La ferita dell’aprile

Introduzione
di Gian Carlo Ferretti


Una voce di ragazzo irriverente, con un disincanto e un’ironia (e sarcasmo) già matura, racconta esperienze di umili affascinanti lavori presto vietati, di piccole e più o meno innocenti avventure antistituzionali, di calde solidarietà giovanili, all’interno di una struttura educativa cattolica chiusa e repressiva. La realtà narrata è quella di un paese siciliano all’indomani dell’ultima guerra, con un passato e un presente di vita stenta, dolorosa: tra lavori duri, poveri svaghi, refezioni della San Vincenzo, e potenti locali, clientele, omaggi servili. È questa la trama immediata ed esterna della Ferita dell’aprile, pubblicato per la prima volta nel’63, nella collana mondadoriana del Tornasole diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Una trama che potrebbe far pensare frettolosamente a un romanzo di ritardata tradizione neoverista. Mentre esso è molto di più e di diverso: anche nel senso che la linea narrativa isolana (De Roberto-Pirandello-Brancati-sciascia) cui Consolo sembra rifarsi, al tempo stesso con partecipazione e distacco critico, è quella più profondamente segnata dalla crisi e dal superamento della tradizione naturalista e verista; ma soprattutto nell’altro senso, che in quella trama Consolo immette con forza fin dall’inizio una carica problematica e sperimentale di non provvisoria modernità (che può richiamare perciò, rispettivamente, Sciascia e Gadda). Riletto oggi, questo suo romanzo non si conferma soltanto come uno tra gli esordi più promettenti degli ultimi decenni, ma altresì come l’avvio di una ricerca (nel clima delle sterili dicotomie tradizione-avanguardia degli anni Sessanta) di grande futuro. Un romanzo, insomma, che affronta già consapevolmente il problema del potere, considerato in tutte le sue più vistose e sottili implicazioni: l’insensatezza mascherata da formalismo (l’Istituto con le sue regole), il privilegio e la privazione del sapere (gli «alletterati » e gli altri, il Nord e il Sud), la carica liberatoria della diversità (soprattutto giovanile), e un impasto plurilinguistico sempre funzionale al discorso, tra una registrazione del parlato con intento deformante e caricaturale e un’intensa contaminazione di dialettalismi e gergalismi (e detti popolari) siciliani. Mentre sembra addirittura preannunciarsi il motivo centrale di Lunaria: Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte, femmine, correte, prima che si squagliano. Nella Ferita dell’aprile dunque, l’Istituto, la funzione religiosa, il cappellano militare appena tornato dalla campagna di Russia, la veglia funebre, e via via le altre vicende e feste e cerimonie paesane vengono osservate e descritte con un atteggiamento irridente, insofferente e caricaturale, come proiezioni o rappresentazioni di un mondo adulto di vuoti e fastidiosi doveri, di rituali senza senso, di inerti faziosità e dogmatismi, di colpevoli ottusità e ipocrisie, che già allude a un sistema di poteri e storture, subalternità e divieti ben più diffuso e feroce. Consolo si avvale di una discriminante giovanile, fondata sulla disobbedienza demistificatoria o sull’avventura trasgressiva, per impostare un discorso di ben più alte ambizioni e obiettivi. Il rapporto tra adulti educatori e giovani educati si vien configurando sempre più come un conflitto tra repressori e ribelli tout court, in un crescendo di spietata e cupa durezza. Ecco allora che la rappresentazione ironico-divertita diventa via via deformazione comico-tragica, come nella pagina sulla camera ardente di Squillace padre, con il Seminara che si prende «pure lui le condoglianze coi baci per lo sbaglio che il morto avesse un altro figlio», e con «la vecchia strologa» che provoca sinistri scoppi di ilarità. I giochi non sono soltanto una discriminante tra piccoli e grandi, ma arrivano quasi a segnare una sorta di confine tra la vita, l’allegria, e l’immobilità, la morte: «un passovolante fermo, fa caso come un uomo allegro che muore d’un solo colpo […], come un amico andato in seminario e lo ritrovi chiuso e distaccato». Le fantasticherie ribelli e liberatorie dei ragazzi si fanno sottilmente vendicative, quasi perverse: fino a immaginare i superiori imprigionati per il collo da un tagliente filo d’acciaio. Anche la politica, le elezioni del 18 aprile 1948 vengono sentite e rappresentate come “cosa dei grandi”, come esperienza fondamentalmente estranea rispetto alla discriminante giovanile della vera trasgressività e libertà. Certo, Consolo manifesta una trasparente e intensa solidarietà per i caduti di Portella della Ginestra, o per le umili vittime dell’ingiustizia e sopraffazione proprietaria, ma tende a investire il livello istituzionale della lotta politica di una sostanziale sfiducia, all’interno di una storia che gli appare immutabile e insensata, mentre la sua simpatia per i Mùstica padre e figlio, comunisti emarginati, prefigura piuttosto il motivo di una diversità rintracciabile a tutti i livelli della vita sociale e intellettuale. Il Mùstica figlio, del resto, è l’unico che non chiami «zanglé»* Scavone (il protagonista e io narrante del romanzo), che non lo rifiuti in quanto diverso; viene scelto insieme a lui per la parte di selvaggio nella recita dell’oratorio («danzavamo il peana di morte per i preti legati ai tronchi di banano») in una versione satirico-grottesca di quella diversità e di quella tensione vendicativa; è l’amico più amato da Scavone e il principale suo compagno di avventure e di ribellione; e ne viene mitizzato come «un condottiero, di quelli delle storie d’Omero». Dove Consolo riprende con tratti di nuova efficacia il motivo novecentesco del grande amico, ragazzo o adulto, ma caratterizzato sempre da una consapevolezza protettiva, intrinseca maturità, spregiudicata saggezza. Non è certo un caso che nel romanzo le eccezioni adulte riguardino personaggi in qualche modo anomali, e in quanto tali visti con simpatia: come lo zio-padre e convivente della madre vedova, o il prete-ragazzo don Barrajo, o la donna orba frequentata segretamente dal giovane Mùstica figlio. Figure amorevoli o protettive nei confronti del mondo giovanile, e comunque estranee al mondo adulto del divieto e dell’oppressione, se non addirittura trasgressive
esse stesse. Ma nel rapporto di forze, nella guerra mascherata tra adulti e ragazzi, educatori e educati, normali e diversi, si vien delineando una vulnerabilità di fondo dei secondi rispetto ai primi, una insidiosa inesorabile prevalenza del potere in sostanza rispetto ai suoi piccoli oppositori: Consolo spiega altrove che «Zanglèi erano chiamati […] gli abitanti di San Fratello », e definisce «il sanfratellano, l’antico gallico o medio latino di quella colonia lombarda» (Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 20129, pp. 122 e 121). Ero capace di sfuggire ai grandi, stare diffidente, muto, chiuso nel mio guscio e fare il morto come la tartaruga stuzzicata con la verga, ma poi, solo che uno mi parlava buono, mi faceva un sorriso, subito m’aprivo, parlavo più del giusto, col risultato amaro, costante, di pentirmene, rimproverarmi per aver parlato. Più precisamente, l’inevitabile ingresso del ragazzo nel mondo adulto sottintende la sconfitta di ogni ribellione e trasgressività, la fatale caduta di ogni specificità e diversità (gli stessi adulti anomali scompaiono silenziosamente dalla scena, dopo più o meno brevi apparizioni: quasi figure transeunti e sconfitte anch’esse). “Diventare grande”, insomma, nonostante tutto significa snaturarsi in un mondo estraneo e nemico. Il passaggio coincide con l’uscita dall’Istituto, che segna appunto la fine della giovinezza e al tempo stesso l’abbandono di un luogo nel quale era pur possibile battersi e disobbedire, mentre nel mondo di fuori la discriminante giovanile-trasgressiva non avrà né senso né forza: anzi, si svuoterà di fatto.
Dice infatti il protagonista narrante, dopo la cacciata del Mùstica dall’Istituto e la partenza di Vittorio Seminara per il seminario: Ancora un altro aveva varcato il cancello ed era uscito sulla strada per non tornare mai più all’Istituto. E non pensavo, no, che guardando sul portone quel vestito grigio che spariva a palmo a palmo per la scalinata, dopo Filippo e Vittorio sarei stato io a lasciare l’Istituto: così carusi ancora, la vita ci tracciava già le vie. Il titolo del romanzo allora, più che riferirsi alla emblematica “ferita” politica del 18 aprile, sembra alludere alla ferita della giovinezza come esperienza vulnerabile nel suo necessario passaggio alla maturità, o invece come ferita aperta dal mondo giovanile nel mondo istituzionale adulto, ma ben presto rimarginata e cancellata. Il finale è dunque segnato dal pessimismo e dalla sconfitta. Consolo riaprirà il discorso all’interno stesso del mondo adulto e al di là di una discriminante giovanile oggettivamente sconfitta (con un processo di approfondimento e superamento, anche, di un certo autobiografismo). Il discorso sul potere e sulle sue implicazioni, anzi, andrà ben oltre, fino a investire alle radici il rapporto tra insensatezza e ragione, normalità e diversità, privilegio e privazione del sapere: in una rivisitazione (dopo il secondo dopoguerra novecentesco della sua opera prima e il Risorgimento ottocentesco del Sorriso dell’ignoto marinaio) di quel secolo dei lumi nel quale nascono alcune di queste fondamentali contraddizioni, e in un sottile ritornante contrasto con alcune fasi di facile ottimismo collettivo degli ultimi decenni. Il leitmotiv del suo successivo romanzo del ’76 è quello del sorriso «pungente, ironico, fiore d’intelligenza e sapienza » dell’Ignoto di Antonello da Messina, nel quale si specchiano sia l’intelligenza e azione rivoluzionaria del fuoruscito quarantottesco Interdonato, tornato in Sicilia a combattere
i Borboni, sia l’intelligenza divisa del barone di Mandralisca, liberale cospiratore e al tempo stesso cultore di studi scientifici del tutto disinteressati, trasgressore della sua classe e al tempo stesso accomunato
a essa da rituali vuoti e segrete follie. Proprio nel Mandralisca matura ed esplode (coinvolgendo poi lo stesso Interdonato) la crisi di una razionalità
e cultura nonostante tutto privilegiata, anche quando si schiera dalla parte degli oppressi e analfabeti, e la consapevolezza di una sostanziale impotenza dell’intellettuale aristocratico-borghese illuminato a interpretare i loro problemi e bisogni. Rispetto ai quali perciò, il sorriso dell’Ignoto rivela un distacco tanto profondo e incolmabile, da somigliare addirittura
a quello degli oppressori, da trasformarsi cioè in un ghigno «grave, sardonico, maligno». Il privilegio e la privazione della scrittura diventano così, inevitabilmente, esercizio del potere ed esclusione delle masse subalterne. Il processo investe lo stesso livello linguistico ed espressivo del romanzo.
Il sorriso lucidamente ironico, parodistico, sarcastico esercitato da Consolo su una ricchissima gamma di sperimentazioni e acquisti, in una rifusione
di straordinaria modernità e vivezza (il romanzo ottocentesco e la divagazione erudita, il canto dialettale e la citazione latina, e in generale
il discorso popolare e colto), alla fine del romanzo smuore, di fronte alle povere scritte sgrammaticate di denuncia e di collera contro i padroni. L’«alletterato» insomma sembra tacere e interrogarsi sulla «storia vera» raccontata dall’oscuro semianalfabeta, e sembra approdare al rifiuto nei confronti dell’ufficialità insensata della «Storia», e all’autocritica nei confronti della propria scrittura privilegiata. Anche in Lunaria (1985) Consolo conduce un discorso di sottile politicità, sviluppando con nuovi apporti la sua sperimentazione plurilinguistica, tra tenerezza evocativa
e contemplazione incantata, gioco parodistico e finzione oratoria, all’interno di una favola allegorica dialogata che tende a farsi struttura poetica e riaffermazione di un mito poetico, la luna, contro il potere. In una Palermo dai tratti settecenteschi in sostanza, la caduta della luna evidenzia la diversità di un viceré che non crede nel potere, lo avvicina ai villani suoi sudditi e smaschera la falsa scienza rispetto alla scienza capace di audacia
e concretezza, e rispetto alle generazioni di poeti e di umili diversi capaci
di capire veramente la luna e la forza del suo mito. C’è dunque la negazione di ogni menzognero privilegio del potere e del sapere, e l’affermazione di un sapere comune nel segno di una disarmata eppur vincente diversità.
E c’è, in generale, la valorizzazione di tutte le presenze marginali, dimesse, malinconiche, umbratili, notturne, dentro un universo di ufficialità vistosa, presuntuoso ottimismo, sfacciata solarità. Con Retablo (1987) Consolo torna al romanzo, esercitando la sua sperimentazione, la sua passione storico-erudita e il suo gusto figurativo su un intreccio serrato di scoperte e avventure, meraviglie e pericoli. In particolare, attraverso una Sicilia settecentesca sontuosa e miserabile, abbagliante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e sordida, si viene delineando un radicale conflitto tra l’avere e l’essere, tra le pretese virtù e valori che si fondano sulle ricchezze, sul nome e sul potere, e quelle che si affermano per se stesse, e che si possono ritrovare negli umili campioni di una diversità gentile o rude: pastori poeti o nobili vegliardi, briganti generosi o mercanti disinteressati. Con i quali simpatizza il cavalier Clerici, intellettuale illuminista e illuminato, soprattutto trovando un ideale compagno nel facchino Isidoro: entrambi innamorati sfortunati di due donne vittime dell’avere, prigioniere della ricchezza e dello status. Tornano perciò i temi dell’insensatezza di una storia nata sotto il segno della ragione, delle attive potenzialità dei diversi, del rapporto tra intellettuale privilegiato (e illuminato) e mondo subalterno. Ma c’è qui anche, da parte di Consolo, l’elaborazione quasi teorizzata di un impasto di forme linguistiche alte, colte, preziose, e basse, dialettali, gergali, le une e le altre intatte dall’usura della corporazione e del mercato letterari; la costruzione cioè di un romanzo che si proponga e affermi come autentica letteratura dell’essere contro le oscurità interessate e le banalità rumorose dell’avere. La raccolta di racconti e ritratti pubblicata con il titolo Le pietre di Pantalica copre un arco storico che va dalla Liberazione ai conflitti sociali del dopoguerra, dal boom degli anni Sessanta ai veleni e guasti del degrado di oggi. Vi si ritrova fra l’altro, la critica alla cultura del privilegio e
del potere, che si manifesta anche nella contrapposizione polemica tra la «poesia» di maniera sul fascino selvaggio del latifondo e le nude, schiaccianti cifre sul «regime fondiario»; e ancora il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso e endemico» di una Sicilia
emblematica. E vi si ritrova altresì la visione di una storia immobile e immutabile nelle sue prevaricazioni e inganni, ingiustizie ed esclusioni:
i «baroni, proprietari e alletterati» che vanno incontro agli americani liberatori (e vincitori) «per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere i villani»; e i pastori e contadini che assistono «indifferenti» da secoli a guerre e liberazioni estranee e incomprensibili: E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo. Anche le pagine che raccontano di lotte combattute o di contestazioni organizzate sono segnate da questo senso di immutabilità della storia.
Tipico il testo intitolato Comiso, nel quale si può seguire il passaggio quasi inavvertibile, come da un punto all’altro di uno stesso quadro unitario, dalla manifestazione pacifista alla repressione poliziesca al paesaggio archeologico-naturale. Ma si dovrà ricordare a questo proposito anche un saggio del 1985 dove, attraverso la storia dello zolfo, delle zolfare e degli zolfatari, Consolo ricostruisce una lunga vicenda di sopraffazioni e di lotte che non arriva mai a modificare i rapporti di fondo: La Regione siciliana, l’Ente minerario siciliano, assumendole, s’incaricava di liquidare e smantellare le zolfare. Mettendo la parola fine su questa realtà economica, sociale siciliana, che tanti morti era costata, tanta pena, tanto strazio. Altrove, lontano, in altri paesi gli zolfatari, i loro figli avrebbero continuato la loro fatica, la loro pena. Si può concludere, parafrasando una dichiarazione dello stesso Consolo, che in tutta la sua produzione egli (come il viceré di Lunaria), proprio perché non crede nel potere e non accetta la logica del privilegio, «riesce a vedere più degli altri una realtà di degradazione e di sopruso […] al di sotto dell’ottuso livello» di esibita vitalità della società contemporanea. Perché è sempre all’oggi che Consolo mira, sia che parli di intellettuali illuministi o di analfabeti ottocenteschi, e perché è tanto «notturno, malinconico, innocente» quanto ostinato, acuto, impietoso nei suoi dolenti e vivaci disvelamenti.

settembre 1989




LE PIETRE FERITE (Intervista a Vincenzo Consolo)*

*Colloquio tenutosi il 5 dicembre 1988 nella Biblioteca Salita dei Frati di Lugano, in una serata organizzata dall’Associazione dei Siciliani nel Ticino e da «Bloc Notes».
a cura di
 Paolo Di Stefano



 Giunto a Milano nel 68, all’età di trentacinque anni, Vincenzo Consolo non è emigrante per necessità, ma per scelta. Questa scelta da quali ragioni è stata determinata?

«Devo dire che questa emigrazione a Milano, del 1968, era la mia seconda emigrazione. Emigrazione, naturalmente, tra virgolette, perché era un’emigrazione da privilegiato. Io avevo la possibilità di studiare e quando si trattò di fare gli studi universitari, decisi di compierli a Milano. Studiai diritto all’Università cattolica. Credo che in tutti i siciliani ci sia l’ansia di uscire dall’isola e di vedere il mondo, perché -almeno da parte delle persone che non sono strettamente necessitate- c’è come un bisogno di conoscere il «continente». Io avevo scelto Milano perché sin da allora offriva sollecitazioni letterarie: era la città dove era stato Verga, era soprattutto la città dove viveva Elio Vittorini. Speravo, quindi, andando a studiare a Milano, di conoscere Vittorini. L’incontro in realtà non avvenne a causa della mia timidezza. Mi ricordo che odiavo un mio compagno di università che era diventato amico di Vittorini e poteva liberamente accedere a casa sua e pranzare con lui. Ma voglio ricordare un episodio significativo per quegli anni. Piazza Sant’Ambrogio, dove si trova l’Università cattolica, era allora, parafrasando Calvino, la piazza dei destini incrociati: in quella piazza c’era, oltre alla basilica e all’Università, una caserma della celere -allora il ministro degli Interni era Scelba-, e un centro ricavato da un grande monastero, per l’orientamento degli emigrati. Negli anni Cinquanta c’erano grandi masse di meridionali che arrivavano alla stazione centrale, venivano convogliati su tram speciali e portati in Piazza Sant’Ambrogio, dove erano sottoposti a visita medica ed equipaggiati di casco e tuta, per essere poi mandati all’estero, in Francia, in Svizzera, ma soprattutto nelle miniere di carbone del Belgio. Allora, a studentelli piccolo-borghesi come me, o come Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi o altre persone che oggi appartengono alla classe dirigente italiana, poteva capitare di incrociare il compaesano contadino che emigrava, oppure il compaesano poliziotto. I destini dell’Italia si determinavano in quegli anni della ricostruzione. Finiti gli studi, capii che volevo fare lo scrittore. Pur avendo la possibilità di lavorare a Milano, decisi di tornare in Sicilia: per quelli della mia generazione, che non hanno fatto in tempo a fare la guerra, essere scrittori significava scrivere di problemi sociali, avendo letto la grande letteratura meridionalista del dopoguerra, da Conversazione in Sicilia alla saggistica, da Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre a D’Orso, a Gramsci.
Decisi allora di tornare in Sicilia, per insegnare, per fare lo scrittore e testimoniare di quella realtà contadina.»

Perché, allora, il ritorno a Milano, una città con la quale, come tu stesso hai detto più volte, non hai avuto un rapporto facile?

 «Tornai a Milano quando il mondo in cui avevo creduto e che pensavo di testimoniare era scomparso davanti ai miei occhi e davanti agli occhi di tutti. Si erano verificati grandi movimenti di masse dal Sud verso Nord, che coincisero con la fine della civiltà contadina. Il grande esodo verso l’industria settentrionale mi spinse a fare le valigie per assistere a quella grande trasformazione. Mi sembrava che in Sicilia la storia fosse finita, che si fosse chiuso un capitolo e che al Nord se ne aprisse un altro. In quegli anni c’erano alcune riviste molto attente a quelle trasformazioni, sia dal punto di vista sociale che linguistico: ad esempio, il «Menabò» sollecitava a studiare le commistioni che nascevano dall’incontro dei meridionali con le aree urbane, stimolava l’attenzione verso le nuove koiné che si sarebbero formate. Nel 1968, di fronte al rivolgimento culturale che si stava verifican-do, mi trovai spaesato e spiazzato, perché, provenendo dal mondo contadino, non capivo il linguaggio e la realtà di quella Milano. In molti anni di osservazione e di riflessione capii che non avrei mai potuto narrare di una realtà che non mi apparteneva e di cui non avevo memoria. Quindi l’unico modo per rappresentare quel mondo che non conoscevo era metaforico, rivolgendomi al mio bagaglio di memoria, alla mia storia e alla mia cultura. Cosi, dopo un silenzio di tredici anni, motivato dal momento di spaesamento e di osservazione, viene fuori il secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinato.»

Farei un passo indietro, per ricordare due figure determinanti per la tua cultura, entrambe siciliane, ma rappresentanti di due diverse Sicilie. Che cosa hanno significato per te Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia?

«Devo premettere che io parlo di microcosmi, ma credo che quel che dico possa applicarsi anche a realtà più ampie. Io ho sempre immaginato la la letteratura siciliana -che ha una sua precisa fisionomia, fortemente connotata storicamente e linguisticamente- come divisa in due parti: quella occidentale e quella orientale. Credo che ci sia una linea ideale che divide da una parte, a Ovest, narratori interessati al mondo storico e sociale -perché li son più forti i segni della storia-, dall’altra, a Est, scrittori più portati verso una visione esistenziale e verso una sorta di lirismo -perché il mondo orientale è più compromesso con la natura, una natura spesso violenta qual è, ad esempio, quella delle eruzioni vulcaniche o dei terremoti, con un continuo azzeramento della storia e la necessità di ricominciare sempre daccapo. Penso che questa distinzione sia valida non solo per gli scrittori ma anche per gli altri artisti. Io mi sono trovato a nascere e a vivere al centro di questi due mondi, in una specie di zona di confluenza, in un terreno franco dove c’erano segni labili della storia e segni labili della natura. Per me questi due poli erano rappresentati da Leonardo Sciascia e da Lucio Piccolo. Sciascia lo conobbi quando pubblicai il primo libro, La ferita dell’aprile; mi scrisse invitandomi ad andare a trovarlo. Andare a Caltanisetta fu per me come andare a New York, perché era un mondo completamente diverso rispetto a quello in cui abitavo: per noi che viviamo nella fascia settentrionale della Sicilia è molto più semplice prendere un treno verso il Nord, che esplorare quello che ci sta alle spalle, oltre quella barriera di Appennini rappresentata dai Nebrodi e dalle Madonie. Quindi conoscevo attraverso la letteratura il feudo e le zolfare, ma andando a trovare Sciascia mi accorsi che era una gente e una cultura diverse dalla mia. D’altra parte ho avuto in fortuna di stare vicino a un poeta come Lucio Piccolo, un cugino di Lampedusa, coltissimo, barone, che scriveva poesie altissime. Mi sono trovato, insomma, tra due bastioni, a combattere contro l’uno o contro l’altro.»

Nel 63 esce La ferita dell’aprile: la sintesi, che hai sempre cercato, tra questi due poli di cui parlavi, è già, almeno in parte, realizzata con il primo romanzo?

 «Credo di sì. Sin dal primo libro mi sono scoperto una forte tentazione al canto. La ferita è concepita come una ballata, come un poema narrativo, come un romanzo fortemente ritmato. Ma tutto questo e corretto da tante malizie di tipo retorico, come l’ironia, le sprezzature, molte rotture interne e falsetti che ho messo in campo proprio in contrasto con questa propensione alla lirica. Oltretutto i temi trattati non erano per nulla assoluti o esistenziali o idilliaci. Erano argomenti drammatici: ho voluto raccontare con un linguaggio adolescenziale la storia dell’ennesima adolescenza della Sicilia del dopoguerra: la caduta del fascismo, la ricostituzione del partiti, la possibilità di avere una nuova storia sociale, il fallimento di tutto questo e il ritorno all’impostura eterna. È una falsa autobiografia, tanto che io lo considero un romanzo storico.»

 Gli anni Settanta per te non sono anni di partecipazione. Eppure, nel ’76 esce Il sorriso dell’ignoto marinaio, da cui però emergono i segni del tempo. Qual è il rapporto tra storia e attualità?

 «Questo libro l’ho potuto scrivere solo perché mi ero trasferito a Milano, dove ho potuto osservare la realtà operaia e industriale, e solo perché avevo visto i conflitti sociali, che in quel momento erano molto acuti. Volendo parlare di questo, mi sono rivolto alla storia siciliana e ho descritto un passaggio storico importante come il 1860, una data che tutta la tradizione narrativa siciliana ha trattato. In effetti gli scrittori siciliani si sono sempre chiesti i motivi della propria storia: per questo il tema del 1860 è stato trattato da Verga, da Pirandello, da De Roberto, da Lampedusa, da Sciascia. È quasi un passaggio obbligato. Io l’ho affrontato volendo trattare un argomento che mi stava molto a cuore: che cos’è la storia, da chi è scritta, qual è il dovere e l’atteggiamento dello scrittore e dell’intellettuale di fronte alla storia, in determinati momenti acuti. E giusto e morale, quando fuori le masse sono impegnate in lotte molto accese, che lo scrittore rimanga chiuso nella propria stanza a scrivere di se stesso o di squisitezze? Il protagonista di questo libro, il barone Mandralisca, è investito da questi interrogativi nel momento in cui in Sicilia avvenivano le rivolte popolari. Allora ho voluto raccontare l’atteggiamento di questo studioso, amante di oggetti d’arte, collezionista di quadri e studioso di malacologia, che si trova ad essere testimone di fatti atroci e di massacri.»

La presenza del documento originale, intercalato al racconto, può essere interpretato come il segno di un’insufficienza della narrazione?

«Direi che è un senso di colpa dell’arte nei confronti della storia e della vita. Io sento molto il privilegio della scrittura e il piacere della narrazione, ma anche un bisogno di verità nei confronti della grande menzogna che è la letteratura. Per questo, nella struttura del Sorriso, ho immaginato, insieme all’invenzione, l’inserimento di documenti, per mostrare la verità e la sublime impostura della letteratura legate in un tessuto unitario che desse un quadro complessivo. Raccontare in modo rotondo una storia come quella mi sembrava ingiusto. Ho voluto far veder e il disegno accanto al dipinto finito.»

Un aspetto fondamentale per comprendere la scrittura di Consolo è il linguaggio adottato. Che atteggiamento assume lo scrittore di fronte a questo argomento? A cosa si deve la scelta di quella «plurivocità» di cui ha parlato Cesare Segre?

«Il discorso sul linguaggio è molto complesso. Per quanto mi riguarda credo che ogni scrittore, se appartiene ad aree linguistiche periferiche dove Litaliano è una lingua che si acquisisce -come è stato nel mio caso-, debba inventarsi una lingua, non possedendo quella nazionale. A questo si aggiungono esigenze di tipo estetico-letterario. Da quando cominciai a scrivere io capii che non dovevo scrivere in italiano, proprio perché gli argomenti che volevo affrontare cozzavano con una lingua che parlava d’altro. Quindi volevo adottare una lingua che si opponesse a quella centrale, una lingua, se vogliamo, di contropotere. Questo, ovviamente, non è stato un problema solo mio, ma appartiene alla storia letteraria siciliana e non solo siciliana. Manzoni, quando decide di scrivere i Promessi sposi, un romanzo prettamente lombardo, in lingua toscana, lo fa per ragioni politiche, contro il potere austriaco. L’operazione linguistica del Verga è di segno opposto: rifiuta il toscano e sceglie una lingua altra per fare scoprire una realtà periferica che l’unità italiana ignorava: per questo Verga, prima di scrivere, studiò le tradizioni popolari, si documentò su inchieste parlamentari e no, fu molto colpito dal sondaggio di Sonnino e Franchetti sulle condizioni dell’agricoltura in Sicilia, soprattutto il capitolo finale in cui si parlava del lavoro infantile nelle miniere di zolfo, che fu una rivelazione per tutta l’Italia. Verga, per questo, scrisse in una lingua, come disse Pasolini, irradiata di elementi dialettali. Lo stesso Pasolini, provenendo dal Friuli, dovette affrontare lo stesso problema; non a caso le prime sue opere furono in dialetto e quando si trasferì a Roma scrisse in una lingua particolare, realizzando un processo retorico contrario a quello di Verga che abbassava a livello dialettale la lingua nazionale. Viceversa Pasolini, attraverso la digressione, partiva dalla lingua italiana per inserirvi elementi dialettali. Ci sono due modi per evitare di scrivere in italiano: un processo di irradiazione e un processo di innesto.»

Quando in Italia si parla di espressionismo linguistico nel Novecento si pensa a Gadda. In che termini si pone la tua ricerca linguistica rispetto all’esperienza gaddiana?

 «Direi che ha agito non più di tanto, non credo che mi abbia influenzato, anche se, naturalmente, ho letto Gadda con interesse. Credo che l’unico aspetto che ci accomuna è il fatto che sia in Lombardia sia in Sicilia 111 

è presente l’elemento spagnolo. Forse certo barocchismo proviene da questo retaggio culturale. Una volta hanno chiesto a Gadda le ragioni del suo barocco: rispose che barocco è il mondo e lui non faceva che rappresentarlo. La stessa tradizione siciliana è barocca, è composita, per nulla lineare e razionale. Brancati, commemorando Giuseppe Antonio Borgese, gli rimproverava di non aver praticato il barocco sino in fondo. Parlando del barocco siciliano, Brancati disse che è una linea retta che uscendo da un ghirigoro rientra subito in un altro ghirigoro. Questo significa che esiste la consapevolezza nel voler rappresentare una realtà e una tradizione che è in sé barocca.»

Alla ribellione contro la lingua e contro la storia, si aggiunge in Consolo una opposizione rispetto ai generi letterari acquisiti. Il sorriso dell’ignoto marinaio, come è stato detto, è un romanzo che distrugge il romanzo.


«Sì. Io ho sentito in un certo senso la colpa di scrivere. Per questo ho cercato di negarmi sempre a qualsiasi tipo di inquadramento. Il sorriso ha una struttura così rotta, franta, è un assemblaggio di elementi talmente di- versi, che pensavo che il lettore potesse sentirsi frustato ad ogni pagina. Soprattutto per certo linguaggio presente nelle parti narrative, un linguaggio in negativo, cioè talmente mimetico e ironizzato che vuole negarsi nel momento in cui nasce. Cercavo di fare la parodia del linguaggio erudito dell’Ottocento. Inoltre il documento storico, diversi livelli linguistici e alla fine le scritte a carbone, che sono quanto di più sintetico, duro e incisivo si possa immaginare. Era un modo di sottrarsi al romanzo storico leggibile di fila, e quindi il tentativo di richiedere al lettore volenteroso di partecipare alla ricreazione del romanzo.»

Una costante dei libri di Consolo è la presenza, in diverse forme dell’immagine, del documento iconografico: Il sorriso parte da un quadro di Antonello, Lunaria contiene addirittura un corpus di riproduzioni ico-nografiche, Retablo ha per protagonista un pittore contemporaneo calato in ambiente settecentesco. Che significato ha questo rapporto con l’immagine?

 «Forse la consapevolezza dell’insufficienza della parola e un bisogno di icasticità e di visualità. Nel Sorriso il Leitmotiv del quadro di Antonello si presenta in termini opposti: in un primo momento come presenza positiva, poi in senso rovesciato. In Retablo già il titolo appartiene alla categoria pittorica: «retablo» significa polittico, cioè insieme di storie raccontate in più scomparti. È un termine che si estende anche al teatro; in Cervantes «retablo» significa proprio teatrino. Io ho preso lo spunto da questa suprema ironia cervantina che richiama il senso dell’arte come impostura. Inoltre il protagonista è un pittore: il segno del falso storico che ho voluto rappresentare è proprio nel fatto che un pittore vivente assume vesti settecentesche.»

Fabrizio Clerici ha raccontato, in un’intervista, il pretesto che ha dato  spunto al libro: un viaggio in Sicilia realmente accaduto…

«Una volta ci siamo trovati a Palermo per un fastoso matrimonio della nobiltà cittadina, a cui indegnamente  ero stato chiamato a fare da testimone. Dopo la cerimonia abbiamo fatto un viaggio, con Clerici e altri, percorrendo l’itinerario classico di tutti i viaggiatori stranieri dal Settecento in poi. Da Palermo si approdava a Segesta, testimone della grecità, a Selinunte, poi ad Agrigento, spingendosi a volte fino a Siracusa, per fare il giro completo dell’isola. Fu quel giro a suggerirmi un libro che raccontasse di un viaggiatore lombardo in Sicilia. Ho scelto Clerici, che è di origine lombarda ed è un pittore tra il surreale e il metafisico. Inoltre in anni lontani aveva dipinto un quadro dal titolo «Confessione palermitana», dove comparivano le damine settecentesche di uno scultore che lavorava gli stucchi, il Serpotta, accanto alle quali aveva riprodotto gli scheletri delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Tutti questi elementi mi hanno spinto a inserire la figura di Clerici come protagonista del libro. Del resto Clerici e un personaggio già visitato dalla letteratura, essendo apparso in un libro di Savinio su Milano, Ascolta il tuo cuore città, in cui l’autore individua in Clerici un personaggio stendhaliano.»

In Retablo si raggiunge una sorta di sintesi tra l’elemento illuministico, rappresentato da Clerici, e la coralità siciliana barocca.

 «Direi di si. La storia racconta di un personaggio, Clerici, innamora-to, non corrisposto, di Teresa Blasco, una fanciulla bellissima, secondo le testimonianze storiche rimaste, figlia di un militare spagnolo e di una siciliana. Nella realtà Teresa sposa Cesare Beccaria. Quindi, nella mia immaginazione, questa vicenda rappresenta l’incontro tra la ragione illuminista e la poesia della ragazza. Dall’incontro emerge la figura di Manzoni, di cui Teresa è la nonna, avendo generato, con Cesare, Giulia Beccaria. Il senso era questo: l’unione tra logica e irrazionalità. Clerici si allontana dalla cultura illuminista per pene d’amore; incontra in Sicilia un ex-frate, Isidoro, in preda anch’egli al delirio d’amore. Allora intraprendono insieme, come don Chisciotte e Sancio Panza, un viaggio per la Sicilia. L’intento di Clerici è di prendere le distanze dalla donna, immettendosi, lui dice, in una dimensione di «stasi metafisica», senza però riuscirci. Ma soprattutto è travolto dalla vita, quindi si crea questa tensione tra la ragione e la poesia.»

Torniamo indietro: in Lunaria (1985) come si combinano i richiami a Lucio Piccolo e a Leopardi?

 «In effetti la dedica è molto importante: «A Lucio Piccolo primo ispiratore, con ‘L’esequie della Luna’. Ai poeti lunari. Ai poeti.» Lucio Piccolo, l’ho già detto, era un bravissimo e purissimo poeta scoperto da Montale, che aveva esordito nel 56, prima del Lampedusa. Le cronache letterarie si occuparono subito di questo signore eccentrico, barone, che esordiva già in età matura. Poi,  però, fu commessa una sorta di ingiustizia nei suoi confronti. Quando esplose il fenomeno del Gattopardo, scritto dal cugino, se ne senti quasi come schiacciato, perché ogni volta che si parlava di lui veniva citato come il cugino di Lampedusa. Questo lo amareggiò molto e una volta, come racconta Sciascia, disse che era Lampedusa il suo cugino e non viceversa. In effetti la critica italiana non gli ha mai reso omaggio, mentre all’estero è molto tradotto. In anni lontani aveva intrattenuto corrispondenze con poeti stranieri importanti, come Yeast e Ezra Pound. Era un uomo di una cultura sterminata, aveva vissuto sempre appartato ed era molto autocritico. Il mio libro, Lunaria, è stato scritto in omaggio a lui, perché aveva scritto un’operetta in prosa che era una sorta di canovaccio da cui voleva ricavare un balletto. Infatti aveva mandato quel canovaccio a Ilde-brando Pizzetti che poi non ne fece nulla. Il tema di queste Esequie della Luna è la caduta della luna, è un tema leopardiano. In una poesia, Spavento notturno, Leopardi dice di un sogno in cui, appunto, la luna era precipitata. Io riprendo questo argomento facendone un’opera teatrale. In realtà ero molto disgustato per certa romanzeria di consumo che si faceva in quegli anni e che purtroppo continua a farsi. Allora ho voluto spingermi oltre Il sorriso dell’ignoto marinaio, proponendo un’opera in cui venisse eliminata tutta quella parte che è la radice del romanzo, la parte diegetica, riducendo all’osso la descrizione con brevi didascalie. La mia preoccupazione era che l’opera fosse più vicina alla poesia, con un rovesciamento di ruoli, per cui le parti scritte in versi sono più prosastiche, mentre le didascalie in prosa sono più ritmate e rimate. Ancora una volta era quindi un libro scritto in polemica rispetto all’industria culturale.»

A proposito dell’ultimo libro, Le pietre di Pantalica, alcuni critici hanno avvertito una sorta di sentimento nostalgico che lo pervade. Tu accetti questa osservazione?

«Non credo che ci sia nostalgia. Il libro è strutturato in tre parti, «Teatro», «Persone», «Eventi». Non so dove si possa avvertire questa nostalgia. Non credo certo nella terza parte, che è la più diaristica, la più violenta: si fonda sui miei ritorni in Sicilia di questi anni, sulla constatazione di un degrado, di un processo di imbarbarimento e di atrocità. Nella prima parte ho voluto raccontare gli ultimi bagliori dell’epopea contadina, a partire dall’arrivo degli Americani sino agli anni Cinquanta, il tentativo fallito di avere una riforma agraria e una maggiore giustizia sociale. Il mondo contadino non era assolutamente un mondo felice, per cui non credo se ne possa nutrire nostalgia. Tuttavia cerco di dimostrare che c’erano alcuni valori che si sono perduti: un senso immediato della realtà, senza schermi, e un’alta considerazione della vita umana. Credo che nel processo di imbarbarimento d’oggi sia avvenuto innanzitutto un distacco dalla realtà, per cui non se ne ha più la percezione. Tutta la storia della civiltà, secondo me, è contrassegnata da un oscillare continuo di accostamento e allontanamento dalla realtà. Nei momenti di distanziamento si verifica quella che noi chiamiamo alienazione, che ci costringe a guardare delle false realtà: momenti storici come quello che stiamo vivendo mi fanno pensare al ritorno dentro la caverna platonica, dove ci sono gli uomini che guardano le loro ombre sulle pareti della caverna credendo che quella sia la realtà, mentre la realtà è alle loro spalle. L’altro tema è la perdita del valore della vita umana, che oggi, osservandola dalla Sicilia, mi pare svilita in tutti i sensi. Allora ho parlato delle violenze siciliane, della mafia, in un anno preciso in cui sono successe atrocità incredibili. Era l’estate del 1982, dove un delitto si susseguiva all’altro. In luglio c’era la festa della patrona, santa Rosalia: io ho assistito alla processione, a cui era presente anche il prefetto Dalla Chiesa, incontro Camilla Cederna, che doveva intervistare lui e sua moglie. Quando sono tornato a Palermo, in settembre, il prefetto e la moglie erano stati uccisi. Si è trattato di un anno terribile, in cui sono state uccise più di cento persone. Ho voluto raccontare il degrado di questa città, ma anche di Siracusa, che è un luogo che appartiene a tutti, una città di grande valore civile e culturale, circondata da una enorme fascia di industrie dove interi paesi sono stati evacuati perché nascevano bambini deformi.»
 Come sono stati strutturati, nell’insieme, i diversi testi, in gran parte concepiti come estravaganti?

 «La prima parte, «Teatro», è un nucleo narrativo unitario che avevo concepito come romanzo storico e dopo abbandonai perché non mi interessava più come genere. Quindi ho utilizzato solo una parte di questo roman-zo, che ho sforbiciato, perché mi importava allontanare nel tempo quella civiltà, senza rappresentarla ravvicinata. Poi ho raccolto altre cose che avevo scritto, ma era un periodo in cui guardavo e pensavo con quegli stessi occhi. Quindi ho messo in scena delle persone di quel mondo, come Lucio Piccolo o l’etnologo Antonino Uccello, che rappresenta il personaggio portante di tutto il libro, poi Leonardo Sciascia e Buttitta. A questo ho aggiunto il diario che ho tenuto durante i ritorni in Sicilia. Mi sembra che, più che racconti, il libro, per gli slittamenti che esistono tra una sezione e l’altra, per i rimandi, abbia un’unità e una struttura molto aperta ma anche coerente. Il sigillo del libro è dato dall’ultimo racconto, un racconto-verità, desunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, che si intitola «Memoriale di Basilio Archita». È un racconto che si svolge in pieno oceano su una nave greca, dove vengono scoperti dei clandestini kenioti che vengono gettati a mare in pasto agli squali, per decisione del capitano e degli ufficiali di bordo. Sono stato molto colpito da questo fatto e ho voluto riprodurlo immaginando che a bordo ci fosse un mozzo di origine siciliana, Basilio Archita, che, dopo essere sbarcato al Pireo, raccontasse questo delitto terribile, come testimone. Ho voluto dire che questo processo di imbarbarimento non è solo in Sicilia, ma sta all’origine della nostra civiltà che, come tutti sappiamo, ci viene dalla Grecia.»

All’inizio del racconto dedicato a Sciascia hai posto come epigrafe una sua frase che dice: «Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione.» Questa affermazione è valida anche per te?

 «Sì, certo. Sciascia, però, quando parla della sconfitta della ragione pensa soprattutto all’aspetto storico e sociale: parla dell’inquisizione, dei fallimenti politici, delle offese all’uomo. Io porto la sua affermazione alle estreme conseguenze e penso alla disgregazione della ragione come follia. Una componente che è stata poco sondata dalla narrativa siciliana è proprio la follia del siciliano. Per questo ho paragonato la realtà siciliana a una tempesta alla quale è estremamente difficile sopravvivere. Quando ci si salva si approda, secondo me, a una sorta di maturazione anticipata. Ho paragonata la maturazione di cui parla Pirandello nel Fu Mattia Pascal («Così l’anima mia venne a maturazione ancora acerba…») a quei frutti che si producono artificiosamente fuori stagione in Sicilia e che si chiamano verdelli. Si portano le piante di limone, nell’agosto inoltrato, sull’orlo della morte, privandole dell’acqua, le foglie rischiano l’essiccazione e sono sul punto di cadere. Quando l’albero è «patuto», come si dice, viene immessa l’acqua nel mezzo degli agrumeti e l’albero fiorisce di colpo, mette la zagara e immediatamente cresce il frutto, un frutto fuori tempo, profumatissimo e gustosissimo che si chiama verdello. Per il siciliano è la stessa cosa: arriva all’orlo della morte e, se riesce a sopravvivere, acquista una saggezza prematura, una disperata intelligenza e una dolorosa consapevolezza.»

Pensi che oggi persistano, nell’ambito della letteratura prodotta in Sicilia, alcune caratteristiche tipiche che si possono definire siciliane a tutti gli effetti?

 «Fino alla mia generazione è esistita. Adesso c’è una sorta di uniformazione. Io, negli anni settanta, ho fatto per anni il lettore per Einaudi e mi sono accorto che c’è stato un momento di passaggio da una scrittura a un’altra. Avevo chiesto a Einaudi di occuparmi soprattutto di letteratura meridionale. C’erano scrittori che in quel periodo erano portatori di realtà sociali ben precise, poi, passando a generazioni più giovani, notavo che i dattiloscritti che arrivavano da Palermo erano sempre più uguali agli altri. Come è avvenuta l’uniformazione linguistica, è venuta l’uniformazione dei temi. Cadeva l’interesse verso il mondo esterno, si tendeva sempre più a parlare dei propri problemi. Inoltre da una scrittura di conquista, una scrittura-scrittura, si passava a una specie di trascrizione di un parlato uguale per il Meridione come per il Nord. Le piccole culture si stanno distruggendo, ma è un processo di omologazione che avviene dappertutto, in Occidente attraverso la forza dell’economia e all’Est per forza di carri armati. Mi sono trovato una volta a Palermo a un convegno internazionale di scrittori. C’erano due scrittori emblematici del cosiddetto socialismo reale, Evtusenko e Kundera. Naturalmente non si amavano e lo mostrarono subito. Ma il primo a provocare fu Evtusenko: disse che gli astronauti sovietici gli avevano detto che dallo spazio le piccole patrie non si vedevano, si vedevano solo le grandi terre, i grandi continenti, alludendo al fatto che la Cecoslovacchia dall’alto non esisteva. Kundera rispose che è probabile che dallo spazio non si vedano le piccole patrie, ma dagli oblò dei carri armati si vedono benissimo. È questo il tema doloroso di Kundera, la sparizione della patria boema.»

Domande del pubblico.

 Lei ha citato molti nomi di autori siciliani, ma non ha parlato di Gesualdo Bufalino. Che opinione ha di questo scrittore?
 

«Lo conosco benissimo, ma lo considero uno scrittore che non appartiene in modo totale alla tradizione siciliana. E un autore, secondo me, che si rifà un po’ a certa scrittura degli anni Trenta, di tipo centrale, rondista, i cui esponenti maggiori, per intenderci, erano Emilio Cecchi e Cardarelli, prosatori d’arte. In lui non vedo sperimentazione, la sua è una scrittura che appartiene, sia pure in modo magistrale, al codice nazionale, non c’è una parola che non sia nel vocabolario italiano, anche se si tratta di una scrittura di livello molto alto ed elegante. Quando cita una parola in dialetto la mette tra virgolette o in corsivo e le sue tematiche assolute non appartengono alla tradizione letteraria siciliana. Per questi motivi Bufalino potrebbe anche essere nato a Roma.»

Che rapporto c’è per lei tra la Sicilia come piccola patria e il suo tentativo di recupero della ricchezza culturale e linguistica della sua terra?

 «Ci sono due modi di guardare alle piccole patrie. Un modo regressivo, per cui ci si chiude dentro al grembo materno senza crescere al mondo dell’agorà e della discussione: quindi il compiacimento della chiusura. Per me le radici, le storie e la cultura locale servono come metafora, come metro per misurare il resto del mondo. Faccio un esempio emblematico per essere più chiaro. C’era un poeta siciliano della fine dell’Ottocento, Alessio Di Giovanni, figlio di un notaio, che una sera rimase ammaliato dal canto in siciliano di un carrettiere, uno di quei canti che somigliano molto alle nenie arabe. Da allora si mise a studiare il mondo siciliano dialettale, scrivendo anche romanzi e poesie in siciliano. Quando uscirono I Malavoglia, rimproverò all’autore di avere scritto quel libro in italiano e si propose a Verga come traduttore in siciliano del romanzo. Naturalmente Verga si oppose. Quello di Alessio Di Giovanni era un modo compiaciuto di guardare al sicilianismo, e in questi casi non è difficile arrivare a chiusure assolute e a forme politiche molto dubbie: non per nulla questo Di Giovanni confluì nel movimento provenzale di Mistral che era molto di destra. Per me non è compiacimento del localismo, ma è misura del mondo data dalla propria cultura e dalle proprie radici.»

Il suo secondo libro è uscito a tredici anni dal primo. Pietre di Pantalica è apparso un anno dopo Retablo. I suoi tempi di lavoro sono cambiati o sia mettendo a frutto quanto ha fatto in passato?

«Prima avevo molti più dubbi, Forse, adesso, tante preoccupazioni sono cadute. Ma sento anche l’urgenza di dire alcune cose che prima non sentivo la necessità di comunicare. Nell’ultimo libro ho voluto ribadire lo   

stesso discorso di Retablo con un linguaggio diverso, in termini molto più chiari. L’ho messo assieme, lavorando molto, proprio per riproporre quel discorso della scrittura con altre parole. Ma anche per mostrare che, al di là del barocchismo, in Retablo c’erano argomenti di fondo che mi stavano a cuore. Il tema di fondo, quindi, rimane uguale: cioè certa cultura e certa civiltà che nel mondo d’oggi si stanno perdendo.»

Che sentimenti nutre rispetto alla società letteraria d’oggi: non sente di compromettersi anche lei nell’industria culturale?

«Finora ho potuto rimanere appartato, rinunciando ad aderire alla società letteraria, negandomi. Dal primo al secondo libro sono passati tredici anni. Il sorriso è stato quel che si dice, in termini molto volgari, un successo editoriale, i critici ne hanno parlato moltissimo. Sull’onda di quel libro avrei potuto scrivere tanti altri romanzi uguali o simili, ma mi sono ritirato, fino a pagare con l’oblio questo mio silenzio. Nell’85 ho pubblicato un libretto che era la negazione del romanzo e del suo consumo. Adesso sento la necessità di scrivere di più. Oggi non è più cosi facile starsene appartati, anch’io subisco quelle che sono le dittature dell’industria e dei mezzi di comunicazione. Anch’io vado per librerie a fare presentazioni, anch’io mi nono assoggettato, con malagrazia e con molte remore, alle leggi della pubblicità e del consumo. Comunque ho cercato almeno di non perdere dignità e classe, di non arrivare a certi spettacoli degradanti. Oggi la letteratura, come la politica o la religione, è spettacolo. Le sorti nostre si decidono sulla base di spettacoli televisivi come quelli delle elezioni americane.»

Come può un siciliano vivere a Milano?

«Le posso rispondere con un’altra domanda: come può un siciliano oggi vivere a Palermo? È terribilmente difficile. Quando vado a Palermo e incontro Sciascia, il quale mi dice del suo dolore e della sua pena di stare in una città  e   in una terra come quella, mi accorgo di quanto sia atroce vivere li. Ma oggi è altrettanto terribile vivere a Roma e forse in tutta Italia. Ma credo che per i siciliani, quando potevano scegliere, come me nel 68, c’erano due modi di uscire dal loro paese: c’era una corrente che li portava a Roma e una corrente che li spingeva a Milano. Questo non era casuale, dipendeva da due modi di concepire il mondo: non per nulla Brancati approdò a Roma, mentre Vittorini scelse Milano. Milano era l’opposto della Sicilia, era la città della organizzazione sociale, mentre noi venivamo da una terra di disgregazione e di disordine atavico. Quando, nel 68, ho scelto Milano, l’ho fatto pensando che a Milano ci fosse un progetto sociale e culturale.

Oggi questa speranza è fallita e mi costa moltissimo rimanere a Milano. Ho detto, fra virgolette, che Milano è oggi la città più volgare d’Italia perché da Milano parte il messaggio pubblicitario, lì si organizza il messaggio che riduce il resto d’Italia in grandi masse di consumatori di oggetti inutili. Ma è volgare anche perché ci sono le case editrici, le case di moda, regno della futilità, i giornali, le televisioni. Eppure, se mi trovo a immaginare una città in cui mi piacerebbe abitare, non so pensare ad altre città se non a Milano. Quando ci si sradica a trentacinque anni, come è capitato a me, si finisce per non appartenere più a nessuna terra. Io vado spesso in Sicilia, ma quando arrivo mi arrabbio e non vedo l’ora di tornare a Milano; quando sono a Milano mi arrabbio con Milano e cerco di tornare in Sicilia.»

Lei crede che la letteratura debba avere soprattutto un compito sociale?

 «Credo che lo scrittore abbia il dovere di essere estremamente critico anche in una ideale società perfetta. C’è un modo di dire dei tedeschi, riferito a scrittori come Böll o Enzesberger: si dice che sono scrittori che hanno sporcato il nido, perché parlano male del loro paese. Ma io credo che sia questo lo scopo della letteratura, sporcare il nido. I politici non lo fanno certo, sporcano eventualmente le coscienze. Ma soprattutto penso che sia questa la funzione del romanziere, perché il romanzo è uno strano ibrido, una unione di discorso logico e di discorso poetico. Ora, io dico che i poeti, i fanciulli e i re non hanno questo dovere proprio perché mancano dell’aspetto logico, che implica il contesto di cui facciamo parte. Nel momento in cui parliamo degli altri, facciamo un discorso critico e oppositivo. Perciò questo non è possibile ai bambini, né ai poeti, i quali non sono chiamati a fare i conti con il discorso logico. Ma neppure chi ha il potere possiede questa facoltà logica, perché non può andare contro i propri interessi. Per me il romanziere che non esercita la critica è uno scrittore di corte e perciò non esercita l’opposizione, perché ambisce ad essere abbracciato dal rе.»

Paolo Di Sefano

Giudice popolare

Nel momento in cui mi accingo a stendere questa breve nota per il libro di Mario Lombardo, «Giudice popolare al maxiprocesso» – 0ggi, 28 giugno 1988 — le cronache registrano l’uccisione a Palermo, nel mercato di via dei Nebrodi, di tre venditori ambulanti, tra cui un ragazzetto di 15 anni. Gli assassinii sono stati eseguiti, con sicurezza e impassibilità, da due giovani giunti sul posto a cavallo di un «Vespone», che si sono dileguati subito dopo. Queste tre ultime vittime, questi tre corpi insanguinati, queste tre sagome disarticolate e coperte da un lenzuolo, si aggiungono all’infinita teoria di morti ammazzati dalla mafia a Palermo, in Sicilia. In via dei Nebrodi (il ragazzetto, Giuseppe Lo Jacono, è rigido li a terra tra le bancarelle, sopra la pozza del suo sangue rappreso, un mazzetto di banconote da mille lire stretto in un pugno), in questa strada della zona di Resuttana, abita un mio amico, un poeta, una delle più miti, più civili persone che io conosca. Questo mio amico, forse tra la folla del mercatino settimanale, può aver sentito quella sequenza di spari, può aver visto quei tre corpi crollare a terra disanimati. Ora io mi chiedo: che rapporto c’è fra uomini come il mio amico poeta e quegli efferati killer di via dei Nebrodi? Com’è possibile che convivano in uno stesso contesto, in una stessa realtà storica e sociale tipi umani così diversi, così contrapposti? Mi sono sempre chiesto: che rapporto c’è fra me, Fra l’autore di questo libro, fra te, lettore di questa nota, o fra uno dei giudici togati e uno qualunque degli imputati del maxiprocesso di Palermo, Luciano Liggio, Michele Greco o Pippo Calò? Che rapporto c’è fra un uomo intelligente e civile come il pm Ayala e l’ottuso e feroce Filippo Marchese, quello che a detta del pentito Sinagra – nel «mattatoio» di piazza S. Erasmo (quella piazza già teatro di antiche barbarie, in cui la santa Inquisizione bruciava vivi sui roghi poveri condannati) ordinava ai picciotti di dissolvere nell’acido dei bidoni le carni dei suoi nemici? Da siciliano, mi sono sempre chiesto, da quando ho cominciato a sentir parlare di mafia, a prender coscienza della sua barbarie: com’è possibile che qui, in quest’isola di tanta storia, di tanta cultura, di tanta civiltà ci possano essere mafiosi, criminali spietati, autori di efferati delitti, di stragi? E sono tutte domande che immediatamente sembra non trovino risposte. Risposte, prima o al di là di quelle scientifiche, che servano a darci fiducia nella storia. Così come, in un contesto più ampio (non sembri azzardato l’accostamento: siamo, sia pure per cause e fini diversi e per differente portata, in un simile dissolversi della ragione umana, in un simile insorgere della bestialità nell’uomo), non troveremmo risposta alla domanda: come l’uomo, in un determinato momento storico, ha potuto arrivare fino agli orrori di Auschwitz o Dachau, fino agli orrori dello stalinismo? Sono domande che ci mettono in crisi, che ci fanno disperare della storia, delle umane «magnifiche sorti e progressive». Ma lasciamo le inquietudini, lasciamo alla filosofia le risposte sulla natura dell’uomo e veniamo ai fatti. E un fatto, di portata storica – malgrado i morti ancora ammazzati dalla mafia, malgrado le ultime tre vittime di via dei Nebrodi – è senz’altro il processo contro la mafia che si è celebrato a Palermo dal 10 febbraio 1986 al 16 dicembre 1987. Un processo enorme per numero di imputati, impegno dei giudici, impiego di forze, durata; un processo unico e forse mai più ripetibile; la più grande e importante celebrazione di rito giudiziario; il più grande psicodramma della storia siciliana, della storia nazionale. E Mario Lombardo è stato uno degli officianti del rito giudiziario perché la sorte ha voluto che fosse scelto come giudice popolare al processo,
Lombardo dunque, con i suoi colleghi – quelli che per dovere morale e civile non si sono sottratti a quek gravoso impegno, non si son fatti disertori – è stato chiamato a rappresentare il popolo siciliano, il popolo italiano. Anch’io, in quel piovoso mattino del 10 febbraio dell’86, ero nella famosa, avveniristica, metafisica aula-bunker in qualità di cronista. E lì, dalla tribuna della stampa, avrò visto, assieme agli altri componenti la Corte, Mario Lombardo, che non conoscevo. Ricordo che quella mattina dentro di me ero grato a quegli uomini della Corte, i quali per tutti si assumevano l’enorme, quasi insopportabile peso della celebrazione di quel processo. Di cui Lombardo, intelligentemente e scrupolosamente in questo libro, ci fa ora il racconto. Racconto oggettivo non solo, ma anche racconto soggettivo, vale a dire delle pieghe umane, di cui nessun verbale giudiziario o cronaca giornalistica potrebbe mai darcene cognizione.

Vincenzo Consolo

Un gioiello finemente cesellato


Fabrizia Ramondino


Ci sono romanzi, scriveva Walter Benjamin, che somigliano a una catasta di legna da ardere; e mentre la legna arde, si consuma. con quello dei protagonisti del romanzo, anche il nostro destino … Retablo è invece un gioiello, finissimanente cesellato, come quelli di Dalì, che sapeva rendere con un rubino un cuore palpitante di vita, simile a un frutto di mare, a prendere il quale nel fondo dell’acqua si trovano nel contempo attrazione e ribrezzo. Ovvero, come suggerisce il titolo, è un retablo, parola spagnola che indica pale d’alare o successioni d’immagini dipinte meravigliose. Nel nostro caso se ratta di un trittico, le cui tavolette evocano la quête dei cavalieri erranti, l’orazione, la peregrinazione, la verità trovata. Spesso gli artisti dediti alle arti figurative si sono rammaricati di non riuscire a raffigurare il tempo; Consolo, con un procedimento à rebours, ha voluto imitare i pittori.
Se si ricorre al paragone del gioiello, esso raffigura la Trinacria. Pietre preziose e semipreziose, minerali rari e vili, smeraldi e corallo, marmo e alabastro, argento e oro, salgemma e piombo, sono stati impiegati a profusione dall’artefice per raffigurare la Sicilia di due secoli fa: i cibi semplici o elaborati al limite del disgusto, gli zibibbi e i grappoli di pasta di mandorle, inganno per l’assetato, teatro della gola per il sazio, le plebi lacere e lazzare, gli ozi crudeli dei ricchi, l’operosità degli artigiani, i pastorali ospitali, ancora oranti dinanzi alla statua della Grande Madre, i briganti feroci e umani, pronti a fraternizzare con i corsari, i frati lussuriosi, i nudi e neri operai delle saline, i contadini dediti alla fatica di dissodare il campo – e pietre maledette sono cocci di urne funerarie fenicie, membra di statue greche -, l’innestatore di aranci, innamorato della sua arte e dei frutti che produce, lo sfarzo delle chiese barocche, la solitudine estatica dei templi sul mare, la bellezza delle donne, la carnalità e la purezza, la bontà e la ferocia… Un’ode alla Sicilia, e nell’ode più odi: all’arancia e al corallo, a Rosalia la santa e alle Rosalie profane, al latte e al cacio di capra, all’amata e all’amato… e sempre odi al cielo e odi al mare.
Se il libro somiglia a un retablo, fra le molte meravigliose storie raffigurate, una è la principale: l’antagonismo fra Dioniso e Apollo – così intende Consolo la loro relazione -, fra vita ed ebbrezza mortale. La tavoletta centrale del trittico è dedicata al cavaliere milanese Fabrizio Clerici, pittore, che, respinto dalla donna amata, Teresa Blasco, invaghita di Cesare Beccaria, viaggia in Sicilia per dimenticarla e descrivere il nuovo paese all’amata lontana. Antidoto contro il mal d’amore è quindi il viaggio. Ma ancora di più lo è l’arte, di cui il viaggio è in realtà metafora. Il cavaliere non è tuttavia un esteta, il più gramo fra gli uomini ha per lui un valore incomparabilmente maggiore di una splendida statua greca. Il primo portello è dedicato a Isidoro, frate che vende bolle d’indulgenza; per amore di Rosalia fugge il convento, finisce fra i facchini del porto, finché viene preso a servizio dal cavaliere milanese che accompagna nelle sue peregrinazioni. Qui Isidoro narra la sua passione, i suoi tormenti, la sua finale pazzia d’amore. Il secondo portello, corrispondente al primo per brevità e intensità narrativa, è dedicato alla vera Rosalia, dopo i tanti abbagli, le tante Rosalie, sante, statue, ragazze, che figurano nel racconto. Qui ella tesse le lodi di Isidoro, l’unico amato. Ma ha visto donne infelici nel vico nero dove è nata, fugge perciò l’amato povero, diventa la mantenuta di un duca decrepito, che le fa studiare il canto. E annuncia che partirà presto, ingaggiata per cantare Cimarosa. Ha fatto sue le parole del castrato, suo maestro: «Siamo castrati, figlia mia, siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore.
 Il tempo, il nostro tempo, che Consolo ha provato a esorcizzare, ‘insinua nel romanzo con abile gioco di baro, con ammiccamenti,
chiamate, rimandi. L’espediente più innocente è l’avere scelto come protagonista Fabrizio Clerici, pittore contemporaneo, come tutti san-no, e non del secolo dei lumi, presente nel libro anche con cinque disegni – e il virtuosismo tecnico del pittore ben corrisponde a quello dello scrittore. Immediato è anche il parallelo tra l’ottimismo del secolo dei Lumi e la fede, ancora cieca, nel progresso tecnico e sociale, del nostro. Ma solo dai molti ingannevoli ammiccamenti si comprende la nuova e diversa forma che ha assunto oggi la separazione tra i sessi, e si legge un’antica, e attuale, misoginia. Infine, e al modo del paradosso, il Novecento irrompe proprio nel raffinato pastiche stilistico che sembra imitare una lingua antica. Infatti i vocaboli arcaici, dialettali, inusitati, i lacerati aulici, le allitterazioni, le amplicazioni; le anastrofi, le apostrofi, le assonanze; le deprecazioni e le invocazioni; la frequente scansione metrica delle frasi e l’imitazione dei cantastorie siciliani: sono tutti stilemi in parte ripescati dal passato, ma soprattutto scaturiti dalla maggiore libertà, almeno linguistica, conquistata nel nostro secolo, e di cui proprio in terra lombarda, dove vive Consolo, si è fatto Ottimo uso.

Il Mattino, 3 novembre 1987
pubblicato anche nella rassegna trimestrale di cultura “Nuove Effemeridi”
Edizioni Guida 1995

Oratorio

ROSALIA. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’ è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’ opalina, e l’ aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza di mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liama di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’ inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ ossa, limaccia che m’ invischiò nelle sue spire, lingua che m’ attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’ alma mia, liquame nero, pece dov’ affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, torciglio senza inizio e senza fine, rosario d’ estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei? T’ ho cercata per vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai Colli a la Marina, per piazze per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale alla Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’ urna, piansi a singulti, a scossoni della càscia, e pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare. Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’ orlo della tunica dorata, quella mano che s’ adagia molle e sfiora il culmo pieno, la seta, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo… Rosalia, diavola, magàra, cassariota, dove t’ ha portata, dove, a chi t’ ha venduta quella ceraola, quella vecchia bagascia di tua madre? Ahi, non ho abènto, e majormente ora ch’ uscii di Vicarìa. Mi liberò quel gentiluomo di Milano, il cavaliere Clerici, pagando per mio conto il malefatto, il furto che commisi nel convento, il danno e il riscatto e tutto. Quel don Fabrizio che sbarcò in Palermo, con la fortuna mia, per viaggiare l’ Isola, scoprire l’ anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di citate ultrapassate. Ma dico dall’ avvio. La causa di tutto, il motore primo, già si sa, fu Rosalia. Ero fraticello sereno al convento della Gància, fraticello di questua, e giravo per contrade e campagne per limosinare e vendere le bolle dei Luoghi Santi, stampe che davan privilegi, indulgenze, ed erano al contempo preservativi di mali passi, assalti di ladroni, naufragi, infortun d’ ogni risma nel corso dei viaggi. Tornavo nel convento con le bisacce gonfie e le saccocce pesanti d’ oboli e degli incassi cospicui delle bolle. Tornavo nel convento entrando sempre per porta Termini, per la Magione, Longarini, Castrofilippo, strada Merlo. Scansando a bella posta il Càssaro Morto e la Platea Marittima. Scansando per la popolaglia e per la vuccirìa che notte e giorno v’ albergava in quella piazza: vagabondi ruffiani spettatori dell’ opra dei pupi e delle vastasate giocatori di vantaggio parassiti donne di fora ladri di sacchetta camorristi. E tra le bancarelle e i casotti, davanti agli androni dei palazzi, alle porte di cappelle e orator, una folla d’ accattoni, finti storpi o affetti da morbi repugnanti, che andavan lamentando: “La divina Pruvvidenza… Facìti la carità…”: Dio ne scansi! Dio che non mi scansò dalle nasse o rizzelle che un bel dì si misero a calarmi una coppia di donne, madre e figlia, ch’ io d’ un subito, fraticello mondo, credei di casa, oneste e timorate. Mentre andavo, al vespero, per la strada Aragona, col mio passo spedito, sudato per il cammino lungo e per il peso grave delle bisacce, le campane della Magione sonarono l’ Avemaria. M’ impuntai e dissi l’ orazione. Quando, alla croce, mi sentii chiamare: “Frate monaco, frate monaco, pigliate”. E vidi calare da una finestra un panaro con dentro ‘ na pagnottella e un pugno di cerase. “Pe’ l’ anima purgante del mio sposo”. Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’ un fuoco di smeraldo. Mai m’ ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei. ; e a ogni sera, a quell’ ora, eran là, sempre alla finestra. Le scorgevo già all’ imbocco della strada, e il cuore si dava a martellare. E ‘ na volta eran l’ova, ‘ n’ altra la cassatella, ‘ n’ altra la cedrata, sempre per l’ anima purgante. E io, sempre: “Pace e bene, pace e bene”, e intimorito correvo giù al convento. Tutta la massacanaglia poi in quel budello, vecchi, femmine, carusi davanti ai catòi, sui balconi, alle finestre, tutti a guardare la scena, a ridere come davanti a ‘ na passata di Japicu o di Nòfriu. Eppure ogni giorno non vedevo l’ ora che si facesse sera, di tornare in citate, e non pensavo mai di cambiare strada. Chè Rosalia, lei, a poco a poco aprì la mantellina, mostrò il corpetto, ciocche arricciate del colore del rame, le boccole agli orecchi trasparenti; e sorrideva, con le fossette, mostrando a malapena i denti di cagnola. Finchè una sera non le trovai per strada, davanti all’ altarino dell’ Immacolata, con le lampe e i fiori, assorte nel pregare. “Oh, frate monaco…” fece la madre. “Frate Isidoro” dissi, con umilitate. “Che bello nome!” disse lei, Rosalia, ch’ avea smesso il lutto ed era in mantellina bianca damascata, e mi fece sentire brutto, sgraziato, nel mio albàgio logoro, sudato, col mio barbone nero, carico come uno scecco sardignolo, così davanti a lei, fresca e odorosa, bella di sette bellezze, latina come un fuso. Breve, la sera appresso conobbi il paradiso. E nel contempo cominciò l’ inferno, l’ inferno pel rimorso del peccato e per la ruberia del guadagno a danno del convento. Depositavo ogni sera grani, scudi, ducati nella mani di quella tinta madre, la quale m’ illudeva che, giunti a un numero bastevole di onze, smesso il saio, avrei impalmato la figlia sua dorata Rosaliuzza. Ma non avevo fatto i conti col padre guardiano, che cominciò a nasarmi, a puntarmi addosso i suoi occhi come due bocche di trombone, a mattutino, a vespero, in coro, in chiesa, in refettorio. E una notte m’ apparve co’ ‘ na lumera in mano, come angelo del giudizio universale, dentro la mia cella. “Le onze, le onze delle bolle!” tuonò. Saltai dal pagliericcio, mi prostrai ginocchioni: “Me le rubarono, me le rubarono, signor padre guardiano!” “Rubarono?! Ma le bolle, quelle, son proprio contro i ladri!” “Forse eran false, padre, prive di benedizione…” “Taci, blasfemo, disgraziato… Sei in peccato! Ma io ti mando oggi stesso in un convento di stretta osservanza, a Gibilmanna!” “A Gibilmanna no, no…” implorai. “Obbedienza!” tuonò, e disparì, lasciandomi prostrato nel bujo e nel terrore. Scappai la notte stessa dal convento, corsi diritto dalle donne. Che m’ accolsero fredde, contrariate, e la matrazza a dire: “E mo, mastr’ Isidoro, con quella miseria, quelle quattr’ onze, dove volete portare Rosalia? La figlia mia ch’ è giglio, regina, che figlia pare del principe di Butera o Resuttana…” “Lavorerò, lavorerò, farò qualsiasi cosa…” Si smorfiarono come a dire che col lavoro onesto mai avrei potuto giugnere ad avere quello che meritava Rosalia. La mattina, appena l’ alba, rasato della barba, berretta a milza e braghe di fustagno, fui al porto della Cala. E i facchini tutti mi guatarono e mi tennero subito in sospetto, così nuovo e lustro, così foresto. Foresto e imminchionito, in quella pampillonia, in quel bailamme della Cala: omini muli scecchi carri birocci carretti carriole carichi di sacchi barili barilotti càscie gistre panari di zolfi carboni còiri tele sete cere merce d’ ogni tipo che caricavano e scaricavano dai velieri. Fra merda e fango e fumi di fritture di panelle, mèuse, arrosti di stigliole, e voci, urla, bestemmie, Dio sia lodato!, e sciarre di pugni e sfide di coltelli. Ero nell’ inferno. E per giorni, impaurito, cacciai mosche, e le notti dormii in dentro il fondaco coi facchini. Finchè, a poco a poco, non divenni come loro. Finchè non mi capitò quell’ accianza d’ oro, quel miracolo che mi fece San Francesco, del cavaliere Clerici che sbarca alla Cala dal pacchetto Aurora. Alto, nobile, con un mantello colore della perla, occhialini in sul naso che mandavan bagliori per il sole, scarpini con fibbie lucide d’ argento, e pieno di bauli, di ceste, di saccocce. Ero là impalato sullo scaricatoio a contemplare a bocca aperta, con gli altri attorno che facevan ressa, quando quel signore guarda e poi indica me con la punta del suo bastoncino. M’ appresso incitrullito e quegli m’ ordina: “Prego, far venire qui carrozza a nolo”. Corro e ritorno con ‘ na carrozza tirata da due cavalli magri, piagati, con un cocchiere a cassetta vecchio centenario che parea dormiente, svanito. Carico svelto la roba, aiuto a far salire il cavaliere e monto dietro. “Prego”, dice il cavaliere “alla locanda di madama di Montaigne”. Il cocchiere schioccò pigro la zotta e i cavalli mossero, con le loro mosche sulle piaghe, coi loro finimenti logori, col suono sordo delle lor cianciàne. Alla locanda, scaricati i bagagli, licenziata la carrozza, il cavaliere mi chiese s’ ero pratico di strade, di viaggi, se tenevo coraggio, se potevo accompagnarlo per il Vallo di Mazara, assentarmi da Palermo per un mese e passa, chè mi avrebbe ben ricompensato. Non credetti alle mie orecchie, dissi: “Eccellenza sì, Eccellenza sì, come Vostra Eccellenza mi comanda”. Sorrise, e m’ ordinò allora di trovarmi all’ indomani alla locanda. Tornato dal viaggio, da luoghi antichi col nome di Segesta, Erice, Lilibeo, Cusa, Selinunte, davanti a’ quali il cavaliere Clerici, rapito, disegnava e tinteggiava, empiva fogli a non finire, lasciato don Fabrizio alla locanda, il mio primo pensiero – pensiero che non mi lascin mai un momento, notte e giorno, per tutto il tempo del viaggio – fu d’ andare a riabbracciare Rosalia. Col presente ch’ accattai a Trapani, pegno d’ amore e impegno per le nozze: gorgiera di corallo, color delle sue labbra, e uguali due pendenti come gocce di zibibbo. Tòc, tòc, tòc, e s’ affaccia un brutto boja, ‘ na faccia consolante de la Vicarìa. “Chi fu, chi vulite?” “La gna Cristina Insàlico, vedova Guarnaccia…”. “Mai, vi sbagliaste” “Ma come? E la figliola sua, Rosalia…” “Ohu! Vi dissi: mai sentite ‘ ste femmine che dite. Quest’ è casa onorata. Ite, vah, girate in largo” e fece un par d’ occhiacci. Tutti poi là nella strada a dire no, che non sapevano, sconoscevano, mai viste o sentite codeste cristiane. Mi parvi preso da’ turchi, da’ corsari, rapito in un sogno angustiante. Girai per vichi, per strade, per piazze, del Borgo, della Kalsa. Ricorsi infine alla locanda, a sfogarmi col buono don Fabrizio, che già sapeva, per le volte che la contai nel viaggio, la storia mia, la passione ardente per quella Rosalia. Non c’ era. Mi dissero i valletti ch’ era andato in San Lorenzo. Corsi a quell’ oratorio nella strada Immacolata, proprio dietro la chiesa del convento mio. Entrai: mi parve d’ entrare in paradiso. ;-4TORNO torno alle pareti, in cielo, sull’ altare, eran stucchi finemente modellati, fasce, riquadri, statue, cornici, d’ un color bianchissimo di latte, e qua e là incastri d’ oro zecchino stralucente, festoni, cartigli, fiori e fogliame, cornucopie, fiamme, conchiglie, croci, raggiere, pennacchi, nappe, cordoncini… Eran nicchie con scene della vita dei Santi Lorenzo e Francesco, e angioli gioiosi, infanti ignudi e tondi, che caracollavan su per nuvole, cortine a cascate, a volute, a torciglioni. Ma più grandi e più evidenti eran statue di donne che venivano innanti sopra mensolette, dame vaghissime, nobili signore, in positure di grazia o imperiose. Ero abbagliato, anche per un raggio di sole che, da una finestra, colpendo la gran ninfa di cristallo, venia ad investirmi sulla faccia. Fu allora che mi sentii chiamare: “Isidoro, Isidoro…”. Portai la mano a schermo sulla fronte e vidi presso l’ altare don Fabrizio in compagnia d’ un gentilomo. M’ appressai. “Quest’ è Isidoro”, disse don Fabrizio “il bravissimo giovine che m’ accompagnò per il viaggio”. E a me: “L’ eccellentissimo cavalier Serpotta, artefice di questa maraviglia” indicando con gesto largo tutta la cappella. Gli baciai la mano, e quel signore sorridea bonario, in gran parrucca bianca, giamberga, trine, bastone, spadino, cascata di catene e mostre d’ oro sopra il panciotto. “Don Fabrizio…” dissi implorante. Aspetta, Isidoro, finiamo di contemplare questo magnifico Caravaggio”. Mi ritrassi rispettoso e andai in giro in giro a rimirare ancora le plastiche divine. Davanti a una di quelle dame astanti, una fanciulla bellissima, una dia, m’ arrestai. VERITAS portava scritto sotto il piedistallo. Era scalza e ignude avea le gambe, su fino alle cosce piene, dove una tunichetta trasparente saliva e s’ aggruppava maliziosa al centro del suo ventre, e su velava un seno e l’ altro denudava, al pari delle spalle, delle braccia… Il viso era vago, beato, sorridente… Mi sentii strozzare il gargarozzo, confondere la testa, mancare i sentimenti. Aprii disperato le ganasce e lanciai un urlo bestiale. “Rosaliaaa…” urlai, e caddi a terra tramortito. Accorsero i due gentilomini, mi scossero, chiamarono. Rinvenni e balzai all’ impiedi, come un ossesso, un luponario. “Dov’ è, dov’ è, dov’ è quella bagascia traditora, quell’ infame?!” e indicavo la Verità al cavalier Serpotta. “E che ne saccio?” rispose quell’ artista “Venne un giorno da me per una posa, portata da un nobile signore…” “Ah, ah, ah!…” e escii fora dell’ oratorio, urlai senza posa sulla strada, pazzo, forsennato. Tutta la gente del vicolo si raccolse intorno, altra ne venne dal quartiere. Giunsero i frati del convento, il padre guardiano in testa. Sopraggiunsero infine i tre gendarmi. Il resto già sapete.

VINCENZO CONSOLO
La Repubblica edizione del 3 agosto 1984
retablorid

L’ignoto marinaio

Non c’è turista che viaggiando per la Sicilia – minimo che sia il suo interesse alle cose dell’arte – tra Palermo e Messina non si senta obbligato o desideroso di fermarsi a Cefalù: e dopo averne ammirato il Duomo e sostato nella piazza luminosa che lo inquadra, non imbocchi la stradetta di fronte e a destra per visitare, fatti pochi passi, il Museo di Mandralisca. Dove sono tante cose – libri, conchiglie e quadri – legati, per testamento del barone Enrico Mandralisca di Pirajno, al Comune di Cefalù: ma soprattutto vi è, splendidamente isolato, folgorante, quel ritratto virile che, tra quelli di Antonello da Messina che conosciamo, è forse il più vigoroso e certamente il più misterioso e inquietante.

E’un piccolo dipinto ad olio su tavola (misura 30 centimetri per 25), non firmato e non sicuramente databile (si presume sia stato eseguito intorno al 1470). Fu acquistato a Lipari, nella prima metà del secolo scorso, dal barone Mandralisca: e glielo vendette un farmacista che se lo teneva in bottega, e con effetti – è leggenda, ma del tutto verosimile – che potevano anch’essere fatali: per il ritratto, per noi che tanto lo amiamo. Pare che, turbata da quello sguardo fisso, persecutorio, ironico e beffardo, la figlia del farmacista l’abbia un giorno furiosamente sfregiato. La leggenda può essere vera, lo sfregio c’è di certo: ed è stato per due volte accettabilmente restaurato.
Lo sfregio – e ce lo insegna tanta letteratura napoletana, e soprattutto quel grande poeta che è Salvatore Di Giacomo – è un atto di esasperazione e di rivolta connaturato all’amore; ed è anche come un rito, violento e sanguinoso, per cui un rapporto d’amore assume uno stigma definitivo, un definitivo segno di possesso: e chi lo ha inferto non è meno «posseduto» di chi lo ha subito. La ragazza che ha sfregiato il ritratto di Antonello è possibile dunque si sia ribellata per amore, abbia voluto iscrivere un suo segno di possesso su quel volto ironico e beffardo. A meno che non si sia semplicemente ribellata – stupita – all’intelligenza da cui si sentiva scrutata ed irrisa.

Proveniente dall’isola di Lipari, quasi che in un’isola soltanto ci fossero dei marinai, all’ignoto del ritratto fu data qualifica di marinaio: «ritratto dell’ignoto marinaio». Ma altre ipotesi furono avanzate: che doveva essere un barone, e comunque un personaggio facoltoso, poiché era ancora lontano il tempo dei temi «di genere» (il che non esclude fosse un marinaio facoltoso: armatore e capitano di vascello); o che si trattasse di un autoritratto, lasciato ai familiari in Sicilia al momento della partenza per il Nord. Ipotesi, questa, ricca di suggestione: perché, se da quando esiste la fotografia i siciliani usano prima di emigrare farsi fotografare e consegnare ai familiari che restano l’immagine di come sono al momento di lasciarli, Antonello non può aver sentito un impulso simile e, sommamente portato al ritratto com’era, farsene da sé uno e lasciarlo?

Comunque, una tradizione si è stabilita a denominare il ritratto come dell’ignoto marinaio: e da questa denominazione, a inventarne la ragione e il senso, muove il racconto di Vincenzo Consolo che s’intitola Il sorriso dell’ignoto marinaio. Ma la ragione e il senso del racconto non stanno nella felice fantasia filologica e fisionomica da cui prende avvio e che come una frase musicale, più o meno in sottofondo, ritorna e svaria. La vera ragione, il senso profondo del racconto, direi che stanno – a volerli approssimativamente chiudere in una formula – nella ricerca di un riscatto a una cultura, quale quella siciliana, splendidamente isolata nelle sovrastrutture, nei vertici: così come quelle cime di montagne, nitide nell’azzurro, splendide di sole, che dominano paesaggi di nebbia.

Ma prima di parlare del libro, qualcosa bisogna dire del suo autore. Siciliano di Sant’Agata Militello, paese a metà strada tra Palermo e Messina (sul mare, Lipari di fronte, i monti Peloritani alle spalle), Consolo – tranne gli anni dell’università e quelli del recente trasferimento, passati a Milano – è vissuto nel suo paese e muovendosi, per conoscerli profondamente nella vita, nel modo di essere, nel dialetto, nei paesi a monte del suo, nell’interno: che sono paesi lombardi, della «Lombardia siciliana» di Vittorini – sorti cioè dalle antiche migrazioni di popolazioni dette genericamente lombarde. Solo che Consolo, a misura di come li conosce, oltre che per temperamento e formazione, è ben lontano dal mitizzarli e favoleggiarne, come invece Vittorini in Conversazione in Sicilia e più – non conclusa apoteosi – ne Le città del mondo. Quel che più attrae Consolo è, di questi paesi, forse l’impasto dialettale, la fonda espressività che è propria alle aree linguistiche ristrette, le lunghe e folte e intricate radici di uno sparuto rameggiare. Perché Consolo è scrittore che s’appartiene alla linea di Gadda (sempre tenendo presente che un Verga e un Brancati non sono lontani): ma naturalmente, non per quel volontaristico arteficiato gaddismo – che peraltro ambisce a riconoscersi più in Joyce che in Gadda – che ha prodotto in Italia (e forse, senza Gadda, anche altrove) libri senza lettori e testi, proprio dal punto linguistico, di assoluta gratuità e improbabilità.

Altro elemento da tenere in conto, è quella specie di esitante sodalizio che Consolo ha intrattenuto per anni con Lucio Piccolo. E qui bisognerebbe parlare di questo straordinario e poco conosciuto poeta siciliano: ma rimandiamo il lettore ad altro nostro scritto, pubblicato nel volume La corda pazza.

Tutto, in come è Consolo e in com’era Piccolo, li destinava a respingersi reciprocamente l’età, l’estrazione sociale, la rabbia civile dell’uno e la suprema indifferenza dell’altro; eppure si era stabilita tra loro una inconfessata simpatia, una solidarietà apparentemente svagata ma in effetti attenta e premurosa, una bizzarra e bizzosa affezione. Il fatto è che tra loro c’era una segreta, sottile affinità: la sconfinata facoltà visionaria di entrambi, la capacità di fare esplodere, attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia. Che poi lo strumento avesse la peculiarità della classe cui ciascuno apparteneva – di «degnificazione» per Piccolo, di «indegnificazione» per Consolo – non toglie che si trovassero, ai due estremi del barocco, vicini. (Il termine «degnificazione» lo si usa qui nel senso di Pedro Salinas quando parla di Jorge Guillén: e quindi anche il suo opposto, «indegnificazione»).
Il primo libro di Consolo, La ferita dell’aprile, pubblicato nel 1963 e ora ristampato da Einaudi, non ricordo abbia suscitato allora attenzione né ho seguito quel che ora, dopo Il sorriso dell’ignoto marinaio, ne hanno detto i critici: probabilmente, chi allora l’ha letto ha avuto qualche perplessità a classificarlo tra i neorealisti in via d’estinzione; e chi l’ha letto ora, difficilmente riuscirà a trattarlo come un libro scritto prima. Il che è ingiusto, ma tutto sommato meglio che l’intrupparlo tra i neorealisti.
Tra il primo e il secondo son corsi bel tredici anni (e speriamo non ci faccia aspettare tanto per il terzo): ma c’è tra l’uno e l’altro un preciso, continuo, coerente rapporto; un processo di sviluppo e di arricchimento che è arrivato alla piena, consapevolmente piene, padronanza del mezzo espressivo (e dunque del mondo da esprimere).
Anni, dunque, passati non invano, ma intensamente e fervidamente: a pensare questo libro, a scriverlo, a costruirlo; in margine, si capisce, ad altro lavoro, anche giornalistico (di cui restano memorabili cose: non ultimi gli scritti sul Gattopardo e su Lucio Piccolo).
A costruire questo libro, si è detto. E lo ribadisco polemicamente, per aver sentito qualcuno dire, negativamente, che è un libro costruito. Certo che lo è: ed è impensabile i buoni libri non lo siano (senza dire dei grandi), come è impensabile non lo sia una casa. L’abitabilità di un libro dipende da questo semplice e indispensabile fatto: che sia costruito e – appunto – a regola di abitabilità. I libri inabitabili, cioè i libri senza lettori, sono quelli non costruiti; e oggi sono proprio tanti.
Un libro ben costruito, dunque, questo di Consolo: con dei fatti dentro che sono per il protagonista «cose viste», e «cose viste» che quasi naturalmente assumono qualità, taglio e luce di pittura ma che non si fermano lì, alla pittura: provocano un interno sommovimento, in colui che vede, una inquietudine, un travaglio; sicché infine Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, descrittore e classificatore di molluschi terrestri e fluviali, si ritrova dalla parte dei contadini che hanno massacrato i baroni come lui. E facilmente viene da pensare – almeno a me che so del rapporto che legava Consolo al barone Lucio Piccolo di Calanovella, che ho letto tutto ciò che Consolo ha scritto di questo difficile e affascinante rapporto – che nel personaggio del barone di Mandralisca lo scrittore abbia messo quel che mancava all’altro barone da lui conosciuto e frequentato, a quell’uomo che aveva «letto tutti i libri» e soltanto due, esilissimi e preziosi, ne ha scritti di versi: la coscienza della realtà siciliana. Il dolore e la rabbia di una condizione umana tra le più immobili che si conoscano.
 «Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change».

Leonardo Sciascia

brano tratto da “Cruciverba” einaudiana collana “Gli struzzi” 1983




Il sorriso dell’ignoto marinaio.



Antonel di Sicilia, uom così chiaro…
 (G. Santi: Cronica rimata)

In ricordo del cavaliere Lucio Piccolo di Calanovella
autore dei Canti Barocchi.


E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci. Il bastimento aveva smesso di rullare man mano che si inoltrava dentro il golfo. Nel canale, tra Tindari e Vulcano, le onde sollevate dal vento di scirocco l’avevano squassato d’ogni parte. Per tutta la notte il Mandralisca, in piedi vicino alla murata di prora, non aveva sentito che fragore d’acque, cigolii, vele sterzate e un rantolo che si avvicinava e allontanava a seconda del vento. E ora che il bastimento avanzava, dritto e silenzioso dentro il golfo, su un mare placato e come torpido, udiva netto il rantolo, lungo e uguale, sorgere dal buio, dietro le sue spalle. Un respiro penoso che si staccava da polmoni rigidi, contratti, con raschi e strappi risaliva la canna del collo e assieme a un lieve lamento usciva da una bocca che s’indovinava spalancata. Alla fioca luce della lanterna, il Mandralisca scorse un luccichio bianco che forse poteva essere di occhi. Riguardò la volta del cielo con le stelle, l’isola grande di fronte, i fani sopra le torri. Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollono i lor merli di cinque canne sugli scogli, sui quali infrangonsi di tramontana i venti e i marosi. Erano del Calavà e Calanovella, del Lauro e Gioiosa, del Brolo… Al castello de’ Lancia, sul verone, madonna Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce. Federico confida al suo falcone
 
 O Deo, come fui matto
quando mi dipartivi
la ov’era stato in tanta dignitade
E si caro l’accatto
 e squaglio come nivi…

Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli olivi giacevano città. Erano Abacena e Agatiro, Alunzio, Apollonia e Calacte, Alesa… Città nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni, fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni. E strinse al petto la tavoletta avvolta nella tela cerata che s’era portata da Lipari, ne tastò con le dita la realtà e la consistenza, ne aspirò i sottili odori di can- fora, ricino e di senape di cui s’era impregnata dopo tanti anni nella bottega dello speziale.

 Ma questi odori vennero subito sopraffatti d’altri che galoppanti, sopra lo scirocco, veniva da terra, cupi e forti, d’agliastro, di fico, di nepitella. Con essi, grida e frullio di gabbiani. Un chiarore grande, a ventaglio, saliva dalla profondità del mare: svanirono le stelle, i fani sulle torri impallidirono. Il rantolo s’era cangiato in tosse, secca, ostinata. Il Mandralisca vide allora, al chiarore livido dell’alba, un uomo nudo, scuro e asciutto come un ulivo, le braccia aperte aggrappate a un pennone, che si tendeva ad arco, arrovesciando la testa, e cercava d’allargare il torace spigato per liberarsi come di un grumo che gli rodeva il petto. Una donna gli asciugava la fronte, il collo. S’accorse della presenza del galantuomo, si tolse lo scialletto e lo cinse ai fianchi del malato. L’uomo ebbe l’ultimo terribile squasso di tosse e subito corse verso la murata. Torno bianco, gli occhi dilatati e fissi, e si premeva uno straccio sulla bocca. La moglie l’aiutò a stendersi per terra, tra i cordami.

– Male di pietre – disse una voce quasi dentro l’orecchio del barone. Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero nelle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaro: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vivuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e a le vicende loro. E, soprattutto, avvertivasi in colui la grande dignità di un signore.

 – Male di pietra – continuò il marinaio – E’ un cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola. Non arrivano neanche ai quarant’anni. I medici non sanno che farci e loro vengono a chiedere il miracolo alla Madonna negra qui del Tindari. Lo speziale li cura con senapismi e infusi e ci s’ingrassa. I medici li squartano dopo morti e si danno a studiare quei polmoni bianchi e duri come pietra sui quali ci possono molare i loro coltellini. Che cercano? Pietra è, polvere di pomice. Non capiscono che tutto sta a non fargliela ingoiare. E qui sorrise, amaro e subito ironico. scorgendo stupore e pena sul volto del barone. Il quale, pur seguendo il discorso del marinaio, da un pò di tempo si chiedeva dove mai aveva visto l’uomo e quando. Ne era certo, non era la prima volta che l’incontrava, ci avrebbe scommesso il fondo di Colombo o il cratere del Venditore di Tonno della sua raccolta. Ma dove l’aveva visto? Ma sotto lo sguardo dell’uomo, acuto e scrutatore, ritornò con la mente al cavatore. Al di là di Canneto, verso il ponente, s’erge dal mare un monte bianco, abbagliante, che chiamasi Pelato. Quivi copiosa schiera d’uomini, brulichio nero di tarantole e scarafaggi, sotto un sole di foco che pare di Marocco, gratta la pietra porosa coi picconi; curva sotto le ceste esce da buche, da grotte, gallerie; scivola sopra pontili esili di tavole che s’allungano nel mare fino ai velieri. Sotto queste immagini il Mandralisca cercava di nascondere, di rimandare indietro altre che in quel momento (frecce di volatili nel cielo di tempesta migranti verso l’Africa, verdi conchiglie segnanti sulla Le ora pietra strie d’argento, alte flessuose palme schiudenti le vulve delle spate con le bianche pasquali infiorescenze…), chissà per quale associazione o contrappunto, premevano per affiorare in primo piano. E quindi si presentarono, con disappunto del barone, davanti a quell’uomo indagatore e giudice, ordinate nei loro volumi, con titolo e stamperia e anno d’edizione, gli studi di cui il barone, in altri momenti, intimamente si compiaceva, con un certo orgoglio, con una certa soddisfazione, studi che gli avevano aperto le porte delle più importanti Accademie del Regno: ” Catalogo degli uccelli che si trovano stazionari o di passaggio nelle isole Eolie”, ” Catalogo dei molluschi terrestri e fluviali delle Madonie e luoghi adiacenti”, ” Catalogo e fecondazione delle palme”. . Il marinaio lesse, e sorrise, con ironica commiserazione.

Venne da poppa un vociare e lo sferragliare della catena dell’ancora che si srotolava e sprofondava nell’acqua Il bastimento era giunto a Oliveri, sotto la rocca del Tindari. Il marinaio lasciò il barone e si avviò con passo lesto verso il trinchetto. Il sole raggiante sopra la linea dell’orizzonte illuminava la rocca prominente, -col santuario in cima, a picco sopra la grande distesa di acque e di terra. Era, questa spiaggia, un ricamo di ori e di smalti. In lingue sinuose, in cerchi, in ghirigori, la rena gialla creava bacini, canali, laghi, insenature. Le acque contenevano tutti gli azzurri i verdi. Vi crescevano canne e muschi, vischiosi filamenti; vi nuotavano grassi pesci, vi sorvolavano pigri aironi e lenti gabbiani. Luceva sulla rena la madreperla di mitili e conchiglie e il bianco d’asterie calcinate. Piccole barche, dagli alberi senza vela, immobili sopra le acque stagne, fra le dune, sembravano relitti di maree. Un’aria spessa, umida, con lo scirocco fermo, visibile per certe nuvole basse, sottili e sfilacciate, gravava sopra la spiaggia.  

Qual cosmico evento, qual terribile tremuoto avea precipitato a mare la sommità eccelsa della rocca e, con essa, l’antica città che sopra vi giaceva? Oh i tresori dispersi sotto quelle acque verdi e quella rena, le erbe sconosciute affatto, le impensate vegetazioni, le incrostature che coprivano le bianche levigate braccia, i femori di veneri e dioscuri. Ora, sopra la rocca, sull’orlo del precipizio, il piccolo santuario custodiva la nigra Bizantina, la Vergine formosa, chiusa nel perfetto triangolo del manto splendente di granati, di perle, d’acquemarine; l’impassibile
Regina, la muta Sibilla, libico èbano, dall’unico gesto della mano che stringe il gambo dello scettro, l’argento di tre gigli.

 – Fatti i cazzi tuoi! – intimò a Rosario il Mandralisca. II criato era appena giunto, con un velo di sonno che ancora gli svolazzava sulla testa, e pregava il padrone che andasse a riposare.

 – Ma, Eccellenza, sono cose da cristiani queste, passare la nottata all’impiedi, fuori, con quel pezzo di legno sempre attaccato al petto come un nutrico?

– Sasà, lo so io quello che porto qua. Se tu vuoi continuare a ronfare, ronfa, da quell’animale che sei.

– Dormire, Eccellenza? Manco un occhio chiusi, Dio mi fulmini. Buttai a mare fino all’ultima quelle quattro ranfie d’aragosta che ieri sera mi succhiai.

 * E tutta polpa dentro la corazza che quelle quattro ranfie facevano camminare, Sasà, affogata in un mare di salsa di capperi.

 – Eccellenza si, squisita. Che peccato.
 – E non parliamo di come l’innaffiasti.
 – Eccellenza sì giulebbo. Ma dicevo… –
 – Sasà, capimmo. Torna a dormire.
 – Eccellenza sì. 

L’ignoto marinaio, ritto sopra la coffa, soffiò nel tritone per tre volte e il suono, urtando sulla rocca, ritornò per tre volte al veliero. Si levò dalla spiaggia uno stormo di cornacchie di gabbiani, dalla rupe calarono i corvi e i rondoni. Si staccò un barcone a quattro remi dalla riva d’Olivèri. Dagli angoli dei ponti, dalle stive, sbucarono a gruppi i pellegrini. Erano donne scalze, per voto, scarmigliate; vecchie con panari e fiscelle e bimbi sulle braccia; uomini carichi di sacchi barilotti damigiane. Portavano vino di Pianoconte, malvasia di Canneto, ricotte di Vulcano, frumento di Salina, capperi d’Acquacalda e Quattropiani. E tutti poi, alti nelle mani, reggevano teste gambe toraci mammelle organi segreti, con qua e là crescenze gonfiori incrinature, dipinti di blu o nero, i mali che quelle membra di cera rosa, carnicina, deturpavano. Il cavatore di pomice indossava ora, sopra la pelle, lo scapolare di lana di capra, col cappuccio, e in mano teneva un cero grosso, alto quanto lui. Alla moglie la nuca pendevano sul petto, legate al laccio che le segava il collo, due forme a pera, lucide d’olio spalmato, di caciocavallo.

Il barcone toccò il fasciame del veliero e i pellegrini, con voci, con richiami, s’ammassarono alla scala per sbarcare.

 Per la strada a serpentina sopra la rocca, che d’Olivèri portava al santuario, si snodava la processione degli altri pellegrini che dalle campagne e dai paesi del Val Dèmone giungevano al Tindari per la festa di settembre. Cantavano, salendo, un canto incomprensibile, che dalla testa rimbalzava alla coda della schiera, s’incrociava nel mezzo, s’aggrovigliava. Ma poi divenne, come amalgamato, dopo tante prove e tanti giri, un canto chiaro, forte, che cresceva in sè, si gonfiava, man mano che la processione avanzava e ‘avvicinava al santuario.

 Una fanciulla bella, dai capelli corvini e gli occhi verdi, accesi, già seduta con gli altri dentro il barcone, all’eco dei quel canto, s’alzò in piedi e, dimenandosi, intonò un suo canto: un canto osceno, turpe, che i coatti, lì a Lipari, cantavano la sera, aggrappati alle inferriate del castello. La madre per fermarla, per tapparle la bocca con la mano, si lasciò sfuggire in acqua una testa di cera. Che galleggiò, con la sua fronte pura, e poi s’inabissò.

IL BARONE ENRICO PIRAINO DI MANDRALISCA
E LA BARONESSA SUA MOGLIE
LA PREGANO DI ONORARLI DI SUA PRESENZA
LA SERA DEL 27 OTTOBRE 1852 NELLA LORO CASA DI CITTÁ PER GODERE LA VISIONE
DI UNA NUOVA OPERA UNITASI ALLA LORO COLLEZIONE
 E SI DANNO L’ONORE DI RASSEGNARSI

  Dopo il giro in paese, dopo aver per tutta la mattinata salito e disceso scale e scaloni, con quest’ultimo foglio nella mano guantata di bianco, Sasà era dovuto arrivare fino a Castelluccio: attraversando la collina di Santa Barbara, scendendo nel vallone Sant’Oliva, risalendo, con piccole corse qua e là, con aggiramenti, per scansare cani che dietro gli latravano, per ritrovare il passo tra recinti di ginestre e rovi, invocando mali maligni dritti al cuore, al cervello del conte di Baucina, che, ancora di questa stagione, conclusa la vendemmia, già tutti gli altri in paese, se ne stava la, arroccato tra le pietre di Castelluccio.

 Tornando, passò da Quattroventi. I mulini gemevano e macinavano il frumento che una fila d’asini, attaccata agli anelli di ferro, avevano trasportato la mattina. Sui mucchi di sterco, tra i garretti, ruspavano galline, sciamavano nugoli di mosche iridescenti. Vespe e zanzare ronzavano ubriache sopra i rigagnoli di mosto dei palmenti. I terrazzani, uscendo dal fondaco, a bocca aperta guardarono Sasà, tutto sgargiante nella sua livrea. A porta di Terra, davanti la forgia, il maniscalco bruciava l’unghia d’un mulo e il puzzo di carogna appestava l’aria. Sconturbato, Sasa scese per corso Ruggero. In questo stretto budello venne assalito dai pescivendoli. Le spalle e un piede al muro, con accanto le sporte, lo assordarono con richiami, con, insulti, con imbonimenti. Uno lo inseguì e gli mise sotto il naso un cefalo sfatto chiuso in una manciata d’alghe sgocciolanti. – Fatt’è è la spesa, la spesa è fatta – gli disse Sasà allontanandogli il braccio con l’indice bianco. Era stanco Sasà, nauseato, ma soprattutto era seccato per le pensate bizzarre del barone.

 – Beato te, beato te, Sasà! La barca all’asciutto l’hai – disse una voce cupa, cavernosa, che sbucava da sotto terra, quando i piedi piatti dentro gli scarpini e i grossi polpacci fasciati di bianco sfilarono davanti alle finestrelle con grate e inferriate a livello della strada, sotto l’Osterio Magno.

 – Voi, all’asciutto, oh!, senza pensieri, senza combattimenti – rispose ai carcerati Sasà inviperito. Una scarica sonora di scorregge lo investi alle spalle come una fucileria. Presso la spezieria, per non dare in pasto a quella tana di curiosi e malelingue la sua furia e il suo abbattimento, raccolse la pancia e la riporto sotto il freno della cinghia, strinse all’altro il labbro inferiore ch’era pendulo e diede una tiratina di redini allo sguardo per puntarlo dritto e sostenuto nella prospettiva della strada. Sbucato in al piano Duomo, alla vista di quello spazio aperto e quella luce, sospirò. Non poté fare a meno di fermarsi alla potia per chiedere a Pasquale un goccio d’acqua con una spruzzatina di zammù. Si lasciò cadere sulla sedia, appoggiò le braccia sopra buffetta e fece: – Aaahhh.

– Stanco, Sasà? – fu domanda di Pasquale. Con l’amico diede libero sfogo al suo mugugno.

– Come se fosse battesimo, che dico? sposalizio. Fare una festa per un pezzo di sportello di stipo comprato a Lipari dallo speziale, pittato, dice lui, da uno che si chiamava ‘Ntonello, di Messina.

– Messinese? Quando mai hanno saputo fare cose buone i messinesi, cataplasmi come sono ? Che va cercando il barone? Questi son capidopera, Sasà, – e Pasquale indicò con gesto largo il duomo lì di fronte – il nostro potente patrono sopra l’altare, il Santissimo Salvatore, tutto oro e pietre rare, fatto da noi, dai cefalutani! 

 Le ombre delle chiome delle palme cadevano a piombo sul selciato facendo corona attorno ai tronchi. Uscì dalla Porta dei Re, venne fuori dal portico, scese l’alta gradinata con in cima i vescovi di calce, batté col bastone la bocca digrignata del leone di pietra sotto la vasca della fontana secca, l’organista cieco. Da dietro le bifore delle due torri del duomo si videro oscillare le campane: vibrando nell’aria ferma, come gli archi a zig-zag che correvano intrecciandosi lungo la facciata, il tocco di mezzogiorno si propagò per porta Giudecca fino alla Caldura, per la salita Saraceni fino alla prima balza della rocca, per la porta Piscarìa fino alle barche ferme dentro il porto, fino a Santa Lucia.

Il salone del barone Mandralisca aveva quasi, ormai, l’aspetto d’un museo. I monetari d’ebano e avorio, i comò Luigi sedici, i canapé e le poltrone di velluto controtagliato, i tondi intarsiati, i medaglioni del Malvica, tutto era stato rimosso e piano ammassato nell’ingresso e nella studio, lasciando sopra la seta delle pareti i segni chiari del loro lungo soggiorno in quel salone. Restavano solo le consolle coi piani di peluche che sostenevano vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianchi, i turchesi e rosa della Cocincina. E porcellane di Sassonia e Meissen menne, le frutta d’alabastro, fagiani chiocce gallinacci di Jacob-petit, orologi di bronzo dorato e fiori di cera sotto campane di vetro.

 Gl’invitati se ne stavano all’impiedi, tranne le anziane dame che occupavano, sotto il gonfiore delle crinoline, le poche sedie e il pouf al centro del salone. Le signorine e i giovanotti facevano cerchio attorno al pianoforte dove la baronessa Maria Francesca accompagnava i gorgheggi della nipote Annetta.

 (.,,) Salvatore Spinuzza, che ancora portava sulla fronte e ai polsi i segni delle torture della polizia di Ferdinando, se ne stava in disparte, le braccia incrociate sul petto, gli occhi celesti e il pizzetto biondo puntati in alto, muto e fiero, con ai lati, come Cosma e Damiano, i due fratelli Botta. Lo ignoravano tutti, lo scansavano, tranne i padroni di casa, i loro parenti Agnello e il barone Bordonaro. Tranne Giovanna Oddo. Il duca d’Alberi teneva banco, con la sua voce di petto, tra le dame e i cavalieri più nobili della nobile mastra di Cefalù. Parlava dei turbatori dell’ordine, di giovani con fisime e vessìche in testa, pericolosi nemici di Sua Maestà il Re (Dioguardi) e della Santa Religione. Il signor Luogotenente, il buon principe di Satriano, troppo buono era, magnanimo, a perdere tempo e onze con arresti e con processi (santo diavolone!, non era bastato il quarantotto?): subito, subito la forca ci voleva. Giovanna Oddo si volse verso lo Spinuzza, con sguardo supplichevole, accorato. Totò si scompose, s’appoggiò sull’altra gamba, riportò al suo posto con un colpo di testa il ciuffo biondo caduto sopra la fronte, ricambiò lo sguardo. Accennò appena a un sorriso. Giovanna stava piangendo come fosse già, Madonna!, davanti a quel corpo amato pendente dalla trave come un canavaccio.

 – Stupida! – le sussurrò la madre stringendole il gomito con tutta la sua forza – Scriteriata. Vai sul balcone, va’, asciuti quegli occhi. A casa faremo i conti.

– Ah, che mali acquisti fanno ‘ste povere fanciulle d’oggi-giorno! – sentenzio il duca, come continuando il suo discorso. Donna Salvina Oddo emise un sospirone.

– Complimenti, duca, per il vostro monumento – disse subito per sviare l’argomento. Il duca, lusingato, passò alla descrizione della fastosa tomba che s’era fatto costruire nella cappella di S. Michele Arcangelo.

 – Non vi dico quanto m’è costata. Tutta marmi policromi, sullo stile del Pampillònia a Gibilmanna. Il mezzo busto, lo stemma e in più la dicitura… ANTE DECESSUM, TUMULUM CUM CARMINE, la data, POSUI, HIC CONDAR CINERES, HAEC CONTEGET URNA SACELLO… eccetera -.

Sette salme le piantai a manna – diceva forte, intanto, il conte di Baucina al vecchio e sordo cavaliere Invidiato – Dieci salme le scassai pel vigneto…  

— Ih, come siete funereo con tutte queste salme! – l’apostrofò il duca d’Alberì. E subito tornò alla signora Oddo.

– Una bella cerimonia veramente. Una festa intima, religiosa. Il solo parentado, la confraternita dei Trentatre e l’intervento dell’Abate mitrato per la benedizione e il discorso.

Venne il momento della visita al museo. Guidati dal barone, fecero il giro della quadreria disposta in doppia fila alle pareti. Sentirono distratti elogiare la luce dell’Alba a Cefalù del Bevelacqua, l’espressione intensa della Sant’Anna del No-velli, la sapienza prospettica dell’Ultima Cena di Pietro Ruzzolone, dove le figure erano così tonde e grosse che sembrava quella si un’ultima cena, ma il cui inizio non si conosceva, con portate continue di maccheroni al sugo. E così avanti, per le tavole bizantine, per ignoti siciliani, per i viventi, fino a quello della giovane che offre alle labbra di un vecchio rinsecchito il capezzolo d’una mammella bianca che sbuca dallo scuro in piena luce.

– Vengo, mamma – disse la signorina Micciché, come avesse inteso d’essere chiamata per questione urgente. E si staccò dal gruppo, assieme alla Barranco, alla Pernice e a quella vezzosetta della Coco.

 – Madonna, che caldo, andiamo sul balcone -, – Gesù, dove ho lasciato il guanto? — fecero le altre, man mano che ci s’avvicinava alle vetrine dei vasi greci.

Oltre al venditore di tonno, oltre a matrone languide, sdraiate, con ancelle attorno che l’aiutavano a fare toilette, i vasi neri mostravano fauni impudichi, sporcaccioni, che abbrancavano per la vita, per le reni ninfe sgambettanti per portarsele, poverette, chissà dove; altre scene di fughe e rapimenti, altre di ragazze estatiche davanti a giovani inghirlandati e con bordoni in mano di cui non si capivano le intenzioni. Gli uomini si davano gomitate, ammiccamenti, azzardavano sottovoce interpretazioni, mentre il barone li informava sull’epoca e sul luogo della loro provenienza. Alle vetrine, alle teche delle lucerne e delle monete, dove il barone si lasciò andare a una sequela infinita di date, di luoghi, di simboli, valori, quei quattro o cinque che appresso gli restarono, per troppa stima o estrema cortesia, afferrarono qualcosa come Mozia Panormo Lipara Litra Nummo Decadramma.

Entrarono i camerieri con vassoi ricolmi di brioches con burro e mosciamà, biscotti col sèsano, paste di Santa Caterina, buccellati, preferiti coi chiodi di garofano, nucàtoli. Sasà guidava come un capitano, con cenni degli occhi e della mano, grattandosi con l’altra la parrucca che gli faceva prudere il testone, l’assalto ai vari gruppi d’invitati. Ma il suo vero nemico era la, in mezzo alla sala, coperto da un panno, posto sopra un leggio alto, con ai lati due moretti candelieri su colonnine attorcigliate. Sasà, passandovi davanti, lo guardava torvo. Ma le voci l’altri nemici, più vivi e più famelici, entrarono dai balconi aperti sulla strada. Come cani che avessero sentito il filo dell’odore dei dolci che per l’aria muoveva serpeggiando, sbucando dal cortile Gonzaga, dal vicolo Ferraresi, dal Siracusani, dal Monte di Pietà, i carusi sotto i balconi cominciarono a vociare:

– Sasà, Sasà, affacciati, Sasà!
E si misero a cantare:
Bivuta Martina, chiamata Luscia,
Cani canassa, scavassa larduta,
viva Cuccagna, la xoia la mia!

 -‘Sti vastàsi! – mormorò Sasà, e corse a chiudere i balconi.
Nu xù cucussa, la bernagualà
Buliu pigliata, sunata tambura,
Tubba, catubba, la nanina nà!

cantarono più forte dalla strada, ballando, battendo le mani, le pietre.

– Sasà, – ordinò la baronessa Maria Francesca – fai scendere Rosalia con un vassoio.  delle monete,

Mentre ancora gli invitati sorseggiavano cherry di Salaparuta e malvasia, il barone fece cenno a un cameriere d’accendere le sei candele dei moretti. S’accostò al leggio e, nel silenzio generale, tolse il panno che copriva il dipinto. Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della stupida giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba ispida di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza del dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa, o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini. Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi angolo essi si trovavano, con i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si senti come a disagio.

Da porta d’Ossùna, in quel momento, s’udiron venire colpi di schioppo e abbaiar di cani. Era la ronda che di questi tempi sparava la notte a ogni ombra che vagava fuori le mura. Lo Spinuzza sentì un brivido salirgli per la schiena e si fece inquieto.

Nel silenzio che seguì a quegli spari, l’uomo sopra il leggio sembrava che avesse accentuato il suo sorriso. Il Mandralisca lo guardò e riguardò, aggiustandosi il pince-nez, lisciandosi la barba, come lo vedesse anche lui la prima volta. Si volse poi ai convitati e cominciò, con voce piana, come soprappensiero, gli occhi puntati sul pavimento di maiolica:

— Mi gode l’animo nello sperare, opino, sono in vero fortemente persuaso che trattasi d’opera di mano d’Antonello…

 Alzò di colpo lo sguardo, si batté la fronte con la mano ed
esclamò:

– Sasà, l’ignoto marinaio!

Sasà aprì le braccia ed atteggiò la faccia come davanti a uno che gli parlasse turco. Ci fu nel salone una gran risata. Il duca d’Alberi, staccandosi dal gruppo e avanzando solo verso il ritratto, tutto piatto dietro e la redingote aperta sul bombè che trionfalmente si portava davanti, con la sua voce acuta di cornetta chiese forte al Mandralisca:

– Barone, a chi ci ride quello? – indicando col dito il personaggio.

Ai pazzi allegri come voi e come me, agli imbecilli! – rispose il Mandralisca.

Vincenzo Consolo
pubblicato sulla rivista “Nuovi Argomenti”
1976

Nottetempo, casa per casa

Sì, che bisogna scappare, nascondersi. Che bisogna attendere, attendere fermi, immobili, pietrificati.

A cerchi, ad ellissi, avanzano, ad onde avvolgenti, nella notte isterica, le trombe stridule. II respiro, mòzzalo. Sfiorano
a parabola – lacera la curva le libre – declinano, a corno svaniscono, schiere di cherubini opachi («Toh, sfaccime, toh!.,.»), le bùccine d’acciaio, feroci.

Sul blu’ in diagonale, in vortice di dramma, le mani tra i capelli sulle guance, virano, cabrano, picchiano, occhi a fessura,

piccole animelle colombine, agli Scrovegni. Aggelati nel Giudizio, fermi nel cerchio d’oro della testa… << Per San Michele, tu dal nulla generi la colpa!».

E qui, in questa muffa d’angolo… Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con sirene lame della notte. Perchè il silenzio, la pausa ti morde.

Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. <<…La rabbia resa spietata da una

lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il tirnor di mancare a un’aspettativa generale…; il tirnor fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono state issate le colonne dell’infamia. Ma tu aspetta, fa’ piano. Deponi le mutrie, gli orpelli, i giochi insensati d’ogni giorno, lascia scolare nelle fogne la miseria, concentra la tua mente: sii uomo per un attimo.

Poggia il tuo piede qui, su questa tela, entra, fissa la scena: in questo spazio invaso dalla notte troverai i passaggi, le fughe. Esci, esci, se puoi, dalla maledizione della colpa, senti: il rantolo tremendo si snoda dal corpo in prospettiva, mantegnesco. L’uomo è caduto su punte di cristallo.

Mart! Cam t’affuoddi stumatin

Chi t’arcuogghi u garafu ‘ntra u sa giggh! (1)

Le buro-barecrazie innalzano poi barriere, muri, labirinti. E dalle pietre del forte, stella di terrore, il soave mattaccino murato vivo (hanno fermato il piede che disegna per l’aria libere buffe spirali) urla nella notte: <<.,,Questa  nostra lenta agonia che è già morte civile… ». E l’urlo rimbalza di casa in casa, per scaloni di porfido, cortine di damasco, su per ciscranne, podi, teche opalescenti.
«Che si laccia tacere!» gridano, alzando sulle teste manti, pluviali,

cappe, palandre d’ermellino.

Ma vi fu un tempo idillii. Tempo d’arie e d’acque, di erbe e d’animali, di baite romite, masi. Luce in ritmi, equilibri, scomposizioni, essenze: vuoto bianco e schiene di purezza, braccia. Cattedrali d’aria vagano per luci di granato, smeraldine, martire impalato e fraticello matto invetrati (…per sora acqua e frate sole…), illusioni a suoni flautati di canne gotiche e ghirigorì barocchi di fumi orientali. Tempo di tessere smaltate, di giochi bizantini, veloci impasti,

guizzicromie su fresche scialbature, segni, graffi su mollezze caglianti.

E tempo di maestri. Punto e linea, luce ferma. Oltre la greppia euclidea, fughe, profondità, aggetti.

Del chierico diafano non t’inganni la sua luce di febbre: il sacco copre croste, piaghe, sozzure, orgogli. Schizofrenia gli cela il flusso degli eventi, condizioni coatte. Estraneo alla dimora della famiglia dei polli.

ln stie sotterranee, tra fumi d’arsenico e scoli di cianuro, per il mio e il tuo, beccano il vuoto tondo dilatato ebete occhio, segano vene, tendini, polpe. In ciclo di crusca e sterco, crusca e sterco. Sfiora il tao ventre ora, dallo sterno al punto del cordone, con dita ferme: senti la stimma del tuo gastrosegato, la tacca per la fuga della bile. E qui, dove le fughe? In pesi squilibrati di colori, in dissonanze, chiusure dimensionali. In trittici distorti ti rifiuto la tua crusca e il mio sterco. A te, dalla razza degli angeli!

Ma all’estremo della notte, già le orde picchiano alle porte, sgangherano e scardinano con calci chiodati, lasciano croci di gesso su bussole e portelli.

Viene fuori l’eretico, prendetelo! Caricatelo di catene e mùffole, di torcia, di mitra e sambenito, stringetegli al collo la corda di ginestra.

E nell’immensa piazza, grida il capitano: «Vivo abrugiato, le sue ceneri al vento siano sparse ».

Vincenzo Consolo

(1) «Morte! Come t’affolli stamattina – A coglierti il garofano dal suo calice!».
postille al margine “nasce 1971 in Il sorriso pa,103-105 cap. VII-1976 modificato”
dal catalogo della mostra di Luciano Gussoni
Villa Reale di Monza 10 novembre – 30 novembre 1971


Barecrazie 71
Volo da una finestra 1°
Luciano Gussoni

CONVERSAZIONE CON SCIASCIA OVVERO IL VIZIO SEGRETO DI SCRIVERE… E LEGGERE

Un giorno d’inverno in libreria a Milano

di VINCENZO CONSOLO*
18 gennaio 1969

Ama molto camminare a piedi. Dal suo solito albergo vicino la stazione scendiamo verso il centro. Alla Libreria Internazionale Cavour facciamo il giro delle tre vetrine cariche di libri. Libri, libri. Ed essendo periodo di «strenne», vi sono vecchi titoli ristampati e riproposti in nuove e lussuose confezioni come fossero panettoni raffermi rinforzati, scatole di dolci scadenti in involucri preziosi e accattivanti. Libri sui vini, sulle automobili, sui fiori, guide gastronomiche, guide ai piaceri di Londra e di New York, guide al raggiungimento delle perfette intese sessuali. Proseguiamo per via Manzoni. Parliamo dello scrivere e del non scrivere.
«Che fai, lavori, Leonardo?».
«Vorrei scrivere tre o quattro cose ancora, prima di smettere (o di morire: ma spero di arrivare a smettere per avere il tempo di prepararmi a morire). Ma c’è qualcosa nell’aria che, si direbbe a Napoli, ti fa cadere la penna di mano; e in Sicilia specialmente. Scrivere è ora una lotta non solo con la realtà ma con me stesso. Forse il successo che i miei libri hanno avuto, mentre le condizioni della Sicilia peggiorano al punto che poco più è morte, ha creato in me uno stato d’animo che somiglia alla vergogna e al rimorso. Avendo concepito lo scrivere come azione, sconfitto nell’azione sento come una forma d’irrisione il successo in “letteratura”. Ma scrivere è la mia vocazione e il mio mestiere: e continuerò a scrivere anche se tutte le ragioni per cui ho scritto ora si rivoltano a non farmi scrivere». Alla Libreria Einaudi, in Galleria, il direttore Aldrovandi ci accoglie come vecchi amici. Ci chiede di Attilio. Attilio Mangano è un giovane siciliano di Palermo che, avendo fatto una interessante tesi su Vittorini, era stato chiamato da Einaudi e messo qui, in libreria, a fare il commesso. Un giorno – fui spettatore – entrarono nel negozio due ragazze e chiesero ad Attilio ventidue romanzi che fossero divertenti, un po’ «spinti» senza essere «eccitanti». Aiutai Attilio a scegliere i titoli. «Scusate. Per chi servono?».
«Per una squadra di calcio in ritiro. Gli undici giocatori e le riserve».
Attilio lasciò la libreria e tornò in Sicilia. Ora è di nuovo qui a Milano e insegna in un ginnasio.
Entrano giovani barbuti e con mantelli, ragazze con lunghissimi cappotti e occhialoni alla clown, e chiedono Marcuse e le opere del «Che», la «Monthly Review» e i «Quaderni Piacentini». Ma entrano anche persone, meno giovani, che chiedono «tutto Pavese», Le confessioni di Nat Turner e A ciascuno il suo.
«La crisi del romanzo non esiste se non dentro quella che direi la generale crisi dello scrivere. Perché ci dovrebbe essere una particolare crisi del romanzo? Ancora c’è chi li sa scrivere; e moltissimi sono quelli che sanno leggerli, anche se nessuno, al disotto dei quarant’anni, è disposto ad ammettere che legge romanzi. La lettura dei libri di narrativa è diventata una specie di vizio segreto, da quando certi galantuomini che non ne sanno scrivere si danno da fare a lanciare la moda del non leggerli: “Non leggo più romanzi, leggo saggi”; come ieri si diceva “non leggo più poesie, leggo romanzi”. La verità è che leggiamo poesia e leggiamo romanzi: quando troviamo un buon poeta, un buon narratore. E in quanto ai saggi, se ne comprano certamente molti, ma direi che se ne leggono pochi».
Davanti alla bancarella di un siciliano, in piazza Matteotti, Sciascia mi parla dello stare nell’isola e dell’andarsene.
«Il mio stare in Sicilia non ha niente a che fare col dovere e col sacrificio, né ha comportato alcun rischio. Mi piace starci e ci sto: tutto qui. O meglio: finora mi è piaciuto starci. Comincio infatti a sentire una certa inquietudine, una certa insofferenza: in parte perché mi sento, pirandellianamente, imprigionato nella forma di “quello che sta in Sicilia” (il che Vittorini mi prediceva quando io ero ancora lontano dal sentirne il disagio); in parte per ragioni più oggettive, che si posso no oggettivamente riassumere nella constatazione che fa il personaggio di un mio libro: che uscendo di casa incontri tutte le persone che non vorresti incontrare, e quasi mai quelle che ti piacerebbe incontrare».

* Questo articolo è stato scritto per L’Ora ed è raccolto nel libro “Esercizi di cronaca” (Sellerio editore)

Nella foto: Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo

Per un po’ d’erba al limite del feudo

Via del Sole scende stretta tra il muro laterale del Pa­lazzo e una ringhiera di ferro sul dirupo. Era in ombra a quell’ora. Il sole batteva invece sulle pietre di via Muro­rotto e sul portale d’arenaria ricamata del Palazzo. La ringhiera di ferro di via del Sole era quella d’un terrazzo sospeso, navigante.

Il vecchio con lo scialle sporse nel vuoto il braccio e con l’indice a corno percorreva la linea ondulata che dise­gnavano nel cielo terso i monti tutti attorno, dalle spalle del paese fino al mare.

– Motta – diceva fermando il dito su un punto bian­castro lungo la costa dei monti. E poi – Pettineo, Castel­luzzo, Mistretta, San Mauro… – Posò lo sguardo sul mare, ripiegò il braccio, si tirò sulla spalla lo scialle scozzese che gli era scivolato. Stesi io il braccio nel vuoto oltre la rin­ghiera e indicai il mare. – Quelle macchie azzurre sono isole, Alicudi, Filicudi, Salina… Più in là c’è Napoli, il Con­tinente, Roma…

– Roma – ripeté il vecchio. Volse le spalle al mare e continuò a indicare le montagne, ora con un breve cenno del capo: – Cozzo San Pietro, Cozzo Favara, Fulla, Fo­ieri…

L’ulivo, fitto ai piedi dei monti, diradava, spariva verso l’alto. Poi vi erano costole nude, scapole, e qua e là ciuffi di sugheri, di castagni.

Il vecchio sedette sulla panchina di pietra e, la fac­cia tra due sbarre della ringhiera, appuntò gli occhi sullo spiazzo erboso sotto il dirupo. Ragazzi vi giocavano, tra pecore al pa­scolo, piccoli, appiattiti sul prato, silenziosi. Uccelli con larghe ali planavano sulla valle. La strada a serpentina, grigia di fango rappreso, partiva dalle prime case del paese, passava tra alberi d’eucalipto e d’acacia, circondava il prato, accostava una vasca d’acqua stagnante e finiva in un cancello di lamiera arrugginita. Il sole di questo primo pomeriggio era tutto ammassato nella tenera valle, su­scitava tremuli vapori.

Al di là del cancello, dentro, il cerchio del muro, nel tabuto fresco di vernice, era Carmelo Battaglia, il sin­da­calista di Tusa ammazzato su una trazzera, una mat­tina di marzo, con due colpi a lupara, e messo in ginoc­chioni, con la faccia per terra. La valle declinava dolce fino alla balza d’Alesa (le sue mura massicce, l’agorà, i cocci d’an­fora e le colonne spezzate affioranti tra gli ulivi, la bianca Demetra dal velo incollato sul ventre abbondante). In fondo, Tusa Marina, col suo castello sull’acqua sma­gliante e triangoli di vele sui merli.

Nel ventitrè ammazzarono il padre Battaglia, con colpi a lupara, su una trazzera, e gli riempirono la bocca di pietre e di fango. Il vecchio s’era tirato fin sulla nuca e gli orecchi lo scialle scozzese, avevachiuso gli occhi e recli­nato il mento sul petto.

Il piano della Piazza era tagliato a rettangoli e tra­pe­zi di luce. La torre medievale,al centro, massiccia, qua­dra­ta, avevadue facce illuminate. Uccelli neri, con lievefruscio, facevano la spola tra la Matrice e la torre. Via Pier delle Vigne si perdeva tra vecchiecase. Via Matteotti, dall’ogiva dell’antica porta, scendevaripida e larga versole case nuove. Un vecchio cantavanella piazza, seduto al sole davanti alla porta della società Agricola. Un altro vec­chio stavaimmobile dall’altra parte; e altri tre dentro, nel vanointerrato della società, immobili attorno a un piccolo tavolosu cui battevail sole. Il vecchio sulla porta cantavacon gli occhi in cielo e un sorriso sulle labbra. Cantava: – Al natio fulgente sol / qual destino ti furò –; e poi dac­capo: – Qual destino ti furò / al natio fulgente sol –; sempre avanti e indietro su quelle parole.

Un’automobile nera venne giù da viaAlesina, attra­versò la Piazza e scese per viaMatteotti. Vi era dentro un ufficiale dei Carabinieri con le stelle d’argento sulle spalle e altri signori col cappello. Il vecchio interruppe il suo can­to e poi riprese.

Via Alesina era tutta in ombra, stretta e lunga, tra alte case, dalla Piazza fino al Belvedere. I vicoli verticali erano assolati. Cespi di bàlico fiorito, viola e giallo, spun­tavano dalle crepe delle case e ficodindia da sopra i tetti. Da un balcone del vicolo penzolava la testa d’un asi­no, pensosa nel sole. Il municipio e la cooperativa Risve­glio Alesino. Sul portone del municipio era scolpito lo stem­ma della città: un grosso cane muscoloso sopra una torre, le zampe posteriori contratte, sul punto d’avven­tarsi, i denti scoperti (1860: «In più luoghi, come a Bronte, a Tusa e al­tro­ve, i Consigli municipali, costituiti dai Go­vernatori di­stret­tuali, erano composti di elementi della grossa borghe­sia o dell’aristocrazia di proprietari terrieri, avversi alle rivendicazioni contadine e ai fautori e capi del movimento per la divisione delle terre demaniali»).

Una giovane bellissima, dietro i vetrid’una piccola finestra, ricamava. Divenne viva,aprì la finestra, si sporse, allungò il braccio bianco e fece segno che dovevoancora andare avanti e poi salire per il vicolo.

Bussai e venne ad aprire una donna in nero. Mi fece strada per uno stretto corridoio celeste che sbucava in una grande stanza celeste. È il celeste, abbagliante per le mo­sche, latte di calce mischiato con l’azolo. Sei donne tutte nere erano attorno alla ruota della conca: la figlia, la moglie, due sorelle e altre due parenti di Carmelo. Parlava la giovane figlia, il fazzoletto nero annodato sotto il mento e ancora il velo nero che le scendevaper le spalle, gestiva con le sue mani guantate di nero. La madre, accanto, non parlava perché muta, muta e paralitica. Solo gli occhi ave­vavivi.

– Sì, fece il soldato e, finita la guerra, venne a piedi da Trieste. Passò lo Stretto su una barca e, a Messina, pri­ma che attraccassero, si buttò in acqua per toccare prima la Sicilia, ma non sapevanuotare. Il pescatore calabrese lo dovetteafferrare per i capelli per salvarlo. Rideva molto quan­do raccontava questo. Dicevache allora, a vent’anni, era sventatocome un caruso.

– Sempre l’ha avutaquesta idea socialista, ma di più quando tornò dalla guerra. Dicevache i contadini, i bovari sono sempre state malebestie. Sempre a limosinare un palmo di terra o un po’ d’erba al limite del feudo. Ma non parlava molto in casa, avevale parole giuste, contate. Questa di mia madre era una pena forte che portava in cuore: venti anni che è allogo, un male di nervi.

– Partiva alle quattro, alle cinque, secondo la sta­gio­ne, col mulo, per il feudo. A voltesi restavalà e si por­tava un poco di pasta e una boatta di salsina. Questa voltado­vevarestarci per due giorni.

– Sì, voglio che si scopra al più presto l’assassino. Voglio conoscerlo. Voglio vedere in faccia questo che in­sulta i morti, che li mette in ginocchioni.

– No, neanche i vivi s’insultano. Ma di più i morti, specie se in vita sono stati sempre latini, diritti, cava­lieri.

La madre mugolò e cominciò a piangere. La figlia le prese le mani, se le portò sulle gambe e, tenendovi sopra le sue, si mise a cullargliele.

La stanza era piena di penombra. C’era solo la luce rossa di un lumino davanti alla fotografia di Carmelo ve­stito da soldato, sopra il comò. Le donne stavano tutte chiuse nei loro scialli e mute. Una prese la paletta di rame e rimestò la brace nella conca.

– Nessun desiderio, nessun progetto. L’unica sua idea era quella di aggiustare questa casa».

Il sole era tramontato e, all’uscita del paese, sopra un muretto della strada, erano seduti un prete grosso e un prete magro. Quello magro, scuro, era venuto da Cesarò per predicare il quaresimale. Quello grosso, chiaro, era del paese.

– Un uomo buono, benvoluto da tutti. Parlava po­co ma spartano. No, in chiesa mai. Ci andavo io a casa sua, una volta al mese, per confessare e comunicare la moglie. Poveretta, mi scriveva i peccati su un foglio di carta.

Passavano i contadini per la strada, tornavano a grup­pi dal lavoro, gli uomini sul mulo e le donne a piedi. – Vos­sia benedica – salutavano.

– Benedetto – rispondeva il prete.

– Tra loro, si ammazzano, tra loro bovari.

– Benedetto.

Le montagne là di fronte erano diventate viola, di un viola tenero sfumato.

Questi Nebrodi, alti di fronte al mare, sono di una bellezza impareggiabile. Ora, con le prime ombre della se­ra, si udivano per la campagna ringhiare e abbaiare i primi cani: quei cani orbi, bastardi, che si avventano feroci non appena li sfiora l’odore della carne d’un cristiano.


[i] «L’Ora», 16 aprile 1966, p. 6. Stesso testo, col titolo: Per un po’ d’erba al limite del feudo, in L. Sciascia e S. Gu­gliel­mino (a cura di), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, pp. 429-434. Il testo del 1966 è ripreso tal quale – sotto forma di «Prima appendice del curatore», con fonte: L’Ora, 16 aprile 1966 (p. 6), autore: Vincenzo Consolo, occhiello e titolo: Tra cronaca e racconto un giorno a Tusa. Un filo d’erba ai margini del feudo, sottotitoletti redazionali in­fram­mezzati: Il tabuto fre­sco di vernice, Sei donne tutte nere – in Mario Ovaz­za, Il caso Battaglia. Pascoli e mafia sui Nebrodi, a cura di Fernando Cia­ramitaro, Palermo: Centro Studi e iniziative culturali Pio La Torre, 2008, pp. 124-126

Acquaforte di Liliana Conti Cammarata

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