Parliamo di Vincenzo Consolo

di Natale Tedesco

Laudatio per Vincenzo Consolo di Natale Tedesco in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia moderna (Palermo, Steri 20 giugno 2007)

“Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura” di Natale Tedesco.
Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore. Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo, La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di Pantalica. Fascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagement. Di quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si giuoca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

Palermo 20 GIUGNO 2007
Lo specchio di carta
Osservatorio italiano sul romanzo contemporaneo

nella foto Sergio Spadaro e Vincenzo Consolo

Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo

Nicolò Messina Universitat de Girona



Il contributo tenta di delineare la storia del farsi dell’opera più studiata di Vincenzo Consolo sulla scorta dei testimoni già sottoposti a recensio (edizioni a stampa, dattiloscritti, manoscritti). Parole chiave: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, edizioni critico-genetiche, ecdotica di testi moderni e contemporanei. Abstract The contribution attempts to outline the history of the creation of Vincenzo Consolo’s most studied work, based on the supply of accounts already submitted to review (printed, typed and manuscript editions). Key words: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, critical-genetic editions, critical editions of modern and contemporaneous texts. 1. In limine Nella presentazione della nuova collana «Clásicos Modernos» di una delle più prestigiose case editrici spagnole, José Saramago, senz’altro nel suo castigliano deliziosamente lusitaneggiante e con il suo abituale tono deciso, asseriva pubblicamente: «Estamos hechos de pasado. El presente no existe y el futuro no sabemos lo que es». 1 La frase potrebbe ben costituire l’esergo di queste pagine, che hanno per oggetto-soggetto Il sorriso dell’ignoto marinaio, e l’aggancio è almeno doppio. 1. L’incontro pubblico, organizzato dalle edizioni Alfaguara, si è tenuto al Círculo de Bellas Artes di Madrid il 27 settembre 2004. L’idea della collana è dovuta — a detta della stessa direttrice editoriale di Alfaguara, Amaya Elezcano — a un suggerimento del Nobel portoghese. La collana, inaugurata da Jacques el fatalista di Denis Diderot, annovera tra i primi volumi, già in libreria, anche i manzoniani Los novios nella traduzione fattane da Esther Benítez. Cfr. El País (Martes 28 de septiembre de 2004): 42. 114  Da un lato, infatti, e non appaia aneddotico, il Sorriso è stato la scorsa primavera ripubblicato da Mondadori in una collana che curiosamente ricorre alla medesima etichetta: «Classici moderni»; 2 dall’altro, poi, l’affondo di Saramago — non a sproposito in un oggi affetto da multiformi amnesie — rivendica in sé e per sé il ruolo della memoria senza la quale non siamo, e non certo perché atteggiati a conservatori idolatri del vissuto umano, perché abbarbicate, irremovibili ostriche verghiane3 o stanchi e immalinconiti laudatores temporis acti. Al riguardo, quale migliore sintonia con Consolo? Il quale — è risaputo — da sempre s’oppone vigile all’appiattimento stritolante sull’unica dimensione temporale del presente, comodo, se non programmaticamente ricercato dagli autarchi che s’ispirano al pensiero unico. Ecco perché forse Consolo, da sempre, fa letteratura ricorrendo a metafore storiche. D’altra parte, come piú di uno ha sottolineato, è certo intorno alla funzione attiva, alla forza propulsiva della memoria che quaglia la metafora del Sorriso: un ieri, ottocentescamente databile, in dialettica con l’oggi del lettore (la metà degli anni Settanta del secolo breve appena concluso, ma anche la metà del primo decennio di questo nostro nuovo secolo).4 2. Cfr. piú avanti il riferimento bibliografico completo. 3. Per fugare ogni possibile dubbio sulla propulsività della memoria, da non intendere pertanto quale attaccamento […] allo scoglio di un rassegnato immobilismo, non è fuori luogo citare per esteso, il noto passo di Fantasticheria (1879), che, pur estrapolato dal suo contesto e con tutti i sottili distinguo dell’autore, sembra presago di un certo fatalismo misoneista, improntato piú all’inutilità che all’impossibilità di ogni reazione umana alle condizioni e ai ruoli assegnati; manifestazione, in breve, di una sorta di noluntas: «Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava príncipi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano — forse pel quarto d’ora — cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione.» (G. VERGA, Tutte le novelle, ed. Carla RICCARDI, Milano: Mondadori, 1979; 19965, p. 135-136) 4. Per felici coincidenze, alle giornate sivigliane all’origine di queste note partecipava anche Maria Attanasio, fine autrice di poesie (Interni, Parma: Guanda, 1979; Nero barocco nero, Caltanissetta-Roma: Sciascia, 1985; Eros e mente, Milano: La Vita Felice, 1996; Amnesia del movimento delle nuvole, Milano: La Vita Felice, 2003; 20043), che si rivela scossa dall’identica volontà di resistenza all’oblio, a giudicare dai frutti delle ore da lei dedicate alla prosa: Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Palermo: Sellerio, 1994; Piccole cronache di un secolo, Palermo: Sellerio, 1997 (con Domenico AMOROSO); Di Concetta e le sue donne, Palermo: Sellerio, 1999. Proprio da quest’ultimo, commosso, bel libro testimonianza si estrapolano deliberatamente due brani assai eloquenti sull’etica dello scrivere: «Un tempo ogni città, piccola o grande, affidava la storia civile della comunità alla scrittura del cronista; insieme agli eventi civici e allo straordinario egli spesso registrava anche l’ordinario di essa […] sottraendone la memoria alle azzeranti generalizzazioni della storia, che per sua natura emargina in un’impenetrabile zona d’ombra l’alfa e l’omega costitutivi della sua trama» (p. 32); «Non restava che […] testimoniare direttamente questa piccola storia di ordinaria militanza, una tra le tante di quegli anni. || Senza però sottrarsi al Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 115 2. De finibus terminisque constituendis Su Consolo e Il sorriso dell’ignoto marinaio, in particolare, l’interesse critico non è mai tramontato. Ingente è ormai la letteratura secondaria. Da un lato, ne fanno fede le bibliografie via via aggiornate e desumibili da volumi e riviste: dalla prima monografia di Flora Di Legami5 al numero omaggio di Nuove Effemeridi, 6 dal libro di Attilio Scuderi7 a quello recente di Giuseppe Traina,8 dal «ritratto» di Enzo Papa9 alla premessa editoriale dell’ultima ristampa dell’opera.10 Dall’altro, chiara eco se ne riceve anche da collectanea a seguito di convegni dedicati allo scrittore: si rammentino almeno quelli organizzati nel solo ultimo torno di tempo a Parigi, Siracusa, Siviglia.11 Anche i lettori, dilettanti e non solo professionisti della letteratura, compresi quanti si escludono dal novero degli estimatori più ferventi dell’opera consoliana, riconoscono unanimi nel libro, in questo libro, un classico: non sorprende perciò il suo inserimento in una collana ad hoc, né che qualcuno, come Sergio Pautasso, dichiari apertamente il piacere di rileggerlo o che qualche coinvolgimento emozionale, né fingere un’ipocrita oggettività: memoria emotivamente condivisa per i protagonisti che ancora camminano per le strade, gesticolano odiano amano, continuano a resistere come possono, e s’incazzano in questo smemorato Occidente dove la supponenza della mondializzata economia di nuovo si autocelebra, in nome del mercato e del profitto, universale essenza dell’uomo contro l’uomo. E la sua spregiudicata ancilla — la politica — l’asseconda, insieme a Marx e a Voltaire, gettando l’utopia, come un nastro smagnetizzato, nelle discariche della storia.» (p. 35) 5. F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti (Messina): Pungitopo, 1990. 6. Nuove Effemeridi. rassegna trimestrale di cultura, 29, [Palermo: Guida] 1995. 7. A. SCUDERI, Scritture senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna: Il Lunario, 1998. 8. G. TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze): Cadmo, 2001. 9. E. PAPA, «Ritratti critici di contemporanei: Vincenzo Consolo», Belfagor, LVIII 344, 2003, 179-198. 10. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori, 2004, p. XIV-XVII. 11. Ancora in corso di stampa gli atti del convegno Vincenzo Consolo. Éthique et écriture, tenuto alla Sorbonne Nouvelle venerdì 25 e sabato 26 ottobre 2002, con interventi di Guido Davico Bonino, Maria Pia De Paulis, Denis Ferraris, Giulio Ferroni, Rosalba Galvagno, Walter Geerts, Valeria Giannetti, Claude Imberty, Jean-Paul Manganaro, Antonino Recupero, Marie-France Renard, Cesare Segre. Sono invece usciti quelli del convegno siracusano: Enzo PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo. Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2-3 maggio 2003), San Cesario di Lecce: Manni, 2004, con contributi di Paolo CARILE, «Testimonianza» (p. 11-13); Maria Rosa CUTRUFELLI, «Un severo, familiare maestro» (p. 17-22); Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo» (p. 23-58); Massimo ONOFRI, «Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale» (p. 59-67); Sergio PAUTASSO, «Il piacere di rileggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, o dell’intelligenza narrativa» (p. 69-80); Carla RICCARDI, «Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo» (p. 81-111); Giuseppe TRAINA, «Rilettura di Retablo» (p. 113-132). Le relazioni presentate alle giornate di studio sivigliane, Vincenzo Consolo. Per i suoi 70 (+1) anni (Universidad de Sevilla, Facultad de Filología, 15-16 ottobre 2004), costituiscono il nucleo di questo numero di Quaderns d’Italià. 116 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina che altro, come Massimo Onofri, ammetta Consolo in un canone resistente allo stesso variare delle mode critiche.12 D’altronde, il ruolo principe rappresentato dal Sorriso nel corpus consoliano è a più riprese e in vari modi e gradazioni sottolineato dallo stesso autore: in interviste13 o anche in interventi sparsi, dalla postfazione all’edizione mondadoriana del ventennale14 alla lectio magistralis in occasione dell’investitura a doctor honoris causa dell’Università di Roma Tor Vergata (18 febbraio 2003). Delineato tale scenario, arduo intervenire su quest’opera. Per l’occasione, quindi, con formula ciceroniana, mihi fines terminosque constituam e sottoporrò al dibattito critico un qualcosa di forse più congeniale alla mia natura di manovale della filologia: un tentativo di tracciare una storia o, meno ambiziosamente, una cronaca del farsi del libro dalla sua «preistoria» in avanti, sistematizzando materiali sparsi, più o meno noti, e aggiungendovi, con cautela, alcuni elementi nuovi. Una certa prudente reticenza è peraltro consigliabile, dettata com’è dallo svolgimento in atto di una ricerca, ormai quasi in dirittura d’arrivo, intesa proprio all’allestimento di una edizione critico-genetica del Sorriso. Insomma, ricorrendo alle categorie di avantesto, paratesto e testo, le mie intenzioni saranno più perspicue e, ancor di più, se si preciseranno le coordinate di una prospettiva ecdotica in cui nulla va «ricostruito», perché niente è stato «distrutto»; e nemmeno si tende a restituire in via ipotetica un archetipo smarrito e forse mai tangibilmente esistito, per definizione optimus e via via degradatosi nelle sue imperfette, corrotte riproduzioni, giacché l’opera, nella lezione licenziata dall’autore, è a nostra portata di mano. È una prospettiva di contro più complessa e solo nominalmente, per così dire, capovolta: in essa, difatti, i testimoni recentiores, già dopo Giorgio Pasquali ammessi non deteriores, non sono però di necessità accettabili come senz’altro meliores — anzi meta raggiunta, immigliorabile e addirittura ottima dell’iter creativo — e pertanto suggellati dal definitivo ne varietur dell’autore. Essi semmai presuppongono, trovano giustificazione fondante nei testimoni antiquiores, o piuttosto antiquissimi (dalla nota sparsa allo scartafaccio, ai prodotti delle successive fasi e decantazioni scrittorie), i quali al cospetto dei recentiores o ultimi, espressione dell’optima voluntas dell’autore, sarebbero certo da considerare tout court 12. Cfr. rispettivamente i saggi accolti in E. PAPA, (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 69-80 e 59-67. 13. Dalle lontane Mario FUSCO (ed.), «Questions à Vincenzo Consolo», La Quinzaine Littéraire, 321, 1980, 16-17; a Marino SINIBALDI (ed.), «La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo», Leggere, 2, 1988, 8-15; dalla più organica uscita in volume dal titolo guttusiano (è la didascalia di un quadro [olio su tela, cm.147,2 x 256,5] del 1940, finito l’anno prima e conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma), V. CONSOLO, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma: Donzelli, 1993, a quelle recentissime, l’una a cura di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 123-138, o l’altra leggibile in internet, a cura di Dora MARRAFFA e Renato CORPACI, Italialibri, www.italialibri.net, 2001. 14. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori, 1997, p. 173-183; poi in ID., Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 276-282, ed anche nell’ultima riproposta del Sorriso, ed. 2004, p. 167-175. destituiti di tutti i valori loro attribuibili dalla stemmatica classica, in quanto — pur prossimi al codice x dell’opera — non si collocherebbero al di sotto di esso, non ne costituirebbero una fase cronologica più bassa, inferiore, bensì soltanto e nient’altro che il più alto, superiore e superato, perciò trascurabile, stadio magmatico embrionale. E tuttavia, per ciò stesso, tali reperti vanno sottoposti ad accurata recensio e collatio, e risultano necessari e imprescindibili per studiare il di-venire del testo dalla prima intelaiatura verso la tessitura rifinita, proprio perché nella genesi dell’opera rappresentano il caos primordiale, l’arché primigenia, non formata, l’impulso d’avvio e soprattutto la prova dei vari movimenti del testo fino al risolutivo colpo di timone dell’autore, insomma una sorta di illuminante pre-archetipo.15 3. L’emerso Per comodità converrà sin dall’inizio tracciare la mappa delle edizioni a stampa [in grassetto l’ulteriore precisazione cronologica], anche perché sono quelle consultabili ed accessibili, e ad esse si rimanderà spesso: 1969 «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Nuovi Argomenti, Nuova Serie, n. 15 [luglio-settembre]: edizione parziale, cap. I, senza Antefatto né Appendici I e II; 1975 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Gaetano Manusé, edizione numerata con un’incisione firmata di Renato GUTTUSO: edizione parziale, cap. I, con Antefatto e Appendici I e II; e cap. II, L’albero delle quattro arance, senza Appendici I e II [autunno]; 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi: editio princeps [finito di stampare 10 luglio, 1ª ed.; 18 settembre, 3ª ed.]; 1987 Il sorriso dell’ignoto marinaio, intr. Cesare SEGRE, «Oscar oro. 9», Milano: Mondadori [marzo]; 1992 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Nuovi Coralli. 464», Torino: Einaudi; 1995 Il sorriso dell’ignoto marinaio, ed. commentata a cura di Giovanni TESIO, intr. Cesare SEGRE, «Letteratura del Novecento», Milano: Elemond Scuola [dicembre]; 1997 Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori [febbraio]; 2002 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar scrittori del Novecento», Milano: Mondadori [gennaio]; 2004 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori [marzo]. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 117 15. Solo qualche riferimento bibliografico ormai canonico: Louis HAY (ed.), Essais de critique génétique, Paris: Flammarion, 1979; Amos SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XX siècle. Théorie et pratique de l’édition critique, Roma: Bulzoni, 1988; Almuth GRÉSILLON, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris: P.U.F., 1994; Giuseppe TAVANI, «Filologia e genetica», Cuadernos de Filología Italiana, 3 (1996): 63-90; Michel CONTAT & Daniel FERRER (edd.), Pourquoi la critique génétique? Méthodes, théories, Paris: CNRS Éditions, 1998. 118 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina Non è agevole fissare date precise di avvio di una scrittura, neanche — si sa — nel caso di scrittori ancora produttivi con cui poter dialogare. Nel caso del nostro libro, ad ogni modo, tutto il movimento del testo — è ovvio — sarà iniziato verosimilmente tra l’a quo di La Ferita dell’aprile, il «mese più crudele» di eliotiana memoria, cioè il 1963,16 e la prima «orditura» licenziata dall’autore: quel Il sorriso dell’ignoto marinaio apparso su Nuovi Argomenti (luglio-settembre 1969), che corrisponde grosso modo al futuro cap. I del libro, ma non è ancora corredato né dell’Antefatto, né delle due Appendici documentarie a firma del protagonista, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca.17 È un dato accertato, comunque, che le pagine appena ricordate, già dotate evidentemente, all’avviso dell’autore, di una loro autonomia e compiutezza narrativa, erano state in precedenza mandate, ma senza esito, alla rivista Paragone di Roberto Longhi e Anna Banti. A motivare l’invio è appunto il Trittico siciliano di Longhi, scritto in occasione della grande mostra del 1953 a Messina su Antonello e la pittura del ‘400 in Sicilia, ma il critico, in un incontro pubblico a Milano nel 1969, all’autore che chiedeva notizie del suo racconto così rispondeva severamente: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». 18 Rievocando l’episodio, Consolo cerca di giustificarlo così: Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare Antonello. Quello effigiato lí era un ricco, un signore. Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria.19 Il testo veniva, allora, risolutamente spedito a Enzo Siciliano ed usciva finalmente su Nuovi Argomenti, la rivista di Alberto Carocci, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. La memoria personale dell’autore, corroborata dalla testimonianza di Caterina Pilenga, conosciuta subito dopo il trasferimento a Milano nel Capodanno del 1968, e da un certo punto in possesso di «ambo le chiavi | del cor» consoliano,20 questa doppia memoria fornisce altri dati di notevole interesse nella cronologia del farsi dell’opera. 16. Dal colophon si estraggono i seguenti dati più precisi: «[…] impresso nel mese di settembre dell’anno 1963 […] Il Tornasole — Pubblicazione periodica mensile — Registrazione Tribunale di Milano n. 6273 del 14-3-1963 […]». Dell’opera si attende l’imminente versione spagnola a cura di Miguel Ángel Cuevas. 17. La pubblicazione — sia concessa l’indiscrezione — avrebbe fruttato all’autore un compenso di Lit. 16.000. In una lettera della direzione della rivista del 12 dicembre 1969, infatti, si conferma l’avvenuta pubblicazione (nel «numero testé pubblicato») e si comunica l’emissione di un assegno di tale importo. 18. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 37-38. 19. Ibid., p. 38. 20. Così viene presentata la futura moglie: «una delle cinque o sei persone che avevano letto» con entusiasmo la Ferita su segnalazione di Raffaele Crovi (Ibid., p. 35). Il quale è tra l’altro fra In primo luogo, riporta la chiusura del racconto, con quelle verosimili fattezze, a quell’anno 1968 e informa dell’avvenuta stesura, a quella data, e prima dell’arrivo a Milano nel gennaio 1968, anche del futuro cap. II L’albero delle quattro arance; inoltre, conferma che, dopo il fisico manifestarsi in Nuovi Argomenti, il progetto narrativo, di cui il racconto pubblicato è la prima concretizzazione, viene momentaneamente accantonato, anche se l’autore è nel frattempo preso dalla stesura del futuro cap. III Morti sacrata, che nessuno ha letto, tranne la moglie Caterina, e di cui alcuni sono a conoscenza (Corrado Stajano); infine, aggiunge che nel 1975 Consolo ottiene dalla RAI, nella cui sede milanese lavorava,21 un permesso di sei mesi, lascia Milano e torna in Sicilia dove collabora al giornale L’Ora di Vittorio Nisticò22 ed è raggiunto quell’estate da Caterina. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 119 i pochi frequentati da Consolo, oltre al conterraneo Basilio Reale, sin dal tempo del primo soggiorno milanese (G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 11): sono i tre anni della frequenza della Cattolica (1952-56), che saranno poi seguiti dal servizio militare a Roma, dalla laurea a Messina, dal praticantato notarile, dall’inizio del lavoro d’insegnante nel 1958 (E. PAPA, art. cit., p. 194). 21. A sottolineare i difficili rapporti di lavoro, l’azienda viene definita, una «fabbrica di armi» (V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 34). 22. Vale la pena di riportare sull’esperienza giornalistica consoliana un brano dello stesso V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, I, Palermo: Sellerio, 2001, p. 113-114: «[…] Vincenzo Consolo, sebbene vivesse ormai a Milano, da inquieto esule qual era, non perdeva occasione per tornare in Sicilia, dai suoi a Sant’Agata, e far sosta, potendo, anche al giornale. In fondo, tra i nostri scrittori era quello che sentivamo più di casa, il più famigliare. Amavamo di lui il garbo, la modestia, il senso di amicizia, gli accenni di sorridente ironia, non meno di quanto ci affascinassero i ricami della sua scrittura, la sua totale mediterraneità, quei fuochi improvvisi della sua passione letteraria e civile. Tra il ‘68 e il ‘69 pubblicammo una sua rubrica di annotazioni, «Fuori casa», un piccolo gioiello di giornalismo che diventa letteratura. || Nei primi mesi del ‘75 Consolo si trasferì per un po’ di tempo a Palermo; glielo avevo chiesto perché ci desse una mano in vista delle importanti elezioni amministrative di giugno e di un evento che ci interessava direttamente: la candidatura di Leonardo Sciascia al consiglio comunale di Palermo. Era, la venuta di Consolo, un ritorno in redazione dopo l’esperienza di alcuni anni prima, quando si era trasferito da Sant’Agata per lavorare al giornale e impratichirsi del mestiere. Ma si era trattato di un’esperienza durata relativamente poco, interrotta dalla decisione di andarsene a Milano e dare, da allora in poi, la priorità assoluta alla letteratura; sarebbe stata lei la sua vita, il suo destino. || Tuttavia un desiderio di giornalismo, sebbene latente, rimase sempre vivo, e pronto a venir fuori quando si presentava l’occasione buona. Fu così in quei mesi del ‘75, quando facendo la spola tra la casa materna di Sant’Agata e la nostra redazione, si buttò con manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. Partecipando dapprima con articoli e interviste alla campagna per il buon governo e la candidatura di Sciascia, poi nell’estate andando in giro col taccuino del cronista a seguire a Trapani il processo al «mostro di Marsala» (l’uomo che aveva fatto morire tre bimbe gettandole vive in un pozzo), o la vicenda del sequestro Corleo, il patriarca delle esattorie. In pieno agosto, si era persino spinto, e credo anche divertito, a fare un «viaggio» di osservazione tra gli uffici semideserti di Palermo capitale. Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a «Il sorriso dell’ignoto marinaio»: il capolavoro che da lí a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione. A dicembre ne pubblicammo in anteprima un capitolo: la festa in casa del barone Mandralisca.» 120 Siamo dunque, estate del 1975, alla vigilia dell’edizione numerata in 150 esemplari con incisione firmata di Renato Guttuso per i tipi di Gaetano Manusé, edizione nel cui colophon è dichiarata la data dell’«autunno MCMLXXV». Manusé, da Valguarnera Caropepe di Sicilia, titolare prima di una bancarella poi di una libreria antiquaria a Milano, si era dichiarato interessato a pubblicare qualcosa di Consolo e, saputo dalla moglie Caterina, sollecitata in tal senso, dell’esistenza di un prosieguo del racconto già apparso sulla rivista moraviana, propone la pubblicazione per bibliofili del Sorriso. Basta ricordare che della composizione e tiratura si occuperà Martino Mardersteig della Stamperia Valdonega di Verona, erede della prestigiosa Officina Bodoni di Verona fondata dal padre Giovanni Hans, e che per l’occasione Leonardo Sciascia coinvolgerà Renato Guttuso il quale, rileggendo il ritratto di Antonello, appresterà un’incisione in cui viene rovesciata l’angolazione dell’immagine rispetto all’attante: il trequarti del misterioso personaggio non è rivolto a sinistra, ma a destra.23 Domenica 30 novembre 1975, la pagina culturale di Il Giorno di Milano pubblica un lungo articolo di Corrado Stajano, dal titolo redazionale molto allettante.24 Al corrente delle alterne, combattute vicissitudini dello scriptorium di Consolo, conscio di quanto vi sta accadendo, Stajano fa una mossa a sorpresa: recensisce il libro appena uscito, ma ad un tempo, parlandone come della parte di un tutto imminente, sembra voler forzarne la definitiva confezione. Dopo aver presentato, difatti, le attività del libraio, così scrive: Adesso Manusé ha esaudito il gran sogno della vita, è diventato editore e c’è la possibilità, dicono gli uomini di penna, che questo primo libro che ha stampato, […] possa creare un nuovo caso letterario. Perché qui si sono incontrate due corde pazze siciliane, quella di Manusé e quella dello scrittore del libro, o meglio dei primi due capitoli del libro pubblicati in questo volume, che gli editori, quando il romanzo sarà finito, certo si contenderanno, perché «Il sorriso dell’ignoto marinaio» è un nuovo «Gattopardo», ma più sottile, più intenso del romanzo di Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia poetico, di venosa lava sanguigna e insieme razionalmente freddo nei suoi teoremi dell’intelligenza. Uno scritto che arriva dentro l’impensata bottiglia di Manusé e che non ha nulla in comune con nessuno dei 17 mila libri che si pubblicano ogni anno in Italia. Gli articoli pubblicati nel 1975 sono: «Un moderno Ulisse fra Scilla e Cariddi. Sfogliando il Gran libro di Stefano D’Arrigo» (22 febbraio); «L’avventurosa vita di Emilio Isgrò» (4 aprile); «Il malgoverno e l’impegno politico di Sciascia. Conversazione con Alberto Moravia» (30 maggio), «Il malgoverno e l’Università. Conversando con il Rettore dell’Università di Palermo, Giuseppe La Grutta» (13 giugno); vari servizi per il «Processo al “Mostro di Marsala”» (20, 21, 25, 30 giugno; 5, 11 luglio) e sul sequestro dell’esattore Luigi Corleo (18, 19 luglio); «A colloquio con il tenore Di Stefano» (14 luglio); «Tanta scienza e un po’ di show» (26 luglio); «Che ne pensa Grassi, sovrintendente della Scala, del “caso Lanza Tomasi”?» (29 luglio); «In giro per gli uffici ad agosto» (9, 13 agosto); «Il giallo Majorana visto da Sciascia» (9 settembre). 23. L’incisione all’acquaforte viene eseguita a Palermo, in una stamperia vicina alla Galleria Arte al Borgo frequentata dallo scrittore di Racalmuto. 24. C. STAJANO, «Il sorriso dell’ignoto marinaio. Due siciliani pazzi per un libro “unico”», Il Giorno, Domenica 30 novembre 1975, 3. E più avanti, in chiusa, fornisce anticipazioni sulla fabula e sprona, quasi rimbrotta l’autore: Vincenzo Consolo, con tutte le sue contropoetiche, politicamente motivate, è troppo scrittore per rinunciare a scrivere, come avrebbe voluto. Gli è successa la sorte descritta da Roland Barthes ne «Il grado zero della scrittura»: «Partito per uccidere la letteratura, l’assassino si ritrova scrittore». […] ora sta lavorando ai capitoli finali del romanzo, la rivoluzione contadina di Alcara Li Fusi, la repressione dello Stato italiano dopo la speranza portata da Garibaldi. Interdonato è il procuratore generale del processo contro i contadini, violenti contro la violenza. Mandralisca gli scrive una lunga memoria, i contadini cercano di narrare loro, la loro storia. Ci riusciranno? «Il sorriso dell’ignoto marinaio» […] è l’ultima difesa di uno scrittore che non voleva scrivere più perché, quando il mondo s’incendia, la vita è meglio viverla che raccontarla. C’è da pensare che, sotto la forte pressione morale-psicologica delle tre colonne di Stajano, Consolo raccogliesse il guanto della sfida che vi era insita e che, nello scorcio del 1975 e il primo semestre del 1976, con un lavoro che non si fa fatica ad immaginare, con il Leopardi da lui tanto amato, «matto e disperatissimo», stendesse e organizzasse il resto dell’opera: gli attuali capitoli IV-IX. Einaudi finisce, infatti, di stampare la prima edizione del libro quale sarà conosciuto dal vasto pubblico, l’editio princeps, il 10 luglio 1976 e ne farà circolare altre due stampe identiche, la terza licenziata il 18 settembre dello stesso anno. 4. Tra emerso e sommerso Questi in buona sostanza i punti fermi del farsi del testo, i momenti fondanti della sua storia esterna. Se ne trae l’immediata idea di un progetto in crescendo, in progressione geometrica.25 Ma questi dati, relativi al merito e alle vicende dei soli testimoni a stampa, rappresentano solo l’emerso del testo e, in una prospettiva ecdotica critico-genetica, vanno naturalmente confrontati con quelli di quante altre fonti sia ancora possibile sottoporre a recensio e collatio. E qui, come anche per ogni altra opera di qualsivoglia altro scrittore, qualunque sforzo risulterebbe vano se l’autore volesse tutelare ad oltranza la legittima riservatezza della propria fucina, del proprio scriptorium. Il lavoro insomma Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 121 25. Forzando la suggestiva immagine del fondamentale saggio di Cesare SEGRE, «La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino: Einaudi, 1991, p. 71-86 (trattasi dell’«Introduzione» dell’edizione 1987 del Sorriso, p. V-XVIII, ripubblicata in quella del 1995, p. V-XIX), è come se tessere autonome (dal racconto iniziale, cap. I e II, all’integrazione del resto) si siano andate collocando a formare il mosaico dei gradini della scala tortile, ad imbuto dantesco, che — se si vuole accogliere l’interpretazione dei simboli di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 61-70 — avrebbe consentito la discesa agli inferi e l’ascesa salvifica del protagonista. 122 si bloccherebbe o potrebbe andare avanti solo con le carte di scrittori conservate in biblioteche, fondazioni, centri appositi (l’esempio più noto, Pavia) o variamente e comunque riscattate, come per gli oltre 40 volumi già pubblicati della Collection Archives, 26 il cui comitato scientifico è presieduto dal prestigioso romanista italiano Giuseppe Tavani.27 Nel caso del Sorriso, la generosa disponibilità dei coniugi Consolo, informati della necessità di queste esplorazioni per il mio studio, e in particolare l’amorevole scrupolosità di Caterina nel preservare materiali rivelatisi preziosi, hanno consentito di accumulare ingente informazione sulla scorta degli altri testimoni superstiti: tre bozze di stampa, di cui una eliminanda perché descripta, tre cartellette di dattiloscritti e un fascicolo dattiloscritto rilegato con l’opera intera; cinque manoscritti. Ma prima, per completare il quadro dell’emerso, bisognerà rendere conto anche della contemporanea attività scrittoria del Nostro, in qualche misura dialogante con il progetto non ancora ben definito in quel lasso di tempo. La preistoria del Sorriso, quei tredici anni di lunga gestazione, grosso modo dal 1963 al 1976, sono affiancati da altre scritture. Da una parte, le collaborazioni giornalistiche, tra cui spiccano: la rubrica Fuori casa, tenuta su L’Ora di Palermo;28 e vari reportages per Tempo illustrato. Ai fini dello studio del Sorriso sembrano importanti diversi di tali scritti. In primo luogo, il racconto Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, uscito prima su 26. La collana, diretta da Amos Segala e posta sotto il patrocinio dell’UNESCO, è affidata a un Consiglio di firmatari europei e latino-americani del Protocollo Archivos — ALLCA XX (Association Archives de la Littérature Latino-américaine, des Caraïbes et Africaine du XXe siècle) e sottoposta alla valutazione di un Comitato scientifico internazionale. Le pubblicazioni seguono le indicazioni emerse dai seminari di Parigi (1984) e Oporto (1985), poi confluite nel volume di A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit. 27. Oltre all’art. cit., imprescindibili sono per equilibrio e dottrina: G. TAVANI, «Le Texte: son importance, son intangibilité»; «Teoría y metodología de la edición crítica», «Los textos del Siglo XX», «Metodología y práctica de la edición crítica de textos literarios contemporáneos»; «L’édition critique des auteurs contemporains: vérification méthodologique», tutti in A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit., rispettivamente: p. 23-34, 35-51, 53-63, 65-84, 133-141. Cfr. inoltre: G. TAVANI, «L’edizione critico-genetica dei testi letterari: problemi e metodi», in Venezia e le lingue e letterature straniere. Atti del Convegno, Università di Venezia, 15-17 aprile 1989, Roma: Bulzoni, 1991, p. 323-331; «L’apporto dell’edizione di testi moderni alla pratica ecdotica, ovvero: l’apporto della pratica ecdotica all’edizione di testi moderni», in Anna FERRARI (ed.), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno di Roma, 25-27 maggio 1995, Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1998, p. 545-554. 28. Cfr. l’elenco completo degli articoli firmati da Consolo per il giornale in V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia, op. cit. In particolare, la rubrica Fuori casa inizia il 7 dicembre 1968 e va avanti con cadenze irregolari per tutto il primo semestre del 1969 (11 gennaio, 24 febbraio, 10 marzo; 5, 24 e 25 maggio). Dello stesso anno sono: la recensione a Elio VITTORINI, Le città del mondo (27 settembre 1969) e un articolo sui rapporti tra mafia siciliana e americana (30 settembre 1969). L’Ora, 29 poi in un’autorevole silloge di narratori siciliani:30 un racconto strutturato come cronaca di una visita a Tusa alla famiglia di Carmine Battaglia, ucciso dalla mafia, in cui si innesta un breve brano documentario del 1860 sull’avversione dei nobili latifondisti al decreto garibaldino del 2 giugno 1860 lesivo dei propri privilegi. L’impianto rappresenterebbe quindi il primo, timido apparire, non più di un accenno, di un modo costruttivo esemplato su modelli tedeschi, sul quale, per sua stessa affermazione, Consolo scommette con forza nel Sorriso31 e anche in seguito.32 Poi, su Tempo illustrato, un’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle Eolie affetti da silicosi, come quello dell’incipit del Sorriso, in pellegrinaggio al santuario di Tindari,33 e un’altra su Cefalù e quell’Aleister Crowley che apparirà molto dopo in Nottetempo, casa per casa (1992), e di cui si ha traccia in un quaderno ms del Sorriso che così contribuisce a datare.34 Infine, ancora su L’Ora, il resoconto dell’inaugurazione di una mostra di Guttuso, i cui appunti iniziali e primo svolgimento si trovano in un altro quaderno ms alla cui datazione ci si potrà così approssimare.35 Dall’altra parte, si annoverano le presentazioni di vari cataloghi di mostre, di cui due soprattutto rilevanti per la costituzione testuale del Sorriso: l’una di un’esposizione di Luciano Gussoni (1971), l’altra di un’esposizione di Michele Spadaro (1972), rilevanti in quanto i cataloghi sono latori di due lacerti rifusi rispettivamente nei capitoli VII e I.36 Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 123 29. L’Ora, 16 aprile 1966. All’assassinio sono dedicati sul giornale, sempre in prima linea contro la mafia, articoli di Mauro DE MAURO (in seguito vittima della cosiddetta lupara bianca) e Mario FARINELLA (24, 25, 26, 28 marzo 1966) e di Felice CHILANTI (9 aprile 1966). 30. Leonardo SCIASCIA & Salvatore GUGLIELMINO (edd.), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, p. 428-434. 31. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 32. Se si guarda solo alle opere limitrofe al Sorriso, il metodo sarà applicato, per le appendici erudite, a Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 71-85 (Milano: Mondadori, 1996, p. 93- 129) e, per gli inserti documentari, al racconto lungo «Ratumemi», in Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori, 1988, p. 47-74, altra storia di feudi del secondo dopoguerra, tematicamente piú affine a Per un po’ d’erba… 33. «Così la pomice si mangia Lipari», Tempo illustrato, 17 ottobre 1970, di cui non si ha alcuna traccia nei mss. sottoposti a recensio. In Ms 2 si riscontra invece la prima attestazione di «Una Sicilia trapiantata nella nebbia», che uscirà sempre su Tempo illustrato. L’articolo è conservato nel Fondo personale Consolo con l’annotazione di Caterina Consolo: «1970», senza indicazione del giorno e del mese, ma nel corpo si ravvisa un post quem: «ottobre». 34. Ms 2, ff. 1-5. Cfr. «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre 1971. 35. Ms 4, ff. 41v -33v . Cfr. «Guttuso torna nella “sua” Milano», L’Ora, 18 ottobre 1974. Sempre nell’ambito delle arti figurative, un altro articolo di alcuni mesi prima: «Bruno Caruso provoca Milano», L’Ora, 9 febbraio 1974. 36. V. CONSOLO, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971; ID., «Marina a Tindari», in Michele Spadaro, Como, Galleria Giovio, 15-30 aprile 1972; poi anche in ID., Marina a Tindari, commento a cura di Sergio SPADARO, tiratura in cento esemplari numerati fuori commercio, Vercelli, Arti grafiche Cav. Piero De Marchi, 1972, p. 15-18. Quest’ultima presentazione è firmata e precisamente datata, com’è consuetudine dello scrittore: «Vincenzo Consolo || (27 febbraio 1972)». Nella fase preparatoria delle giornate di studio di Siviglia, ognuno in possesso e informato di un solo testimone, ci siamo scambiati i dati con il collega Miguel Ángel Cuevas. 124 5. Il sommerso Tornando ora ai testimoni manoscritti e dattiloscritti del Sorriso, non è questa la sede per proporne una descrizione esaustiva. Si cercherà invece di metterne in evidenza la portata facendo solo due esempi su versanti apparentemente diversi. Intanto, sulla loro scorta, sarà possibile qualche correzione di tiro cronologica. Tra i quaderni mss, gli antiquiores, numerati appunto Ms 1 e Ms 2, contengono frammenti confluiti nella lezione di Nuovi Argomenti. Tra il 1969 e il 1975 si collocherebbero gli altri due, denominati Ms 3 e Ms 4: sono latori, infatti, di lacerti non presenti nell’edizione 1969 e interpolati come due scatole cinesi in quella del 1975: l’uno, Ms 3, di un inciso avente per confini: «Lasciò la speronara […] alla sua casa a Cefalù» (ff. 31-30v ), l’altro, Ms 4, di un ulteriore innesto nel tronco dell’inciso precedente: «Dietro questi pezzi […] Caserta e di Versailles» (f. 18). Questi stessi due quaderni Mss 3 e 4 sono inoltre legati dal ricordo, presente in entrambi, del primo incontro tra Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo avvenuto in un giorno segnalato, il primo in cui grazie a una disposizione del Concilio Vaticano II si celebrava la messa in lingua italiana: domenica 7 marzo 1965.37 L’appunto potrebbe essere trattato alla stregua di un indizio temporale e, per come e dove è tradito, una sorta di a quo / ad quem. 38 Il riuso da parte dell’autore di Ms 4, vergato capovolto, assicura poi la trasmissione dell’articolo giornalistico su Guttuso già ricordato e da datare perciò ante il 18 ottobre 1974. Se, infine, contestualmente ai dati appena forniti, consideriamo che Ms 3 tramanda varie stesure di Morti sacrata (futuro cap. III), le prime prove di Val Dèmone (futuro cap. IV), un appunto che rinvia a Il Vespro (futuro cap. V) e che Ms 4 tramanda brani di Val Dèmone e la Lettera di Enrico Pirajno all’avvocato Giovanni Interdonato (futuro cap. VI), si potrebbe inferire che, se non proprio intorno al 1965 (incontro Sciascia-Piccolo), già alla data del 1974 (articolo sulla mostra di Guttuso) o tutt’al più, in ultima istanza, nel 1975 prima dell’edizione Manusé, il Sorriso fosse per buona parte, quasi per intero in movimento. Allo stato attuale, mancherebbero attestazioni mss databili solo dei capitoli VII, VIII, IX. 37. Cfr. Ms 3, ff. 17v e 20; Ms 4, f. guardia 1v . 38. L’appunto sarà sviluppato in Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 142 e ricordato in Fuga dall’Etna, op. cit., p. 23-24, dove viene ulteriormente esteso (testo in corsivo nostro): «Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”. “C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone». L’interesse per il poeta aveva già dato frutto in un’intera pagina del giornale di Nisticò con un articolo: «Il barone magico: Lucio Piccolo», L’Ora, 17 febbraio 1967, accompagnato da quattro canti inediti. Si noti che «Il barone magico» è il titolo scelto da Consolo per il trittico che costituisce la penultima parte della sezione Persone, seconda e centrale di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135, 136-144, 145-149. Se andiamo ora, secondo esempio, alle tre cartellette di dattiloscritti, se ne potrà ricavare informazione sia dai fascicoli contenuti, sia anche dai bifogli di cartoncino colorato (rosa) che li raccolgono e conservano. Ed è informazione di peso circa il crescere del progetto di scrittura e la graduale definizione dell’architettura dell’opera. Solo qualche breve accenno. Si confronti ad es. la copertina della cartelletta denominata Ds 1, contenente prime stesure dei capp. I-VI, con annotazioni a mano di Caterina Consolo, con varie modifiche di titolo, con quella della cartelletta designata Ds 3, contenente tutta l’opera tranne il cap. VI (Lettera…), sulla quale appare già lo schema definitivo autografo con le date relative alla scansione del tempo interno dell’opera, in corrispondenza dei singoli capitoli: un’articolazione in tre parti (la prima: cap. I + App. I e II, cap. II + App. I e II; la seconda: capp. IIIV; la terza: capp. VI-IX) + Appendici finali, numerate «10)» e intitolate inizialmente «10) La fucilazione» e poi poste sotto l’epigrafe generica «10) Appendici»; e ancora qualche titubanza sulla collocazione di Morti sacrata (il capitolo prima segue «3) Val Dèmone» ed è quindi numerato «4)», ma poi entrambe le numerazioni vengono emendate ed invertite). Ancora più illuminante il fascicoletto numerato Ds 1.1, intitolato polisemicamente Carte per gioco e con l’eloquentissimo sottotitolo «(Racconti e cose da raccontare fin dal tempo di Garibaldi)», il quale sembra in tutto e per tutto lo schema strutturale di un’opera non nata, o piuttosto la crisalide che si trasformerà nella futura farfalla:39 le Carte sono articolate in tre tempi: «narrativo» (e sarebbe il Sorriso del 1969, quello di Nuovi Argomenti, preceduto però da un «Antefatto» scritto ex novo e seguito da un’appendice documentaria (Lettera di Enrico Pirajno barone di Mandralisca al barone Andrea Bivona),40 «storico» (con riportati brani documentari storici sulla strage di Alcara e un bollettino di guerra), «magico o poetico», dedicato a Lucio Piccolo, brano che con qualche variante vedrà la luce molto tempo dopo nelle Pietre di Pantalica. 41 È evidente, e non può non sorprendere, come in tempi insospettati ed alti nella cronologia del Sorriso, fossero già tutti presenti i principali semi, gli elementi lievitati nel futuro libro: l’invenzione diegetica, l’analitico storico d’influenza tedesca, il poetico; ci fossero i personaggi e i fatti: insomma, come scrive Enrico Pirajno di Mandralisca, per un momento alter ego dell’autore, «il timbro e il tono, e le parole» (Sorriso, ed. 2004, p. 119). Sembra pure chiaPer una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, 2005 125 39. Il titolo è allusivo: nugae, carte da gioco (tre come i tempi), cartelle dss «per giocare», e verosimilmente anche nel senso traslato del jouer, del play, «da eseguire, interpretare, rappresentare». Ancor di più il sottotitolo, con l’accenno al già raccontato (la propria pièce iniziale) e alle cose o fatti otto-novecenteschi ancora in cerca d’autore, un autore che sappia come raccontarli, e in quale chiave: diversa dalla canonica, allora, da quella suggerita dagli auctores?, non alla Verga, Pirandello, Tomasi, Sciascia? 40. Sarebbe la prima attestazione della futura «Appendice prima» del cap. I. 41. È il primo dei tre capitoletti riuniti — come già detto — sotto il titolo «Il barone magico» nella sezione Persone di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135. 126 come fosse già maturata la scelta del «romanzo storico-metaforico»42 con un occhio rivolto al Manzoni, ma superandone il paternalismo espressivo grazie all’insegnamento di Verga,43 e l’altro ai tedeschi del Gruppo 47, gli «analitici» Hans Magnus Enzensberger, Alexander Kluge ed altri, di cui aveva dovuto leggere pagine sul Menabò vittoriniano (9, 1966) e nelle traduzioni dei primi anni Settanta,44 e che lo riportavano forse al Manzoni che ritratta e, ormai spinto alla negazione dei suoi stessi precetti poetici, è capace solo di redigere la Storia della colonna infame45 che a tutti i costi vuol pubblicare in solido con I promessi sposi (1842).46 Scorgiamo già all’orizzonte, insomma, il Sorriso quale è arrivato a noi, e nella chiave e forma, scelte dall’autore, di «romanzo ideologico», cioè di romanzo «critico», di una ideologia che consiste «nell’opporsi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.»47 42. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70; all’insegna della convinzione più volte manifestata, ed esplicitata dall’esergo di questo stesso libro-intervista (p. 1), che: «Il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la letteratura (H. M. ENZENSBERGER, Letteratura come storiografia)». 43. C. RICCARDI, «Inganni e follie della storia », in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 91. 44. Ibid., p. 82 e p. 109, n. 3. E, prima, cfr. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 45. Nell’a parte, quasi alla fine del cap. VII del Sorriso, viene alla fine omesso un brano dell’Introduzione della Storia manzoniana, che viene bensì riportato nella fonte di quel passo (in corsivo nostro il lacerto tradito da Luciano Gussoni, op. cit. e poi espunto): «Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con squilli lame della notte, perché il silenzio, la pausa ti morde. || Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. «…La rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale…; il timor fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono state issate le colonne dell’infamia. || Ma tu aspetta, fa’ piano. […]» (Sorriso, ed. 2004, p. 130). 46. Un’incisiva descrizione della macerante riflessione manzoniana viene proposta da Giovanni ALBERTOCCHI, Alessandro Manzoni, Madrid: Síntesis, 2003, p. 106-116. 47. In questi termini viene esplicitata la definizione in V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70. Dalla facile accusa di ideologismo mette al riparo la pregnante valutazione di M. ONOFRI, «Nel magma italiano», in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 60: «Consolo, ecco il punto, è un miracoloso scrittore politico: laddove il miracolo sta nel fatto che la politica gli si eserciti sulla pagina per via di un’oltranza di stile.»

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Vincenzo Consolo: Le pietre di Pantalica

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Di cose terribili e di perdite senza rimedio, o di riappropriazioni quasi miracolose, Vincenzo Consolo parla nel suo recente libro Le pietre di Pantalica, ma il senso generale che ne emana è quello di una strana, confidente dolcezza, di un respiro che permane giustamente ritmato, “sano”.

     Questo libro è costituito come da un terriccio fresco di apporti estremamente variati, da cui direttamente cresce la vitalità più intima dello “scrivente”, prima ancora che dello scrittore.

L’autore sta chino, tra schifo ed entusiasmo, tra gioie segrete o paralizzanti perplessità, a scrivere un suo brogliaccio del tutto particolare; è incerto su quanto vi si può inserire, troppe altre cose premerebbero intorno, le voci degli altri si confondono con la sua stessa, in una continua (e seducente)  metamorfosi, “suggeriscono” da chissà che anfratti del tempo e dello spazio, pur sempre inesorabilmente caratterizzato e delimitato come siciliano. Ma non è questo un soliloquio, è sempre un rivolgersi ai molti che sicuramente partecipano di una passione e di un’aura; anzi è quasi una preghiera rivolta a non si sa chi o che cosa, mormorata e insistente, interrotta da pause legate ad un loro tempo musicale, e in essa pare si salvaguardi almeno l’unità dell’io, di ogni “io” minacciato dall’ oscura follia che irrompe fin dal primo stralunante racconto.

     Ed è il permanere di una giustizia-fiducia insite nel fatto stesso dello scrivere, che colma, fa spazio e fa riapparire radici. Il libro risulta quasi riportato al suo carattere di strato vegetale, tende a porsi quale parte del “libro” inconsumabile di un albero di tutti gli autentici viventi.  E invano qui si cercherebbero progetti di fuga dal vero nel surreale programmato, o in ingegnose e angosciose analisi destinate a bruciare, per la loro inutilità, i cervelli che le hanno generate, o in labirinti dei quali si sa e risà tutto, o nei referti antropologici “in quanto tali”, su una realtà siciliana divenuta, nonostante le molte sue luci, sempre più emblematica di una delle più devastanti malattie della società e della storia.

     Nemmeno è in primo piano qui il problema del linguaggio, delle sue tecniche, riguardo ai quali temi Consolo ha già dato prove della più acuta consapevolezza. Il linguaggio/lingua è quello che è, se ne può inventare uno ad ogni svolta di strada: ma, se si sta in questa sommessa assolutezza, è incessante e lieve litania nella quale le pulsioni espressive, i  soprassalti del dire, lessico o sintassi, non sono poi così importanti da dover costituire un’ansia, un corruccio pagati per una conquista. Gli spostamenti si verificano tempestivi e i passi s’infittiscono o cedono ad un trasognato riposo; così come il narrante, “io” o no che sia, e con i suoi diversi strati di esperienza (siciliana, ma pure milanese), entra ed esce dai personaggi o dai paesaggi, o dalle stratigrafie e dalle singolarità, sfiorando con noncuranza preteriti trattati, appunto, di narratologia.

     Si ritrovano allora temi quasi obbligatori della narrativa siciliana, dall’arrivo degli americani, alle già preistoriche occupazioni delle terre, fino alla grandiosa rēverie in cui si intrecciano, nella mancata identificazione della tomba di Eschilo, il più sottile pathos mistico e una quasi rabelaisiana, brutale comicità; mentre passano, entrati in una loro leggenda, personaggi “eponimi” come Leonardo Sciascia, o l’umile e amoroso antropologo Antonino Uccello, o il gran cantastorie Ignazio Buttitta, o, caro sopra tutti, Lucio Piccolo, lo straordinario poeta cugino del ben minore Lampedusa.  E come in Verga (o Vittorini), sempre all’orizzonte, compiono la loro bellissima parte quelle entità che sono i toponimi, liberi suoni che finiscono per dire di più proprio a chi non può riconoscervi i luoghi. Altrettanto trasudano succhi e sapori le parole che denotano piante, strumenti, oggetti, scorrenti tra dialetto, italiano e manuale scientifico, spesso e in diversi modi obsolete, e con un tale aroma-afrore di memoria, o perfino di necessario vuoto di-presenza, da non far muovere la mano di chi legge verso vocabolari e simili.

     Ma il momento più alto del libro è quello in cui il bambino malato, in villeggiatura su verso i monti, incontra la selvatica fatina Amalia, una ragazzina che lo porta dietro porci e capre al pascolo nel bosco e rivela, anzi inventa, i nomi di ogni cosa in una sua lingua personale, “ma Amalia conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, illitterato con cui parlava alle bestie”, e poi tanti dialetti, e i nomi propri dei singoli animali. Varrebbe la pena di riportare tutto un campionario del fascinoso impero linguistico di Amalia: che sa essere anche dura con l’amico, che lo trascina a piedi scalzi per “zolle, sterpi, rovi, cespugli di spino agrifoglio ampelodesmo” e lo trasforma, iniziandolo alla vita vera e forse anche alla vita vera della scrittura che egli svilupperà da adulto.

     Altrettanto sconvolgente, al punto opposto di tanta libertà ormai remota, è quello da cui si frana nell’oggi, in una Palermo che trasuda pus e disgregazione: “Questa città è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola”. E, in un incubo da Blade Runner, che pare proiettarsi sempre più dilatato dentro il futuro, la città appare come “febbre, schiuma velenosa di furia omicida, mentre ristagna su di essa un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo”.

     Consolo chiude improvvisamente, o meglio lascia sospeso il discorso su una storia marinaresca (vera) se mai ancora più cupa, in cui si affacciano le violenze senza fine che vengono esercitate sul terzo mondo, sotto l’occhio di un giovane siciliano, marinaio per caso, che torna avvilito al paese. Ma non può disperare l’autore di quest’opera tanto amara quanto abbarbicata a quella minima letizia che viene dal sentire in cuore il pullulare di una lingua che fa di per sé sopravvivere.

Andrea Zanzotto
“Scritti sulla letteratura “ pag.308
Aure e disincanti nel Novecento letterario.
Letteratura Oscar Saggi Mondadori
Ottobre 2001
nella Foto Andrea Zanzotto
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” Incontri ” Matteo Reale intervista Vincenzo Consolo

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Incontro con Vincenzo Consolo


di Matteo Reale

“Noi siciliani siamo fortemente segnati da questa nascita. Non so bene spiegare il perché’ di questi segni così profondi che ci portiamo appresso: probabilmente è la storia siciliana che è molto forte, molto ricca, molto stratificata per cui il modo d’essere siciliano è molto più inquietante, credo, rispetto a qualsiasi regione italiana. E’ un’inquietudine ma anche una ricchezza culturale. Questo Pirandello l’ha capito e l’ha espresso nella sua opera: noi siciliani siamo uno, nessuno e centomila. Siamo in costante ricerca della nostra identità`, perché’ la Sicilia è fatta di tante culture, di tante anime, è passata attraverso tante dominazioni. E’ un’isola di un’infelicità sociale molto forte, che non ha mai conosciuto, nel corso della storia, armonia e pace. Perciò nasce il bisogno di fuggire da questa condizione, ma nel momento stesso in cui si fugge questi segni sembrano diventare più forti fino ad impedire un distacco definitivo.”

Così Vincenzo Consolo, scrittore messinese, descrive il particolare e indissolubile legame che si stabilisce tra il siciliano e la Sicilia. Legame che emerge come tratto caratterizzante dell’opera di ogni artista di quest’isola, nella letteratura come nelle arti figurative.

Il mio incontro con l’autore avviene nella sua abitazione durante un periodo di riposo tra un viaggio e un altro, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “L’olivo e l’olivastro” (Mondadori). Questa conversazione mi permette di appagare un’esigenza profonda, quella di rispondere al richiamo di sirena della Sicilia, al suo stesso bisogno di essere capita e accettata, anche attraverso la letteratura.

“Una letteratura connotata come la nostra, seppure su altri versanti, è la triestina: i triestini sentono come noi una condizione di marginalità`, in bilico come sono tra il mondo italiano e quello mitteleuropeo (si veda per esempio Svevo, Saba, Slataper, Magris). Quella siciliana, pero`, è molto più realistica, si rivolge ai problemi storico-sociali, da Verga al Pirandello de “I vecchi e i giovani”, a Lampedusa, a Sciascia.”

L’olivo e l’olivastro, racconto-romanzo sulla Sicilia di ieri e di oggi, è frutto di un approccio poetico e al contempo di una riflessione intorno al trapasso dalla millenaria civiltà contadina alla civiltà della Europa odierna, figlie di una cultura greca della quale, spiega Consolo, oggi non rimangono che necropoli, pietre inaridite.

“Il compito dello scrittore è quello di recuperare la coscienza del passato e del presente. Il segno più importante della nostra epoca, infatti, è quello della perdita della memoria. Si vive in un presente assoluto privo di passato e senza prospettive per il futuro. E non soltanto nella civiltà occidentale, ma anche nel mondo orientale, che fu dominato dal cosiddetto socialismo reale. C’è un tentativo da parte del potere economico e di quello politico di cancellazione di quelle che sono le piccole identità culturali: un processo di uniformazione, di omologazione. Si rischia di cadere in una sorta di distacco dalla realtà`, in una condizione di alienazione. Noi dobbiamo cercare di ricordare anche attraverso il linguaggio, perché anche il linguaggio viene cancellato: oggi siamo privati di un nostro linguaggio e siamo sottoposti ad un altro a noi estraneo.”

Così la concezione del tempo e dell’esistenza che fu di Joyce, di Eliot, di Hemingway, la linea del “perpetuo presente” viene rifiutata sul piano storico e letterario da Consolo, che vi oppone la memoria, intesa come strumento linguistico e culturale. Il linguaggio di Consolo, un impasto colto e inclita (l’olivo e l’olivastro!), utilizza le inesauribili risorse del dialetto, delle lingue straniere, del latino, di tutti gli strati linguistici che si sono accumulati nel corso dei secoli e hanno arricchito il patrimonio culturale siciliano. Il suo lavoro lessicale consiste in una sorta di scavo filologico, di ricerca in profondità e nel tempo, per recuperare e vivificare. Si svolge quindi, come lui stesso ebbe occasione di dire, seguendo due movimenti: uno verticale, storico e filologico, l’altro orizzontale, ritmico e sonoro. Stile personalissimo, che è stato definito barocco (Brancati disse che il barocchismo è una costante, un umore della letteratura siciliana), che ha fatto pensare ora a Gadda, ora a D’Arrigo: tuttavia esso diviene struttura portante dell’impianto narrativo, non resta mero esercizio di stile. Così ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), nel quale è riempito il divario tra realtà e finzione e reinventato il romanzo, così in “Retablo” (1987), nel quale la “prosa d’arte” è di per se’ uno schema, un gioco narrativo che crea una Sicilia remota ma viva e ironica.

“La mia matrice culturale è nel solco della tradizione siciliana. Lo schema letterario dei miei primi racconti è di tipo verghiano: non si può prescindere da una figura “sacra” come quella di Verga. Ho pubblicato solo quando ero sicuro di avere una mia identità`. Il mio modo di scrivere non è casuale: d’altronde è stata la sperimentazione linguistica che ha reso grande Verga: egli ha preso l’italiano e lo ha immerso nel dialetto, senza peraltro usare parole in siciliano.”

Quindi quello di Consolo è un linguaggio calato interamente nel mondo siciliano e appartenente forse ad entrambi i filoni in cui lo stesso autore distingue la letteratura della sua isola nella prefazione al saggio “Sirene Siciliane” di Basilio Reale (Sellerio, 1986). Quello occidentale di Pirandello, Sciascia e Lampedusa, storico e razionale, “e giù giù quelli del periodo normanno, svevo, aragonese, etc.”, e quello orientale, esistenziale e poetico, “a partire dal periodo bizantino, e quindi romano, greco, e indietro fino ai punti più profondi e insondati del passato, ai più arcaici e indecifrati come i loculi rupestri di Pantalica.”

Consolo svolge la sua ricerca sia sul versante storico-sociale, sia su quello lirico-poetico, addentrandosi nei crucci e nei dubbi esistenziali di una Sicilia assurta a metafora. Emergono così dai suoi romanzi, dai suoi racconti problemi costanti nella “sicilianità`”: la ricerca della propria identità`, perché’ “i siciliani”, affermava Sciascia riprendendo il Lampedusa del Gattopardo, “sono stati del tutto impermeabili alle dominazioni straniere, e un’autentica identità sicula è riuscita a conservarsi attraverso i secoli”; “il fatalismo individualista”, è ancora Sciascia a parlare, “che ci viene dalla nostra anima araba. La paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali che si ignora la forma futura dei verbi”; la dissoluzione del mondo mitizzato del passato e la conseguente alienazione di cui parla il nostro autore.

“In Sicilia questo smarrimento è dovuto ad un’identità molto fragile, proprio perché abbiamo molte identità: per questo è difficile essere siciliani. Fin da piccoli viviamo in quel maremoto che è la realtà siciliana. Si rischia continuamente il naufragio, la perdita della ragione. “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione.” Io, questa frase di Sciascia la intendo in senso esistenziale: quando il siciliano non impazzisce diviene un uomo con una disperazione dentro. Pirandello questo lo fa dire a Mattia Pascal. Il tema della disgregazione l’ho sempre affrontato. Ci sono due modi per uscire dalla ragione: si può uscire dall’alto con la fantasia creativa (è il destino dell’artista, che non si muove su piani razionali ma poetici) o con l’impegno politico. Ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio” una ragazza sfregia in un momento di follia il quadro col sorriso (che rappresenta la ragione dell’uomo maturo che si può permettere l’ironia) perché nutre ansie politiche e vuole la realizzazione di istanze sociali. Dalla ragione si può anche uscire dal basso per disgregazione della stessa: la follia del monaco nel capitolo “Morti sacrata”, ancora ne “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, è la corruzione della ragione.”

“E cosa non è forzatura, cosa non è violentazione in quest’Isola? Che cosa non arriva al limite della vita, della follia? Tutto quello che non precipita, che non si disgrega, che non muore, è verdello, è cedro lunare, è frutto aspro, innaturale, ricco d’umore e di profumo, è dolorosa saggezza, disperata intelligenza” (Le pietre di Pantalica).

La stessa attività dell’artista, pur nutrita dalla fantasia poetica, rimane sempre sospesa tra l’afasia di chi trattiene un grido di fronte alla corruzione del presente e l’affabulazione continua, logorroica, accumulativa di chi butta fuori tutto, come un folle, in un impeto liberatorio. “Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto. Solo può dire intanto che un giorno se ne partì con un bagaglio di rimorsi e pene. Partì da una valle d’assenza e di silenzio, mute di randagi, nugoli di corvi su tufi e calcinacci.” (Da “L’olivo e l’olivastro”)

I personaggi religiosi come quello di “Morti sacrata”, sono centrali e ricorrenti anche nell’ultima opera: ad essi Consolo associa dolori, ribellioni, pazzie. “I preti, i frati, le monache sono frequenti nel panorama della letteratura italiana (in Boccaccio e in Manzoni). Nella mia opera c’è una frequenza maggiore per via dei miei primi anni di studio all’Istituto religioso. Mi hanno sempre incuriosito: per me è impensabile come un uomo possa lasciare la vita quotidiana per accettare un ordine costituito: è tale poi la soggezione a queste regole che si ribellano, impazziscono o si innamorano (come frate Isidoro in Retablo).”

Il cattolicesimo ha dunque segnato la formazione dell’autore, come uomo e come artista. Egli, attratto dal mito di Verga e Vittorini, si trasferì a Milano per iniziare gli studi universitari proprio all’Università Cattolica.

“Mi si offri`, presa la licenza superiore, l’opportunità di fare gli studi fuori. La mia scelta di Milano fu motivata dal fatto che segretamente avevo fin da allora aspirazioni letterarie. Ma mi iscrissi a giurisprudenza perché non osai chiedere a mio padre di iscrivermi a lettere. Andai all’Università Cattolica perché c’era la possibilità di vivere in un pensionato (ricordo che costava ventimila lire al mese). Arrivai a Milano nel novembre del 1952, era seconda volta che uscivo dalla Sicilia: questa città mi colpì molto. Mi impressionò il fatto che potevo guardare il sole a occhio nudo di giorno: mi sembrava la luna siciliana.

Io frequentavo, oltre a Giurisprudenza, anche i corsi di letteratura italiana del professor Apollonio, su Pirandello per esempio. In quegli anni alla Cattolica c’erano i fratelli Prodi, i fratelli De Mita, e anche Emilio Isgrò, Raffaele Crovi, Basilio Reale, che ancora frequento.”

Consolo finì gli studi a Messina e si laureò. Risalì a Milano anni dopo, nel 1968, per restarvi. Ma senza abbandonare la Sicilia, dove è sempre ritornato per godersela e visitarla.

“Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e rigirare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove.

Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.” (da “Le pietre di Pantalica”).

Intervista di Matteo Reale pubblicata nel 1995 su “Fabula Review”, in quella che è stata la prima rivista letteraria on line

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Nella fotografia, Vincenzo Consolo (a sinistra) presenta, insieme a Vittorio Fagone, il volume di poesie I ricambi di Basilio Reale (a destra), nel 1969 a Palermo.

Studi per Vincenzo Consolo


Conversazione con Vincenzo Consolo
Anna Fabretti


Il testo dell’intervista che pubblichiamo appartiene ad un tempo quasi remoto, a una fase della carriera letteraria di Vincenzo Consolo, allora appena sessantenne, in cui la fama ottenuta con Il sorriso dell’ignoto marinaio e con i successivi romanzi lo consacra come uno dei maggiori scrittori italiani della fine del secolo. Il 25 giugno 1994 andai per la prima volta a Milano a incontrarlo e registrai più di due ore di conversazione.

Trascritto minuziosamente dalla diligente studentessa di allora, il testo è rifiutato una prima volta alla pubblicazione o, per meglio dire, è accettato con tanti e tali tagli da indurmi a una giustificata rinuncia. Si perde poi nei meandri di una valanga informatica che travolge il supporto su cui era stato registrato. Per un’incredibile coincidenza, sarà poi ritrovato, su fogli di carta ingiallita, usciti da una preistorica stampante a nove aghi, nel fondo di un cassetto da cui nessuno avrebbe mai potuto stanarlo se non la curiosa allegria di un bambino. In breve, questa la ragione dell’ingiustificabile ritardo di stampa.

Nella revisione del testo ho privilegiato una struttura senza domande, che riordina con la dovuta fedeltà il lungo discorso di Vincenzo Consolo, le argomentazioni e i riferimenti. La continuità del discorso prevale sulla discontinuità della conversazione e permette, a mio parere, di cogliere più estesamente le idee enunciate, come se si trattasse più di una lezione che di un dialogo. Come si vedrà, molti dei temi qui in nuce sono poi stati ripresi e sviluppati altrove, sia nelle numerose interviste, sia negli articoli sia nei saggi2. Il discorso si sviluppa dunque intorno ad alcuni blocchi tematici, fitti di rimandi interni, che danno al testo coesione e coerenza. Particolare attenzione è data al nucleo della sperimentazione, all’idea manzoniana della scrittura come «metafora», al rapporto con Pirandello e con Verga.

Mi auguro, nel chiudere queste pagine, di avere dato la giusta luce alle parole dell’autore, sciogliendo, almeno in parte, un debito di riconoscenza che a lui mi lega, proprio da quel lontano 1994.

Il rapporto con le avanguardie, con diverse forme di sperimentazione letteraria

Antonio Pizzuto non era un autore d’avanguardia, o almeno non militava nell’ultima avanguardia italiana, che – sappiamo tutti – è il Gruppo 63. Ma non è per caso che Pizzuto sperimentava per conto suo ed era arrivato a determinati esiti ed era stato scelto, eletto, come nume tutelare degli avanguardisti del Gruppo 63. E dunque io, mentre cominciavo a scrivere, prendevo le distanze, sia dagli avanguardisti del Gruppo 63, sia da Pizzuto (Cherchi 1987), perché la mia sperimentazione è su un altro crinale, in un altro alveo, ed è la sperimentazione di tipo storicistico di tutti gli scrittori – senza andare lontano nel tempo, parlando del romanzo moderno – a partire da Verga sino a Gadda, passando attraverso Pasolini.

6E che cosa significa questo? Significa che lo sperimentatore è colui che lavora sul codice linguistico dato e cerca di rompere questo codice linguistico che, come tutti i codici, diventa rigido nei confronti di quella che Pirandello chiama la Vita. Il compito dello scrittore è di rompere il codice per immettere la Vita, poiché il codice è una Forma. Bisogna rompere tutte le forme per immettere la realtà.

La realtà di Verga, qual era? La realtà di Verga non era mai stata italiana, era una realtà di una periferia geografica, qual era la Sicilia, e di una periferia umana, qual era il grado più basso della condizione umana, quella dei pescatori di Aci Trezza. Ora, per Verga, far parlare questi personaggi in lingua toscana sarebbe stata una contraddizione. Questa è stata la grande rivoluzione linguistica, la grande sperimentazione di Verga. Bisognerebbe fare tutta la storia di Verga, di com’è arrivato a questa sua conversione, a questa caduta da cavallo sulla via di Damasco. Verga è un caso classico di conversione letteraria. Partì imboccando una strada, che è la strada – come sappiamo – del romanzo mondano; esce dalla Sicilia, va a Firenze prima, scrive dei romanzi di successo anche molto conosciuti, ma il romanzo che gli servì da biglietto da visita è stato La storia di una capinera, che era un tema molto alla moda, di derivazione diderotiana e manzoniana, cioè quello della malmonacata. Quindi, quando da Firenze si sposta a Milano, si presenta con questo biglietto da visita molto mondano, viene accolto nei salotti, e pensa di continuare a scrivere i romanzi che aveva letto fino a quel punto, ma si trova in una città che è in un momento storico particolare. Ricordiamoci che era il 1872. Milano era in preda alla prima rivoluzione industriale, la città era in pieno subbuglio, nascevano nuovi quartieri, quartieri operai, nuove industrie, si apriva la Pirelli. Il fatto è che, di fronte a questo sommovimento del panorama sociale, del panorama politico – perché avvenivano allora, con la crescita del capitale, i primi scontri sociali, c’erano i primi scioperi, le prime organizzazioni operaie – Verga rimase spiazzato, perché capì che la letteratura che aveva praticato sino a quel momento non rappresentava il contesto storico in cui lui si muoveva. E quindi, come scrive Sapegno, ritornò alla Sicilia della sua infanzia, al mondo intatto e fermo della sua infanzia, che era una sorta di Sicilia immota, la Sicilia del mito, la Sicilia del ricordo. E incominciò qui la sua svolta, la sua grande sperimentazione linguistica, avendo come parametro naturalmente la lingua di Manzoni. Ecco io credo, come credono in tanti, che lui abbia scritto contro Manzoni, contro il toscano di Manzoni.

Ricordiamoci che il toscano di Manzoni era un toscano rivoluzionario, nel momento in cui Manzoni lo scriveva, perché doveva dare una lingua agli italiani; quello di Manzoni era un intento di tipo ideologico, di tipo politico, di unificare questo paese linguisticamente. Quando passa il momento manzoniano, in cui l’unità è avvenuta, in cui la nazione rischiava di diventare nazionalismo, si lasciano fuori dall’indagine letteraria strati popolari e zone di questo paese che la letteratura non aveva riflettuto fino a quel momento, se non a livello dialettale. Verga si incarica quindi di portare in letteratura questi personaggi, che sono i vinti, quelli che lui, nella sua concezione immobile del fato, aveva immaginato come vinti. Parte dal primo gradino della società: concepisce un grande affresco e la rivoluzione linguistica. Da Verga in poi, comincia il filone moderno della letteratura italiana e della sperimentazione linguistica, ma nell’alveo della tradizione.

Quando c’è l’avvento del fascismo – e questo bisogna tenerlo presente perché la letteratura non si muove nel vuoto, si muove nella storia – avviene una sorta di imposizione del codice linguistico nazionale, per cui si scriveva in toscano e il romanzo di tipo sperimentale incominciò a diventare sospetto. Si formarono delle correnti letterarie che vanno sotto il nome di Ronda o di Voce, che immaginavano una sorta di lingua pura, di lingua metallica, assolutamente formale. Il romanzo cadde in disuso e venne di moda il frammento, ci fu il periodo del frammentismo, dell’elzeviro, che era la bella prosa.

Non bisogna poi dimenticare le due esperienze che precedono il fascismo e sono parallele ma speculari: da una parte, questa specie di orgia linguistica e lussureggiante che era stata la lingua dannunziana e che aveva pervaso tutta la borghesia e la piccola borghesia italiana, per cui, quando si scriveva, bisognava scrivere secondo i moduli dannunziani. Dall’altra parte, c’era stata l’esperienza devastante, azzerante dei futuristi, dei marinettiani. Si tratta di due fenomeni speculari: voglio dire che tutti e due, sia Marinetti che D’Annunzio, non facevano altro che riflettere la lingua del potere e al potere interessava azzerare i codici della lingua per poter costruire una lingua del potere stesso.

  • 3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

Io penso veramente che le avanguardie non siano altro che la faccia speculare del codice linguistico del potere; quando poi finiscono, decadono, adottano la lingua del potere, la lingua della conformazione. Mentre la sperimentazione è più inquieta, perché opera nella tradizione e cerca di immettere le voci della verità, non delle voci artificiali, di gruppi di letterati. Finito il fascismo, crollata questa doppia lingua, Pasolini fa un’analisi molto dettagliata e molto bella nel 1964, quando scrive il suo famoso saggio sulla nascita della lingua italiana e fa una disamina di quel che era la lingua italiana fino a quel punto3.

Caduto il fascismo, naturalmente si sente l’esigenza di tornare alle vecchie sperimentazioni, con immissioni, con sperimentazioni linguistiche, e si ha il grande fenomeno di Gadda. Non si può immaginare niente di più lontano di uno scrittore come Gadda da Verga. Verga è casto, parco, asciutto: la sua lingua non era dialettale, ma era – come dice Pasolini – una lingua toscana irradiata di dialettalità; aveva abbassato il codice linguistico toscano a livello della sintassi e della paratassi dialettale siciliana, mettendo in campo tutti i modi di dire, i proverbi. Verga aborriva il dialetto, perché sapeva bene che il dialetto era un’altra cosa. Aveva avuto una polemica con Capuana sull’uso del dialetto in letteratura, e non solo con Capuana, ma anche con un altro scrittore siciliano che si chiama Alessio Di Giovanni, che gli aveva proposto di tradurre in siciliano I Malavoglia. Verga si era assolutamente opposto, perché sapeva qual era la sua rivoluzione linguistica. Parlando appunto di Gadda, sono due scrittori molto lontani: quanto uno è monocorde, così parco, così pietroso, tanto l’altro è polifonico, ricco, barocco. Gadda, in un’intervista uscita in un libro recente (questa intervista credo sia uscita al momento della pubblicazione del Pasticciaccio brutto de via Merulana), a chi gli faceva i nomi di Zola, di Queneau, di altri scrittori francesi, di una sperimentazione esterna all’Italia, ha risposto di considerarsi figlio di Verga. Si riconosceva appunto in questo filone della sperimentazione linguistica italiana a partire da Verga, solo che gli strumenti usati da Gadda erano diversi da quelli usati da Verga. In Gadda c’è la polifonicità dei dialetti: recupera tutti i dialetti italiani (questo grande calderone) per rappresentare il paese, mentre Verga usava un registro monocorde dell’irradiazione.

Pasolini, insieme a Gadda, è stato l’autore che nei romanzi ha sperimentato anche linguisticamente attraverso la tecnica della digressione; i personaggi partivano dall’italiano, poi man mano scivolavano verso il dialetto. Io mi riconosco in questo filone, considero come mio padre tutelare Verga, non credo negli azzeramenti, non credo nelle avanguardie, perché credo che la letteratura sia una continua sperimentazione, sperimentazione non solo linguistica, ma anche sperimentazione sulle strutture narrative, sulla struttura stessa del romanzo. Per quanto mi riguarda, io non ho usato né la digressione pasoliniana o gaddiana né l’irradiazione di tipo verghiano. Io ho usato quello che chiamerei l’innesto: innesto di parole, di fonemi, di lessici, che sono stati espunti dal codice linguistico nazionale, che mi ritrovo nella memoria, nel mio bagaglio regionale, nella storia linguistica siciliana. Parole di lingue che le varie dominazioni hanno lasciato in Sicilia, le varie civiltà se non vogliamo chiamarle dominazioni. E quindi io cerco di immettere questi vocaboli, che non sono italiani ma che hanno una loro dignità filologica, che vengono da altre lingue. Sono vocaboli che di volta in volta possono venire dal latino o dal greco, dall’arabo o dal francese, dallo spagnolo e che sono il segno della ricchezza storica, civile e linguistica della regione di cui io parlo. I miei personaggi, e anche lo stesso io narrante nei miei romanzi, recuperano questi vocaboli che sono stati cacciati via, che sono stati sepolti.

Io ho spesso paragonato il mio lavoro di ricerca linguistica al lavoro dell’archeologo: cerco di scavare per tentare di disseppellire questi resti, questi reperti linguistici, e di metterli alla luce, di metterli in circolo. Poi, naturalmente, obbedisco ad altri criteri: sono i criteri della sonorità, del polisenso che può avere un vocabolo di più sensi piuttosto che un unico senso. Ubbidisco a tante esigenze in questa mia sperimentazione. In questo mi sento lontano da Pizzuto, perché io sono sempre spinto da un intento storicistico nella mia ricerca, cerco di essere sempre aggrappato alla storia e la mia sperimentazione non è solamente in senso formale. Mi preoccupo sempre che ci sia un equilibrio tra il contenuto e la forma, tra quello che voglio dire e il modo in cui lo dico. In Pizzuto invece c’era lo scivolamento solo in un senso formale, e la sua scrittura diventava come una musica atonale, una scrittura astratta, dove la linea narrativa non si svolgeva più, le parole diventavano puro suono senza il significato, era puro significante. In quello mi sento molto lontano da Pizzuto e capisco perché gli avanguardisti avessero scelto Pizzuto come loro nume tutelare, proprio perché era la pura sperimentazione formale.

Il rapporto con Luigi Pirandello

La lezione pirandelliana l’ho appresa attraverso Sciascia. Credo che il mio nome si possa accostare a Pirandello in questo: che c’è in me l’ansia… Voglio dire che c’è in me il desiderio, il bisogno, la volontà di uscire dall’immobilismo verghiano; perché io credo che in Sicilia ci siano due modi per essere scrittori: appartenere al filone verghiano o appartenere al filone pirandelliano. Voglio dire che ci si può immettere nella zona del mito, ci si può immettere nella zona dei temi dell’assoluto dell’esistenza e chiudersi in questa sorta di concezione fatalistica della vita, dell’esistenza della condanna del fato nel modo in cui l’aveva concepito Verga, di una vita circolare senza assolutamente nessuna via di uscita. Io credo che la modernità di Pirandello consista nell’aver cercato di rompere questo cerchio e di riportare il discorso letterario non sulla circolarità, ma sulla linearità. E Pirandello l’ha fatto attraverso la dialettica, l’ha fatto attraverso la parola, quindi ha rotto quella chiusura del proverbio, del modo di dire ereditato dai padri, dalla tradizione, così come l’aveva concepito Verga, questo parlare come se fosse un salmodiare di Sacre Scritture, della Bibbia o del Corano; erano delle formule quasi sacre che si ripetevano. Pirandello ha cercato di far uscire l’uomo dalla sua condizione di condanna attraverso la ribellione, la rottura di questo codice linguistico e quindi la dialettica, l’interrogarsi sul perché di questa condanna, il chiedere conto a qualcuno del perché di questa condanna. Ne viene fuori un mondo ancora più straziante in Pirandello: è quello che Giovanni Macchia chiama «la stanza della tortura» (Macchia 1981), è un continuo torturarsi. C’è questa grande rivoluzione pirandelliana nel teatro e nella sua prosa – a parte i romanzi di tipo storico – di uscire dal cerchio verghiano e di rompere la fatalità della tragedia greca, di portarla sul piano della commedia moderna attraverso l’umorismo, attraverso l’ironia, attraverso l’articolazione della parola e del discorso, quindi attraverso la comunicazione. Ora, questo è un modo illuministico, un modo moderno di concepire la condizione dell’uomo e io ho cercato, per il mio destino di centralità – sono nato nella Sicilia centrale e mi sono trovato in bilico tra questi due mondi, il mondo orientale di Verga, che è invaso dalla natura, che protende verso il lirismo e verso il mito, e il mondo occidentale, che è il mondo più dialettico, il mondo più storicistico, più della ragione, a cui appartiene Pirandello, a cui appartiene Sciascia – io ho cercato di conciliare questi due opposti e quindi la mia scrittura forse consiste in questa continua oscillazione tra il mito e la storia, tra il lirismo e la dialettica. Io, sotto questo bisogno dell’espressività o dell’espressionismo, come l’ha chiamato Segre, credo che si scorga il martellare della ragione, della dialettica, dello storicismo. In questo io mi sento anche erede di Pirandello. Per esempio Vittorini, che apparteneva alla Sicilia orientale – veniva da Siracusa – e quindi era fortemente invaso anche lui dalla natura, aveva una propensione al lirismo, che non poteva spegnere; anche lui aveva sentito il bisogno di uscire dall’immobilità, aveva concepito i suoi racconti, i suoi romanzi come viaggi, come movimento; però l’aveva fatto soltanto esteriormente, perché poi anche Vittorini, alla fine, risulta un grande formalista. Tuttavia c’era questa esigenza del movimento, del fare, del togliersi dall’immobilità della rassegnazione, del dolore. Mentre in Pirandello tutto questo dolore diventa essenza, diventa parola, in Vittorini è soltanto nella vicenda raccontata il movimento, ma formalmente, stilisticamente, rimane chiuso anche lui dentro la forma.

Il teatro, la teatralità, la «vastasata»

Pirandello per forza doveva poi alla fine salire sul palcoscenico, perché la sua scrittura è teatrale, è una scrittura dialettica, dialogica, fortemente teatrale; quindi ha sentito il bisogno del teatro e di rompere le pareti del teatro, di creare la quarta dimensione.

La «vastasata» era il teatro popolare, molto scurrile, per i facchini, perché «vastaso» viene da «bastizo», che in greco significa «portare addosso» e quindi da noi esiste questa parola «vastaso» che è detta in doppio senso: sia come professione («u vastasu» è colui che porta, il facchino), ma anche nel senso metaforico della parola, che vuol dire sporcaccione, colui che usa il linguaggio scurrile. C’era quindi una forma di teatro siciliano, soprattutto palermitano, che si chiamava la «vastasata», che era un po’ come le atellanae, come il teatro romano più scurrile. Cocchiara (1926) si è occupato di questa forma di teatro, che usa un linguaggio molto sboccato, molto diretto, un teatro di tipo carnascialesco, che poi usciva dagli argini del carnevale e diventava un teatro per tutto l’anno, perché quella licenziosità si ammetteva soltanto nel periodo del carnevale, ma poi ha finito per essere recitato tutto l’anno.

Pirandello, Sciascia e lo zolfo

Essere dentro o fuori dalla miniera di zolfo significa che i parenti di Pirandello erano proprietari di zolfare e Sciascia era nipote di uno zolfataro. La differenza sta in questo. Pirandello stesso ha fatto il guardiano per un breve periodo, quando voleva smettere di studiare, in una zolfara. Suo padre era un proprietario e commerciante di zolfo e forse il nucleo del dolore pirandelliano viene da questa personalità del padre, che era molto forte, e da questo mondo tremendo e anche terribile dei commercianti di zolfo, dei proprietari. Sono tutti e due scrittori di tipo logico-dialettico, ma l’uno verso la zona dell’esistenza (Pirandello), l’altro verso la zona civile, politica, perché anche tutta la letteratura di Sciascia è una letteratura dialettica, quella dell’indagine, del delitto ecc.

È questa la grandezza di Pirandello. Dove avviene questa tortura? Nel chiuso di una stanza, in un interno borghese, mentre la dialettica di Sciascia avviene nella piazza del paese di Racalmuto, dove si discute dell’amministrazione comunale, del circolo dei civili, perché l’uno era figlio di zolfataro, l’altro era figlio di proprietari dello zolfo. È questa la differenza per cui io dico «dentro» o «fuori» della miniera. Erano tutti e due sulfurei, sia Pirandello che Sciascia. La presenza dello zolfo è stata molto importante in questi due scrittori, credo che abbia veramente segnato le loro personalità. Io ho scritto un saggio sulla letteratura dello zolfo, uscito in un libro che si chiama ‘Nfernu vero, delle Edizioni del Lavoro (Grimaldi 1985). È una di quelle cose che dovrò ripubblicare. È una disamina di quella che è stata la letteratura scaturita nella zona delle zolfare in Sicilia.

La parodia, l’«abrasione»

Il mio romanzo su cui i critici si sono più soffermati, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nella scrittura è la parodia di una scrittura, non è la scrittura dell’autore: è la parodia di un erudito dell’Ottocento, che è il barone di Mandralisca, che poi cade in crisi. È, dicevo io, una scrittura in negativo perché, nel momento in cui questa scrittura si dichiara, nello stesso tempo si nega, perché è parodistica, perché è abrasiva, l’intento è abrasivo. E quindi, a un certo punto, c’è la rottura di questo linguaggio ottocentesco, dell’erudizione ottocentesca, con le scritte dei condannati a morte, c’è questo stacco linguistico, questa frattura. Il libro è molto complesso, perché bisognerebbe parlare anche della struttura oltre che del linguaggio. Questi giochi sono però sempre in bilico, perché è una scrittura in negativo che a momenti, nei momenti di commozione, si rovescia in scrittura in positivo, nella rievocazione degli orrori; quando il barone descrive la strage di cui è stato testimone, c’è molta pietà e allora la parodia si smette, diventa adesione, non è più parodia.

Anche Retablo è il massimo della parodia, è una parodia settecentesca di Fabrizio Clerici, che è un uomo del nostro tempo. Ma sotto questa parodia vengono fuori dei momenti di grande sarcasmo nei confronti di una certa Sicilia retorica, che è quella di Alcamo. Poi c’è naturalmente la commozione di fronte a una certa bellezza della Sicilia. Questo è un libro che nasce dalla polemica: è l’allontanamento di un intellettuale, di un artista, da Milano, da una Milano fortemente ideologica che in quel momento – era la Milano degli Illuministi – ed era la polemica di chi scriveva, contro il cristallizzarsi solamente dell’ideologia, che riflette solo il dato politico dell’uomo e non il momento globale umano. E questo personaggio, innamorato di Teresa Blasco (dentro ci sono molti segni, molte metafore), che poi è la nonna di Manzoni, il padre della letteratura italiana moderna, ha questo senso: che l’ideologia con la poesia (che è rappresentata da Teresa Blasco) genera uno scrittore come Manzoni. E quindi Fabrizio Clerici che si allontana dalla città ideologica, dalla città illuministica, va alla ricerca della poesia e la cerca nel luogo in cui è nata la sua donna e quindi prova commozione di fronte alla bellezza, ma vede anche gli orrori, vede quello che deve vedere la letteratura, che nessuna ideologia, nessuna storiografia riesce a vedere. Soltanto l’arte riesce a vedere gli orrori e le bellezze dell’esistenza, della vita, quindi ecco le scene di Alcamo, la commozione di fronte alle antichità, che a volte sono anche ironizzate; ad esempio, quando c’è la statua dell’efebo di Mozia che cade in mare, c’è l’ironia del feticismo delle antichità, ci sono tutti questi segni. È anche quello un libro molto parodistico, che vuole liberare determinate metafore moderne; poi c’è un’invettiva contro Milano da parte di Fabrizio Clerici, che era un’invettiva di uno – di chi scrive – che aveva amato questa città, che se ne era disamorato perché vedeva questa città deteriorarsi, diventare quello che sappiamo. C’è un momento in cui lui dice «arrasso, arrasso», in cui c’è l’enumerazione di una Milano che era la Milano del momento in cui io scrivevo e in cui tutti i personaggi che lui cita nella sua invettiva sono riconoscibili; quando parla del politico ladro, del prete trafficone, del poeta decadente, del gazzettiere: c’è tutta la Milano degli anni Ottanta, la Milano di Craxi.

La dialettica Milano-Sicilia era molto più ridotta prima, era la dialettica – fin dal mio primo libro – tra la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale. Io sono sempre stato dilaniato tra due polarità. Poco fa, facevo l’esempio di Verga e Pirandello; questo bisogno di conciliare gli opposti l’ho sempre sentito, allontanandomi dalla Sicilia. Retablo è proprio molto emblematico in questo senso, di questa polarità più ampia Milano-Sicilia. Dovrebbe essere il mondo della politica, della ragione, del vivere civile con il mondo del mito, della poesia, del lirismo, con tutto quel che significa, in un certo senso anche la Sicilia, il mondo verghiano; perché Pirandello aveva preso, anche se stava ad Agrigento, le distanze dalla Sicilia, per poterne parlare in modo logico, in modo razionale, dialettico.

La scrittura, la distanza memoriale

In Retablo c’è anche l’idea dello scrittore come «castrato» della vita. È la ripresa della frase di Pirandello «la vita o la si scrive o la si vive». È l’idea della condizione dell’artista, di questa nostalgia struggente di una vita da cui ci si apparta continuamente, e quindi c’è il tendere la mano, sempre per cercare di afferrare la vita che, intanto, mentre tu ti apparti per tentare di rappresentarla, scorre per conto proprio.

  • 4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni pater (…)

L’idea su cui si fonda Retablo è quella della lontananza che consente la scrittura, l’idea della distanza memoriale. Poi lo scrittore si riattualizza compiendo quel salto mortale che è la metafora, perché l’artista – lo scrittore soprattutto – ha sempre bisogno di volgere la testa indietro per attingere alla memoria, a quel patrimonio che si porta dietro e che non è l’attualità4. Questa necessità di volgere la testa indietro per attingere alla memoria è la distanza memoriale. Io non concepisco letteratura senza memoria. Non capisco tutta la querelle stupida che c’è stata negli anni scorsi tra i giornalisti, che sono i nuovi scrittori perché parlano dell’attualità, e degli scrittori che sono inattuali. C’è un grande discorso da fare su questo momento che stiamo vivendo, su questo secolo in cui c’è stata l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa e quindi la messa in crisi dello scrittore. E lo scrittore, per difendere lo spazio letterario, deve sempre di più ricorrere alla memoria, perché non è possibile per uno scrittore raccontare in termini assolutamente di comunicazione l’attualità, raccontarla in modo così diretto come fanno i giornali ogni mattina o come fa la televisione. Perciò molto spesso si confonde il giornalismo con la letteratura e molti aspirano a far omologare, a far diventare la letteratura giornalismo.

Quando è uscito il mio ultimo libro, Nottetempo, casa per casa, c’è stato un famoso giornalista, il quale ha una rubrica su L’Espresso, che ha osservato con molto candore:

Ma questo Consolo, quando scrive degli articoli sui giornali è chiarissimo, molto logico, e quando scrive i romanzi usa dei vocaboli come questi…

e indicava tutta una sfilza di vocaboli che a lui sembravano strani, molto ricercati. Si chiedeva il perché di questa dicotomia, di questa disparità, e metteva il dito – come si dice – nella piaga, cioè non capiva la differenza tra quella scrittura che Barthes chiama «scrittura d’intervento», la scrittura giornalistica, e la scrittura letteraria. Non vedeva la necessità dell’altra scrittura perché lui, da giornalista, vorrebbe che la letteratura fosse come il giornalismo.

Tutto ormai deve diventare giornalismo e anche questi grandi giornalisti, come Bocca o come Pansa, dicevano qualche anno fa: «Siamo noi i nuovi narratori, i nuovi Balzac». Il loro è un linguaggio passivo, d’accatto, sono dei gerghi che poi si scimmiottano, si ripetono. Ci sono delle formulette che inconsciamente, naturalmente si trasmettono l’uno con l’altro e ripetono passivamente perché loro non hanno un problema di linguaggio, quindi hanno bisogno di usare un linguaggio che è già consumato, per essere il più comunicativi possibile. E stiamo parlando di parole, non consideriamo quello che è il mondo delle immagini…

Il rapporto fra segni verbali e segni iconici

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio la figuratività è portata proprio come una cifra, c’è l’iconografia dell’ignoto marinaio. In Retablo la topologia figurativa è fondata poeticamente sull’assenza di un referente concreto. In tutto il libro c’è un’interruzione continua quando Isidoro deve parlare di Rosalia, c’è sempre un’interruzione, perché poi c’è il disvelamento alla fine. Rosalia rimane il vagheggiamento, l’eterno femminino, rimane anche l’ambiguità dell’altro, perché la parola veritas è una parola naturalmente ironica, perché la verità è quella effigiata dallo scultore Serpotta, la verità nuda, prorompente; ma questa fanciulla, che è molto ambigua – non si capisce se abbia amato Isidoro o se l’abbia ingannato, preso in giro, giocato –, è poi l’inganno dell’amore, l’inganno della poesia, che però sono degli inganni assolutamente necessari all’uomo, senza i quali non potremmo vivere. La citazione iniziale di Jacopo da Lentini evidenzia già tutto il tracciato del libro. L’uso di una certa topologia figurativa, del riferimento a una tradizione «alta» della poesia, è continuamente ribaltato, rovesciato, a fini parodici.

In Retablo, già la parola «retablo» è iconica, è una composizione pittorica e nello stesso tempo è anche spettacolo teatrale. In Cervantes, il retablo diventa lo spettacolo teatrale; infatti c’è l’illusione del «retablo de las maravillas», il nome è preso da Cervantes. Nella tradizione pittorica siciliana che ci hanno portato gli spagnoli, c’è la parola «retablo», una composizione pittorica in più riquadri, dove si racconta una storia. Ma c’è anche questo teatrino delle illusioni che è la letteratura. E quindi Rosalia è l’interprete principale di questo teatrino. Il primo capitolo e l’ultimo, che sono i pannelli laterali del retablo, seguono lo schema del contrasto, del contrasto d’amore, con le due voci – prima Isidoro, poi lei, Rosalia, che risponde, come in Rosa fresca aulentissima.

Altro dato importante è il colorismo. La pesca del corallo è una cosa molto mediterranea, soprattutto Trapani era uno dei centri della pesca del corallo, dove c’era un grande artigianato e quindi c’è l’amore di tutta questa memoria, ma anche di questa materia marina; è una concrezione marina il corallo, che ricorda molto la grazia femminile, con questo rosa acceso che dà luminosità al volto delle donne, più degli smeraldi che sono molto freddi, freddi come le stelle; è una pietra più carnale.

Il corallo che viene usato per la descrizione di Rosalia, come il verde che viene usato per Teresa Blasco, alla fine si fondono. Rosalia amata da Isidoro, Rosalia amata da Vito Sammataro, Teresa Blasco, alla fine diventano un’unica immagine, un solo profilo. C’è un momento in cui Fabrizio Clerici disegna il profilo di una donna e ognuno vede la propria Rosalia: è l’idea propria di tanta poesia italiana, almeno fino al Cinquecento, e di tanta lirica a sfondo teologico, l’idea della rappresentazione dell’assenza, dell’irrealizzazione.

La religione, la religiosità

Nei miei libri c’è una sorta di critica alla religione come potere, anche alla condizione clericale come condizione innaturale, perché i miei preti e i miei frati molto spesso impazziscono, perdono i freni. Anche nelle Pietre di Pantàlica c’è un altro frate pazzo (oltre a frate Nunzio, frate Isidoro, fra’ Giacinto), Frate Agrippino, che si fustiga. C’è questa innaturalità della costrizione del potere della religione sull’uomo, però c’è anche il recupero di una religiosità più autentica, più armonica con la vita, con il mondo, che è quella del pastore di Segesta; quello è un luogo pregreco, dove poi sono arrivati i Greci, dove c’erano gli Elimi e quindi c’erano dei templi di dee catactonie, sotterranee, dove si facevano dei sacrifici con gli elementi naturali, con il latte, con il miele. Poi c’è stata una sorta di sincretismo con l’arrivo dei Greci, del recupero di queste forme epocali, arcaiche. E quindi c’era il bisogno di una religione che fosse più consona con la natura, meno di frattura con la natura, di una religione che non fosse un apparato di potere, che non fosse costrizione. C’è questo, non il gusto di essere dissacratore. Il racconto dei frati nel convento della Gancia è una sorta di parodia boccaccesca, un po’ grottesca, un po’ atroce. Anche don Gregorio Nanfara, in Filosofiana, è un esempio di impostura. Don Gregorio era l’impostore locale, che era stato in seminario, sapeva un po’ di latino e imbrogliava la povera gente come Vito Parlagreco, perché quest’ultimo era uno che cercava il tesoro dentro questa tomba, mentre il furbo don Gregorio sapeva che il tesoro erano i vasi, di cui si appropria e che poi avrebbe rivenduto. È sempre l’idea del più acculturato che frega il più ignorante, con tutte le sue formule latine, con i suoi libri, vivendo di questa mistificazione, di questa impostura; quindi è la denuncia della religione come impostura, come acquisizione di determinate formule per ingannare.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio c’è poi l’idea manzoniana della scrittura come potere, come impostura. La scrittura come strumento del potere, nel Sorriso è questo. Manzoni fa dire a un popolano la stessa cosa; infatti Renzo è stato fregato dal latino di don Abbondio e da Azzeccagarbugli.

Vincenzo Consolo, Milano, 1986

Vincenzo Consolo, Milan, 1986

© photographie de Giovanna Borgese

BIBLIOGRAPHIE

Cherchi G., 1987, «Mille e una notte», L’Unità, 11 novembre.

Cocchiara G., 1926, Le vastasate, Palermo, Sandron.

Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.

Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani».

Grimaldi A., 1985, Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, saggio introduttivo di Vincenzo Consolo, Roma, Edizioni del Lavoro.

Macchia G., 1981, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori.

Pasolini P. P., 1964, «Nuove questioni linguistiche», Rinascita, 26 dicembre.

NOTES

2 Si rimanda, a questo proposito, all’importante lavoro che Gianni Turchetta ha svolto per il «Meridiano» dedicato a Consolo: cfr. Consolo 2015.

3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. […] La lezione di Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile».

Conversazione con Vincenzo Consolo

A colloquio con lo scrittore siciliano

Conversazione con Vincenzo Consolo

Ho sentito il bisogno di incontrare Vincenzo Consolo dopo aver letto uno a poca distanza dall’altro, due dei suoi romanzi, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976 e Nottetempo casa per casa del 1992. Lo spazio di tempo che ho lasciato tra i due libri mi è servito per gustare appieno il piacere e l’emozione per la scoperta de Il sorriso, nel timore forse che un secondo libro avrebbe potuto smorzare il grande entusiasmo che mi era nato.

   “Perché li hai letti uno di seguito all’altro? – mi chiede Consolo – Io li considero un dittico, potrei metterli accanto, questi due libri, perché oltre a svolgersi nello stesso luogo (Cefalù), sono complementari proprio perché partono da una concezione diametralmente opposta: nell’uno c’è il racconto di un’utopia politica,  nell’altro c’è il racconto del crollo di questa utopia, di una sconfitta. Sono due momenti storici diversi: il primo è il 1860, quando si erano accese le speranze per le classi emarginate; il secondo è attorno agli anni Venti, quando c’è l’arrivo del fascismo.”

   Non so neppur io perché abbia letto proprio quei due libri e in quell’ordine. Lo considero un segno benevolo del destino mentre mi guardo attorno, seduta nel suo studio milanese:

   Non avevo voluto sapere nulla di lui, tranne quel poco che avevo letto sui giornali durante l’infuocata campagna elettorale della primavera passata per le amministrative a Milano, quando era intervenuto, provocatoriamente contro la Lega.

   Dolcevita di lana e golf (vestito allo stesso modo, avevo incontrato un altro siciliano, qualche anno fa, in una fredda giornata d’inverno, Giuseppe Migneco), si scusa: “Perdoni se qui fa caldo, ma noi teniamo il riscaldamento un poco alto”.

   Allora penso subito al calore della sua terra, al sole, mentre fuori piove e Milano, è immersa nell’intenso, intimo grigio dell’autunno lombardo. (Questa grande città deve avere esercitato un fascino profondo, seppure non facile, su tanti grandi siciliani, da Verga a Vittorini, da Quasimodo a Guttuso e Migneco…)

   Le pareti della stanza sono coperte da semplici scaffali di legno chiaro pieni di libri; un poco ovunque, attorno, segni del suo gusto, della sua storia: dall’antica incisione della pianta di Messina alla raccolta di letteratura francese (è figlio della ragione illuministica, Vincenzo Consolo, rinato però alla speranza nella visione marxiana della storia, oggi naufragata); dalla maschera di morte di Giacomo Leopardi (dietro lo scrittoio, un poco di lato) ai tanti libri, librini e libroni sulla Sicilia; dai preziosi volumi di letteratura italiana della Ricciardi e dei classici Mondadori e Bompiani all’ antica piastrella di maiolica e al grande piatto con limoni, di Migneco. Il lampadario, in legno dorato, è di gusto barocco; ceramiche dalle forme e dalla patina antica (in Nottetempo descriverà accuratamente l’arte del costruire una giara, come segno di conoscenza e di rispetto della cultura dei vinti, dai potenti, della storia…)  si accompagnano a stampe di gusto simbolista ( ce n’è una di Max Klinger, autore già amato da Sciascia, che lo cita in Una storia semplice); due piccoli divani, bianco e verde-mare, completano il mio ricordo della stanza. (Mi perdoni professore ho cercato di conoscerla anche attraverso le sue cose). Tutto è come calato in una precisa misura, dove chiara è la predilezione per la semplicità; non ci sono esagerazioni. La stessa compostezza è in lui, gentile davvero, il volto sereno ed espressivo, animato da passioni certo vive che non devono però amare gesti plateali, radicate come sono nel profondo, nell’antico.

       Tra novembre e dicembre due sono stati gli incontri: il primo fatto di un lungo colloquio un po’ su tutta la sua vicenda letteraria; il secondo, divenuto necessario per chiarire e precisare un paio di punti rimasti in ombra. Ascoltarlo è stato un piacere: la voce calda e profonda, il parlare piano e semplice, attento sempre all’interlocutore.

      Il titolo di questo articolo è, naturalmente, un omaggio al grande libro di Vittorini Conversazioni in Sicilia e ad una terra anche da noi conosciuta e tanto amata.

Dove è nato, professore? A Cefalù?

      C.: Sono nato in un paese vicino a Cefalù, a Sant’Agata di Militello, sulla costa tirrenica. Per ragioni di ordine letterario, diciamo, nella mia immaginazione mi sono spostato più verso il mondo occidentale, perché il mondo occidentale siciliano è quello più strutturato dal punto di vista storico, mentre il mondo orientale (Messina e tutta la costa ionica) è un mondo meno strutturato da questo punto di vista, perché lì la storia è stata cancellata dai disastri umani, è più invasa dalla natura (il terremoto di Messina e la presenza di un fenomeno come quello dell’Etna). Questo ha fatto si – almeno io, nella mia immaginazione, l’ho potuto constatare – che ci siano in Sicilia due letterature, diametralmente diverse e opposte: quella della Sicilia orientale e quella della Sicilia occidentale. Quella orientale è contrassegnata da una sorta di propensione al canto, al lirismo e soprattutto alla forma. Il caso eclatante è quello di Verga. Uno scrittore come Verga non poteva che nascere sulle falde dell’Etna, con la presenza di questo fenomeno naturale che toglie ogni speranza. Un discorso storicistico da quella parte è difficile che nasca.

     Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni, come De Roberto, però lì sono nati i poeti. Quasimodo è nato da quella parte. Vittorini stesso, che era impegnato sul piano della storia, quando scriveva era estremamente lirico.  D’Arrigo, per esempio, è un altro caso di lirismo, come lo stesso Bufalino, con impegno formale più accentuato.

     Dalla parte occidentale, invece, gli scrittori sono più logici.

All’inizio, quando mi sono trovato a scrivere, ho avuto lo svantaggio di vivere alla confluenza di questi due mondi; ero al centro. E poi ho capito che avrei potuto trovare la mia identità cercando di far unire questi due mondi:  partire da un presupposto storicistico, razionale e poi spostarmi verso la zona poetica, verso la zona lirica e formale.

Lei ha compiuto studi classici, immagino. In Sicilia?

       C.:  Sì, sono cresciuto in Sicilia, ma sono venuto a Milano per fare gli studi universitari. E poi, quando ho capito che volevo fare lo scrittore, me ne sono tornato in Sicilia. Ma L’idea che avevo di fare lo scrittore era di tipo sociologico, perché allora le letture erano proprio di tipo meridionalistico. Scrittori per me centrali erano il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli…

Quando è arrivato a Milano?

        C.: Era il 1952, una Milano molto diversa da quella che avrei ritrovato più tardi.

Una città però molto viva, allora.  

     C.: Sì, erano gli anni della ricostruzione. Io sono venuto per frequentare l’Università Cattolica; avevo trovato alloggio nel collegio universitario. Avrei voluto iscrivermi a lettere, ma per l’opposizione della mia famiglia ho scelto legge come via di compromesso.

     In quegli anni, in quell’ateneo, c’erano tante persone che poi sarebbero diventate classe dirigente italiana: c’erano i De Mita, i fratelli De Mita; c’erano Riccardo Misasi e Gerardo Bianco; c’era Fanfani che insegnava ad Andreatta; e molti altri ancora!

     Io approdai lì casualmente, seguendo l’esempio di un mio compaesano. Il convitto costava poco, garantendomi una stanza e una mensa, ma non è che avessi una particolare convinzione di tipo ideologico o religioso; la mia era una famiglia laica.

     L’Università Cattolica era allora frequentata sia dai rampolli della borghesia milanese e lombarda di tipo cattolico, per i quali era una scelta, sia da una gran massa di meridionali (e tra questi i nomi che ho citato), gente modesta per lo più, mandata lì dai parroci e dai vescovi della provincia italiana, molto spesso con un certificato di povertà, grazie al quale studiavano gratuitamente.

     Mentre vivevo lì, ho visto una cosa che mi ha colpito molto. Nella piazza Sant’Ambrogio c’erano allora due realtà importanti: una era l’Università, il luogo degli studenti; l’altra era il Centro Orientamento Emigrati, così si chiamava. Era ospitato in un vecchio convento, una sorta di casermone, dove adesso c’è la Celere e anche un posto di Polizia. In quegli anni, quando andavo nella piazza, vedevo masse di meridionali che, prelevate alla stazione su appositi tram, venivano scaricate lì.

Portate in questo Centro Orientamento venivano poi sottoposte a visite mediche e avviate in seguito nei vari luoghi di emigrazione. Da Milano partivano per andare in Francia, in Belgio, in Svizzera, nell’Europa centrale, insomma; quelli che andavano in Germania. Venivano raccolti a Verona.

    A noi studenti poteva capitare di incontrare dei compaesani che emigravano oppure dei compaesani vestiti da poliziotti, che per bisogno si arruolavano nella cosiddetta polizia di Scelba.  Io ho incontrato un compaesano che giocava con me all’oratorio, si chiamava Giacomino, era vestito da poliziotto, col manganello.  Io non so se quelli che sono diventati poi uomini politici abbiano visto, abbiano osservato la realtà che io osservavo.

     Allora sarei potuto rimanere a Milano, perché in quegli anni il lavoro si trovava.

Erano gli anni in cui a Milano c’era anche Marotta, e c’erano naturalmente Vittorini e Quasimodo…                

       C.: Io ero venuto proprio sulla scia di questa mitologia milanese della letteratura siciliana. Amavo molto la letteratura e inconsciamente ero venuto anche per quello, sapevo della presenza loro e di altri artisti.

Li conosceva già? 

     C.: No, assolutamente. L’unica persona che avrei desiderato conoscere in quegli anni era Vittorini, però ero talmente timido che non osavo…

     Al finire degli studi, poi, me ne sono tornato in Sicilia, per scrivere.

     Per vivere mi misi ad insegnare, in scuole agrarie, in paesi di montagna, sui Nebrodi, alla confluenza con le Madonie, con paesi a 1000 metri di altezza. Andavo ad insegnare a San Fratello, a Caronia; erano luoghi quanto mai lontani. Insegnavo diritto, che allora si chiamava Educazione Civica e Cultura generale (significava italiano, storia e diritto). Però poi mi accorsi che quella scuola era una finzione perché i ragazzi erano destinati all’emigrazione; l’agricoltura stava chiudendo e quindi… I loro padri erano già emigrati.

Lei parla degli anni a cavallo tra il 1950 ed il ’60. I contadini venivano spesso trattati ancora come servi della gleba. Da ragazzina io ho vissuto non pochi mesi, proprio allora, in Sicilia e ricordo bene quella realtà.     

     C.: Era una realtà tremenda. Non era ancora stata fatta la riforma agraria (che fu poi una beffa, che non approdò a niente perché le terre migliori se le appropriarono gli amministratori e ai contadini diedero le pietraie, in luoghi irraggiungibili). C’era allora il processo di industrializzazione del paese, quindi questa gente era costretta ad emigrare.

     Comunque io avevo preso questa decisione di raccontare il mondo contadino nel momento in cui questo spariva. Nel ’63, però, quando mi misi a scrivere, misi da parte le intenzioni che avevo, che erano fortemente politiche e sociologiche; l’istinto mi portò a scrivere in un altro modo, che è quello proprio della forma prettamente letteraria, con una connotazione stilistica molto, molto accentuata. Sentivo quest’impegno della storia, ma amavo e seguivo molto la letteratura.

     Nel primo libro parlavo degli anni di me adolescente: ho voluto raccontare il dopoguerra in Sicilia, la caduta del fascismo, l’arrivo degli americani, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni del ’47 e poi la strage di Portella delle Ginestre e quindi le elezioni del ’48, con questa sorta di pietra tombale che cadde su questo paese. Voleva essere una storia emblematica di quello che era successo, raccontando delle ennesime speranze che s’erano accese in Sicilia nel secondo dopoguerra e del come queste speranze finirono quando arrivò quel grande partito, che è durato cinquant’anni da noi…

     E il libro narrava proprio questo, ma visto con gli occhi di un adolescente, quindi con un linguaggio molto trasgressivo. Io mi rifiutavo di scriverlo in italiano e allora mi sono costruito, come cifra stilistica di estrema opposizione, un dialetto. Mi sono immaginato di un paese vicino al mio, che si chiama San  Fratello ed è un’antica colonia lombarda, un’isola linguistica. È una cifra che mi ha accompagnato anche per altri libri, anche nel Sorriso, in Lunaria e, in modo più accentuato, nelle Pietre di Pantalica e questo per dire, appunto, di una estremità linguistica da cui io sempre parto per approdare poi alla lingua, al toscano.

     Istintivamente, allora mi collocai proprio come un ragazzo che veniva da quel paese dove si parla un antico gallico, che era la lingua che si parlava nella pianura padana (la diversità linguistica nell’estrema diversità siciliana quindi).  Fu una forma istintiva di trasgressione, di opposizione al codice linguistico dei grandi, che era quello paterno. C’era già, in quel primo libro, questa sorta di impasto linguistico.

Che è già la ricerca di quel «nuovo significato delle parole»? Lei ha scritto, in un passo bellissimo del Sorriso, a proposito di tutti quelli «che mai hanno raggiunto i diritti più sacri ed elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione»: «…tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose».

     C.: Sì, e queste parole nuove sono parole antiche, nel senso che sono parole seppellite dal codice imperante, dal codice della comunicazione, che io cerco di disseppellire, di «rimettere» in circolo… Non è solo un gioco formale, è un gioco anche di contenuti, perché la letteratura è scrittura. C’è stato in me questo rifiuto di adottare il solito codice comunicativo, per praticare un codice fortemente espressivo; si tratta di un bisogno «oppositivo» per così dire: poiché i contenuti vogliono essere così, la forma deve corrispondere ai contenuti.

     Poi ho lasciato la Sicilia, nel ’68, perché lì non c’era più niente da fare, perché, appunto i giochi erano stati fatti. Quando sono andato via avevo 35 anni, non c’era più spazio per uno che non poteva vivere di rendita, isolato e che aveva bisogno di lavorare; l’alternativa per un giovane intellettuale come me era o aggregarsi al potere, e al potere mafioso, o fare le valigie e andarsene.

     Quindi sono andato via.

     Negli anni vissuti in Sicilia, le uniche due persone che ho frequentato sono stati due archetipi, due persone emblematiche della mia formazione.  Uno era Lucio Piccolo, un poeta; era cugino di Lampedusa questo grande poeta, purtroppo poco conosciuto. Era un poeta straordinario; ha avuto il torto di morire presto. Lui è apparso sulla scena letteraria prima di Lampedusa; lo scoprì Montale, poi fu pubblicato nello «Specchio» di Mondadori, però non riuscì a completare il suo ciclo poetico perché morì abbastanza giovane, schiacciato dall’esplosione del fenomeno Gattopardo.  Lui veramente, quando lo nominavano come il cugino di Lampedusa, si dispiaceva. Una volta ebbe a dire: «È Lampedusa che è mio cugino» rimettendo le cose nel giusto senso.

     L’altra persona che ho frequentato è stato Sciascia, che ho conosciuto dopo aver pubblicato il mio primo libro. Glielo mandai, e lui poi mi invitò ad andarlo a trovare (allora stava a Caltanissetta); poi siamo diventati amici.

     Quando l’uno era il poeta puro, un barone, con questa poesia terribilmente ermetica, difficile ma affascinantissima, di tipo spagnolo, una poesia molto accesa, tanto l’altro era invece logico, limpido, cristallino, storicistico, di impegno civile.

     Per me sono stati veramente come due maestri, due poli.

     E nel ’68, anche su consiglio di Sciascia, presi le valigie e ritornai a Milano.

Non a Roma?

     C.:  No. Perché io credo che dalla Sicilia ci sono due modi per uscire: uno è romano e l’altro milanese. C’è una corrente milanese che è fatta soprattutto di scrittori che hanno vagheggiato una sorta di utopia politica, perché Milano era l’antitesi della Sicilia, era la città dove c’era la trasparenza amministrativa prima di tutto, e poi dove si era realizzata in qualche modo, una certa equità sociale. Quindi approdavamo a Milano come al luogo antitetico alla Sicilia.

     A Roma invece approdavano degli scrittori a cui interessava il discorso del potere, e quindi Brancati e Pirandello.  Un Pirandello che, con quella sua scrittura, aveva illustrato, aveva raccontato quello che era la crisi della piccola borghesia italiana, di una borghesia fascista, non poteva che andare a Roma. A Milano sarebbe stato fuori posto.

     E poi Sciascia, naturalmente, con il suo discorso sul potere, sul «palazzo». È quello che fece Pasolini e, in un certo senso, anche Moravia.

Torniamo un momento alla letteratura siciliana. Abbiamo parlato di Verga, di Vittorini, dei poeti della costa orientale, ma non degli autori della parte occidentale.

     C.:  Per la parte occidentale, a fronte dei Verga, dei Brancati o Quasimodo, o Vittorini o dello stesso Bufalino, il primo nome che viene in mente è il Pirandello dei romanzi storici, soprattutto di un romanzo, I vecchi e i giovani. In Pirandello, come dice anche Gramsci, tutte le novelle sono prese da storie locali, da racconti che lui sentiva fare nel mondo girgentano, agrigentino. Ma forse, dopo l’uscita de I Viceré di De Roberto, che è questo grande affresco storico – perché erano i temi dell’epoca, erano i temi storicistici della grande letteratura francese – anche lui si è cimentato nel grande affresco storico con I vecchi e i giovani. E questo romanzo, che può essere manchevole in qualche parte, è però un grande tentativo di restituire una realtà storica siciliana (come nessuno fino ad allora aveva tentato), soprattutto di una Sicilia occidentale, la Sicilia delle solfare. Lui parte da che cosa è successo dopo l’Unità d’Italia in Sicilia proprio in quella zona. Il centro del racconto sono i moti socialisti del 1893, con tutte le rivolte contadine, con l’occupazione delle miniere e quindi con lo scontro tra operai delle solfare e i proprietari delle medesime.

     È la rappresentazione amara, da parte di Pirandello, di quello che era il malinteso «sicilianismo» da cui poi vengono tutti i mali siciliani della mafia, del potere politico mafioso e via discorrendo.

Prima che andasse a Roma, l’ha scritto.

     C.:  Prima che andasse a Roma, prima che facesse la grande svolta di proiettarsi cioè sul piano della crisi dell’identità, di tutte le scoperte che vanno sotto il nome di pirandellismo, del dramma dell’essere e dell’apparire, di proiettarsi dal piano dello storicismo, della contingenza al piano dei valori dell’esistenza, dell’inquietudine dell’esistenza. D’altra parte Pirandello ha operato in antagonismo, per così dire, allo stesso Verga. Verga ha immaginato un mondo immobile, dominato dal fato, dove l’uomo inutilmente si agitava perché tanto il suo destino sarebbe stato segnato per il solo fatto di esistere, quindi era impossibile, in questa esistenza, ogni possibilità di riscatto.  E tutta la tematica verghiana è la tematica dell’immobilità e del fato, che blocca l’uomo nella sua vicenda umana.

     Pirandello ha cercato, ha tentato di ribellarsi a questa legge dell’immobilità e del fato, a questa legge quasi metafisica verghiana, operando, attraverso la dialettica, quello che era un contrasto verbale con l’entità destino.  E, quindi, attraverso il sofisma, la dialettica ha cercato di smuovere questa condanna del fato sull’uomo. Però, naturalmente, il mondo di Pirandello diventa forse ancora più atroce e più tragico; è quello che Giovanni Macchi chiama «la camera della tortura» : i personaggi non fanno altro che tormentarsi, che torturarsi, con queste verità sfaccettate, una verità contro l’altra: con queste identità che si perdono e continuamente si inseguono, in una ricerca continua dell’ identità.

È poi anche, se si vuole guardare, un modo d’essere del siciliano, questa ricerca d’identità, perché noi siamo dilaniati continuamente da questa perdita di identità continua dovuta anche alla nostra storia.

      Noi siamo tante culture messe insieme, siamo questo crogiuolo di culture, per cui da noi il rischio è un continuo vacillare dell’ identità e dell’io; questo io è l’Uno, nessuno, centomila del Pirandello che si moltiplica all’infinito, come vivere sulle sabbie mobili, senza una consistenza.  E in questa incertezza sta il nostro dramma, ma sta forse anche quella che è la grandezza (adesso uso un termine retorico): in questa dialettica, in questa ricerca continua dell’identità sta forse il nostro essere più umani e quindi più comprensivi, quando si prende coscienza di tutto questo.

     Pirandello attinge proprio al modo d’essere siciliano, al mondo siciliano per costruire quella che era la sua filosofia, la sua concezione. Nel Mattia Pascal, per esempio (che è il libro dove è messo subito in luce questo dramma, dell’identità), quando parla di Mattia (e parla di se stesso) dice di questa «maturezza» (lui usa il termine «maturezza») a cui è arrivato da piccolo a furia di ammaccature.

     L’io siciliano è ammaccato, e quindi arriva a questa maturità molto prima e con più dolore degli altri, forse. Il rischio però è di non maturare assolutamente e di perdere la ragione; il crinale su cui si cammina pericolosamente è quello di annientarsi, di perdere la ragione, oppure di avere un consapevole dolore di questa maturità a cui si arriva con le ammaccature.

     Quelli che precipitano da questo crinale sono quelli che più straziano, in questo lasciarsi andare in questa specie di vortice e di perdita della ragione… Mantenere la ragione, in Sicilia, è estremamente difficile ed è una fatica continua.

      Ma, per tornare al romanzo storicistico, oltre Pirandello c’è stato Lampedusa e poi Sciascia. Sciascia è lo scrittore storicista per eccellenza, di uno storicismo critico, oppositivo. Tutta la letteratura della parte occidentale dell’isola è segnata da questo impegno con la storia.

      Sciascia ha fatto di più. Ha rinunciato a quelli che erano i grandi temi illuministici e manzoniani (il grande tema del Manzoni era la giustizia) che inizialmente aveva scelti ( e che poi sono cristiani), quindi il tema della verità e della menzogna, dell’impostura, il tema della pena di morte, della tortura, del rispetto della dignità dell’uomo.

     Quando vede, in Sicilia, quello che era il grande rischio della nostra società, la mafia, abbandona questi grandi temi e affronta il tema della mafia, che era un tema contingente ma che lui fa diventare un tema assolutamente metaforico e quasi assoluto. E quindi scrive tutta questa serie di gialli politici, dove rovescia quella che era la tecnica del giallo, cioè si parte dalla verità e si arriva al mistero: il mistero è il rispecchiamento del mistero, del potere mafioso, che è sempre misterioso. Oggi stiamo constatando, attraverso i giudici, quali erano questi misteri; ancora non li conosciamo tutti, ma Sciascia ci ha fatto intuire qual era l’enigma del potere mafioso.

Quando ha conosciuto Sciascia?

     C.: Dal punto di vista biografico, avevo conosciuto Sciascia sin dal primo libro che aveva pubblicato: Le parrocchie di Regalpetra. Allora le mie letture erano di indirizzo sociologico. Siamo nel ’56, credo. Quando sono tornato in Sicilia dopo essere stato a Milano, non osavo importunarlo.  Sapevo che c’era questo scrittore, che a me è sembrato subito uno scrittore importante in questa Sicilia desertica. E quando io pubblicai il mio primo romanzo (La ferita dell’aprile) nel ’63, ho avuto subito l’avventura di mandarglielo con una lettera dove gli dichiaravo il mio debito nei suoi confronti: perché era lui che mi indicava la strada che avrei dovuto seguire, oltre a Lucio Piccolo, di avere cioè di fronte questi due mondi, lo storicismo e la poesia, e di farli finalmente unire, di fare da trait-d’union fra questi due mondi, quello che era il substrato storicistico da una parte e la poesia piccoliana dall’altra parte. E lui mi rispose con una bella lettera, invitandomi ad andarlo a trovare a Caltanissetta, e poi siamo diventati amici.  Questa amicizia durò quanto lui è vissuto; è stato un continuo dialogo.

Parlavate di letteratura? Anche di impegno civile? 

     C.:  C’era uno strano pudore; non parlavamo delle nostre cose, solo molto raramente, ma si parlava dei fatti politici, dei libri degli altri, soprattutto dei fatti che accadevano in Italia. E poi così, nelle pieghe del discorso, si lasciava cadere il titolo di un libro che si era letto… 

     Un suo rammarico era che io scrivevo poco. Voleva che scrivessi di più.

Adesso lei sente su di sé l’impegno che è stato di Sciascia?  

     C.:  Sento il dovere di continuare su questa linea con lo stesso impegno, per essere degno di questa tradizione, anche perché vedo che da ogni partesi cerca di distruggere la letteratura siciliana.

     Il mio diventa quindi un impegno con la letteratura e spero di mantenerlo perché nel mondo d’oggi si ha questa volontà di abbassare tutti i valori, di distruggere quelle che sono le verità con le imposture. E queste cose non sono sopportabili…

Lei aveva citato prima Pasolini. Mi chiedevo se anche questo non sia stato uno scrittore di riferimento nel suo percorso letterario e civile.    

     C.:  Lui era fondamentalmente poeta; l’impegno sociale lo estrinsecava attraverso una scrittura di intervento, sui giornali.  Scritti corsari, Lettere luterane, Empirismo eretico: era questo suo bisogno di intervenire direttamente, al di là del romanzo e della poesia.

Mentre lei ha sempre sentito la necessità della letteratura come mediazione?

     C.:  Non sempre. Anch’io… I tempi letterari, i tempi della metafora sono dei tempi lunghi e la storia diventa qualche volta più impellente e quindi si sente il bisogno, veramente, di intervenire, per cui anch’io – certo non con quella forza e con quella assiduità con cui lo fece Pasolini, e con l’autorità con cui lo fece Pasolini – ho sempre scritto sui giornali.

Lei appare come un signore pacato, ma la passione con cui scrive denuncia una…

     C.:  No, non lo sono. Per esempio, quando sono arrivato nel ’68 a Milano, io subivo una sorta di spaesamento e di blocco anche creativo. Ero venuto a Milano perché desideravo raccontare questa grande trasformazione italiana, parlare di queste masse di meridionali che arrivavano nel nord industriale, in una città come Milano e che poi, da contadini che erano, si sarebbero trasformati in operai.

Lei era venuto come insegnante?

     C.:  No. Avevo fatto un concorso in una azienda; il primo di gennaio del ’68 (ho viaggiato in treno la notte di San Silvestro) ho dovuto presentarmi al posto di lavoro.

Quindi ha fatto una scelta anche in questo campo.

     C.:  Sì. Allora c’era una rivista letteraria, diretta da Vittorini e Calvino

(“Il Menabò”), che dibatteva proprio questi temi: del rapporto tra industria e letteratura, di questo nuovo mondo, della rivoluzione industriale italiana (questa grande trasformazione sociale), soprattutto nel processo di inurbamento. E poi c’era un’altra rivista, che si chiamava «Questo e altro», che sollecitava appunto a lasciare le vecchie professioni, cosiddette liberali, degli scrittori (insegnamento e altro) e ad entrare nell’industria. Io feci questa scelta: Feci un concorso, lo vinsi e mi presentai a questo posto di lavoro.

     Vittorini, per esempio, invitava a studiare i nuovi linguaggi che si sarebbero formati qui, nell’area industriale, dall’incrocio dei dialetti   coi dialetti del nord: Questi linguaggi lui li chiamava le «koiné», le nuove «koiné». Queste non si sono formate, ma si è formata una «superkoiné», che poi sarebbe l’italiano che ha analizzato Pasolini, nel ’64 mi pare, che era la lingua dei media e che si sarebbe  sovrapposta…

Insomma l’Italia è un paese veramente singolare nel contesto europeo, perché nessuno ha avuto così rapidamente e radicalmente le vicende italiane.  È un paese terremotato; era un vecchio paese ancora agricolo e contadino, ha avuto questa rivoluzione. E poi questo grande spostamento di masse di meridionali dentro queste città che sono esplose, con tutto quello che è successo e di cui, forse, paghiamo le conseguenze. È stata la dannazione di Pasolini, questo…

     Quando si fanno questi discorsi, sembra che uno abbia nostalgia del vecchio mondo contadino. Quello che rimproveravano a Pasolini era: «Ma come?».

     No, nostalgia del mondo contadino credo non ce l’abbia nessuno, perché il mondo contadino era un mondo di sofferenza, di ignoranza, era un mondo un po’ anche di conservazione; non era un mondo progressivo, insomma, perché i contadini erano portati ad una sorta di atteggiamento passivo, di rassegnazione. Quello che portava la novità e il senso di presa di coscienza di classe era il mondo operaio, perché i temi politici che si dibattevano erano del mondo operaio.

Perché c’era aggregazione, mentre il contadino era un isolato.

     C.:  Sì, erano isolati. Soprattutto, poi nel latifondo siciliano, questi contadini erano angariati, vessati. Quindi la rivoluzione culturale che è avvenuta in Sicilia si è realizzata nel mondo sotterraneo, proprio perché quella era l’unica forma di operaismo siciliano, quando da contadini si trasformarono in minatori nelle solfare. Lì c’è stata una sorta di rivoluzione culturale, che sfociò nei «fasci siciliani», nelle rivolte del 1893 in Sicilia.

     Io non ho nostalgia del mondo contadino (questo l’ho anche raccontato nelle Pietre di Pantalica); volevamo però uno sviluppo diverso da quello che abbiamo avuto, con più rispetto nei confronti dell’uomo.  

Qui, invece, i valori umani sono stati distrutti, per non parlare di tanti altri valori. È quello che Pasolini chiamava «sviluppo senza progresso», lo chiamava semplicemente «sviluppo» e non «progresso»; molto spesso è stato un regresso. In Sicilia questo l’abbiamo sofferto sulla pelle, con l’industrializzazione attraverso le raffinerie di petrolio. Queste hanno distrutto città, Gela, Siracusa, Priolo…, che erano innanzi tutto ecologicamente sane, belle, luoghi arcaici, antichi.

     In mezzo alle raffinerie di Priolo ci sono ancora i resti di Thàpsos Megàra Iblea, dove sono sbarcati i Greci (nel 739 a.C.).  Io sono andato a rivederli, ancora questa estate, in mezzo a tralicci, a ciminiere. Erano patrimoni culturali che appartenevano a tutti e che sono andati distrutti.

      Città come Gela e Licata sono diventate degli inferni, delle cose tremende; hanno subito questa trasformazione e sono diventate degli orrori.      Non c’è idea di che cosa è un paese come Gela! È una cosa che toglie il fiato…  Hanno portato le raffinerie ma non hanno risolto i problemi: la gente ha continuato a emigrare; hanno assorbito poca manodopera, i tecnici venivano dal Nord.  I petrolieri venivano lì, rastrellavano soldi dalla Regione, dalla Cassa del Mezzogiorno, dall’Erario e poi, dopo aver fatto i loro affari, regalavano gli impianti allo Stato. Il signor Moratti, tanto per non fare nomi, ha fatto questo a Milazzo, una città ora distrutta e sconvolta dal punto di vista paesaggistico, ed ecologico, a causa delle raffinerie.  La Sicilia, il meridione sono diventati luoghi spopolati, in cui sono arrivati i profittatori, luoghi di rapina e di sfruttamento.

     Poi, quando ci si chiede dei mali meridionali, di tutte le cose tremende che sono successe, si deve sapere che le responsabilità sono di ordine storico, di ordine politico.

     Non si deve pensare, come fanno certi signori di certe Leghe, come fa il signor Miglio, che sia un fatto genetico, quasi noi, nel sangue, avessimo il gene della delinquenza, della mafia, della ‘ndrangheta. Ci sono responsabilità ben precise.

     Nel dopoguerra c’era un sovraccarico di manodopera sulle terre e, quindi, bisognava «alleggerire»; le leggi del mercato sono le leggi del mercato. Però tutto poteva avvenire in un modo più rispettoso, più organico, non in questo modo selvaggio.

     Al potere politico interessava soltanto fare di queste zone del Meridione delle riserve di clientelismo politico, dei feudi dove racimolare voti. Le masse meridionali erano quelle che dovevano dare il voto democristiano (perché nel Nord, operaistico, erano forti le sinistre), con tutte le trame di malcostume e di corruzione che adesso stanno emergendo.

Ancora poco nel Sud, mi pare.

     C.:  Perché ci sono state delle cose più gravi nel Sud, ci sono stati i cadaveri, le strade piene di cadaveri e, quindi, si è prima pensato a quello. Io spero che si passi al secondo sipario, il sipario del malaffare.

Io spero che vengano coinvolti un poco tutti davvero, dai magistrati agli imprenditori, alla stampa, perché non è possibile pensare che solo i politici siano i grandi colpevoli.

     C.:  C’è ora nella gente, anche in quella che era passiva, che in un certo senso aveva avuto anche vantaggi (spero che non sia retorico quello che dico, io l’ho constatato), c’è un bisogno di riscatto, di riconquistare la dignità perduta. Io l’ho visto a Palermo, quest’estate. Credo che le prossime elezioni siano estremamente importanti.

     Questo è un momento molto, molto delicato, per tutto il paese, ma per la Sicilia e il Meridione soprattutto.

Delicato, ma, lei dice, di speranza.

C.:  Di speranza, sì. È un momento di passaggio, dove si può tornare indietro, ma… Credo che ci sia nella gente un bisogno di togliersi questa vergogna e quest’ipoteca del malaffare, della mafia, del delitto. Questa è stata veramente una perdita d’onore e c’è un bisogno, nella gente, di riconquistare quest’onore perduto, un onore sociale, non privato, e c’è volontà di togliersi dalla soggezione del potere politico da cui era ricattata. Questo si vedeva bene alle elezioni: ogni volta che c’erano referendum, per esempio, il risultato era di un tipo, quando si tornava alle elezioni politiche il risultato era un altro.

Anche noi, al Nord, abbiamo perduta una intiera classe di amministratori e, per tradizione, avevamo gente che davvero amministrava.

     C.:  Sì. È saltato anche questo, c’è stato un processo di degenerazione.

     Poi, al Nord, è venuta fuori anche la Lega, per un bisogno di pulizia, per cui adesso ci sono questi revanscismi, del resto molto semplici, schematici e pedagogici. Come sempre capita nei momenti in cui crollano i regimi, vengono fuori forme scomposte.

     Io queste forme, queste rivendicazioni locali, le ho viste da ragazzo, in Sicilia, nel ’47, con il Movimento Indipendentista Siciliano. E capivo, anche se ero molto giovane allora, che cosa significava: significava ancora una regressione, un passo indietro.

     Quando, dopo tutti i disastri democristiani e socialisti, in questo campo di macerie, si presenta qui al Nord un movimento che si chiama Lega Nord (e già la denominazione stessa mi sembra che escluda una parte del contesto italiano) mi sono preoccupato. Io non sono un politico, sono uno scrittore,: la spia, allarmante l’ho avuta quando si sono visti i primi segni, nelle traduzioni – diciamo così – sulle strade delle scritte in italiano in dialetto lombardo. Questo mi ha messo subito in allarme perché so, proprio da scrittore che usa il linguaggio, so che cosa significano questi ritorni verso le forme dialettali. Sono modi di regressione e anche di aggressione e di esclusione, messi in atto, per di più, in un contesto come quello lombardo che, proprio per la sua storia e per la sua economia, ha cancellato il dialetto.  Questo rifugiarsi di nuovo nel dialetto per escludere la lingua politica (uso «politica» nel senso etimologico, lingua cioè della comunicazione) ha voluto dire passare da una afasia e una impraticabilità del linguaggio proprio del potere (perché il potere usa sempre una lingua impraticabile, non volendosi far capire, una lingua di tipo aziendale e tecnologico, che Pasolini ha studiato) al vecchio dialetto che non esiste più, quindi alla chiusura e alla incomunicabilità totali.

     (Il dialetto si può scandagliare in letteratura, per tornare alle radici e approdare poi alla comunicazione, ma il linguaggio politico deve essere sempre quello della comunicazione).

     Ora, queste considerazioni, secondo me, sono importanti, significano molto. Vogliono dire che dietro non c’è ideologia. L’ideologia liberale o socialista sono delle ideologie!  Che poi ci siano stati dei mascalzoni, che le hanno degenerate, questo è un altro discorso.

     Queste forme regressive sono le «vandee» di cui ha parlato Benedetto Croce, e anche Vittorini, a proposito dei Vespri Siciliani.  Vespro Siciliano che, sulla scorta del melodramma verdiano, è stato sempre visto come un fatto progressivo e che invece è un fatto assolutamente regressivo, perché la Sicilia abbandonava i legami con la Francia e si rifugiava in una conservazione di tipo spagnolo.

Il problema degli intellettuali in Italia è un triste problema, mi pare.

     C.:  È un triste problema, si. C’è sempre questa nostra viltà. L’intellettuale, in questo paese, è stato sempre considerato un ornamento del potere, ragion per cui l’intellettuale «disorganico» viene subito additato, messo ai margini. È sempre successo. Da Dante in poi, quelli che non si sono voluti piegare al potere e che hanno adempiuto a quella che è la funzione dell’intellettuale, essere coscienza critica, sono stati esclusi. Non può essere il cantore alla mensa del principe, altrimenti diventa un cortigiano e l’intellettuale che non vuole essere cortigiano viene naturalmente bandito: questa è la sua sorte.

     È successo sempre, fino a Pasolini, a Sciascia e altri.

Tanti altri no.

     C.:  Durante il fascismo, i professori che non hanno prestato giuramento sono stati sei in tutta Italia. Tra questi, lo dico con orgoglio, c’era Giuseppe Antonio Borgese, che stava qui a Milano, un siciliano, un grande scrittore: se n’è dovuto andare in America. Non so quanti fossero allora i professori universitari ma soltanto in sei non hanno prestato giuramento al fascismo.

Lei ricordava gli anni intorno al ’68: la sua posizione è sempre stata isolata o ha partecipato direttamente a quegli avvenimenti?

     C.:  No, guardi, quando sono arrivato qui mi sono trovato talmente spaesato che non ho avuto legami con i movimenti politici e neppure con quelli intellettuali. Era un mondo che osservavo per la prima volta, perché mi portavo dietro un’altra memoria, la memoria del mondo contadino. Mi mancava la memoria del mondo industriale, mi mancava quel linguaggio soprattutto.  E quindi sopperivo a questa afasia letteraria facendo attività giornalistica. Scrivevo su «L’Ora» di Palermo e poi su «Il tempo illustrato», un settimanale molto vivace, molto bello e devo dire anche molto libero, dove ci scrivevano in quegli anni Pasolini, Giorgio Bocca, Padre Turoldo. Ho pubblicato parecchie inchieste su quel giornale.

     Poi ho capito che per tornare a scrivere e raccontare Milano sarei dovuto tornare di nuovo in Sicilia, non fisicamente ma almeno con la memoria, ritornare al mio linguaggio, alla mia matrice culturale. E per questo, ho scelto il romanzo storico; lo sentii proprio come una necessità, questo di riandare indietro con il tempo per poter raccontare il presente. 

Il suo gusto di reinventare la parola, il linguaggio?

     C.:  A parte Gadda, Pasolini, Mastronardi e altri di allora, io avevo un grande sperimentatore che mi era più congeniale: Verga, il primo che ha compiuto la rivoluzione linguistica attuata abbassando a livello dialettale quello che era il codice toscano.

     La sua conversione è avvenuta proprio a Milano. Anche lui, se questo mi è permesso, quando arrivò a Milano nel 1872 venendo da Firenze (fino a quel punto aveva scritto dei libri, i cosiddetti romanzi «mondani»), trovò questa città in preda alla prima rivoluzione industriale; era una città che stava subendo uno sconvolgimento: nuove stazioni ferroviarie, nuovi cantieri. C’era poi anche il movimento operaio e c’erano i primi conflitti.

A Lodi si faceva un giornale che si chiamava «La plebe»; c’erano i primi scioperi, quindi, da una parte, c’era la rivoluzione industriale, e dall’altra la presa di coscienza delle masse popolari. Il tutto culminò con la esposizione universale dell’81, con il Ballo Excelsior. E lui abitava proprio vicino a questa esposizione.

     Verga subì una sorta di spaesamento e da questo venne la sua conversione. Tornò con la memoria alla Sicilia. Ma quella di Verga era una Sicilia della sua infanzia; Sapegno dice «ferma e intatta».  Era una Sicilia un poco cristallizzata, mitizzata nella sua memoria, seppure di un mito negativo, quella della irredimibilità del destino umano.

     Per esempio, quando uscì la prima inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino del 1876, dove si cominciò a parlare di mafia e della malavita siciliana, dei rapporti fra il potere politico e la mafia, Verga si ribellò.Diceva che era una diffamazione della Sicilia, non lo voleva ammettere…Come poi non ammise i movimenti dei solfatari e dei contadini siciliani del ’93.

     Verga, nella vita, era considerato un reazionario e ciò è dovuto a questa sua idea di una Sicilia mitica, quella, ripeto, della sua infanzia. Però questo gli permise di scrivere dei capolavori.     La sua rivoluzione avvenne prima con i. racconti, con le Novelle rusticane e poi con quel poema straordinario che è I Malavoglia.

La follia ha un ruolo preciso nei suoi romanzi. Nel Sorriso, per esempio…

     C.:  Ci sono due forme di follia, per la verità: il libro si apre con un gesto di follia, compiuto nell’antefatto dalla ragazza Atena (che non è una folle, è un’intellettuale), fidanzata con Giovanni Interdonato, che è questo capo risorgimentale rivoluzionario. Lei sfregia il quadro di Antonello da Messina proprio per una sorta di impazienza, perché era animata dal desiderio di uscire fuori della ragione dall’alto, attraverso la fantasia creatrice, che può essere anche una fantasia politica (lei aveva immaginato un nuovo ceto sociale).

     E quindi l’assunto dal quale io sono partito è che dalla ragione – che è rappresentata da questo quadro, da questo sorriso ironico – si può uscire dall’alto, attraverso appunto la fantasia creatrice, l’arte, attraverso questi furori che sono furori positivi.

     Oppure per la disgregazione della ragione, dal basso, Il monaco – un monaco allucinato – è proprio l’altra faccia di questo gesto di insania della ragazza. Poi lei non compare più come personaggio, però è quella che muove tutta l’azione, è una specie di Annunciazione.

     L’ambizione mia è stata di dare una struttura originale al libro; non ho voluto scrivere il romanzo storico di tipo ottocentesco, sapienzale, con l’autore che dall’alto dirige le fila della vicenda.  Il mio romanzo parte dall’assunto dell’inattendibilità della storia, della responsabilità di chi scrive la storia, di chi ha il potere della struttura, anche di chi scrive letteratura insomma; e quindi ho voluto far vedere due aspetti della struttura e cioè quello storiografico e quello letterario.

Si è anche tolto da una cronaca di denuncia, quale può aver fatto Vassalli con la sua ricostruzione del Seicento.

     C.:  Sì. Vorrei dire che non è che io scelga gli argomenti di carattere storico casualmente. Non è che mi interessino tanto i personaggi collocati nella storia, mi interessano le epoche storiche, che siano anche metaforiche. C’è la lezione del Manzoni, insomma. Ci sono dei momenti storici che somigliano ai nostri; si scandaglia il passato per poter capire questo nostro presente. È quello che ci ha insegnato il Manzoni.

     Altrimenti diventano storie romanzate e allora si possono prendere infinite storie.

Basterebbe prendere spunti d’archivio, lei dice. In questo non si differenzia da Sciascia, che ha fatto invece un recupero davvero d’archivio, di lettura documentale?

     C.:  Ma i romanzi storici di Sciascia erano estremamente metaforici; scaturivano proprio dalla lezione manzoniana. Il suo Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore erano nati soprattutto dalla lettura della Colonna Infame: niente di più attuale, di più eternamente attuale, purtroppo, dell’impostura, delle menzogne, della violenza. L’assillo del Manzoni era la giustizia e ha scelto il Seicento perché era un secolo estremamente ingiusto. E ha preso questa distanza storica per poter raccontare l’Ottocento.

Dopo di che lei prende l’Ottocento per poter raccontare…

     C.: A me interessavano altre cose oltre la giustizia, altri tipi di ingiustizia; oltre ai principi generali della dignità dell’uomo, della libertà, mi interessavano anche la sorte delle classi emarginate, di tutti quelli che non hanno il potere della scrittura.

     Quello di Manzoni e di Sciascia è chiaramente un assunto più di tipo illuministico; il mio, se vuole, è un assunto di tipo marxiano: questa forse è la differenza: Io faccio un discorso anche di classe.

E di speranza nella storia.

     C.:  Di speranza nella storia e di ammettere che nella storia ci sia giustizia per tutti gli strati, soprattutto per quelli socialmente più deboli. Questa è la mia utopia, l’utopia da cui parto io.

E che scrive, mi pare benissimo, nel capitolo introduttivo alla relazione sui fatti…

     C.:  Sì. Il libro parla della crisi di un intellettuale, che era chiuso nella sua scienza, nella sua torre d’avorio: era un privilegiato, questo barone Mandralisca! Quando poi sbatte il naso contro la storia, siccome è un uomo di coscienza, non un cinico, entra in crisi. La sua soluzione è quella di donare tutti i suoi beni al Popolo di Cefalù. Può sembrare retorica demagogica, però il personaggio era un personaggio ottocentesco, quello che poteva fare lui, era questo.

C’è un po’ di autobiografia in questo?

     C.:  Io sono tutt’altro che un barone. Tuttavia negli anni Settanta, quando ho scritto quel libro, uno dei temi che si dibattevano era proprio il ruolo dell’intellettuale di fronte alla storia. Rappresentando un intellettuale ho inteso rappresentare anche me stesso nel momento in cui scrivo e cosa significhi questo mio scrivere un romanzo storico.

Nottetempo, casa per casa è ambientato invece negli anni Venti.  

     C.:  Questo libro l’ho concepito veramente non solo come un poema, ma anche come una sorta di tragedia. Ogni capitolo è come una scena di una rappresentazione tragica. Dentro poi ho aperto delle pause con delle digressioni, dove l’autore viene in prima persona (è la funzione del coro) a commentare i fatti che accadono man mano, con un tono un po’ più alto, più lirico.

     Certo ci sono anche dei capitoli di sarcasmo, di ironia, di comicità… Ci sono dei personaggi negativi che cerco di connotare anche beffardamente, come il dannunziano barone Cicio. Però il tema è la follia: la follia privata, esistenziale, e la follia della storia, questa perdita di razionalità. Mentre quella privata è una follia tragica, pietosa, quella della storia è una follia colpevole, perché stiamo insieme e abbiamo il dovere della razionalità. Io sono convintissimo (leopardianamente, diciamo, io non ho fedi di sorta, non credo ai mondi al di là di questa vita) che la vita, che l’esistenza sia dolorosa, anche se è una cosa meravigliosa, però è dolore, e che questo dolore si possa correggere soltanto «con la confederazione degli uomini tra loro» diceva Leopardi, si possa correggere con il contesto storico, con lo stare civilmente assieme. 

     Se, però, questo non avviene, allora abbiamo infelicità sui due fronti: abbiamo l’infelicità dell’esistenza e l’infelicità della storia, come succede al protagonista di questo libro, a Marano.  Ci sono tanti significati, insomma. Il nome Marano viene da «marrano».

«Marrani» in Sicilia, come in Spagna del resto, erano quelli di origine ebraica, che avevano dovuto abdicare alla propria identità religiosa e culturale e convertirsi al cristianesimo per non essere cacciati via. Quindi c’era, da parte di questa famiglia, la memoria di perdita di identità, di marginalità, di persecuzione. Poi questa famigliola di contadini era diventata una famigliola di piccoli proprietari terrieri grazie a questo suo protettore eccentrico che la fa cambiare di classe. Questo cambiamento comporta da parte dei componenti l’abbandono della loro cultura e il dover adottare leggi di classe che non erano le loro. E quindi il sacrificio da parte della sorella, che non può sposare il pastorello di cui è innamorata e rinunzia alla vita, impazzisce, per l’impazzimento dovuto proprio a questo cambio di classe, a questa negazione all’amore.

     E il senso, e qui è metaforico, il senso è che noi tutti abbiamo perso il contatto con quella che è la nostra identità di classe, di cultura. Oggi abbiamo perso tutti i legami con la nostra classe e siamo diventati «massa».

     E, quindi, in questa civiltà di massa abbiamo perso quella che è la nostra cultura e la nostra identità e soffriamo di questa forma di follia, di alienazione.

     Questo voleva essere, non so se ci sono riuscito…

     Il ragazzo Marano è un piccolo intellettuale di paese, che, di fronte a questo carico di dolore famigliare, aveva creduto di poterlo distribuire nella società e per questo si era impegnato politicamente. Anche lui viene deluso, poveretto, e quindi trova anche la follia fuori casa. Poi fa questo gesto estremo, di mettere la finta bomba ed è costretto a scappare, ad andare via.  L’unica cosa che gli rimane è quella di scrivere tutto quello che aveva sofferto, che aveva visto.

Dopo il crollo dei regimi dell’Est la sua speranza marxiana nella storia è ancora in vita?

     C.:  C’è stato il crollo delle ideologie, il crollo di tante utopie, di tante speranze che ci eravamo costruiti in questi anni. Ci è crollato tutto, e io vivo in questa grande angoscia, di vedere questi orizzonti che si sono fatti bui.

     Non c’è ancora un lume di speranza.

Le uniche cose che vedo, di questo lume che la fanciulla tiene in mano, sono certe forme di solidarietà spontanea, come il volontariato dei giovani…  E anche certi ecologisti, che cercano di salvare questo nostro patrimonio, che è l’unico che abbiamo, di rendere vivibile questo nostro pianeta.

     Queste sono cose che veramente mi lasciano sperare molto, però il ceto politico…

   A cura di Lia De Pra Cavalleri
Dalla rivista “Verifiche” gennaio febbraio 1994

La poesia e la storia

III. La poesia e la storia.

Qui arriviamo a uno dei punti focali della sua ultima produzione: sempre più diventa preponderante il ruolo svolto dalla poesia nella struttura del romanzo.
Naturalmente, non si tratta in sé di una novità assoluta; è una cosa che appartiene a tutto il Novecento, ma nelle sue ultime opere questo elemento acquista un peso nuovo. Se è vero – come lei dice – che Nottetempo, casa per casa è la continuazione del Sorriso dell’ignoto marinaio, io vedo nell’opera più recente un notevole stacco sia di poetica, sia di epoca storica.
È vero che il modello che sta dietro al Sorriso dell’ignoto marinaio, come si è detto prima, è Manzoni; ma rispetto a Manzoni c’è una rottura, anche dal punto di vista epistemologico, notevole. L’altra questione fondamentale è la rottura col populismo, da una parte, e con il continuum storicistico dall’altra. Lei ha detto testualmente, in una recente intervista, che «la prosa non è più in grado di narrare la nostra realtà»; addirittura, ha detto che i veri grandi scrittori di prosa della nostra epoca sono i giudici che inquisiscono i politici e così via. Sembra insomma che l’ultimo serbatoio di conoscenza per lo scrittore possa essere solo La poesia. Non crede che in questo ci sia il rischio di ricadere nel lirismo? Nella sua stessa prosa si vede il segno dei tempi, il segno che qualcosa è cambiato dal 68, dall’epoca della politica, dell’opposizione; che siamo ormai in un epoca limita per rimanere all’opposizione, come credo lei voglia fare, ci si deve «rifugiare» nella poesia. Quando, per esempio, nel gruppo della neo-avanguardia, per dirne una, la poesia era l’obiettivo polemico principale.

Non so se c’è concessione al lirismo nel mio ultimo romanzo. C’è, sì, una maggior diffidenza verso la scansione prosastica, che vuol dire una maggiore ritrazione rispetto alla comunicazione.
In confronto al Sorriso, questo libro è più compatto, più chiuso in una sua gabbia ritmica, in una sua densità segnica. Ho voluto scrivere una tragedia – niente è più tragico della follia – con scene-capitoli, con intermezzi del coro, che sono le frequenti digressioni lirico-espressive in cui il narrante s’affaccia e commenta o fa eco in un tono più alto, più acceso. Perché questo compattare, perché l’eliminazione dalla scena del messaggero, dell’anghelos, del personaggio-autore che si rivolge agli spettatori-lettori e narra in termini non espressivi ma assolutamente comunicativi il fatto che è avvenuto altrove, in un altro tempo?
Perché è caduta la fiducia nella comunicazione, nella possibilità, ora, in questo nostro presente, della funzione sociale, politica della scrittura.
Non rimane che la ritrazione, non rimane che l’urlo o il pianto, o l’unica forza oppositiva, alla dura e sorda notte, la forza della poesia, della tragedia, la prima, la più alta delle arti secondo
Hölderlin.

Esimi studiosi, soprattutto nel campo letterario, parlano a proposito del post-moderno addirittura di rottura epocale: fra il 1950 e il 1960 il costume delle popolazioni  nel mondo, i modi di vita, i rapporti tra le persone sono profondamente mutati per effetto della terza rivoluzione industriale. Lei crede invece che sia una sostanziale continuità? 

No, credo che ci sia più rottura che continuità, in campo politico-sociale, economico, industriale e quindi in campo letterario. Il romanzo sta avendo un doppio destino. Da una parte, sta degenerando (nel senso che sta mutando di genere), sta diventando, rispetto a quello che conoscevamo come romanzo, qualche cosa d’altro che non so ancora definire. A questa degenerazione si possono ascrivere romanzi-fiume di estrema comunicazione e fruizione, come si dice, scritti nella nuova lingua tecnologico-aziendale o mass-mediale e quindi di immediata traducibilità: le masse sono uguali in tutto il mondo e parlano tutte la stessa lingua. Sono romanzi d’intrattenimento, didascalici, ludici e di gratificazione mondana. Dall’altra parte, avviene una sorta di revanchismo letterario, di recuperi di vecchie estetiche che erano state sepolte: neo-rondismi, neo-formalismi, nuove prose d’arte, psicologi-smi, esistenzialismi…
Si stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario penso sia quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da «felici pochi». Pensare a un romanzo letterario che sia largamente e immediatamente letto è assolutamente illusorio o utopico.

A proposito di Retablo, di cui non abbiamo ancora parlato, si può dire che lei nell’87 già prefigurasse un po’ la situazione dei nostri giorni. Anche in quel caso un intellettuale si allontanava da Milano…

Un intellettuale, un artista anzi, Fabrizio Clerici, si allontanava da Milano e andava in Sicilia, alla ricerca della matrice culturale e umana della donna di cui era perdutamente innamorato, Teresa Blasco, che nella realtà, nella storia, è stata la madre di Giulia Beccaria. Teresa Blasco al pittore Clerici preferirà insomma Cesare Beccaria. La metafora del racconto è ancora una volta nel rischio di tener separate ideologia e poesia. Clerici si allontana da una Milano illuminista, dalla città dei Verri, e del Beccaria, del Lambertenghi, da un luogo fortemente ideologizzato in cui crede che non ci sia spazio per la poesia (ma la poesia la porta in grembo Teresa Blasco, che tramite la figlia genererà Manzoni), si allontana per andare in una Sicilia mitica, dei templi greci, dell’Arcadia, delle ninfe e dei satiri, e sbatte invece il naso contro una realtà di miserie, violenze, piaghe, orrori, ma anche di bellezze e ricchezze umane.

In Retablo il livello metaforico è molto elevato: Milano è una città pseudo-settecentesca, ma in effetti è molto novecentesca. In essa già si consumava una specie di rito che in questi giorni per lei è stato oggetto di critiche, quando ha adombrato l’idea di abbandonare questa città.

Siamo tornati al punto di partenza, alla prima domanda, alla mia dichiarazione di lasciare Milano in caso di vittoria della Lega Nord. Avevo iniziato col dire che sono stato vittima di mitologie. Ecco, a Milano mi s’era infranto il mito della civiltà industriale, urbana, della città del Politecnico, del luogo cioè dove in qualche modo esisteva la probità e la trasparenza amministrativa e una certa equità sociale s’era realizzata. Lasciamo gli anni bui e tragici degli autunni caldi, della strategia della tensione, gli anni di piombo, gli anni manzoniani di rivolte, assalti ai forni, di peste, di follia e di desolazione, e arriviamo alla Milano pacificata e trionfante degli anni ottanta, alla Milano craxiana: un orrore!
Non può immaginarlo chi non ha vissuto quegli anni a Milano. C’era un clima spensierato, cinico, di ottuso scialo: un carnevale o un paese di cuccagna alla Breughel. Si era passati dalla tragedia alla volgarità. Voglio qui leggervi un passo di Retablo. Si tratta di un’invettiva di Clerici rivolta alla sua città, affidata a una lettera per Teresa Blasco. I personaggi che egli cita sono riconoscibilissimi, uno per uno. Devo avvertire che la parola arasso significa lontano.
«O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involu-to! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, 1l ciarlatan, 1l falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via via, lontan!». Ecco, nell’87 scrivevo questo. C’era disamore e furore nei confronti di una città che era diventata inospitale. Inospitale come la Tauride di Euripide. In quel deserto, in quel campo di macerie succeduto allo scialo, sono spuntati i leghisti. Non il movimento politico in sé m’interessa, ma il clima culturale e morale da cui i leghisti sono sbucati, un clima, una couche che mi allarma. Una regressione, ripeto, esprime la Lega, una Vandea. Mi aveva allarmato, fin dal loro primo apparire, il ripiegamento linguistico, la ritrazione nel dialetto, il revanchismo e l’aggressività: no, non mi sembra che siano portatori di idee, di un progetto politico, ma di velleitari e pericolosi risentimenti. La mia dichiarazione ha voluto essere un’opposizione, solitaria e donchisciottesca quanto si vuole,  alla loro intolleranza, al loro chiasso assordante. Opposizione soprattutto a quegli intellettuali – gli stessi di sempre – che dal carrozzone democristiano e socialista s’erano affrettati a salire sul carro o carroccio leghista, agli altri che, zitti e prudenti, stavano ad aspettare lo svolgersi degli eventi.

 Tornando al rapporto tra letteratura e storia e alla metafora, non si può non rimanere colpiti dalle considerazioni che lei faceva a proposito dei sensi di colpa di Ulisse e dell’umanità di questo secondo dopo guerra. E anche dalla considerazione che faceva sulla necessità del romanzo storico. Ci si può chiedere però di cosa si deve occupare e si occupa di fatto la letteratura, e di cosa per necessità di statuto deve continuare ad occuparsi la storiografia. Perché se non c’è letteratura, se non c’è romanzo senza metafora si mette a rischio l’efficacia della storiografia e del romanzo storico; se la metafora è sempre metafora di una condizione umana necessariamente alienata, come io credo che sia la condizione umana, la storia che ne risulta è una storia immobile: il rischio, insomma, è che non si colgano più le differenze, non si colgano più le trasformazioni di questa alienazione, e lo dico alla luce delle sue parole di oggi, ma sono le stesse impressioni che ho avuto leggendo Le pietre di Pantalica. Il racconto delle occupazioni delle terre nel secondo dopoguerra e il racconto delle manifestazioni pacifiste a Comiso danno la stessa emozione, che è poi quella dell’impossibilità di coniugare l’individuale e il generale, il percorso soggettivo e l’oggettivo, l’individuo che si scontra sempre e comunque con qualcosa di troppo grande: è certo una riflessione sulla condizione umana, ma le contraddizioni di oggi sono ben più gravi di quelle di ieri, il pericolo dell’incubo atomico è ben peggiore del problema dell’occupazione delle terre nel dopoguerra, e così si perdono le dif-ferenze. Mentre prima di questa conversazione pensavo che anche per lei il compito dello storico e del romanzo storico – che ha in più lo stile – fosse proprio quello di cogliere l’essenza di queste trasformazioni, invece adesso ho l’impressione che colga l’essenza delle permanenze. Gli storici, e anche i migliori tra essi, hanno speso anni a raccontare anche la parte «normale», non solo drammatica, del Mezzogiorno; ma forse è in questo che si differenziano storia e letteratura. Ma allora, mi chiedo, il romanzo storico in che cosa è «storico», se suo compito è quello di raccontare la permanenza delle sofferenze umane?

Tante domande in una. E difficili anche. Tento di rispondere. La letteratura non so di cosa deve occuparsi. La mia, intanto, non si occupa di assoluti, di Dio o di dei, di esistenza, di miti, di utopie o di mondi fantastici. Si occupa di relativi: dell’uomo, qui e ora, nella sua dimensione privata e nella sua collocazione pubblica, civile, storica. Certo, una letteratura, un romanzo siffatto dà l’immagine di una storia immobile, perché è critico, oppositivo, e non può lamentare e denunziare le «normalità». Queste, se mai sono esistite, forse è meglio chiamarle differenze, gli storici hanno il compito di registrare. Ho sempre detto
 anche in una ipotetica società perfetta, il romanzo (diciamo storico), non la poesia, ha sempre il dovere di stare all’opposizione, proprio perché quella coniugazione che lei dice, dell’individuale e del generale, è un’aspirazione, un’infinita approssimazione. Leopardianamente penso che la vita sia infelicità e dolore, che l’unico mezzo per «aggiustare» la vita sia la «confederazione» tra gli uomini, l’unico luogo quello civile, politico.
Il romanzo storico è tale in quanto utilizza la storia per i propri fini, per fare cioè di una storia, metafora.
Ho scritto un racconto dal titolo Un giorno come gli altri (pubblicato in Racconti italiani del ‘900, nei Meridiani di Mondadori), in cui immagino o sogno di trovarmi nella città di Ebla, l’antica città dove l’archeologo Matthiae ha rinvenuto un intero archivio di stato su tavolette d’argilla, in compagnia di Giovanni Pettinato, lo scopritore della lingua eblaita.
Il glottologo ricompone alcune tavolette sparse a terra, legge i segni cuneiformi sopra incisi, e mi dice: «È un racconto, un bellissimo racconto scritto da un re narratore… Solo un re può narrare in modo perfetto, egli non ha bisogno di memoria e tanto meno di metafora: egli vive, comanda, scrive e narra con-temporaneamente…».
Noi non siamo, ahimè, re, neanche viceré, non siamo Clinton né Agnelli, abbiamo dunque, scrivendo romanzi storici, il dovere dell’opposizione e della critica al potere.
Alcuni racconti, come quelli pubblicati su «Linea d’ombra», sono quasi a livello cronachistico…
Sono racconti scritti in una prosa quasi referenziale. Sono spesso ambientati a Milano, nel presente, e quindi non smuovono la mia memoria, non m’impegnano sul piano della ricerca linguistica. La loro valenza letteraria, se mai ce l’hanno, bisogna cercarla al di là dello stile, in altre implicazioni. Ad un altro tipo di scrittura sono stato obbligato, ad esempio, nella sezione di Le pietre di Pantalica intitolata Eventi. Racconto lì appunto l’estate del 1982 in Sicilia, partendo da Siracusa, passando per Comiso e arrivando a Palermo. Nella Palermo della peste e dei massacri, del centinaio di morti dall’inizio dell’anno, dell’assassinio di Pio La Torre e dei coniugi Dalla Chiesa. Racconto in prima persona, con una immediatezza da reportage giornalistico. Fu tale allora per me l’urgenza di dire, dire della Sicilia di quel momento, che abbandonai il romanzo storico, lo stile, i tempi lunghi della metafora.
L’urgenza, l’impellenza provocata dall’atrocità del fenomeno della mafia e del potere politico portò Sciascia, ad esempio, dopo il Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore, a fare la grande svolta verso il romanzo poliziesco, il giallo politico. Costruendo storie che erano una parodia della realtà, ma di una tale penetrazione e di una tale restituzione della verità che riuscivano ad anticipare lo svolgimento della realtà stessa, ad essere profetiche. La stessa cosa fece Pasolini, fuori dalla finzione letteraria, della parodia, con i suoi interventi sui giornali, con la forza dei suoi jaccuse, delle sue provocazioni e delle sue requisitorie, dei suoi Scritti corsari. Non li rimpiangeremo mai abbastanza questi due scrittori civili italiani.

 C’è qualcosa di letterario, di intellettuale in questo suo pendolarismo tra la Sicilia e Milano? La seconda domanda si collega alla prima: alla fuga corrisponde un altro polo di aggregazione che evidentemente non è solo fisico ma di fazione letteraria e se vogliamo anche metaforica?


C’è, prima di tutto, la mia vicenda umana, la mia storia di vita, che poi forse diventa vicenda intellettuale e letteraria. Dicevo che mi sono trovato, fin dal mio muovere i primi passi, nella piccola geografia siciliana, alla confluenza dei due mondi, tra due poli, e sono stato costretto al pendolarismo nel tentativo di trovare una mia identità. I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo dell’attuale mondo milanese. Voglio dire che continuo sempre a scrivere della Sicilia, ma con la consapevolezza, spero, della storia di oggi, del nostro mondo postindustriale, come lo colgo e leggo a Milano. Anche Verga – si parva… – da Milano cominciò a scrivere della sua Sicilia, a Milano tornò con la memoria alla Sicilia, a quel mondo «solido e intatto della sua infanzia», come dice Sapegno. Girando le spalle a quella città in piena rivoluzione industriale e sociale che non capiva e che lo «spaesava», alla Milano in cui rimase per diciotto anni, ma girando contemporaneamente le spalle alla Sicilia di allora, quella della corruzione e della mafia che avevano messo in luce Sonnino e Franchetti, dei contadini e degli zolfatari che in nome del socialismo cominciavano a chiedere giustizia. Scrisse insomma Verga i suoi capolavori su una Sicilia fuori dalla storia, mitica, del mito negativo della «ineluttabilità» del male, su una Sicilia solida e intatta appunto, cristallizzata. Fuga da Milano significa ritorno e aggregazione all’altro polo da cui avevo a suo tempo preso le distanze, significa ritorno reale e letterario? No so, credo di no. Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo prigionieri, a Milano, a Roma, à Palermo, della tessa realtà, afflitti tutti dallo stesso male. La mia dichiarazione di lasciare Milano aveva un valore linguistico, era un gesto simbolico di protesta. E ha irritato o inquietato tanta gente. Un vecchio critico milanese, un uomo compromesso col potere democristiano, è arrivato a insultarmi. Non voglio apparire megalomane, ma temo di esser diventato inviso a certi gruppi di potere culturale milanese, a certi cronisti di grandi testate giornalistiche. Ho ricevuto però anche tantissimi messaggi di consenso, di solidarietà. «Il Giornale» di Montanelli, all’indomani delle elezioni, così scriveva in un corsivo improntato al rispetto e alla civiltà: «Un’ombra ha turbato ieri le coscienze di non pochi milanesi, la decisione dello scrittore Vincenzo Consolo, siciliano di nascita e milanese d’adozione, di lasciare il capoluogo lombardo in seguito alla vittoria della Lega…». «L’indipendente» invece, in un ignobile corsivo, mi invitava a fare le valigie e ad andarmene. Me ne andrò sì, quando vorrò io, ma non so dove. So solo che ora, alla mia età, essendone Stato privato per tanti anni, sento il bisogno di rivedere le albe, i tramonti, di stare in un luogo dove il paesaggio fisico e quello umano non mi offendano. No so se esiste questo luogo, lo devo cercare. E forse sarò vittima di un’altra utopia.

 Un’ultima domanda: si può ancora parlare di una componente mitico-utopica dell’attività dello scrittore, del letterato?

Mi sono sempre sforzato di essere laico, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è 1l romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico – anche quelli che scrivono di Dio o di miti fanno ideologia, coscientemente o no -, cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.

Vincenzo Consolo
Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993

Fuga dall’Etna. La Memoria.

II. La memoria

Spesso la ricezione di un’opera d’arte passa attraverso dei filtri letterari, e nel caso del ritratto di Antonello da Messina un filtro importante è stato, per la nostra generazione, senz’altro il suo libro. Tra l’altro, l’impressione che si ha nel vedere l’ignoto del quadro è che le somigli molto. Quale è stato il suo rapporto con il ritratto di Antonello, quando lo ha visto per la prima volta? E come ha immaginato le sue vicissitudini: si tratta di una fantasia che risale all’infanzia, all’adolescenza, o ha più a che fare con un’esperienza di maturità?

Ho visto quel quadro in anni lontani, non riesco a ricordare quando. Da ragazzino, certo. Lo vidi poggiato su un cavalletto, senza cornice, vicino a una finestra, illuminato dalla luce solare. Mi sembrò un quadro grande, e invece è di piccole dimensioni, 30×25 (adesso sembra più piccolo, ed è diventato quasi invisibile per ragioni di sicurezza è stato relegato in un angolo, distante da chi guarda, imprigionato dietro un vetro che fa da specchio e schiacciato da una mostruosa cornice aggettante). Il personaggio effigiato mi appari familiare e insieme lontano, enigmatico. Era uno che «somigliava» a tante persone che avevo conosciuto o che mi vedevo intorno. Quegli occhi, quel sorriso ironico, quella forza realistica, concreta dell’aspetto

(Cesare Brandi dice che ha la consistenza di un cristallo), rappresentava certo l’archetipo dell’uomo siciliano, con tutte le componenti etniche e culturali dietro, giunto, dopo la tempesta della giovinezza o la precarietà sociale, alla sicurezza della maturità, della cultura e del censo.

Quando cominciai a scrivere il romanzo, il quadro si caricò di vari significati, fra cui questo.

Il viaggio del Ritratto d’ignoto, nel simbolico tracciato di un triangolo avente per vertici Messina, Lipari a Cefalù voleva dire: un’altissima espressione di cultura e di arte sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per il terremoto abbattutosi sulla città dello Stretto distruggendola, cacciata in quel cuore della natura qual è un’isola vulcanica come Lipari, scoperta da un uomo sapiente e appassionato come il barone di Mandralisca, viene infine salvata e riportata nella sicurezza di Cefalù, preambolo, porta del gran mondo palermitano. E non questo, tra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, passaggi perigliosi tra gli scogli di Scilla  e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Tornava nel libro l’essermi trovato alla confluenza di due mondi siciliani, all’ incrocio della  natura e della storia. E ho voluto rappresentare questo movimento, questo arrivare dal mare e approdare alla terra, dall’esistenza alla storia (c’è più volte nel romanzo l’arrivo in porto di un veliero).

Il movimento poi, verticalmente, dal basso verso l’alto, è simboleggiato dal carcere a forma di chiocciola, di spirale, dalle scritte che i carcerati hanno lasciato col carbone sulle pareti: in una progressiva e ascendente presa di coscienza sociale e politica.

Ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. «Questo libro è la storia di un parricidio» ha detto, riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra (mi pare che sia Sklovskij a dire che la storia della letteratura è una storia di parricidi). Lo sfregio è fatto da un personaggio, Catena Carnevale, che appare in limine, nell’Antefatto, ma che muove tutto il racconto, tutta l’azione. La ragazza, un’intellettuale, figlia dello speziale di Lipari, sfregia l’uomo del ritratto al quale perfettamente somiglia il fidanzato, Giovanni Interdonato, fuoruscito, clandestino per ragioni politiche, indignata perché la «rivoluzione» tarda a venire. All’uomo del ritratto somigliano anche il vescovo, il capo della polizia, lo stesso barone Mandrali-sca.. Non somigliano invece i cavatori di pomice o i contadini rivoltosi di Alcara. Il gioco delle somiglianze, circolare e chiuso, col ritratto vuol dire che dalla ragione si può uscire dall’ alto con il disordine e il furore della fantasia creatrice. La faccia contrapposta di Catena è quella dell’eremita allucinato, simbolo dell’uscita dal basso per disgregazione della ragione, per annientamento.

L’aspetto saliente del libro, da un punto di vista meno formale, è che per la prima volta viene scritto un romanzo storico il cui tema centrale è proprio la messa in questione della storia, la ricerca di una nuova scrittura della storia. E tutto ciò viene ottenuto mediante un montaggio fra i capitoli di invenzione, che pure parlano di personaggi storici, e i documenti posti in appendice, straniati dal contesto per creare un mutuo dialogo fra queste varie visioni del mon-do. Il che è anche un modo di dire che non esiste una storia, ma che le storie possono essere tante.

Anche la storiografia non ha più ormai da parecchio tempo la presunzione di descrivere fatti oggettivi, ma cerca di far interagire diverse prospettive nel tentativo di darne una ricostruzione attendibile. Eppure, nel libro, c’è una sorta di sfiducia nella possibilità di avvicinarsi al verosimile, se non al vero, anche attraverso questo metodo: alla fine si ricorre alla «tan-gente» utopica, all’affermazione della speranza che i protagonisti della storia, soprattutto quelli dei cet! subalterni, trovino da soli le parole per raccontarsi.
C’è, perciò, una contraddizione tra il tentativo di altissima mediazione intellettuale e il ricorso alla speranza in una immediatezza espressiva, che appare come una caduta un po’ demagogica…

Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni «possano scrivere da sé la storia». Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica. A parte il fatto che gli acculturati quasi sempre fatalmente, passano dall’altra parte… Ma lasciamo andare questi discorsi pericolosi. Il punto è la responsabilità di chi ha il potere della scrittura (parliamo ancora dell’arcaica scrittura. Pensiamo alla pericolosità di chi ha oggi in mano il potere dei media, di giornali e della televisione). Dire che quelli che non  hanno questo potere sono le vittime,sono quelli che più soffrono l’ingiustizia, può sembrare populista. Sì, questo è il rischio, ma io l’ho affrontato mettendo in scena nel romanzo mille dubbi.

Piazza Armerina il 5 giugno 1966

Il libro è scritto nella prima parte in forma parodistica, mimetica, sarcastica se si vuole, quindi in negativo: faccio il verso a un erudito dell’Ottocento recluso nella sua mania antiquaria, che scrive i suoi saggi scientifici, che si occupa di malacologia, una materia quanto mai curiosa, eccentrica. L’erudito cozza suo malgrado contro la storia e entra in crisi: si trova davanti a un massacro, ed essendo un uomo di coscienza, non cinico, perora la causa dei rivoltosi che stanno per essere condannati a morte, scrive lettere al presidente del tribunale, Giovanni Interdonato. Questo è un espediente per un cambio di persona o di voce. L’altro scarto o frattura totale arriva alla fine, con le scritte sul muro del carcere. Naturalmente, nel primo cambio di voce, la scrittura non è più parodistica, cambia segno, si fa positiva, di adesione dell’autore alla voce del personaggio (è il gioco ambiguo della letteratura). La struttura del romanzo è spezzata. Non ho voluto scrivere il romanzo storico di matrice ottocentesca, compiuto, rotondo, sapienziale o pedagogico, d’intrattenimento o di consolazione (avrei contraddetto i presupposti da cui ero partito). Ho fatto così vedere l’ordito che sta sotto l’invenzione letteraria, ho esibito, fra un episodio e un altro, dei documenti storici. Ho tolto insomma i colori all’affresco (e quello storico, per la distanza temporale, come dice Leopardi, è quanto mai seducente).

Finora abbiamo girato attorno ad un nome, tra quelli che è possibile intravedere dietro la sua scrittura, e che non è siciliano, ma milanese, e cioè Manzoni. Qual è il suo rapporto, se c’è, con Manzoni! Perché le parole che lei ha usato sono quasi una filigrana manzoniana: il palinsesto, l’erudito, l’ironia e insieme il rapporto-scontro tra la realtà dello scritto e quella della storia, e poi la storia intesa come problema, come dramma. Siamo d’accordo sul suo rapporto con i siciliani, e anche forse con Gadda e Pasolini, ma Manzoni come lo sente?

Si sa, Manzoni è il nome fondamentale sacramentale forse dovrei dire, della letteratura italiana moderna, del romanzo storico. E noi scrittori siciliani, «inclini» alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. Nell’adolescenza avevo letto altri autori, D’Azeglio, Guerrazzi, Grossi, il siciliano Luigi Natoli, i cui romanzi, privi di metafora, e di tante altre cose, erano solo delle ponderose e soporifere storie romanzate. La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile.
Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi storici (ne sento sempre più la necessità).
L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni venti, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi…
Il sorriso e Nottetempo formano un dittico.
Ho sottolineato questo legame fra loro non solo con il luogo dell’azione, Cefalù, ma anche con altri segni. Gli incipit dei due racconti cominciano con la congiunzione «e»; il primo si apre con un’aurora, col sorgere del sole; il secondo con un notturno, col sorgere della luna. Nel primo ho voluto insomma raccontare la nascita di un utopia politica, della speranza di un nuovo asseto sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la follia della storia, il dolore e la fuga. Il protagonista, Pietro Marano, fugge dalla Sicilia, dal caos, dal fascismo che arriva (fugge da Milano, da Palermo), da un tempo atroce e allarmante.
Ho studiato gli anni venti, soprattutto in Sicilia, su libri, riviste, su un giornale che si stampava a Cefalù, «L’idea». Mi sono imbattuto, in quel paese, in personaggi veri, storici, interessanti, fra cui il mago satanista inglese Aleister Crowley, e li ho fatti muovere insieme a personaggi di invenzione, come sempre avviene nei romanzi storici. Del resto Manzoni nel suo famoso saggio sul romanzo storico chiarisce bene il concetto: sono i personaggi della storia che vanno insieme, camminano insieme ai personaggi di invenzione letteraria, e corrispondono e somigliano gli uni agli altri. Tutti devono avere la luce del loro tempo, e insieme devono riflettere il nostro.

Tornando al Sorriso dell’ignoto marinaio, questo ragionare da letterati sulla storia ha una precisa contestualizzazione, nel senso che avviene all’inizio degli anni settanta quando trova altri momenti di espressione letteraria, per esempio nel romanzo alla Morante. Naturalmente la storia di cui lei parla è qualcosa di più della storiografia, della storia quale disciplina, è una specie di controaltare denso e composito di quello che è il portato delle forme razionali della cultura, è la storia come rappresentazione complessiva che gli intellettuali danno di un mondo e dei suoi poteri. Qui forse c’è qualche punto di vicinanza con la Morante, nonostante le differenze che vi separano, e sarebbe interessante sentire da lei quale era il clima degli anni settanta rispetto a questo tema.

Ho trovato allora interessanti le teorie messe in campo dal Gruppo 47 tedesco, quello di Enzensberger, di Kluge, di altri. I tedeschi venivano da un’esperienza tremenda, quella del nazismo e dei campi di sterminio, e in Germania era in atto una sorta di rimozione di quella grande colpa che li schiacciava, che non li faceva vivere. Il Gruppo 47 voleva ostinatamente ricordare quello che era successo attraverso la storiografia, additare le colpe, parlarne, invece di seppellire tutto, nel tentativo di provocare una sorta di catarsi collettiva. Ci sono ad esempio due libri di Alexander Kluge, Descrizione di una battaglia e Biografie, di un realismo freddo, lucido, di puntigliosa scientifica documentazione che lasciano Senza fiato. Di quella logicità spietata che spesso hanno i tedeschi. Quegli scrittori per me (non ridano i germanisti) si possono dividere in pasticceri (Günther Grass, ad esempio, altri espressionisti) e in analisti. Kluge, Schmidt, Johnson, Enzensberger appartengono a questa seconda categoria. Quello della Morante non è un romanzo storico-metaforico, piuttosto è una rivisitazione della storia narrata attraverso una sotto-storia, quella dei vinti, degli umili. I capitoli si aprono con la storiografia ufficiale e quindi, in opposizione, l’autrice racconta la storia ignota degli innocenti, degli emarginati, delle vittime. La storia è mossa dalla pietà, dall’amore per gli umili, gli indifesi, per quelli che hanno pagato più di tutti per il fascismo e per la guerra. Ricordate il vecchio Brecht? «…Roma la grande / è piena d’archi di trionfo. Su chi / trionfarono i Cesari?… / Ogni dieci anni un grand’uomo. / Chi ne pagò le spese?…».
Per me c’era l’esigenza della metafora, l’esigenza cioè di rappresentare gli anni settanta attraverso lo schema storico.
Credo sempre più alla necessità e alla validità di quella scelta, della scelta cioè del romanzo storico, che vuol dire critico, vuol dire ideologico, per le ragioni cui sopra ho accennato, che sono interne alla letteratura, di ordine diciamo estetico, ma anche, soprattutto, per ragioni di ordine etico. Il più grande romanzo della civiltà occidentale, l’Odissea, è diviso in due parti: la Telemachia e l’Odisssea vera e propria. La prima è narrata in terza persona è quello il romanzo d’iniziazione, di formazione); la seconda parte è narrata in prima persona.

Il passaggio dalla terza alla prima persona, dal racconto oggettivo al soggettivo, avviene nella terra dei Feaci, quando il re Alcinoo invita l’ignoto naufrago a dire chi è e da dove viene.
«Io sono il figlio di Laerte, Ulisse, / tra gli uomini famoso per le astuzie; / la mia gloria va fino al cielo. / Abito nella chiara Itaca…» risponde l’eroe (cito nella bella traduzione di Giovanna Bemporad). E comincia quindi un lungo flash back, un racconto quasi onirico, fantastico, che si svolge in mare, dal momento che le navi hanno doppiato il capo Malea, un racconto di mostri, giganti, sirene, maghe, maliarde, di oblii, metamorfosi, tempeste, perdite, follia e morte. Sembra, quello di Ulisse, un racconto di tipo psicoanalitico, in cui il narratore fa riemergere dalla profondità del mare o della sua coscienza tutti i mostri che si portava dentro, i mostri generati dai suoi rimorsi. Ulisse infatti era il più colpevole degli eroi greci, perché il più astuto e il più consapevole, il più umano (Agamennone pagherà con la morte e con la maledizione nella sua stirpe la grande colpa iniziale). Ulisse aveva inventato la macchina sleale, il cavallo di legno che aveva determinato La sconfitta dei Troiani, aveva seminato morte e distruzione. Ulisse dunque si porta dentro questa grande colpa e compie un viaggio di dolore e di espiazione.
Finito il racconto in prima persona, soggettivo, riprende quello in terza persona. Ulisse raggiungerà, con la nave dei Feaci, Itaca, dove, per ritrovare l’armonia perduta, riprendere il suo posto familiare e sociale, dovrà combattere i nemici reali, i Proci.
Ecco, credo che nel nostro tempo, i mostri individuali, del nostro subconscio, sono emersi dagli abissi, si sono oggettivizzati, sono diventati mostri reali. Dopo Hiroshima e Auschwitz, dopo Stalin e Sarajevo, dopo tutti gli orrori di oggi, quei mostri profetizzati da Kafka o da Musil, da Eliot, da Joyce o da Pirandello, sono diventati mostri della storia. Questi mostri credo che la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità.

Anche per questo, per questa sostanza metaforica, si è parlato, a proposito della sua prosa, di un carattere teatrale, che del resto appartiene molto anche alla tradizione siciliana. Retablo, il romanzo successivo al Sorriso dell’ignoto marinaio, è la dimostrazione lampante di questa dimensione teatrale della sua scrittura, della composizione per quadri, di una propensione a scomporre l’unità della scena.

Più che a quella teatrale, credo che appartenga alla tradizione della narrazione orale. La narrazione epica dell’antica Grecia era orale. Ma anche nella tradizione araba, passata poi in Sicilia, la narrazione era orale. Nei romanzi di Tahar Ben Jelloun, in Creatura di sabbia, Notte fatale e nell’ultimo, A occhi bassi, ci sono sempre personaggi che in traduzione vengono chiamati cantastorie ma che in effetti sono contastorie, narratori orali che narravano nelle piazze (ancora ci sono nella piazza Jama el Fna di Marrakesh), come in Sicilia, fino a pochi anni fa quelli che narravano dei Paladini di Francia. I poemi narrativi credo che siano nati così, dall’oralità, avevano bisogno di un ritmo, proprio per un fatto mnemonico. Nella tradizione araba c’è uno stile che si chiama makamet, che consiste in una sorta di prosa ritmica, nata per ragioni pedagogiche. Nella mia scrittura c’è uno slittare della prosa verso un ritmo poetico.
Sento la necessità di far questo perché credo che la lingua della narrativa ha bisogno di «risacralizzarsi» (non solo, certo, attraverso l’espediente esterno del ritmo), di ritrovare dignità. La lingua oggi è talmente privata di identità, talmente appiattita, quotidianamente incenerita dai media, che è terribilmente difficile trovare una lingua per narrare. D’altra parte in Italia non c’è una grande tradizione di lingua narrativa. La nostra vera tradizione è quella dei poemi narrativi, popolari o aulici come l’Orlando furioso o la Gerusalemme liberata Gli scrittori italiani hanno dovuto sempre andare all’estero per poter scrivere in prosa, da Manzoni a Calvino, a Sciascia, mutuare cioè la loro dalla prosa francese o adottare una sorta di koiné funzionale di tipo transnazionale come Pirandello o Moravia. Penso che quando uno scrittore ha scoperto qualcosa di nuovo, di importante e ha urgenza di comunicarlo, allora la lingua diventa strumento del messaggio. Pirandello ha fatto questo, Svevo… Altrimenti, per rimanere nel campo letterario, si ha l’obbligo dello stile.

Volevo chiederle qualcosa proprio a proposito della lingua. Leggendo i suoi romanzi, ho sempre avuto la sensazione che si trattasse di un lingua quasi completamente inventata. Mi dicevo: adesso vado a vedere sul Devoto-Oli se esiste questa parola e sono quasi certa di non trovarla. Devo dire che non ho mai tentato questa ricerca, però mi piaceva molto quest’idea… e immagino anche che sia difficile per lei rispondere alla domanda che sto per farle perché è difficile razionalizzare il processo attraverso il quale nasce questa creazione, questa invenzione della lin-gua. Lei ha parlato di memoria storica, cioè della necessità per chi scrive, soprattutto per chi scrive romanzi storici, di fare una ricerca storica sull’ambien-te, il contesto, la situazione, i personaggi di cui si tratta; ha parlato anche di una memoria personale, di una lingua che evidentemente deriva da una formazione personale, familiare. Credo che per quanto la riguarda ci sia di mezzo anche il dialetto, il dialetto siciliano: ecco, l’alchimia di tutto questo come succede, come nasce?

No, le parole non si trovano nel Devoto-Oli né nel Fanfani o nel Tommaseo. Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. È quella particolarità storico-linguistica avvertita da Sciascia.

Questa cifra linguistica estrema mi ha accompagnato poi negli altri libri, nel Sorriso, in Lunaria… C’è un racconto ne Le pietre di Pantalica intitolato I linguaggi del bosco, in cui metto a fuoco proprio la mia «ideologia» linguistica.
Quelle parole, irreperibili nei vocabolari italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo…
Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati.
Faccio qualche esempio. Nel Sorriso, di avvoltoi che si librano sopra cadaveri, dopo una strage, dico che stavano «arraggiati in cielo a volteggiare». Arraggiati voleva significare a forma di raggiera e insieme arrabbiati, famelici. In Nottetempo la sorella del protagonista, Lucia, ha un attacco di follia durante una gita a Bàida, un villaggio sopra Palermo. Bàida in arabo significa bianca, di bianco era vestita a sua volta la ragazza, cioè del colore-simbolo della follia. Superata la barriera sonora, quella sorta di ron ron ruffiano, credo che il lettore potrebbe essere stimolato a scoprire questi significati nascosti.

Vincenzo Consolo
Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993

Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano.



Il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la letteratura.
 H. M. Enzensberger,

Letteratura come storiografia

La Sicilia e Milano
Partiamo dalla fine: in una delle sue ultime dichiarazioni pubbliche, che ha suscitato particolare clamore, lei ha affermato di voler abbandonare Milano, dopo la vittoria elettorale della Lega Nord. Una rottura che segue un lungo amore: in effetti, Milano sembrava aver rimpiazzato, nella sua vita presente, la Sicilia da cui era andato via tanti anni fa. Cosa è successo? Che cosa si è spezzato, nel suo rapporto con Milano?

Voglio premettere, prima di rispondere alla domanda, che le interviste obbligano a mettere in campo continuamente un io che rischia di apparire ingombrante e irritante, se non ridicolo. Io non ho mai amato la prima persona (ecco che mentre affermo questo mi contraddico), ho sempre scritto, dopo il racconto d’esordio o di formazione, in terza persona. L’intervista, d’altra parte, mi dà l’occasione o offre il pretesto per riesumare personali ricordi, per estrinsecare pensieri e convinzioni. Credo che questo in qualche modo la giustifichi. La domanda parte dalla dichiarazione, in occasione delle elezioni amministrative del 20 giugno 1993, che, se avesse vinto la Lega Nord di Bossi, avrei abbandonato Milano. Rileggo qui, per una migliore comprensione di chi ascolta la mia dichiarazione apparsa su «I Messaggero», lo stesso giorno delle elezioni, col titolo un po’ melodrammatico Tu non mi avrai, città di leghisti. «Se nell’odierno secondo turno delle elezioni comunali dovesse vincere a Milano il candidato della Lega Nord Formentini, io mi sentirò costretto ad andarmene da questa città dove risiedo da venticinque anni, dove lavoro, dove, è naturale, ho intrecciato relazioni affettive, professionali, culturali. Mi sentirò costretto a sradicarmi da questa città, come venticinque anni fa m’ero sradicato dalla mia Sicilia, e a scegliere un’altra città, un’altra regione in cui andare a vivere e a lavorare. Me ne andrò da Milano, voglio chiarire, non in quanto meridionale che teme di essere minacciato, schiacciato nella sua identità culturale, nella sua collocazione sociale, nei suoi diritti civili da forze politiche al potere che trovano la loro genesi e la loro ideologia nell’esprimere bisogni e Istanze di popolazioni di una zona geografica – il Nord di questo Paese – ma in quanto cittadino di Milano, in quanto lavoratore, in quanto, è la parola che si usa – intellettuale. Me ne andrò, voglio chiarire, non in quanto militante dell’altro schieramento politico che aveva nel candidato Dalla Chiesa il suo rappresentante e che dalle elezioni uscirebbe sconfitto. Me ne andrò quindi non come un ghibellino cacciato dai guelfi vincitori (credo di avere abbastanza ironia per non vedermi tale). Mi rendo conto intanto che questa mia dichiarazione, che ho già fatto altrove, potrà apparire a chi legge, come è apparsa a Giorgio Bocca, insensata, carica di esibizionismo, di prevenzione e presunzione, inopportunamente provocatoria, ma credo che essa possa trovare una sua motivazione e legittimità nel fatto che altri intellettuali milanesi – editori, scritori giornalisti ben più autorevoli e famosi di me – hanno dichiarato la loro simpatia e adesione politica allo schieramento della Lega Nord e quindi, implicitamente, la loro soddisfazione e felicità nel trovarsi a vivere in una Milano amministrata da domani dai leghisti.
Mi rendo conto che non c’è proporzione, non c’è confronto tra il risultato di una elezione che esprime convinzioni e volontà di migliaia e migliaia di cittadini e la parola e il gesto di un sin-golo, di un individuo politicamente insignificante, di uno scrittore isolato, e solitario, sciolto cioè da legami politici, quale io sono, quali credo dovrebbero essere gli scrittori: liberi da impegni partitici, ma legati da impegni ideali, morali, storici. Il probabile futuro sindaco di Milano, il Formentini, potrebbe, sarcasticamente, sferzatamente, pronunciare, calcolando diversità e distanza tra i personaggi in causa, parodiandola, la famosa frase che Togliatti indirizzò all’eretico Vittorini concludendo la polemica sul “Politecnico”: “Consolo se n’è juto e suli ci ha lasciati” Assai dubitando che Formentini, il quale dichiara di frequentare, nella raffinata collezione della Pléiade, classici come Flaubert, con lo stesso sussiego con cui un ricco dichiara di nutrirsi a caviale e champagne, abbia una qualche contezza di uno scrittore di estrazione meridionale, di stampo paesano, di tono dialettale quale io sono. E potrebbe ripetere Formentini quelle famose parole della canzonetta napoletana o dire altro di meno sarcastico ma di più diretto e violento, ricorrendo a quel linguaggio antieufemistico, esplicito, di aggressività metropolitana che i leghisti sanno usare. Non sono esperto di partiti, non studio i loro programmi, non conosco la morfologia e la sintassi della lingua politica della contingenza e della prassi, ma credo di conoscere la paratassi di una metalingua politica che parla non di Lega Nord o Lega Sud, ma di uomini in un contesto storico e civile, di qualsiasi città o regione, ricca o povera che sia, di una lingua che parla della loro dignità, dei loro diritti, parla di apertura verso i socialmente deboli, di giustizia, di solidarietà, di cultura, di libertà. So che questo Paese non si è unito perché un eroe di nome Garibaldi, sbarcando a Marsala, l’ha liberato da vecchi poteri fatiscenti  e consegnato a una “borghese” monarchia  come quella dei Savoia e a un economista accorto come Cavour, ma si è unito effettualmente nel 1945, dopo aver sofferto per un ventennio la dittatura fascista, aver subito morte e distruzione per una guerra folle, aver combattuto per riconquistare libertà e dignità. E dunque subito mi mette in sospetto un movimento politico di nome Lega Nord (come ieri in Sicilia mi metteva in sospetto il movimento indipendentista sostenuto dai ricchi agrari), che è nato in regioni opulente, privilegiate dalla politica di quasi cinquant’anni del governo, centrale, che, per risentimento verso quel governo, verso un regime politico che ha consegnato questo Paese alla mafia e alla corruzione politica, propugna una nazione di regioni confederate. In cui – mi sembra chiaro – quelle del Nord, separando da quello delle altre il proprio destino economico e politico, si possano agilmente spostare verso un cuore dell’Europa forte e chiusa dalle sue mura e dai suoi baluardi di fabbriche e di banche. E viene chiamato, questo progetto politico della Lega Nord, rivoluzione. Mi ricorda, questa rivoluzione, quella del Vespro siciliano – sì, abbiamo quasi sempre la tendenza, noi intellettuali siciliani, a misurare tutto con i nostri metri – spacciato dagli storici dell’Ottocento come rivoluzionario (ma gli storici, si sa, lavorano per il loro tempo) e scoperto nella sua realtà reazionaria da Benedetto Croce. “Il Vespro siciliano, che ingegni poco politici e molto rettorici esaltano ancora come grande avvenimento storico, laddove fu principio di molte sciagure e di nessuna grandezza”, scrive il filosofo nella sua Storia del Regno di Napoli. E quindi ancora Vittorini, che introduce la Storia del Vespro dell’Amari con un saggio dal titolo Di Vandea in Vandea: “Per questo il Vespro era vitale e ostinato; perché Vandea locale, nasceva concorde con la reazione ghibellina in tutta l’Italia…”. I nuovi movimenti, i nuovi partiti, Leghe o Reti o quant’altro, si muovono oggi, certo, su un campo di macerie. Ma come sempre sulle macerie, di terremoti o guerre o crolli di regimi, possono nascere nuove utopie, progetti di nuove società aperte e progressive. Ma possono anche nascere, per paura di perdere conquiste e privilegi, Vandee di reazione, di regressione». La domanda da voi posta, dicevo, parte dalla fine. E dunque sono costretto a fare un lungo flash-back, una lunga digressione, sono costretto a partire dall’inizio, a narrare di fatti ormai remoti (che sia questa la letteratura, la narrativa: una infinita digressione affabulante per sfuggire a una risposta logica e immediata?). A questo punto della mia vita sono costretto a fare un bilancio e devo concludere amaramente che sono stato fino adesso vittima di miti, e forse lo sarò ancora nei giorni che mi restano. Sono stato vittima del mito della realtà meridionale contadina, e successivamente del mito del Nord, di Milano, della realtà industriale. Ho compiuto gli studi universitari a Milano negli anni cinquanta abbandonando una Sicilia che conoscevo poco. Sono nato in un paese sulla costa settentrionale dell’Isola, alla confluenza delle province di Palermo e di Messina con alle spalle quella muraglia cinese che è la catena appenninica siciliana dei Nèbrodi, delle Madonie e dei Peloritani. Chi nasce in quella costa tende sempre a scivolare avanti e indietro, verso Palermo o verso Messina, e ignora la realtà che sta dietro quella barriera montuosa, la realtà della Sicilia interna; tende a prendere il treno, salire sul traghetto, attraversare lo Stretto e andare in Continente. C’è tutta una letteratura sul traghetto, sul traghetto che va e su quello che torna, da Verga a Vittorini, a Stefano D’Arrigo. Ho fatto gli studi a Milano, all’Università Cattolica e non per ragioni religiose o ideologiche (ero uscito dal liceo Valla di Barcellona di Sicilia, dove avevo conosciuto e frequentato Nino Pino Ballotta, professore di veterinaria, poeta e grande anarchico, con profonde convinzioni socialiste e libertarie), ma perché volevo conoscere il Nord e perché in quella Università c’era andato un anno prima un mio compaesano. Una mattina velata di nebbia del novembre del 1952 arrivai a Milano ed entrai nel convitto universitario Augustinianum di via Necchi, accanto a piazza Sant’Ambrogio. Il compaesano mi disse subito che dovevo «ruffianarmi» – disse proprio così – il direttore del convitto, don Mario Giavazzi. Lo stesso compaesano era indeciso se dopo la laurea entrare nella Polizia, fare il doganiere o darsi alla politica (che voleva dire far carriera nella Democrazia Cristiana). La Cattolica era allora frequentata dai figli della buona borghesia milanese e lombarda e da tutta una massa di meridionali, in gran parte mandati qui dai parroci e dai vescovi, spesso muniti di un certificato di povertà che permetteva loro di alloggiare gratuitamente nel convitto. Io non avevo il certificato, pagavo 20 mila lire al mese per la stanza-cella e per i pasti. Dal Meridione erano approdati alla Cattolica in quegli anni i due fratelli De Mita, Ciriaco e En-rico, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi e tanti altri che poi sarebbero entrati a far parte della classe dirigente italiana, del grande potere democristiano. Sprazzi di ricordi: padre Gemelli, il frate fondatore e rettore della Cattolica, con una grossa testa e gli occhi terribilmente saettanti, immobilizzato su una sedia a rotelle, spinto da un valletto per i corridoi e i bellissimi chiostri bramanteschi dell’Università, che incuteva soggezione e imponeva silenzio al suo passaggio agli studenti e soprattutto a quelle studentesse che per caso avevano dimenticato di indossare l’obbligatorio grembiule nero. Padre Gemelli si vantò una volta, durante una predica, di aver scoperto lo scultore Giacomo Manzù, al quale aveva commissionato, per la cappella dell’Università, per il collegio maschile e per quello femminile, un Cristo e dei santi dai piedi e dalle mani incredibilmente lunghi. Una volta, in occasione della Giornata dell’Università Cattolica, in cui si raccoglievano soldi in tutta Italia per l’ateneo, venne in visita il cardinale Schuster. Apparì, etereo e magico come una figura onirica, in piazza Sant’Ambrogio, scivolò leggero e benedicente, nelle pieghe della sua porpora, nel suo viso gotico e diafano ricamato di venuzze, nei suoi occhi cerulei, tra due ali di studenti plaudenti. Prima di varcare il portone d’ingresso dell’Università, si fermò, si volse verso noi giovani e disse, ispirato, convinto e convincente: «Cosa fate qui, cosa fate? Andate, andate per il mondo a convertire le genti!…». E venne pure un giorno all’Università, per una conferenza nell’aula magna, l’onorevole Oscar Luigi Scalfaro, fresco di scandalo per la scenata in un ristorante romano alla signora scollacciata. Ciriaco De Mita, ch’era allora già un capo, organizzò una protesta con gli studenti meridionali, connotati come «di sinistra». Nell’anfiteatro dell’aula, non appena Scalfaro cominciò a parlare, noi contestatori, a uno a uno, ci alzammo e platealmente uscimmo, passando sotto l’alta cattedra dell’oratore. Il quale, imperturbabile, continuò a parlare, con la sua bella dizione scandita, con le sue erre molli. Nella piazza Sant’ Ambrogio, oltre alla fabbrica in cotto con i due campanili della celebre basilica romanica (qui ho assistito una mattina, per caso, al matrimonio di Dario Fo e Franca Rame, allora poco noti: lui in tight, magro, con dentoni sporgenti, lei bionda e rosea come una bambola di lenci, il bel corpo fasciato in un abito bianco, la testa coperta da un romantico cappello a larghe tese), oltre alla basilica «là fuori di mano», c’era, in un grande fabbricato, un convento sette-centesco, il Centro Orientamento Immigrati. Era in atto in quegli anni la grande emigrazione italiana, il grande esodo dal Sud verso il Nord, verso il centro Europa. Gli emigranti venivano prelevati alla Stazione Centrale, caricati su appositi tram e scaricati in piazza Sant’ Ambrogio. Accolti nel Centro erano sottoposti a visita medica da parte di delegazioni straniere, francesi, svizzere, belghe (per gli emigranti che andavano in Germania il Centro di smistamento era a Verona). Al Centro di piazza Sant’ Ambrogio restavano tre o quattro giorni. Quelli destinati alle miniere di carbone del Belgio, a Milano venivano equipaggiati di casco, lanterna e mantellina cerata. I minatori siciliani passavano così dalle zolfatare del Nisseno o dell’Agrigentino, che allora chiudevano per la crisi dello zolfo, alle miniere del Belgio. E alcuni di loro avrebbero trovato lì la morte, nell’esplosione della miniera di Marcinelle. Il poeta dialettale Ignazio Buttitta avrebbe scritto un poema su quella tragedia, evocando uno di questi emigrati. «Turi Scordu, surfararu, / abitanti a Mazzarinu / cu lu trenu di lu suli / s’avvintura a lu distinu…».
In piazza Sant’Ambrogio, accanto al Centro degli emigranti, c’era una caserma della Celere. A noi studentelli privilegiati poteva capitare d’incontrare in quella piazza o nelle latterie e trattorie delle vicine via Terraggio e via Nirone il compaesano che emigrava o quello in divisa da poliziotto, col manganello alla cintola (c’erano scioperi in quegli anni e la polizia del ministro Scelba caricava gli operai che protestavano). A me è capitato d’incontrare, vestito da poliziotto, Giacomino, uno che giocava con me al pallone all’oratorio. Non so se gli studenti meridionali che poi diventeranno potenti uomini politici, quelli che, dopo la laurea, venivano mandati da don Mario Giavazzi a Bologna, al Centro di studi sociali diretto da Dossetti, non so se hanno visto allora in piazza Sant’ Ambrogio gli emigranti e i poliziotti. Durante gli anni alla Cattolica avevo deciso di fare lo scrittore, di tornare in Sicilia a scrivere Volevo raccontare la realtà contadina siciliana, con una scrittura di tipo sociologico, di estrema comunicazione. Le mie letture erano allora soprattutto storico-politiche, di autori meridionali e meridionalisti. Carlo Levi del Cristo e de Le parole sono pietre mi sembrava lo scrittore esemplare, oltre ad altri scrittori di memorie e di testimonianza. Ma seguivo anche, con passione mista, devo dire, a senso di colpa, le vicende letterarie in Italia e all’estero. Ricordo che lessi, con un senso di trasgressione, di peccato, se pure per ragioni diverse, libri come La mia Africa della Blixen e come i due Tropici di Miller, pubblicati da Feltri-nelli, ma che non erano venduti in Italia. A me li acquistò un amico a Parigi. In Sicilia, nel 1958 mi misi a insegnare educazione civica e cultura generale nelle scuole agrarie. Andavo in sperduti paesi di montagna, partendo in treno la mattina presto, passando poi su corriere, tornando la sera con mezzi di fortuna. Insegnai a Mistretta, a Caronia, grossi centri sopra i Nèbrodi che una volta erano vivi e fiorenti e che in quegli anni si andavano svuotando. I padri dei miei alunni erano emigrati, i figli avrebbero seguito la stessa sorte. A Caronia mi colpì il gran numero di suicidi che si verificarono nell’arco di un anno. Quando mi accinsi a scrivere il primo libro, le intenzioni e le convinzioni andarono da una parte e l’istinto o la passione mi portarono da un’altra. Il racconto non era di tipo realistico-testi-moniale, ma memoriale e metaforico, la scrittura non era di tipo logico, referenziale, ma fortemente trasgressiva ed espressiva.
Il libro è La ferita dell’aprile, pubblicata nel 1963 nella collana «Il Tornasole» di Gallo e Sereni, che è un libro straordinariamente nuovo, un’assoluta novità rispetto al realismo sociale. Non so se a quell’epoca aveva già letto Gadda o meno, ma la prosa che ne viene fuori è sicuramente di tipo espressionista.

Avevo letto Gadda, avevo letto le sperimentazioni pasoliniane di Ragazzi di vita e di Una vita violenta. In letteratura non si è innocenti.

Non credo nell’innocenza in arte. Bisogna avere consapevolezza di quello che è avvenuto prima di noi e intorno a noi, bisogna sapere da dove si parte e dove si vuole andare. Ritenevo che fosse conclusa la stagione del cosiddetto neorealismo e avevo l’ambizione di andare un po’ oltre quell’esperienza. Mi sono trovato così fatalmente nel solco sperimentale di Gadda e Pasolini, di D’Arrigo e Mastronardi, anche. Non era ancora apparso all’orizzonte il Gruppo ’63, dal quale in ogni caso mi avrebbe tenuto ben lontano un forte senso di appartenenza alla tradizione letteraria, una vera spinta oppositiva, la consapevolezza che le cancellazioni, gli azzeramenti avanguardistici, la loro impraticabilità linguistica, che si può rovesciare nel conservatorismo più bieco, sono speculari alla impraticabilità linguistica o all’afasia del potere. La nuova lingua italiana, tecnolo-gico-aziendale-democristiana era uguale a quella del Gruppo 63.  Nel solco della sperimentazione linguistica di Gadda e Pasolini dicevo. Senza dimenticare il solco per me più congeniale di Verga. La mia sperimentazione però non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettal-gergale di Pasolini o la deflagrazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico e una «plurivocità», come poi l’avrebbe chiamata Cesare Segre, che mi permettevano di non adottare un codice linguistico imposto. Tutto questo m’era permesso dall’argomento del racconto: corale, di personaggi adolescenti (l’adolescenza è la stagione trasgressiva ed inventiva per eccellenza).

Queste ascendenze di tipo culturale (Pasolini, Gadda) hanno avuto qualche mediazione di tipo scolastico, universitario? C’è stato qualche studioso che l’ha indirizzato in questa direzione? Come è arrivato alla letteratura? Che importanza hanno avuto nella sua formazione due scrittori siciliani come Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo?

Nessun maestro, nessun professore. Quella di scrivere è stata una scelta solitaria. Solitaria e avventurosa era del resto allora la scelta di scrivere, era il mallarmeano «coup de dés». Oggi credo che ci sia meno azzardo. Gli scrittori oggi vengono allevati in serra, nascono e crescono nel terreno dell’Azienda, dell’Accademia, del Salotto, del clan, della confraternita, sono curati e assistiti fin dalla nascita, sono docili e bravi, non si sorprendono e non danno sorprese.

A Milano avevo visto una volta sola Vittorini, avevo conosciuto Vittorio Sereni. La comunicazione avveniva attraverso le riviste e soprattutto attraverso le collane letterarie. Allora gli editori avevano collane di ricerca letteraria che non erano indirizzate al profitto. Mi riferisco ad esempio alla einaudiana Gettoni di Vittorini e alla mondadoriana Tornasole di Sereni e Gallo. Credo che quel lavoro di ricerca lo svolgano oggi le piccole case editrici. In Sicilia cercai di mettermi in contatto con persone che parlassero la mia stessa lingua, che avessero i miei stessi interessi.

(Un poeta, mio amico, Basilio Reale, col quale m’ero confrontato e insieme al quale avevo mosso i primi passi, era rimasto a Milano). Presi a frequentare Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

Il primo, di Capo d’Orlando, un paese a pochi chilometri dal mio, lo conoscevo fin da ragazzino. Era un barone, per me inavvicinabile. Ma un giorno lo incontrai per caso in una tipografia dove era andato per farsi stampare le poesie, mandate poi a Montale, che gli valsero il premio San Pellegrino e che lo fecero conoscere nel mondo letterario.

L’anno scorso, a Natale, ho avuto in regalo quel prezioso e ormai introvabile libretto, dal titolo 9 liriche, dal figlio del signor Zuccarello, il proprietario della tipografia Progresso di Sant’Agata di Militello. Frequentai assiduamente Piccolo, questo grande poeta di sconfinata cultura, cugino e antagonista di Tomasi di Lampedusa. Fu lui a insegnarmi la vera letteratura, la poesia e, insieme, a farmi amare certi libri di erudizione provinciale, ottocentesca, storie, guide, cataloghi, «pieni di insospettabile poesia» diceva, che furono miniere lessicali per me.

Ma presto non mi bastò più il solo mondo piccoliano: il fantastico, l’onirico, l’esoterico, 1l senso panico della natura, quello visionario, magico della vita, la poesia lirica, barocca, tesa e accesa fino alla preghiera, al rapimento estatico.

Cercavo, per arginare e contrastare quella malia, una scansione prosastica, razionale, una dimensione storica, critica, civile.

La trovai nel cuore più caotico e tenebroso di Sicilia, nel regno delle divinità ctonie, nell’inferno dell’aridità e dello zolfo. Lo trovai a Caltanissetta, in Leonardo Sciascia.

Avevo scoperto questo scrittore sin dai suoi primi libri: Le parrocchie di Regalpetra, Gli zii di Sicilia, Morte dell’inquisitore, Il Consiglio d’Egitto. Quella sua prosa cristallina e tagliente, di stampo agrigentino, di vibrazione francese e insieme di corposità spagnola, mi sembrò che per la prima volta nella letteratura siciliana, chiusa tra la poematica dialettale stagnazione verghiana e la vittoriniana stilizzazione tosco-americana (certo, bisogna considerare le eccezioni di De Roberto, di Pirandello, di Borgese eccezioni dati e quindi di Lampedusa, ma apriremmo qui un lunghissimo capitolo), mi sembrò, dicevo, che spalancasse un balcone da cui irrompeva luce e ossigeno.

Non conoscevo personalmente Sciascia e non osavo scrivergli. Lo feci soltanto quando pubblicai il mio primo libro e glielo mandai con una lettera in cui gli dichiaravo la mia riconoscenza per quello che mi aveva insegnato. Mi rispose: «Caro Consolo, proprio il giorno in cui ho trovato qui la sua lettera, e il libro, a Palermo avevo infruttuosamente cercato La ferita dell’aprile, di cui avevo letto recensione su “Paese

sera”

…». E alla fine aggiungeva: «Mi piacerebbe sapere quali sono i luoghi del suo racconto: per documentarmi su quelle particolarità storico-linguistiche che insorgono nel libro, e che hanno, a me pare, peculiare carattere». Dopo altri scambi di lettere e dopo un invito, andai a Caltanissetta a trovare Sciascia. Non ci andavo dagli anni della mia infanzia.

Era il settembre del ’43 quando feci il mio primo viaggio in Sicilia. Dico viaggio in Sicilia come se mi fossi mosso da un’altra terra, da una qualche regione al di là dello Stretto o al di là del Faro, come si diceva una volta. E in effetti era, la zona da cui partivo, il Val Dèmone, la Sicilia ai piedi dei Nèbrodi, tutt’affatto diversa dall’altra, sconosciuta, che si svolgeva al di là dei monti; la Sicilia delle vaste terre, del latifondo, dei grandi altipiani, della nudità e della scabrosità, delle solitarie masserie, dei paesi fittamente aggrumati sulle alture, dei cieli bassi, infiniti. Su un camion sgangherato, mio padre ed io percorremmo strade dissestate dalla guerra (l’occupazione degli Alleati s’era conclusa a Messina verso la metà dell’agosto appena scorso), strade che si interrompevano sopra i torrenti e le fiumare dove i ponti erano stati fatti saltare (bisognava proseguire per alvei pietrosi e polverosi o sopra traballanti ponticelli di legno), strade con ancora ai margini carcasse di carri armati, di camion, di cannoni, d’altri ordigni: i segni della guerra erano ancora là, in quei simulacri squarciati e affumicati dei giorni bui e tremendi della storia. La nostra meta era l’interno dell’Isola, alla ricerca di frumento, di fave, di lenticchie, di cicerchie, che da noi, terra di agrumi e di olive, mancavano del tutto.

Per quelle terre assolate e desolate, s’incontrava ogni tanto un contadino che con un cenno della mano ci invitava a fermarci per offrire, a noi viandanti, grappoli d’uva. Era ancora, quella, l’antica Sicilia contadina che neanche l’uragano della guerra era riuscito a cancellare.

Lasciato il bosco della Miraglia, per Troina, Nicosia e Leonforte, dopo Vallelunga, Villalba e Mussomeli, arrivammo un tardo pomeriggio a Caltanissetta.
Nella piazza Garibaldi, affollata di gente, contadini, zolfatari (forse la piazza dove, nell’alba silenziosa, alla partenza della corriera, si diffondeva la voce «implorante e ironica» del venditore di panelle de Il giorno della civetta), un uomo vendeva un giornale. «La forbice, La forbice!» strillonava l’uomo. Nella mia scienza di diligente scolaro di terza elementare, stigmatizzai dentro di me quel nome di giornale al singolare, non sospettandone l’allusione: Forbice come discussione critica, come fronda sui e ai fatti pubblici, i fatti nati nello spazio breve di quella piazza, tra la Cattedrale e il Municipio, e che riguardavano tutta la comunità. Una conversazione pubblica e democratica subito ripresa dopo il periodo fascista e l’interruzione della guerra.
Vent’anni dopo compivo il secondo viaggio a Caltanissetta, in un giorno di luglio del 64. Da Termini Imerese la littorina s’inoltrava in mezzo a un deserto di stoppie, di rocce, di colline nude e vaporanti, sostava davanti a stazioncine solitarie che portavano nomi di paesi invisibili – Roccapalumba, Fontanamurata, Marianopoli, Xirbi… -, dove c’era un solo ferroviere che agitava la sua paletta.
Caltanissetta sembrava costruita sulle pareti d’una miniera o di una cava, una sorta d’infernale imbuto dantesco. Era una città priva di monumenti, di bellezze, se si fa eccezione di due chiese barocche e d’un massiccio seicentesco palazzo Moncada. I fumi delle numerose zolfatare vicine, spinti dal vento sulla città, ingrigivano pietre e piante, scolorivano finanche gli abiti delle donne. Eppure Caltanissetta è stata da sempre la città degli zolfatari più consapevoli della loro condizione di operai e più combattivi, degli intellettuali, degli ingegni più vivaci dell’Isola. A Caltanissetta s’era rifugiato, lasciando Roma, Vitaliano Brancati. A Caltanissetta, durante la guerra, era giunto in treno, la valigia piena di stampa clandestina, Elio Vittorini. Viene prelevato alla stazione da un compagno operaio che lo porta a casa sua e gli fa mangiare, alle quattro del mattino, un fumante piatto di spaghetti.
A me sembrò, quella città, a confronto con la quieta zona del Messinese, col mio sonnolento paese, una piccola Atene. Attorno a Sciascia ruotavano poeti, pittori, saggisti, narratori, l’omonimo editore Salvatore Sciascia, per il quale Leonardo dirigeva una bella rivista letteraria, Galleria, e una collana di poesia. In questo sperduto centro zolfifero siciliano, in quegli anni pubblicavano i loro versi poeti che si chiamavano Paso-lini, Roversi, Romano, Caproni, Leonetti, Bevilacqua, Bodini, Fortini, Compagnone…
A me sembrò, Sciascia, un uomo che corrispondeva perfettamente al grande scrittore che era. Quella sua parca misura di gesti e di parole, quel suo controllato ma intenso disporsi verso gli altri, quella sua serena dimensione familiare – la moglie, le due figlie, quel suo modesto appartamento di maestro, nel girone alto della città, in via del Redentore – mi sembrarono, nella Sicilia turbinosa, vociante, istintiva e spesso isterica, un approdo, un’oasi di ragione e d’armonia.
Ma si capiva, nella vigile attenzione verso il mondo, nello sguardo acuto sugli uomini e le cose, che per lo scrittore quell’isola era una conquista, un approdo di salvezza dopo essersi lasciato alle spalle la tempesta. Quale? La Sicilia, certo.
La Sicilia della piazza, ma anche la Sicilia della casa.
Intuì forse che io, immerso nella tempesta, non avevo trovato ancora rifugio, terra d’approdo; che forse mai, leggendo quelle mie pagine di scrittura torbida ed espressiva, l’avrei trovata; che forse il mio destino, sulla pagina, nella vita, sarebbe stato quello della latitanza, della continua fuga dal marasma: della fuga dall’Etna.
La conversazione tra me e Sciascia s’interruppe solo con la morte nell’89 dello scrittore. Parlavamo di politica, di storia, di letteratura, del destino della Sicilia, del malaffare politico e della mafia.
Questo uno dei ricordi più belli, che riprendo da Le pietre di Pantalica: «L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una domenica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano. Sciascia arrivò da Caltanissetta al mio paese e insieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”. “C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone». Sciascia era rimasto affascinato da quel poeta, da quel gran personaggio che era Piccolo. Erano, i due scrittori, quanto di più diverso, di più lontano si potesse immaginare, eppure nutrivano, l’uno per l’altro, stima e ammirazione. Sciascia scrisse sul poeta delle pagine dal titolo Le soledades di Lucio Piccolo, incluse ora in La corda pazza.
Intanto, il mondo contadino che avevo pensato di raccontare continuava a dileguarsi, a sparirmi sotto gli occhi. La scuola in cui insegnavo, in cui gli alunni, una volta diplomati in agraria, sarebbero stati costretti ad emigrare e a trasformarsi in operai, a Torino, a Sesto San Giovanni, in Svizzera o in Germania, mi sembrava una finzione, un’impostura. La Sicilia era ormai chiusa nelle strettissime maglie d’un potere mafioso, criminale. L’alternativa per me era quella di consegnarmi nelle mani di quel potere, farmi complice, accettando un qualsiasi incarico di tipo culturale, dei suoi furti e dei suoi assassinii, oppure fare le valigie, salire sul Treno del sole e emigrare. Decisi di partire.
 «Vai , mi disse Sciascia, «vai. Qui non c’è, niente da fare. Fossi più giovane, senza famiglia partirei anch’io.
 C’era anche la sollecitazione di una rivista letteraria come Il menabò, diretta da Vittorini e Calvino, che dibatteva sul rapporto tra industria e letteratura, a conoscere la nuova realtà industriale italiana, la nuova realtà sociale delle grandi città del Nord, in seguito all’immigrazione meridionale, a rappresentarla; e l’invito anche, da altra parte, agli scrittori a lasciare le vecchie professioni cosiddette liberali ed entrare nell’industria: era nato insomma il mito industriale, della fabbrica a misura d’uomo come l’Olivetti di Adriano.

Rimaniamo per un momento a Sciascia e Piccolo.
Una sua peculiarità è quella di avere individuato in questi due scrittori quasi due archetipi della condizione siciliana: quella di Piccolo è una condizione lirica, legata alla società agraria; quella di Sciascia, anche per filiazione da Pirandello, è piuttosto legata a una realtà siciliana paesana e cittadina, si potrebbe quasi dire operaia. Come si sono composte, o incrociate, o sovrapposte nella sua esperienza letteraria queste due sensibilità?

Lo stare a metà, al confine o alla confluenza dei due mondi, la Sicilia orientale e quella occidentale, era per me rischioso. In quella quiete o idillio in cui mi trovavo, in cui i segni della storia S’erano fatti labili, sfuggenti, e quelli della natura benigni, materni, il rischio era di scivolare nel sonno o nella malinconia, perdermi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti. Dalla mia Finisterre potevo muovere verso il centro del caos, verso il Vulcano, o verso lo iato dello Stretto, verso le fate morgane e i terremoti; o muovere verso l’occidente dei segni della storia profondi e affollati.
I due mondi avevano generato due letterature differenti: mitica, affabulante, lirica, fortemente segnata dalla forma l’una; l’altra, storicistica, civile, logica, dialettica, fino al sofisma pirandelliano e alla requisitoria sciasciana. Sì, Piccolo e Sciascia erano per me gli archetipi di quei due mondi.

Capii che quella mia rischiosa marginalità, quella mia incerta posizione poteva diventare punto di partenza nella costruzione di una identità. La quale poteva consistere nel far da ponte di passaggio fra quei due mondi, di composizione di quei due opposti. Poteva, quella identità, consistere in un movimento continuo dalla natura alla cultura, dal mito alla storia, dalla fantasia alla ragione, dalla poesia alla prosa. E mi sembrò poi questo movimento, questo partire ogni volta da lontano, dal profondo, e approdare al presente, alla superficie, l’essenza della narrativa: un ibrido, un incrocio di comunicazione ed espressione, di logico e di magico.

La novità più significativa del suo primo libro, La ferita dell’aprile, sta forse nella prosa: una prose che le permetteva di afferrare le cose, oltre che le parole, diversamente dallo sperimentalismo di Gadda e Pasolini. Vi è per esempio una corposa presenza, che ritornerà poi anche nel Sorriso dell’ignoto marinaio e soprattutto ne Le pietre di Pantalica, degli oggetti della tradizione contadina e popolare. Che cosa vuol dire l’evocazione di questa memoria della civiltà materiale?

Mi sono trovato, dicevo, nella dimensione spaziale, in una situazione di confine, di passaggio; nella dimensione temporale, in un momento di profonda trasformazione, di radicale cambia-mento: della fine del mondo contadino e della nascita di un altro mondo, di un’altra civiltà («Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione: stiamo calmi, pazienza…» ho scritto da qualche parte). Parlo degli anni a cavallo tra il ’50 e ’70. C’era stato il grande esodo verso il Nord, i contadini avevano buttato via i loro oggetti, le loro memorie e quindi avevano abdicato alla loro identità per potersi inserire nella civiltà urbana e industriale. Vittorini, proclamando diffidenza, giustamente, verso i dialetti, e soprattutto verso quelli meridionali, portatori di rassegnazione e conservazione, invitava linguisti e scrittori a studiare le nuove koiné, i nuovi linguaggi che si sarebbero
 formati dall’incontro dei dialetti meridionali con quelli
settentrionali. Nessuna nuova koiné è sorta, lo sappiamo, ma una superkoiné, una sopra-lingua, un nuovo italiano generato dal nuovo assetto economico e sociale e imposto dai media, quell’italiano tecnologico-aziendale che ha studiato e illustrato Pasolini nel 1964 in Nuove questioni linguistiche (ora in Empirismo eretico). Trovandomi dunque nel momento del grande passaggio, ho sentito la necessità di conservare la memoria di quel mondo finito, trapassato. Questa credo che sia la funzione della letteratura, quella di memorare. E una lotta, quella della letteratura, contro il potere, che cerca sempre di cancellare la nostra memoria per non farci avere consapevolezza del presente e non farci immaginare il futuro. Il nome del primo narratore della nostra civiltà, di Omero, significa ostaggio: di chi, di che cosa? Della memoria, della tradizione.
Non si può scrivere sulla frattura, sulla cancellazione, sul vuoto. Da qui nasce forse la mia necessità di riesumare un certo patrimonio lessicale, di nominare gli oggetti, di evocare personaggi emblematici di quel mondo scomparso. Il poeta-etnologo Antonino Uccello è il personaggio centrale e simbolico de Le pietre di Pantalica. L’uomo che materialmente (e l’avverbio qui prende una doppia significazione) ha fatto – raccogliendo gli oggetti buttati via dai contadini, custodendoli in un museo, il museo della memoria – ciò che dovrebbe fare sulla pagina lo scrittore.

Questo è un fatto di grande drammaticità, su cui forse non abbiamo riflettuto abbastanza…

Neanche la sociologia se ne è occupata abbastanza. In Europa, nessun paese come l’Italia ha subito un cambiamento così radicale e repentino, con le tremende conseguenze: culturali, linguistiche, politiche, etiche… Conseguenze che ancora oggi paghiamo.


Ad un certo punto della sua biografia sembra che avvenga una rottura rispetto a questo mondo siciliano, di cui ci ha tracciato fin qui tutte le coordinate, sia dal punto di vista letterario, che da quello sociologico: è il momento dell’emigrazione a Milano nel 1968, data cruciale che cambia le cose al punto da portarla a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio, un romanzo che sembra una dichiarazione d’amore finale, ma anche una presa d’atto rassegnata della fine irreversibile di un mondo.
Vincenzo Consolo a Sant’Agata Militello, 1967- piazza Duomo.

Sì. Come ho raccontato prima, quando ho visto che quel mondo che volevo rappresentare era finito, che dal punto di vista politico in Sicilia non c’era più speranza, ho fatto la valigia e sono ripartito per Milano, per quella Milano che avevo lasciato poco più di una decina d’anni prima. Voglio qui ricordare un episodio significativo del clima politico che s’era instaurato in Sicilia, e non solo lì. Nel marzo del ’66, a Tusa, un paese sopra i Nèbrodi, dalla mafia dei pascoli, comandata da maggiorenti democristiani, viene ucciso un sindacalista, Carmine Battaglia (ho scritto poi su «L’Ora» di Palermo un racconto dal titolo Per un po’ d’erba al limite del fendo). Vado al funerale. Arriva, con una macchina di rappresentanza, con autista e segretario, un assessore socialista appena entrato nel governo regionale di centrosinistra, scende, va incontro deciso al gruppo dei comunisti che aspettavano con le loro bandiere di mettersi in corteo, e dice, minaccioso: «Non facciamo scherzi. Il morto è nostro!». No, non c’era più speranza.

Una curiosità, a questo punto: lei parla sempre del potere, però non esprime mai critiche nei confronti delle forze di sinistra…

Se per forze di sinistra intendiamo il partito comunista, sì, gli si possono fare infinite critiche. Ma mi sovviene d’una frase di Brancati che Moravia amava citare: «In Sicilia, per essere almeno liberali bisogna essere comunisti». Frase che può sembrare paradossale, ma in Sicilia i paradossi sono di casa. L’unica speranza laggiù era dunque il partito comunista, con tutte le sue ipoteche, con tutti i suoi errori. Prima di emigrare a mia volta, andavo spesso alla stazione ferroviaria del mio paese a vedere quei treni, provenienti da Palermo e diretti in Continente, che venivano letteralmente assaliti – scene tremende – dagli emigranti che lì convergevano dai paesi dell’entroterra. Una volta una donna, con tutte le sue valigie e i suoi fagotti, disperata, si mise a insultare la sua terra, come se fosse stata una persona: «Porca Sicilia, puttana Sicilia!» urlava. C’era quel giorno alla stazione un deputato regionale del Pci, un intellettuale, uno ché poi a Roma avrebbe diretto la rivista Critica marxista. Lo affronto e gli chiedo: «Cosa avete fatto voi per evitare tutto questo?!». Mi risponde qualcosa che non sento neanche. Che risposta poteva mai darmi? Gli giro le spalle e vado via. I comunisti, certo, di fronte alla decisione del governo credo che abbiano potuto far poco; spero che non siano stati d’accordo nella decisione di spostamento o deportazione di braccia da lavoro dal Sud al Nord. Ma forse l’hanno voluto anche loro. C’era, anche nei marxisti, la mitologia operaia e operaista. Voglio comunque ribadire che il comunismo e il socialismo erano in Sicilia una grande speranza, l’unica speranza.

Era una speranza rivolta soprattutto alla Sicilia agraria, o c’era anche altro?

Lo scontro tra contadini e agrari o fra contadini e potere politico espresso dagli agrari si giocava sulla riforma agraria, sullo scorporo dei feudi, sull’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate, e aveva radici lontane: nei Fasci socialisti.

Ci furono morti nel 1893-94, nel 19-20, negli anni 43-50. Quando infine la riforma agraria si attuò, non aveva più senso: l’economia agricola stava cominciando a morire e, in più, ai contadini erano state assegnate pietraie o terre irraggiungibili, impraticabili, prive d’acqua. Quella democristiana fu uguale alla riforma agraria attuata nel ’39 dal fascismo, passata guerrescamente sotto il nome di «Assalto al latifondo»: una burla, una beffa. Credo che il partito comunista abbia potuto far poco in tutto questo. Credo che le decisioni siano state prese fuori d’Italia, a Bruxelles.

A riguardo però bisogna anche considerare alcuni meccanismi economici «spontanei». C’era un problema, stando ai parametri delle agricolture occidentali più progredite: c’era una forte sovrappopolazione, un carico eccessivo di braccia sulla terra. Naturalmente con un altro governo il processo poteva essere fisiologicamente regolato; così non avvenne, e ci fu invece l’esodo più drammatico…

Certo, arrestare la storia non si può. Se l’agricoltura a un certo punto non ha più funzione… Ma da questo a far diventare le regioni meridionali terre di conquista e di rapina… In Sicilia sono arrivati i petrolieri del Nord ad impiantare le loro raffinerie ad Augusta, a Melilli, a Priolo, a Gela, a Milazzo (qui, ancora nel giugno del ’93, sette uomini morivano carbonizzati per lo scoppio di una caldaia), rastrellando sovvenzioni dallo stato, dalla regione, sconvolgendo il paesaggio fisico e quello umano. Hanno deturpato e degradato città come Augusta (in mezzo ai tralicci e alle miriadi di ciminiere di fuochi e di fumi vi sono le antiche rovine di Tapsos e di Megara Iblea, dove arrivarono i primi coloni greci), come Siracusa, che sono patrimoni culturali che appartengono a tutti; hanno fatto diventare orrendi inferni, paesi da Far West, giungle di degrado e di violenza cittadine come Gela o Licata. Quel mito industriale si è rivelato appunto un’illusione (anche Vittorini ha creduto in quel mito scrivendo quel romanzo, uscito postumo, dal titolo Le città del mondo): i frutti che si sono raccolti sono stati ben miseri e sono stati pagati a caro prezzo, in sconvolgimenti e in veleni (a Melilli le donne partorivano bambini deformi). La gente in quei paesi ha continuato ad emigrare e i tecnici arrivavano lì dal Nord, rimanendo, con le loro famiglie, separate dal resto della popolazione, come i tecnici americani nel Kuwait.

Sono i temi di un saggio di Enzensberger che a lei piace spesso citare e che ha un titolo programmatico: Letteratura come storiografia: da una parte una pratica accademica della storia, tesa a trovare una ragione «oggettiva» dei fenomeni; e dall’altra parte la letteratura, che cerca di trovare le ragioni individuali, di compiere una descrizione particolare, specifica di quello che accade, una descrizione, soprattutto, filtrata dalla coscienza dei singoli individui. Ma torniamo a Milano, al 68 a Milano.

Ritorno a Milano. Non è stato facile. Avevo trentacinque anni e andavo incontro a una nuova avventura. L’emigrazione poi è una tale violenza: verso il proprio ambiente, gli amici, i parenti, se stessi. Ho viaggiato la notte di San Silvestro del 67.
Nei pressi di Salerno, ho dovuto trattenere, afferrandolo per la giacca, un uomo completamente sbronzo che voleva scendere dal treno in corsa. Il giorno di Capodanno del 68 sono arrivato in una Milano fredda, piena di neve. L’indomani mi sarei dovuto presentare al posto di lavoro, alla Rai. Che mi si rivelò subito, come e più di qualsiasi ente pubblico siciliano, completamente ipotecata dal potere politico, dalla mafia partitica (dall’Opus Dei, ai fascisti, ai democristiani, ai socialisti, ai comunisti). Era il regno dell’ignoranza, dell’impostura, della stupidità. Mi ci trovai subito male, naturalmente, e l’azienda si trovò male con me. Subito mi emarginò, cercò in tutti i modi di farmi fuori, di licenziarmi: non avevo un partito dietro, ero senza tessera. Mi vergognavo di lavorare alla Rai, la consideravo nefasta come una fabbrica di armi. Così dicevo: «Lavoro in una fabbrica di armi» a chi mi chiedeva.

Un principe siciliano, nella sua bella casa di corso Magenta, mi diceva che qualche anno prima di me era arrivato a Milano con trecentomila lire in tasca. Io ne avevo cinquecentomila di lire in tasca, ma non avevo certo le sicurezze del principe, non avevo il palazzo a Palermo e la villa settecentesca a Bagheria. Quei soldi erano tutto il mio patrimonio, quanto ero riuscito a risparmiare negli anni d’insegnamento. Ero comunque sempre con la valigia sotto il letto, subito a tornare indietro. Per fortuna conobbi subito la donna che poi diventò mia moglie, che era ricca di concretezza, e di ottimismo. Era poi una delle cinque o sei persone che avevano letto il mio primo libro, che l’editore s’era affrettato a mandare al macero.
Dal 68 al ’76 subii una sorta di blocco, non riuscii a scrivere, mi resi conto che non avrei mai potuto raccontare in forma letteraria la realtà milanese: mi mancava la memoria del mondo industriale, mi mancava il linguaggio. A Milano mi si presentò subito una realtà sociale in conflitto, drammatica. Quindici giorni dopo il mio arrivo, avvenne il terremoto nella valle del Belice. Avevo fatto, l’estate prima, un giro per quei bellissimi paesi che non conoscevo: Partanna, Santa Ninfa, Gibellina, Montevago, Santa Margherita Belice… Il cuore d’un antico mondo contadino. Mi sembrò quindi quel viaggio come una sorta di ricognizione di congedo, da quei paesi materialmente cancellati dal disastro naturale, dalla Sicilia che sarebbe stata cancellata in altro modo.
Andai alla Stazione Centrale con un fotografo siciliano a vedere gli scampati che arrivavano, che dovevano raggiungere parenti nell’hinterland milanese. Giornalisti radiotelevisivi, con la Promessa di accompagnarli in macchina nei vari Paesi, carpivano frasi, singhiozzi, lacrime e poi li abbandonavano lì nei sotterranei d’accoglienza della stazione. Spaesamento e blocco, dicevo, a Milano. Riuscivo soltanto a scrivere sui giornali, a raccontare quello che accadeva su «L’Ora» di Palermo, in una rubrica settimanale che si chiamava pateticamente Fuori casa (ma Fuori di casa era pure il titolo d’una raccolta di corrispondenza dall’estero di Montale), e su Il Tempo illustrato, un settimanale dove allora scrivevano, tra gli altri, Pasolini, Bocca, padre Davide Maria Turoldo. Ho pubblicato varie inchieste su quel giornale, ne ricordo una sulle cave di pomice dell’isola di Lipari. Erano cave di proprietà di Sindona. Forse da lì mi venne l’idea del secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nel vedere quei cavatori di pomice ammalati di silicosi muoversi fra i cunicoli della montagna bianca e abbagliante, in una dimensione di condanna metafisica; e anche, forse, da altre cose che m’ero portato dentro dalla Sicilia: la memoria di un paese come Cefalù, il Ritratto d’ignoto di Antonello che avevo visto al museo. Capii insomma che per poter raccontare Milano, il momento storico che stavamo vivendo, sarei dovuto ripartire dalla Sicilia, dalla mia memoria, dal mio linguaggio. Potevo raccontare in modo metaforico, ricorrendo al romanzo storico. Per questo sono riandato indietro nel tempo, arrivando a un topos storico frequentato da quasi tutta la letteratura siciliana, da Verga a De Roberto, a Pirandello, a Sciascia, a Lampedusa: il 1860. Si parte sempre da lì, dall’Unità d’Italia, per cercare di capire le ragioni del malessere siciliano, meridionale, e quali siano stati gli errori, i problemi che ci siamo portati dietro e che si sono perpetuati nel tempo. Va da sé che a me non interessava né Garibaldi né Bixio, ma altro; erano i temi che si dibattevano allora, negli anni settanta, che mi interessavano: l’intellettuale  di fronte alla storia, il valore della scrittura, la storiografia e la letteratura, la sorte di chi non ha la capacità e la possibilità di esprimersi, di chi ha sempre pagato le spese della storia, il superamento della ragione e dell’ironia con la fantasia creatrice… Questi erano i temi del romanzo, che voleva essere nuovo, originale dal punto di vista strutturale e linguistico. Dal ’63 al ’76 erano passati tredici anni: una pausa scandalosa, da latitante o da dilettante.

Si tratta, comunque, solo parzialmente di una pausa, perché nel ’69 uscì un’anteprima del Sorriso dell’ignoto marinaio pubblicata su «Nuovi Argomenti»,

Sì, il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti», L’avevo mandato prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna Banti, perché il tema che faceva da Leitmotiv era il ritratto di Antonello. Longhi, in occasione della mostra del 53 a Messina di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico siciliano. Nessuno mi rispose. Nel 69 venne a Milano Longhi Per presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Lo avvicinai. «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto a Paragone…». Mi guardo con severità, mi rispose: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinato mai avrebbe potuto pagare Antonello.
Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il racconto a Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Il romanzo uscirà nel ’76 da Einaudi.

È significativa la sua vicenda: lei torna a Milano e pur avendo tutti gli strumenti razionali per analizzare quella realtà urbana e industriale non riesce a raccontarla. Dunque, per rappresentare in  scrittura  letteraria una realtà non bastano gli strumenti razionali, ma bisogna poter disporre di qualche altra cosa.

Beh, l’altra cosa è lo stile. Lo stile, il linguaggio sono quello che si spera faccia nascere la poesia, perche altrimenti non vedo come la letteratura possa distinguersi dalla storiografia, dall’indagine sociologica. La letteratura e tale in quanto è scrittura, in quanto è stile.

E lo stile e la scrittura sono inscindibili dall’attraversamento personale di una esperienza storica. Inscindibili dalla memoria. Memoria lontana di cose viste e udite, di cose lette, con cui la memoria vicina, il ricordo si fonde e prende forma e senso.

Vincenzo Consolo
Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993

Vincenzo Consolo Catarsi



Ermetici suoni, versi bestiali o ululare
del vento fra picchi, gole o accordi
 d’arpa eolia, cembalo, siringa o il silenzio
 come il tuo di pietra, creatura mia,
solo questo è degno, la tua cruda assenza,
 la tua afasia, la tua divina inerzia.
Là, per il cammino impervio e fatale,
 per il sentiero opposto, purgato d’ogni colpa,
 pena, tenterò di sfiorare il tuo mistero.
lo che sarò erba, fronda, uccello…
Io che sarò cenere.
 Il silenzio o solo la parola vergine
del folle o del poeta.
“ tôn dè méson théso kat’aghénneta stoicheia
il fuoco e l’acqua e la terra e l’immenso culmine dell’aria,
che mai non hanno inizio né hanno termine alcuno,
 e l’astio rovinoso, da parte, e la concordia conciliatrice.
Di qui tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono:
 gli uomini e le fiere e i pesci e i virgulti;
 perché quanto esisteva prima, anche sussiste sempre; né mai
per causa di uno solo
d’entrambi, il tempo infinito resterà deserto.
 allá, theoi…
 ek d’osion stomáton kataren och eúsate peghén”
Dico queste parole d’una lingua morta,
di corpo incenerito, priva delle scorie
 putride dello scambio, dell’utile
come la lingua alta, irraggiungibile,
 come la lingua altra, oscura,
 della Pizia o la Sibilla
che dall’antro libera al vento mugghii, foglie,
come la formula introversa, transustanziante,
dell’unto attore, del sacrificante.
Voglio opporre così, da questo treppiede
del vulcano, in quest’ultimo momento,
all’ermetismo osceno e violento,
all’afasia del potere immondo,
 il sacro ermetismo d’una lingua scritta.
 Come s’oppose a me, vile Agamennone,
 il fiore più bello nato alla mia casa,
 la dolce Ifigenia ch’io, snaturato!,
 volli sacrificare alla lotta, all’ intrigo,
alla vittoria mia per il comando.
S’oppose, col suo volo d’angelo
 a capofitto, col terribile silenzio,
la ritrazione in un’oscura lontananza,
con l’apparente morte, la paraplegia inumana.
Lo voglio dire qua,
a parole chiare e nette,
 lo voglio dire alle pietre e al fuoco,
al vento e a questa nuova alba nel cielo, all’aurora
 che urge appresso: mia figlia Delia
così di me s’è giustamente vendicata.
 Vendicata? O non piuttosto ha voluto lasciare,
 con il suo precipitare nell’assenza,
 vuoto alla mia espansiva tracotanza,
 alla mia cieca, corposa violenza?
Perché, o noi crudeli, è così:
 chi muore per suo volere o d’altri
 è la sacrificale vittima, l’agnello bianco
 sopra la dura pietra, sotto la lama
 della nostra sopravvivenza.
 Così ogni tempo, ogni società ha ucciso
 il suo poeta: Vladimir tra i ghiacci e il fuoco
 d’un colpo di pistola; Federico
 tra gli ulivi e i cardi (splendeva,
 contro il nero dei fucili, dei colbacchi
 la sua camicia bianca, splendeva
 nella notte lo sciame nella lampada di lucciole);
 Pier Paolo tra l’immondizia e il fango
 d’un Getsemani, d’un desolato campo.
 Così le creature che in esilio vanno sulla luna,
che hanno rotto ogni legame
 col nostro linguaggio marcio e insensato.
Aaaaaah! Aaaaaaah!
 Pesano le nostre colpe sulle spalle
 come una plumbea Terra!
 […]
 Nell’età ferita e luminosa,
 fremente di lievito e di zagara,
 venni la prima volta a questo monte.
 Venni con la brigata d’allegria
 e di chiasso dei compagni,
 con il sorriso dolce di Pantea.
 Scendeva per la vallata
 il fiume rovinoso della lava,
 solenne piena di panico e d’incanto
 (torceva in un lamento, inceneriva
 la betulla, il cerro, il faggio,
 rovinava il muro a secco,
 la cisterna, la pergola,
 la casa tenera di rosa,
 giallo sopra quel mare nero.
 Torceva pel terrore il collo
e scalpitava il mulo,
 il cane si perdeva nei guaiti
 legato sotto il carro dei fuggenti).
Mi feci appresso a consolarla,
smarrita e tremula com’era
avanti allo spettacolo tremendo.
E avanti al fuoco, avvampando,
dissi del mio marasma, del mio fuoco.
Lei, dolce, si volse a consolarmi.
 Tutta una vita, Pantea amorosa,
 s’assume in un unico momento.
 La mia, in quell’antico,
 dolcissimo e solenne, di verità assoluta
 dentro la verità della natura
 Raccolsi e le offrii un verde
 tralcio di ginestra
 ch’ella conservò come segno
 e pegno d’un sacro giuramento.
 Pose quel ramo poi nella scatola
 di legno, bianco come avorio,
 scolpito da un pastore d’Eraclea,
che regalò, viatico e amuleto,
 a nostra figlia, a Delia,
nel giorno primo che diventò fanciulla
E ancora sul vulcano, davanti a te,
 Demetra sigillata dentro il manto,
madre e donna offesa,
incenerito e privo di poesia,
 sono questa volta in cerca
 d’un castigo, d’una quiete.
Dell’ultima verità, e indicibile.
 […]
 Alla luce viola dell’estremo raggio,
 alla luce spenta, voglio dire addio
 alle arpe senza suono, alle creature senza accento:
al fiore straziato, più che morto,
 al nardo, al gelsomino delicato
 reciso dalla mia, dalla furia del mondo;
alla madre tutta amore, alla madre tutta dolore.
 Io pago la mia follia, la mia fuga
 da voi, dal sacro accordo, dall’armonia.
 Quel tralcio di ginestra, fiore del deserto,
 che il deserto consola della vita,
 chiamatelo asfodelo, fiore della morte,
chiamatelo loto, fiore dell’oblio.
Dimenticatemi. Dimenticate l’Empedocle
feroce, l’Empedocle sacrilego.
 L’odio di me, di questo tempo odioso
 mi separa da voi, da voi già separate.
 Io vado, Pantea, vado figlia mia,
nella notte d’assenza come la tua,
vado dove finisce questo monte,
dove finisce questa terra,
vado dove comincia il fuoco
ch’ogni male assolve, purifica ogni colpa.
E questo il solo, il degno modo,
 mie perse figlie, di trovarvi.
 Di ritornare nel giardino vago,
 nella casa vostra di pietra e onore,
 alla serena mensa degli affetti.
 Addio.

Questi brani sono tratti dall’opera teatrale Catarsi, pubblicata dall’editore Sanfilippo di Catania e rappresentata nel 1989. La voce è quella di Empedocle.


foto Giovanni Giovannetti


Elogio della poesia
Intervista con Vincenzo Consolo


Lei, in un’altra occasione, mi disse di provare una sorta di soggezione verso la poesia. Eppure la sua scrittura narrativa sembra costantemente alimentarsene.

Difatti è così. Io intendevo soggezione nel senso di scrivere in versi. Anzi, io leggo più poesia che prosa. Una volta la distinzione tra poesia e prosa non esisteva. I poemi narrativi, ad esempio, erano romanzo e poesia insieme. Il genere romanzo è nato con la nascita della borghesia, con la laicizzazione del mondo. Il romanzo è, intendiamoci, un grande genere letterario. Basti pensare ai romanzi del Settecento e dell’Ottocento. Però, oggi più di ieri, credo che il narratore abbia bisogno di tornare alla poesia. In questo senso: questa scrittura laica che è la prosa si è enormemente impoverita e devitalizzata. I mezzi di comunicazione di massa ci spossessano sempre di più della lingua e, con la lingua, anche dei sentimenti. Ecco perché lo scrittore non può più praticare lo stesso tino di prosa di una volta. Deve farsi più guardingo, deve cercare di reagire. Credo che l’accento della prosa debba spostarsi sempre più verso la poesia, in senso esterno e formale e in senso intimo, di contenuto. Penso che per salvare il romanzo, questo genere lemerario che sta morendo, lo scrittore debba nutrirsi di poesia. I poeti sono la nostra salvezza, la nostra risorsa. La scrittura è sempre un fatto di linguaggio e nessuno più dei poeti ce ne indica la funzione.

La sua è una scrittura precisa, prosciugata… Si tratta di una sorta di concentrazione che è tipica della poesia.

La concentrazione viene  dal ritmo che io impongo, perché concepisco più di nella forma laica, distesa. Credo che sia giusto risacralizzare la scrittura, eliminando quel laicismo che oggi corrisponde esattamente a impoverimento e banalità. Detto altrimenti: c’è bisogno di dare alla parola una dignità più alta. Questa ce la può dare soltanto la contaminazione con la poesia.

 Lei ha scritto Lunaria, un’opera dedicata a Lucio Piccolo, ai poeti lunari, ai poeti. Qui c’è l’ombra della poesia..

 Ha detto bene: l’ombra della poesia… E, in qualche caso, c’è la forma se non la sostanza poetica. Il libretto mi pare significativo di questa crisi che sentivo della narrativa. Allora l’ho concepito in forma poetica e dialogica, approdando al teatro poetico. Il libro vuole essere polemico. La caduta della luna rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo. C’è il tentativo di far rinascere questa luna caduta in luoghi che bisogna scovare. La contrada senza nome, l’ho chiamata. Un luogo insondato, sconosciuto.

Qual è il rischio maggiore che corre la narrativa?

È il rischio della mercificazione. Avverto, in questi nostri anni, con la morte di una generazione di narra-tori, un mutamento grave: si vuol fare apparire come letteratura qualcosa che letteratura non è. Che, al massimo, somiglia alla letteratura. È un segno che lascia presagire un futuro terribile per la narrativa. Prima esisteva il livello commerciale, di consumo, della narrativa e quello letterario. Oggi si cerca di operare una mistificazione, facendo convergere i due livelli. La poesia, in questo senso, non è mercificabile, perché è irriducibile Si diceva prima che Lunaria è dedicata a Lucio Piccolo. C’è un capitolo, bellissimo, de Le pietre di Pantalica, in cui si ricorda, in termini indimenticabili, questo poeta.

Lei è d’accordo se dico che Piccolo è il poeta più importante che la Sicilia ci abbia dato in questo secolo?

Sono d’accordo. A rileggere insieme, ad esempio, Piccolo e Salvatore Quasimodo, credo che il vantaggio, se così possiamo dire, vada tutto per il primo. Piccolo ha avuto un solo torto: ha scritto poco. È morto relativamente giovane, ha esordito tardi, è stato molto critico verso le cose che scriveva. Se ne avesse avuto il tempo, egli ci avrebbe dato cose ancor più straordinarie. Per me, quest’uomo è stato importante. Mi ha insegnato a capire che cos’è la letteratura, la poesia. lo ho sempre ricordato che sono stati impor-tanti, mentre stavo in Sicilia, in questo luogo che sembra un deserto (ma dove, come in ogni deserto, ci sono le oasi), Piccolo e Leonardo Sciascia. Piccolo mi seduceva nei confronti della poesia, Sciascia nei confronti della prosa e della ragione. Io ho sempre cercato di oscillare tra questi due poli: quello orientale, barocco, e quello occidentale, illuminista.

 Come mai Piccolo fa così fatica a essere accettato e studiato? E un poeta poco letto, la sua opera non è stata più ristampata da molti anni.

 È vero. C’è stata, dal momento della sua scomparsa, una specie di cancellazione di questo grande poeta. Lo dico a disdoro della critica italiana. Quando Montale scoprì Piccolo e se ne occupò, da parte di molti si credette a una beffa del futuro Nobel a danno degli altri poeti. Poi, quando lo lessero e si accorsero che si trattava di un poeta vero e grande, non gli perdonarono, lui periferico (Piccolo abitava in una frazione di un minuscolo centro siciliano, il massimo della solitudine e dell’isolamento), di essere stato scelto da Montale. Anche critici eminenti e rispettabili, penso a Gianfranco Contini, fecero di tutto per cancellarlo. La società letteraria italiana (che io ormai preferisco chiamare azienda) penalizza chi considera periferico.

L’immagine vincente, allora, resta ancora quella di Quasimodo?

Certo. Quasimodo era più facile, più ‘esotico, nel senso che dava al mondo un’immagine della Sicilia che il mondo già credeva di conoscere. Ad esempio, quella grecità di maniera che gli svedesi amavano e concepivano. Che è del tutto falsa, finta. La grecità in Sicilia non esisteva più neanche ai tempi di Quasimodo. Esisteva, piuttosto, la violenza dei baroni. Più che di grecità, allora, bisognerebbe parlare di infamie storiche di tipo spagnolesco. I fanciulli lasciamoli ai nobili tedeschi. Detto questo, naturalmente, bisogna aggiungere che Ouasimodo ha scritto alcune belle poesie.

 Per restare in un ambito siciliano, mi piacerebbe conoscere il suo parere su Bartolo Cattafi.

Non ho amato molto Cattafi. Aveva qualcosa di turgido, di urgente, di incontrollato, di non castigato che mi disturbava. Mi disturbava anche la sua concezione della, vita, il nichilismo, il superomismo. Come persona era piacevolissima, benché ricalcasse troppo certi schemi da signore di campagna. Era una persona gentile.

Quali sono i poeti che ha amato e che ama di più?

Dante, innanzitutto, il Dante più petroso, più linguistico. Leopardi, la sua parola incandescente, nuda, terribile. Leopardi si è scarnificato fino in fondo nella propria scrittura. Poi amo Pascoli perché ci ha fatto scoprire la grandezza della poesia umile e quotidiana. Non era mai generico nel nominare l’oggetto, l’animale, la pianta. È stato un grande sperimentatore, sapientissimo. E poi Pasolini, Montale, Amelia Rosselli, Zanzotto. Proprio nel suo petel, nei suoi balbettii, si posa la splendida oscurità della poesia. E non voglio dimenticare Giorgio Caproni e Mario Luzi.

 Che tipo di rapporto pensa di aver avuto con la neoavanguardia?

lo andai a Palermo a seguire il celebre incontro del Gruppo 63. Per curiosità, innanzitutto. Allora, abitavo ancora in Sicilia. Andai, dunque, ma me ne ritrassi immediatamente. Quella sorta di azzeramento che loro tendevano a operare mi ripugnava un poco. I pensavo di praticare la letteratura dentro la tradizione letteraria. Amavo la sperimentazione di Gadda e di Pasolini. Per me, poi, il più grande sperimentatore del romanzo italiano è stato Giovanni Verga. Spesso le parole che ci giungono sono come svuotate, prive di senso, consumate. Come bisogna reagire? Noi riceviamo materiali che molto spesso subiamo passivamente. L’atteggiamento passivo nei confronti delle parole significa anche passività morale. Non ci chiediamo mai da dove ci vengano le parole e perché ci giungano in quel modo e in quel contesto. Il compito dello scrittore è di aprire queste parole e di vedere che cosa c’è dentro e quali sono le incrostazioni esterne. Gadda le faceva esplodere, ci metteva dentro la dinamite. La poesia, in questo senso, lo ripeto, ci potrà essere di grande aiuto.

a cura di Enzo Di Mauro

 Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, nel 1933. Ha pubblicato: La ferita dell’aprile (Mondadori 1963 – Einaudi 1977), Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi 1976 Mondadori 1987), Lunaria (Einaudi 1985), Retablo (Sellerio 1987), Le pietre di Pantalica (Mondadori 1988).

Foto Giovanni Giovannetti