«Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria» Variazioni consoliane sulla Sicilia, e altro.

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Osservatorio Bibliografico della Letteratura

Italiana Otto – novecentesca

Anno II, numero 6 -7

Settembre 2012

Rosalba Galvagno

 

«Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria»

Variazioni consoliane sulla Sicilia, e altro

Il racconto intitolato Il disastro storico può fare da cornice, in ragione della sua bruciante attualità, alla ricognizione del bel libro postumo di Vincenzo Consolo, ricchissimo di memorie, ironico e spassoso per alcuni tratti, implacabile e beffardo per altri, che ci ha ispirato alcune riflessioni.1

Il «disastro» è quello che spazza via la storia, in quanto catapulta l’uomo in uno stato naturale di nudità, smarrimento e animalità, sottraendolo appunto alla storia tanto faticosamente costruita.

Nelle calamità naturali, terremoti, alluvioni, eruzioni, oltre alle vittime umane e ai danni materiali, uno dei disastri maggiori è quello forse immediatamente inavvertibile ma che subito si produce e fa sentire i suoi effetti per generazioni future. È questo il disastro storico, il disastro della storia. Quando un terremoto, per esempio, squassa e polverizza città o tessuti umani fortemente storicizzati, che nei secoli avevano cioè sviluppato una loro particolare storia, una loro cultura, una loro civiltà, oltre a distruggere vite e documenti e beni, ributta indietro i superstiti dal piano della storia al piano della natura, dell’esistenza: in pochi secondi essi fanno balzi indietro di secoli.

Passati quei pochi secondi, in cui è preda di un terrore cosmico, l’uomo, spogliato di ogni segno storico, nudo e smarrito, scatena il suo istinto, la sua animalità.2

A dimostrazione di questa disumanizzazione Consolo cita due fatti emblematici, agghiaccianti, prodottisi all’indomani del terremoto nella valle del Belice del gennaio 1968. Uno riguardava il disinteresse e l’empietà quasi dei superstiti nei confronti dei loro morti e l’altro il costituirsi di branchi di cani famelici, predatori di sangue e putridume. C’è da meravigliarsi allora, s’interroga lo scrittore, se in questi momenti sbucano fuori i cosiddetti sciacalli, che scavano tra le macerie? Come ad esempio a San Francisco dopo il terremoto e l’incendio del 1906, dove i predoni venivano sommariamente impiccati, o dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria, dove i predoni venivano passati per le armi. Ma vi è un’altra forma di sciacallaggio, quello a freddo, razionale, che nasce al di fuori del teatro del disastro, non più degli sciacalli caldi o freddi e in un secondo tempo, come lo sciacallaggio del politico, del giornalista, dell’industriale, del generale. Ma non c’è fine a questa deriva, poiché c’è il terzo momento, non più degli sciacalli caldi o freddi, è quello delle iene, degli speculatori e profittatori della ricostruzione, insomma dei ladri e arraffatori di tangenti: «Quelli che, fingendo di ricostruire, mostruosamente continuano a

1 V. CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, Mondadori, Milano 2012. Il volume raccoglie 52 racconti, così preferiva chiamarli l’autore, scritti tra il 1957 e il 2011, di cui alcuni inediti. «Questo libro», si legge alla fine del conciso e accurato risvolto di copertina, «l’ultimo che ha personalmente concepito e voluto, restituisce intatta la sua lezione ai lettori di oggi e di domani».

2 Ivi, p. 64. Già in «La Stampa», 5 febbraio 1978.

distruggere, ancora a spogliare quelle popolazioni colpite dal disastro della loro cultura, della loro storia, a relegarle per sempre ai margini dell’esistenza».3

Nel lungo racconto, Un giorno come gli altri, composto di alcuni gustosissimi episodi4, Consolo, tra le varie peripezie e meditazioni da cui è occupato nel corso di una sua giornata milanese, si sofferma anche, mentre è intento ad un lavoro sul poeta Lucio Piccolo, su un suo ricorrente dilemma, sulla differenza cioè tra lo scrivere e il narrare, tra la mera operazione di scrittura impoetica estranea alla memoria che è lo scrivere, e quell’operazione poetica di scrittura invece che attinge quasi sempre alla memoria, e che è il narrare.5 Il narratore viene addirittura assimilato a un grande peccatore, che merita una pena come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni. E tra gli indovini menzionati e condannati da Dante Consolo cita, non a caso, Tiresia, colui al quale toccò come punizione di essere trasformato in donna («Ed anche “di maschio in femmina” diviene, come Tiresia, il narratore»), cioè, come ogni vero scrittore, di femminizzarsi e di avere così accesso ad un sapere (e un godimento) altro, proibito e peccaminoso:

Riprendo a lavorare a un articolo per un rotocalco sul poeta Lucio Piccolo. Mi accorgo che l’articolo mi è diventato racconto, che più che parlare di Piccolo, dei suoi Canti barocchi, in termini razionali, critici, parlo di me, della mia adolescenza in Sicilia, di mio nonno, del mio paese: mi sono lasciato prendere la mano dall’onda piacevole del ricordo, della memoria. “Invecchiamo” mi dico malinconicamente, “invecchiamo”. Ma, a voler essere giusti, che io sia invecchiato è un fatto che non c’entra molto col mio scrivere. È che il narrare, operazione che attinge quasi sempre alla memoria, a quella lenta sedimentazione su cui germina la memoria, è sempre un’operazione vecchia arretrata regressiva. Diverso è lo scrivere, lo scrivere, per esempio, questa cronaca di una giornata della mia vita il 15 maggio 1979: mera operazione di scrittura, impoetica, estranea alla memoria, che è madre della poesia, come si dice. E allora è questo il dilemma, se bisogna scrivere o narrare. Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perché il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro su carta. Grande peccato, che merita una pena, come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni:

Come ‘l viso mi scese in lor più basso

Mirabilmente apparve esser travolto

Ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso [petto];

ché da le reni era tornato ‘l volto,

ed in dietro venir li convenìa,

perché’l veder dinanzi era lor tolto.

Inf., XX, 10-15

Il tipo particolare di punizione che il nostro scrittore paventa per il narratore è dunque quella dantesca dell’immagine torta,6 un’immagine paradossale (il contrappasso

3 Ivi, p. 65. Una fine analisi del tema del disastro nei romanzi di Consolo ha fatto D. FERRARIS, La syntaxe narrative de Consolo: pour une orientation du désastre, in Vincenzo Consolo éthique et écriture, Presses Sorbonne Nouvelle, Paris 2007, pp. 91-105.

4 Ivi, pp. 87-97, già in «Il Messaggero», 17 luglio 1980, quindi in Enzo Siciliano (a cura di), Racconti italiani del Novecento, Mondadori, Milano 1983 (I Meridiani), pp. 1430-42, poi nel vol. III della nuova edizione dell’antologia (Mondadori, Milano 2001, pp. 392-403).

5 Ivi, p. 92.

6 «com’io potea tener lo viso asciutto /quando la nostra imagine di presso / vidi sì torta, che ‘l pianto delli occhi/le natiche bagnava per lo fesso» (Inf., XX, 21-24, corsivi nostri). È opportuno rammentare che gli indovini sono collocati nella IV bolgia dell’VIII cerchio (delle Malebolge) dell’Inferno, dove sono i fraudolenti verso chi non si fida.

dantesco) che fa degli indovini degli esseri condannati ad avere «‘l viso travolto», girato all’indietro:

Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso, continua Consolo, da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo… Questo salto mortale si chiama metafora. Quando sono da solo mi sfogo a mangiare le cose più salate e piccanti. Evito finalmente la minestrina, la paillardina e la frutta cotta. Mangio bottarga, sàusa miffa (“interiora di tonno salate”), olive con aglio e origano, peperoncini, caciocavallo, cubbàita (“torrone di zucchero e sesamo”)… Poi, nel pomeriggio, non c’è acqua che basti a togliermi la sete.7

Si sarà avvertito il passaggio apparentemente incongruo, un vero e proprio salto mortale, che lo scrittore opera nel brano appena letto, dove sta descrivendo la curiosa condizione del narratore-mago dalla testa stravolta ma dotato della capacità di volare rispetto allo scrittore di cronaca, ed ecco che, ex abrupto, nel racconto stesso si produce in re una dislocazione metaforica attraverso il salto semantico dall’incontinenza della parola fraudolenta degli indovini all’incontinenza della gola, per la quale i golosi sono flagellati dalla pioggia e straziati da Cerbero nel III cerchio dell’Inferno (canto VI).

Ma c’è di più. Questo frammento emblematico, come la citazione dantesca mostra, del cosiddetto procedimento palinsestico della scrittura di Consolo, esibisce anche una dimensione metatestuale, metaforica anch’essa, che coincide con l’esatta definizione retorica della figura della metafora riportata negli Elementi di retorica di Heinrich Lausberg, al paragrafo intitolato Tropi di dislocazione o di salto,8 di cui l’esempio consoliano costituisce una sorprendente e ineccepibile realizzazione (narratore-mago stravolto=goloso-assetato).

Su una sua precisa definizione di racconto, «racconto ibrido» per l’esattezza, e quindi sull’essenza della narrazione, Consolo ritornerà a distanza di dieci anni da Un giorno come gli altri (1980), nel bellissimo testo intitolato Memorie (1990), 9 dove, sintomaticamente, viene ripreso il tema del disastro e dei suoi corollari: l’opposizione fondamentale tra esistenza e storia, che si duplica in quella di oriente e occidente, natura e cultura e altre ancora:

Io sono d’una terra, la Sicilia (ma quante altre terre nel modo somigliarono, somigliano o somiglieranno alla Sicilia!) dove, oltre l’esistenza, anche la storia è stata da sempre devastata da tremende eruzioni di vulcani, immani terremoti, dove il figlio dell’uomo e il figlio della storia non hanno conosciuto altro che macerie di pietra, squallidi, desolanti ammassi di detriti attorno a zolfare morte. “In una manciata di polvere vi mostrerò la paura” dice Eliot.

Dicevo sopra di una mia ideale geografia letteraria siciliana, dicevo di un oriente e di un occidente. Ora, questo paese10 che mi ha dato i natali ha la ventura, il destino di trovarsi ai confini, alla confluenza di due

7 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 92-93.

8 «I tropi di dislocazione (o salto) […] presentano rispettivamente tra il significato proprio della parola sostituita (“guerriero” […]) e il significato proprio della parola sostituita tropicamente (“leone” […]) o un rapporto di somiglianza con il modello (metafora “guerriero/leone” […]) o un rapporto di contrari (ironia: “coraggioso/vigliacco” […])», H. LAUSBERG, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, p. 127.

9« Il Valdemone», I, 1, febbraio 1990, pp. 7-9, in CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 134-138.

10 Si tratta di Sant’Agata di Militello più su evocata: «Fin dal primo sguardo sul mondo, fin dai primi bagliori dei ricordi – e sono scene isolate, fotogrammi luminosi incorniciati dal nero dell’immemorabile – si è impresso, Sant’Agata, dentro di me per sempre», ivi, p. 135.

regni, dove si perdono, sfumano, si ritraggono in una sommessa risacca le onde lunghe della natura e della storia. Lasciando, su questa remota spiaggia dell’incontro, segni indistinguibili e confusi. Remota spiaggia, limen, finisterre, ma anche luogo sgombro, vergine, terra da cui rinascere, ricominciare, porto da cui salpare per inediti viaggi. Nato qui ho preso coscienza, a poco a poco, d’aver avuto il privilegio di trovarmi legato all’ago di una bilancia i cui piatti possono restare in statico equilibrio o pendere, da una parte o dall’altra, il peso della natura o della cultura. E non è questo poi l’essenza della narrazione? Non è il narrare, come dicevo, quell’incontro miracoloso, di ragione e passione, di logica e di magico, di prosa e poesia? Non è quest’ibrido sublime, questa chimera affascinante?

Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo.11

Di questo racconto pieno di aneddoti curiosi come quello divertentissimo della festa dall’editore dove è ospite Saul Bellow, importa soprattutto ricordare la pagina dedicata alla descrizione dello studio di Consolo nella sua casa di Milano. Una pagina autobiografica, come tantissime di questo bel libro, che ci invita ad entrare nel luogo più intimo dello scrittore, un luogo magico direi, alla cui immagine saranno in parte ispirate le indimenticabili descrizioni di studi e biblioteche presenti nei grandi romanzi.12

Il mio studio è una stanza con tre pareti rivestite di libri, anche nello spazio tra i due balconi vi sono libri (dal balcone, giù in fondo alla strada, oltre i due castelli daziarii della Porta, vedo il famedio del Cimitero Monumentale, dove al centro, sotto la cupola, è il sarcofago di Manzoni) e libri si accumulano per terra e sul bàule di canne che fa da tavolino davanti al divano-letto. Le librerie sono degli scaffali aperti di legno grezzo, comprati alla Rinascente, e la polvere si accumula sui libri, penetra tra le pagine, li invecchia precocemente. Sui ripiani degli scaffali, davanti ai libri, appoggio oggetti: temperini, uccelli di legno, teste di pupi siciliani, pezzetti di ossidiana, di lava, conchiglie… Sull’unico spazio vuoto, alle spalle del mio tavolo di lavoro, ho appeso i “miei quadri”: un disegno di un San Gerolamo nella caverna, nudo, seduto a terra, intento a leggere un libro appoggiato sulle ginocchia, un gran leone dietro le spalle e un teschio vicino ai piedi; un libro aperto, con le parole cancellate con tratti di china e una sola in parte risparmiata, raccon, incollato e chiuso in una teca di plexiglas, opera di un artista concettuale; due planimetrie secentesche, di Palermo e di Messina, strappate dal libro di Cluverio Siciliae antiquae descriptio. Questo dei libri antichi strappati, dei libri bruciati, dei libri perduti è un fatto che mi ossessiona. Ossessiona al punto che sogno sempre di trovare libri antichi, rotoli, cere, tavolette incise.13 Una volta mi sono calato dentro un’antica biblioteca sotterranea, forse romana, dove, ben allineati nelle loro scansie al muro, erano centinaia e centina di rotoli: cercavo di prenderli, di svolgerli, e quelli si dissolvevano come cenere. Un mio amico psicanalista, al quale ho raccontato questo mio sogno ricorrente, mi ha spiegato che si tratta di un sogno archetipico.

Mah… Fatto è che mi appassionano i libri sui libri, sulle biblioteche, sui bibliofili. E il libro che leggo e rileggo, come un libro d’avventure, è Cacciatore di libri sepolti. Come in questo tardo pomeriggio di

11 Ivi, pp. 137-138.

12 V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Tesio, Einaudi Scuola, Torino 1995 (1976), pp. 3940, ID., Nottetempo casa per casa, Mondadori, Milano 1994 (1992), pp. 30-32.

13 Sull’aneddoto del sogno, parzialmente variato, Consolo tornerà successivamente «C’è questo ipogeo, c’è la visione dell’ipogeo continuamente e credo che sia dovuto al fatto che io cerco di partire sempre dalle radici più profonde e quindi anche le immagini di questi luoghi sotterranei, di queste caverne, siano un po’ il corrispettivo della profondità della lingua e della profondità della storia. Andare fino alle radici per poi risalire verso le zone della comunicazione, le zone della società. Sono luoghi che mi hanno sempre affascinato. È indecente raccontare i propri sogni, però devo dire che un mio sogno ricorrente è un sogno archeologico, un sogno che poi ho scoperto faceva anche il padre della psicanalisi assieme a Freud che era Jung. Nel sogno io mi calo in dei sotterranei dove scopro degli oggetti antichi, vasi o rotoli di pergamena, che mi danno molta gioia. Ho interpellato un mio amico psicanalista e mi ha detto che è un sogno positivo e quindi evidentemente questo sub-conscio emerge nella mia scrittura. La mia ricerca linguistica anche in quel senso, io cerco le parole che vengono da lontananze storiche, di lingue antiche, greco, latino, arabo e quindi c’è questo bisogno di ripartire dalla profondità. In tutti i miei libri c’è l’evocazione di questi luoghi sotterranei.» Cfr. Intervista con Vincenzo Consolo a cura di Dora Marraffa e Renato Corpaci, http://www.italialibri.net/, 2003, corsivi nostri.

maggio, qui nella mia stanza al terzo piano di una vecchia casa di Milano. A poco a poco non sento più il rumore delle macchine che sfrecciano sui Bastioni, mi allontano, viaggio per l’Asia minore e l’Egitto, sprofondo in antichità oscure, indecifrate.14

Una variante e perfino un equivalente di questi libri antichi sono per Consolo le antichità archeologiche, come quelle cui si accenna in un altro affascinante racconto, Le vele apparivano a Mozia,15 che descrive un viaggio in Sicilia fatto nell’aprile del 1984 con Fabrizio Clerici, Guttuso e altri per un fastoso matrimonio celebrato a Palermo e che li porterà a rifare l’antico itinerario per le stazioni di Segesta, Erice, Selinunte, Cusa, Agrigento e Mozia. Ma Consolo aveva già visitato quest’isola fenicia più di vent’anni prima, ed è di questa prima scoperta dell’isola e della Sicilia fino ad allora solo immaginata oltre la barriera dei Nebrodi, che egli vuole narrare:

Lieve di anni e ancor più lieve di cognizioni, ch’erano quelle miserelle del liceo che m’aveva appena licenziato, da un paesino sulla costa del Tirreno partii alla scoperta della mia Sicilia. Che immaginavo, al di là della barriera dei Nebrodi, da Siracusa a Gela, ad Agrigento, come una vastissima teoria di monumenti, un’unica sequenza di vestigia antiche, una distesa infinita, silente e metafisica, di pietre, di rovine. E subito s’infranse, è naturale, quella mia Arcadia contro il brulichìo, il turbinìo di vita e movimento delle contrade che traversavo.16

Questo racconto rivela l’occasione da cui era scaturita la composizione di Retablo,17 il romanzo ambientato nella Sicilia del Settecento che ha come protagonista un intellettuale e artista milanese di nome Fabrizio Clerici, che compie un viaggio sentimentale e artistico nell’isola seguendo appunto il tradizionale itinerario del Grand Tour. Viceversa, in Le vele apparivano a Mozia, pubblicato un anno dopo il romanzo, nel 1988, Consolo integra l’episodio, mirabilmente descritto in Retablo, della statua del cosiddetto ragazzo di Mozia, fornendo una spiegazione dell’affondamento, nel romanzo, della statua stessa, del sacrificio di questo idolo pur così venerato dal personaggio Clerici e dall’autore Consolo:

Per questa mia memoria della prima visita nell’intatta Mozia, in un mio racconto, Retablo, volli portar via dall’isola la stupenda statua in tunica trasparente del cosiddetto ragazzo di Mozia, quella che nell’ultimo approdo all’isola, nell’84, potei vedere, insieme al pittore Clerici, nel piccolo Museo, chiusa e protetta in una nicchia di tubi neri. Portarla via e farla naufragare, sparire in fondo al mare: come contrappasso o compenso18 di alla morte per acqua del giovane fenicio Phlebas – A current under sea/Picked his bones in whispers – eliotiana creazione; perché quella statua di marmo mi sembrò una discrepanza, un’assurdità, una macchia bianca nel tessuto rosso della fenicia Mozia; mi sembrò una levigatezza in contrasto alla rugosità delle arenarie dei Fenici; uno squarcio, una pericolosa falla estetica nel concreto, prammatico fasciame dei mercanti venuti dal Levante. Come l’arte, infine, un lusso, una mollezza nel duro, aspro commercio quotidiano della vita.19

14 La mia isola è Las Vegas, cit., pp. 95-96.

15 «Il Gambero rosso», supplemento de «il manifesto», 5-6 giugno 1988, ivi, pp. 124-127.

16 Ivi, p. 125.

17 V. CONSOLO, Retablo, con 5 disegni di Fabrizio Clerici, Sellerio, Palermo 1987.

18 «Una corrente sottomarina / gli spolpò le ossa in bisbigli»: T.S. ELIOT, La terra desolata, Rizzoli, Introduzione, traduzione e note di Alessandro Serpieri, Milano 1982, p. 113.

19 CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, cit., p. 127.

A distanza, ancora una volta di circa dieci anni, Consolo tornerà con qualche variazione e più distesamente, per ben due pagine, sulla sua amata Mozia nel racconto La grande vacanza orientale-occidentale,20 una struggente rimemorazione dei luoghi delle origini, tra oriente e occidente della sua linea di confine, secondo la sua geografia ideale, che si conclude con una meravigliosa tappa a Selinunte:

L’ultimo approdo della lontana mia estate di privilegio – privilegio archeologico come quello ironicamente invocato da Stendhal, a me concesso da un padre benevolo – fu fra le rovine di Selinunte. Dal mattino al tramonto vagai per la collina dei templi, in mezzo a un mare di rovine, capitelli, frontoni, rocchi di colonne distesi, come quelli giganteschi del tempio di Zeus che nascondevano sotto l’ammasso antri, cunicoli […].

Mi risvegliai l’indomani nel letto della locanda. Per la finestra, la prima scena che vidi del mondo fu la collina dell’Acropoli coi templi già illuminati dal sole.21

Un altro luogo di elezione per Consolo, mirabilmente descritto nei suoi romanzi e in molti racconti, è ovviamente Cefalù, come si legge in La corona e le armi,22 che comincia a guisa di un vero e proprio racconto autobiografico, scritto in terza persona, che narra il viaggio a Palermo, sul camion del padre commerciante, di un bambino, che scopre così per la prima volta l’abbagliante Cefalù, e che prosegue con un commento finale, in prima persona, proprio su questa inaugurale scoperta della meravigliosa cittadina normanna:

[…] ad un tratto, uscendo da un vicolo, si trovarono davanti ad una piazza, una immensa piazza assolata, piena di palme snelle, diritte, alte, con palazzi ai lati e in faccia, sopra una scalinata, una grande chiesa, con due alte e possenti torri, tutta d’oro e arrossata dal sole. Il sole che avvampava pure la grande rocca incombente dietro la chiesa. Egli restò abbagliato, immobile a contemplare quello spettacolo che lo intimoriva e lo affascinava. Mai aveva visto tanta bellezza, tanta imponenza, tanto sfolgorio…

[…]

Questo abbozzo di racconto, che potrebbe intitolarsi Il viaggio, vuole dire della prima “visione” del duomo di Cefalù di uno come me, per esempio, cresciuto in una zona ibrida, in una zona di confluenza tra la provincia di Messina e di Palermo. Zona senza incidenza e caratteri particolari, dove la storia, remotissima e labile, ha finito per essere sopraffatta dalla natura. Zona quindi di esistenza, di eventologia quotidiana. Il passaggio al di là di quel confine che amministrativamente separa le due province e che si localizza nel paese di Finale, è stato come un oltrepassare le colonne d’Ercole, l’impressione incancellabile di progredire in una dimensione nuova, sconosciuta, la dimensione delle tracce storiche, dei segni chiari della storia; di entrare cioè in una zona di realtà narrabile. E Cefalù è stata un approdo, un luogo d’elezione e di passione.23

È recente l’eco dei festeggiamenti per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, non possono quindi non essere menzionati almeno due testi che trattano lo scottante tema dell’Unità d’Italia dalla prospettiva consoliana, una prospettiva per nulla celebrativa e tuttavia profondamente, autenticamente italiana e unitaria, come quella dei maggiori scrittori siciliani di cui Consolo naturalmente ha fatto tesoro. Si sbaglia a ritenere che Verga, De Roberto, Pirandello, Sciascia e perfino Tomasi di Lampedusa abbiano avuto una posizione ambigua nei confronti dell’unificazione della nazione o addirittura una posizione antiunitaria. Semplicemente, e indipendentemente dal loro

20 «Alias», supplemento de «il manifesto»,7 agosto 1999, ivi, pp. 166-167.

21 Ivi, pp. 167-169.

22 «Giornale di Sicilia», 17 marzo 1981, ivi, pp. 98-102.

23 Ivi, p. 101.

credo politico, hanno letto e analizzato da scrittori (non da storici) il fondamentale capitolo del Risorgimento siciliano, rilevandone i paradossi e le inevitabili imposture. Consolo fa altrettanto con una punta di soave ironia però, che è mancata, e pour cause, ai suoi predecessori. Cominciamo da Il più bel monumento,24 che ricostruisce la curiosa vicenda della costruzione, sempre procrastinata, del monumento a Garibaldi che la cittadina di Marsala decide di erigere, solo nel 1978:

La notizia ci giunge da Marsala. Ricordate? Il porto di Allah, il vino Marsala, i Mille e Garibaldi. E proprio a quest’ultimo, al gran Condottiero, si riferisce la notizia. Scrive un quotidiano siciliano, in data 18 febbraio 1978: “L’eroe dei due Mondi e i suoi Mille avranno un’opera alla memoria nella città che lo vide sbarcare 118 anni fa…” Un’opera alla memoria è un monumento che la Regione siciliana ha deciso di erigere, finalmente in quella città, affidandone l’incarico allo scultore Giuseppe Mazzullo. Chi avrebbe sospettato che proprio Marsala non avesse mai eretto un monumento all’eroe? Marsala, che lo accolse per prima quella mattina dell’11 maggio del 1860, barbuto e biondo capellone, caciotta ricamata in testa, camicia rossa, poncho e sciabolane, già eroe, già storico, già monumento?25

E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte è un altro racconto assai istruttivo che non solo ricostruisce, ma mette in relazione, in modo storicamente impeccabile, da un lato la vicenda della concessione, da parte di Ferdinando I, di alcuni feudi del Brontese (i feudi del convento benedettino di Santa Maria di Maniace, del comune di Bronte e dell’Ospedale di Palermo) nonché del titolo di Duca all’ammiraglio Nelson, per ringraziarlo dell’aiuto prestatogli durante la repressione della Repubblica napoletana nata il 22 gennaio 1799, e, dall’altro, la vicenda della strage di Bronte del 2 agosto 1862, provocata, tra l’altro, dall’usurpazione delle terre demaniali da parte della Ducea a danno dei contadini. Questa strage, come è noto, verrà ferocemente repressa da Bixio non senza, almeno a quanto afferma Benedetto Radice, il precedente accordo concesso agli inglesi da Garibaldi per soffocare la rivolta di Bronte.

Piccolo grande Gattopardo26 è il titolo-calembour di un racconto spiritoso e nostalgico. Un ricordo del grande poeta Lucio Piccolo cugino dell’autore del Gattopardo. Consolo rimemora il suo primo incontro col poeta, seguito da numerosi altri:

Frequentai Piccolo per anni, andando da lui, come per un tacito accordo, tre volte la settimana. Mi diceva ogni volta, congedandomi: «Ritorni, ritorni, Consolo, facciamo conversazione». E la conversazione era in effetti un incessante monologo del poeta che io ascoltavo volta per volta ammaliato, immobile nella poltrona davanti a lui. Era per me come andare a scuola da un gran maestro, a lezione di letteratura, di poesia, impartita da un uomo di sterminata cultura, “che aveva letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo D’Orlando”, come scrisse Montale. Piccolo, dopo l’esordio dei Canti barocchi, aveva suscitato molte curiosità fra i letterati. E lì, nella sua villa, si erano recati per conoscerlo in tanti: Piovene, Bassani, Pasolini, Bernari, Camilla Cederna, Corrado Stajano, Vanni Scheiwiller, Alfredo Todisco… Con Salvatore Quasimodo mi feci io promotore dell’incontro. Nel salone della villa, Quasimodo rimase incantato ad ascoltare Piccolo, ma uscendo, appena giunti nella corte, esclamò, come indispettito, giocando sul nome del barone: «Questo piccolo poeta!»

24 «La Stampa», 9 aprile 1978, ivi, pp. 70-72.

25 Ivi, p. 70.

26 «L’Unità», 11 agosto 2004, ivi, pp. 210-214.

Nel 1963 avevo pubblicato il mio primo romanzo nella mondadoriana collana “Il tornasole”, La ferita dell’aprile, scritto in un linguaggio quanto mai lontano da quello aulico e ricercato di Piccolo. Glielo diedi da leggere e, chiedendogli poi il giudizio, «Troppe parolacce, troppe parolacce!» mi disse.27

Consolo si ricorderà ancora dell’incontro tra Sciascia e Piccolo, sempre combinato da lui, e quindi di quello fra Pasolini e Piccolo avvenuto a Zafferana nel settembre del 1968, in occasione del premio letterario Brancati:

Pasolini, in quei giorni, girava, sulle falde dell’Etna, alcune scene del suo film Porcile. E aspettava con ansia l’arrivo dell’attore francese Pierre Clementi. Il quale arrivò finalmente, là all’albergo Airone dov’eravamo ospitati. Arrivò nella sala da pranzo in compagnia di Pasolini. Io ero al tavolo con Piccolo, il quale, alla vista di quel bellissimo giovane con i capelli fluenti fin sopra le spalle, meravigliato, esclamò: «Cos’è, una donna coi baffi?».28

La mia isola è Las Vegas29 che dà il titolo all’intero volume è un testo tra i più recenti, del 2004, un testo di appena tre pagine attraversato da un’amara e sferzante ironia, che volge uno sguardo sulla Sicilia, ma anche sulla Lombardia, ormai del tutto disincantato, che esclude financo il ricordo dell’isola come di un’immaginaria Arcadia, di un rifugio della e nella memoria. Consolo vi proietta una sorta di derisoria distopia per la quale, se avesse vinto Il Movimento indipendentista siciliano di Finocchiaro Aprile, la Sicilia sarebbe diventata la 49sima stella degli Stati Uniti d’America. Quest’isola in mezzo al Mediterraneo in mano agli americani sarebbe affogata nell’oro. Sarebbe diventata, l’Isola, con casinò, teatri, i più liberi commerci, come Las Vegas o come la Cuba del beato tempo di Fulgezio Batista.30

Mi ha particolarmente colpita in questo racconto l’uso di un termine che non ricordo di avere letto in altre pagine di Consolo. Si tratta della parola «matria» che lo scrittore affianca a «patria» («Sicilia, Sicilia mia, mia patria e mia matria, matria sì perché è lei che mi ha dato i natali, mi ha nutrito, mi ha cresciuto, mi ha educato. Ora sono lontano da lei e ne soffro, mi struggo di nostalgia per lei»).31 Ebbene sul momento ho pensato a un neologismo (è anche un neologismo ovviamente), ma, dalla ricerca effettua sulla LIZ, matria ricorre solo due volte in due lettere di Torquato Tasso. Nella lettera spedita da Ferrara il 7 giugno 1585 a Giulio Caria, Napoli:

Né io son ben sicuro, quanto a gli altri sieno piaciuti i miei poemi; perché con niun altro argomento mi poteva meglio esser dimostrato, che con gli effetti. Ma se Vostra Signoria è un di coloro i quali n’abbiano preso alcun diletto, ne godo fra me stesso per molte cagioni; de le quali è la prima, ch’ella sia di quella nobil patria de la quale io mi vanto; e potrei gloriarmene più ragionevolmente, s’io la chiamassi la mia cara matria32, secondo l’usanza antica di Creti.

In quella spedita da Roma il 6 dicembre 1590 a Francesco Polverino, Napoli:

27 Ivi, pp. 211-212.

28 Ivi, p. 213.

29 «La Sicilia», 15 agosto 2004, ivi, pp. 215-217.

30 Ivi, p. 217.

31 Ivi, p. 215.

32 Corsivo mio.

Perciocché una patria medesima può congiungere tutti gli animi, quantunque per altro alienissimi: e bench’io non fossi de l’istessa, nondimeno è noto a ciascuno che fu patria di mia madre, e di tutti i miei materni antecessori; laonde posso chiamarla, con le voci di Platone, “matria”33 almeno. E non essendo nato sotto altro cielo, né cresciuto in altro seno più lungamente, o più felicemente, ch’in quel de la città di Napoli; non fo deliberazione di lasciar in altra parte l’ossa già stanche di più lungo viaggio, o di più lungo travaglio. Ma io supplico che mi sia lecito di ritornarci […].

 

 

 

 

 

Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo



Il romanzo di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, è tutto uno scatenarsi di follia.
Questa follia dilaga in una Sicilia antica, pastorale e agricola, splendida nei suoi monumenti medievali foderati di mosaici, imponente nei palazzi barocchi, pittoresca e tenebrosa nei vicoli brulicanti. E’ una follia dai molti volti, sempre a confronto con una natura vincitrice per la sua bellezza magica e indifferente, sue luci che non si curano di farsi strada negli animi.
Una natura dai cieli immensi, cui si contrappone la discesa in tenebrose caverne, ove i segni del tempo, si perdono tra le ombre. Pietro il protagonista, vive tra la licantropia del padre e la psicosi ossessiva della sorella. Personaggio positivo, condivide senza infatuazioni i programmi di rinnovamento politico e sociale che stanno velocemente, ma provvisoriamente, affermandosi: però anche li scopre le crepe dell’irrazionale e del fanatismo. Di contro al suo giudizioso rapporto con la pazzia, sta la funzione di condensatore di ogni sregolatezza mentale svolta da Aleister Crowley, l’inventore officiante di riti satanici in cui si mescolano alla promiscuità sessuale e alla droga tutte le invenzioni più stravaganti e kitsch di religioni e leggende esoteriche. Nella sua thélème di satiri e donne assatanate sono via via attratti il dannunziano barone Cicio e il pastore Janu.

Questo campionario di follia offertoci da Consolo sintetizza le manifestazioni dell’irrazionale che intorno al ’20, in Sicilia e altrove, invocando il fascismo in via di costituzione, vi trovarono poi un alveo. Era anche viva l’illusione di strapparsi a un’ indifferenza secolare, al sonno, alla noia: come una smania, un assillo verso qualcosa di agognato quanto sconosciuto. E la ricostruzione d’epoca è molto più sistematica di quanto non appaia a prima vista. Da un lato l’indolenza delle vecchie abitudini, il Circolo, i pettegolezzi di paese, i rapporti tra una nobiltà decaduta e pretenziosa e un popolo ancora primitivo. Dall’altro le nuove mode, le réclames con pizzichi di esotismo, l’esibizione di parole francesi e inglesi, le marche dei prodotti appena commercializzati, i compiacimenti dannunziani, la Florio. Fitti perciò gli inserti materici nella prosa d’arte di Consolo. Anche Aleister Crowley è un personaggio strico; suoi i versi inglesi riportati nei capitoli dedicatigli. Deve aver affascinato lo scrittore spingendolo a raccogliere notizie e dicerie su di lui: e certo subirono il suo fascino i molti che vennero a conoscenza o a contatto con questo santone attirati secondo i casi dall’aura misteriosofica o profetica di cui si circondava o dalla dissolutezza sua e dei suoi seguaci. Inglese o americano, Anticristo, mormone o quacchero, è facile credere che abbia sbalordito il chiuso ambiente in cui venne a sistemarsi.
Con questo mirabile romanzo si fa ancora più chiaro il programma svolto da Consolo nel ciclo della sua narrativa: rappresentare la Sicilia in varie fasi della sua storia, da quella greca riscoperta in frammenti enigmatici (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria) al settecento illuministico (Retablo)
al risorgimento e all’unità malamente realizzata (Il sorriso dell’ignoto marinaio). E per ottenere il necessario straniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata Di Militello, fungono da testimoni o pietre di paragone dei forestieri: il vicerè di Sicilia o il cavaliere e artista lombardo Fabrizio Clerici, ora il mistificatore inglese. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale, sovrastorico sinché non si apre a parole precisamente, significativamente connotate, lirico sinchè non discende con efficacia alla corposa quotidianità.
Ho appena parlato di narrativa, ma occorre chiarire. Consolo sempre aborrito il raccontare filato, la trama in senso tradizionale. Egli procede con una successione di scene sintomatiche, rivelandone i nessi con la riapparizione dei personaggi e segnalandone il tono con i ben scelti eserghi. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, brani di opere storiche intercalati alle scene fornivano le notizie attestandone la verità. Sotto questo riguardo, Nottetempo, casa per casa è l’opera che si avvicina di più a un romanzo, dato il forte nesso fra le scene allineate nei dodici brevi capitoli e l’eterna presenza di pochi personaggi in fasi diverse della loro vicenda.
Anche Petro, alter ego dello scrittore, ha la sua vena di pazzia: vede i protagonisti dei romanzi che divora nei pochi momenti liberi, parla con loro interrompendo il silenzio delle sue letture. Questa pazzia positiva sembra essere la provvisoria catarsi proposta da Consolo. Una catarsi drammatica perché pare irraggiungibile (<<intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere , un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela, l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento>>); ma Petro alla fine si sa maturo per attingere le parole, il tono, la cadenza, per sciogliere il grumo dentro e dare ragione a tanto dolore.
Questa decisione di testimoniare, non solo i fatti ma i tumulti del sentimento, è formulata da Petro all’arrivo in Tunisia. Perché anche la topografia del romanzo si allarga progressivamente: da Cefalù e Palermo ai remoti paesi delle peregrinazioni di Crowley, da una Sicilia profonda, verghiana, a un’Europa atteggiata secondo un gusto dannunziano e liberty, Una topografia in cui irrompono deformandosi, le nuove idee, e l’impazienza rivoluzionaria si attua in velleitarie azioni terroristiche, mentre i fascisti fanno le loro scorrerie. Infine, Petro riesce a attuare lo strappo: lascia in nave la sua Sicilia dov’è in pericolo, emigrante più che esule, scettico verso i programmi di lotta enunciati dall’anarchico Schicchi che lo accompagna. La scelta della scrittura è, insieme, una lucida rinuncia a una vittoria.

Cesare  Segre
Microprovincia gennaio – dicembre 2010

Vincenzo Consolo: romanzo e storia. Storia e storie.


JEAN FRACCHIOLLA
Dire che ogni scrittore vive di storie è un po’ un truismo. Che cosa fa in effetti qualsiasi narratore? Ci racconta delle storie: Sia delle storie che possono appartenere alla realtà quotidiana dell’epoca in cui ci trasporta il narratore, e allora si tratta di un romanzo realista, ciò che Stendhal definisce, per riprendere
la sua celebre immagine, come «le miroir qu’on promène le long d’un chemin».
Sia delle storie che si nutrono di miti radicati nell’immaginario collettivo, e allora abbiamo a che fare con dei racconti che rasentano il meraviglioso, il fantastico, il lirico, l’epico o il tragico… Come ogni romanziere Vincenzo Consolo non sfugge a questa regola: i suoi romanzi sono strapieni di storie, di racconti,
nonché di aneddoti, di notazioni, d’impressioni, come quelle che ci presenterebbe uno scrittore viaggiatore. E qui apro subito una breve parentesi per fare una costatazione che mi sembra importante: tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio. Tutte ci invitano ad un viaggio attraverso dei luoghi privilegiati, quasi sempre in Sicilia, il cui epicentro sembra essere la città di Cefalù; ma tornerò più avanti su questo punto. Però Vincenzo Consolo non è un semplice romanziere realista che si accontenta di registrare e di descrivere la realtà in cui vive (anche se questo gli capita, naturalmente, ad esempio quando egli denuncia il totale degrado in cui sono cadute oggi le grandi città di Sicilia, come Palermo o Siracusa), ma in generale le storie di Consolo affondano le loro radici nella Storia, quella della Sicilia degli anni e dei secoli passati, cioè di una Sicilia splendida nella bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi siti ancora intatti, di una Sicilia pura e vergine nei suoi costumi non ancora corrotti, di una Sicilia mitica (che ci ricorda e rimanda a quella di Verga e Vittorini), di cui il nostro scrittore esprime continuamente la straziante e lacerante nostalgia. Per altro questo rapporto con la Storia caratterizza tutta la tradizione del romanzo italiano moderno, dal Manzoni, passando poi per Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, perfino Sciascia, tradizione nella quale s’inserisce profondamente Vincenzo Consolo, ma in modo molto originale, come vedremo più avanti. Tutti i romanzi e tutte le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Così La ferita dell’aprile, il romanzo che, nel 1963, segna gli inizi letterari di Consolo, misto sapientemente dosato di autobiogafia e di storia, di quotidiano e di mito. La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente e di un paese siciliano all’indomani della seconda guerra mondiale. La storia di un adolescente che, alla fi ne di un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e di dolori, giunge alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza. In effetti la «ferita», alla quale allude il titolo, è di sicuro la «ferita» della giovinezza, nella sua esperienza dolorosa di passaggio all’età adulta; ma è anche forse «la ferita» politica delle elezioni del 18 aprile 1948, profondamente risentita dallo scrittore impegnato Consolo, che rimane solidale delle vittime di una storia che gli appare immutevole e insensata. Tra La ferita dell’aprile e il suo secondo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976, dodici anni di silenzio, sui quali potremo chiedere dopo a Vincenzo Consolo qualche chiarimento. Poi viene Lunaria (1985), in cui Consolo tiene un discorso sottilmente politico e storico (notiamo anche, ‘en passant’, come nel nostro autore Storia e politica sono sempre strettamente legate). Lunaria ci presenta una Palermo del Settecento, in cui l’autore
mette in scena un mito poetico, quello della luna contro il potere. La caduta della luna mette in luce «la diversità» di un vicere che non crede nel potere, il ché lo avvicinerà ai suoi sudditi (contadini e popolani), e lo aiuterà a smascherare la falsa scienza ben diversa da quella vera scienza capace di audacia e di spirito concreto. Solo la gente umile, i poeti, i marginali saranno capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. Ne La ferita dell’aprile, rileviamo questa frase: “Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte femmine, correte, prima che si squagliano”1 . Questa frase annuncia già Lunaria e ci rivela, in nuce, nel suo potente lirismo, due elementi essenziali della poetica di Consolo:

da una parte il faro che invita al viaggio, un viaggio rituale
dall’esistenza alla Storia, che invita quindi alla conoscenza del
mondo e di se stessi. Il faro, cioè la luce, e quindi per Consolo la
ragione che attrae, che illumina in modo intermittente le tenebre;
il faro che simboleggia il tentativo umano, mai completamente
appagato, di penetrare il mistero dell’esistenza.

dall’altra parte la luna, altro topos al quale il nostro autore
è particolarmente legato, che rappresenta il bisogno assoluto di
immaginazione, di creazione poetica. Qui, in quei repentini bagliori del faro di Cefalù che, con la sua luce, trafigge la luna e ne fa cadere le briciole, le molliche nel mare, possiamo rilevare
non soltanto una immagine intensamente poetica, ma anche una
prima e delicata immagine della «violazione» e della «caduta» della
luna che sono precisamente i temi centrali del racconto teatrale
Lunaria.
E qui vediamo anche come, da un’opera all’altra, si stabilisce una rete di corrispondenze e di echi interni. Anche Retablo (1987) è, a modo suo, un romanzo storico, ambientato nel Settecento, nella Sicilia occidentale, che per Consolo è quella della Storia. Retablo si presenta come un racconto di viaggio -forma che ritroveremo ancora ne L’olivo e l’olivastro- quello del Cavaliere Clerici, pittore milanese, in cui, come avviene nei romanzi di avventure, gli episodi si susseguono senza legami necessari tra di loro. Attraverso la Sicilia del Settecento, sontuosa e misera, accecante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e squallida, si delinea e dispiega il conflitto tra ‘avere’ e ‘essere’, vale a dire tra i falsi valori (della ricchezza, la nobiltà del nome, del potere) e i valori autentici, cioè quelli che si affermano per sé stessi e che caratterizzano un’umanità umile, marginale, diversa, vale a dire quella dei pastori, dei poeti, dei nobili vegliardi, dei briganti generosi o dei mercanti disinteressati. È con questi umili che simpatizza ovviamente il Cavaliere Clerici (come il vicere di Lunaria di cui costituisce un’eco), intellettuale illuminato del secolo dei lumi, eco anche lui del barone Mandralisca e di Giovanni Interdonato de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Le Pietre di Pantalica (1988), non più romanzo ma raccolta di novelle, conservano un legame molto stretto con la storia della Sicilia. L’opera si dipana su un arco di tempo che va dal periodo della liberazione fi no ai conflitti sociali del dopoguerra, dal «boom» economico degli anni’60, ai problemi, ai danni e al degrado causati da questo «boom» nella Sicilia e nell’Italia contemporanea. Siccome la Sicilia e i mali siciliani sono spesso, per non dire sempre, una metafora dell’Italia e dei mali italiani, ritroviamo, ne Le pietre di Pantalica, la critica contro la cultura dei privilegi e del potere; ritroviamo il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso ed endemico» di una Sicilia emblematica; ritroviamo la visione di una storia immobile ed immutevole nelle sue prevaricazioni, i suoi inganni e le sue menzogne, nelle sue ingiustizie e le sue esclusioni. Le pagine emblematiche del penultimo racconto, intitolato appunto “Le pietre di Pantalica”, ci offrono un ritratto terrificante delle città che una volta furono tra le più belle della Sicilia, si vuol parlare naturalmente di Siracusa e di Palermo: “Sono tornato a Siracusa dopo più di trent’anni, ancora come spettatore di tragedia. Allora, in quel teatro greco, nel momento in cui Ifi genia faceva il suo terribile racconto del suo sacrificio in Aulide, … o nel momento in cui il coro cantava… in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettìo di motorette, sgommate, stridore di freni… Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare Inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin… E, usciti dal teatro, che cosa si vede? La distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini. Le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, alle porte di Siracusa, hanno corroso, avvelenato la città. Nel centro storico, nell’isola di Ortigia, lo spettacolo è ancora più deprimente. La bellissima città medievale, rinascimentale e
barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta”2 . E più avanti: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo… Questa città è un macello, le strade sono ‘carnezzerie’ con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta…”3
Queste pagine annunciano ciò che diventerà il leitmotiv di un’opera successiva di Consolo, cioè L’olivo e l’olivastro, pubblicata nell’agosto del 1994. L’olivo e l’olivastro è una specie di odissea,
di ritorno nella patria natale; è un’immagine desolata, corrotta, apocalittica della Sicilia, quella che ci offre la prosa lirica e barocca di Consolo. Anche qui ritroviamo il tema del viaggio che costituiva la struttura portante di Retablo; però tutto quello che il poeta vede è soggetto a un paragone che oppone la Sicilia mitica di una volta, la Sicilia eterna, superba, splendida attraverso i suoi siti, la sua natura ed i suoi monumenti, alla Sicilia attuale che non è altro che squallore e abbrutimento.
Bisognerebbe citare tutte le pagine che segnano questa trasformazione, quella di Caltagirone, di Gela di cui Consolo ci presenta un ritratto terrificante per non dire raggelante, quella di Segesta, di Mazzara ed infine di Gibellina che si offre come l’ultimo esempio, in quest’opera, di un’antica, nobile e magnifica civiltà, sacrificata agli dei di un modernismo dello scandalo e dell’orrore.
L’olivo e l’olivastro, a parer nostro, costituisce, nel percorso letterario di Vincenzo Consolo, un’opera-somma in cui s’incrociano e si rispondono tutti i temi maggiori della poetica consoliana, e un’opera in cui l’uomo, il romanziere ed il poeta, gridano la loro indignazione ed il loro sgomento di fronte ai templi della bruttezza architettonica e morale di quel che si è soliti chiamare la civiltà moderna. L’olivo e l’olivastro è un libro-chiave per capire tutta l’opera di Consolo. Occorrerebbe poterne citare tutte le pagine, in particolare quelle in cui Consolo rivela al lettore il significato profondo della sua scoperta di Cefalù, ma sarebbe ovviamente troppo lungo, perciò ci accontenteremo di citarne un breve passo: “Si ritrovò così a Cefalù… Ricorda che lo meravigliava, man mano che s’appressava a quel paese, l’alzarsi del tono di ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nei visi, nei gesti, negli accenti; il farsi il tono più colorito e forte, più netto ed eloquente, più iattante di quello che aveva lasciato alle sue spalle. Aspra, scogliosa era la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fi no alla gran rocca tonda sopra il mare -Kefa o Kefalè-, al capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù… Alti, chiari, dai capelli colore del frumento erano gli abitanti, o scuri e crespi, camusi, come se, dopo secoli, ancora distinti, uno accanto all’altro miracolosamente scorressero i due fi umi, l’arabo e il normanno, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. S’innamorò di Cefalù. Di quel paese che sembrava anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la cappella Palatina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa e il Borgo, anticipare la grande capitale. Abitò a Cefalù nell’estate. Gli sembrava, ed era, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi, che volevano essere letti, interpretati”4 .
Così quindi Cefalù, centro del mondo di Consolo, sorta di Aleph borgesiano, citando Borgès: “in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti sotto tutti i punti di vista”, Cefalù è per Consolo la città d’incontro e di scoperta, la città che diventerà la citta-simbolo di un intero universo.
E quale migliore transizione di Cefalù per parlare dei due romanzi senz’altro più compiuti e tra i più importanti di Consolo, e di cui volutamente non si è parlato finora, cioè Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) -cronologicamente il secondo di Consolo- e Nottetempo, casa per casa (1992 -Premio Strega 1992). Cefalù, alfa e omega di Vincenzo Consolo, terra di ogni scoperta e ogni delizia, Cefalù col suo faro, Cefalù e la sua cattedrale, che di opera in opera sono, come i ciottoli seminati da Pollicino, i punti di riferimento di Consolo, Cefalù caput mundi (kefalè=testa), Cefalù è il luogo privilegiato di questi due romanzi, romanzi storici per antonomasia, che costituiscono come ama a ricordarlo il loro autore: «Il dittico di Cefalù». Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato integralmente nel 1976, Consolo si tuffa letteralmente nella storia, quella del Risorgimento a Cefalù e in Sicilia, per tentare di capire le ragioni del fallimento parziale degli ideali di uguaglianza e di giustizia che avevano attraversato tutta la prima metà dell’Ottocento, per concretizzarsi momentaneamente nella data dell’undici maggio 1860, giorno dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista della prima parte del romanzo, quella di Cefalù, è Enrico Piraino, barone di Mandralisca, malacologo e archeologo, intellettuale impegnato a favore del nuovo corso della storia. Consolo ne fa il portavoce della propria ideologia, delle proprie convinzioni sull’idea di proprietà e delle ingiustizie che da essa derivano. Mandralisca va paragonato al Cavaliere Clerici di Retablo e al Vicere di Lunaria. Consolo è rimasto affascinato dalla statura morale di questo personaggio, decisamente più generoso del principe Salina ne Il Gattopardo di Lampedusa, e personaggio in cui egli sente, per via dell’amore comune che nutrono tutti e due per il viaggio (reale o metaforico), un fratello di elezione. Nei numerosi spostamenti del barone “da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia”, come lo dice lui stesso, Consolo ha trovato un antecedente storico al proprio viaggio-scoperta-iniziazione, dalla regione di Messina dove è nato ed ha vissuto la propria infanzia (a Sant’Agata di Militello), e che rappresenta per lui il mondo della natura e del quotidiano, verso la regione di Palermo che rappresenta invece, tramite la tappa intermedia di Cefalù, autentica porta del mondo, la cultura e la Storia.
Mandralisca è l’intellettuale che si pone in modo problematico di fronte alla storia per cercare di capirne il corso e gli sviluppi. È lui peraltro che ha comprato il «Ritratto d’ignoto» d’Antonello da
Messina il cui sorriso e sguardo enigmatici, nel contempo complici e distanti, ironici e aristocraticamente benevoli, ci dicono a che punto quest’uomo la sa lunga sulla vita e i suoi segreti. D’altronde questo sorriso enigmatico dell’uomo misterioso dipinto da Antonello, Consolo lo fa rivivere sul viso di un altro personaggio importante del romanzo, il democratico Giovanni Interdonato, latore di tutti i valori positivi del cambiamento sperato: quello di una Sicilia migliore, in cui il lavoro e la capacità di sacrificio dei suoi abitanti potranno far regnare, alla luce della ragione e dello spirito (la cui sede è il capo, cioè Cefalù / kefalè), una maggiore giustizia. Il sorriso dell’ignoto marinaio ci offre, per lo meno nella sua prima parte, una visione allegra dell’esistenza, che Consolo ci comunica mediante parole che attingono la loro bellezza nella poesia dei luoghi descritti, nel lirismo dei gesti quotidiani, offerti al lettore senza compiacimento paternalistico, ma piuttosto attraverso un’estasi poetica profonda. La seconda parte del dittico, Nottetempo casa per casa (marzo 1992), arriva dopo anni di approfondimenti tematici e di sperimentazioni linguistiche molto personali: l’agonia della poesia in Lunaria, il tema e la metafora del viaggio, il rapporto scritturavita e le riflessioni esacerbate sull’alienazione della nostra epoca (Retablo e Le pietre di Pantalica). Nottetempo casa per casa è storicamente ambientato negli anni 20 del Novecento, scelta naturalmente non affatto casuale. Consolo stabilisce un parallelo implicito tra quel periodo ed il nostro, si serve del passato e della storia per parlarci meglio del presente: in effetti il clima di violenza e d’intolleranza, che s’instaura in Italia con l’avvento del fascismo, trova degli echi nella follia e l’oltraggiosa disconoscenza della dignità umana che regnano oggigiorno. Cefalù, come la Sicilia di Sciascia, diventa in questo romanzo metafora di una realtà generale non solo problematica e contraddittoria, ma anche, per certi aspetti, stretta e volgare. Per tutte queste ragioni, Petro Marano, il protagonista del romanzo, è naturalmente sconcertato -come lo è lo scrittore- davanti a questa realtà che perde la propria consistenza, che si sfrangia e si sfi laccia sotto i colpi dei movimenti irrazionalistici che sembrano fare dei proseliti anche tra i suoi compatrioti: “Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita, storie, trame, segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania”5 . Mentre ne Il sorriso dell’ignoto marinaio i luoghi di Cefalù erano le contrade dell’utopia, della speranza appassionata di un cambiamento storico e sociale, in Nottetempo casa per casa gli stessi luoghi diventano come le regioni del disincanto, dell’assenza di ragione, della scomparsa temporanea della luce del faro, del
«chiarore della lanterna». Allora la scrittura di Consolo in Nottetempo casa per casa si mette in posizione di attesa, pur rimanendo costruttiva poiché continuare a scrivere, a raccontare, significa per Consolo denunciare la notte della ragione, ma anche continuare a sperare, non abbandonarsi al pessimismo più tetro che genera l’afasia, l’impossibilità di creare e d’inventare. A Cefalù Consolo ha compiuto un «rito di passaggio», di cui lui stesso ha abbondantemente parlato, che gli ha permesso di fare emergere, dal suo magma interno, l’altra parte della verità, l’altro colore dell’esistenza, l’emisfero nascosto della luna. Questo viaggio, senza alcun dubbio, più che un viaggio spaziale vero e proprio, ha un valore piuttosto simbolico di conoscenza e d’iniziazione. Cefalù, «rito di passaggio», unisce strettamente i due romanzi. D’altronde Consolo fa notare che nessun critico aveva notato che i due libri hanno lo stesso incipit: il primo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, inizia così: “E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci”6 . Inizia quindi con una congiunzione, «E», e un’aurora. In altri termini è un libro augurale ed aurorale, è un libro diurno e solare, perché si tratta del romanzo della speranza. il secondo invece, con un effetto di simmetria oppositiva,
inizia con una congiunzione, «E», e un notturno:
“E la chiarìa scialba all’oriente… Sorgeva l’algente luna”7 .
Inizia con il sorgere della luna, con l’apparizione di un personaggio inquietante, anche lui notturno, il padre di Petro Marano, notturno perché soffre di licantropia. Se Il sorriso dell’ignoto marinaio era il libro della speranza, Nottetempo casa per casa è il libro della disperazione e del dolore. Lascio ora la parola a Consolo che citerò lungamente: “Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito proprio come una tragedia: la scansione in capitoli del libro è proprio quella delle scene di una tragedia greca… Mi è stato soprattutto rimproverato da un critico, per altro molto acuto, che io cerco consolazione in un genere ormai scaduto, nel romanzo. L’ho trovato offensivo. La letteratura non è scaduta, essa è stata avvilita. Credo che la funzione della letteratura sia ancora quella di essere testimone del nostro tempo. Petro Marano è questo. Di fronte al fallimento dell’utopia politica, di fronte alla follia della storia e alla follia privata, alla sua follia esistenziale, al dolore che lui si porta dentro, capisce che il suo compito è quello dell’anghelos, del messaggero che nella tragedia greca ad un certo punto arrivava sulla scena e raccontava ciò che si era svolto altrove. Ecco, la funzione dello scrittore, di Petro Marano è quella di fare da anghelos, da messaggero. Nei momenti in cui cadono tutti i valori, la funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo. È l’unica funzione che la letteratura può avere. La politica si preoccupa delle sorti immediate dell’uomo, la letteratura, invece, va al di là del tempo contingente. Di una letteratura, parlo di narrativa, quanto mai minacciata, oggi, da quella che è la mercificazione di questo genere letterario. È per questo che ho concepito il mio impegno letterario, non soltanto per un fatto di propensione verso il lirismo ma anche ideologicamente devo dire, come difesa dello spazio letterario.
Ho cercato di allontanarmi sempre di più da quel linguaggio senza memoria, insonoro, che i mezzi di comunicazione di massa oggi ci impongono e che ormai ha invaso tutti i settori della nostra vita. Il settore più minacciato, dicevo, è quello della narrativa. Credo che l’unica salvezza per questo genere fortemente appetito dai produttori dell’industria culturale -appunto perché è mercificabile- rimanga quella di avvicinare la narrazione alla poesia”. Ho tenuto a riferire lungamente le parole di Vincenzo Consolo perché, da sole, costituiscono un’ottima conclusione ai miei propositi di oggi. Propositi un po’ brevi e lapidari per una materia così ricca, sulla quale ci sarebbe ancora molto da dire. Ma il mio intento e la mia ambizione erano solo quelli d’introdurre un dibattito con l’autore in persona.
Quindi, per concludere, in Consolo narrativa e Storia sono intimamente legate. La Storia costituisce la trama intima del tessuto romanzesco. Ma Consolo non è uno storico e non è semplicemente, direi, un romanziere storico. È anche e soprattutto, per via di ciò che la sua prosa ha di lussureggiante, colorato, colto, prezioso, spesso barocco e lirico, è anche quindi un poeta della storia e del romanzo. La lettura di alcuni brani citati lo dimostra. I suoi legami e la sua dimestichezza di spirito e di penna con alcuni dei più grandi poeti contemporanei, quali Montale e soprattutto Lucio Piccolo, il grande poeta siciliano che fu amico di Consolo, lo attestano. Ma questo aspetto del nostro scrittore potrebbe essere oggetto di un’altra presentazione e di un altro dibattito.


1 CONSOLO, V. (1989: 31). 2CONSOLO, V. (1988: 165-6).
3CONSOLO, V. (1988: 170).
4 CONSOLO, V. (1994: 123-4).5 CONSOLO, V. (1992: 144). 6 CONSOLO, V. [(1976) ma 1997: 12]. 7 CONSOLO, V. (1992: 5).
BIBLIOGRAFIA:
CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1989): La ferita dell’aprile, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1992): Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1994): L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1997): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori
(«Scrittori italiani») [1 ed. 1976, Torino: Einaudi].

Parliamo di Vincenzo Consolo

di Natale Tedesco

Laudatio per Vincenzo Consolo di Natale Tedesco in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia moderna (Palermo, Steri 20 giugno 2007)

“Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura” di Natale Tedesco.
Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore. Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo, La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di Pantalica. Fascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagement. Di quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si giuoca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

Palermo 20 GIUGNO 2007
Lo specchio di carta
Osservatorio italiano sul romanzo contemporaneo

nella foto Sergio Spadaro e Vincenzo Consolo

Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vincenzo Consolo

download (2)Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vicenzo Consolo

Tatiana Bisanti

 

La scrittura della seduzione

La seduzione della scrittura

1
È solo a partire dal XVI secolo che il verbo sedurre ha acquisito l’accezione oggi comunemente più diffusa, quella di “convincere al rapporto sessuale”, entrata nell’italiano per influenza del francese séduire. Il verbo deriva dal prefisso se- “via, a parte” e ducere “condurre”, e significa dunque in origine “condurre via, condurre in disparte”, ovvero lontano da un percorso diritto e già segnato, dalla retta via (cf. Battaglia, 1961). E proprio il sedurre in tutti i sensi, anche in quello etimologico, è senza dubbio una delle chiavi di lettura più efficaci del romanzo Retablo (1987) di Vincenzo Consolo, un’opera sulla seduzione, ma anche e soprattutto un’opera di seduzione. La seduzione è, in altre parole, l’asse su cui ruota tutta la narrazione, sia dal punto di vista della materia narrata che da quello delle strutture narrative, ossia essa è al tempo stesso oggetto di rappresentazione e operazione in corso. Se da un lato, infatti, il sedurre è tematizzato nel racconto, dall’altro esso costituisce anche il principio strutturale dell’opera: la metafora della seduzione raffigura emblematicamente il processo in cui l’autore coinvolge il lettore, conducendolo su più strade, su diversi percorsi narrativi che si dipartono l’uno dall’altro e si intrecciano a vicenda.

La scrittura della seduzione

2
Come suggerisce il titolo, Retablo ha la struttura di un’ancona a vari scomparti: il romanzo si divide – come un trittico – in tre parti (Oratorio, Peregrinazione e Veritas), tre percorsi narrativi che raccontano la stessa storia da tre prospettive differenti. Il filone narrativo principale, il denominatore comune che unisce le tre parti del racconto, è una storia di seduzione, la storia dell’amore del frate Isidoro per Rosalia, che viene narrata da tre punti di vista. Nella prima parte, Oratorio, la storia è raccontata dalla prospettiva di Isidoro, narratore in prima persona. In Peregrinazione, la parte centrale, l’io narrante è quello di Fabrizio Clerici, pittore milanese che Isidoro accompagna nel corso del suo viaggio in Sicilia. La storia di Isidoro si intreccia allora con quella di Clerici, anch’egli amante infelice, in fuga da un amore non corrisposto per la milanese Teresa Blasco, storicamente la nonna di Manzoni, che andrà poi in sposa a Cesare Beccaria. Il capitolo finale, Veritas, è invece una lettera indirizzata ad Isidoro in cui Rosalia racconta la storia dal proprio punto di vista. E come in un retablo sotto gli elementi del polittico c’è una predella, così anche nel romanzo di Consolo al filone narrativo principale si accompagna un altro percorso narrativo, ovvero la storia di un’altra Rosalia, sedotta dal corrotto fra’ Giacinto.

1  Per le successive citazioni da quest’opera si indicherà d’ora in poi solo il numero di pagina.

3
Retablo è innanzitutto, come dice Traina (2001: 27), “un romanzo sull’amore deluso”, un tema che affiora sempre assai pudicamente negli altri libri di Consolo, mentre qui si fa motore e ragione di tutta l’azione, di tutto il viaggio. Tre sono dunque le storie d’amore principali (ma ad esse si potrebbero aggiungere altri intrecci secondari) su cui si dipana il filo del racconto. La seconda sezione del libro, quella centrale e di gran lunga la più estesa, è il diario di viaggio che Clerici scrive per Teresa Blasco, la donna amata da cui cerca di allontanarsi compiendo la sua “peregrinazione” attraverso la Sicilia. È solo attraverso il “collaudato contravveleno della distanza”, infatti, che Clerici riesce a ritrovare quell’“aura irreale o trasognata” che gli consente di dedicarsi alla scrittura e alla pittura (Consolo, 1987: 87)1. Quello di Clerici è, per così dire, un caso di seduzione mancata: in fuga da un amore infelice, alla fine del suo viaggio apprenderà che l’amata sta per unirsi in matrimonio con Cesare Beccaria. Nel descrivere un momento di particolare abbandono nel corso del viaggio, la sosta presso i Bagni Segestani, Clerici chiama a raccolta i più celebri miti di seduzione della tradizione letteraria: in particolare quello di Ulisse indotto ad accettare i doni della maga Circe o deciso a resistere al canto seduttore delle sirene, oppure la boccacciana novella di Biancofiore (pp. 61-62). La scena del bagno è il momento di seduzione più alto descritto da Clerici, ma è significativo che si tratti di una scena giocata sul puro piano dell’immaginazione: come Ulisse con le sirene, Clerici si fa sedurre solo in parte dal canto delle fanciulle che gli giunge attraverso la parete che separa il bagno degli uomini da quello delle donne. Non è un caso che il pittore non arrivi ad oltrepassare questa parete che divide i due mondi: in quanto artista egli può vivere il momento della seduzione solo a livello immaginario, e sempre mediato attraverso il filtro della letteratura. In questo momento di abbandono sensuale quelli che affiorano alla mente di Clerici sono episodi attinti esclusivamente all’immaginario letterario, quasi a frapporre una distanza rassicurante fra sé e il mondo, ad attutire attraverso lo schermo della finzione la forza dirompente della realtà in tutta la sua concretezza.

4
Un altro episodio del romanzo è emblematico di come la seduzione dell’arte assolva talvolta ad una funzione di compensazione nei confronti di una seduzione mancata nella vita: in quanto castrato, il maestro di canto don Gennaro non potrà mai sedurre l’adorata Rosalia, e sublima la propria mutilazione attraverso l’arte:

C’est la vie: chi canta non vive e chi vive non canta! […] siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti. (p. 158)

5
Ma la classica contraddizione decadentista fra arte e vita viene subito contraddetta, relativizzata e deformata da una lente ironica: con un brusco abbassamento di registro Rosalia interpreta questo allungare la mano alla lettera, e lo riconduce ad un piano ben più concreto e corporeo:

Ha ragione, ha ragione don Gennaro! Così fanno, allungano le mani, questi artisti. Così il vecchio abate Meli, che alla Flora, sbucando avanti a me all’improvviso da un cespuglio, tocca, sospira e va, declamando poesie.

Così il cavalier Serpotta, lo scoltore plastico, quando il marchese mi portò da lui per farmi fare le pose per le statue della Veritas: al posto dello stucco, plasmava me, con insistente mano. (p. 158)

6
Un’analoga concretezza si ritrova nella storia della seduzione di una giovane di nome Rosalia da parte di fra’ Giacinto. Questa narrazione è inserita, come si è detto, a mo’ di predella a metà del romanzo e si sovrappone al racconto di Clerici grazie ad un felice espediente meta-narrativo: Clerici scrive infatti il proprio diario di viaggio sul retro di fogli già scritti, che recano sul davanti il racconto della storia di Rosalia (una delle tante Rosalie di Retablo, la cui identità o eventuale parentela con la Rosalia di Isidoro resta peraltro imprecisata). Approfittando dell’ingenuità della giovane, Giacinto si serve della religione come travestimento per le proprie voglie e i propri desideri più licenziosi. La descrizione di questo episodio è pervasa di forte sensualità e arricchita di particolari concreti.

7
Ma la vicenda amorosa centrale su cui si basa tutto il romanzo è la storia di seduzione di cui sono protagonisti Isidoro e la giovane Rosalia: sedotto prima dal cibo offertogli da Rosalia e dalla madre, poi dalle bellezze della giovane, Isidoro si innamora follemente, tanto da essere indotto a derubare il convento per portare soldi alle due donne. Scoperto l’imbroglio, Isidoro è costretto a fuggire e ad allontanarsi dall’amata. Sarà preso a servizio da Clerici, che riconosce in lui la vittima di “uno di quegli amori furenti che non trovano giammai appiglio o risonanza nel cuore del bersaglio al quale disperatamente son puntati. Ma forse questo è mai sempre il destino di qualsivoglia amore” (p. 34). L’amore, secondo Clerici, “è inseguimento vano, è inganno e abbaglio, fuga notturna in circolo e infinita, anelito mai sempre inappagato” (p. 34). La seduzione di Isidoro, nella descrizione che lui stesso ne fa, all’inizio non si discosta molto dai topoi tradizionalmente associati al processo dell’innamoramento. Il fuoco d’amore si accende attraverso gli occhi e gli sguardi, che, conformemente alla tradizione, sono detti “lampi” (p. 18): anche la scelta lessicale rimanda dunque alla lirica medievale. Ed è proprio sui topoi di questa tradizione (sguardi schivi, donna angelicata) che è costruita tutta la scena iniziale della seduzione:

E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei. (p. 18)

8
Ma è una tradizione che si rivela subito inadeguata a rendere conto della concretezza dei fatti, e che pertanto viene subito straniata attraverso l’introduzione di particolari ben più materiali e corporei:

Ché Rosalia, lei, a poco a poco aprì la mantellina, mostrò il corpetto, ciocche arricciate del color del rame, le boccole agli orecchi trasparenti; e sorrideva, con le fossette, mostrando a malapena i denti di cagnola. (pp. 18-19)

2  Questo passo sembra far eco alla reticenza e allusività di Francesca nel dantesco: “Quel giorno pi (…)

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Il narratore non si dilunga sui particolari; ed è reticente sul seguito, descritto in modo riassuntivo e lapidario: “Breve, la sera appresso conobbi il paradiso. E nel contempo cominciò l’inferno, l’inferno pel rimorso del peccato e per la ruberia del guadagno a danno del convento” (p. 19)2. In parte analoghi, ma più concreti, carnali e sensuali, i toni con cui Rosalia descrive gli stessi eventi dal proprio punto di vista: “mai prima di quella notte io provai il paradiso, né mai per l’innante proverò. […] E dopo quella notte, non volli più lavarmi, sciogliere l’essenza, disperdere l’odore tuo sparso nel mio corpo” (p. 156). Isidoro dal canto suo paragona la figura dell’amata a quella della statua di Santa Rosalia, protettrice di Palermo. La sua passione per la giovane si confonde con il culto e l’adorazione della Santa:
uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e pellegrini intorno, «meschino, meschino…», a confortare. Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo pieno, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo… (p. 16)

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E proprio il mito di Santa Rosalia, con la sua caratteristica fusione di misticismo e carnalità, sottolinea magistralmente questa sintomatica unione di amore divino e profano: nella descrizione del rapimento di Isidoro venerazione della santa, godimento estetico, desiderio erotico ed esperienza estatica diventano tutt’uno. L’annichilamento di Isidoro è totale nel momento in cui riconosce le fattezze dell’amata Rosalia nell’immagine allegorica della Veritas scolpita dal cavalier Serpotta:

Davanti a una di quelle dame astanti, una fanciulla bellissima, una dìa, m’arrestai. veritas portava scritto sotto il piedistallo. Era scalza e ignude avea le gambe, su fino alle cosce piene, dove una tunichetta trasparente saliva e s’aggruppava maliziosa al centro del suo ventre, e su velava un seno e l’altro denudava, al pari delle spalle, delle braccia… Il viso era vago, beato, sorridente… Mi sentii strozzare il gargarozzo, confondere la testa, mancare i sentimenti. Aprii disperato le ganasce e lanciai un urlo bestiale. – Rosaliaaa!… – urlai, e caddi a terra tramortito. (p. 24)

3  “In Consolo il linguaggio letterario cerca di rivaleggiare con la pittura” (Geerts, 2000: 308); “I (…)

4  Si veda ad esempio il contributo già citato di Geerts (2000) sui sapori della cucina consoliana e (…)

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Questa la descrizione dello stesso fatto dal punto di vista di Clerici: “davanti a la Verità, divenne matto: crollato in terra, si contorse, schiumò, lacerossi gli abiti, la faccia, quindi nel vico si diede a piangere, a urlare come un forsennato” (p. 149). Lo stato di sopraffazione che colpisce Isidoro di fronte all’immagine di Rosalia rimanda ai sintomi della sindrome di Stendhal. C’è, infatti, un legame inscindibile fra esperienza estetica ed estasi amorosa. È attraverso il procedimento dell’ekphrasis, familiare alla tradizione letteraria medievale, che si realizza nella scrittura di Consolo quel legame fra seduzione amorosa e seduzione artistica. Come hanno rilevato molti critici, in Consolo scrittura e arti figurative sono strettamente collegate fra loro3. La seduzione della scrittura consoliana agisce soprattutto sull’aspetto visivo, gioca con l’immagine, lo stimolo ottico. È un fenomeno che si ritrova già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, dove la storia si sviluppa proprio a partire da un quadro, il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. L’affastellarsi delle sollecitazioni visive è una delle componenti fondamentali di quello che è stato definito il neo-barocco di Consolo. Non occorre insistere sul legame fra scrittura e pittura in Retablo. Esso è annunciato già programmaticamente nel titolo, e sottolineato inoltre dalla scelta dei personaggi: quello fittizio di Fabrizio Clerici è, non a caso, pittore, e rimanda direttamente all’omonimo personaggio reale (1913-1993), il pittore amico di Consolo e autore dei cinque disegni che accompagnano la versione a stampa del romanzo. Del resto non è solo sulla stimolazione visiva che gioca il barocco consoliano: il discorso letterario di Retablo fa leva su un vero e proprio coinvolgimento dei sensi (oltre alla vista, come si è già detto, anche l’udito, l’olfatto e soprattutto il gusto)4. Si tratta, pertanto, di una scrittura che può essere senz’altro definita “ seduttiva ”, in quanto mette in gioco le tecniche e i meccanismi tipici della seduzione.

La seduzione della scrittura

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La seduzione in Retablo non è dunque solo rappresentazione e tematizzazione del desiderio e delle sue modalità di manifestazione, ma soprattutto tecnica narrativa in atto, procedimento attraverso cui il testo conquista il suo destinatario. Il romanzo, infatti, irretisce il lettore nelle trame molteplici della narrazione, lo sorprende e lo avvince con la sfaccettatura e la pluralizzazione delle voci e delle prospettive, lo affascina con la sua lingua musicale, con un enunciato che, prima di appellarsi al significato, gioca innanzitutto sull’esplorazione delle potenzialità sonore, sfruttate al massimo attraverso il ritmo incalzante delle enumerazioni e un uso altissimo e intenso dell’allitterazione.

5 È lo stesso Consolo a sottolinearlo: “ho scelto il nome Rosalia per S. Rosalia, ma anche per scompo (…)

6 Si veda in particolare l’incipit del romanzo, a cui Consolo si è sicuramente ispirato (cf. in propo (…)

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Si è già visto come la stessa storia di amore e seduzione, quella di Isidoro e Rosalia, sia raccontata da tre persone e pertanto a partire da tre prospettive diverse: ognuno narra la propria verità, il romanzo è costruito su una serie di percorsi indecidibili, tutti altrettanto validi. L’intrecciarsi e il sovrapporsi dei vari racconti conferisce al romanzo una struttura paradigmatica, associativa, verticale. È interessante notare come la pluralizzazione dei punti di vista e delle verità possibili avvenga proprio a partire dalle varie figure di donne sedotte o seduttrici, che sembrano confluire in un volto solo: quando infatti Clerici si accinge a disegnare un profilo di donna che nelle sue intenzioni dovrebbe ritrarre l’amata Teresa Blasco, don Vito vi riconosce la Rosalia per amor della quale aveva ucciso il seduttore fra’ Giacinto, mentre Isidoro è convinto che si tratti della propria Rosalia (p. 87). Il fulcro su cui convergono tutti questi percorsi sono dunque le fattezze, ma soprattutto il nome di Rosalia, personaggio dall’identità fluttuante e incerta. Questo nome viene a definire personaggi di volta in volta diversi e non identificabili l’uno con l’altro, diventando quindi una sorta di nome comune, nome di genere atto a definire una categoria di validità pressoché universale. Rosalia è il nome dell’amata di Isidoro, è la Rosalia del manoscritto, è la donna amata dal cavalier Serpotta e modello della statua raffigurante la Veritas; ma Rosalia è anche la santa venerata a Palermo e oggetto di culto da parte di innumerevoli devoti. Su Rosalia convergono tutti i percorsi di desiderio dei vari personaggi e dello stesso lettore. Tutto ciò è evidente fin dall’incipit, un sapiente esercizio di bravura stilistica tutto costruito sulla scomposizione del nome in Rosa e Lia e sulle suggestioni ed associazioni che ne scaturiscono5. Si penserà in proposito alle innumerevoli valenze attribuite da Petrarca al nome dell’amata Laura, mentre, sul versante moderno, il modello indiscusso è senza dubbio il Nabokov di Lolita, non a caso uno scrittore di seduzione per eccellenza6. Nell’incipit di Retablo il gioco fonico e associativo che prende il via dal nome dell’amata è un brillante esempio delle capacità di seduzione della lingua consoliana:

Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha roso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.

Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei? (pp. 15-16)

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Tutto il passo è giocato sull’enumerazione e sull’accumulazione delle associazioni evocate dal nome Rosalia, associazioni che rimandano soprattutto a percezioni sensoriali. È proprio da questo insistito richiamo ai sensi che risulta evidente come il lettore si trovi qui coinvolto in un raffinatissimo gioco di seduzione. Si è già parlato dell’estrema forza visiva e dell’icasticità della scrittura consoliana. Ad essa si aggiungono qui sensazioni uditive create soprattutto dalle sonorità allitteranti del testo e da un andamento ritmico più vicino alla poesia che alla prosa. Si veda ad esempio la prima frase, in cui vengono elencati gli effetti della rosa sull’io narrante: i cinque elementi che la compongono possono essere letti come versi (i primi quattro saranno senari) a rima alternata (ababa, se si considera confuso e roso come rima siciliana). Non manca il richiamo alle percezioni tattili (la spina della rosa che punge, e più avanti l’impulso a toccare la statua della santa), ma soprattutto a quelle olfattive e gustative. Sarà soprattutto la prima parte del nome, la rosa, ad evocare odori inebrianti, segno di un processo di seduzione in corso, di un desiderio risvegliato e ancora insoddisfatto. Le immagini suscitate dalla seconda parte del nome, Lia, rimandano invece piuttosto alle sensazioni del palato, ad un piacere che, nel momento in cui viene gustato, si rivela subito veleno, seduzione letale che culmina in un “bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume”. Si noti come le associazioni che prendono il sopravvento alla fine del passo insistano proprio sulla mancanza di luce e sulla cecità, a sottolineare il fatto che alla perdita dell’amata corrisponde la fine delle percezioni dei sensi.

7  Cf. De Martino (1992: 48). Si vedano anche i diretti rimandi lessicali: “Ahi, non ho abènto” (p. 1 (…)

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Alle associazioni sensoriali risvegliate dal nome Rosalia si aggiungono quelle culturali e letterarie: da un lato l’effigie della santa venerata a Palermo, rappresentata nell’iconografia popolare con il capo cinto da una corona di rose bianche, dall’altro tutte le suggestioni letterarie legate all’immagine della rosa. La seduzione della scrittura nei confronti del lettore si avvale allora di tutta una serie di trame intertestuali che attraversano il testo e si sviluppano proprio a partire dal motivo della rosa: è lo stesso Consolo a mettere in risalto le affinità tra il discorso di Isidoro e Rosalia e il contrasto di Cielo d’Alcamo Rosa fresca aulentissima7. Il primo e l’ultimo quadro sono costruiti sul modello del contrasto. L’esempio di seduzione offerto dalla tradizione sarà in questo caso ironico. Ma non è da escludere nemmeno una suggestione derivante dal Roman de la Rose, storia allegorica di seduzione e conquista amorosa in cui l’amata è rappresentata, appunto, da una rosa (ma la metafora risale del resto già alla tradizione latina). Un altro intertesto di importanza centrale sono I promessi sposi manzoniani: non a caso l’amata di Clerici è Teresa Blasco, nonna di Manzoni; e come per quest’ultimo il Seicento era l’occasione per parlare dell’Ottocento, così per Consolo il Settecento è il filtro attraverso cui raccontare l’epoca attuale, come dimostra del resto l’anacronismo nella scelta del personaggio di Fabrizio Clerici, in realtà, come si è già detto, pittore contemporaneo.

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La stratificazione dei piani temporali viene ad aggiungersi alla sovrapposizione dei piani narrativi di cui si parlava prima. Quest’ultima trova la sua realizzazione più evidente nell’espediente dei fogli già scritti da Rosalia sul cui retro Clerici annota i suoi appunti di viaggio. Dice in proposito il narratore:

Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti, sembra che qualsivoglia nuovo scritto, che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco d’altri scritti. Come l’amore l’eco d’altri amori da altri accesi e ormai inceneriti. (p. 89)

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In tal modo Clerici istituisce un parallelo diretto fra scrittura e vicende amorose. E prosegue paragonando l’intersezione delle scritture a un retablo:

E il mio diario dunque ha proceduto […] come la tavola in alto d’un retablo che poggia su una predella o base già dipinta, sopra la memoria vera, vale a dire, e originale, scritta da una fanciulla di nome Rosalia. Che temo sia la Rosalia amata da don Vito Sammataro, per la quale uccise, e si convertì in brigante. O pure, che ne sappiamo?, la Rosalia di Isidoro. O solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore. (p. 89)

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La metafora del retablo equivale qui a quella postmoderna del palinsesto. L’espediente dei fogli già scritti e riscritti sul retro, che la veste tipografica del romanzo riproduce fedelmente, raffigura in modo concreto e visibile quell’intertestualità di cui si parlava prima e che costituisce uno dei tratti salienti di Retablo. Il lettore può scegliere liberamente quale delle due storie leggere. L’interpretazione è aperta e l’intrecciarsi dei piani narrativi ha come effetto, da un lato, la pluralizzazione dei punti di vista, dall’altro però anche l’universalizzazione del destino individuale. La verità, sebbene inafferrabile, è al tempo stesso universalmente valida: tutti sono accomunati da uno stesso destino, vittime di uno stesso gioco di seduzione. La moltiplicazione dei piani narrativi è, in ultima analisi, solo apparente, perché tutti i percorsi convergono alla fine verso un destino universale che coinvolge tutti, lettore incluso.

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L’immagine del retablo compare più volte nel romanzo, secondo la tecnica postmoderna della mise en abyme. La spiccata autoreferenzialità e autoriflessività letteraria di certi passi è finalizzata ad un processo autocritico che si rivolge contro l’arte e le sue capacità di seduzione, contro la sua natura finzionale e fasulla che trae in inganno lo spettatore ingenuo. Tuttavia si tratta di un inganno che si rivela anche benefico, in quanto seduce, ovvero allontana l’ingannato dalla triste realtà, offrendogli consolazione e oblio:

L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza. Io mi chiedei allor, al di là dell’imbroglio di Crisèmalo e Chinigò, nel vedere quei rozzi villici rapiti veramente e trasportati in altri mondi e vani, su alte sfere e acute fantasie, sopra piani di luce e trasparenze, col solo appiglio d’un quadro informe e incomprensibile e la parola più mielosa e scaltra, io mi chiedei se non sia mai sempre tutto questo l’essenza d’ogni arte (oltre ad essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto), un’apparenza, una rappresentazione o inganno, come quello degli òmini che guardano le ombre sulla parete della caverna scura, secondo l’insegnamento di Platone, e credono sian quelle la vita vera, il reale intero, come l’inganno per la follia dolce de l’ingegnoso hidalgo de la Mancha don Chisciotte, che combatté contra i molini a vento presi per giganti, o per furore tragico d’Aiace che fe’ carneficina delle greggi credendola d’Atridi, o come l’illusione che crea ad ogni uom comune e savio l’ambiguo velo dell’antica Maya, velo benefico, al postutto e pietoso, che vela la pura realtà insopportabile, e insieme per allusione la rivela; l’essenza dico, e il suo fine il trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii. Ch’ora accattavano i villani a poco prezzo, ponendo nel cappello piumato di Chinigò il loro obolo. (pp. 55-56)

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Il retablo è dunque una metafora dell’arte, della sua inadeguatezza a rappresentare il reale in maniera univoca e attendibile e al tempo stesso del suo grande fascino e potere di seduzione. In un’intervista l’autore ribadisce che “l’idea del retablo è mutuata da Cervantes, il padre del romanzo moderno. In effetti l’arte non rappresenta mai la verità; ma semmai rappresenta la verità ideologica di chi scrive” (De Martino, 1992: 40). Quella di Cervantes è, dice Consolo, “un’autocritica dell’arte come illusione… un’ironia su se stessi. L’arte come menzogna. Il Don Chisciotte è il più grande romanzo ironico, un’ironia sui poemi cavallereschi” (De Martino, 1992: 48). E altrettanto ironico è il titolo dell’ultimo capitolo di Retablo, Veritas, che è anche il nome della statua allegorica modellata sulle fattezze di Rosalia. La verità che Rosalia rivela alla fine nella lettera in cui confessa il proprio amore per Isidoro non è che una delle possibili varianti della stessa storia di seduzione. Sarà da leggere in chiave ironica la ripetizione della formula “Bella, la verità”, che ricorre con cadenza quasi ossessiva nel discorso di Rosalia. Emblematico è anche il passo, citato sopra, dove la statua raffigurante la Veritas viene descritta dalla prospettiva di Isidoro (p. 24): la verità non è altro che una figura di donna seducente e ingannatrice. La seduzione sensuale operata dalla statua rimanda a quella intellettuale esercitata dal concetto di verità: esattamente come la seduzione dei sensi, la seduzione intellettuale della verità si rivela illusoria e fasulla, e viene subito dopo relativizzata attraverso il racconto della stessa storia a partire da altri punti di vista.

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Retablo è, in ultima analisi, un romanzo sulla seduzione avvenuta e bruscamente finita (quella di Isidoro e Rosalia), sulla seduzione mancata (quella di Teresa Blasco da parte di Clerici), sulla seduzione dai risvolti tragici (quella di Rosalia da parte di fra’ Giacinto, brutalmente ucciso dall’innamorato Don Vito), o sulla seduzione spostata, deviata (la seduzione dell’arte che compensa quella irrealizzabile della carne fra don Gennaro e Rosalia). Ma soprattutto – e in questo consiste la particolarità del romanzo – la seduzione rappresentata va di pari passo con la seduzione in atto esercitata dalla scrittura, che trascina il lettore coinvolgendolo su molteplici piani di lettura. La conseguente relativizzazione della verità artistica fa parte di un processo autocritico che si rivolge non solo contro la “valanga di libri e di libresse privi d’anima, costrutto, lepóre e ragione ch’oggidì invadon biblioteche, botteghe di librai, si spargono pel mondo” (p. 30), ma contro l’arte tutta in generale, e perfino, in particolare, contro lo stesso Retablo consoliano. Così come il retablo ovvero il quadro teatrale seduce e inganna i “rozzi villici rapiti” (p. 55) che lo contemplano, altrettanto fa il romanzo Retablo in quanto prodotto artistico: la mise en abyme è allora al tempo stesso da un lato uno specchio autoriflessivo e autocritico che riflette la finzione artistica, dall’altro uno specchio che rifrange la realtà e la riproduce in modo sfaccettato e molteplice, rivelandone in tal modo l’irrimediabile inafferrabilità.

Battaglia S., Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1961.

Consolo V., Retablo, Palermo, Sellerio, 1987.

De Martino M., Intervista a Vincenzo Consolo, in L’opera di Vincenzo Consolo. (Dissertazione inedita presentata presso la University of Alberta), 1992, pp. 35-49.

Geerts W., L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo, in Soavi sapori della cultura italiana, Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.I., Verona/Soave, 27-29 agosto 1998, B. Van den Bossche (ed.), Firenze, Cesati, 2000, pp. 307-316.

Nabokov V., Lolita, Novels 1955-1962, New York, The Library of America, 1996.

Scuderi A., Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna, Il Lunario, 1997.

Segre C. e Ossola C. (eds), Antologia della poesia italiana. Duecento, Torino, Einaudi, 1997.

Traina G., Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze), Cadmo, 2001.

Notes

1  Per le successive citazioni da quest’opera si indicherà d’ora in poi solo il numero di pagina.

2  Questo passo sembra far eco alla reticenza e allusività di Francesca nel dantesco: “Quel giorno più non vi leggemmo avante” (Inferno, V, 138).

3  “In Consolo il linguaggio letterario cerca di rivaleggiare con la pittura” (Geerts, 2000: 308); “In Retablo c’è l’esplicitazione dell’esigenza della citazione iconografica: il «retablo» appartiene alla pittura ma è anche «teatro», come nell’intermezzo di Cervantes” (Traina, 2001: 130).

4  Si veda ad esempio il contributo già citato di Geerts (2000) sui sapori della cucina consoliana e i numerosi passi del romanzo dedicati ai piaceri culinari (fra l’altro, pp. 45, 51, 56-57).

5 È lo stesso Consolo a sottolinearlo: “ho scelto il nome Rosalia per S. Rosalia, ma anche per scomposizione rosa e lia” (De Martino, 1992: 48).

6 Si veda in particolare l’incipit del romanzo, a cui Consolo si è sicuramente ispirato (cf. in proposito Scuderi, 1997: 105):

Lolita, light of my life, fire of my loins. My sin, my soul. Lo-lee-ta : the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta.

She was Lo, plain Lo, in the morning, standing four feet ten in one sock. She was Lola in slacks. She was Dolly at school. She was Dolores on the dotted line. But in my arms she was always Lolita. (Nabokov, 1996: 7).

7  Cf. De Martino (1992: 48). Si vedano anche i diretti rimandi lessicali: “Ahi, non ho abènto” (p. 16) richiama il “per te non ajo abento notte e dia” di Cielo d’Alcamo (Segre e Ossola, 1997: 93). L’interesse per Cielo d’Alcamo è documentato inoltre nel romanzo stesso dall’episodio metaletterario dell’incontro di Clerici con l’“Accademia de’ Ciulli Ardenti” di Alcamo, dove si discute sull’opportunità di “far crescere la cima sicola da ràdica toscana o puramente far sbocciare in aura toscana la semente sicola” (p. 46).

Tatiana Bisanti, « Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vicenzo Consolo », Cahiers d’études italiennes, 5 | 2006, 57-68.

Référence électronique

Tatiana Bisanti, « Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vicenzo Consolo », Cahiers d’études italiennes [En ligne], 5 | 2006, mis en ligne le 15 mars 2008, consulté le 27 mai 2016. URL : http://cei.revues.org/813

Tatiana Bisanti

Universität des Saarlandes – Saarbrücken

Du même auteur

Fra differenza e identità microcosmo e ibridismo in alcuni romanzi di Luigi Meneghello [Texte intégral]

Paru dans Cahiers d’études italiennes, 7 | 2008

littérature contemporaine italienne » (Université Stendhal – Grenoble

 

Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo

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Struttura-azione di poesia e narratività
nella scrittura di Vincenzo Consolo

Maria Attanasio
Scrittrice

Alla ricerca di un’espressività nuova rispetto all’omologazione linguistica della contemporaneità, la scrittura di Vincenzo Consolo assume le modalità ritmiche e la densità metaforica della poesia: una vera e propria struttura-azione testuale che fa interferire la lingua della memoria e la memoria della lingua, la sequenzialità del tempo narrativo e la verticalità di quello della poesia. Benché tutti i suoi libri siano traboccanti di citazioni, epigrafi e continui riferimenti a poeti d’ogni luogo e tempo — da Omero a Teocrito, ad Ariosto, a Iacopo da Lentini, a Shakespeare, a Leopardi, a D’Annunzio, a Dante, e a tanti altri — Vincenzo Consolo non ha mai pubblicato un libro di poesie, a differenza degli altri scrittori contemporanei siciliani — Sciascia, Addamo, Bufalino, Bonaviri, D’Arrigo, ad esempio — la cui narrativa è stata spesso affiancata o preceduta da un’autonoma produzione poetica. Eppure è poeta, il più poeta tra i narratori siciliani; non si tratta di una generica liricità che crocianamente trasborda in ogni genere, ma di una testualità che, dentro le sequenze del tempo narrativo dei romanzi, e in quelle argomentative della saggistica, fonde libertà espressiva e referenzialità compositiva,ragioni etiche e motivazioni estetiche, ideologia e parola: immaginifica interazionetra la lingua della memoria, che restituisce il passato come metafora del presente, e la memoria della lingua, che, immergendosi nella lievitante stratificazione culturale e mitica delle parole, restituisce significatività al linguaggio; esemplare è in questo senso un racconto appartenente a Le pietre di Pantalica, I linguaggi del bosco, in cui lo scrittore racconta l’esperienza di un fanciullo che, durante un soggiorno in campagna, apprende dalla selvatica amica Amalia ad ascoltare il bosco — il suono del vento tra gli alberi, il gorgoglio dell’acqua, l’oscurata parola delle bestie — e a rinominare con una lingua argotica ogni cosa Fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che in quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava.1 metafora della necessità di una espressività nuova in una contemporaneità che, in nome del mercato e del profitto, opera, anche a livello linguistico, una marginalizzazione dei valori di un mondo a carattere antropocentrico. E in questi ultimi anni più che mai: la definizione di «guerra umanitaria» ad esempio, o l’umanizzazione di borse e mercati che «tremano, soffrono, si esaltano, si deprimono, sono euforiche», ecc., mentre, ridotti a puri beni strumentali dell’economia, gli uomini sono diventati semplici «risorse», talvolta da «rottamare». Vincenzo Consolo ha sempre respinto la piatta orizzontalità della lingua — quella da lui definita «tecnologica-aziendale» che, diffusa dai mezzi di informazione, rende afasica la realtà — spingendo invece la sua prosa a contaminarsi con altri generi, soprattutto con la verticalità immaginativa e demercificata del linguaggio poetico. La poesia è infatti oggi l’unica tra le arti che non diventa merce, perché il suo linguaggio, traboccando sempre dalla pura formulazione linguistica, non può mai totalmente identificarsi con quello della comunicazione: «coscienza anticipante», rispetto ai valori del proprio tempo, ma anche coscienza critica nei confronti del linguaggio del proprio tempo. La sua ricerca espressiva si muove perciò verso una scrittura che sia, insieme, esperienza di verità — non di semplice realtà — e testimonianza di libertà. Verità della storia — nella storia — e libertà della parola — nella parola — costituiscono infatti la struttura ideologicamente portante della sua narratività, che nella metafora del viaggio — presente e centrale in tutti i suoi libri — si congiungono, corrispondendo spesso — il viaggio e la scrittura — all’inizio e alla fine dello sviluppo narrativo; tappe necessarie di un processo conoscitivo che, coniugando storia ed esistenza, diventa presa di coscienza, parola, il cui nucleo — insieme motivazione e finalità — è sempre l’uomo, «Prima viene la vita, — scrive in Retablo — quella umana, sacra, inoffendibile, e quindi ogni altro: filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza…». 2

  1. Vincenzo CONSOLO, Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori,1988, p. 155.
  2. Vincenzo CONSOLO, Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 131.

Tra il primo romanzo, La ferita dell’aprile (Mondadori, 1963) e l’ultimo, Lo spasimo di Palermo (Mondadori, 1999), il rapporto tra storia e parola — e quindi il senso della metafora del viaggio — si modifica però profondamente. Se fino a Retablo il viaggio è avventura conoscitiva e utopia, che dilatano il tempo, ingannano la morte — la causa vera del viaggio, per Fabrizio Clerici, il protagonista di questo libro, «è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno dell’ere passate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’ nostri desideri»3, nella produzione successiva perde ogni connotazione conoscitiva, diventa nostos, amara verifica in un «paese piombato nella notte», «nell’Europa deserta di ragione»; Chino Martinez, il protagonista de Lo Spasimo di Palermo, ha infatti la consapevolezza che ogni viaggio è «tempesta, tremito, perdita, dolore, incontro e oblio, degrado, colpa sepolta rimorso, assillo senza posa». 4 La modificazione del senso della storia modifica anche quello della parola, con un’accentuazione sempre più espressiva ed espressionista del suo linguaggio, e con un utilizzo in funzione narrativamente destrutturante, rispetto a un tradizionale concetto di romanzo; un utilizzo, in questo senso, presente fin dalle prime opere. In un saggio del 1997, Il sorriso dell’ignoto marinaio vent’anni dopo, che conclude la raccolta di saggi Al di qua dal faro, scrive: Il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodie, fratture, spezzature, oltranze immaginative, dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che nella loro limpida, serena geometrizzazione escludevano le voci dei margini.5 Una vera e propria «struttura-azione» di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia. Lo scrittore sente però fortemente il malioso richiamo che da essa proviene: la straniante fascinazione di forme, suoni, segni, paesaggi che, intrecciandosi o alternandosi agli echi drammatici e stridenti della storia, come una sorta di respiro profondo attraversa tutta la sua scrittura; non si tratta di una schi-Ibid., p. 177. Op. cit., p. 98.Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 2001, p. 282. zofrenia espressiva, ma di una strutturale complementarietà, come complementari — all’interno di una complessiva visione del mondo — sono in Dante e Leopardi, filosofia e sentimento, ideologia e poesia. E non è un caso che entrambi, insieme a Omero, a Eliot e a Lucio Piccolo, siano i poeti di riferimento più presenti nella sua scrittura, che assume talvolta il carattere di una visionaria riscrittura, pulsante di echi, parole, reperti linguistici, risalenti dal fondo del già scritto. In una sorta di rarefatto silenzio leopardiano, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio — mentre il bastimento con il Mandralisca e tutto il suo carico di storia ed esistenze, approda davanti alla Rocca di Tindari — risuona, al di sopra dei tempi e degli spazi della narrazione, la voce visionaria dello scrittore a richiamare dal buio dei millenni Adelasia, la solitaria badessa centenaria, che torna ad aggirarsi tra le celle ormai disabitate, a interrogare invano l’immemore fluire Quindi Adelasia, regina d’alabastro, ferme le trine sullo sbuffo, impassibile attese che il convento si sfacesse. Chi è, in nome di Dio? — di solitaria badessa centenaria in clausura domanda che si perde per le celle, i vani enormi, gli anditi vacanti. — Vi manda l’arcivescovo? — E fuori era il vuoto. Vorticare di giorni e soli e acque, venti a raffiche, a spirali,  uro d’arenaria che si sfalda, duna che si spiana, collina, scivolio di pietra, consumo. Il cardo emerge, si torce, offre all’estremo il fiore tremulo, diafano per l’occhio cavo dell’asino bianco. Luce che brucia, morde, divora lati spigoli contorni, stempera toni macchie, scolora. Impasta cespi, sbianca le ramaglie, oltre la piana mobile di scaglie orizzonti vanifica, rimescola le masse.6 Lo stesso cosmico smarrimento dei sensi e dell’intelletto lo restituisce attraverso il protagonista di Retablo, che, sul colle di Segesta, davanti alla grandiosità dell’arte e della natura, vede spalancarsi le inaudite voragini del tempo: Sedetti su lo stilòbate, fra le colonne, sotto l’architrave da cui pendeva e oscillava al vento il cappero, il rovo, l’euforbia, a contemplare il deserto spazio, ascoltare il silenzio spesso su codesto luogo. Un silenzio ancora più smarrente per lo strider delle gazze, dei corvi, che neri sopra il cielo del tempio e sopra il vuoto della gran voragine grevi volteggiano, per frinire lungo di cicale e il gorgogliare dell’acque del Crinisio o Scamandro che dall’abisso, eco sopra eco, sonora si levava. 7 finendo con la letterale citazione di un verso de L’Infinito leopardiano. «E sedendo e mirando…». C’è una circolarità geografica nella scrittura consoliana: gli stessi luoghi — esemplari di una perduta bellezza, come i resti della grecità, o di una aggrovigliata contemporaneità, come la Palermo barocca, o la tecnologica Vincenzo CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi, 1976, p. 8. Op. cit., p. 79. Milano — ritornano ciclicamente nelle sue opere; Segesta tornerà infatti a essere rappresentata ne L’olivo e l’olivastro: E là, nel centro, nel recinto aperto in ogni lato, verso ogni punto, esposto alla notte dell’estate che porta sulle brezze odori arsicci di fieni, nepitelle, porta le scansioni del silenzio, del buio, strida, pigolii, sprazzi verdastri, gialli, luccichii, aperto in alto all’infinito spazio, mi pongo arreso, supino, e vado, mi perdo nella lettura stupefatta del libro immenso, in incessante mutamento, nella scrittura abbagliante delle stelle, dei soli remoti, dei chiodi tremendi del mistero…..Rimango immobile e contemplo, sprofondo estatico nei palpiti,nei fuochi, nei bagliori, nei frammenti incandescenti che si staccano, precipitano filando, si spengono, finiscono nel più profondo nero.8 Un testo di una straordinaria intensità poetica; l’immagine di quei «chiodi tremendi del mistero» resta, ad esempio, ostinata a perciare la mente: l’enigma dell’improvviso ritrovarsi esistenti nel tempo. Interminabili potrebbero essere le citazioni, tratte da tutti i suoi libri, a esemplificazione della variegata e lirica restituzione della natura; del paesaggio soprattutto, colto in tutte le ore e le stagioni: dalla campagna alla città al mare, la cui plurale valenza simbolica nella sua scrittura meriterebbe una trattazione a parte; nella lunga e illuminante intervista, pubblicata ne La fuga dall’Etna (Donzelli, 1993), lo scrittore definisce infatti il mare, come un luogo di invasione e possessione della natura, dell’esistenza, dei miti e dei simboli: simboli ambigui, spesso, insieme, di valori opposti, stridenti come la vita e la morte. Ma la percezione del luogo nella sua scrittura non è mai orizzontale e univoca: nella sua spazialità affiorano memorie, miti, scritture, esistenze, visioni; e non solo nei luoghi dell’arte o in quelli della storia, ma anche in quelli abituali e scontati del quotidiano, come, ne Lo spasimo di Palermo, la stanza di un albergo: Scricchiolii, la guida scivolosa nella curva e il fiato di sempre venefico e pungente, mai tarme blatte, mai topi in quest’ammasso d’alberi e fasciami disarmati, forse madrepore, alghe secolari, fermenti sigillati di mari tropicali, lo sciabordio è nelle tubature verniciate, nel rigagnolo sotto il marciapiede. L’angustia è forzata dagli specchi, uguale gentilezza è impressa su carta tende copriletto, lo stridore è nel giallo degli eterni girasoli.9 A volte è invece il sentimento a far scattare la tensione lirica, privilegiatamente l’amore nelle sue diverse espressioni: come dolcissima e lacerante coniugalità ne Lo Spasimo di Palermo, come sconvolgente passionalità in Retablo, il meno storico dei suoi romanzi, benché ci sia anche in questo, come in tutta la sua produzione, una precisa lettura etica e di classe; nucleo motivante è, in Vincenzo CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 128. Op. cit., p. 11-12. questo libro, l’esistenza, nel suo rapporto, a volte conflittuale, di ragione e sentimento, di arte e verità; un tema, quest’ultimo, già fortemente presente, direi centrale, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Ma la scrittura per Vincenzo Consolo non è mai rotonda frontalità espressiva, levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; aldilà della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita: Oh mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mio sogno e mio pensiero, cos’é mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo ha sempre declinato in mito, in racconto favoloso e leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora?10 Per rappresentare il delirio amoroso di Isidoro, in Retablo, lo scrittore fa perciò interferire iperletterarietà e leggerezza, ricerca espressiva e liricità; scava infatti nelle sonorità del nome Rosalia, trovando in esso occultati tutti i sensi e i segni della passione. Ognuna delle due parti del nome genera infatti una appassionata proliferazione di figure d’amore; se «Rosa» è l’immaginifica sorgente di tutti fiori, i colori, gli aromi, di tutte le sfumature di bellezza dell’amata: Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino,bàlico e viòla; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia,… Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel core.11 il «li» di «Lia» invece si moltiplica in una spirale di indicibili tormenti amorosi: Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come sangue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi, per mia dannazione.12 Il testo non è fine a se stesso, ma fa da attacco al romanzo, immettendo subito il lettore nel cuore tematico del racconto — la vita, l’amore, l’arte — ; presentando i protagonisti — Isidoro, Rosalia, Fabrizio Clerici — ; e profilando l’antefatto e i fatti. Già nel libro d’esordio — La ferita dell’aprile — lo scrittore apre la narrazione con una una bellissima prosa, scandita dal ritmo dell’endecasillabo: il ricordo del protagonista che rivede se stesso adolescente, in viaggio verso la vita e la consapevolezza storica:Op. cit., p. 109.Op. cit., p. 15.Ibid., p. 16.
Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista, sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti.13 Una lirica dilatazione memoriale, che, con un procedimento tipico della poesia contemporanea, a volte si traduce in contratta densità metaforica, tesa al coinvolgimento emozionale e interpretativo del lettore: esemplare è nello stesso libro la descrizione del panico dei viventi, e della natura tutta, di fronte all’eruzione: La strada è occhi grandi, dilatati, fronti pesanti sull’arco delle sopracciglia, gambe invischiate lente a trascinarsi, schiene ricurve sotto il cielo basso, la mano gonfia con le dita aperte; il gallo sul pollaio che grida per il nibbio, e il cane che risponde petulante. Il cane e un altro cane e tutti i cani: sì, si spaccò l’Etna.14 La presenza di incipit di poesia — in funzione lirica o tragica — aumenta sempre più, libro dopo libro, in funzione di anticipazione metaforica dello sviluppo narrativo, come il testo, tutto assonanze e rime, che da’ inizio al capitolo quarto di Nottetempo casa per casa: Nella vaghezza sua, nell’astrattezza, nella sublime assenza, nella carenza di ragione, di volere, nell’assoluta indifferenza, nel replicare cieco, nella demenza, rivolge a un luogo solo la dura offesa, strema la tenerezza, frange il punto debole, annienta.15 Nella risuonante atmosfera che la rima in «enza», scandendo la prosa, genera, s’imprime tragico e dissonante il conclusivo, «Crudo o Vile o Nulla, vuoto vorticoso che calamita, divora, riduce a sua immagine, misura». Nella produzione consoliana degli anni novanta, una visione sempre più pessimistica della storia tende a instaurare un rapporto inversamente proporzionale tra la rappresentazione della fine di un mondo a carattere antropocentrico e il vitalismo del linguaggio, in funzione di una strutturazione poematica del romanzo, che procede per accumuli lessicali, per addensamenti sonori di consonanze, rime, per grovigli metrici, settenari, novenari, decasillabi, endecasillabi soprattutto. Lo spostamento in senso poematico della sua narratività è l’esito ultimo di sua riflessione critica sul rapporto scrittura-realtà, che avviene nella seconda metà degli anni ottanta: da un lato — scrive in Fuga dall’ Etna — in concomitanza con il «clima spensierato, cinico, di ottuso scialo» della situazione politica italiana di quegli anni — «un carnevale o un paese della cuccagna alla Vincenzo CONSOLO, La ferita dell’aprile, Torino: Einaudi, 1977, p. 3. Ibid., p. 69. Vincenzo CONSOLO, Nottetempo casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 41.

Brughel», che lascerà, però, «un campo di macerie»; 16 dall’ altro con la scrittura teatrale di Lunaria e di Catarsi. In entrambe le opere i versi si alternano al dialogo: una distinzione puramente formale, anzi grafica, perché nella loro testualità non c’è alcuno scarto tra versi e prosa; esemplare è l’attacco in prosa — in realtà in endecasillabi — del primo scenario di Lunaria: «E’ vasto il vasto regno della Spagna vasto come i castelli di Castiglia, va oltre il mare, s’espande miglia e miglia…». 17 In Lunaria — una favola teatrale ambientata in una Palermo settecentesca — lo scrittore procede in un’ardita sperimentazione linguistica, portando, soprattutto nelle parti in versi affidate al coro, fino al non sense il gioco linguistico: attraverso ripetizioni consonantiche o sillabiche (ad esempio la funzione della consonante «n», e della vocale «o», in questi versi: «Nutta, nuce, melanìa/ voto, ovo sospeso,/ immoto»);18 attraverso l’uso della rima, che spesso si ripete — la stessa — verso dopo verso, facendo assumere alle immagini quasi la ritmicità di una giocosa litania, «minna d’innocenti/ melassa di potenti/tana di briganti, tregua di furfanti»; 19 e spesso anche attraverso un uso puramente sonoro del significante, che azzera il significato; gioco, ironia, divertissement, che l’uso di un lessico alto, ricercatissimo, commisto di aulicità, dialetto, di termini derivati da tutti i saperi e da tutte le lingue, morte e vive, accentua, «luna, lucore,/ allume lucescente/ levia particula/ fiore albicolante»).20 Ma il risuonante non sense delle cantilene di Lunaria, nulla ha a che fare con il linguaggio afasico della neoavanguardia, esattamente speculare all’afasia del potere per Vincenzo Consolo; nella sua poesia c’è sempre una parola,un verso, una soluzione espressiva che effrange il seduttivo canto di sirena del puro significante. La metamorfosi del protagonista in luna è, ad esempio, una metamorfosi anche linguistica: il vicerè viene come avvolto da un velame di «l»e di «u» di luna, «Lena lennicula,/lemma lavicula,/ làmula/ lémura, mamula./Létula/ màlia,/ Mah.», 21 un «mah» finale di una trasgressiva sonorità rispetto ai versi precedenti; quel suono però in persiano significa luna, in arabo vuol dire acqua, mentre in italiano rimanda al dubbio, alla perplessità, e anche alla forma tronca della parola madre. Luna, acqua, dubbio, madre: occultati e oscuramente vibranti nel suono di quel monosillabo. In Catarsi, attraverso il dramma di un Empedocle contemporaneo — il direttore di un centro di ricerca, che, coinvolto in uno scandalo, è in procinto di buttarsi nell’ Etna — lo scrittore invece indaga il rapporto tra parola e realtà nella società contemporanea. Sul tema della comunicazione infatti drammaticamente si confrontano il protagonista,Empedocle, e l’antagonista, Pausania, che, con la forza persuasiva della parola vorrebbe farlo desistere, rivendicando il suo ruolo di anghelos, di Op. cit., p. 61. Vincenzo CONSOLO, Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 7.

  1. Ibid., p. 5.Ibid., p. 6. Ibid., p. 49. Op. cit., p. 21.
    «colui che conosce i nessi, la sintassi, le ambiguità, le astuzie della prosa, del linguaggio»; 22 ma nella situazione estrema in cui Empedocle si trova nessuna parola può raggiungerlo, «Se le parole si fanno prive di verità, di dignità, di storia, prive di fuoco e suono, se ci manca il conforto loro, non c’è che l’afasia. Non c’è che il buio della mente, la notte della vita.»23 dice infatti a conclusione della scena terza. Nell’introduzione a Oratorio (Manni, 2002) — che oltre alla ripubblicazione di Catarsi, comprende anche L’ape iblea (elegia per Noto) del 1998 — in riferimento allo scritto teatrale del 1989, Vincenzo Consolo ribadisce e approfondisce la sua riflessione teorica. Verificando nella contemporaneità gli elementi costitutivi della tragedia greca, afferma che, oggi, non c’è legittimità d’esistenza per l’Anghelos, — il comunicatore che, narrando l’antefatto agli spettatori seduti nella cavea, dava inizio alla messinscena tragica — perché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi.24 Nell’assenza di ascolto, di referente, nel tempo «dell’assoluta insonorità di un contesto istituzionale», s’interrompe ogni rapporto di transitività tra realtà e scrittura: orfana, senza oggetto, davanti alla violenza senza riscatto della storia, al sonno senza risveglio della ragione, la parola non può più disporsi in racconto, ma con una lingua «estrema e dissonante» squarciare la testualità narrativa, destrutturarla, spostando il romanzo «sempre più verso la parte espressiva, la parte poetica». In realtà non si tratta di una radicale innovazione, piuttosto dello sviluppo di elementi espressivi di poesia — il lamento e l’invettiva — già presenti nei suoi romanzi, benché con un segno ideologico diverso. A conclusione storica de La ferita dell’aprile, si leva una voce dal fondo della narrazione, che da una più alta prospettiva di giustizia e di pietà, rappresenta con grande forza poetica la strage di Portella della Ginestra del 1 maggio del 1947: N’ammazzarono tanti in uno spiazzo (c’erano madri e c’erano bambini), come pecore chiuse nel recinto, sprangata la portella. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò buttò buttò riversi sulle pietre una rosa maligna nel petto e nella tempia: negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto. Disse una vecchia, ferma, i piedi larghi piantati sul terreno: — Femmine, che sono sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca?. Non è la fine: sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso.25 Vincenzo CONSOLO, Catarsi in Trittico (Bufalino, Consolo, Sciascia), Catania: Sanfilippo,
    1989, p. 21. Ibid., p. 25. Vincenzo CONSOLO, Oratorio, Lecce: Manni, 2002, p. 6. Op. cit., p. 122-123.
    un requiem per i morti di Portella, in cui però alla rappresentazione della violenza della storia si contrappone quella di una ostinata resistenza ad essa, attraverso la plastica immagine della vecchia con le gambe ben piantate nel terreno. Snodo poetico e ideologico del libro, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, «il canto lamentoso, il pianto rotto, il cordoglio», riguardano la rivolta e la strage dei braccianti ad Alcara Li Fusi, e la fine della speranza di giustizia sociale che in Sicilia motivò l’adesione popolare al processo unitario («Sì, bisogna scappare, nascondersi. Bisogna attendere, attendere fermi, immobili, pietrificati»);26 ma anche, a mio parere, nascono dalla necessità dello scrittore di dare espressione allo spessore di sofferenza delle tante jaqueries, anonime e inespresse nella grande storia. Il brano oltrepassa la connotazione linguistica ottocentesca del personaggio del Mandralisca: è la voce dell’autore che, con un ritmo metaforico accelerato, entra in scena a indicare la cieca notte della storia «all’ estremo della notte già le orde picchiano alle porte, sgangherano e scardinano con calci chiodati, lasciano croci di gesso su bussole e portelli»):27 notte di morti, spari, inseguimenti, ma anche di una possibile sortita verso la luce, Muovi il tuo piede qui, su questa terra, entra, fissa la scena; in questo spazio invaso dalla notte troverai i passaggi, le fughe, esci se puoi dalla maledizione della colpa, senti: il rantolo tremendo si snoda in prospettiva, mantegnesco.28 In Retablo, invece, il lamento diventa invettiva contro «il secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto!», e contro la città che nel Settecento meglio lo rappresentava — e ancora oggi meglio rappresenta il secolo — l’«attiva, mercatora», Milano, stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacabìnt e pien de vanitaa, il governatore ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola;29 città che ritorna, oggetto di un’invettiva ancora più amara e disperata, ne Lo Spasimo di Palermo: simbolo dell’«illusione infranta», del disastro storico e morale dell’Occidente, città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, «tecnologico» ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.
    30 Op. cit., p. 112. Ibid., p. 113.Ibid.Op. cit., p. 103.Op. cit., p. 91.

Dopo Nottetempo casa per casa l’invettiva e il lamento si amplificano, acquistando una totale autonomia rispetto alla narrazione: diffusa voce extranarrante, inclusiva di vicende e destini, che, rispondendo a un consapevole disegno poematico del romanzo, blocca gli eventi, immobilizza il racconto senza possibilità di dialettico sviluppo e di autonoma parola nell’afasia della società di oggi. Ne L’olivo e l’olivastro cade infatti ogni steccato di genere tra poesia e prosa, tra poema e romanzo; il rimando da capitolo a capitolo — le tappe di una  contemporanea odissea — non risponde né alla sequenzialità narrativa, né tantomeno a un’organizzazione saggistica. Un’angolazione di poesia fa visionariamente implodere la simultaneità dei tempi della lingua nella sequenzialità di quello narrativo, connotando espressivamente eventi e personaggi. I luoghi si verticalizzano, materializzando — in un continuum di passato e presente, di bellezza e desolazione — la densità di storia e di vissuto che vibra oscurata dietro ogni paesaggio, ogni muro, ogni piazza, ogni città; il viaggio di Odisseo – Consolo verso l’Itaca – Sicilia non è infatti un viaggio «in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella vastità del mare, è come fosse il suo un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo»,31 dimensione di struggente lirismo si alterna a una poesia di dolente espressività: alla restituzione lirica di poche oasi di civiltà e di memoria — Siracusa, Cefalù, Caltagirone — si contrappone quella, indignata e drammatica, di una degradata contemporaneità, che trova tremenda esemplificazione in Gela, città «della perdita d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasia, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo», 32 simbolo dell’irreversibile fine di un’Atene civile, «che — scrive Vincenzo Consolo nel lamento-invettiva di grande forza tragica, a conclusione morale del libro — nessuno può liberare dall’oltraggio». Lo scarto tra parola e realtà, tra racconto e afasia, si acutizza ne Lo spasimo di Palermo, in cui una lingua vertiginosamente espressionista disarticola l’apparenza di romanzo in gorghi di immagini, assonanze, rime, enjambement. Il libro si apre infatti con una sorta di proemio in cui lo scrittore addensa il senso e la connotazione metaforica della sua scrittura («Avanzi per corridoi d’ombre, ti giri e scorgi le tue orme. Una polvere cadde sopra gli occhi, un sonno nell’assenza. Il fumo dello zolfo serva alla tua coscienza. Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza»):33 un criptico viatico di poesia per il lettore, che insieme al protagonista — trasparente doppio dell’autore — sta intraprendendo un viaggio nell’immobilità della storia e nella fascinazione maliosa ma non consolatoria della parola.Quasi tutti gli undici capitoli in cui è diviso il romanzo sono introdotti da brevi preludi di un’immaginifica ed enigmatica densità, del tutto irrelati rispetto alla narrazione; un solo esempio: il preludio del IV capitolo,

  1. Op. cit., p. 19.Ibid., p. 79.Op. cit., p. 9.Muro che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla, antro fra ruderi sferzato dalla pioggia, ironiche statue in prospettiva, teschi sui capitelli, maschere sui bordi delle fosse, botteghe incenerite, volumi che in mano si dissolvono, lei al centro d’un quadrivio accovacciata, lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri.34 Sono i misteri dolorosi di una via crucis, che, sviluppandosi capitolo dopo capitolo, tocca tutte le stazioni della contemporaneità — dal terrorismo alla speculazione edilizia, alla mafia, alla guerra, alla tenebra della follia, alla condizione di emarginazione urbana «degli stanziali dei margini» — i poveri, i disperati, i migranti — che vivono, oscuri e oscurati, negli squallidi anfratti delle città contemporanee, Stanno nel tempo loro, nell’immota notte, chiusi nel sudario bruno, ermetici e remoti, stanno come vessilli gravi sui confini, nel passo breve tra il moto e la paralisi. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, muri, statue in volute di drappi, spiegamento d’ali, slanci fingono l’estro, sono la massa ironica contro illusioni, inganni, monito dell’esito, del lento sfaldamento.35 L’intervento poetico e tragico dello scrittore spesso taglia verticalmente la narrazione, assorbendo il narrato nella restituzione metaforica di una condizione storica dove ogni giustizia è morta, ogni pietà s’è spenta. Sulla stasi e il silenzio della storia («Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime del tempo. La storia è sempre uguale»),36 si stende il requiem della poesia: rito di morte e, insieme, esorcismo contro la morte, di una scrittura che sul ciglio degli abissi «si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente»; 37 barocca fascinazione tonale di un linguaggio risuonante di rime, nominazioni, fastose metafore, che, simultaneamente, si pone come emergenza espressiva, ed estremo gesto di libertà ideologica, in una condizione umana coatta dalle istituzioni di potere e dall’assertorietà definitoria, ma anch’essa ideologica, del linguaggio, «La lingua — dice Vincenzo Consolo citando in un articolo della rivista Autodafè Roland Barthes — non è né reazionaria, né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire…». Non resta allora che l’afasia o la poesia. E Vincenzo Consolo sceglie la poesia.
  1. Ibid., p. 45.Ibid., p. 70-71.Ibid., p. 9.Ibid., p. 12.
    Quaderns d’Italià 10, 2005
    foto di Claudio Masetta Milone

Della luce e della visibilità Considerazioni in margine all’ opera di Vincenzo Consolo

 

Della luce e della visibilità
Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo
Paola Capponi Universidad de Sevilla
Abstract

La luce, la luminosità, ossia le forme con cui la luce è presente nell’intertesto consoliano paiono assumere valenze che trascendono la mera descrittività , la nota paesaggistica. Un lessico della luce (e dell’ombra) preciso e puntuale definisce il rapporto tra Milano e la Sicilia, tra il centro e la periferia, tra passato e presente. L’intreccio di tali coppie oppo-sitive rende incalzanti i rimandi dal piano diatopico (Milano – Sicilia) a quello diacronico(passato-presente). La riflessione stessa sulla memoria e sulla possibilità del narrare attinge ad un repertorio di immagini e di luoghi della tradizione che si rifanno alla luce come ele-mento metaforico portante. Si apre così la possibilità di articolare intorno al tema della luce un percorso che, attraverso più livelli di lettura, arriva ad alcuni nodi della scrittura dell’ autore. Parole chiave: luce, lessico, diatopia, diacronia, memoria  (Vincenzo Consolo).

Abstract The light, the brightness, namely the shapes in which light is present throughout Consolo’s writing seem to take on contents that transcend mere descriptiveness and notes on the land scape . A precise and punctual vocabulary of light (and shadow) defines the relation ship between Milan and Sicily, between the centre and the periphery, between past and pre-sent. The interweaving of such opposing pairs makes the references from the diatopic plane(Milan-Sicily) to the diachronic plane (past-present) more imminent. The reflection onmemory itself and on the ability to tell a story draws on a repertoire of images and tradi-tional places that take their revenge on light as the main metaphorical element. This opensup the possibility of constructing a path around the subject of light, which, on several lev-els of reading, gets to the heart of the author’s writing.Key words:light, vocabulary, diatopics, diachronics, memory
( Vincenzo Consolo ).

1.Per motivare la scelta della luce come oggetto di riflessione, parto da un testo breve, 29 aprile 1994: cronaca di una giornata (pubblicato nel numero 29 di Nuove Effemeridi) in cui Vincenzo Consolo racconta di una mattinata dedicata alla scrittura (e precisamente alla stesura de L’olivo e l’olivastro) e alla memoria, al flusso memoriale, interrotta a mezzogiorno per comprare il giornale,grigio momento in cui rientrare nell’ avvilente e bigia quotidianità. La cesura della giornata, la bipartizione, evidente e chiara nella brevità del testo nonché le riflessioni iniziali, proprie del momento della scrittura, della narrazione e della memoria, offrono lo spunto per alcune osservazioni di carattere più generale che costituiscono la nervatura di questo intervento. Due sono gli elementi sui quali voglio soffermarmi: la cesura e il viaggio. Cesura, ossia spaccatura, individuazione di due poli distinti, e viaggio, quasi geometricamente inteso, quale tratto, segmento che unisce due punti separati. Nella prima parte del testo, Consolo racconta di un viaggio, anzi di molti viaggi e, più propriamente, di fughe, allontanamenti in cui punto di dipartita e punto d’approdo si intrecciano, alternandosi. I due poli sono la Sicilia e Milano; al movimento di fuga dalla Sicilia, dalla periferia verso un Nord di lavoro, di rispetto di leggi e di diritti, al viaggio da una terra di «immobilità,
privazione e offesa»1 verso la città dei lumi, si oppone un movimento contrario che dalla città delle nebbie riporta all’ isola del sole.
Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano […] Credo sia questo ormai il destino d’ogni ulisside d’oggi, di tornare sovente nell’ Itaca del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restare prigioniero nella reggia d’Alcinoo, in quel regno di supposta utopia, d’irreale armonia, condannato a narrare all’ infinito, come un cieco cantore, un vecchio svanito, i suoi nostoi,le sue odissee.
2 Il nostos fiorisce e si complica dunque in una serie di viaggi senza posa, in cui la Sicilia già non è più l’isola del Sud, geograficamente e puntualmente individuabile, ma l’Itaca dei distacchi e dei ritorni infiniti, la terra cui si anela tornare e da cui si continua a fuggire, ormai spaccata, franta in lacerazioni amare. Il nostos privato si fa viaggio di «ogni ulisside d’oggi», viaggio che presuppone un ritorno o, meglio, un movimento pendolare perpetuo, quasi tra i labbri di una ferita, tra i lembi di una frattura lenita solo dalla narrazione. Proprio la biforcazione è eletta a simbolo e titolo in L’olivo e l’olivastro. L’opposizione coltivato-selvatico, civile-barbarico non è solo emblema della condizione della Sicilia, bensì di una regione universale, di una Sicilia che si fa «metafora dell’Italia (dell’Europa, del mondo?)».3 La frattura è certo quella 1.  Vincenzo CONSOLO, «29 aprile 1994: cronaca di una giornata», in Nuove Effemeridi, n. 29,1995, p. 4.2.Ibid.,p. 4.3.Ibid., p. 5.

Tra la città del Nord, Milano, e l’isola del Sud, la Sicilia, ma è anche spaccatura interna alla Sicilia stessa, terra dal glorioso e sfavillante passato e dal presente oscurato da privazioni e barbarie, ed è, in ultima analisi, condizione comune, universale. Se in una dimensione sincronica, possiamo rintracciare dunque l’opposizione tra Milano e Sicilia, centro e periferia, luce e ombra, e ricostruire geograficamente il viaggio tra i due poli, nella dimensione diacronica individuiamo il contra-sto tra la luce del passato e il buio del presente. Si intrecciano insomma due coppie oppositive, una sul piano orizzontale, diatopico: [Milano : Sicilia] e una su quello verticale, diacronico: [Presente :Passato]. La combinazione dei due piani è una delle cife della scrittura consoliana: i tagli diacronici sono abilmente incastonati nella tessitura lineare,quasi incursioni verticali che paiono imprimere alla scrittura un movimento vorticoso, un avvitamento che penetra le stratificazioni della storia e acuisce il «dolore» della lacerazione. Il viaggio non è tanto rappresentabile come linea piana che unisce due punti, quanto come percorso carsico, a volte riaffiorante in superficie, trivellazione di strati profondi, discesa nelle profondità ipogee. A Siracusa stride il contrasto tra lo sfarzo della potenza antica e il degrado presente: Mi trovo, confuso, smarrito, in questo teatro di profonda memoria, di continui richiami, in questa scena odierna di degrado e macerie, deserta di parola,poesia, in questa cavea di urla e fragori, sotto un cielo di spesse caligini, presso un mare di petroli e liquami. In Siracusa è scritta la storia dell’infinito tra-monto della civiltà nostra e cultura, dell’umano sentire, è impressa la notte della ragione e della pietà.
4 A Milano non meno doloroso è lo spegnersi dei Lumi, un tempo baluardo e faro per la società civile, ora fioche luci tra le nebbie:questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della mediocrità più squallida,della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia, d’ogni bellezza, perché non c’è più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui ricomporre l’armonia perduta.
5 La desolazione del tempo presente irrompe nella giornata di Consolo quando, a mezzogiorno, sospende il lavoro (e, con esso, il fluire di antiche memo-rie) e compra il giornale: «È il momento, quello, della frattura, del ritorno brusco nella prosa offensiva del presente, dell’ingresso nel grigio miserevole teatro di questo regno dei Feaci ».
6 La chiusura del testo è affidata ad un’immagine di allargato tramonto infinito, che cala sulla giornata (il 29 aprile 1994),su Siracusa e su Milano: «Tutto ormai in questo Paese è di banalità e orrore,4.Ibid., p. 5.5.Ibid., p. 6.6.Ibid., p. 6.
di degrado e oblìo, è tramonto infinito, è Siracusa, è fiammella d’olio o di candela che si spegne, è buio di catacomba».7 Lenizione e riparo all’ offesa presente è l’interruzione stessa del presente, la sua sospensione, e quindi lo scrivere e la memoria: «Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, ed’un viaggio nella terra del passato».82. La luce è elemento fondante del panorama meridionale. La luminosità e la pienezza di luce sono dati del paesaggio, tratto distintivo della campagna siciliana arsa, bruciata dal sole, ostica, assopita nei silenzi meridiani («Nei silenzi, si udiva solo il mormorio dei piccioni, il lamento della cicala, di tutta la campagna sotto il sole»9), vibrante nell’ aria calda del meriggio:il sole […] dal balcone era arrivato prima sulla tovaglia. Così caldo, questo sole, che si levava già dalla rena alla marina il fumo tremolante del vapore.[…] Due cani si mordevano gli orecchi saltando sopra il mucchio dei rifiuti, si davano zampate, giravano attaccati attorno a un palo inesistente. Questo sole.
10 La Sicilia si presenta tutta «sotto il segno del sole», terra dura di stenti e di fatiche, di uomini «nutriti di sarde e di cicorie ed asciugati al sole»,11 che mangiano «sole come pane».12 La luce riflessa sulle pietre, nel riverbero del mare, battente sugli splendori antichi di antiche città, è sfarzo e bagliore accecanti; filtra, rimbalza tra le mura e i palazzi, le rovine e i ruderi, quasi principio vivificante in grado di restituire in forma di miraggio l’antico splendore, grazia e armonia del passa-to. L’opposizione è netta rispetto alle città del Nord, rispetto a Milano, città di brume e di foschie, di luci spente:una terra nordica, luntana, ’na  piana chiusa da montagne altissime, d’eterni ghiacci e d’intricati boschi, rotta da lunghi fiumi e laghi vasti, terra priva di mare, cielo, sole, stelle, lune, coi verni interminabili carichi di nevi, e con l’estati brevi, umide, brumose, ove la gente ognora mangia lardi, cotiche, verze,ranocchi, passeri, pulenta di granturco…137.Ibid., p. 7.8.  ID., Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 77.9.  ID., La ferita dell’Aprile, Milano: Mondadori, 1963, p. 147.10.Ibid., p. 120.11.Ibid., p. 106.12.Ibid., p. 72.13.Retablo, p. 66.

La gamma cromatica calda dei tramonti siciliani, oro-arancio-viola, o lo sfavillío dorato dell’aurora a Palermo, «latteggiante e rosseggiante», stride con le sfumature nel grigio delle nebbie e dei fumi, con il biancastro e con il grigiastro del gelo del Nord. Nell’ ora del tramonto, l’occhio indugia nel paesaggio di Sicilia mutante di colori; un sole cefalutano «imporporava il mondo,stramangiava le cose, faceva di fuoco cielo, terra alberi, uomini, rendeva irreale ogni presenza, movimento».
14 È un paesaggio in vitro quello offerto dalla città dei Lumi, da cui si fugge,di desolante grigia uniformità, indefinitezza di confini in cui vaga l’occhio vacuo e perso:Era una mattina di novembre. Al di là del capannone, oltre i vetri polverosi, si scorgeva un piccolo campo, un terreno vago circondato d’altri fabbricati, d’ altri capannoni con ciminiere, sfumati dalla nebbia, un campo sulle cui stoppie marcite di granturco gravava una bruma grigiastra, si stendeva una pellicola biancastra di brina gelata.
15 La terra a cui tornare, l’armonia perduta cui ricongiungersi richiamata quasi in controcanto dal panorama milanese è la Sicilia ma, ancora una volta, con drammatico taglio diacronico, non già la Sicilia d’oggi, quanto la Sicilia, metaforicamente intesa, d’un tempo:la Sicilia era un’isola surreale o metafisica, con solo città sepolte, necropoli,latomie, ipogei pieni di sarcofagi di marmo luminoso, di neri lucidi crateri con dei ed eroi graffiti; con templi teatri agorai di città morte in luoghi remo-ti, deserti, incontaminati.16 In una menzione del nostos di Ulisse (più volte echeggiato nei romanzi consoliani ) offerta in L’olivo e l’olivastro è possibile rintracciare, esplicitato, l’intreccio delle due dimensioni. Così è raccontato il ritorno di Ulisse, dalle macerie di Ilio ad Itaca «chiara nel sole…»17:Viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella vastità del mare, è come fosse il suo un viaggio in verti-cale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo. Si muove il navigante tra streghe, giganti, mostri impensati, tra smarrimenti, inganni, oblii, malie, perdite tremende,fino alla solitudine, all’ assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e perla vita.
1814.  ID., Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 21.15.  ID., Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988, p. 112.16.Ibid., p. 113.17.  ID., L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 19.18.Ibid., p. 19.

Il ritorno pare coincidere qui con l’inabissamento di sé, con l’immersione nella memoria, con un percorso di progressivo avvicinamento al limen, al limi-te estremo, oltre il quale dilagano il silenzio e l’assenza. Procede il navigante(come la scrittura consoliana) per accumulazione, nel suo duplice percorso in’orizzontale e in verticale; le due forze paiono comporsi in un movimento vorticoso, in un turbinio (o in una «chiocciola») che pare sottendere un unico punto di fuga, un occhio del ciclone in cui punto di dipartita e punto d’arrivo coincidano, ma la meta è solo supposta, suggerita, sfiorata e il ciclone pare sospeso a mezz’aria, pare progressivamente stringere le maglie intorno all’ innominabile, come a stringere d’assedio il non detto o il non dicibile, il silenzio e l’assenza, in un abile e meticoloso lavorio di approssimazione. L’Itaca con cui riconciliarsi è svanita, la terra patria cui è sempre dolce tornare è un luogo della memoria, una meta nel tempo. Il ritorno è ad un presente di degrado e di macerie, ombra della luce di un tempo, fantasma dell’armonia perduta. Nel cielo, le incrinature di fumo dei comignoli dell’Etna, parte del paesaggio antico di Sicilia, lasciano spazio ai fumi delle raffinerie, ai gas dei lacrimogeni, segno, nella volta celeste, delle crepe nella natura e nella società. Forma parte del paesaggio di Sicilia «la colonna attorta del fumo del cratere»19 dell’Etna, che si conficca, quasi incastonata, nel piano orizzontale del cielo, ma alle striature di fumi naturali e di nuvole si aggiungono e si sovrappongono, nel presente, i fumi del degrado, i mia smidella corruzione. A Milazzo, «la colonna di denso fumo» che si vede «levarsi fino al cielo»20 è il segno dell’esplosione della raffineria; «nel cielo si formano nuvole»21 quando a Comiso sono sparati lacrimogeni per disperdere la folla,mentre a Palermo«ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti».22 Il sole, prima vivificante in un paesaggio armonico, ora secca i gelsomini,al sole di luglio s’incrosta e annerisce il sangue. 23 La luce è elemento che pare acuire di forma tagliente la desolazione e il degrado; svela piazze svuotate,«vuoti gusci di cicale»; è stasi, paralisi, immobilità. A Comiso il sole illumina una città morta:Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola. 24 Palermo «è fetida e infetta» nel «luglio fervido». Di Avola, «il nuovo paese ricostruito al piano dopo il terremoto» sono ricordate le perfette geometrie, la bellezza dell’antica architettura da cui il paese pare trarre «giustizia e armonia»;
19.Ibid., p. 60.20.Ibid., p. 23.21.Le pietre di Pantalica, p. 179.22.Ibid., p. 166.23.Ibid., p. 170.24.Ibid., p. 166.

Ne sono citate la laboriosità, l’attività umana fervente di dibattiti e di discussioni;è descritto un paese che, nomina omina, è «Apicola soave e laboriosa»: Avola del terreno arso, del mandorlo, dell’ulivo, del carrubo, della guerra con il sole, con la pietra, la città nuova di geometrica armonia, di vie diritte, d’ariose piazze, d’architettura di luce e fantasia […]. La vasta piazza quadrata, il centro del quadrato inscritto nell’ esagono, […] fu sempre il teatro di ogni incontro,convegno, assemblea, dibattito civile. 25 L’armonia passata in cui la mente e la memoria trovano ristoro si frange nel presente, nel momento del «ritorno brusco nella prosa offensiva del presente»: 26 Entra nel vasto spazio nell’ ora della luce umana,della calura che si smorza,nel meriggio tardo ch’ era in passato del brulichio, del brusio sulla piazza […]sotto il cielo fitto dei voli obliqui, degli stridi, dei rintocchi di San Nicola, di Santa Venera, dell’Annunziata, che ora è vuota, deserta, sfollata come per epidemia o guerra […]. Cos’ è successo in questa vasta, solare piazza d’Avola? Cos’ è successo nella piazza di Nicosia, di Scicli, Ispica, Modica, Noto, Palazzolo,Ferla, Floridia, Ibla? Cos’ è successo in tutte le belle piazze di Sicilia, nelle piazze di quest’Italia d’assenza, ansia, di nuovo metafisiche, invase dalla notte, dalle nebbie, dai lucori elettronici dei video della morte? 27 Alla luce e al caldo soffocanti, alle vuote ore meridiane, sarebbe dovuta seguire «l’ora della luce umana», che propizia e accompagna il dibattito, l’incontro, l’attività, ma il tramonto non raccoglie più oggi, come era nel passato,il fervore e l’azione, bensì abbandoni, vacuità, silenzi, attese.3. Con puntualità è rilevato il trascolorare della luce, modulazioni di intensità luminosa che accompagnano il procedere delle ore e scandiscono l’ordine delle attività umane. Il sole ritma inesorabilmente il tempo delle opere e i giorni,dei lavori della campagna e del mare: le ore mattutine sono le più adatte al lavoro, temibile è l’ora meridiana, con il sole a perpendicolo, mentre il tra-monto coincide con la fine delle fatiche del giorno. È un tempo ciclico, chiuso nell’ alternarsi di notte e dì. La luce è dapprima tenue, non ancora dispiegata:Il paese, già sul mattino primo e nella luce ancor non dispiegata, era una scorreria di carri e bestie, di comitive allegre, di musicanti, villani e mercanti cheper ogni porta, di Trapani e Palermo, dello Stellario, di Corleone e del Castello, invadevano le strade e le piazze.2825.L’olivo e l’olivastro, p. 110.26.29 aprile 1994…, p. 6.27.L’olivo e l’olivastro, p. 112.28.Retablo, p. 50.

si fa luce ferina, nel meriggio: Dall’ alba dava forte con la sua sciamarra, un colpo dietro l’altro, rantolando, hah hah, su quella crosta dura di petraia, in dorso di collina declinante, panetomazzo e acqua unico ristoro a mezzogiorno. Piegato in due. Zuppa la camicia e il gilè, il fazzoletto al collo, con quel sole di maggio che ancora gli mordeva sulle spalle. 29 ed è infine luce rosseggiante, prima di spegnersi al tramonto:Il sole sbucava all’ orizzonte sotto una banda nera di foschia, e prima d’eclissarsi dietro i monti, dietro Barrafranca, Pietraperzìa, rosseggiò potente, infiammò gli uomini sopra Ratumeni, le pietre bianche della masseria. Poi, lentamente tramontò e tutto s’incupì. Smisero i braccianti d’arare, di zappare ed erpica-re, riposero gli attrezzi. 30 La scomparsa del sole dietro l’orizzonte, segnale della fine del lavoro per l’uomo di terra, è invece alba e segnale d’inizio, di nuovo giorno, per il pescatore: È l’alba, per loro, questo tramonto, poi si fa notte, scura: la luna piena dice fame ai pescatori, offusca le lampare. Non sanno altro tempo fuori che questo, come le farfalle, i pipistrelli.
31 È forse possibile leggere tale circolarità del tempo non tanto, o non solo,su un piano orizzontale, bidimensionale, come catena perenne di ritorni sempre uguali, quanto nella profondità, in verticale. Frequenti incursioni diacroniche paiono infatti restituire al presente uno specchio lontano, come se dalle profondità del passato e della memoria risalissero tracce, percorsi sommersi che emanano luce sul presente. Lo scorrere del tempo è ritratto come sovrapporsi di stratificazioni che, tagliate trasversalmente, svelano tra loro ricorrenze, similitudini, ritorni. È la lente della memoria e della storia che offre la terza dimensione alla lettura, e consente di cogliere e acuire il sentimento della frattura, della perdita, dei ritorni sotto nuove spoglie, della metamorfosi dell’identico. L’«ordine continuo», il «rosario fatale della corsa»32 è dunque colto nell’ accumulazione di rovine, su cui rinascono altri templi, altre illusioni:La Contrada è illuminata da una luce livida. Si odono ululati di cani, pigolare d’ uccelli notturni, mentre dall’ alto, sulla fontana, sullo spiazzo, piovono lentamente falde di Luna simili a garze luminescenti. Così è stato e così sempre sarà: rovinano potenze, tramontano imperi regni civiltà, cadono astri, si 29.  ID., Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori, 1976, p. 105.30.Le pietre di Pantalica, p. 61.31.La ferita dell’Aprile, p. 74.32.Nottetempo…, p. 129.

Sfaldano, si spengono, uguale sorte hanno mitologie credenze religioni. Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione, stiamo saldi, pazienza, in altri teatri, su nuove illusioni nascono certezze. 33 Quando il sole, reggitore dell’universale armonia, impallidisce nella sera,la melanconia attanaglia il Viceré di Lunaria («La luce solare, meridiana, che entra dai balconi, si smorza, da dorata diviene argentea, lunare, illividisce lasala, gli astanti.»).344. Si apre qui una nuova possibile valenza della luminosità nell’ opera consoliana, per indagare la quale è forse opportuno rifarsi al verso di Ungaretti che apre il capitolo Le pietre di Pantalica: «Soli andavamo dentro la rovina», da Ultimi cori per la terra promessa. I versi che precedono quello citato sono questi: «Calava a Siracusa senza luna / La notte e l’acqua plumbea / E ferma nel suo fosso riappariva, / Soli andavamo dentro la rovina / Un cordaro si mosse dal remoto».35 E così recita il primo paragrafo consoliano: È l’ora in cui dal suo acuto ferino di bianca incandescenza si torce, si modula nei toni più mansueti, tangibili — oro arancio viola — la luce. Appaiono quindi le pietre, dal fitto fondale di pini e cipressi avanzano in linee parallele come onde, grigio rosa, muschiate, negli intervalli dove appena s’addensano sottilissime ombre, dentro il cerchio mistico dell’orchestra. Al cui centro, reale e idea-le, bocca d’un segreto cunicolo, d’un buio ipogeo, è una porta, due corti pilastri e un architrave appena arcuato. Scenografia vera, come l’ha conciata degli scenografi il più riduttore, il più essenziale: il tempo. Nella cavea affollata, succede improvviso il silenzio. Ha inizio la rappresentazione della tragedia.
36 Lo scenario di cerchi concentrici, come onde susseguenti si, la polarità verso un centro che ancora sfugge, perché imbocco nero verso profondità ipogee,l’accesso senza sbocco: è questa la scenografia del tempo, opera secolare di stratificazioni circolari i cui raggi ipotizzano un centro. L’architettura complessi-va si svela nell’ ora calda e lieve del tramonto, nella luce crepuscolare che segue«l’acuto ferino» del demone meridiano. Si tratta di un topos particolarmente caro a Ungaretti che al demone meridiano dedicò assidue ricerche, a partire dal commento alla leopardiana canzone Alla primavera.
3733.  ID., Lunaria, Milano: Mondadori, 1985, p. 50.34.Ibid., p. 139.35.  Cfr. Anche L’olivo e l’olivastro, p. 84.36.Le pietre…, p. 157.37.  Nell’ora voraginosa, ora di «luce nera nelle vene», confluiscono memoria e malinconia,furore del sole e zenitale acedia, si congiungono demone meridiano e notturno meridio .Cfr. Carlo OSSOLA, «“Nell’abisso di sé”: Ungaretti e Racine», in B. M. DARIFe C. GRIG-GIO(a cura di), Dal Tommaseo ai contemporanei, Miscellanea di studi in onore di Marco Pecoraio, Firenze: Olschki Ed., 1991, p. 343-358.

Così scrive Consolo in Nottetempo: in un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci. È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia… Venne poi il crepuscolo, la sera. Una sera azzurra e bruna, vermiglia e gialla. Con un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci.È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia… (la luna suscita muffe, fiori di salnitro…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita. […] Oltre sono le Rovine.
38 Ritroviamo qui i termini ossimorici ungarettiani (la «luce nera nelle vene»di Ti svelerà) e in altri brani ancora immagini e allusioni al demone meridiano,notturno meridio. L’eccesso di luce, l’incandescenza meridiana, confondono confini, accecano, confluiscono nel buio, nell’ inabissamento di sé, negli abissi di memoria, buio fluire del tempo. La trasfigurazione indotta dalla luce a per pendicolo è colta in più occasioni da Consolo; così nel Sorriso:Luce che brucia, morde, divora lati spigoli contorni, stempera toni macchie, scolora. Impasta cespi, sbianca le ramaglie, oltre la piana mobile di scaglie orizzonti vanifica, rimescola le masse. 39 o in alcune pagine di Nottetempo:Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati […].Ora, in questa luce nuova — privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinio di superficie, sfondo infinito, abissitade — , in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo.
40 L’abbandono e il silenzio grevi dell’ora demente accompagnano e propiziano la calata nel vorticoso fluire del tempo, in un’immagine di memoria anche borgesiana: «d’un tempo che contiene tutti i tempi, un attimo ogni altro attimo. In quest’istante rapido, in quest’immensa stasi, l’uomo rivive tutta la sua vita».41Ed ecco, calati nell’abisso, nel luogo di tutti i luoghi, ormai prossimi alla scaturigine, l’interrogativa sulla possibilità del racconto, memoria,scansione, parola, che è passaggio. Ritorna l’immagine dell’accumulazione, del sovrapporsi di strati sopra strati, di lavorio continuo, di movimento d’approssimazione incessante, ai confi-ni del silenzio, come a strappare terre ai deserti. La risposta all’ istanza finale è di desolazione siderale; nei «graffi indecifrati» si può sentire forse l’eco del «rilu-cere inveduto » ungarettiano (da Ultimi cori per la terra promessa: «Rilucere inveduto d’abbagliati / Spazi ove immemorabile / Vita passano gli astri / Dal peso pazzi della solitudine»). La vita è consumata ai margini del silenzio, è tra  versata nel silenzio,
-38. Nottetempo…, p. 65.39.Il sorriso…, p. 17.40.Nottetempo, p. 6441.Ibid., p. 91.

 silenzio come cerchio con il centro in ogni luogo e la circonferenza in nessuno: E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti o svanenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel silenzio. 42I due protagonisti di Retablo si calano nelle acque lenitive dei Bagni Segestani, quasi alla ricerca di un Lete in cui adagiarsi e trovare ristoro. L’effetto del bagno induce alla perdita di sé nel «vacuo smemorante, nel vago vorticare».43 Il ricordo di Fabrizio Clerici va al primo incontro con Doña Teresita, un’apparizione nella luce e nello splendore; così Clerici riflette:pur sulla soglia di questa forte terra, nel primo cerchio di questo vortice di luce, sull’ingresso di questo laberinto degli olezzi, nell’ incamminamento di questa galleria de’ singolari tratti e d’occhi ardenti, mi pare di viaggiare alla ricerca degli stampi o matrici del vostro maraviglioso sembiante. 44 Se, da un lato, la visione dell’amata nella luce, il riscoprirne espressioni e gesti in altre figure femminili risponde a un topos letterario di tradizione antica, l’insistenza con cui paiono ricorrere i riferimenti alla lux veritatis, visione ineffabile del Vero, così come la non rara citazione di Platone anche attraverso latopica settecentesca della bellezza ideale («eccelso modello di beltà») 45 auto-rizzano un approfondimento dell’analisi delle valenze simboliche della luce anche in questa direzione. Torniamo così al primo testo citato, 29 Aprile 1994: cronaca di una giornata, dove esplicito era il riferimento alla caverna platonica, in quel caso usato con vis polemica diretta contro il «regime telecratico» e le ingannevoli e false ombre televisive degne solo di una «degradata, miserabile caverna platonica».46 Nell’ opera consoliana è possibile rintracciare con apprezzabile frequenza il riferimento ad una verità cui tornare suggerita da pallide tracce terrene, cui avvicinarsi procedendo per gradi, per accumulazioni, sempre vigili a non essere tratti in inganno da ombre fuggevoli, per arrivare preparati alla verità, in grado di sostenerne la tremenda forza autenticante. Così sin dalle prime prove:Se mi si dice non si guarda alla finestra, allora mi volto alla parete bianca ed è più bello il gioco delle ombre rovesciate, e qualcuna l’indovino: il gobbo lo spazzino la posta il pane, l’ombra di tutti i giorni all’ ore eguali.
4742.Ibid., p. 67.43.Retablo, p. 61.44.Ibid., p. 63.45.Ibid., p. 64.46.29 aprile 1944…, p. 7.47.La ferita…, p. 81.

La luce di verità è difficilmente sopportabile per occhi avvezzi all’ ombra,ombra consolatoria di una luce che ferisce, come quella dei quadri caravaggeschi, in cui una lama di luce, proveniente dall’ esterno, («La luce su Lucia giunge da fuori il quadro») 48 ferisce il volto della figura. Caravaggio, «col suo corpaccio, la grossa testa bergamasca, i capelli peciosi e spessi, la fosca pelle,gli occhi ingrottati» pare posseduto da «dolore innominato» e da una «melanconia senza riparo che lo spingeva a denudare il mondo, togliere agli uomini,alle cose, ogni velame, ombra, illusione, esporli alla cruda lama della luce, alla spietata verità di questo giorno, di questa vita, squarcio, ferita immedicata, nel corpo della notte, del sonno, della stasi, amava scontrosamente la bellezza,pativa per la sua labilità, la sua assenza».49 Instabile sull’ abisso e sul vuoto, si tende in funambolico equilibrio come«passo nel silenzio»,50 come «ferita di luce nel buio»51(G. Ungaretti, Immagini del Leopardi e nostre), la parola dolente.5. In conclusione, pare di poter affermare che la luce, le modulazioni o le assenze di luce, assumono nella scrittura consoliana valenze che chiaramente tra-scendono la mera descrittività, la nota paesaggistica o bozzettistica. Ho qui cercato di offrire alcune possibili chiavi interpretative. All’ opposizione luce-ombra intesa come confronto tra Milano -città dei Lumi, meta per una Sicilia-cupa periferia di degrado, si accosta e sovrappone l’opposizione luce del passato e buio del presente. Questa seconda opposizione fa sì che i due poli, Milano e la Sicilia, che nella diatopia si oppongono e tra i quali si intraprende un movimento di perpetuo viaggio, di fughe e di ritorni eterni, confluiscano, in una prospettiva diacronica, a formare un unico punto, coincidano,condividendo il tramonto infinito del presente. La patria con cui riconciliar-si pare dunque sfuggire, risucchiata nel tempo, proiettata nel passato, luogo della memoria. Tale opposizione, [buio-presente : luce-passato], non è resa solo attraverso il ricorso ad un «lessico della luce» per il passato e ad un «lessico dell’ ombra» per il presente, ma anche mediante l’attribuzione alla luce di segni diversi:positivo in riferimento alla luce del passato e negativo in relazione alla luce del presente. In un paesaggio, umano e morale, armonico, come quello passato,la luce è forza vivificante, principio di movimento e di vita, di attività; nella miseria e nel degrado presenti la luce dissecca, prosciuga, svela silenzi, assenze. Eppure la luce, pare leggere tra le righe o sous les mots, è sempre la stessa luce, da sempre scandisce il ritmo della giornata, dei lavori quotidiani, ma la ciclicità del tempo,
-48.L’olivo…, p. 94.49.Ibid., p. 88.50.Nottetempo…, p. 67.51.  Giuseppe UNGARETTI, Immagini del Leopardi e nostre, saggio letto il 29 gennaio 1943 nell’ Università di Roma, in M. Diacono e L. Rebay (a cura di), Saggi e interventi, Milano:Mondadori, 1974, p. 447.

  i ritorni, non sono tra loro identici, si scrivono nella storia e la storia è sovrapposizione di strati, accumularsi di nuovi castelli su antiche rovine. Anche in questo caso dunque è la composizione di piano orizzontale e verticale, la discesa dal piano sincronico e orizzontale a quello della storia e della memoria, verticale, ad offrire nuove chiavi di lettura. Il tempo della memoria e della malinconia è il tempo della luce nera in cui si congiungono demone meridiano e notturno meridio, di ungarettiana memo-ria. È il tempo di luce calcinante, ferale, e di buio vorticare nel flusso degli evi. Luce nera è dunque quella che accompagna la memoria e la malinconia, la ricerca e la catabasi, ed è luce bianca, luce dalla tremenda forza autenticante, la lux veritatis, ferita di luce che occhi avvezzi all’ ombra non sanno sostenere. Ed è dunque infine anche monito alla vigilanza, alla diffidenza verso opachi lucori, finte luci, vacue illusioni e pericolose menzogne.

Conferenza all’Accademia di Belle Arti di Perugia1

Vincenzo Consolo

Metto le mani avanti dicendo che non sono addetto ai lavori, non sono un esperto d’arte, come ha detto il professor Caruso, sono uno scrittore. Uno scrittore che però nella stesura di quasi tutti i suoi libri (Caruso ha citato Lunaria, ma forse fin dal primo libro) ricorre sempre a una citazione pittorica. Anche Calvino, che sembra meno implicato con la pittura, ha dichiarato che da sempre l’immagine di un dipinto lo ispirava nella scrittura dei suoi libri. Allora comincio teoricamente col dire che la letteratura è un discorso assolutamente lineare che ha una sua dinamica temporale nella quale bisogna saper leggere anche la sua verticalità, cioè la complessità. Bisogna dunque nella linearità del discorso letterario saper individuare le molteplicità dei significati oltre naturalmente dei significanti, cioè oltre al significato della parola bisogna anche ascoltarne il suono e comprendere che si propaga nel tempo.
Significante che si riporta ancora nella dimensione temporale: la scrittura si svolge nel tempo. Nell’arte figurativa, pittura o scultura, al contrario il discorso non è lineare, si svolge non nel tempo, ma nello spazio: sono due dimensioni diverse. Le due arti hanno essenze diverse. Ora cito un illuminista che non è il Lessing filosofo che conosciamo, ma un illuminista tedesco di nome Lessing che aveva analizzato la differenza tra letteratura e pittura. Egli afferma che la pittura usa figure e colori nello spazio, mentre la letteratura suoni articolati nel tempo, la pittura rappresenta oggetti che esistono uno accanto all’altro e sono colti con la loro proprietà visibile. È chiaro che qui si parla di pittura figurativa, non della pittura astratta, e quindi di figure di corpi, mentre la letteratura rappresenta oggetti1 che si susseguono uno dopo l’altro, la letteratura rappresenta un’azione nella quale gli oggetti o i corpi sono uno accanto all’altro e nella rappresentazione si segue una sintassi; questi oggetti o corpi sono legati, appunto come dice la parola, da una sintassi che regola la rappresentazione. Sia la pittura che la letteratura ubbidiscono alla legge della sintassi e dei legami. C’è però da osservare che spesso la sintassi pittorica e la sintassi letteraria si possono incrociare, si possono incontrare, e questo significa che vi può essere in pittura una componente temporale e dicendo questo non voglio riferirmi ai quadri medievali dove vi sono delle parole scritte. Mi riferisco soprattutto alle Annunciazioni dove l’angelo che annunzia ha le parole che escono dalla bocca e la Madonna risponde. Credo che le scritte dipinte si chiamassero filatteri. C’è una tradizione altissima di testi letterari dipinti da grandi pittori; basta pensare alle illustrazioni della Divina Commedia, ma anche per esempio al Boccaccio illustrato da Botticelli e in particolare ai due quadri famosi della novella di Nastagio degli Onesti. Vi sono delle pitture in cui vengono affiancati momenti successivi di un’azione e questo è evidente in quel genere di pittura soprattutto religiosa che si chiama Retablo. Il Retablo è un racconto pittorico che si svolge in più quadri, così come nelle narrazioni letterarie dei romanzi o racconti sono inserite narrazioni implicite, esplicite di esempi pittorici, pitture che possono fare da motivo ispiratore o da leitmotiv di una narrazione. Fatta questa premessa teorica facile e scontata voglio dire di me come scrittore, come la pittura mi ha influenzato, quali sono stati i temi pittorici che mi hanno segnato e mi hanno portato a scrivere. Devo iniziare dai primi passi che ho mosso in campo letterario e questo risale a parecchi anni fa, al primo libro La ferita dell’aprile, del 1963 pubblicato in una collana sperimentale, di ricerca letteraria. A quei tempi gli editori si permettevano di mantenere delle collane di ricerca che non avevano fine di profitto, così come le grandi aziende hanno il laboratorio di ricerca. Vittorini dirigeva la collana dei Gettoni presso Einaudi e cercava le nuove voci della letteratura italiana; per mezzo delle collane di ricerca si scoprirono grandi scrittori come Primo Levi, Giorgio Bassani, Leonardo Sciascia e tantissimi altri. Mondadori ha voluto con la chiusura della collana dei Gettoni di Einaudi continuare questa esperienza aprendo una collana che si chiamava il Tornasole, diretta dal poeta Vittorio Sereni e da un grande critico che si chiamava Niccolò Gallo. Quando ho scritto il mio primo libro sapevo già che il libro si sarebbe potuto collocare benissimo in quella collana. Credo che quando si opera in qualsiasi campo letterario, pittorico o musicale, chi comincia deve avere consapevolezza di quello che si è svolto prima che lui nascesse come artista, come autore, quindi conoscere la tradizione letteraria nel momento in cui comincia ad operare, essere consapevole degli autori contemporanei e soprattutto della grande letteratura italiana ed europea, ma anche degli autori che immediatamente lo hanno preceduto e sapere cosa stava succedendo negli anni ‘60 in campo letterario in Italia. Questi autori, Moravia, Morante, Bassani, Calvino, Sciascia e moltissimi altri, in massima parte avevano scelto di scrivere in un registro assolutamente comunicativo, razionalista o illuministico. Io mi sono sempre chiesto perché loro avevano scelto questo registro, questo stile illuministico o razionalistico e mi sono dato una risposta. Ho pensato che le persone che avevano vissuto l’esperienza del fascismo e della guerra, da Primo Levi a Nuto Revelli, a Rigoni Stern e a tantissimi altri che hanno scritto sulla guerra partigiana e sulla campagna di Russia e che hanno restituito la loro esperienza in forma referenziale e comunicativa, avevano scelto quel registro proprio perché speravano che con la fine del fascismo, con la fine della guerra si sarebbe potuta formare in Italia una società civile con la quale comunicare, per cui questi scrittori avevano adottato un registro di speranza, lo stesso registro di speranza che aveva teorizzato e che aveva voluto il padre sacramentale della narrativa italiana, Alessandro Manzoni. Manzoni scrivendo la seconda stesura dei Promessi Sposi, aveva adottato appunto il linguaggio toscano – ricordiamo la famosa frase “sciacquare i panni in Arno” – dopo aver scritto Fermo e Lucia con ancora dei dialettismi, dei localismi lombardi, perché sperava che con l’unità d’Italia gli italiani avrebbero potuto avere anche un’unità linguistica. È stata un’utopia molto generosa, però nonostante l’opera di Manzoni evidentemente questa unità linguistica non si è raggiunta. Per tornare a me, nato dopo le generazioni di scrittori che avevano nutrito questa speranza, nascendo come scrittore nel ’63 ho trovato i giochi politici già fatti. In Italia era avvenuto un profondo mutamento, una mutazione possiamo dire antropologica che nessun paese europeo aveva avuto. Era finito il millenario mondo contadino, c’erano stati spostamenti di massa, di braccianti meridionali verso il mondo industriale, c’era stato il processo di industrializzazione del Nord, un processo rapido che ha portato dei cambiamenti straordinari. Naturalmente il cosiddetto miracolo economico ha liberato il meridione dalla fatica contadina, ma nel contempo ha costretto i contadini a trasformarsi in operai, minatori, carpentieri. Miracolo economico è stato chiamato, (in un paese dove c’è il Papato tutto diventa miracolistico). C’è stata la fine del nostro mondo contadino e della cultura contadina alla quale è succeduta la cultura industriale. Intellettuali come Vittorini e Calvino da una rivista che si chiamava «Il Menabò» invitavano i giovani autori a lasciare i vecchi mestieri, i mestieri liberali dell’insegnamento o dell’avvocatura e di inurbarsi per cercare di spiegare da vicino, nei centri come Milano, o Torino, soprattutto Torino, dove c’era la Fiat, il mondo industriale. Studiare il fenomeno dell’Olivetti dove molti scrittori e poeti sono entrati, come Franco Fortini, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri e studiare proprio dentro l’industria, quella che Vittorini chiamò l’industria a misura d’uomo, le strutture per una condizione sociale dignitosa per gli stessi operai. Dicevo che questo nostro paese è cambiato profondamente anche nella lingua, nel senso che la vecchia lingua italiana, quella unica ipotizzata da Manzoni che era stata ripercorsa dagli scrittori della generazione che mi aveva preceduto, quella si era assolutamente trasformata. Pasolini nel 1964 aveva scritto un saggio intitolato Nuove questioni linguistiche dove aveva analizzato il cambiamento profondo della nostra lingua italiana perché col “miracolo economico” era avvenuto quel fenomeno nuovo della esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto della televisione. I due affluenti che avevano arricchito la nostra lingua, cioè la lingua popolare dal basso e la lingua colta dall’alto, si erano quasi prosciugati, si era formata una lingua media di comunicazione dove si perdevano le radici memoriali della lingua stessa. Sul problema della lingua italiana, oltre Pasolini, andando indietro nel tempo ci sono stati molti scrittori che ne hanno scritto. Ma ci sono stati anche scrittori che non avevano sentito il bisogno di riflettere su questo strumento che erano obbligati a usare. Non credo che ci siano stati nella storia della pittura pittori che abbiano sentito il bisogno di analizzare i colori che dovevano usare, io credo che solo in letteratura questo sia avvenuto, cioè che gli scrit- tori abbiano sentito il bisogno di riflettere sulla lingua che di volta in volta devono usare. La riflessione sulla lingua parte da Dante che sente il bisogno di scrivere un saggio, il De vulgari eloquentia, che è il primo saggio di linguistica italiana e di poetica personale, dove Dante parla di una lingua di primo grado, che è la lingua che noi parliamo da bambini quando noi sentiamo i primi suoni e della lingua grammaticale, cioè della lingua colta. Dopo Dante ci sono stati tantissimi altri scrittori che si sono occupati del problema della lingua, ma quello che l’ha analizzata profondamente è stato Leopardi. Nello Zibaldone scrive un saggio di linguistica in cui studia il rapporto tra società e letteratura, e fa un continuo confronto tra la lingua italiana e la lingua francese. Leopardi sostiene che la lingua francese è una lingua geometrizzata, cioè racchiusa in una serie di regole già dal tempo di Luigi XIV, e quindi lamentava la perdita di infinito che questa lingua aveva prima dell’avvento di Luigi XIV. Con questo sovrano in Francia si era formata una società, ancora prima della rivoluzione, e quindi si aveva bisogno di uno strumento linguistico che fosse estremamente comunicativo. Leopardi invece esalta la ricchezza e la profondità della lingua italiana e naturalmente dice che l’unico momento di unità linguistica nel nostro paese, parliamo di lingua letteraria, non di lingua strumentale, è stato quello del Rinascimento toscano. Il momento in cui tutti gli scrittori da tutte le periferie italiane, sia dai conventi sia dalle accademie si attenevano e usavano la lingua ideale, cioè il toscano. Con la Controriforma l’unità linguistica si disgrega e si comincia di nuovo a ritornare a quelle che erano le espressioni localistiche dialettali: quindi c’è una grande fioritura soprattutto in poesia, poesia dialettale con i grandi nomi di Belli, di Porta o di un narratore napoletano il Basile, autore de Lo cunto de li’ cunti. Si possono fare tantissimi altri nomi. Comunque in Italia non c’era mai stata fino ai nostri anni ’60 una lingua unica che poteva chiamarsi lingua nazionale e Pasolini alla fine del suo saggio Nuove questioni linguistiche porta come esempio di questa nuova lingua italiana, di questa lingua ormai tecnologizzata, assolutamente rigida e orizzontale, un brano del discorso di Aldo Moro nel momento significativo della inaugurazione dell’autostrada del sole. E riporta questo brano in un italiano che sino a quel momento non era stato scritto, infarcito di tecnologismi, quasi impenetrabile, in un registro linguistico pseudo afasico, che non raggiunge il suo referente, cioè l’oggetto della parola. E Pasolini conclude con ironia e amarezza «Che finalmente è nata la lingua italiana come lingua nazionale». Era una lingua nazionale assolutamente impoverita ed è quella che ascoltiamo alla televisione, che non è solo una lingua di comunicazione quotidiana, non è una lingua che sentiamo soltanto nei media, ma è una lingua che viene anche praticata nella scrittura letteraria. Dopo questa lunga riflessione voglio tornare a dire di me. Quando appunto ho cominciato a scrivere ho pensato che non avrei mai potuto scegliere quella lingua comunicativa, lingua assolutamente impraticabile in letteratura e quindi la scelta consapevole e in qualche modo anche istintiva è stata di scegliere un registro altro, diverso, che non fosse la lingua coniata dal potere. Ho scelto un contro codice linguistico che fosse appunto di difesa della memoria linguistica del nostro paese. E quindi il registro che si chiama sperimentale, espressivo; questa scelta mi metteva fatalmente in una linea che era sempre esistita (accanto alla linea razionalistica illuministica), che partiva da Verga, perché il primo che aveva rovesciato l’assunto della lingua ideale del Manzoni era stato Verga che aveva scritto in una lingua fino a quel momento mai scritta. L’italiano che Pasolini definisce irradiato di dialettalità era l’italiano con cui Verga faceva parlare i pescatori di Aci Trezza e i contadini di Vizzini, che non era l’italiano centrale toscano, ma che esprimeva il modo di essere, di sentire, di pensare delle classi non borghesi, delle classi popolari, delle classi umili, quindi il periodare, l’esprimersi per proverbi dei personaggi dei Malavoglia. Ma da Verga in poi naturalmente c’era tutto un filone di scrittori espressivi sperimentali che passava attraverso il grande Gadda, che appunto aveva orchestrato nel modo più vasto e polifonico tutti i dialetti italiani per dare proprio un’ immagine di quella che era l’Italia prima del miracolo economico, prima del processo di industrializzazione, specialmente nel libro Il pasticciaccio brutto di Via Merulana. Nel filone gaddiano si erano mossi poi tanti altri scrittori sperimentali da Lucio Mastronardi a D’Arrigo a Meneghello fino a Pasolini. Pasolini era uno scrittore sperimentale che era partito da un’esperienza dialettale, quella della poesia friulana scritta, in questa lingua-dialetto, e poi arrivando a Roma scrive i romanzi, ma non la poesia, nel romanesco del sottoproletariato romano. Anch’io mi colloco subito in questo filone. Scrivo in un mistilinguismo o quello che Cesare Segre ha definito plurivocità, per una difesa della memoria, perché la letteratura è memoria, memoria linguistica nel cercare di non far seppellire e cancellare tutti i giacimenti linguistici della terra dove mi ero trovato a nascere e a vivere e a capire i suoni, perché la Sicilia che citava il professor Caruso, che ci accomuna, è una terra dove sono passate tutte le civiltà, dagli antichi fenici, ai greci, ai romani, agli arabi. È inutile fare della retorica sulla Sicilia in un luogo come Perugia, in questa Umbria e Toscana, luoghi di grande civiltà. Gli antichi hanno lasciato i monumenti, templi greci, chiese arabo-normanne, ma anche giacimenti linguistici molto preziosi. Io ho fatto un lavoro da archeologo, ho cercato di disseppellire parole che provenivano da queste lingue ormai dimenticate, che erano di volta in volta il greco, l’arabo, il latino, lo spagnolo, il francese, immettendo, innestando nel codice linguistico italiano vocaboli che avessero un loro significato, molto più vasto che il termine italiano poteva darmi, ma anche che avesse una sua valenza di significante, cioè di sonorità, che si potesse incastrare nella frase,
nel discorso per creare un’armonia sonora, che si svolge nel tempo, come dicevo poco fa. La mia scrittura, per la mia ricerca, è contras segnata da questa organizzazione della frase in prosa che ha un suo metro, un suo ritmo che l’accosta un po’ al ritmo della poesia. Ho diffidenza verso la comunicazione, verso la comunicazione che ha in sé la narrazione. La scrittura in prosa è una scrittura ibrida perché la letteratura è nata in forma poetica: i grandi narratori dell’antica Grecia erano poeti orali. I poemi omerici prima erano poemi orali e poi con i grammatici alessandrini sono stati portati sulla carta. Anche la Bibbia era un racconto orale. L’oralità comportava l’organizzazione della frase sia per un fatto mnemonico e sia per un fatto di seduzione degli ascoltatori e le frasi avevano una loro componente ritmica e poetica. In questa epoca, in questa nostra civiltà di massa penso che l’elemento comunicativo che in sé fatalmente ha la scrittura in prosa debba essere sempre più ridotto, che il registro della scrittura debba spostarsi verso la parte ritmica, verso la parte espressiva. Uno scrittore sud americano dice che la scrittura in prosa ha una parte logica e una parte magica, la parte magica è la parte espressivo poetica; parliamo di forma, non di sostanza poetica. Mi sono perso in molti rivoli. Voglio tornare alle citazioni, e alle ispirazioni della pittura nei miei libri. Parlo del mio secondo libro Il sorriso dell’ignoto marinaio dove l’elemento ispiratore è il ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Racconto un aneddoto per quanto riguarda questo titolo. Avevo scritto i primi capitoli di questo mio romanzo a metà degli anni ‘70, nel ’73-’74. Per l’ispirazione pittorica che aveva il libro avevo man dato i primi due capitoli alla signora Banti la direttrice della rivista «Paragone», e il cui marito era Roberto Longhi, che dirigeva anche lui la rivista, in parte di critica letteraria e in parte di critica d’arte. Mi sembrava quindi la sede più giusta per avere un riscontro su questi due primi capitoli. Non ho avuto risposta dalla rivista. Un giorno Roberto Longhi è venuto a Milano per presentare la ristampa del suo libro Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Sono andato alla presentazione e alla fine gli ho detto con molta timidezza: «Professore le ho mandato due capitoli del mio romanzo. Mi chiamo Consolo. Non ho avuto risposta». Longhi mi ha guardato severamente e mi ha risposto: «Sì, mi ricordo perfettamente, mi ricordo dei bei racconti, mi ricordo il suo nome. Non voglio assolutamente entrare nel merito letterario dei racconti, però questa storia dell’ignoto marinaio deve finire». Sapevo quello che lui aveva scritto nei suoi saggi su Antonello da Messina. Longhi diceva che popolarmente era detto L’ignoto marinaio il ritratto che si conserva al museo Mandralisca di Cefalù, ma Longhi sosteneva che Antonello non era un pittore che faceva quadri di genere, era un pittore molto affermato e che si faceva pagare profumatamente, e quello era un ritratto di un signore, di un proprietario terriero, di un barone, ecc. Io sapevo bene quello che il critico d’arte aveva scritto, ma a me serviva la dizione popolare, la vulgata dell’ignoto marinaio, perché volevo svolgere il tema proprio in questo senso. Naturalmente avevo molta dimestichezza con questo quadro: mi aveva molto incuriosito perché il ritratto dell’uomo aveva un’espressione a me familiare che riscontravo in molti visi di persone che mi stavano intorno, insieme familiare e sfuggente. Ma quando pensai di rimettere insieme vari elementi per scrivere questo romanzo, da una parte il ritratto che avrebbe fatto da filo conduttore, poi la scoperta dei cavatori di pomice delle isole Eolie che si ammalavano di silicosi, e le rivolte popolari del 1860, il personaggio storico di Mandralisca, il protagonista Giovanni Interdonato, erano tutti elementi che mi hanno portato a unire i fatti storici secondo la lezione manzoniana: attingere alla storia e inventare altri personaggi che avessero i colori del tempo. Devo aggiungere che in questo libro ho mancato un’occasione, che sarebbe stata straordinaria, dell’incontro, che ho scoperto dopo la pubblicazione del libro, del barone Mandralisca con il Cavalcaselle. Il Cavalcaselle era anche lui un rivoluzionario risorgimentale che per ragioni politiche era stato costretto a rifugiarsi in Inghilterra. Lo straordinario critico d’arte clandestinamente proprio negli anni delle rivolte era andato a Cefalù alla ricerca delle opere di Antonello da Messina. A Cefalù si era incontrato con il barone Mandralisca e aveva steso uno schizzo di questo ritratto dipinto da Antonello. Volevo leggere il brano in cui racconto del quadro portato dall’isola di Lipari nella casa di Cefalù del barone Mandralisca e di quando viene presentato agli amici. Il barone oltre ad essere uno scienziato e uno studioso di malacologia, cioè studiava lumache, era anche un collezionista di opere d’arte, ma la gemma del suo privato museo era il ritratto di Antonello da Messina.

Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal basso e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso interrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.
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Ecco qui la descrizione dove lo scrittore diventò un po’ critico d’arte, ma naturalmente questo mi serviva per fare della metafora. Il libro che è ispirato a un genere pittorico che si chiama retablo è appunto Retablo, dove la struttura del libro è come fosse un polittico. C’è un primo pannello, un pannello centrale e poi un altro pannello. In tutti e tre i pannelli si racconta la storia. Retablo è un termine catalano che viene dal latino retro tabulo. Nel retablo non c’è più la fissità, ma un’azione che si svolge pittoricamente.2 Il Sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 143-144. Questo libro nasce da un’occasione: era venuto in Sicilia il pittore Fabrizio Clerici, testimone in un matrimonio a Palermo dove anch’ io ero testimone. Dopo questo matrimonio avevamo fatto un viaggio nella Sicilia classica, il famoso tour che facevano i viaggiatori stranieri da Goethe a Brydone a un’infinità di altri viaggiatori che partendo da Napoli, arrivando a Palermo facevano poi il giro della Sicilia da Segesta a Mozia a Selinunte ad Agrigento a Siracusa e spesso facevano l’ascensione sull’Etna e poi s’imbarcavano a Messina per fare il viaggio di ritorno. Durante questa escursione nei luoghi classici della Sicilia occidentale vedevo Fabrizio Clerici che prendeva degli appunti, faceva dei disegni. Clerici era un pittore surreale, metafisico, era già diventato un personaggio di un romanzo di Alberto Savinio nel libro Ascolto il tuo cuore, città. Di lui Savinio diceva che era un personaggio stendhaliano e che si chiamava appunto Fabrizio come Fabrizio del Dongo, poi addirittura che potevano essere parenti perché lui si chiamava De Chirico e il pittore Clerici, quindi tutti e due avevano una matrice clericale. Da questo pittore straordinario, intelligente e raffinato mi è venuta l’idea di trasferire nel ’700 il mio Fabrizio Clerici e il trasferimento significava che volevo scrivere un libro che non avesse una matrice storica, ma che fosse una fantasia, fosse un viaggio in una Sicilia ideale. Un pittore del ‘700,
Fabrizio Clerici, lascia la Milano illuministica di Beccaria e dei Verri, innamorato e non corrisposto di una fanciulla, Teresa Blasco, che sposerà poi Cesare Beccaria l’autore Dei delitti e delle pene. Da questa unione nasce Giulia Beccaria, che sarà la madre di Alessandro Manzoni. Faccio muovere Fabrizio Clerici dalla Milano illuminista per andare in Sicilia, non solo perché il suo è un amore infelice e quindi compie un viaggio alla ricerca delle tracce della bellezza della donna di cui è innamorato, ma per fare un omaggio alla letteratura. Negli anni in cui scrivevo il libro, a Milano c’era un’accensione politica molto forte, non c’era spazio per la dimensione umana, per i sentimenti. Io rivendicavo il primato della letteratura attraverso questo libro, passando dall’illuminismo al romanticismo manzoniano attraverso Teresa Blasco e il pittore Fabrizio Clerici. Clerici arriva nei luoghi classici con i suoi metri, come faceva Goethe, arriva in Sicilia pensandola come una sorta di eterna arcadia dove vi erano soltanto monumenti greci, i templi di Segesta e di Selinunte, di Agrigento. I viaggiatori avevano l’idea romantica di trovare i satiri e le ninfe. Senonché viaggiando per le zone della Sicilia occidentale Fabrizio Clerici insieme al suo accompagnatore siciliano, frate Isidoro, che aveva gettato il saio alle ortiche proprio perché sconvolto da una passione d’amore per una fanciulla, Rosalia, si accorge che la Sicilia non era soltanto arcadia. L’arcadia non c’era più. La Sicilia era una terra di forti contraddizioni, di grande miseria, di afflizione, di sopraffazione, di violenza. Clerici incontra banditi, corsari saraceni, ma scopre una dimensione che lui non sospettava, incontra persone dai sentimenti profondi e di grande umanità. Attraverso l’immagine pittorica del retablo ho voluto scrivere una rivendicazione del primato della letteratura nei confronti della politica, ho voluto descrivere la complessità dell’uomo, i suoi sentimenti, le sue passioni. Nel libro c’è l’ironizzazione di certa pittura imbrogliona, prendendo spunto dall’opera teatrale di Cervantes che si chiama appunto El Retablo de las meravillas. In Spagna la parola retablo è un termine che indica sia un’opera pittorica, sia un’opera teatrale. Nel Don Chisciotte c’è il “retablo del maestro don Pedro”, che è un teatrino di marionette portato in giro per la Mancha da don Pedro e che don Chisciotte nella sua follia distrugge. Cervantes mette in ridicolo il
conflitto di allora tra cristiani vecchi e cristiani nuovi, tra spagnoli ed ebrei, e mori convertiti. Questo intermezzo, o atto unico teatrale, lo riprendo nel mio libro Retablo, dove il conflitto questa volta è tra persone ingenue, oneste e fedeli alla chiesa e disonesti, infedeli o traditori:

Irreali come il retablo delle meraviglie che lo scoltor d’effimeri Crisèmalo e il poeta vernacolo Chinigò facean vedere sopra un palco. Un trittico a rilievo basso di cartapesta o stucco coperto d’una polvere dorata (terribilmente baluginava al sole come l’occhio adirato del padre Giove o quello pietrificante di Gorgonia), privo di significato e di figure vere, ma con increspature, rialzi e avvallamenti, spuntoni e buchi, e tutto nell’apparenza d’una arcaica scrittura, di civiltà estinta per tremuoto, diluvio o eruzione di vulcano, e sotto le ruine, in fondo all’acque o nella lava ardente si perse la chiave di sua lettura.

Vide chi pote e vole e sape
dentro il retablo de le maraviglie
magia del grande artefice Crisèmalo,
vide le più maravigliose maraviglie:
vide lontani mondi sconosciuti,
cittate d’oro, giardini di delizie,
[…].
Vide solamente il bravo cristiano,
l’omo che fu tradito mai dalla sua sposa,
la donna onesta che mai tradì il suo sposo…3
3 Retablo, pp. 395-396.

Nella mia scrittura, nello spostamento della prosa comunicativa verso la prosa espressiva ci sono dei momenti di arresto della narrazione, ci sono delle digressioni che io chiamo cantica, come fosse una parte corale, quella dei cori greci. La mia idea oggi di letteratura, di scrittura in prosa, è di una
scrittura dove, come nella tragedia greca non appare sulla scena il messaggero o l’anghelos, cioè il personaggio che comunicava con il pubblico che sedeva nella cavea, che raccontava di un fatto avvenuto prima, in un altro luogo, e da quel momento, dopo questa comunicazione, con un linguaggio assolutamente comunicativo, poteva incominciare la rappresentazione della tragedia, potevano agire i personaggi e intervenire il coro. Credo che oggi in questa nostra civiltà di massa il Messaggero, cioè lo scrittore che comunica con il lettore non può più apparire sulla scena e quindi la scrittura si riduce alla parte corale, alla parte poetica in cui si commenta, si lamenta la tragedia… Diciamo è una rappresentazione priva di catarsi. Ora vi leggo un brano di un altro mio romanzo Nottetempo casa per casa dove con la memoria descrivo un luogo sotterraneo nel quale
sono stati scoperti affreschi romani. Questo brano mi è stato ispirato da una mostra che ha fatto Ruggero Savinio anni fa. Le figure di Ruggero Savinio mi apparivano come venute fuori da una profondità, da un ipogeo, come nelle scoperte di scavi archeologici, e quindi nel racconto del romanzo ci sono interruzioni per raccontare un viaggio dentro un mondo antico:

Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati
(dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura
d’ogni altro, dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete, al
confine bevemmo il nostro lete).
Ora in questa luce nuova – privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie, sfondo infinito, abissitade –, in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte dove s’abbevera il passero, la quaglia, l’antica età se polta,
immemorabile.
In questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichio
di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto ? È
possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. Viene e sovrasta un Nunzio lampante, una lama, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quale paradiso? O risale prepotente da quale abisso? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai portenti, si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro. Da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bru ni, da strati sopra strati, chiazze, da scialbature lievi, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve, lo Scriba affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte o come il libro poggiato sui ginocch
i. Venne poi il crepuscolo, la sera. Una sera azzurra e bruna, vermiglia e gialla. Con un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci. È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia…(la luna suscita muffe fiori di salnitro…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita. Oltre sono i foschi cieli e le chiome degli alberi impietrati, gli scuri ingressi degli antri delle vuote dimore, del volo di vespertili, verso della civetta.
Oltre sono le Rovine. Che non consumi tu Tempo vorace. 4 Che non consumi tu…Che non consu…”5

È la poesia delle rovine, delle vestigia del nostro passato che ci
commuovono ogni volta che le vediamo.

Prof. Caruso. Volevo ringraziare. È qualcosa di più di una conferenza, è anche una confessione stupenda e soprattutto hai dato una prova di come la pittura e la letteratura siano strettamente connesse, fraterne e vicine. Poi hai parlato delle rovine che ci commuovono tanto: ci commuovono perché sono il nostro passato, i nostri ricordi. 4
«Riprende una frase che “i paesaggisti del Cinque-Seicento scrivevano
dietro i paesaggi con rovine” (Villa, p. 177)». Così nel dattiloscritto. D.
O’Connell da parte sua commenta questa frase come segue: « A detta dello
scrittore questa frase è ripresa dagli incisori dell’Ottocento che la lasciavano scritta sopra le rovine riprodotte. Ma ci sembra di sentire qui anche un’eco del latino, in particolare da Ovidio (Metamorphoses XV, 234-236): Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, / Omnia destruitis vitiataque dentibus aevi / Paulatim lenta consumitis omnia morte! (Id., Consolo narratore e scrittore palincestuoso, cit., p. 173). 5 Nottetempo, casa per casa, pp. 686-687.

Hai anche detto che i pittori non analizzano i loro strumenti. Non è assolutamente vero. Purtroppo i vari strumenti linguistici dell’arte figurativa, dell’arte visiva vengono fin troppo analizzati. Questa è una puntualizzazione. Poi io direi a proposito del tuo ritmo di scrittura e anche di come tu parlavi delle origini della letteratura che la grande matrice di tutte le arti è la musica; anche le prime parole nascono da un ritmo musicale. Il ritmo musicale in qualche modo ci guida in qualsiasi attività artistica, perché se non c’è ritmo non c’è scansione e non c’è parola, né pagine, né spazio. Hai parlato in modo da provocare una quantità di associazioni. Ti ringrazio. Consolo. Mi scuso per l’errore che ho fatto, data la mia ignoranza pensavo che i pittori trovassero i colori a portata di mano, che andassero in un colorificio e in modo rapido comprassero i loro colori. Sono stati tanti i pittori che mi hanno ispirato. Però mi hanno ispirato anche molti libri o pagine di libri, ma c’è un pittore che più degli altri mi ha impressionato e che compare nel Sorriso dell’ignoto marinaio, è Goya. Goya dei Disastri della guerra, Nel mio libro c’è la descrizione di una strage che hanno fatto i rivoltosi popolani di un paesino dove appunto mi servo delle didascalie delle incisioni di Goya per scandire la tragedia. E insieme c’è anche la malinconia del Dürer. Ho parlato di un altro pittore, Caravaggio, ne L’olivo e l’olivastro, che non è un libro di invenzione narrativa, è un viaggio nella realtà siciliana, dove sono inseriti frammenti narrativi, tra cui la sosta di Caravaggio a Siracusa dopo la fuga da Malta, e la commissione che gli viene data dal senato di Siracusa tramite un erudito locale, Mirabella, del quadro del seppellimento di S. Lucia. Volevo leggere il brano dove descrivo il quadro:

Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente, avanti a donne in lacrime, uomini dolenti, stretti, schiacciati contro la parete alta della latomia, avanti alla corazza bruna del soldato, la mitria biancastra, aperta a becco di cornacchia, del vescovo assolvente, dietro le quinte dei corpi vigorosi e ottusi dei necrofori, cordari delle cave o facchini del porto, che scavano la fossa. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. Nel sentimento della morte che ormai l’ha invaso e lo possiede, Michelangelo è oltre la violenza, l’assassinio, è alla resa, alla remissione, al ritorno ineluttabile, al cammino verso la notte immota. 6

Il vescovo di Siracusa, dicono i documenti, non ha trovato questo quadro di suo gradimento e glielo ha fatto correggere; sempre secondo i documenti, la testa di Santa Lucia era staccata dal corpo, la santa era stata decapitata, e il vescovo gli ha fatto congiungere la testa con il corpo, lasciando una piccola ferita nel collo. Nel quadro oggi si vede soltanto questo piccolo squarcio. Dicevo che c’è il passaggio, da questa lama di luce che c’è nella pittura caravaggesca che squarcia le tenebre controriformistiche, alla forma necrofila di arte del ceroplasta siracusano Gaetano Zumbo, il quale componeva dei teatrini rappresentanti la morte e la corruzione del corpo umano. Il cereo corpo di Lucia si decompone insomma negli ipogei della
morte, negli avelli, nelle catacombe dei liquami; nella ferita del collo
bianco s’è insinuato il bacillo della peste che cova e germina nelle
volute, nei ghirigori del barocco».

6 L’olivo e l’olivastro, pp. 828-829.

Il testo di questa Conferenza, tenuta all’Accademia di Belle Arti di Perugia il 23 maggio 2003, mi era stato affidato alcuni anni orsono da Caterina Pilenga, vedova dello scrittore, come un prezioso inedito che io ho gelosamente custodito. In calce al testo dattiloscritto, sotto la firma di Vincenzo Consolo, si legge la data: Milano, 19.3.2004, verosimilmente apposta da chi ha dattilografato il manoscritto, forse la stessa Caterina


La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo

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La nebbia gravava sulla città cancellando le guglie del Duomo, le cime imbandierate delle impalcature della Galleria, la cella campanaria di S. Ambrogio, la cupola di S. Maria delle Grazie, la sestiga sopra l’Arco della Pace; s’addensava tra gli ippocastani ed i tigli del Parco, e dai Giardini, scivolava le acque dei Navigli. Era una giornata di novembre del 1872, una di quelle giornate milanesi d’autunno in cui chi approda in città per la prima volta, chi approda dal Sud rimane meravigliato – guardando in alto – che il sole velato e docile possa essere fissato ad occhio nudo al pari di una rossastra luna notturna.

In quella giornata di novembre arrivava a Milano un Siciliano di nome Giovanni Verga. Aveva abbandonato da parecchio gli studi di giurisprudenza e aveva deciso, aiutato dalla madre Caterina Di Mauro, di trasferirsi in Continente per dedicarsi alla letteratura.
Certo, non è che la sua esclusiva professione di letterato, di scrittore, per uno che usciva da una famiglia borghese o di piccola nobiltà appena benestante, non fosse avventurosa; ma crediamo che la famiglia Verga avesse approvato la decisione del figlio perché c’era stato il precedente di Domenico Castorina, loro cugino, poeta e romanziere, mandato in altitalia a spese del comune di Catania per completare e pubblicare un poema in versi. C’era forse anche la suggestione del locale mito artistico per eccellenza, del “cigno di Catania” Vincenzo Bellini, che in Continente aveva raggiunto fama e gloria; e poi Giovanni, precoce come Bellini, aveva dato già buona prova del suo talento e della sua passione letteraria: aveva scritto a 15 anni il suo primo romanzo “Amore e Patria”, a 20 “ I carbonari della montagna”, a 23 “Sulla laguna”.
Milano non era la prima tappa a nord di Verga; c’era stato già un soggiorno di sei anni a Firenze dove si era trasferito nel 1865; Firenze, nuova capitale politica del Regno e vecchia capitale letteraria e linguistica d’Italia. In questa Firenze splendida e suggestiva per un giovane provinciale ambizioso e determinato, Verga abbandona i temi storici e patriottici dei primi romanzi per avventurarsi in quelli amorosi, passionali e mondani. A Firenze, sono ora infatti ambientate “Eva”, “Tigre reale” ed “Eros”. Ma subito, come punto dalla nostalgia, abbandonati i salotti, i concerti, le passeggiate in carrozza alle cascine, ritorna in Sicilia, a Vizzini, alla sua viva memoria di adolescente, al ricordo di una fanciulla timida, triste, malaticcia, chiusa in un convento come una capinera in gabbia, con il romanzo che gli darà la notorietà e gli farà da biglietto da visita per il suo ingresso nel mondo e nella mondanità milanese. La “Storia di una capinera” e l’esotismo del suo autore, giovane meridionale sottile ed elegante, olivastro e pallido, capelluto e baffuto, dall’occhio color della lava, romantico e fatale insomma, fanno subito di Verga un personaggio di spicco nei salotti: nel salotto della contessa Maffei, della Castiglione, Cima, Ravizza, Gargano. “La prima volta che lo vidi fu a causa della Maffei, una domenica sera, e le due salette erano piene di signore, tra cui sei o sette giovani e belle, e queste lo circondavano in tal modo che io non potei appressarmi a lui”; questo scrive Roberto Sacchetti. Il successo dello scrittore Siciliano con le donne scatenerà la gelosia feroce –oltre che a un certo razzismo- di Carducci, il quale temeva che anche la sua amante Lidia fosse caduta vittima del fascino del “bel tenebroso”: un uomo che mette una brutta corona baronale sulla sua carta da visita, che si lascia dare falsamente del cavaliere, e che scrive un romanzo epistolare, e con tutto questo è anche Siciliano, non può che essere altro che un vigliacco, ridicolo, “parvènu”. Ma contrariamente a quanto possa far credere quest’ira schiumosa del vate d’ Italia, e anche senza sposare la tesi di una misoginia verghiana sostenuta da Carlo Matrignani nell’introduzione a Giovanni Verga dei “Drammi intimi” di Sellerio, ora Verga non è un personaggio brancatiano, non è un “Paolo il caldo” che dissipa il suo tempo e il suo talento passando ossessivamente da una aventura amorosa ad un’altra, è un metodico e intransigente lavoratore che concede ai riti mondani solo le poche ore di libertà. Dalla sua prima dimora in piazza della Scala, e di qui alle sue successive dimore in via Principe Umberto e Corso Venezia, muoveva per andare al “Cova”, al “Biffi”, alla “Scala” per passare la serata in uno dei salotti alla moda, per fare le sue passeggiate per le vie del centro. Di una eleganza un po’ troppo puntigliosa nel suo “tight”, nella sua marsina, forse eccessivamente inamidata nella forma, non frequentava certo l’osteria del “Polpetta” di via Vivaio, il ritrovo degli “Scapigliati”, anche se con alcuni di questi aveva stretto rapporti di amicizia. Ma, come sempre capita agli immigrati, sono i conterranei che più frequenta il Verga: quella piccola colonia di Siciliani formata da Onofrio, Farina, Auteri, Navarro della Miraglia, Scontrino, Avellone, a cui si aggiungerà poi Capuana, che il Verga con incessanti lettere aveva convinto a trasferirsi a Milano: “Tu hai bisogno di vivere alla grand’aria come me, e per noialtri infermi di nervi e di mente la grand’aria è la vita di una grande città, le continue emozioni, il movimento, la lotta con noi e con gli altri, se vuoi, pur così…; tutto quello che senti ribollire dentro di te irromperà improvviso, vigoroso, fecondo, appena sarai in mezzo ai combattenti di tutte le passioni e di tutti i partiti; costà tu ti atrofizzi” così scrive nel ’ 74 Verga al suo più caro amico e confratello. Scrive così il Verga che certo vuole strappare dalla provincia il Capuana, sottrarlo alle divagazioni e dissipazioni che gli impegni politici e privati imponevano allo scrittore di Mineo; ma crediamo che, dopo due anni di soggiorno milanese, sente come il bisogno – di fronte a quella realtà, nell’affrontare quella vita che vertiginosamente cambiava sotto i suoi occhi – di un compagno di strada, di un amico fidato, con cui discutere per potere capire. “Si Milano è proprio bella, amico mio, e qualche volta c’è proprio bisogno d’una tenace volontà per resistere alle sue seduzioni e restare al lavoro”, aveva scritto al Capuana. Ma era soltanto della Milano quando Verga vi giunse nel ‘ 72?
Nel ’ 72 Milano contava 250.000 abitanti; era una città in pieno fermento industriale ed edilizio. Gli opifici della seta e dei latticini, della pasta, della gomma e di altri prodotti ammodernavano i propri impianti. La ditta Pirelli & C, fondata dal ventiquattrenne ingenier Giovanni Battista Pirelli, inaugurava la sua fabbrica per la produzione di oggetti in gomma plastica e guttaperca. Dalla nuova Stazione Centrale partivano le linee per il Veneto, il Piemonte, la Toscana, la Liguria, l’Emilia, il Lazio e giù fino alle Marche. La città in fermento aveva anche bisogno di ristrutturarsi e di espandersi: si sistema poi la piazza del Duomo; erano già stati iniziati i lavori per la Galleria la cui esecuzione, affidata ad una società inglese, era diretta dall’architetto Mengoni che in bombetta e spolverino si faceva fotografare sulle impalcature. Da quelle impalcature il povero Mengoni poi, accidentalmente precipiterà trovando la morte. Il duca Melza d’Eril offre al comune una vasta area per nuovi palazzi fuori Porta Nuova. A Porta Ticinese sorge una nuova stazione sussidiaria, e sorgono anche case operaie in via Solforino e Montebello. Il 4 settembre 1872 veniva inaugurato in piazza della Scala il monumento a Leonardo da Vinci. Nello stesso anno era stato aperto al pubblico il Teatro “Dal Verme”, quel teatro “Dal Verme” dove si darà poi la “prima” della Cavalleria rusticana. Sempre nel ‘ 72 si organizzano a Roma e Torino congressi di sezioni e federazioni operaie aderenti all’Internazionale dei Lavoratori.
Cominciavano tra il ‘ 75 e il ‘ 76 le inchieste in Sicilia promosse dal Parlamento e condotte da studiosi come Fianchetti e Sonnino, da giovani colti e disinteressati, come dice Capuana nel saggio “La Sicilia e il brigantaggio”. Dalla Sicilia arrivavano dalle delegazioni dei prefetti le notizie più preoccupanti sulla mafia, sulle condizioni dei contadini e degli zolfatari; dell’inchiesta Fianchetti e Sonnino, quello che aveva colpito di più la opinione pubblica era stato il capitolo supplementare dal titolo “Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare Siciliane”; si alzava per la prima volta il velo su una terribile realtà pressoché sconosciuta, e l’Italia ne rimaneva inorridita. Anticipando quì in tanto un nostro assunto – di cui diremo più avanti – se “Nedda” del ‘ 75 può essere stata scritta dal Verga sulla spinta di un bisogno di un ritorno sentimentale in Sicilia, in una Sicilia contadina sepolta nella memoria, vista e conosciuta nella sua verità negli anni dell’adolescenza, possiamo ipotizzare che “Jeli il pastore” e “Rosso malpelo”e “Vita dei campi” dell’ 80 siano stati dettati dalla presa di coscienza di un’altra Sicilia, attraverso lo specchio delle sopradette inchieste? Presa coscienza dell’assoluta naturalità dell’intatto mondo ultraliminare, presociale del tredicenne guardiano di cavalli di Tepidi e di Jeli, della disumana, terrifica, quasi onirica, quasi metafisica condizione cunicolare, labirintica del capomonte Malpelo; l’una e l’altra tanto simili alle condizioni dei contadini e dei “carusi” delle zolfare di Franchetti e Sonnino.
Ma andiamo con ordine; ritorniamo a Milano, ritorniamo alla profonda trasformazione, al fermento di innovazione in campo industriale, sociale, urbanistico di cui la società è preda a partire dal 1872, innovazione e trasformazione che trova il suo culmine e la sua massima espressione nell’Esposizione Nazionale dell’ 81. Quell’anno Verga abita in Corso Venezia, all’angolo dei Bastioni di Porta Manforte, e l’Esposizione si svolge vicino a casa sua da via Senato ai Bastioni di Porta Venezia, occupando il boschetto e i Giardini. Molti letterati che credono nel progresso inneggiano all’Esposizione: Boito tiene una conferenza nel padiglione delle arti; alla Scala, durante i giorni dell’Esposizione si rappresenta il “Ballo Excelsior”, l’opera Romualdo Marengo su libretto di Luigi Manzotti. I temi dei vari quadri del balletto sono: l’Oscurantismo, la Luce, il Primo battello a vapore, i Prodigi dell’invenzione, il Genio dell’elettricismo, e via di queste immagini; il balletto si conclude con l’inno alla Scienza al Progresso, alla Fratellanza, all’Amore. Scrive Manzotti nella prefazione al libretto: ”Vidi il monumento innalzato a Torino in gloria del portentoso traforo del Cenisio, e immaginai la presente composizione coreografica, e la titanica lotta del progresso contro il regresso, che io presento a questo intelligente pubblico, e la grandezza della civiltà che vince, abbatte e distrugge per il bene dei popoli l’Antico potere dell’Oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia”: ce n’era abbastanza… E anche se il simbolismo retorico dell’ “Excelsior”, il suo ingenuo declamatorio ottimismo in un progresso al ritmo di mazurca non sono da paragonare alle “magnifiche sorti e progressive” del Mariani, o al “migliore dei mondi possibili” del Leibniz, avranno sicuramente suscitato nell’animo di Verga reazioni o sentimenti simili a quelli espressi nel leopardiano pessimismo cosmico della “Ginestra”, o nel volterriano scetticismo rappresentato con sprizzante ironia dal Candido. E non certo il solo, leggero Ballo Excelsior (ammesso che Verga l’abbia visto rappresentato alla Scala), ma tutto quanto avveniva sotto i suoi occhi, l’affacciarsi alla ribalta e prendere direzione e potere economico di una nuova intraprendente borghesia imprenditoriale, da una parte, dall’altra, un organizzarsi e prendere parola di una plebe che si fa popolo, si fa mondo del lavoro e che antagonisticamente reclama e difende i suoi diritti. Non a Firenze ma a Milano gli si rivela tutto questo, nella Milano industriosa e laboriosa, capitale della scienza e della tecnica, gli si rivelano due mondi in movimento, due realtà insieme complementari e in conflitto, che dai salotti nobiliari, dalle strade del lusso, dai luoghi conclamati dell’arte difficilmente si potevano scorgere; e neanche si intravedevano dalle crepuscolari patetiche portinerie, dai bastioni, dai viali, dalle gallerie, dai veglioni alla Scala, dalle osterie, da tutti i luoghi frequentati da dimesse e rassegnate sartine, commesse, doganieri, servette, soldati, ballerine, da tutte le persone che “non sbraitano, non stampano giornali, non si mettono in prima fila nelle dimostrazioni” (questo è un brano tratto da “Per le vie”, un racconto intitolato “Piazza della Scala” di Verga). A Milano si rivelano al Verga delle nuove storie, gli si rivela una nuova storia di cui non ha cognizione, memoria, linguaggio e di fronte alla quale si ritrae sbigottito, si ritrae da questo capitalismo inventivo e intraprendente per rifugiarsi nell’arcaico capitalismo terriero e feudale della sua Sicilia.
Nasce a questo punto nello scrittore il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia e riprendere contatto con la sua terra, alla quale egli ritornava con l’animo del figliol prodigo, come all’unico bene che ancora gli rimanesse intatto e solido dopo tanta dissipazione.
Ben vicino e tangibile, eppure indecifrabile e remoto come un miraggio, come l’ideale oggetto di una suprema e già disperata nostalgia” scrive Natalino Sapegno. Un mondo intatto e solido fuori dalla storia, e in contrasto, nel suo movimento circolarmente chiuso, con l’illusione del cammino progressivo della storia. Recupera quindi il suo mondo, Verga, memorialmente e soprattutto linguisticamente, con una lingua che appartiene al mondo narrato e anche al soggetto narrante, che poi significa – per la teoria dell’impersonalità di Verga – al mondo che si narra da sé. Una lingua che non è matericamente e naturalisticamente la sua lingua dialettale, ma un italiano irradiato di sentimento e di ideologia dialettale, una lingua periferica in conflitto con la lingua centrale: conflitto da cui nasce la poesia, come dici Luigi Russo. Non finiremo mai di ringraziare gli ingegneri e gli industriali milanesi che, con il loro attivismo ed il loro progressismo, ci hanno restituito uno scrittore della grandezza del Verga; gli stessi ingegneri e industriali, la stessa borghesia milanese, che in anni più recenti, ci darà uno scrittore come Carlo Emilio Gadda.
L’81, storica data dell’Esposizione Nazionale e della pubblicazione dei “Malavoglia”, non è l’anno della caduta di Verga da cavallo sulla via di Damasco, o sui viali del parco di Monza; la conversione naturalmente ha radici più profonde, comincia a serpeggiare da epoche remote, dal ’74 almeno, dall’anno di pubblicazione di “Nedda”, e ancora dal ’75, quando Verga pubblica sull’Illustrazione Universale di Emilio Treves, in quattro puntate, una strana novella, un racconto gotico, nero: “Storie del Castello di Trezza”; quel racconto è affatto giovanile, primitivo, è vecchio di già; “è un mio vecchio peccato di gioventù, quella novella” scriverà Verga al suo traduttore Edoardo Rod e aveva a quell’epoca 35 anni e una solida fama di scrittore; in quella brutta novella Verga si scopre a guardare giù da sopra gli spalti del Castello di Trezza, il mare ed il paese di Acitrezza; guarda attraverso Donna Violante, uno dei personaggi del racconto: “il mare era levigato e lucente, i pescatori sparsi per la riva o aggruppati davanti agli usci delle loro casupole chiacchieravano della pesca e del tonno e della salatura delle acciughe; lontano lontano, perduto fra la bruma distesa, si udiva a intervalli un canto monotono e orientale; e sorprese sé stesa, lei così in alto nella fama dorata di quella dimora signorile, ad ascoltare con singolare interesse i discorsi di quella gente posta così in basso, ai piedi delle sue torri; poi guardò il vano nero di quei poveri usci, il fiammeggiare del focolare, il fumo che svolgevasi lento lento dal tetto.” Siamo qui ad una vera propria epifania, ad un “introibo”, e qui forse bisognerebbe – dopo aver raffrontato questo Castello di Trezza con la torre di Sandycove sulla spiaggia all’apertura dell’Ulisse di Joyce, da cui parte l’Odissea linguistica di Stephen Dedalus: “introibo ad altare Dei” incomincia con sarcastica solennità il suo amico Mulligan-Cristostomo – soffermarsi sulla posizione così in alto da cui si guarda al mondo degli umili e scoprire che Verga, nonostante la scientificità e l’obiettività del suo punto di vista, nonostante l’impersonalità del risultato, non sfugge a quanto Natalino Sapegno dice dei veristi: “Il verista italiano rimane in sostanza il gentiluomo che si piega a contemplare con pietà sincera ma un tantino condiscendente la miseria materiale e morale in cui le plebi sembrano immerse senza speranza in un prossimo futuro”; sono insomma, i veristi italiani secondo Sapegno, tutti afflitti dal complesso del “signor Marchese con… asterischi” del XXVIII capitolo dei Promessi Sposi, l’erede di don Rodrigo che serve a tavola Renzo, Lucia, Agnese e la mercantessa, ma che non si abbassa a mangiare insieme a quella buona gente.
E’ un serpeggiare, quello della conversione, con “Nedda” e con “Storie del Castello di Trezza”, sotterraneo e subcoscenziale; ma dopo il suo sgorgare alla superficie con “Cavalleria Rusticana” e con “La Lupa”, ancora intrise nel loro impeto di pietre dialettali e di terriccio toscano, ecco che con “Fantasticheria” siamo alla piena coscienza, siamo come al manifesto della nuova poetica, alla dichiarazione d’intenti del suo futuro lavoro il quale raggiungerà da lì a poco le vette di “Jeli il pastore” e “Rosso Malpelo” e si dispiegherà nei due grandi poemi dei “Malavoglia” e di “Mastro don Gesualdo”
Con l’abbandono di Milano, col ritorno a Catania in quella sua casa di via S. Anna, tutto denunzia la volontà dello scrittore di rimanere chiuso nella prigione di una rigorosa solitudine. Risalendo dal limite estremo della spiaggia, dai faraglioni del mare di Acitrezza, su verso le chiuse e le masserie di Vizzini, fino alle soglie dei palazzi nobiliari di Palermo, ripercorrendo tutti i livelli linguistici a noi noti, da quelli dei pescatori e dei contadini a quelli dei proprietari terrieri Siciliani, Verga sarà incapace di andare oltre. Dalla frase musicale d’attacco del primo romanzo del ciclo dei vinti “Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza”, all’ultima tragica frase del Mastro don Gesualdo che si spezza in un crescendo come in un’opera di Wagner “tutto! Pigliatevi tutto! Lasciatemi stare! L’Alia, la Canziria! Lasciatemi stare!” Verga non sarà più capace di orchestrare, di modulare le frasi nei saloni del Palazzo palermitano del duca di Leira. Risentito e scontento, dissiperà così il suo tempo a Catania, tra la casa e il Circolo dell’Unione, la conduzione del giardino d’agrumi di Novaluccello, le beghe giudiziarie, la cura e l’amministrazione dei beni dei nipoti, la corrispondenza con Tina di Serdevolo e i periodici viaggi in Lombardia e in Svizzera; e si chiuderà man mano in sé stesso, in una solitudine e in un’accidia senza rimedio. Dice sempre di lavorare alacremente alla “Duchessa di Leira”, ma pubblica i due bozzetti teatrali “Caccia al Lupo” e “Caccia alla Volpe” e pubblica anche, forse sulla spinta delle rivolte socialiste del ’93 di contadini e zolfatari, in opposizione ad esse, “Dal tuo al mio”, un dramma teatrale che poi diventerà romanzo: il 2 settembre 1920 si rifiuterà di presenziare, al Teatro Massimo di Catania, ai festeggiamenti in suo onore per l’ottantesimo compleanno. Pirandello, in quella occasione, leggerà il suo celebre saggio sul grande scrittore catanese, e Verga l’indomani andrà a trovarlo in albergo per dirgli: “perdonami, Luigi; a te tutta la mia gratitudine; ma dall’Italia ufficiale non voglio onoranze”. Diceva questo a quel Pirandello che, con precise disposizioni testamentarie, si sottrarrà a sua volta, morendo, alle manifestazioni ufficiali che il regime fascista gli avrebbe con certezza tributato.
Verga muore nel gennaio del 1922 nella sua casa di Catania. Lì si concludeva la vita di questo grande scrittore emigrato al Nord e ritornato nella terra da cui era partito, la vita del primo autore della letteratura Siciliana moderna che sente il bisogno di lasciare la periferia d’Italia, d’Europa, di lasciare l’Isola e approdare a Milano, al centro “ideale”, a quella che Salman Rushidie chiama la “patria immaginaria”. Dopo e insieme a Verga è il confrère Luigi Capuana che approderà a Milano nel 1887 e vi rimarrà fino al 1880. Verga “scrive” Milano nelle dodici novelle di Per le vie, e scrive in un libro collettivo dal titolo Milano nella sua vita, nell’arte, nei suoi costumi e nell’industria (1896) un testo, I dintorni; e Capuana, nello stesso volume, appare il brano In Galleria.
È Verga che terrorizza la necessità della ” distanza “, della lontananza dalla Sicilia per scrivere della Sicilia. In una lettera del 1878 scrive a Capuana: “… da lontano, in questo genere di lavori, l’ottica qualche volta, quasi sempre, è più efficace d’artistica, se non più giusta, e da vicino i colori sono troppo sbiaditi… “. Questa affermazione di Verga si può costare a un’altra di Nikolaj Gogol’: ” io posso scrivere della Russia stando a Roma. Solo da lì essa si erge dinanzi in tutta la sua interezza, in tutta la sua vastità “.
Nel 1918 arriva a Milano, proveniente da Roma, Giuseppe Antonio Borgese, arriva in una città tutta imbandierata per le celebrazioni della vittoria della Grande Guerra. E sulla prima guerra mondiale e sul dopoguerra, Borgese, già famoso per i suoi saggi letterari, scriverà il romanzo Rubè , che si svolge tra Milano, il Lago Maggiore, Roma e la Sicilia, la terra del protagonista Filippo Rubè. Scrive già da anni, Borgese, sul Corriere della Sera, e a Milano insegna alla Accademia Scientifico-Letteraria; nel ’26, sarà creata per lui, all’università, la cattedra di estetica. Nel 1931, lo scrittore abbandonerà Milano ed emigrerà in America per ragioni politiche, per opposizione al fascismo. E in America pubblicherà, nel 1935, il libro Golia, marcia del fascismo. E in Golia ritornerà a scrivere di Milano, delle ragioni culturali politiche per cui possa esser nato in questa città, nel paese un fenomeno come Mussolini, possa esser nato il fascismo. Racconta, fra l’altro, di una serata del gennaio del 1919 alla Scala, il cui il vecchio socialista Leonida Bissolati teneva una conferenza. Da un palco di proscenio, Mussolini insieme a Marinetti cominciò a rumoreggiare, a disturbare la conferenza. Bissolati si fermò e guardò verso quel palco e riconobbe Mussolini.
” Volse la testa verso gli amici che gli erano vicini e disse a bassa voce:’ Quell’uomo no!’. Quell’uomo invece da lì a tre anni, partendo da Milano, avrebbe compiuto la famosa marcia su Roma. Quell’uomo sarebbe stato accettato e osannato per vent’anni in questo nostro sciagurato Paese.
Nel 1933 Elio Vittorini è a Firenze, sua tappa, come quella di Verga, prima di trasferirsi a Milano, dove si stabilirà definitivamente nel dicembre di quello stesso anno.
” Sai che è la più bella città del mondo? Anzitutto è città: quando si è dentro si pensa che il mondo è coperto di case… ” Scrive all’anglista Lucia Rodocanadi. Il siracusano Vittorini ha, nei confronti dell’industriosa e industriale Milano, un atteggiamento opposto a quello di Verga, rifiutandosi il ripiegamento nella passività e rassegnazione di Verga, la sua visione metastorica, il suo “fatalismo”, l’arcaico mondo contadino Siciliano. Milano è per Vittorini la città degli Illuministi, di Manzoni e di Cattaneo, la città attiva, degli operai che hanno coscienza di “classe” e un atteggiamento attivo nei confronti della storia, la città dell’industria a misura d’uomo, il cui modello è rappresentato da un imprenditore come Adriano Olivetti. “Scrive” Milano, Vittorini, con Conversazioni in Sicilia, in cui il protagonista ed io narrante Silvestro, nel momento più buio e tragico del Paese, dell’Europa, nel tempo del fascismo della guerra, in preda ad “astratti furori”, lasciasi il suo lavoro di tipografo e compie, come Ulisse, il viaggio di ritorno, il nostos, nella terra natia, nella terra della madre, delle madri. Ma non rimane lì impigliato, li prigioniero, come il Don Giovanni in Sicilia di Brancati; dopo lo sprofondamento del luogo della memoria, ritorna ai suoi doveri di “compositore di parole”, di scrittore, ai suoi doveri di uomo, di cittadino. Scrive la Milano della ‘ 43, Vittorini, la Milano della guerra e della lotta antifascista con Uomini e no. E anche di società, di contesti democratici con La Garibaldina, Erica e i suoi fratelli, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, Le donne di Messina, Le città del mondo… E c’è ancora un altro grande Vittoriani “milanese”, l’intellettuale e operatore culturale, il direttore di Riviste letterarie e politiche come Il Politecnico e Il Menabò, il direttore di collane letterarie come la Medusa, la Corona, e i Gettoni…
Un anno dopo Vittorini, nel ’34, provenendo dalla Sardegna, si stabilisce a Milano il geometra del Genio civile, il poeta, cognato di Vittorini, Salvatore Quasimodo. Il lirico, il siculo-greco Quasimodo, è costretto anche lui, per l’orrore della guerra, a lasciare la “terra impareggiabile”, l’isola della memoria, per scrivere di Milano, scrivere le liriche di Giorno dopo Giorno.

“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’uomo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillava arrivi al testamento”.

Così cantava con dolore e orrore il poeta civile Quasimodo. Cantava della Milano straziata dalla guerra, oltraggiata dal fascismo, della Milano”insudiciata”, come ha scritto Alberto Savinio, dalla distruzione e dalla morte.

“Invano cercai tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del naviglio…”
( Milano, agosto 1943)
Milano 14 dicembre 2003

Finita la carrellata sugli scrittori siciliani a Milano, mi si perdoni se parlo anche di me.
Sono arrivato a Milano con l’idea di una città diversa da tutto il contesto italiano, la Milano dove abitavano Vittorini e Quasimodo, attratto dalla presenza di questi due scrittori.
C’era già allora una corrente di scrittori che migrava dalla Sicilia per approdare a Roma, io non pensavo a Roma perché era la città del potere politico, io pensavo che la mia necessità di lasciare l’estremità, di lasciare l’isola era naturalmente per Milano.
Sono arrivato nel ‘51 per studiare all’università, in una Milano con ancora tutte le ferite del secondo dopoguerra. Sono andato a studiare all’Università Cattolica, non per convinzioni di natura religiosa, ma perché il collegio universitario mi dava allora la possibilità di avere una stanza ed i pasti a 20mila lire al mese. C’erano molti meridionali che approdavano allora a questa università, c’erano molti che sarebbero diventati la futura classe dirigenziale italiana, c’erano i fratelli De Mita, Gerardo Bianco futuro onorevole democristiano,…
Io stavo molto “in periferia”: sono stato un anno al collegio universitario, quando andai a salutare il direttore del pensionato, mi chiese se ero stato lì da loro, infatti io ero stato sempre defilato, mi interessavano altre cose, mi interessava la Milano culturale, la Milano di Vittorini. Invidiavo il mio compagno di università Raffaele Crovi che era amico del figlio di Vittorini e frequentava casa Vittorini, io lo odiavo per questo suo privilegio e non osavo presentarmi in casa di Vittorini perché non avevo delle carte con cui presentarmi. Conobbi Vittorini poi molti anni dopo, nel ’63, quando arrivai a Milano per la pubblicazione del mio primo romanzo presso Mondadori. Vittorini allora aveva un ufficio presso quella casa editrice e fui presentato.
Dopo un anno di collegio mi trasferii nella pensione della signora Colombo che parlava solo in dialetto milanese, allora c’era molta popolarità e dialettalità milanese.
Osservavo in quegli anni la piazza Sant’Ambrogio che poi ho chiamato “la piazza dei destini incrociati” approdavano nella piazza schiere infinite portate dai tram senza numero dalla stazione centrale. Erano immigrati che arrivavano dal meridione, che approdavano in questa piazza perché c’era allora il “centro orientamento immigrati”. Io osservavo gli immigrati e mi ricordo quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, che dopo avere passato le visite mediche venivano già equipaggiati con il casco la cerata e la lanterna, credo che questi 200 minatori furono poi vittime della tragedia di Marcinelle. Altri venivano mandati in Francia in Svizzera e via discorrendo.
In questo edificio di piazza Sant’Ambrogio vi era anche una caserma della Celere, e quindi si incrociavano i destini: da una parte gli studentelli privilegiati, dall’altra i migranti, e poi i celerini dell’onorevole Scelba, ed ad uno studentello come me poteva capitare di incontrare un mio compaesano.Incontrai Giacomino, un ragazzo del mio paese, con la divisa di poliziotto ed il manganello in mano pur essendo un ragazzo molto mite. Capitava di incontrare quelli che sarebbero stati mandati alla scuola sociale di Bologna per diventare onorevoli e classe dirigente democristiana italiana.
Mi ero convinto in quegli anni di voler fare lo scrittore, i miei due vangeli erano stati “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi e “Conversazione in Sicilia” di Vittorini, erano due poli di attrazione. Mi ero convinto che dovevo fare lo scrittore e che non potevo farlo se non in Sicilia: errore gravissimo, sono stato lì 11 anni e poi ho capito che non c’era nulla da fare… Ho frequentato in quegli anni due personaggi antitetici per me entrambi molto importanti, uno era un poeta “puro” Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Lampedusa, poeta straordinario, barocco di tipo mistico e spagnolo con riferimenti quali San Giovanni della Croce, dall’altra parte Leonardo Sciascia. Viaggiavo fino a Caltanissetta dove allora abitava Sciascia e a Capo d’Orlando dove abitava Lucio Piccolo, che mi diceva “venga pure a fare conversazione”, ma per me la conversazione era una vera lezione di letteratura, che andavo a prendere da lui che era di una cultura sconfinata.
Nel ‘68 ho fatto le valige in un giorno emblematico per ritornare a quella che ho chiamato “la patria immaginaria”, ritornando a Milano il 1 gennaio del ’68. Mentre nel novembre del 52 avevo trovato la città piena di nebbia, quel primo di gennaio la trovai piena di neve, allora nevicava a Milano, adesso non nevica più… Dovevo presentarmi al lavoro, avevo vinto un concorso e quella era la ragione per cui mi trasferivo, avevo bisogno di lavorare. Ho vissuto questa città e mi sono sentito sempre milanese perché ho creduto in questa città diversa dal contesto italiano, diversa dalla mia Sicilia, ma anche da Roma e da qualsiasi città italiana.
L’ho vista trasformarsi negli anni, con molta pena. Era la città delle utopie e delle fantasie, che, come sempre, si frantumano contro gli scogli della realtà, sappiamo tutto quello che è successo in questa città e nel paese. Viviamo in una città che nessuno di noi riesce ad accettare, diventata il simbolo della regressione e del degrado del nostro paese.
Ho scritto un libro che si chiama “Retablo”, che descrive il desiderio ed il bisogno di allontanarsi da questa città attraverso un personaggio che si chiama Fabrizio Clerici. E’ un personaggio contemporaneo, ma con un cognome che già appariva nel libro di Savinio “Ascolta il tuo cuore città” che io ho trasferito nel Settecento. Fabrizio è un pittore innamorato di una signorina che si chiamava Teresa Blasco, figlia di uno spagnolo e di una siciliana. Teresa e una donna molto bella, corteggiata dai giovanotti illuministi milanesi, dal Beccaria e da tanti altri in quel di Gorgonzola, dove la famiglia Blasco aveva la villa.
Quindi Fabrizio Clerici, non corrisposto nella sua passione amorosa decide di compiere un viaggio nella terra della donna che lui ama, cioè nella Sicilia. Viaggio romantico alla ricognizione di una Sicilia ideale del Settecento, dove come tutti i viaggiatori romantici si cerca di vedere l’Arcadia, la Grecia, ma la Grecia non c’è più in Sicilia, esiste l’infelicità sociale, che esisteva anche nel Settecento, i conflitti, il banditismo, l’ignoranza, le malattie… Fabrizio apre gli occhi come uomo coscenziale e vede la realtà che non conosceva e rimane coinvolto, anche linguisticamente in questo suo viaggio attraverso la Sicilia classica.
Poi ho esplicitato il disamore e la disillusione nei confronti di Milano in un libro più recente che si chiama “Lo Spasimo di Palermo”, che rappresenta non solo lo spasimo di Palermo, ma lo spasimo anche di Milano e dell’intero paese. Il romanzo comincia con un flash back che dal secondo dopoguerra ci porta fino al 1992; il protagonista è uno scrittore che si chiama Gioachino Martinez, il quale aveva scelto Milano per sfuggire all’orrore e alla violenza siciliana, era approdato a Milano quale sua città ideale ed anche qui, dopo anni di consolazione, trova violenza e trova orrore, terrorismo e degrado culturale. Decide di tornare a Palermo dove ancora troverà violenza e morte. Il paese è ormai omologato e non c’è più una Itaca, un luogo dove tornare, per nessuno di noi in questa società. Le città ideali si sono frantumate sotto i nostri occhi e l’Itaca che abbiamo lasciato durante la nostra assenza è stata distrutta ed è stata conquistata dai Proci, oggi viviamo in un mondo di Proci, in un mondo di orrore dove niente più è accettabile.
Voglio ricordare una pagina di addio a Milano, sullo schema dell’addio manzoniano, dello scrittore Gioacchino Martinez:

“Nessuna pena no, nessun rimpianto a lasciare dopo anni quell’approdo della fuga, quell’ asilo della speranza, antitesi al marasma, cerchia del rigore, probità, orgoglio popolare, civile convivenza, magnanimità e umore, tolleranza. Illusione infranta, amara realtà, scacco pubblico e privato, castello rovinato, sommerso dall’acque infette, dalla melma dell’olona, dei navigli, giambellino e lambro oppressi dal grigiore, dallo scontento, scala del corrotto melodramma, palazzo della vergogna, duomo del profitto, basilica del fanatismo e dell’intolleranza, banca dell’avventura e dell’assassinio, fiera della sartoria mortuaria, teatro della calligrafia, stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità.
Città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, tecnologico ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.”

“Addio ai campanili in cotto, alla romanica penombra, a Chiaravalle, a Morimondo. Addio alla casa di Manzoni, a San Fedele, all’alto marmo nel centro del Famedio. Alle vie verghiane, alla gaddiana chiesa di san Sempliciano. Allo Sposalizio della Vergine, emblema saviniano della città chiusa di Milano, del suo equilibrio, e della sua utile mediocrità. Addio a Brera di Beccaria e Dossi, addio a Porta a Tessa Quasimodo Sereni, al Montale del respiro vasto della bufera, dei meriggi assorti, degli orti, dei muri di salino costretto nella depressione della pianura, nel dorato cannello dell’imbuto cittadino. Alla casa dei fervori e dei furori di Vittorini, delle utopie infrante e dei lirici abbandoni. Al rifugio in Solferino dove Sciascia patì la malattia, sua del corpo e insieme quella mortale del Paese. Addio alla Vetra, al Mora e al Piazza, alla Banca del tritolo e della strage, all’anarchico innocente steso a terra come il Cristo del Mantegna, ai marciapiedi insanguinati, alle vite straziate di giudici civili militari studenti giornalisti…Amaro a chi scompare. Qui è la babele, il chiasso, la caverna dell’inganno, il loto dell’oblio, l’Eea dei filtri della mutazione, del grugnito inverecondo…”

l’emigrazione impossibile. In leggere Milano collana dell’edizione unicopli Le città letterarie, dicembre 2006.
Conferenza tenutasi nell’aula magna dell’università statale di Milano il 4
dicembre del 2003.

I corpi di Orvieto di Fabrizio Clerici

E’ un eclisse totale di sole il primo remoto, infantile ricordo di Pirandello. “Come l’ombra della luna lo investe, la luce del sole diviene fioca. Alle 2 pomeridiane il disco è interamente ottenebrato, ma lo circonda un anello di fuoco. Allora son tenebre di crepuscolo, gli uccelli si rincantucciano, il colore degli oggetti circostanti è pallido, fosforico”, così annota lo storico agrigentino Picone alla data 22 dicembre 1870.

L’eclisse sul Caos, la “campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare”, dove la famiglia s’era rifugiata per sfuggire al colera. E ancora, nell’infanzia dello scrittore, la serva Maria Stella che lo inizia al terrifico mondo magico-popolare, che lo porta nella chiesa di Santo Spirito dove, sopra l’altare, si dispiega lo scenario bianco, come di sudario scosso e sagomato dal vento, degli stucchi del Serpotta, e, al colmo dell’arco trionfale dell’abside, un Padreterno – un padre! – si sporge e incombe, con spropositata apertura di braccia, sovrasta uno schiumoso fondale di nuvole colombe raggiere angeli santi. Si aggiunga il teatro di Agrigento, il luogo dove la storia s’è spenta, s’è bloccato il conato, e dove regnano vuoto, ammasso di pietre, colonne che si sgretolano, ipogei di zolfo e labirinti di cenere. Da questa profonda memoria, da queste assenze, violenze, da questi terrori crediamo sia nato il mondo pirandelliano, in questo lontano momento si sia spezzata la linea retta, abbia avuto inizio la parallela della sua postica: la sua dialettica, la infinita perorazione, la crudele conversazione che rimbalza da una parete all’altra della sua “stanza della tortura”. “Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa (..) E intendeva forse significare con questo che, oltre ai limiti della memoria, vi sono percezioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in un altro tempo…” dice Bobbio-Pirandello. Per queste percezioni, per queste impressioni seppellite nel buio di catacombe imrnemorabili – che mai le violino archeologi disincantati, freddi analisti di reperti ineffabili! – s’è prodotto strappo sul fondale d’una realtà apparente; su queste fondamenta vibranti di risonanze infinite i grandi architetti hanno costruito il loro mondo di verità ulteriore, la poesia della verità trascendente.
Quali mai sono state le percezioni, le impressioni, al di là d’ogni memoria, di Fabrizio Clerici? Su quale terreno di meraviglie, stupori, affanni, terrori poggia il suo straordinario mondo fantastico? Noi possediamo solo la mappa, anche fallace per la semplicità delle linee, per la perentoria evidenza del disegno, del suo percorso umano. Sappiamo della nascita a Milano, in quel centro storico di stradine circolari e labirintiche, di architetture discrete, di severi prospetti che dietro nebbie e fumi svanivano. Del primo suo altrove, della prima avventura nell’Umbria, all’abbazia di Montelabate, nella cui cripta scopre i cadaveri dei cappuccini – erano nudi e sulla terra distesi come Francesco o in orbace? In piedi e con paramenti come i prelati delle cripte di Palermo o seduti in poltrona come le badesse di un convento di Ischia?
La mappa ancora ci dice degli studi presso i Gesuiti di Roma. Nella Roma crogiolo d’ogni storia e mito, d’ogni fasto e decadenza, d’ogni rovina e reperto, delle dimore papali e delle fontane sonanti, del Bernini e del Borromini, dei marmi della chiesa di S. Ignazio, dei riti pomposi e degli esercizi spirituali, delle reliquie e delle volute oleose degli incensi. Ci dice ancora dei viaggi a Napoli e ai Campi Flegrei, ad Atene e a Constantinopoli, degli studi di architettura e della frequentazione di morgues e di teatri anatomici – un involontario Zumbo per necessità di vita – e delle fughe, le fughe verso gli orienti di civiltà e di idoli estinti, di deserti, di luci accecanti e di miraggi. Quale miracolosa alchimia si è compiuta tra il fondo immemoriale, le esperienze, le visioni straordinarie e la singolare, vertiginosa cultura di Fabrizio Clerici? E quale profondo disagio, quale malinconia della storia ha spinto l’artista a creare linguaggi inusitati, stabilire inediti, sorprendenti nessi sintattici?
La sua mano si è mossa per disegnare, dipingere, in una coazione, com’è nei veri artisti, in una ricerca, in un lavorio virtualmente infinito.
I primi rapporti sono i disegni famosi, La grande fame, Troppo visto, troppo sentito, Souvenir d’Italie, Stanchezza degli Omenoni, Crisi del secolo.., in cui si è abbattuta sul mondo una tragedia che è della storia ed è insieme del tempo, per cui si giunge alla tempera Recupero del cavallo di Troia, alla rappresentazione del simbolo bellico, dell’inganno blasfemo, della disumana scienza, dell’ordigno di tecnologia crudele che ha seminato devastazione e morte, ha creato la mutazione, ha generato la colpa, ha provocato la maledizione: nei legni consunti, calcinati, nel paesaggio roccioso e deserto, nel cielo striato di grigio si vede Hiroshima più che nella rappresentazione diretta della Piccola atomica.
Da qui crediamo derivino tutti i deserti, le città fantasmatiche, i labirinti, le architetture babeliche, le barche solari, i promontori goyeschi, da qui cerchi di pietra rotanti e il loro frantumarsi, e le apparizioni di litici falchi occhi arieti, di obelischi dagli alfabeti consunti. Da qui le stanze della crudele geometria, del vuoto, dell’assenza, dello sgomento d’un cavallo, delle bocche dei baratri, del sorgere di isole dei morti, malinconie, feluche infernali, sfingi, idoli, prosopopee d’un oltremondo d’inganno. Da qui l’uovo della morte, il teschio eburneo tra le pieghe d’una grazia di stucco, gli squarci tremendi nel sipario dell’abbaglio. Siamo di certo nel cuore del paesaggio leopardiano, nella notte illune di un pastore errante sul manto di lave, in cui è assente anche la ginestra, dello “sterminator Vesevo” o nell’assoluta desolazione del “gallo silvestre”: “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta (…) Parimenti del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso”. O il sogno d’un ipogeo profondo, d’una catacomba del tempo, della bellezza, dell’arte, un Infero ermetico dove il melograno ha nutrito l’eterno.

Vogliamo affermare, e a questo punto in modo tardivo, che, oltre il simbolismo, il surrealismo, la metafisica, o grazie ad esse, nella nostra epoca, pochi artisti come Clerici, e meno i realisti, i didascalici, meno ancora forse gli apocalittici dell’astrazione, hanno saputo esprimere l’offesa, la profonda ferita della storia, l’angoscia dell’evento remoto e incombente, la malinconia del tempo, la pietà per il nostro destino.
Nessuno, in modo tanto forte, di fronte a noi, smarriti, attoniti, lontani e ciecamente brulicanti nell’anfiteatro precario del mondo, ha saputo accusare la Madre della nostra caduta, della nostra ferina mutazione, della nostra ottusa ferocia.
Su questo terreno di umano dolore, di pietà, di orrore durante una notte di tenebre spesse, di violenza, di sequestri processi condanne, di morti ammazzati sopra l’asfalto – su questo terreno convergevano L’uomo solo di Clerici e L’affaire Moro di Sciascia – e da un ultimo incontro con la signorelliana Divina Commedia nascevano le straordinarie tavole, i disegni dei “Corpi di Orvieto”. Il corpo umano, l’uomo, la meraviglia del mondo, che nel Giudizio Universale del Duomo di Orvieto, nel miracolo della cappella di
S. Brizio, il Signorelli ha esaltato nella virginale armonia, nella luminosa innocenza di una resurrezione, ha mostrato tremulo, fuggente in preda al terrore d’un finimondo incombente; fulminato, offeso, violentato nel dominio del Male; e decaduto, dilaniato, soffocato nel groviglio terribile con i corpi di demoni verdastri, cinerini, bluastri, muniti d’escrescenze, pelami, membrane ripugnanti, dopo la definitiva condanna…
La chiave di lettura del poema del Signorelli da parte di Clerici fu l’incontro fortuito del suo sguardo con un particolare d’una delle pareti affrescate. “Nel piccolo spazio di un rettangolo un tavolo rovesciato, tra cavalieri armati che lottano fra loro e un gruppo di dame terrorizzate in quel caos imperante, diventa simbolo della violenza circostante e assume così la funzione di protagonista della rappresentazione di quella mischia” racconta.
La violenza, l’orrore: Clerici coglie in quell’aleph nascosto, quasi invisibile il sentimento che mosse la mano di Signorelli a Orvieto, il suo rimandare a violenze, orrori medievali, a quelli d’ogni passato e d’ogni futuro; coglie il dolore, la crisi di quell’uomo, di quell’artista per la morte del figlio, la crisi di quel mondo d’armonia attica che fu il Rinascimento. “Essendogli stato ucciso in Cortona un figliolo che egli amava molto, bellissimo di volto e di persona, Luca così addolorato lo fece spogliare ignudo, e con grandissima costanza d’animo, senza piangere o gettar lacrima, lo ritrasse, per vedere sempre che volesse, mediante l’opera delle sue mani, quello che la natura gli aveva dato e tolto la nimica fortuna” narra Vasari. Clerici rapporta la violenza di Cortona, di quel tempo, alla violenza del suo, del nostro tempo all’orrore per l’offesa alla vita, per lo scempio d’una nobile essenza, sembianza; quel dolore di allora di un uomo al dolore ora di ognuno per l’armonia che viene bandita dal mondo.
In un prezioso diario dell’estate-autunno del 1981, nella sua casa presso Siena, il pittore ci racconta la fatica, il travaglio, la pena nel dipingere quella sequenza orvietana. Ci rivela, come solevano fare gli antichi maestri, quella sua stagione di possessione, ossessione, furore creativo, le misure rigorose, ineludibili della sua lucida, tagliente geometria, la tormentata conquista degli equilibri assoluti nelle sue architetture allarmanti. Egli legge – lo diciamo nel senso latino di scegliere, cogliere – brani, frammenti del grande libro signorelliano e li fa suoi, li trasferisce nella cripta sotto il suolo della memoria, li riporta alla luce, alla scansione del tempo, alla sua poetica, li dispone nel suo spazio, nelle stanze della ritrazione e della riflessione, negli antri cumani delle profezie inquietanti.
“La stanza è la testimonianza di una passata violenza. Quello che noi vediamo è come attraverso il filtro del tempo, è come una peluria di luce, peluria cromatica che fa pensare alla polvere, tutto è molto pulito, tutto è molto terso, ma tutto avviene attraverso un leggero pulviscolo, come delle diafane emanazioni di luce, di una luce che non si sa proprio da che parte arrivi…”. E non si sa proprio da che parte arrivi questa pittura orvietana di Clerici, questa teoria di scene dove non si scorge più sforzo fonetico, traccia di segno, travaglio sintattico, dove tutto si mostra conchiuso e compatto, d’improvviso venuto da un’obliata distanza, da un’ignota curva del tempo. Certo l’allarme, l’inquietudine è subito per la sua “pelle” levigata di perla, di lucore sommesso, chiarore di pergamena, fissità del mistero. E dunque nel testo, la fuga di assi interrotta da una buca, “impronta di bara”, su cui, imbrigliato da corde d’aloe o di canapa, sta sospeso il gran masso, il frammento d’affresco, il papiro, la terzina incompleta che dice del giovane corpo riverso, sparsi i capelli, attoniti gli occhi: sul torso ormai fragile premono piedi, rotule ferree; le sedie rovesciate, i frammenti di osso dicono che qui ancora e sempre s’è compiuto l’oltraggio, s’è perpetrato il delitto, s’è celebrata l’infamia. Altra stanza, con fuga prospettica del pavimento e mattonelle divelte, quadri su cavalletti in piani paralleli contro il piano della parete: sono ancora, in variazione di toni, sfumature di tinte, modulazioni di luce, giovani corpi riversi e oppressi. E ancora, anelli in convergenza e in controluce, in penombra, su convergenza di luci, riverbero tenue d’un fuori deserto. La stazione ulteriore è il faccia a faccia di due dipinti, e in quello visibile, centro del dramma, l’atroce più acuto, un cappio tirato da forza brutale che finisce un inerme. Si ripete la scena in un tempo seguente in cui avviene che una nuvola lieve abbassa i toni, proietta le ombre il grido si fa compianto.

Siamo, in questa clericiana sequenza pittorica dei “Corpi di Orvieto”, e nel coro de disegni, siamo per Signorelli, come prima per Hböcklin, nella pittura dentro la pittura. Siamo nel dramma barocco, nel Sogno di Calderon, nel teatro dentro il teatro dell’Amleto, nella rappresentazione luttuosa, nella stanza dove dialetticamente si scontrano e conflagrano idea e fenomeno, allegoria e storia, geometria e caos, ragione e delirio, armonia e violenza. E dove il mondo si copre di tenebra per un’eclisse totale di sole.

Milano, 25 settembre 1996
Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

“Ricordando Fabrizio Clerici”

Prolusione presso l’Accademia Nazionale di San Luca, Roma 10 giugno 1994….

La mia, naturalmente non è una relazione, è solo un breve ricordo di Fabrizio Clerici.

Era quello di Clerici, sul mondo, uno sguardo leopardiano, del poeta della Ginestra, dell’Infinito del Pastore errante. Era lo sguardo su colpi di lava, di basalto, che hanno coperto, cancellato ogni vestigia di vita, ogni segno umano. Lo sguardo sugli infiniti spazi di smarrimento, panico; su sconfinate distese, desolanti, sotto celi notturni.

Era, quello di Fabrizio Clerici, dolore per il fluire inesorabile del tempo; per l’inconsistenza della storia, era la compassione per il destino umano: malinconia del passato, struggimento delle rovine, insopportabilità d’ogni presente misero e atroce.

Erano, i suoi mondi di pietra, le sue distanze, le sue stasi campannelliane, le sue allarmanti apparizioni nelle stanze, i suoi vuoti, le sue quieti, il suo onirismo e la sua metafisica; non erano dunque che difesa, schermo, un travaglio incessante, d’un assillo senza tregua, d’un dolore senza rimedio.

Per parte mia voi sapete, vorrei sottrarmi dalla tempesta insana d’ogni sentimento; percorrendo a ritroso vecchi antichi sentieri della storia, questo tempo umano del conato, del movimento ceco, incontrollato, fino al punto oscuro, iniziale per cui si passa nell’immota eternitate da cui veniamo; nel tempo senza soli e senza lune, giorni e stagioni, natività e morte, del vuoto e del silenzio, nell’immensa stasi, la somma e infinita quiete metafisica.

Oggi, sta in quella quiete Fabrizio Clerici, a noi, del suo passaggio in mezzo alla tempesta, nella sua sosta sopra le lave dello sterminato corso reso, l’eredità di un arte sublime e umanissima; la testimonianza della compassione per il dolore che ognuno ha anche ignorato, compassione per il mondo.

A me, come ad altri scrittori, il dono speciale, per mezzo della sua arte, della sua personalità, dell’ispirazione di un racconto.