana illumina quel limitare della coscienza sul quale l’impensato dialoga con le forme del pensiero, ciò ch’è perduto cerca una nuova lingua. La luce lunare racconta in Leopardi l’essenza stessa della poesia. Così, è stato forse questo mio recente vagabondare critico (e lunatico) nei Canti, fino al Tramonto della luna, a farmi da appassionata guida nel racconto dialogato di Lunaria, in questo cuntu che .[..] ruota attorno al sogno leopardiano che narra la caduta della luna […]. Oppure è stato l’improvviso ritorno di immagini che avevano accompagnato, nell’estate del 76, proprio nelle trasparenze di alcuni meriggi siciliani, la lettura del Sorriso dell’ignoto marinaio, a introdurmi nel nuovo racconto […].
Il racconto raccoglie, così mi sembra, sovrapponendoli con delicata arguzia, frammenti di generi non più frequenti, anzi polverosi di letterario oblio: il Trauerspiel, tuttavia spogliato dei suoi emblemi funerei e delle sue allegorie di cenere incastonate nel fulgore della corona, insomma rivisitato più dalla parte della Torre hofmannsthaliana che dei suoi barocchi luttuosi modelli: l’operetta morale, riscritta con una dilatazione degli scenari e della partiture linguistiche della visualità e della coralità; la favola teatrale, aperta a ritmi popolari, a cadenza di proverbi, sospesa tra documento etnografico ed evocazione magica, tra fonti descrittive e levità di narrazione. Ma quel che unisce questi frammenti, e allontana i generi nel loro esile e circoscritto compito di stimolo, è la lingua, vero oggetto di questa narrazione. Una lingua che contamina flessuose e immaginose movenze barocche con insistenze “stralunate”, da lessico lussurioso e tuttavia straniato. Più che l’intrico dell’arabesco, c’è la sua ossessione di luce, attraverso la complicità tra ripetizione e variazione. Una lingua fatta di calchi, mimetismi libreschi, citazioni, ridondanze tornite e autoironiche. L’elencazione è insieme tecnica che ravviva e ritmo adeguato alla teatralità eccessiva e malinconica della favola. La lingua artificiale e musicale, parlata da villani e villanelle della Contrada e dal messaggero Mondo, irrompe, metafora d’una primordialità contemplativa perduta, nei linguaggi declamatori della corte. Nel finale, deposte le insegne del potere, il Viceré recita l’amplificazione gnomica che portava il pubblico del teatro barocco nel cuore del gran teatro del mondo: la sua vanitas: «Vero re è il Sole, tiranno indifferente, occhio che abbaglia, che guarda e che non vede. È finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica salda la cangiante Terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima, tenera face, allusione, segno, sipario dell’eterno». Che il vero testo d’avvio, non dichiarato, della favola di Consolo, e di L’esequie della luna di Piccolo, non sia il leopardiano Spavento notturno, ma il bellissimo verso de Il tramonto della luna, dove nella cesura si raccoglie l’evento e l’allegoria del vivere: «Scende la luna; e si scolora il mondo»? Con l’assenza della luna, sul paesaggio scende la notte d’un immensa vanitas, ma il silenzio che sopravviene allo scenico reclino della luna dischiude l’invisibile, come accadrà, dopo Leopardi, ai notturni di Rilke. Ma qui, chiusa la picciola favoletta» di Lunaria, eccomi tornato a quel meditare lunatico…
(Il Manifesto, 1 agosto 1985)
Non ci si allontana dalla Sicilia con Retablo, romanzo che, in Francia, esce contemporaneamente a Lunaria. Di primo acchito Retablo può essere considerato come appartenente allo stesso filone del Concierto barocco di Alejo Carpentier, ma in più possiede quelle malinconiche digressioni metafisiche che non hanno mai tentato il grande romanziere cubano. L’argomento trattato è il viaggio intrapreso da Fabrizio Clerici, pittore di anticaglie», nelle estreme terre della penisola: va in cerca di rovine e di vestigia del passato, sulle orme di quel monaco Fazello che «basandosi sulla parola antica di Diodoro» scopri «circondata dalla macchia e dalla palude, la defunta Selinunte». Gli fa da guida un fraticello. Briganti che sono monaci che hanno gettato la tonaca alle ortiche, pastori e cantastorie che salvaguardano la memoria dell’isola, contadini occupati a ripulire i campi da quelle antichità contro le quali urta il vomere dell’aratro: ecco i personaggi che popolano questo racconto il cui tempo è, senza sosta, “allegro con brio”. Le parole sono come perni sui quali la frase ondula, scende, risale, si attarda chiamandone altre che accorrono, si alternano, si snodano, vibrano, scintillanti di metafore. Il lettore è riportato in un passato trasfigurato, a quella prima meraviglia incredula e reciproca che dovettero provare, messe a confronto, la Lombardia illuminista (impersonata dal cavalier Clerici) e quella Sicilia dalla quale i Greci e gli Arabi non sono mai partiti. Retablo ha il tono brioso di un divertissement in cui anche l’erudizione si presta al gioco. Ma, come in Lunaria, dietro il sorriso si cela lo stesso pianto; sì: «malinconica è la Storia». E la mirabile statua che scivola dalla barca del cavaliere, forse – tutta incrostata di madrepore – un giorno sarà ritrovata. Agli occhi della divinità, al di là del tempo, non ci sarà alcuna differenza tra la Nike di Samotracia e la conchiglia prodotta da una bestiola mucosa che porta in sé una riserva di sale e di madreperla, destinata ad essere versata in uno stampo di geometrica perfezione. Va notato, per concludere, che Fabrizio Clerici è il nome di un grande pittore italiano contemporaneo, i cui soggetti prediletti sono città immaginarie, labirinti sventrati, insomma: ogni pietra scolpita ed erosa. Rendiamo omaggio, infine, all’arduo lavoro dei traduttori. […]
(Hector Bianciotti, Le Monde, 22 aprile 1988; traduzione di Marina Di Leo)
da Nuove Effemeridi, rassegna trimestrale di cultura. pagine -107 – 108 – 109
La poesia e la storia
III. La poesia e la storia.
Qui arriviamo a uno dei punti focali della sua ultima produzione: sempre più diventa preponderante il ruolo svolto dalla poesia nella struttura del romanzo.
Naturalmente, non si tratta in sé di una novità assoluta; è una cosa che appartiene a tutto il Novecento, ma nelle sue ultime opere questo elemento acquista un peso nuovo. Se è vero – come lei dice – che Nottetempo, casa per casa è la continuazione del Sorriso dell’ignoto marinaio, io vedo nell’opera più recente un notevole stacco sia di poetica, sia di epoca storica.
È vero che il modello che sta dietro al Sorriso dell’ignoto marinaio, come si è detto prima, è Manzoni; ma rispetto a Manzoni c’è una rottura, anche dal punto di vista epistemologico, notevole. L’altra questione fondamentale è la rottura col populismo, da una parte, e con il continuum storicistico dall’altra. Lei ha detto testualmente, in una recente intervista, che «la prosa non è più in grado di narrare la nostra realtà»; addirittura, ha detto che i veri grandi scrittori di prosa della nostra epoca sono i giudici che inquisiscono i politici e così via. Sembra insomma che l’ultimo serbatoio di conoscenza per lo scrittore possa essere solo La poesia. Non crede che in questo ci sia il rischio di ricadere nel lirismo? Nella sua stessa prosa si vede il segno dei tempi, il segno che qualcosa è cambiato dal 68, dall’epoca della politica, dell’opposizione; che siamo ormai in un epoca limita per rimanere all’opposizione, come credo lei voglia fare, ci si deve «rifugiare» nella poesia. Quando, per esempio, nel gruppo della neo-avanguardia, per dirne una, la poesia era l’obiettivo polemico principale.
Non so se c’è concessione al lirismo nel mio ultimo romanzo. C’è, sì, una maggior diffidenza verso la scansione prosastica, che vuol dire una maggiore ritrazione rispetto alla comunicazione.
In confronto al Sorriso, questo libro è più compatto, più chiuso in una sua gabbia ritmica, in una sua densità segnica. Ho voluto scrivere una tragedia – niente è più tragico della follia – con scene-capitoli, con intermezzi del coro, che sono le frequenti digressioni lirico-espressive in cui il narrante s’affaccia e commenta o fa eco in un tono più alto, più acceso. Perché questo compattare, perché l’eliminazione dalla scena del messaggero, dell’anghelos, del personaggio-autore che si rivolge agli spettatori-lettori e narra in termini non espressivi ma assolutamente comunicativi il fatto che è avvenuto altrove, in un altro tempo?
Perché è caduta la fiducia nella comunicazione, nella possibilità, ora, in questo nostro presente, della funzione sociale, politica della scrittura.
Non rimane che la ritrazione, non rimane che l’urlo o il pianto, o l’unica forza oppositiva, alla dura e sorda notte, la forza della poesia, della tragedia, la prima, la più alta delle arti secondo
Hölderlin.
Esimi studiosi, soprattutto nel campo letterario, parlano a proposito del post-moderno addirittura di rottura epocale: fra il 1950 e il 1960 il costume delle popolazioni nel mondo, i modi di vita, i rapporti tra le persone sono profondamente mutati per effetto della terza rivoluzione industriale. Lei crede invece che sia una sostanziale continuità?
No, credo che ci sia più rottura che continuità, in campo politico-sociale, economico, industriale e quindi in campo letterario. Il romanzo sta avendo un doppio destino. Da una parte, sta degenerando (nel senso che sta mutando di genere), sta diventando, rispetto a quello che conoscevamo come romanzo, qualche cosa d’altro che non so ancora definire. A questa degenerazione si possono ascrivere romanzi-fiume di estrema comunicazione e fruizione, come si dice, scritti nella nuova lingua tecnologico-aziendale o mass-mediale e quindi di immediata traducibilità: le masse sono uguali in tutto il mondo e parlano tutte la stessa lingua. Sono romanzi d’intrattenimento, didascalici, ludici e di gratificazione mondana. Dall’altra parte, avviene una sorta di revanchismo letterario, di recuperi di vecchie estetiche che erano state sepolte: neo-rondismi, neo-formalismi, nuove prose d’arte, psicologi-smi, esistenzialismi…
Si stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario penso sia quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da «felici pochi». Pensare a un romanzo letterario che sia largamente e immediatamente letto è assolutamente illusorio o utopico.
A proposito di Retablo, di cui non abbiamo ancora parlato, si può dire che lei nell’87 già prefigurasse un po’ la situazione dei nostri giorni. Anche in quel caso un intellettuale si allontanava da Milano…
Un intellettuale, un artista anzi, Fabrizio Clerici, si allontanava da Milano e andava in Sicilia, alla ricerca della matrice culturale e umana della donna di cui era perdutamente innamorato, Teresa Blasco, che nella realtà, nella storia, è stata la madre di Giulia Beccaria. Teresa Blasco al pittore Clerici preferirà insomma Cesare Beccaria. La metafora del racconto è ancora una volta nel rischio di tener separate ideologia e poesia. Clerici si allontana da una Milano illuminista, dalla città dei Verri, e del Beccaria, del Lambertenghi, da un luogo fortemente ideologizzato in cui crede che non ci sia spazio per la poesia (ma la poesia la porta in grembo Teresa Blasco, che tramite la figlia genererà Manzoni), si allontana per andare in una Sicilia mitica, dei templi greci, dell’Arcadia, delle ninfe e dei satiri, e sbatte invece il naso contro una realtà di miserie, violenze, piaghe, orrori, ma anche di bellezze e ricchezze umane.
In Retablo il livello metaforico è molto elevato: Milano è una città pseudo-settecentesca, ma in effetti è molto novecentesca. In essa già si consumava una specie di rito che in questi giorni per lei è stato oggetto di critiche, quando ha adombrato l’idea di abbandonare questa città.
Siamo tornati al punto di partenza, alla prima domanda, alla mia dichiarazione di lasciare Milano in caso di vittoria della Lega Nord. Avevo iniziato col dire che sono stato vittima di mitologie. Ecco, a Milano mi s’era infranto il mito della civiltà industriale, urbana, della città del Politecnico, del luogo cioè dove in qualche modo esisteva la probità e la trasparenza amministrativa e una certa equità sociale s’era realizzata. Lasciamo gli anni bui e tragici degli autunni caldi, della strategia della tensione, gli anni di piombo, gli anni manzoniani di rivolte, assalti ai forni, di peste, di follia e di desolazione, e arriviamo alla Milano pacificata e trionfante degli anni ottanta, alla Milano craxiana: un orrore!
Non può immaginarlo chi non ha vissuto quegli anni a Milano. C’era un clima spensierato, cinico, di ottuso scialo: un carnevale o un paese di cuccagna alla Breughel. Si era passati dalla tragedia alla volgarità. Voglio qui leggervi un passo di Retablo. Si tratta di un’invettiva di Clerici rivolta alla sua città, affidata a una lettera per Teresa Blasco. I personaggi che egli cita sono riconoscibilissimi, uno per uno. Devo avvertire che la parola arasso significa lontano.
«O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involu-to! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, 1l ciarlatan, 1l falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via via, lontan!». Ecco, nell’87 scrivevo questo. C’era disamore e furore nei confronti di una città che era diventata inospitale. Inospitale come la Tauride di Euripide. In quel deserto, in quel campo di macerie succeduto allo scialo, sono spuntati i leghisti. Non il movimento politico in sé m’interessa, ma il clima culturale e morale da cui i leghisti sono sbucati, un clima, una couche che mi allarma. Una regressione, ripeto, esprime la Lega, una Vandea. Mi aveva allarmato, fin dal loro primo apparire, il ripiegamento linguistico, la ritrazione nel dialetto, il revanchismo e l’aggressività: no, non mi sembra che siano portatori di idee, di un progetto politico, ma di velleitari e pericolosi risentimenti. La mia dichiarazione ha voluto essere un’opposizione, solitaria e donchisciottesca quanto si vuole, alla loro intolleranza, al loro chiasso assordante. Opposizione soprattutto a quegli intellettuali – gli stessi di sempre – che dal carrozzone democristiano e socialista s’erano affrettati a salire sul carro o carroccio leghista, agli altri che, zitti e prudenti, stavano ad aspettare lo svolgersi degli eventi.
Tornando al rapporto tra letteratura e storia e alla metafora, non si può non rimanere colpiti dalle considerazioni che lei faceva a proposito dei sensi di colpa di Ulisse e dell’umanità di questo secondo dopo guerra. E anche dalla considerazione che faceva sulla necessità del romanzo storico. Ci si può chiedere però di cosa si deve occupare e si occupa di fatto la letteratura, e di cosa per necessità di statuto deve continuare ad occuparsi la storiografia. Perché se non c’è letteratura, se non c’è romanzo senza metafora si mette a rischio l’efficacia della storiografia e del romanzo storico; se la metafora è sempre metafora di una condizione umana necessariamente alienata, come io credo che sia la condizione umana, la storia che ne risulta è una storia immobile: il rischio, insomma, è che non si colgano più le differenze, non si colgano più le trasformazioni di questa alienazione, e lo dico alla luce delle sue parole di oggi, ma sono le stesse impressioni che ho avuto leggendo Le pietre di Pantalica. Il racconto delle occupazioni delle terre nel secondo dopoguerra e il racconto delle manifestazioni pacifiste a Comiso danno la stessa emozione, che è poi quella dell’impossibilità di coniugare l’individuale e il generale, il percorso soggettivo e l’oggettivo, l’individuo che si scontra sempre e comunque con qualcosa di troppo grande: è certo una riflessione sulla condizione umana, ma le contraddizioni di oggi sono ben più gravi di quelle di ieri, il pericolo dell’incubo atomico è ben peggiore del problema dell’occupazione delle terre nel dopoguerra, e così si perdono le dif-ferenze. Mentre prima di questa conversazione pensavo che anche per lei il compito dello storico e del romanzo storico – che ha in più lo stile – fosse proprio quello di cogliere l’essenza di queste trasformazioni, invece adesso ho l’impressione che colga l’essenza delle permanenze. Gli storici, e anche i migliori tra essi, hanno speso anni a raccontare anche la parte «normale», non solo drammatica, del Mezzogiorno; ma forse è in questo che si differenziano storia e letteratura. Ma allora, mi chiedo, il romanzo storico in che cosa è «storico», se suo compito è quello di raccontare la permanenza delle sofferenze umane?
Tante domande in una. E difficili anche. Tento di rispondere. La letteratura non so di cosa deve occuparsi. La mia, intanto, non si occupa di assoluti, di Dio o di dei, di esistenza, di miti, di utopie o di mondi fantastici. Si occupa di relativi: dell’uomo, qui e ora, nella sua dimensione privata e nella sua collocazione pubblica, civile, storica. Certo, una letteratura, un romanzo siffatto dà l’immagine di una storia immobile, perché è critico, oppositivo, e non può lamentare e denunziare le «normalità». Queste, se mai sono esistite, forse è meglio chiamarle differenze, gli storici hanno il compito di registrare. Ho sempre detto anche in una ipotetica società perfetta, il romanzo (diciamo storico), non la poesia, ha sempre il dovere di stare all’opposizione, proprio perché quella coniugazione che lei dice, dell’individuale e del generale, è un’aspirazione, un’infinita approssimazione. Leopardianamente penso che la vita sia infelicità e dolore, che l’unico mezzo per «aggiustare» la vita sia la «confederazione» tra gli uomini, l’unico luogo quello civile, politico.
Il romanzo storico è tale in quanto utilizza la storia per i propri fini, per fare cioè di una storia, metafora.
Ho scritto un racconto dal titolo Un giorno come gli altri (pubblicato in Racconti italiani del ‘900, nei Meridiani di Mondadori), in cui immagino o sogno di trovarmi nella città di Ebla, l’antica città dove l’archeologo Matthiae ha rinvenuto un intero archivio di stato su tavolette d’argilla, in compagnia di Giovanni Pettinato, lo scopritore della lingua eblaita.
Il glottologo ricompone alcune tavolette sparse a terra, legge i segni cuneiformi sopra incisi, e mi dice: «È un racconto, un bellissimo racconto scritto da un re narratore… Solo un re può narrare in modo perfetto, egli non ha bisogno di memoria e tanto meno di metafora: egli vive, comanda, scrive e narra con-temporaneamente…».
Noi non siamo, ahimè, re, neanche viceré, non siamo Clinton né Agnelli, abbiamo dunque, scrivendo romanzi storici, il dovere dell’opposizione e della critica al potere.
Alcuni racconti, come quelli pubblicati su «Linea d’ombra», sono quasi a livello cronachistico…
Sono racconti scritti in una prosa quasi referenziale. Sono spesso ambientati a Milano, nel presente, e quindi non smuovono la mia memoria, non m’impegnano sul piano della ricerca linguistica. La loro valenza letteraria, se mai ce l’hanno, bisogna cercarla al di là dello stile, in altre implicazioni. Ad un altro tipo di scrittura sono stato obbligato, ad esempio, nella sezione di Le pietre di Pantalica intitolata Eventi. Racconto lì appunto l’estate del 1982 in Sicilia, partendo da Siracusa, passando per Comiso e arrivando a Palermo. Nella Palermo della peste e dei massacri, del centinaio di morti dall’inizio dell’anno, dell’assassinio di Pio La Torre e dei coniugi Dalla Chiesa. Racconto in prima persona, con una immediatezza da reportage giornalistico. Fu tale allora per me l’urgenza di dire, dire della Sicilia di quel momento, che abbandonai il romanzo storico, lo stile, i tempi lunghi della metafora.
L’urgenza, l’impellenza provocata dall’atrocità del fenomeno della mafia e del potere politico portò Sciascia, ad esempio, dopo il Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore, a fare la grande svolta verso il romanzo poliziesco, il giallo politico. Costruendo storie che erano una parodia della realtà, ma di una tale penetrazione e di una tale restituzione della verità che riuscivano ad anticipare lo svolgimento della realtà stessa, ad essere profetiche. La stessa cosa fece Pasolini, fuori dalla finzione letteraria, della parodia, con i suoi interventi sui giornali, con la forza dei suoi jaccuse, delle sue provocazioni e delle sue requisitorie, dei suoi Scritti corsari. Non li rimpiangeremo mai abbastanza questi due scrittori civili italiani.
C’è qualcosa di letterario, di intellettuale in questo suo pendolarismo tra la Sicilia e Milano? La seconda domanda si collega alla prima: alla fuga corrisponde un altro polo di aggregazione che evidentemente non è solo fisico ma di fazione letteraria e se vogliamo anche metaforica?
C’è, prima di tutto, la mia vicenda umana, la mia storia di vita, che poi forse diventa vicenda intellettuale e letteraria. Dicevo che mi sono trovato, fin dal mio muovere i primi passi, nella piccola geografia siciliana, alla confluenza dei due mondi, tra due poli, e sono stato costretto al pendolarismo nel tentativo di trovare una mia identità. I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo dell’attuale mondo milanese. Voglio dire che continuo sempre a scrivere della Sicilia, ma con la consapevolezza, spero, della storia di oggi, del nostro mondo postindustriale, come lo colgo e leggo a Milano. Anche Verga – si parva… – da Milano cominciò a scrivere della sua Sicilia, a Milano tornò con la memoria alla Sicilia, a quel mondo «solido e intatto della sua infanzia», come dice Sapegno. Girando le spalle a quella città in piena rivoluzione industriale e sociale che non capiva e che lo «spaesava», alla Milano in cui rimase per diciotto anni, ma girando contemporaneamente le spalle alla Sicilia di allora, quella della corruzione e della mafia che avevano messo in luce Sonnino e Franchetti, dei contadini e degli zolfatari che in nome del socialismo cominciavano a chiedere giustizia. Scrisse insomma Verga i suoi capolavori su una Sicilia fuori dalla storia, mitica, del mito negativo della «ineluttabilità» del male, su una Sicilia solida e intatta appunto, cristallizzata. Fuga da Milano significa ritorno e aggregazione all’altro polo da cui avevo a suo tempo preso le distanze, significa ritorno reale e letterario? No so, credo di no. Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo prigionieri, a Milano, a Roma, à Palermo, della tessa realtà, afflitti tutti dallo stesso male. La mia dichiarazione di lasciare Milano aveva un valore linguistico, era un gesto simbolico di protesta. E ha irritato o inquietato tanta gente. Un vecchio critico milanese, un uomo compromesso col potere democristiano, è arrivato a insultarmi. Non voglio apparire megalomane, ma temo di esser diventato inviso a certi gruppi di potere culturale milanese, a certi cronisti di grandi testate giornalistiche. Ho ricevuto però anche tantissimi messaggi di consenso, di solidarietà. «Il Giornale» di Montanelli, all’indomani delle elezioni, così scriveva in un corsivo improntato al rispetto e alla civiltà: «Un’ombra ha turbato ieri le coscienze di non pochi milanesi, la decisione dello scrittore Vincenzo Consolo, siciliano di nascita e milanese d’adozione, di lasciare il capoluogo lombardo in seguito alla vittoria della Lega…». «L’indipendente» invece, in un ignobile corsivo, mi invitava a fare le valigie e ad andarmene. Me ne andrò sì, quando vorrò io, ma non so dove. So solo che ora, alla mia età, essendone Stato privato per tanti anni, sento il bisogno di rivedere le albe, i tramonti, di stare in un luogo dove il paesaggio fisico e quello umano non mi offendano. No so se esiste questo luogo, lo devo cercare. E forse sarò vittima di un’altra utopia.
Un’ultima domanda: si può ancora parlare di una componente mitico-utopica dell’attività dello scrittore, del letterato?
Mi sono sempre sforzato di essere laico, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è 1l romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico – anche quelli che scrivono di Dio o di miti fanno ideologia, coscientemente o no -, cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.
Vincenzo Consolo
Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993
Fuga dall’Etna. La Memoria.
II. La memoria
Spesso la ricezione di un’opera d’arte passa attraverso dei filtri letterari, e nel caso del ritratto di Antonello da Messina un filtro importante è stato, per la nostra generazione, senz’altro il suo libro. Tra l’altro, l’impressione che si ha nel vedere l’ignoto del quadro è che le somigli molto. Quale è stato il suo rapporto con il ritratto di Antonello, quando lo ha visto per la prima volta? E come ha immaginato le sue vicissitudini: si tratta di una fantasia che risale all’infanzia, all’adolescenza, o ha più a che fare con un’esperienza di maturità?
Ho visto quel quadro in anni lontani, non riesco a ricordare quando. Da ragazzino, certo. Lo vidi poggiato su un cavalletto, senza cornice, vicino a una finestra, illuminato dalla luce solare. Mi sembrò un quadro grande, e invece è di piccole dimensioni, 30×25 (adesso sembra più piccolo, ed è diventato quasi invisibile per ragioni di sicurezza è stato relegato in un angolo, distante da chi guarda, imprigionato dietro un vetro che fa da specchio e schiacciato da una mostruosa cornice aggettante). Il personaggio effigiato mi appari familiare e insieme lontano, enigmatico. Era uno che «somigliava» a tante persone che avevo conosciuto o che mi vedevo intorno. Quegli occhi, quel sorriso ironico, quella forza realistica, concreta dell’aspetto
(Cesare Brandi dice che ha la consistenza di un cristallo), rappresentava certo l’archetipo dell’uomo siciliano, con tutte le componenti etniche e culturali dietro, giunto, dopo la tempesta della giovinezza o la precarietà sociale, alla sicurezza della maturità, della cultura e del censo.
Quando cominciai a scrivere il romanzo, il quadro si caricò di vari significati, fra cui questo.
Il viaggio del Ritratto d’ignoto, nel simbolico tracciato di un triangolo avente per vertici Messina, Lipari a Cefalù voleva dire: un’altissima espressione di cultura e di arte sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per il terremoto abbattutosi sulla città dello Stretto distruggendola, cacciata in quel cuore della natura qual è un’isola vulcanica come Lipari, scoperta da un uomo sapiente e appassionato come il barone di Mandralisca, viene infine salvata e riportata nella sicurezza di Cefalù, preambolo, porta del gran mondo palermitano. E non questo, tra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, passaggi perigliosi tra gli scogli di Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Tornava nel libro l’essermi trovato alla confluenza di due mondi siciliani, all’ incrocio della natura e della storia. E ho voluto rappresentare questo movimento, questo arrivare dal mare e approdare alla terra, dall’esistenza alla storia (c’è più volte nel romanzo l’arrivo in porto di un veliero).
Il movimento poi, verticalmente, dal basso verso l’alto, è simboleggiato dal carcere a forma di chiocciola, di spirale, dalle scritte che i carcerati hanno lasciato col carbone sulle pareti: in una progressiva e ascendente presa di coscienza sociale e politica.
Ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. «Questo libro è la storia di un parricidio» ha detto, riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra (mi pare che sia Sklovskij a dire che la storia della letteratura è una storia di parricidi). Lo sfregio è fatto da un personaggio, Catena Carnevale, che appare in limine, nell’Antefatto, ma che muove tutto il racconto, tutta l’azione. La ragazza, un’intellettuale, figlia dello speziale di Lipari, sfregia l’uomo del ritratto al quale perfettamente somiglia il fidanzato, Giovanni Interdonato, fuoruscito, clandestino per ragioni politiche, indignata perché la «rivoluzione» tarda a venire. All’uomo del ritratto somigliano anche il vescovo, il capo della polizia, lo stesso barone Mandrali-sca.. Non somigliano invece i cavatori di pomice o i contadini rivoltosi di Alcara. Il gioco delle somiglianze, circolare e chiuso, col ritratto vuol dire che dalla ragione si può uscire dall’ alto con il disordine e il furore della fantasia creatrice. La faccia contrapposta di Catena è quella dell’eremita allucinato, simbolo dell’uscita dal basso per disgregazione della ragione, per annientamento.
L’aspetto saliente del libro, da un punto di vista meno formale, è che per la prima volta viene scritto un romanzo storico il cui tema centrale è proprio la messa in questione della storia, la ricerca di una nuova scrittura della storia. E tutto ciò viene ottenuto mediante un montaggio fra i capitoli di invenzione, che pure parlano di personaggi storici, e i documenti posti in appendice, straniati dal contesto per creare un mutuo dialogo fra queste varie visioni del mon-do. Il che è anche un modo di dire che non esiste una storia, ma che le storie possono essere tante.
Anche la storiografia non ha più ormai da parecchio tempo la presunzione di descrivere fatti oggettivi, ma cerca di far interagire diverse prospettive nel tentativo di darne una ricostruzione attendibile. Eppure, nel libro, c’è una sorta di sfiducia nella possibilità di avvicinarsi al verosimile, se non al vero, anche attraverso questo metodo: alla fine si ricorre alla «tan-gente» utopica, all’affermazione della speranza che i protagonisti della storia, soprattutto quelli dei cet! subalterni, trovino da soli le parole per raccontarsi.
C’è, perciò, una contraddizione tra il tentativo di altissima mediazione intellettuale e il ricorso alla speranza in una immediatezza espressiva, che appare come una caduta un po’ demagogica…
Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni «possano scrivere da sé la storia». Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica. A parte il fatto che gli acculturati quasi sempre fatalmente, passano dall’altra parte… Ma lasciamo andare questi discorsi pericolosi. Il punto è la responsabilità di chi ha il potere della scrittura (parliamo ancora dell’arcaica scrittura. Pensiamo alla pericolosità di chi ha oggi in mano il potere dei media, di giornali e della televisione). Dire che quelli che non hanno questo potere sono le vittime,sono quelli che più soffrono l’ingiustizia, può sembrare populista. Sì, questo è il rischio, ma io l’ho affrontato mettendo in scena nel romanzo mille dubbi.
Piazza Armerina il 5 giugno 1966
Il libro è scritto nella prima parte in forma parodistica, mimetica, sarcastica se si vuole, quindi in negativo: faccio il verso a un erudito dell’Ottocento recluso nella sua mania antiquaria, che scrive i suoi saggi scientifici, che si occupa di malacologia, una materia quanto mai curiosa, eccentrica. L’erudito cozza suo malgrado contro la storia e entra in crisi: si trova davanti a un massacro, ed essendo un uomo di coscienza, non cinico, perora la causa dei rivoltosi che stanno per essere condannati a morte, scrive lettere al presidente del tribunale, Giovanni Interdonato. Questo è un espediente per un cambio di persona o di voce. L’altro scarto o frattura totale arriva alla fine, con le scritte sul muro del carcere. Naturalmente, nel primo cambio di voce, la scrittura non è più parodistica, cambia segno, si fa positiva, di adesione dell’autore alla voce del personaggio (è il gioco ambiguo della letteratura). La struttura del romanzo è spezzata. Non ho voluto scrivere il romanzo storico di matrice ottocentesca, compiuto, rotondo, sapienziale o pedagogico, d’intrattenimento o di consolazione (avrei contraddetto i presupposti da cui ero partito). Ho fatto così vedere l’ordito che sta sotto l’invenzione letteraria, ho esibito, fra un episodio e un altro, dei documenti storici. Ho tolto insomma i colori all’affresco (e quello storico, per la distanza temporale, come dice Leopardi, è quanto mai seducente).
Finora abbiamo girato attorno ad un nome, tra quelli che è possibile intravedere dietro la sua scrittura, e che non è siciliano, ma milanese, e cioè Manzoni. Qual è il suo rapporto, se c’è, con Manzoni! Perché le parole che lei ha usato sono quasi una filigrana manzoniana: il palinsesto, l’erudito, l’ironia e insieme il rapporto-scontro tra la realtà dello scritto e quella della storia, e poi la storia intesa come problema, come dramma. Siamo d’accordo sul suo rapporto con i siciliani, e anche forse con Gadda e Pasolini, ma Manzoni come lo sente?
Si sa, Manzoni è il nome fondamentale sacramentale forse dovrei dire, della letteratura italiana moderna, del romanzo storico. E noi scrittori siciliani, «inclini» alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. Nell’adolescenza avevo letto altri autori, D’Azeglio, Guerrazzi, Grossi, il siciliano Luigi Natoli, i cui romanzi, privi di metafora, e di tante altre cose, erano solo delle ponderose e soporifere storie romanzate. La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile.
Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi storici (ne sento sempre più la necessità).
L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni venti, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi…
Il sorriso e Nottetempo formano un dittico.
Ho sottolineato questo legame fra loro non solo con il luogo dell’azione, Cefalù, ma anche con altri segni. Gli incipit dei due racconti cominciano con la congiunzione «e»; il primo si apre con un’aurora, col sorgere del sole; il secondo con un notturno, col sorgere della luna. Nel primo ho voluto insomma raccontare la nascita di un utopia politica, della speranza di un nuovo asseto sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la follia della storia, il dolore e la fuga. Il protagonista, Pietro Marano, fugge dalla Sicilia, dal caos, dal fascismo che arriva (fugge da Milano, da Palermo), da un tempo atroce e allarmante.
Ho studiato gli anni venti, soprattutto in Sicilia, su libri, riviste, su un giornale che si stampava a Cefalù, «L’idea». Mi sono imbattuto, in quel paese, in personaggi veri, storici, interessanti, fra cui il mago satanista inglese Aleister Crowley, e li ho fatti muovere insieme a personaggi di invenzione, come sempre avviene nei romanzi storici. Del resto Manzoni nel suo famoso saggio sul romanzo storico chiarisce bene il concetto: sono i personaggi della storia che vanno insieme, camminano insieme ai personaggi di invenzione letteraria, e corrispondono e somigliano gli uni agli altri. Tutti devono avere la luce del loro tempo, e insieme devono riflettere il nostro.
Tornando al Sorriso dell’ignoto marinaio, questo ragionare da letterati sulla storia ha una precisa contestualizzazione, nel senso che avviene all’inizio degli anni settanta quando trova altri momenti di espressione letteraria, per esempio nel romanzo alla Morante. Naturalmente la storia di cui lei parla è qualcosa di più della storiografia, della storia quale disciplina, è una specie di controaltare denso e composito di quello che è il portato delle forme razionali della cultura, è la storia come rappresentazione complessiva che gli intellettuali danno di un mondo e dei suoi poteri. Qui forse c’è qualche punto di vicinanza con la Morante, nonostante le differenze che vi separano, e sarebbe interessante sentire da lei quale era il clima degli anni settanta rispetto a questo tema.
Ho trovato allora interessanti le teorie messe in campo dal Gruppo 47 tedesco, quello di Enzensberger, di Kluge, di altri. I tedeschi venivano da un’esperienza tremenda, quella del nazismo e dei campi di sterminio, e in Germania era in atto una sorta di rimozione di quella grande colpa che li schiacciava, che non li faceva vivere. Il Gruppo 47 voleva ostinatamente ricordare quello che era successo attraverso la storiografia, additare le colpe, parlarne, invece di seppellire tutto, nel tentativo di provocare una sorta di catarsi collettiva. Ci sono ad esempio due libri di Alexander Kluge, Descrizione di una battaglia e Biografie, di un realismo freddo, lucido, di puntigliosa scientifica documentazione che lasciano Senza fiato. Di quella logicità spietata che spesso hanno i tedeschi. Quegli scrittori per me (non ridano i germanisti) si possono dividere in pasticceri (Günther Grass, ad esempio, altri espressionisti) e in analisti. Kluge, Schmidt, Johnson, Enzensberger appartengono a questa seconda categoria. Quello della Morante non è un romanzo storico-metaforico, piuttosto è una rivisitazione della storia narrata attraverso una sotto-storia, quella dei vinti, degli umili. I capitoli si aprono con la storiografia ufficiale e quindi, in opposizione, l’autrice racconta la storia ignota degli innocenti, degli emarginati, delle vittime. La storia è mossa dalla pietà, dall’amore per gli umili, gli indifesi, per quelli che hanno pagato più di tutti per il fascismo e per la guerra. Ricordate il vecchio Brecht? «…Roma la grande / è piena d’archi di trionfo. Su chi / trionfarono i Cesari?… / Ogni dieci anni un grand’uomo. / Chi ne pagò le spese?…».
Per me c’era l’esigenza della metafora, l’esigenza cioè di rappresentare gli anni settanta attraverso lo schema storico.
Credo sempre più alla necessità e alla validità di quella scelta, della scelta cioè del romanzo storico, che vuol dire critico, vuol dire ideologico, per le ragioni cui sopra ho accennato, che sono interne alla letteratura, di ordine diciamo estetico, ma anche, soprattutto, per ragioni di ordine etico. Il più grande romanzo della civiltà occidentale, l’Odissea, è diviso in due parti: la Telemachia e l’Odisssea vera e propria. La prima è narrata in terza persona è quello il romanzo d’iniziazione, di formazione); la seconda parte è narrata in prima persona.
Il passaggio dalla terza alla prima persona, dal racconto oggettivo al soggettivo, avviene nella terra dei Feaci, quando il re Alcinoo invita l’ignoto naufrago a dire chi è e da dove viene.
«Io sono il figlio di Laerte, Ulisse, / tra gli uomini famoso per le astuzie; / la mia gloria va fino al cielo. / Abito nella chiara Itaca…» risponde l’eroe (cito nella bella traduzione di Giovanna Bemporad). E comincia quindi un lungo flash back, un racconto quasi onirico, fantastico, che si svolge in mare, dal momento che le navi hanno doppiato il capo Malea, un racconto di mostri, giganti, sirene, maghe, maliarde, di oblii, metamorfosi, tempeste, perdite, follia e morte. Sembra, quello di Ulisse, un racconto di tipo psicoanalitico, in cui il narratore fa riemergere dalla profondità del mare o della sua coscienza tutti i mostri che si portava dentro, i mostri generati dai suoi rimorsi. Ulisse infatti era il più colpevole degli eroi greci, perché il più astuto e il più consapevole, il più umano (Agamennone pagherà con la morte e con la maledizione nella sua stirpe la grande colpa iniziale). Ulisse aveva inventato la macchina sleale, il cavallo di legno che aveva determinato La sconfitta dei Troiani, aveva seminato morte e distruzione. Ulisse dunque si porta dentro questa grande colpa e compie un viaggio di dolore e di espiazione.
Finito il racconto in prima persona, soggettivo, riprende quello in terza persona. Ulisse raggiungerà, con la nave dei Feaci, Itaca, dove, per ritrovare l’armonia perduta, riprendere il suo posto familiare e sociale, dovrà combattere i nemici reali, i Proci.
Ecco, credo che nel nostro tempo, i mostri individuali, del nostro subconscio, sono emersi dagli abissi, si sono oggettivizzati, sono diventati mostri reali. Dopo Hiroshima e Auschwitz, dopo Stalin e Sarajevo, dopo tutti gli orrori di oggi, quei mostri profetizzati da Kafka o da Musil, da Eliot, da Joyce o da Pirandello, sono diventati mostri della storia. Questi mostri credo che la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità.
Anche per questo, per questa sostanza metaforica, si è parlato, a proposito della sua prosa, di un carattere teatrale, che del resto appartiene molto anche alla tradizione siciliana. Retablo, il romanzo successivo al Sorriso dell’ignoto marinaio, è la dimostrazione lampante di questa dimensione teatrale della sua scrittura, della composizione per quadri, di una propensione a scomporre l’unità della scena.
Più che a quella teatrale, credo che appartenga alla tradizione della narrazione orale. La narrazione epica dell’antica Grecia era orale. Ma anche nella tradizione araba, passata poi in Sicilia, la narrazione era orale. Nei romanzi di Tahar Ben Jelloun, in Creatura di sabbia, Notte fatale e nell’ultimo, A occhi bassi, ci sono sempre personaggi che in traduzione vengono chiamati cantastorie ma che in effetti sono contastorie, narratori orali che narravano nelle piazze (ancora ci sono nella piazza Jama el Fna di Marrakesh), come in Sicilia, fino a pochi anni fa quelli che narravano dei Paladini di Francia. I poemi narrativi credo che siano nati così, dall’oralità, avevano bisogno di un ritmo, proprio per un fatto mnemonico. Nella tradizione araba c’è uno stile che si chiama makamet, che consiste in una sorta di prosa ritmica, nata per ragioni pedagogiche. Nella mia scrittura c’è uno slittare della prosa verso un ritmo poetico.
Sento la necessità di far questo perché credo che la lingua della narrativa ha bisogno di «risacralizzarsi» (non solo, certo, attraverso l’espediente esterno del ritmo), di ritrovare dignità. La lingua oggi è talmente privata di identità, talmente appiattita, quotidianamente incenerita dai media, che è terribilmente difficile trovare una lingua per narrare. D’altra parte in Italia non c’è una grande tradizione di lingua narrativa. La nostra vera tradizione è quella dei poemi narrativi, popolari o aulici come l’Orlando furioso o la Gerusalemme liberata Gli scrittori italiani hanno dovuto sempre andare all’estero per poter scrivere in prosa, da Manzoni a Calvino, a Sciascia, mutuare cioè la loro dalla prosa francese o adottare una sorta di koiné funzionale di tipo transnazionale come Pirandello o Moravia. Penso che quando uno scrittore ha scoperto qualcosa di nuovo, di importante e ha urgenza di comunicarlo, allora la lingua diventa strumento del messaggio. Pirandello ha fatto questo, Svevo… Altrimenti, per rimanere nel campo letterario, si ha l’obbligo dello stile.
Volevo chiederle qualcosa proprio a proposito della lingua. Leggendo i suoi romanzi, ho sempre avuto la sensazione che si trattasse di un lingua quasi completamente inventata. Mi dicevo: adesso vado a vedere sul Devoto-Oli se esiste questa parola e sono quasi certa di non trovarla. Devo dire che non ho mai tentato questa ricerca, però mi piaceva molto quest’idea… e immagino anche che sia difficile per lei rispondere alla domanda che sto per farle perché è difficile razionalizzare il processo attraverso il quale nasce questa creazione, questa invenzione della lin-gua. Lei ha parlato di memoria storica, cioè della necessità per chi scrive, soprattutto per chi scrive romanzi storici, di fare una ricerca storica sull’ambien-te, il contesto, la situazione, i personaggi di cui si tratta; ha parlato anche di una memoria personale, di una lingua che evidentemente deriva da una formazione personale, familiare. Credo che per quanto la riguarda ci sia di mezzo anche il dialetto, il dialetto siciliano: ecco, l’alchimia di tutto questo come succede, come nasce?
No, le parole non si trovano nel Devoto-Oli né nel Fanfani o nel Tommaseo. Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. È quella particolarità storico-linguistica avvertita da Sciascia.
Questa cifra linguistica estrema mi ha accompagnato poi negli altri libri, nel Sorriso, in Lunaria… C’è un racconto ne Le pietre di Pantalica intitolato I linguaggi del bosco, in cui metto a fuoco proprio la mia «ideologia» linguistica.
Quelle parole, irreperibili nei vocabolari italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…
Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati.
Faccio qualche esempio. Nel Sorriso, di avvoltoi che si librano sopra cadaveri, dopo una strage, dico che stavano «arraggiati in cielo a volteggiare». Arraggiati voleva significare a forma di raggiera e insieme arrabbiati, famelici. In Nottetempo la sorella del protagonista, Lucia, ha un attacco di follia durante una gita a Bàida, un villaggio sopra Palermo. Bàida in arabo significa bianca, di bianco era vestita a sua volta la ragazza, cioè del colore-simbolo della follia. Superata la barriera sonora, quella sorta di ron ron ruffiano, credo che il lettore potrebbe essere stimolato a scoprire questi significati nascosti.
Vincenzo Consolo
Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993