L’ulivo e la giara


di Vincenzo Consolo


Nell’estate del 1882 Pirandello a compagnia del padre, compie un viaggio – il primo suo vero viaggio – da Palermo e Sant’Agata Militello, per una Sicilia, per una campagna, per un paesaggio tutt’affatto diversi da quelli che aveva dentro e che conosceva. Scopo di questo viaggio, da parte di Stefano Pirandello, è d’intraprendere, dopo il suo crollo economico a causa dello zolfo, il commercio degli agrumi. II signor Vincenzo Faraci di Sant’Agata, proprietario terriero e agente della compagnia di navigazione Florio-Rubattino, presso cui si reca, dovrebbe aiutarlo nella sua nuova impresa. La famiglia Pirandello, già dalla primavera dell’82, si era trasferita da Girgenti a Palermo, s’era allocata in una casa di via Porta di Castro, a ridosso delle mura del Palazzo Reale. Partono dunque, padre e figlio, per Sant’Agata, alle prime ore del mattino, su un treno che li porta fino a Termini Imerese. Da qui, per l’inesistenza ancora della strada ferrata fino a Messina, proseguiranno in diligenza.
Immaginiamo, in treno e in carrozza, la curiosità, l’attenzione, il rapimento del quindicenne Luigi di fronte a quel nuovo mondo che gli scorreva davanti agli occhi, agli echi che gli suscitavano i nomi dei paesi: Solunto, Himera, Cefalù, Halaesa, Calacte…
Al fitto e profondo verde degli agrumeti, e ai golfi, alle insenature, alle calette, al mare lungo la costa tirrenica; e alla cortina boscosa delle Madonie e dei Nebrodi che separavano questo rigoglio vegetale dalle sconfinate, aride lande dell’interno, della desolata nudità del latifondo e dei grigi e fumosi altipiani dello zolfo. E doveva accorgersi che man mano, dopo Termini, dopo Cefalù, il mondo colorato, vociante e brulicante del Palermitano andava a poco a poco stemperandosi – a spegnersi finanche nelle decorazioni dei carretti che, da chiassosi e spettacolari, si facevano monocromi, giallognoli o verdastri – a prendere gradualmente una misura più dimessa, ma forse più serena.
Sostano a Santo Stefano di Camastra. Un paese, questo, dopo la frana del 1682 che aveva distrutto il vecchio abitato in montagna, concepito e fatto ricostruire in basso-su un promontorio a mare, da Giuseppe Lanza duca di Camastra. L’impianto urbanistico disegnato dal duca ,un rombo inscritto in un quadrato – era ripreso aulicaunque dallo schema del Parco Versailles e della palermitana Villa Giulia. Un paese dunque non affastellato, casuale, di case sopra case, ma “pensato”, moderno, piano, ordinat: un paese “bello” secondo la qualificazione vittoriniana de Le cità del mondo. E’un paese anche di grande attività, di lavoro: la lavorazione dell’argila, di cui quasi tutti gli abitanti vivevano. A margini, lungo la statale, erano le purrere, le cave d’agilla, gli stazzuna, le fabbriche di laterizi, e le putii i robba r’acqua, le botteche delle ceramiche d’uso quotidiano (desumiamo queste notizie dalla monografia di Antonino Buttitta e Salvadore D’onofriono, La terra colorata)  davanti alle qual erano gli spiazi dove la creta veniva ammucchiata e impastata ( dagli impastatura, a piedi nudi seguendo un preciso disegno, a ventaglio, a chiasciola, a spicchi d’arancio o a cerchi concentrici) e venivano esposti i manufatti ad asciugare o messi in mostra per la vendota dopo la cottura.

E davanti a queste botteghe, Luigino, fra i tanti oggetti, tante forme, quartari lémmi, bùmmuli, lumèri, fangotti, mafarati, avrà visto quella grande forma, alta, panciuta, ch’era la giarra.
La fabbricazione d’una giara era un lavoro delicatissimo, di grande precisione e di alta specializzazione dei “mastri”. Veniva eseguito in tempi successivi, al tornio. Sulla base precedentemente asciugata (u piezzu) venivano poi man mano innestate le fasce, su su fino alla parte più convessa della pancia e alla rastremazione delle spalle, del collo e della bocca. Veniva poi stagnata, invetriata con piombo ossidato, all’interno e fino al labbro, prima di essere infornata. In quella stagione, prossima alla raccolta delle olive e alla loro spremitura – le olive dei vasti oliveti della zona del Mistrettese, delle Caronie, di San Fratello – dovevano essercene già molte esposte davanti alle botteghe, di giare, nelle loro varie misure canoniche – da mezzo cantàru, venti litri, fino alle grandi capaci di quattrocento, cinquecento litri d’olio – un solenne corteo di badesse nell’ocra infuocata della luce del tramonto.
A Sant’Agata Luigi e il padre sono ospiti per alcuni giorni della famiglia Faraci, in contrada Muti, in una casina di campagna su una collinetta da dove si domina il piccolo paese col castello dei principi di Trabia al centro, le casupole dei pescatori lungo la spiaggia e quelle dei contadini verso l’alto. Luigi ritrovava qui il suo coetaneo e compagno di scuola, al “Vittorio Emanuele II” di Palermo, Carmelo, figlio di Vincenzo Faraci. Fra i due ragazzi si stabili una solida amicizia. E, ritornata la famiglia Pirandello a Girgenti nell’85, Luigi e Carmelo andranno a abitare insieme in un stanzetta d’affitto in via Mastro d’Acqua, E l’ultimo anno di liceo, Luigi allora ferocemente immerso nei suoi studi e nell’amore per la cugina Lina. Carmelo Faraci si dedicherà a questo suo compagno geniale e stravolto dalla passione d’amore fino ad accudirlo, a preoccuparsi di tute le necessità pratiche. Poi Carmelo, finito il liceo. avrà un triste futuro, si ammalerà di tisi e lascerà Palermo per andare a rifugiarsi in un bosco sopra Sant’Agata, a Mangalavite.
Luigi, da Porto Empedocle, dalla villa del Caos, nell’agosto dell’87, deluso dall’amore, dal lavoro tentato nelle zolfare del padre, in preda al pessimismo più nero, si ricorderà di questo suo mite e fedele amico e gli scriverà. Le cinque lettere che Pirandello invierà al Faraci sono state pubblicate dal professor Giovanni R. Bussino, di San Diego in California nel libro Alle fonti di Pirandello. Scrive in una di queste lettere:

“Tu sei malato di corpo (e io ti voglio intanto in via di guarigione) ed io sono malato di spirito e della mia malattia non si guarisce. Mi credono tutti pazzo, e prima – per maggiore tormento – i miei più cari; il mio vizio dei nervi si è bruscamente accentuato ed io non so trovar pace in nessun luogo: la mia vita mi si è fatta brutta bene… M’indusse a scriverti – non te lo nascondo – una dolcissima memoria del passato…”.
La memoria dolcissima d’una serena campagna: e di due forme, antichissime e significanti: l’ulivo e la giara.
La novella La giara è pubblicata il 20 ottobre 1909 sul “Corriere della Sera”.
Pirandello è chiuso, in questo periodo, in una doppia, tetra prigione: quella burocratica dell’insegnamento al Magistero, dov’era inquadrato nella categoria degli “incaricati” certamente contrassegnato da un mastronardiano “coefficiente”, e quella domestica, dove la gelosia paranoica della moglie gli tesseva intorno ogni giorno di più le sue terribili maglie. La novella La giara è la prima fuga nella memoria e nel ricordo, fuga dalla sua vita e dai fantasmi “pirandelliani” che lo assediavano.
‘A giarra, commedia in dialetto, è del 1916.

E’ tempo di guerra. Il figlio Stefano è prigioniero degli austriaci, la madre appena morta – quella madre che aveva incarnato il suo romantico patriottismo, che ora, nell’urto con la tragica realtà, si lacerava – gli ritornava a colloquio come personaggio, la moglie ormai dentro quella tenebra dove “nessuna voce può raggiungerla più” Si sa che al teatro regionale e dialettale Pirandello fu trascinato dall’amico Martoglio e dalla forza della “Compagnia comica di Angelo Musco, che in quegli anni mieteva successi per tutta la Penisola Successi, certo, di questi istintivi e irresistibili teatranti catanesi, dovuti anche al bisogno di distrazione e di riso da parte degli spettatori angosciati dalla guerra. Pirandello scriverà per quel teatro per ragioni materiali, economiche ma deve anche scrivere quel teatro per ragioni spirituali, in un bisogno crescente di luce e di respiro quanto più si sente precipitare nel pozzo della disperazione. Al momento più basso e più cupo della sua vita, corrisponderà il momento creativamente più luminoso e liberatorio che è Liolà.
Subito seguirà La giara, con la quale chiuderà questo ciclo. E a noi piace credere che nel concepire La giara gli sia tornato il ricordo di quel suo lontano viaggio nel Val Demone, della fertile campagna alle falde dei Nebrodi, delle giare intraviste a Santo Stefano. “Sissignore, della giara grande, per l’olio, arrivata ch’è poco da Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d’uomo, pare una badessa” dice ‘Mpari Pè, il garzone di don Lollò. L’uomo rimasto prigioniero dentro la giara è una delle trovate sceniche, visive e gestuali, più felici del teatro pirandelliano. Saracena è la giara – giarrat – e saraceno quel conciabrocche dentro, ladro (involontario) della roba altrui, su cui volentieri don Lollò, nella sua furia, butterebbe dell’olio bollente. Ma zi’ Dima è anche un folletto, un imprevedibile ginn, di quelli annidati dentro bottiglie o lampade – egli ha commercio col diavolo, e quella gobba e quella pece nera ne sono la prova – che con le sue argomentazioni da dentro la giara contrasta e distrugge di volta in volta le argomentazioni esterne, giuridiche, codificate, di don Lollò e del suo avvocato.
Ma La giara trapassa questa farsa saracena o questo mimo siceliota, sofroneo o senarcheo, trapassa ogni eclisse solare e storica, va più indietro verso un tempo remoto, verso significati più abissati, archetipici. La giara è allora l’involucro della nascita, l’utero, ed è insieme la tomba (i Siculi seppellivano i loro morti, in posizione fetale, dentro i giaroni). E zi’ Dima non perde, non muore, sapiente, dialettico e sarcastico, vince e rinasce nello splendore d’un plenilunio, nel tripudio dei contadini.
E quell’olio che la giara avrebbe dovuto contenere viene si dall’ulivo saraceno, ma viene anche dall’albero sacro ad Atena, dea della sapienza.
Se Liolà, della stagione della vendemmia, è mimo dionisiaco o fliacico (Phliax era un demone della natura, della fecondità), La giara è mimo apollineo e cavillico, della stagione dell’olio che dà sapore – sapere – e che dà luce. L’ulivo saraceno, un ulivo del Caos, immaginato, sognato, riapparirà in limine, nella notte che precede la morte, sul palcoscenico del palcoscenico, in un terzo atto mai scritto, a reggere un tendone – sudario contro cui si reciterà l’ultima favola. Apparirà quell’albero di forma tormentata, agonica, da cui l’anima anela a uscire, a consumarsi bruciando, come olio dentro una lampada: a ritornare, annullandosi, nella nudità, nella verità, nel flusso infinito.

“Il Sorriso dell’ignoto marinaio” di Sandra Mereu

“IL SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO” DI VINCENZO CONSOLO (OSCAR MONDADORI 2002)

Ritratto di Ignoto di Antonello da Messina (1470 circa)

La vicenda unitaria fu un processo complesso e contraddittorio e molti grandi scrittori italiani, ciascuno dalla sua ottica, ciascuno nella sua epoca, hanno raccontato negli anni che seguirono l’Unità d’Italia le speranze e le delusioni di un popolo che ci aveva creduto. Nel filone della letteratura meridionalista (De Roberto, Verga, Pirandello) si inserisce un romanzo, scritto da Vincenzo Consolo e pubblicato per la prima volta nel 1976, che racconta in un modo estremamente innovativo un episodio legato alla vicenda dello sbarco dei mille, rileggendola programmaticamente in funzione del presente. Il romanzo fu pensato in un momento storico in cui la generazione che nel sessantotto aveva sognato il rinnovamento politico e sociale si trovava davanti le tragedie e i disastri dello stragismo e del terrorismo. In quest’ottica scrivere un romanzo storico, annodandolo intorno a un episodio decisivo del Risorgimento, aveva per Consolo un preciso significato. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio si ricostruisce la rivolta contadina avvenuta nel villaggio siciliano di Alcara li Fusi, all’indomani dello sbarco dei mille. Simile a quella di Bronte, raccontata da Verga nella novella Libertà, antecedente ad essa ma molto meno conosciuta, a cui il romanzo di Consolo si ricollega esplicitamente (“sconfitti nel loro paese, andavano altrove a continuare la lotta”).

Tutto in questo romanzo concorre a farne una metafora del presente. Il soggetto del quadro di Antonello da Messina, il sorriso dell’ignoto marinaio, è il simbolo di una cultura distaccata dal dolore della Storia. Simbolica è anche la scelta della struttura narrativa disarticolata. Oggi l’uso di costruire romanzi inserendo nel testo documenti autentici o come fa Camilleri – che di Consolo si è spesso dichiarato tributario – documenti inventati ma verosimili che mimano perfettamente lo stile e il linguaggio burocratico (La concessione del telefono, Il nipote del Negus) è abbastanza diffuso. Ma negli anni ’70 quel tipo di struttura narrativa appariva una scelta sperimentale e di rottura rispetto al romanzo storico tradizionale. I documenti d’archivio, da Manzoni in poi, sono alla base del romanzo storico ma nelle intenzioni dell’autore l’alternanza del racconto con inserti documentari (atti processuali, cronache), significava rinunciare volutamente a una forma compatta e armoniosa, per rispondere a due precise esigenze: dare forza di verità storica al romanzo e insieme creare nel lettore un effetto di straniamento per esprimere l’impossibilità di adattarsi alla società a lui contemporanea.Consolo aveva ben presente la polemica suscitata in quegli anni dal film di Florestano Vancini, Bronte: cronaca di un massacro, che per la prima volta ricostruiva l’episodio mostrando come la brutale repressione fosse stata perpetrata dal generale garibaldino Nino Bixio nella consapevolezza che la rivolta avesse il carattere di una rivoluzione proletaria. La critica “reazionaria e conservatrice” tenacemente attaccata alla sacralità dei fatti e delle figure del Risorgimento, bollò allora come un “ridicolo falso storico” il film.

Convinto sostenitore della tesi di Vancini, forte della conoscenza dei 19 volumi degli atti del processo dei condannati di Bronte da cui aveva personalmente tratto più di 700 schede, Consolo scrisse questo romanzo anche nell’intento di suffragare, con riscontri documentari, l’interpretazione data a quegli eventi dal film. Alla scelta di una struttura narrativa diversa da quella tradizionale si ricollega anche quella di rinunciare al narratore onniscente di manzoniana memoria e la verità emerge attraverso una pluralità di punti di vista. Non è un libro facile da leggere, Il sorriso dell’ignoto marinaio, ma è estremamente suggestivo (e siccome non è lungo, appena 171 pagine, vale la pena tentarci). Il lettore è indotto a scoprire la verità in maniera alogica, attraverso l’intuizione. Più che un romanzo è un’opera poetica. La strage dei contadini non è raccontata ma ne vengono descritti gli effetti devastanti attraverso l’inserzione delle didascalie delle acqueforti di Goya, I Disastri della guerra, segnalate nel testo dal corsivo. Carrettata per il cimitero (pg. 132) richiama alla mente il celebre episodio manzoniano del Lazzaretto, facendo scattare una straniante identificazione demolitoria tra i monatti in divisa rossa e i garibaldini.

E poi c’è l’uso della lingua, un vero e proprio impasto linguistico al servizio di un messaggio di polemica sociale. La lingua nazionale è per Consolo la lingua del Potere, è la lingua scritta dei documenti ufficiali che condannano a morte i contadini rivoltosi di Alcara Li Fusi. Questi ultimi, invece, parlano in dialetto. Più precisamente, in una variante minoritaria solo parlata, a sottolineare la marginalità degli umili e la negazione della memoria: il punto di vista dei contadini “traditi da Garibaldi” non lascerà traccia negli archivi ufficiali. Per Consolo la lingua nazionale era, nel momento in cui scriveva, uno strumento di colonizzazione. Rifiutarla assumeva il valore simbolico di contestazione della politica di integrazione nord-sud, portata avanti dalla democrazia cristiana in quegli anni. C’è però da domandarsi: se Consolo avesse scritto oggi quello stesso romanzo storico come metafora del presente, avrebbe utilizzato ancora la contrapposizione lingua nazionale-dialetti come simbolo di resistenza alla politica del Potere attuale? Ridotta com’è a pura esaltazione dell’elemento locale, strumento di divisione tra i cittadini italiani e di respingimento dei popoli altri da noi?

Sandra Mereu

Pubblicato da Sestu Reloaded in Libri, Recensioni

Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo



Il romanzo di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, è tutto uno scatenarsi di follia.
Questa follia dilaga in una Sicilia antica, pastorale e agricola, splendida nei suoi monumenti medievali foderati di mosaici, imponente nei palazzi barocchi, pittoresca e tenebrosa nei vicoli brulicanti. E’ una follia dai molti volti, sempre a confronto con una natura vincitrice per la sua bellezza magica e indifferente, sue luci che non si curano di farsi strada negli animi.
Una natura dai cieli immensi, cui si contrappone la discesa in tenebrose caverne, ove i segni del tempo, si perdono tra le ombre. Pietro il protagonista, vive tra la licantropia del padre e la psicosi ossessiva della sorella. Personaggio positivo, condivide senza infatuazioni i programmi di rinnovamento politico e sociale che stanno velocemente, ma provvisoriamente, affermandosi: però anche li scopre le crepe dell’irrazionale e del fanatismo. Di contro al suo giudizioso rapporto con la pazzia, sta la funzione di condensatore di ogni sregolatezza mentale svolta da Aleister Crowley, l’inventore officiante di riti satanici in cui si mescolano alla promiscuità sessuale e alla droga tutte le invenzioni più stravaganti e kitsch di religioni e leggende esoteriche. Nella sua thélème di satiri e donne assatanate sono via via attratti il dannunziano barone Cicio e il pastore Janu.

Questo campionario di follia offertoci da Consolo sintetizza le manifestazioni dell’irrazionale che intorno al ’20, in Sicilia e altrove, invocando il fascismo in via di costituzione, vi trovarono poi un alveo. Era anche viva l’illusione di strapparsi a un’ indifferenza secolare, al sonno, alla noia: come una smania, un assillo verso qualcosa di agognato quanto sconosciuto. E la ricostruzione d’epoca è molto più sistematica di quanto non appaia a prima vista. Da un lato l’indolenza delle vecchie abitudini, il Circolo, i pettegolezzi di paese, i rapporti tra una nobiltà decaduta e pretenziosa e un popolo ancora primitivo. Dall’altro le nuove mode, le réclames con pizzichi di esotismo, l’esibizione di parole francesi e inglesi, le marche dei prodotti appena commercializzati, i compiacimenti dannunziani, la Florio. Fitti perciò gli inserti materici nella prosa d’arte di Consolo. Anche Aleister Crowley è un personaggio strico; suoi i versi inglesi riportati nei capitoli dedicatigli. Deve aver affascinato lo scrittore spingendolo a raccogliere notizie e dicerie su di lui: e certo subirono il suo fascino i molti che vennero a conoscenza o a contatto con questo santone attirati secondo i casi dall’aura misteriosofica o profetica di cui si circondava o dalla dissolutezza sua e dei suoi seguaci. Inglese o americano, Anticristo, mormone o quacchero, è facile credere che abbia sbalordito il chiuso ambiente in cui venne a sistemarsi.
Con questo mirabile romanzo si fa ancora più chiaro il programma svolto da Consolo nel ciclo della sua narrativa: rappresentare la Sicilia in varie fasi della sua storia, da quella greca riscoperta in frammenti enigmatici (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria) al settecento illuministico (Retablo)
al risorgimento e all’unità malamente realizzata (Il sorriso dell’ignoto marinaio). E per ottenere il necessario straniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata Di Militello, fungono da testimoni o pietre di paragone dei forestieri: il vicerè di Sicilia o il cavaliere e artista lombardo Fabrizio Clerici, ora il mistificatore inglese. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale, sovrastorico sinché non si apre a parole precisamente, significativamente connotate, lirico sinchè non discende con efficacia alla corposa quotidianità.
Ho appena parlato di narrativa, ma occorre chiarire. Consolo sempre aborrito il raccontare filato, la trama in senso tradizionale. Egli procede con una successione di scene sintomatiche, rivelandone i nessi con la riapparizione dei personaggi e segnalandone il tono con i ben scelti eserghi. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, brani di opere storiche intercalati alle scene fornivano le notizie attestandone la verità. Sotto questo riguardo, Nottetempo, casa per casa è l’opera che si avvicina di più a un romanzo, dato il forte nesso fra le scene allineate nei dodici brevi capitoli e l’eterna presenza di pochi personaggi in fasi diverse della loro vicenda.
Anche Petro, alter ego dello scrittore, ha la sua vena di pazzia: vede i protagonisti dei romanzi che divora nei pochi momenti liberi, parla con loro interrompendo il silenzio delle sue letture. Questa pazzia positiva sembra essere la provvisoria catarsi proposta da Consolo. Una catarsi drammatica perché pare irraggiungibile (<<intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere , un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela, l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento>>); ma Petro alla fine si sa maturo per attingere le parole, il tono, la cadenza, per sciogliere il grumo dentro e dare ragione a tanto dolore.
Questa decisione di testimoniare, non solo i fatti ma i tumulti del sentimento, è formulata da Petro all’arrivo in Tunisia. Perché anche la topografia del romanzo si allarga progressivamente: da Cefalù e Palermo ai remoti paesi delle peregrinazioni di Crowley, da una Sicilia profonda, verghiana, a un’Europa atteggiata secondo un gusto dannunziano e liberty, Una topografia in cui irrompono deformandosi, le nuove idee, e l’impazienza rivoluzionaria si attua in velleitarie azioni terroristiche, mentre i fascisti fanno le loro scorrerie. Infine, Petro riesce a attuare lo strappo: lascia in nave la sua Sicilia dov’è in pericolo, emigrante più che esule, scettico verso i programmi di lotta enunciati dall’anarchico Schicchi che lo accompagna. La scelta della scrittura è, insieme, una lucida rinuncia a una vittoria.

Cesare  Segre
Microprovincia gennaio – dicembre 2010

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana

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Màster en Iniciació a la Recerca en Humanitats: Història, Art, Filosofia, Llengua i Literatura Universitat de Girona

I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana Director professor Giovanni Albertocchi Treball final de recerca de Annunziata Falco febbraio 2009

1 Introduzione Questo lavoro di ricerca si propone di offrire un inventario ragionato, di romanzi e novelle di autori siciliani, da Verga alla Agnello Hornby, diversi tra loro per età, cultura e condizione sociale, per rendere evidente la persistenza della riflessione sull’idea del Risorgimento “tradito”, in romanzi ambientati negli anni che vanno dal 1860 al 1894, dallo sbarco dei Mille di Garibaldi in Sicilia alla repressione violenta dei Fasci. Gli autori prescelti, hanno in comune una esperienza di allontanamento dalla Sicilia, per brevi o lunghi periodi a Roma o a Milano, che coincide spesso con il periodo più creativo sul piano letterario, alla ricerca forse di una integrazione,che non ci fu,con gli ambienti culturali italiani, del “continente”. Comune è in loro l’ attenzione ad un ricostruzione degli avvenimenti attraverso i documenti ma anche attraverso la memoria personale e quella familiare dei fatti, comune è la scelta della narrazione storica, rivitalizzata, dopo l’esperienza risorgimentale, che permette di inserire materiali storici assieme a vicende e personaggi inventati, per ricreare un ambiente, una società, una mentalità, una realtà, come quella del Sud così poco conosciuta, con riferimenti precisi, documentati. Negli scrittori prescelti, appare evidente un’ansia di tornare su avvenimenti, sufficientemente vicini per poter capire e per poter far capire, per raccontare e forse per “educare”un pubblico borghese, un pubblico, che però non sempre accolse favorevolmente delle opere che, spesso, non erano in sintonia con il proprio tempo, troppo polemiche, negative, che registravano l’immobilismo di una società, il fallimento della borghesia, anche nel campo dei sentimenti privati, all’interno della famiglia. La necessità di fare i conti con il nostro recente passato, di capire come sia stata possibile un’Unità politica ed istituzionale che non ha avuto ragione delle differenze(anzi le ha acuite)tra Nord e Sud, è sempre più presente tra gli scrittori contemporanei, siciliani e non solo, e le opere dei grandi autori continuano a “fare scuola”, ad essere un modello di riferimento. L’idea,che è sottesa a questo lavoro, è proprio di presentare materiali che possano essere utilizzati in un successivo lavoro di approfondimento, su temi che emergono dai romanzi prescelti. Oltre le essenziali note biografiche e critiche sugli autori si è ritenuto importante presentare delle note storiche di confronto

Estratto.

Vincenzo Consolo.

Vincenzo Consolo,che ama considerarsi “figlio di Verga, l’inventore linguistico per eccellenza “ inizia a scrivere Il sorriso dell’ignoto marinaio nel 1969, ma lo pubblica solo nel 1976. Il libro viene subito salutato come “ il rovescio progressista del Gattopardo”  da contrapporre all’immobilismo di Tomasi di Lampedusa . L’immagine dell’Italia è subito rivoluzionaria, la fidanzata di Interdonato, Catena, ha ricamato su una tovaglia un’Italia con dei vulcani al fondo, che inizialmente sembravano delle arance «Sì,è l’Italia»confermò l’Interdonato. E le quattro arance diventarono i vulcani del Regno delle Due Sicilie,il Vesuvio l’Etna Stromboli e Vulcano. Ed è da qui,vuol significar Catena,da queste bocche di fuoco da secoli compresso,e soprattutto dalla Sicilia che ne contiene tre in poco spazio,che sprizzerà la fiamma della rivoluzione che incendierà tutta l’Italia Si tratta di un vero romanzo politico, pienamente all’interno della linea della narrativa storica siciliana, il cui intento è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il romanzo è ricco di materiali testuali eterogenei, come testi documentari, citazioni ironiche, che spezzano l’organicità del romanzo storico e con essa la pretesa dell’autore di governarne e spiegarne l’intreccio, insieme alla pretesa di governare la realtà e la storia. Il romanzo nasce mentre Consolo lavora a Milano e, come Verga, prova uno spaesamento iniziale per la nuova realtà urbana e industriale, la lontana Sicilia gli appare una pietra di paragone, un microcosmo nel quelle far riflettere temi e problemi di ordine universale. Il romanzo storico, e in specie il tema risorgimentale,passo obbligato di tutti gli scrittori siciliani,era l’unica forma narrativa possibile per rappresentare metaforicamente il presente,le sue istanze e le sue problematiche culturali(l’intellettuale di fronte alla storia,il valore della scrittura storiografica e letteraria,la “voce” di chi non ha il potere della scrittura,per accennarne solo alcune) . Il sorriso dell’ignoto marinaio, che Consolo considera un omaggio a Morte dell’inquisitore di Sciascia, nasce da tre fattori di base: il fascino esercitato dal quadro di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, che è conservato nel Museo Mandralisca di Cefalù;la rivolta di Alcàra nato nel 1933,Sant’ Agata di Militello, in provincia di Messina in una “isola linguistica” gallo-romanza, abitata da discendenti di popolazioni lombarda,trasferito a Milano dal 1968,dove diventa consulente editoriale 295Milano, P.,Un Gattopardo progressista,«L’Espresso»,4 luglio 1976 Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.53 In Lunaria vent’anni dopo,Valencia:Generalitat Valenciana-Universitat de Valencia,p.66 80 Li Fusi, avvenuta nel 1860, e un’inchiesta sui cavatori di pomice, che si ammalano di silicosi, che Consolo conduce per un settimanale. A questi si uniscono il dibattito politico e storico sul tema del “Risorgimento tradito”, sulla continuazione della secolare oppressione sotto una nuova veste, un dibattito che si stava ormai trasformando nella consapevolezza dell’esistenza di un secondo Risorgimento non compiuto e tradito: la Resistenza. I personaggi principali sono il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, che era stato deputato nel 1848, un uomo che dovrà scendere nel carcere, labirintica chiocciola, per passare da un generico riformismo alla comprensione per le esigenze popolari, e l’avvocato Giovanni Interdonato, integerrimo rivoluzionario giacobino, esule dopo il ’48, impegnato a far da collegamento tra i vari gruppi di esuli e i patrioti dell’isola. I due si incontrano su una nave, nel 1852, dopo che il barone ha ricevuto in dono il Ritratto d’ignoto, attribuito ad Antonello da Messina, che la tradizione popolare chiama dell’Ignoto marinaio Mandralisca riconosce in Interdonato il sorriso ironico,pungente e amaro dell’uomo del dipinto, un sorriso che lo richiama continuamente all’azione politica, “il sorriso dell’intelligenza che si può rivolgere alla storia(e alla storia narrata nel romanzo).” I due personaggi si ritrovano in occasione della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo, il barone prenderà le difese dei contadini insorti, che si sono mossi contro La proprietà,la più grossa,mostruosa,divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo  e chiederà di aver clemenza a l’Interdonato, che doveva giudicare i rivoltosi, e lui estenderà loro l’amnistia, ritenendo la rivolta un atto politico. Consolo mette al centro del romanzo un aristocratico intellettuale, che riflette e giudica con un certo distacco, che può essere paragonato al principe Salina, ed un giovane rivoluzionario, l’Interdonato, che potrebbe richiamare molto lontanamente la figura di Tancredi, ma il rapporto tra i due personaggi, che era in Lampedusa di contrasto anche generazionale, nel romanzo di Consolo diventa un rapporto dialettico, Interdonato nella seconda parte della storia cercherà di indurre l’altro all’impegno. Negli anni Settanta, oltre alle critiche al mito risorgimentale, vi era stata una riscoperta anche storica dei fatti rivoluzionari, Sciascia, lo ricordiamo,aveva promosso la riedizione del lavoro di Radice sui fatti di Bronte, Vincenzo Consolo dando spazio alle rivolte contadine duramente Fu segretario di Stato per l’interno con Garibaldi,poi Procuratore generale della Corte d’appello di Palermo e Senatore del Regno nel 1865. Roberto Longhi,storico dell’arte,polemizzava con la tradizione popolare perché i quadri era dipinti su commissione e quindi quello raffigurato non poteva che essere che un signore,un ricco. Segre, Cesare, Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino:Einaudi,1991,p.73 Consolo Vincenzo ,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.118 81 represse, quella di Cefalù, del 1856 e quella di Alcàra, del 1860, segnala la differenza tra i moti borghesi di ispirazione carbonara e le sollevazioni contadine, in cui si rivendicava la terra, in cui ci si voleva liberare del peso dei balzelli e dell’usura, e che sfociavano in esplosioni di sangue. Ad Alcàra, dopo la rivolta e l’eccidio, sarà un Interdonato, generale garibaldino cugino dell’altro Giovanni Interdonato, a disarmare e imprigionare i rivoltosi, e sarà il castello di Sant’Agata di Militello, con i suoi sotterranei elicoidali, che li ospiterà. Il castello Immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo,nel buio e putridume La metafora della chiocciola,come ha notato Segre, attraversa tutto il romanzo e rappresenta l’ingiustizia, i privilegi della cultura, ed acquista una valenza di autocritica nei confronti di Mandralisca che se ne occupa, con amore, nelle sue ricerche. Vincenzo Consolo, rifiutandosi di narrare ciò che era stato già narrato, lascia spazio ai documenti, alle lettere, alle memorie attribuite a personaggi realmente esistiti ma inventate, che hanno il compito di sintetizzare gli avvenimenti, mentre il narratore deve soffermarsi sugli episodi, concedendosi il tempo della riflessione e della descrizione. La struttura del romanzo storico è quindi profondamente modificata, l’impasto linguistico è mirabile, l’effetto non è realistico. Nel 1968 era vivo il dibattito su quello che era il rapporto tra classi sociali e strumenti linguistici, si faceva sempre più evidente che gli oppressi non erano in grado di far sentire la propria voce, Vincenzo Consolo, in questo romanzo, tenta di dare voce a loro, ai braccianti, agli esclusi dalla Storia, che è “ una scrittura continua di privilegiati”, a chi ha visto la propria disperazione deformata da degli scrivani in “istruzioni,dichiarazioni,testimonianze”, la Storia infatti l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. L’impasto linguistico del romanzo mescola l’italiano sostenuto e barocco, dei primi capitoli, al dialetto siciliano, spesso sommariamente italianizzato, al sanfratellano, il poco noto idioma gallo-romanzo parlato da un brigante recluso, e al napoletano delle guardie o al latino. Mandralisca, poi, usa un siciliano che, con immagine dantesca si può chiamare “illustre” , letterariamente nobilitato e regolarizzato sul latino. In un’intervista Consolo ha affermato Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. E’ l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati306 il suo quindi è “ un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nelle Ibidem,p. Sono di questi anni gli studi di Tullio De Mauro e La lettera ad una professoressa di Don Milani Consolo, Vincenzo,Il sorriso dell’ignoto marinaio,Milano:A.Mondadori,2006,p.112 Lo nota G.Contini  La lingua ritrovata :Vincenzo Consolo,a cura di M.Sinibaldi,«Leggere»,2,1988,p.12 82 profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano, non va “verso il dialettismo di colore”, proprio di autori come Camilleri. Il libro si conclude con il proclama del prodittatore Mordini “agli italiani di Sicilia”, in vista del plebiscito del 21 ottobre del 1860, per l’unificazione. Il barone Mandralisca abbandonerà la sua turris eburnea, brucerà i suoi libri e le sue carte e si darà all’azione, aprirà una biblioteca, un museo e una scuola in modo tale che la prossima volta la storia loro,la storia,la scriveran da sé .

Vincenzo Consolo: romanzo e storia. Storia e storie.


JEAN FRACCHIOLLA
Dire che ogni scrittore vive di storie è un po’ un truismo. Che cosa fa in effetti qualsiasi narratore? Ci racconta delle storie: Sia delle storie che possono appartenere alla realtà quotidiana dell’epoca in cui ci trasporta il narratore, e allora si tratta di un romanzo realista, ciò che Stendhal definisce, per riprendere
la sua celebre immagine, come «le miroir qu’on promène le long d’un chemin».
Sia delle storie che si nutrono di miti radicati nell’immaginario collettivo, e allora abbiamo a che fare con dei racconti che rasentano il meraviglioso, il fantastico, il lirico, l’epico o il tragico… Come ogni romanziere Vincenzo Consolo non sfugge a questa regola: i suoi romanzi sono strapieni di storie, di racconti,
nonché di aneddoti, di notazioni, d’impressioni, come quelle che ci presenterebbe uno scrittore viaggiatore. E qui apro subito una breve parentesi per fare una costatazione che mi sembra importante: tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio. Tutte ci invitano ad un viaggio attraverso dei luoghi privilegiati, quasi sempre in Sicilia, il cui epicentro sembra essere la città di Cefalù; ma tornerò più avanti su questo punto. Però Vincenzo Consolo non è un semplice romanziere realista che si accontenta di registrare e di descrivere la realtà in cui vive (anche se questo gli capita, naturalmente, ad esempio quando egli denuncia il totale degrado in cui sono cadute oggi le grandi città di Sicilia, come Palermo o Siracusa), ma in generale le storie di Consolo affondano le loro radici nella Storia, quella della Sicilia degli anni e dei secoli passati, cioè di una Sicilia splendida nella bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi siti ancora intatti, di una Sicilia pura e vergine nei suoi costumi non ancora corrotti, di una Sicilia mitica (che ci ricorda e rimanda a quella di Verga e Vittorini), di cui il nostro scrittore esprime continuamente la straziante e lacerante nostalgia. Per altro questo rapporto con la Storia caratterizza tutta la tradizione del romanzo italiano moderno, dal Manzoni, passando poi per Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, perfino Sciascia, tradizione nella quale s’inserisce profondamente Vincenzo Consolo, ma in modo molto originale, come vedremo più avanti. Tutti i romanzi e tutte le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Così La ferita dell’aprile, il romanzo che, nel 1963, segna gli inizi letterari di Consolo, misto sapientemente dosato di autobiogafia e di storia, di quotidiano e di mito. La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente e di un paese siciliano all’indomani della seconda guerra mondiale. La storia di un adolescente che, alla fi ne di un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e di dolori, giunge alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza. In effetti la «ferita», alla quale allude il titolo, è di sicuro la «ferita» della giovinezza, nella sua esperienza dolorosa di passaggio all’età adulta; ma è anche forse «la ferita» politica delle elezioni del 18 aprile 1948, profondamente risentita dallo scrittore impegnato Consolo, che rimane solidale delle vittime di una storia che gli appare immutevole e insensata. Tra La ferita dell’aprile e il suo secondo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976, dodici anni di silenzio, sui quali potremo chiedere dopo a Vincenzo Consolo qualche chiarimento. Poi viene Lunaria (1985), in cui Consolo tiene un discorso sottilmente politico e storico (notiamo anche, ‘en passant’, come nel nostro autore Storia e politica sono sempre strettamente legate). Lunaria ci presenta una Palermo del Settecento, in cui l’autore
mette in scena un mito poetico, quello della luna contro il potere. La caduta della luna mette in luce «la diversità» di un vicere che non crede nel potere, il ché lo avvicinerà ai suoi sudditi (contadini e popolani), e lo aiuterà a smascherare la falsa scienza ben diversa da quella vera scienza capace di audacia e di spirito concreto. Solo la gente umile, i poeti, i marginali saranno capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. Ne La ferita dell’aprile, rileviamo questa frase: “Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte femmine, correte, prima che si squagliano”1 . Questa frase annuncia già Lunaria e ci rivela, in nuce, nel suo potente lirismo, due elementi essenziali della poetica di Consolo:

da una parte il faro che invita al viaggio, un viaggio rituale
dall’esistenza alla Storia, che invita quindi alla conoscenza del
mondo e di se stessi. Il faro, cioè la luce, e quindi per Consolo la
ragione che attrae, che illumina in modo intermittente le tenebre;
il faro che simboleggia il tentativo umano, mai completamente
appagato, di penetrare il mistero dell’esistenza.

dall’altra parte la luna, altro topos al quale il nostro autore
è particolarmente legato, che rappresenta il bisogno assoluto di
immaginazione, di creazione poetica. Qui, in quei repentini bagliori del faro di Cefalù che, con la sua luce, trafigge la luna e ne fa cadere le briciole, le molliche nel mare, possiamo rilevare
non soltanto una immagine intensamente poetica, ma anche una
prima e delicata immagine della «violazione» e della «caduta» della
luna che sono precisamente i temi centrali del racconto teatrale
Lunaria.
E qui vediamo anche come, da un’opera all’altra, si stabilisce una rete di corrispondenze e di echi interni. Anche Retablo (1987) è, a modo suo, un romanzo storico, ambientato nel Settecento, nella Sicilia occidentale, che per Consolo è quella della Storia. Retablo si presenta come un racconto di viaggio -forma che ritroveremo ancora ne L’olivo e l’olivastro- quello del Cavaliere Clerici, pittore milanese, in cui, come avviene nei romanzi di avventure, gli episodi si susseguono senza legami necessari tra di loro. Attraverso la Sicilia del Settecento, sontuosa e misera, accecante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e squallida, si delinea e dispiega il conflitto tra ‘avere’ e ‘essere’, vale a dire tra i falsi valori (della ricchezza, la nobiltà del nome, del potere) e i valori autentici, cioè quelli che si affermano per sé stessi e che caratterizzano un’umanità umile, marginale, diversa, vale a dire quella dei pastori, dei poeti, dei nobili vegliardi, dei briganti generosi o dei mercanti disinteressati. È con questi umili che simpatizza ovviamente il Cavaliere Clerici (come il vicere di Lunaria di cui costituisce un’eco), intellettuale illuminato del secolo dei lumi, eco anche lui del barone Mandralisca e di Giovanni Interdonato de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Le Pietre di Pantalica (1988), non più romanzo ma raccolta di novelle, conservano un legame molto stretto con la storia della Sicilia. L’opera si dipana su un arco di tempo che va dal periodo della liberazione fi no ai conflitti sociali del dopoguerra, dal «boom» economico degli anni’60, ai problemi, ai danni e al degrado causati da questo «boom» nella Sicilia e nell’Italia contemporanea. Siccome la Sicilia e i mali siciliani sono spesso, per non dire sempre, una metafora dell’Italia e dei mali italiani, ritroviamo, ne Le pietre di Pantalica, la critica contro la cultura dei privilegi e del potere; ritroviamo il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso ed endemico» di una Sicilia emblematica; ritroviamo la visione di una storia immobile ed immutevole nelle sue prevaricazioni, i suoi inganni e le sue menzogne, nelle sue ingiustizie e le sue esclusioni. Le pagine emblematiche del penultimo racconto, intitolato appunto “Le pietre di Pantalica”, ci offrono un ritratto terrificante delle città che una volta furono tra le più belle della Sicilia, si vuol parlare naturalmente di Siracusa e di Palermo: “Sono tornato a Siracusa dopo più di trent’anni, ancora come spettatore di tragedia. Allora, in quel teatro greco, nel momento in cui Ifi genia faceva il suo terribile racconto del suo sacrificio in Aulide, … o nel momento in cui il coro cantava… in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettìo di motorette, sgommate, stridore di freni… Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare Inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin… E, usciti dal teatro, che cosa si vede? La distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini. Le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, alle porte di Siracusa, hanno corroso, avvelenato la città. Nel centro storico, nell’isola di Ortigia, lo spettacolo è ancora più deprimente. La bellissima città medievale, rinascimentale e
barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta”2 . E più avanti: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo… Questa città è un macello, le strade sono ‘carnezzerie’ con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta…”3
Queste pagine annunciano ciò che diventerà il leitmotiv di un’opera successiva di Consolo, cioè L’olivo e l’olivastro, pubblicata nell’agosto del 1994. L’olivo e l’olivastro è una specie di odissea,
di ritorno nella patria natale; è un’immagine desolata, corrotta, apocalittica della Sicilia, quella che ci offre la prosa lirica e barocca di Consolo. Anche qui ritroviamo il tema del viaggio che costituiva la struttura portante di Retablo; però tutto quello che il poeta vede è soggetto a un paragone che oppone la Sicilia mitica di una volta, la Sicilia eterna, superba, splendida attraverso i suoi siti, la sua natura ed i suoi monumenti, alla Sicilia attuale che non è altro che squallore e abbrutimento.
Bisognerebbe citare tutte le pagine che segnano questa trasformazione, quella di Caltagirone, di Gela di cui Consolo ci presenta un ritratto terrificante per non dire raggelante, quella di Segesta, di Mazzara ed infine di Gibellina che si offre come l’ultimo esempio, in quest’opera, di un’antica, nobile e magnifica civiltà, sacrificata agli dei di un modernismo dello scandalo e dell’orrore.
L’olivo e l’olivastro, a parer nostro, costituisce, nel percorso letterario di Vincenzo Consolo, un’opera-somma in cui s’incrociano e si rispondono tutti i temi maggiori della poetica consoliana, e un’opera in cui l’uomo, il romanziere ed il poeta, gridano la loro indignazione ed il loro sgomento di fronte ai templi della bruttezza architettonica e morale di quel che si è soliti chiamare la civiltà moderna. L’olivo e l’olivastro è un libro-chiave per capire tutta l’opera di Consolo. Occorrerebbe poterne citare tutte le pagine, in particolare quelle in cui Consolo rivela al lettore il significato profondo della sua scoperta di Cefalù, ma sarebbe ovviamente troppo lungo, perciò ci accontenteremo di citarne un breve passo: “Si ritrovò così a Cefalù… Ricorda che lo meravigliava, man mano che s’appressava a quel paese, l’alzarsi del tono di ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nei visi, nei gesti, negli accenti; il farsi il tono più colorito e forte, più netto ed eloquente, più iattante di quello che aveva lasciato alle sue spalle. Aspra, scogliosa era la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fi no alla gran rocca tonda sopra il mare -Kefa o Kefalè-, al capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù… Alti, chiari, dai capelli colore del frumento erano gli abitanti, o scuri e crespi, camusi, come se, dopo secoli, ancora distinti, uno accanto all’altro miracolosamente scorressero i due fi umi, l’arabo e il normanno, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. S’innamorò di Cefalù. Di quel paese che sembrava anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la cappella Palatina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa e il Borgo, anticipare la grande capitale. Abitò a Cefalù nell’estate. Gli sembrava, ed era, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi, che volevano essere letti, interpretati”4 .
Così quindi Cefalù, centro del mondo di Consolo, sorta di Aleph borgesiano, citando Borgès: “in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti sotto tutti i punti di vista”, Cefalù è per Consolo la città d’incontro e di scoperta, la città che diventerà la citta-simbolo di un intero universo.
E quale migliore transizione di Cefalù per parlare dei due romanzi senz’altro più compiuti e tra i più importanti di Consolo, e di cui volutamente non si è parlato finora, cioè Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) -cronologicamente il secondo di Consolo- e Nottetempo, casa per casa (1992 -Premio Strega 1992). Cefalù, alfa e omega di Vincenzo Consolo, terra di ogni scoperta e ogni delizia, Cefalù col suo faro, Cefalù e la sua cattedrale, che di opera in opera sono, come i ciottoli seminati da Pollicino, i punti di riferimento di Consolo, Cefalù caput mundi (kefalè=testa), Cefalù è il luogo privilegiato di questi due romanzi, romanzi storici per antonomasia, che costituiscono come ama a ricordarlo il loro autore: «Il dittico di Cefalù». Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato integralmente nel 1976, Consolo si tuffa letteralmente nella storia, quella del Risorgimento a Cefalù e in Sicilia, per tentare di capire le ragioni del fallimento parziale degli ideali di uguaglianza e di giustizia che avevano attraversato tutta la prima metà dell’Ottocento, per concretizzarsi momentaneamente nella data dell’undici maggio 1860, giorno dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista della prima parte del romanzo, quella di Cefalù, è Enrico Piraino, barone di Mandralisca, malacologo e archeologo, intellettuale impegnato a favore del nuovo corso della storia. Consolo ne fa il portavoce della propria ideologia, delle proprie convinzioni sull’idea di proprietà e delle ingiustizie che da essa derivano. Mandralisca va paragonato al Cavaliere Clerici di Retablo e al Vicere di Lunaria. Consolo è rimasto affascinato dalla statura morale di questo personaggio, decisamente più generoso del principe Salina ne Il Gattopardo di Lampedusa, e personaggio in cui egli sente, per via dell’amore comune che nutrono tutti e due per il viaggio (reale o metaforico), un fratello di elezione. Nei numerosi spostamenti del barone “da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia”, come lo dice lui stesso, Consolo ha trovato un antecedente storico al proprio viaggio-scoperta-iniziazione, dalla regione di Messina dove è nato ed ha vissuto la propria infanzia (a Sant’Agata di Militello), e che rappresenta per lui il mondo della natura e del quotidiano, verso la regione di Palermo che rappresenta invece, tramite la tappa intermedia di Cefalù, autentica porta del mondo, la cultura e la Storia.
Mandralisca è l’intellettuale che si pone in modo problematico di fronte alla storia per cercare di capirne il corso e gli sviluppi. È lui peraltro che ha comprato il «Ritratto d’ignoto» d’Antonello da
Messina il cui sorriso e sguardo enigmatici, nel contempo complici e distanti, ironici e aristocraticamente benevoli, ci dicono a che punto quest’uomo la sa lunga sulla vita e i suoi segreti. D’altronde questo sorriso enigmatico dell’uomo misterioso dipinto da Antonello, Consolo lo fa rivivere sul viso di un altro personaggio importante del romanzo, il democratico Giovanni Interdonato, latore di tutti i valori positivi del cambiamento sperato: quello di una Sicilia migliore, in cui il lavoro e la capacità di sacrificio dei suoi abitanti potranno far regnare, alla luce della ragione e dello spirito (la cui sede è il capo, cioè Cefalù / kefalè), una maggiore giustizia. Il sorriso dell’ignoto marinaio ci offre, per lo meno nella sua prima parte, una visione allegra dell’esistenza, che Consolo ci comunica mediante parole che attingono la loro bellezza nella poesia dei luoghi descritti, nel lirismo dei gesti quotidiani, offerti al lettore senza compiacimento paternalistico, ma piuttosto attraverso un’estasi poetica profonda. La seconda parte del dittico, Nottetempo casa per casa (marzo 1992), arriva dopo anni di approfondimenti tematici e di sperimentazioni linguistiche molto personali: l’agonia della poesia in Lunaria, il tema e la metafora del viaggio, il rapporto scritturavita e le riflessioni esacerbate sull’alienazione della nostra epoca (Retablo e Le pietre di Pantalica). Nottetempo casa per casa è storicamente ambientato negli anni 20 del Novecento, scelta naturalmente non affatto casuale. Consolo stabilisce un parallelo implicito tra quel periodo ed il nostro, si serve del passato e della storia per parlarci meglio del presente: in effetti il clima di violenza e d’intolleranza, che s’instaura in Italia con l’avvento del fascismo, trova degli echi nella follia e l’oltraggiosa disconoscenza della dignità umana che regnano oggigiorno. Cefalù, come la Sicilia di Sciascia, diventa in questo romanzo metafora di una realtà generale non solo problematica e contraddittoria, ma anche, per certi aspetti, stretta e volgare. Per tutte queste ragioni, Petro Marano, il protagonista del romanzo, è naturalmente sconcertato -come lo è lo scrittore- davanti a questa realtà che perde la propria consistenza, che si sfrangia e si sfi laccia sotto i colpi dei movimenti irrazionalistici che sembrano fare dei proseliti anche tra i suoi compatrioti: “Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita, storie, trame, segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania”5 . Mentre ne Il sorriso dell’ignoto marinaio i luoghi di Cefalù erano le contrade dell’utopia, della speranza appassionata di un cambiamento storico e sociale, in Nottetempo casa per casa gli stessi luoghi diventano come le regioni del disincanto, dell’assenza di ragione, della scomparsa temporanea della luce del faro, del
«chiarore della lanterna». Allora la scrittura di Consolo in Nottetempo casa per casa si mette in posizione di attesa, pur rimanendo costruttiva poiché continuare a scrivere, a raccontare, significa per Consolo denunciare la notte della ragione, ma anche continuare a sperare, non abbandonarsi al pessimismo più tetro che genera l’afasia, l’impossibilità di creare e d’inventare. A Cefalù Consolo ha compiuto un «rito di passaggio», di cui lui stesso ha abbondantemente parlato, che gli ha permesso di fare emergere, dal suo magma interno, l’altra parte della verità, l’altro colore dell’esistenza, l’emisfero nascosto della luna. Questo viaggio, senza alcun dubbio, più che un viaggio spaziale vero e proprio, ha un valore piuttosto simbolico di conoscenza e d’iniziazione. Cefalù, «rito di passaggio», unisce strettamente i due romanzi. D’altronde Consolo fa notare che nessun critico aveva notato che i due libri hanno lo stesso incipit: il primo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, inizia così: “E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci”6 . Inizia quindi con una congiunzione, «E», e un’aurora. In altri termini è un libro augurale ed aurorale, è un libro diurno e solare, perché si tratta del romanzo della speranza. il secondo invece, con un effetto di simmetria oppositiva,
inizia con una congiunzione, «E», e un notturno:
“E la chiarìa scialba all’oriente… Sorgeva l’algente luna”7 .
Inizia con il sorgere della luna, con l’apparizione di un personaggio inquietante, anche lui notturno, il padre di Petro Marano, notturno perché soffre di licantropia. Se Il sorriso dell’ignoto marinaio era il libro della speranza, Nottetempo casa per casa è il libro della disperazione e del dolore. Lascio ora la parola a Consolo che citerò lungamente: “Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito proprio come una tragedia: la scansione in capitoli del libro è proprio quella delle scene di una tragedia greca… Mi è stato soprattutto rimproverato da un critico, per altro molto acuto, che io cerco consolazione in un genere ormai scaduto, nel romanzo. L’ho trovato offensivo. La letteratura non è scaduta, essa è stata avvilita. Credo che la funzione della letteratura sia ancora quella di essere testimone del nostro tempo. Petro Marano è questo. Di fronte al fallimento dell’utopia politica, di fronte alla follia della storia e alla follia privata, alla sua follia esistenziale, al dolore che lui si porta dentro, capisce che il suo compito è quello dell’anghelos, del messaggero che nella tragedia greca ad un certo punto arrivava sulla scena e raccontava ciò che si era svolto altrove. Ecco, la funzione dello scrittore, di Petro Marano è quella di fare da anghelos, da messaggero. Nei momenti in cui cadono tutti i valori, la funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo. È l’unica funzione che la letteratura può avere. La politica si preoccupa delle sorti immediate dell’uomo, la letteratura, invece, va al di là del tempo contingente. Di una letteratura, parlo di narrativa, quanto mai minacciata, oggi, da quella che è la mercificazione di questo genere letterario. È per questo che ho concepito il mio impegno letterario, non soltanto per un fatto di propensione verso il lirismo ma anche ideologicamente devo dire, come difesa dello spazio letterario.
Ho cercato di allontanarmi sempre di più da quel linguaggio senza memoria, insonoro, che i mezzi di comunicazione di massa oggi ci impongono e che ormai ha invaso tutti i settori della nostra vita. Il settore più minacciato, dicevo, è quello della narrativa. Credo che l’unica salvezza per questo genere fortemente appetito dai produttori dell’industria culturale -appunto perché è mercificabile- rimanga quella di avvicinare la narrazione alla poesia”. Ho tenuto a riferire lungamente le parole di Vincenzo Consolo perché, da sole, costituiscono un’ottima conclusione ai miei propositi di oggi. Propositi un po’ brevi e lapidari per una materia così ricca, sulla quale ci sarebbe ancora molto da dire. Ma il mio intento e la mia ambizione erano solo quelli d’introdurre un dibattito con l’autore in persona.
Quindi, per concludere, in Consolo narrativa e Storia sono intimamente legate. La Storia costituisce la trama intima del tessuto romanzesco. Ma Consolo non è uno storico e non è semplicemente, direi, un romanziere storico. È anche e soprattutto, per via di ciò che la sua prosa ha di lussureggiante, colorato, colto, prezioso, spesso barocco e lirico, è anche quindi un poeta della storia e del romanzo. La lettura di alcuni brani citati lo dimostra. I suoi legami e la sua dimestichezza di spirito e di penna con alcuni dei più grandi poeti contemporanei, quali Montale e soprattutto Lucio Piccolo, il grande poeta siciliano che fu amico di Consolo, lo attestano. Ma questo aspetto del nostro scrittore potrebbe essere oggetto di un’altra presentazione e di un altro dibattito.


1 CONSOLO, V. (1989: 31). 2CONSOLO, V. (1988: 165-6).
3CONSOLO, V. (1988: 170).
4 CONSOLO, V. (1994: 123-4).5 CONSOLO, V. (1992: 144). 6 CONSOLO, V. [(1976) ma 1997: 12]. 7 CONSOLO, V. (1992: 5).
BIBLIOGRAFIA:
CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1989): La ferita dell’aprile, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1992): Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1994): L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori.
CONSOLO, V. (1997): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori
(«Scrittori italiani») [1 ed. 1976, Torino: Einaudi].

“Un sogno perso” por PASQUALE SCIMECA


“Un sogno perso” è il mio secondo film, ed è un film che deve molto a Vincenzo Consolo, ma questo lui non lo sa. Nel 1988, io facevo l’insegnante. Come spesso accadeva a tanti della mia generazione, dopo la laurea, sono andato a lavorare nelle regioni del nord Italia; perché lì c’erano più possibilità.
Durante l’estate tornavo al mio paese per stare un po’ con i miei e ritrovare i vecchi amici. Quella estate del 1988, al mio paese, avevano indetto un concorso di fotografia. Il mio è un piccolo paese con poco più di mille abitanti, nel centro del feudo della Sicilia. I miei amici, che sapevano della mia passione per la fotografi a, mi esortavano a presentare le mie foto a questo concorso. Io, sinceramente, non ero molto interessato alla cosa e non volevo farlo; però quando mi dissero che il Presidente della giuria era Vincenzo Consolo, ho deciso di partecipare per avere così la possibilità di conoscerlo. Il primo premio, per chi vinceva questo concorso, consisteva nella solita “targa”, e cosa più importante, in un milione di lire (circa cinquecento euro di oggi). Così cominciai ad andare in giro per le campagne a fotografare i pastori e i contadini, (quelli che ancora resistevano a quella vita di stenti). Alla fi ne fui io che vinsi il primo premio, e con i soldi mi comprai una cinepresa Arriflex 16 mm di seconda mano. Il possesso di questa cinepresa stimolò la mia antica passione per il cinema; e fu così che iniziò la mia carriera cinematografica. Vincenzo Consolo, suo malgrado, ha dunque una responsabilità molto grande per quello che poi sarebbe diventato il mio lavoro. Anche perché senza quel milione del premio non avrei mai comprato quella cinepresa (che conservo ancora come un cimelio) e non avrei mai iniziato a fare cinema.
I miei due primi film (La donzelletta e Un sogno perso) li ho fatti con quella cinepresa, e questo mi ha permesso, soprattutto, di sviluppare la mia idea di cinema autoriale; dalla scrittura alla fotografia, dal montaggio alla produzione. Eravamo un gruppo di amici ai quali piaceva il cinema e abbiamo coinvolto altre persone, e così abbiamo fatto, a bassissimo costo, La donzelletta. Poi questo fi lm è stato comprato da Enrico Ghezzi per Fuori Orario che andava (e va ancora) in onda su Rai Tre. E sempre Rai Tre ci ha dato i soldi (cento milioni di lire —cinquantamila euro circa di oggi—) per il secondo film: Un sogno perso.
Dopo questa piccola parentesi, vorrei tornare a parlare dei temi, che in questi due giorni di convegno, hanno affrontato l’opera di Vincenzo Consolo, partendo proprio dal mio secondo film Un sogno perso.
I due primi episodi del film sono tratti dalle opere di due grandi scrittori siciliani: Elio Vittorini e Vincenzo Consolo. Dico scrittori siciliani e non italiani, perché una parte importante della letteratura italiana del secolo scorso è stata opera di autori siciliani (Pirandello, Brancati, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, per citare solo i più noti). Una cosa, questa, che mi ha sempre colpito; perché fi no alla metà del secolo scorso, in Sicilia, l’ ottanta per cento della popolazione era analfabeta. Mi sono sempre chiesto; come è possibile che da un popolo di analfabeti siano potuti uscire questi grandi scrittori? Io credo, che in qualche modo, questo abbia a che fare col fatto che l’arte del racconto, il gusto e il piacere del racconto
(che purtroppo oggi si è perso) è un qualcosa di insito nell’animo del popolo siciliano. In tutti i paesi c’erano delle persone: artigiani, contadini, pescatori, minatori, ecc., che erano stimati e amati solo perché avevano il dono del racconto. Da bambino passavo anch’io il mio tempo seduto nelle botteghe dei barbieri o dei calzolai a sentire i loro racconti. E poi c’erano i Cantastorie con le loro chitarre e i loro cartelloni dipinti, e i pupari, questi artigiani dell’arte che intrattenevano il pubblico, non una sera o due, ma trecento sessanta sere all’anno, ogni sera c’era una puntata, con racconti straordinari che assomigliavano molto a quelli delle Mille e una notte. Un sogno perso è un film di tanti anni fa: del 1992. Un film su un sogno, perso per l’appunto. Il sogno di un mondo, quello della mia infanzia, della civiltà contadina spazzata via da una nuova forma di civiltà che P. P. Pasolini chiamava del consumismo, dove ci sono tutte quelle cose che dicevo prima, ma c’è soprattutto la letteratura. Il primo episodio è tratto da Filosofiana di Consolo e il secondo dall’ultimo romanzo (incompiuto) di Vittorini Le città del mondo.
Quello che ho fatto, rispetto al racconto di Consolo, è un’ opera, diciamo così, di tradimento. Perché dal momento che faccio un film tratto da uno scrittore è chiaro che lo tradisco. Lo tradisco nella forma e nella sostanza. Per me, l’episodio del libro di Consolo Filosofiana è anche un modo per raccontare un’altra cosa (che poi, credo, sia insita, sostanzialmente anche in Consolo), ma per me è una cosa più esplicita. Nel mio caso è una scusa per raccontare qualcosa di questo mondo che andava scomparendo; della Sicilia vista come metafora della civiltà contadina, questa millenaria civiltà contadina che si è riprodotta quasi uguale nel tempo. Per secoli e secoli ha riprodotto se stessa, con pochissime innovazioni, però anche con una pratica culturale e sociale, con un’idea del rapporto con la natura, con la cultura, l’educazione, e che nell’arco di qualche decennio è stata completamente annientata, distrutta. E questo in Sicilia è avvenuto anche fisicamente attraverso l’ emigrazione. Milioni di contadini, che avevano iniziato ad andare via già verso la fi ne dell’Ottocento, quando partivano a migliaia e migliaia, sui piroscafi che li portavano in America, in Argentina, in Brasile e perfino in Sudafrica. Ma negli anni cinquanta del secolo scorso, la cosa è diventata una vera e propria desertificazione, di una civiltà, di una cultura ma anche di una terra che cambiava. Prima di partire in massa i contadini, a dire il vero, avevano tentato una qualche forma di resistenza, disperata, folle, eroica. L’ultimo tentativo di resistenza, sono state le lotte contadine. Negli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di contadini hanno tentato di cambiare se stessi, di cambiare le cose, di scardinare quelle forme di potere feudale che si basavano sulla mafia, sulle classi aristocratiche, sulle gerarchie ecclesiastiche, sulle burocrazie del nuovo Stato unitario. Purtroppo queste lotte sono fallite, e il movimento contadino non si è più ripreso. Non solo il movimento contadino, ma l’intero popolo siciliano ha perso la sua identità e la sua anima. Ho parlato di popolo, ma in realtà, in Sicilia vi erano almeno tre popoli: quello dei pescatori, quello dei minatori e quello dei contadini. Erano mondi separati che spesso non avevano alcun rapporto fra di loro. Il minatore la mattina scendeva in miniera e non sapeva se la sera sarebbe tornato in superficie. Questo fatto determinava un modo di essere, una caratteristica esistenziale che lo distingueva da tutti gli altri. I contadini, ad esempio, si vestivano a festa soltanto in rarissime occasioni (funerali, matrimoni, battesimi, ecc.), mentre i minatori, ogni fi ne settimana si vestivano di modo elegante e andavano ad ubriacarsi nelle taverne, spendevano tutti i soldi che avevano guadagnato e che rimanevano, dopo le spese per la famiglia, perché tanto poi, chi sa se sarebbero tornati vivi dalle viscere della terra, l’ indomani tornando al lavoro. Per non parlare dei pescatori, che spesso parlavano dei dialetti propri, incomprensibili agli altri. Erano veramente tre mondi diversi l’uno dell’altro, ma accumunati da un’ unico destino; quello dell’estinzione. Questi popoli, scomparendo, hanno lasciato un deserto, ed è di questo che si parla nel mio film “Un sogno perso”, che poi è anche il mio sogno perso. Io vengo da un piccolo paese contadino… Per qualsiasi ragazzo del mio paese, Cefalù (la stessa Cefalù dove Consolo ha ambientato II sorriso dell’ignoto marinaio) era la civiltà, era il mondo. Sono andato a studiare a Cefalù dopo le scuole elementari, e quando uscivo per strada, spesso rimanevo sbalordito da questo nuovo mondo: i negozi, le ragazze in costume che si vedevano in estate, la cattedrale imponente, i palazzi signorili… Questo film mi ha aiutato a cercare un sogno che non esiste più. Un sogno che non potrà più ripetersi e qual è il modo migliore di cercare i sogni? Cercare nella letteratura; ecco perché Consolo, ecco perché Vittorini. Questi due episodi che i due grandi scrittori raccontano nei loro libri, mi sembravano fossero molto importanti perché in qualche modo erano degli episodi che seguivano in un arco di tempo (dalla fi ne della guerra fi no agli anni cinquanta), la delusione provocata dal fallimento delle lotte contadine. Vito Parlagreco che cerca di rifarsi una vita comprando questo pezzetto di terra pieno di pietre, perché erano delle vere e proprie pietraie le terre che una falsa riforma agraria dava ai contadini. Così come Vittorini in Le città del mondo ci racconta di quello che succede dopo. L’incomunicabilità tra padri e figli, la paura dei padri per l’ignoto e il desiderio dei figli di partire, di cancellare le orme dei padri. La rottura del Mito, l’inutilità della parola e della scrittura che caratterizzeranno gli ultimi anni di vita di Vittorini, e la ricerca spasmodica, quasi maniacale che Consolo dedica alla scrittura, sono le due facce della stessa medaglia. Si può scrivere di un mondo che sta scomparendo? Si può scrivere con parole che per le generazioni future non avranno più alcun significato? Lo si può fare a condizione di guardare alla storia come fosse l’anima del popolo, a condizione di rinunciare a qualsiasi forma di verismo e di andare all’essenza; “Eschilo, è nato qui, in terra di Sicilia” fa dire Consolo a don Gregorio, l’imbroglione che leva a Parlagreco l’ultima vana illusione. Eschilo il grande tragico… Chissà attraverso quale associazione d’idee mi viene in mente Verga. Forse perché penso che Verga è anche lui un grande tragico. Vittorini non è stato un grande tragico, ma tendeva in qualche modo alla tragedia attraverso la costruzione del mito. Consolo cerca la tragedia attraverso la parola, attraverso questo altro modo di lavorare la parola, di alzare il livello della realtà alla metafisica, scavando le parole come un minatore. Io quando sento parlare di letteratura regionalistica provo un po’ fastidio perché penso che la letteratura siciliana non ha niente di regionale, è pura metafora. È un caso che parla di Sicilia, anche se senza Sicilia non potrebbe esistere. Come diceva Vittorini (in Conversazioni in Sicilia) “È per caso che questa storia si svolge in Sicilia”. Dunque la Sicilia —come diceva un altro grande: Leonardo Sciascia— è una metafora del mondo. Quindi è una bella miniera per uno scrittore, dalla quale poter estrarre i minerali che si sciolgono nella lingua, che tra l’altro è una lingua molto ricca (c’è dentro qualcosa della lingua araba, di quella greca, spagnola, francese, italiana). Una lingua profonda che ha radici, che si nutre della terra. Questo è un po’ l’origine di questo film. Dove non c’è solo un riferimento letterario, ma un processo che parte dalla letteratura e diventa altro – perché il cinema è altro – Un bisogno esistenziale, un tentativo di raccontare la desertificazione di un mondo, la scomparsa di un popolo che può tornare a vivere solo nel sogno. Perché senza questo sogno non c’è letteratura, ma non c’è neanche il cinema. Grazie.

La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
(Homenaje por sus 75 años)
Irene Romera Pintor (Ed.)


foto di Marino Ciardi

Antonello da Messina


Vincenzo Consolo


Antonello d’Antonio, figlio di Giovanni, maczonus, mastro
scalpellino, e di Garita. Nato a Messina nel 1430 circa e ivi morto
nel 1479. Pittore. Ebbe un fratello, Giordano, pittore, da cui nacquero
Salvo e Antonio, pittori; una sorella, Orlanda, e un’altra sorella,
di cui non si conosce il nome, sposata a Giovanni de Saliba,
intagliatore, da cui nacquero Pietro e Antonio de Saliba, pittori.
Antonello d’Antonio sposò Giovanna Cuminella ed ebbe tre figli,
Jacobello, pittore, Catarinella e Fimia.
Visse dunque solo quarantanove anni questo grande pittore
di nome Antonello, e, poco prima di morire di mal di punta, di
polmonite, dettò il 14 febbraio 1479, al notaro Mangiante, il testamento,
in cui, fra l’altro, disponeva che il suo corpo, in abito
di frate minore osservante, fosse seppellito nella chiesa di Santa
Maria del Gesù, nella contrada chiamata Ritiro. “Ego magister
Antonellus de Antonej pictor, licet infirmus jacens in lecto sanus
tamen dey gracia mente… iubeo (dispongo) quod cadaver meum
seppeliatur in conventu sancte Marie de Jesu cum habitu dicti
conventus…”. E non possiamo qui non pensare al testamento
di un altro grande siciliano, di Luigi Pirandello, che suonò, allora,
nelle sue laiche disposizioni, come sarcasmo o sberleffo nei
confronti di quel Fascismo a cui aveva aderito nel 1924: “Morto,
non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori
sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei
poveri…”.
Ma torniamo al nostro Antonello. Fra scalpellini, intagliatori e
pittori, era, quella dei d’Antonio e parenti, una famiglia di artigiani
e artisti. Ma Messina doveva essere in quella seconda metà
del Quattrocento, una città piena d’artisti, locali, come Antonino
Giuffrè, che primeggiava nella pittura prima di Antonello, o venuti
da fuori. Dalla Toscana, per esempio. Ché Messina era città
fiorente, commerciava con l’Italia e l’Europa, esportava sete e
zuccheri nelle Fiandre, e il suo sicuro porto era tappa d’obbligo
nelle rotte per l’Africa e l’Oriente. Una città fortemente strutturata,
una dimora “storica”, d’alto livello e di sorte progressiva. E
certamente doveva essere meta di artigiani e artisti che lì volontariamente
approdavano o vi venivano espressamente chiamati.
E proprio parlando di Antonello d’Antonio, lo storico messinese
Caio Domenico Gallo (Annali della città di Messina, ivi 1758)
fu il primo ad affermare che “il di lui genitore era di Pistoja”. E
lo storico Gioacchino Di Marzo (Di Antonello da Messina e dei
suoi congiunti, Palermo, 1903), che cercò prove per far luce nella
leggendaria e oscura vita di Antonello (“[…] mi venne fatto d’imbattermi
in un filone, che condusse alla scoperta di una preziosa
miniera di documenti riguardanti Antonello in quell’Archivio Provinciale
di Stato […]”) il Di Marzo dicevamo, che così ancora scrive:
“L’asserzione del Gallo, che il sommo Antonello sia stato figlio
di un di Pistoia, non poté andare a sangue ai messinesi cultori di
patrie memorie, fervidi sempre di vivo patriottismo, vedendo così
sfuggirsi il vanto ch’egli abbia avuto origine da messinese casato
e da pittori messinesi ab antico”. Che fecero dunque questi cultori
di patrie memorie o questi campanilisti? Tolsero dei quadri
ad Antonello e li attribuirono ai suoi fantomatici antenati, falsificando
date, affermando che già nel 1173 e nel 1276 c’erano stati
un Antonellus Messanensis e un Antonello o Antonio d’Antonio
che rispettivamente avevano lasciato un polittico nel monastero
di San Gregorio e un quadro di San Placido nella cattedrale, pretendendo
così che la pittura si fosse sviluppata in Messina prima
che altrove, meglio che in Toscana…
Il primo di questi fantasiosi storici fu Giovanni Natoli Ruffo,
che si celava sotto lo pseudonimo di Minacciato, cui seguì il prete
Gaetano Grano che fornì le sue “invenzioni” al prussiano Filippo
Hackert per il libro Memorie dei pittori messinesi (Napoli, 1792),
e infine Giuseppe Grosso Cacopardo col suo libro Memorie dei
pittori messinesi e degli esteri, che in Messina fiorirono, dal secolo
XII sino al secolo XIX, ornate di ritratti (Messina, 1821).
Strana sorte ebbe questo nostro Antonello, ché la sua pur breve
vita, già piena di vuoti, di squarci oscuri e irricostruibili, è
stata campo d’arbitrarii ricami, romanzi, fantasie. E cominciò a
romanzare su Antonello Giorgio Vasari (Vite dei più eccellenti
architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue infino a’ tempi nostri,
1550-1568), il Vasari, di cui forse il nodo più vero è quell’annotazione
d’ordine caratteriale: “persona molto dedita a’ piaceri e
tutta venerea”, per cui Leonardo Sciascia ironicamente ricollega
l’indole di Antonello agli erotomani personaggi brancatiani.
La breve vita di Antonello viene, per così dire, slabbrata ai
margini, alla nascita e alla morte, falsificata, dilatata: negli antenati
e nei discendenti, con l’attribuzione di quadri suoi ai primi e
quadri dei secondi a lui. Ma sorte più brutta ebbero le sue opere,
specie quelle dipinte in Sicilia, a Messina e in vari paesi, di cui
molte andarono distrutte o irrimediabilmente danneggiate o presero
la fuga nelle parti più disparate del mondo. E l’annotazione
meno fantasiosa che fa nella Introduzione alle Memorie dei pittori
messinesi… il Grosso Cacopardo è quella della perdita subita
da Messina di una infinità di opere d’arte per guerre, invasioni,
epidemie, ruberie, terremoti. Dei quali ultimi egli ricorda “l’orribile
flagello de’ tremuoti del 1783, che rovesciando le chiese, ed
i palagi distrussero in gran parte le migliori opere di scultura e
di pennello”. Non avrebbe mai immaginato, il Grosso Cacopardo,
che un altro e più terribile futuro flagello, il terremoto del
28 dicembre 1908, nonché distruggere le opere d’arte, avrebbe
distrutto ogni possibile ricordo, ogni memoria di Messina. Due
testimoni d’eccezione ci dicono del primo e del secondo terremoto:
Wolfgang Goethe e David Herbert Lawrence. Scrive Goethe
nel suo Viaggio in Italia, visitando Messina, tre anni dopo il
terremoto del 1783: “Una città di baracche… In tali condizioni si
vive a Messina già da tre anni. Una simile vita di baracca, di capanna
e perfin di tende influisce decisamente anche sul carattere
degli abitanti. L’orrore riportato dal disastro immane e la paura
che possa ripetersi li spingono a godere con spensierata allegria
i piaceri del momento”.
E Lawrence, nel suo Mare e Sardegna, così scrive dopo il terremoto
del 1908: “Gli abitanti di Messina sembrano rimasti al punto
in cui erano quasi vent’anni fa, dopo il terremoto: gente che ha
avuto una scossa terribile e che non crede più veramente nelle
istituzioni della vita, nella civiltà, nei fini”.
E alle osservazioni di quei due grandi qui mi permetto di aggiungere
una mia digressione su Messina: “Città di luce e d’acqua,
aerea e ondosa, riflessione e inganno, Fata Morgana e sogno,
ricordo e nostalgia. Messina più volte annichilita. Esistono miti e
leggende, Cariddi e Colapesce. Ma forse vi fu una città con questo
nome perché disegni e piante (di Leida e Parigi, di Merian e
Juvarra) riportano la falce a semicerchio di un porto con dentro
velieri che si dondolano, e mura, colli scanditi da torrenti e coronati
da forti, e case e palazzi, chiese, orti… Ma forse, dicono quei
disegni, di un’altra Messina d’Oriente. Perché nel luogo dove si
dice sia Messina, rimane qualche pietra, meno di quelle d’Ilio o
di Micene. Rimane un prato, in direzione delle contrade Paradiso
e Contemplazione, dove sono sparsi marmi, calcinati e rugginosi
come ossa di Golgota o di campo d’impiccati. E sono angeli mutili,
fastigi, blocchi, capitelli, stemmi… Tracce, prove d’una solida
storia, d’una civiltà fiorita, d’uno stile umano cancellato… Deve
dunque essere successo qualche cosa, furia di natura o saccheggio
d’orde barbare. Ma a Messina, dicono le storie, nacque un
pittore grande di nome Antonio d’Antonio. E deve essere così se
ne parlano le storie. Egli stesso poi per affermare l’esistenza di
questa sua città, usava quasi sempre firmare su cartellino dipinto
e appuntato in basso, a inganno d’occhio, “Antonellus messaneus
me pinxit”. E dipingeva anche la città, con la falce del porto, i
colli di San Rizzo, le Eolie all’orizzonte, e le mura, il forte di Rocca
Guelfonia, i torrenti Boccetta, Portalegni, Zaera, e la chiesa di
San Francesco, il monastero del Salvatore, il Duomo, le case, gli
orti…”.
Gli orti… E la luce, la luce del cielo e del mare dello Stretto,
dietro finestre d’Annunciazioni, sullo sfondo di Crocifissioni e
di Pietà. E i volti. Volti a cuore d’oliva, astratti, ermetici, lontani;
carnosi, acuti e ironici; attoniti e sprofondati in inconsolabili
dolori; e corpi, corpi ignudi, distesi o contorti, piagati o torniti
come colonne. Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici
non si spiegano se non con una preziosa, spessa sedimentazione
di memoria. Ma di memoria illuminata dal confronto con altre
realtà, dopo aver messo giusta distanza tra sé e tanto bagaglio,
giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore
e geometria.
E’apprendista a Napoli, alla scuola del Colantonio, in quella
Napoli cosmopolita di Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, dove
s’incontra con la pittura dei fiamminghi, dei provenzali, dei catalani,
di Van Eyck e di Petrus Christus, di Van der Weyden, di Jacomar
Baço, di altri. E soggiorna poi a Venezia, “alla grand’aria”,
come dice Verga, in quella città, dove s’incontra con altra pittura,
altra luce e altri colori, altra “prospettiva”; incontra la pittura di
Piero della Francesca, Giovanni Bellini… Ed il ritorno poi in Sicilia,
nell’ultimo scorcio della sua vita, dove dipinge pale d’altare, e
gonfaloni, ritratti, a Messina, a Palazzolo Acreide, a Caltagirone,
a Noto, a Randazzo e, noi crediamo, a Lipari. Ma molte, molte
delle opere di Antonello in Sicilia si sono perse, per incuria, vendita,
distruzione. Su Antonello era calato l’oblìo. Vasari, sì, aveva
tracciato una biografia fantasiosa e, dietro di lui altri, come quei
correttori di date che avevano attribuito i suoi quadri a fantomatici
antenati.
Fu per primo Giovambattista Cavalcaselle, un critico e storico
dell’arte, a riscoprire Antonello da Messina, a far comprendere la
distanza fra l’Antonello delle fonti e l’Antonello dei dipinti. Era
esule a Londra, il Cavalcaselle, fuoruscito per ragioni politiche.
Aveva partecipato alla rivoluzione di Venezia del 1848, e quindi,
nelle file mazziniane e garibaldine, alla difesa della Repubblica
Romana contro l’assalto dei francesi. Rischioso e temerario dunque
il suo ritorno in Italia, il suo viaggio clandestino che parte
dal Nord e arriva fino al Sud, alla Sicilia. “Come Antonello, con il
suo complesso iter, aveva abbattuto barriere regionali e nazionali,
così per riscoprirlo era necessario fare un’operazione culturale affine:
essa è svolta proprio dai molteplici interessi del Cavalcaselle”,
scrive la giovane studiosa Chiara Savettieri nel suo Antonello
da Messina: un percorso critico.
Cavalcaselle giunge a Palermo nel marzo del 1860 (l’11 aprile
di quello stesso anno Garibaldi sbarcherà con i suoi Mille a
Marsala) e, dopo le tappe intermedie, fatte a dorso di mulo, di
Termini Imerese, Cefalù, Milazzo, Castrogiovanni, Catania, giungerà
a Messina, da dove scrive al suo amico inglese Joseph Crowe,
assieme al quale firmerà il libro Una nuova storia della pittura in
Italia dal II al XVI secolo: “Caro mio, credo sia pura invenzione
del Gallo tutte le opere date al Avo, al Zio, al padre d’Antonello,
ed abbia di suo capriccio inventato una famiglia di pittori, mentre
quanto rimane delle opere attribuite a quei pittori sono di chi ha
tenuto dietro Antonello e non di chi lo ha preceduto”.
Cavalcaselle legge e autentica i quadri di Antonello, quindi,
due studiosi, il palermitano Gioacchino di Marzo e il messinese
Gaetano La Corte Cailler, rinvengono nell’Archivio Provinciale di
Stato di Messina documenti riguardanti Antonello, dai contratti di
committenze fino al suo testamento.
Pubblicheranno, i due, quei documenti, nei loro rispettivi libri
(Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti – Antonello da
Messina. Studi e ricerche con documenti inediti) pubblicheranno
nel 1903, salvando così quei preziosi documenti dal disastro del
terremoto di Messina del 1908.
Dopo Cavalcaselle, Di Marzo e La Corte Cailler, gli studiosi
finalmente riscoprono e studiano Antonello. E sono Bernard Berenson,
Adolfo e Lionello Venturi, Roberto Longhi, Stefano Bòttari,
Jan Lauts, Cesare Brandi, Giuseppe Fiocco, Giorgio Vigni,
Fernanda Wittengs, Federico Zeri, Rodolfo Pallucchini, Fiorella
Sricchi Santoro, Leonardo Sciascia, Gabriele Mandel e tanti, tanti
altri, fino a Mauro Lucco, che ha curato nel 2006 la straordinaria
mostra di Antonello alle Scuderie del Quirinale, in Roma, fino
alla giovane studiosa Chiara Savetteri, che mi ha fatto scoprire,
leggendo il suo libro Antonello da Messina (Palermo, 1998)
l’incontro, a Cefalù, nel 1860, tra Cavalcaselle ed Enrico Pirajno
di Mandralisca, il possessore del Ritratto d’ignoto, detto popolarmente
dell’ignoto marinaio, di Antonello. E scriverà quindi il
Cavalcaselle a Mandralisca: “[…] il solo Antonello da me veduto
fino ad ora in Sicilia è il ritratto ch’ella possiede”. Dicevo che la
Savettieri mi ha fatto scoprire, nel 1996, l’incontro tra il barone
Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, e il Cavalcaselle.
Scopro -di questo incontro che sarebbe stato sicuramente un altro
capitolo del mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino,
1976)- di cui è protagonista Enrico Pirajno di Mandralisca
e il cui tema portante è appunto il Ritratto d’ignoto di Antonello,
che io chiamo dell’Ignoto marinaio. Il marinaio mi serviva nella
trama del romanzo, ma è per primo l’Anderson che dà questo
titolo al ritratto ch’egli fotografa nel 1908, raccogliendo la tradizione
popolare.
Il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti». L’avevo mandato
prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna
Banti, perché il tema che faceva da leitmotiv era il ritratto di
Antonello. Longhi, in occasione della mostra del ’53 a Messina
di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico
siciliano. Nessuno mi rispose. Mel ’69 venne a Milano Longhi per
presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi.
Lo avvicinai «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto
a Paragone…». Mi guardò con severità, mi rispose: «Sì, sì mi
ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa
storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve
finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione
popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto
marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri
pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione,
e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare
Antonello. Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il
quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il
racconto a Enzo Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Mi scriveva da Genova, in data 13 novembre 1997 il professor
Paolo Mangiante, discendente di quel notaro Mangiante che
nel 1479 stese il testamento di Antonello. Scriveva: “Accludo anche
alcune schede del catalogo della Mostra su Antonello da
Messina che credo possano rivestire un certo interesse per lei,
riguardano rogiti di un mio antenato notaro ad Antonello per il
suo testamento e per commissioni di opere pittoriche. Particolare
interesse potrebbe rivestire il rogito del notaro Paglierino a certo
Giovanni Rizo di Lipari per un gonfalone, perché si potrebbe
ipotizzare che il suddetto Rizo sia il personaggio effigiato dallo
stesso Antonello e da lei identificato come l’Ignoto marinaio. Del
resto, a conciliare le sue tesi con le affermazioni longhiane sta
la constatazione, dimostrabile storicamente, che un personaggio
notabile di Lipari, nobile o no, non poteva non avere interessi
marinari, e in base a quelli armare galere e guidare lui stesso le
sue navi come facevano tanti aristocratici genovesi dell’epoca,
nobili sì talora, ma marinai e pirati sempre”.
Il movimento di Cavalcaselle, ho sopra detto, è da Londra al
Nord d’Italia, fino in Sicilia, sino a Cefalù; il mio, è di una dimensione
geografica molto, molto più piccola (da un luogo a un
altro di Sicilia) e di una dimensione culturale tutt’affatto diversa.
E qui ora voglio dire del mio incontro con Antonello, con il mio
Ritratto d’ignoto.
In una Finisterre, alla periferia e alla confluenza di province,
in un luogo dove i segni della storia s’erano fatti labili, sfuggenti,
dove la natura, placata -immemore di quei ricorrenti terremoti
dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano, dell’Etna- la
natura qui s’era fatta benigna, materna. In un villaggio ai piedi
dei verdi Nèbrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle
Eolie celesti e trasparenti, sono nato e cresciuto.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione,
malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi
accenti di parole, gesti, in tanta sospensione o iato di natura e
di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il
bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti
per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E
poiché, sappiamo, nulla è sciolto da causa o legami, nulla è isola,
né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva
necessità di uscire da quella stasi ammaliante, da quel confine,
potevo muovere verso Oriente, verso il luogo del disastro, il cuore
del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi
antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura,
l’esistenza. Ma per paura di assoluti ed infiniti, di stupefazioni e
gorgoneschi impietrimenti, verghiani fatalismi, scelsi di viaggiare
verso Occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più
incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena,
verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i suq e le giudecche, le
tombe di porfido di Ruggeri e di Guglielmi, la reggia mosaicata
di Federico di Soave, il divano dei poeti, il trono vicereale di
corone aragonesi e castigliane, all’incrocio di culture e di favelle
più diverse. Ma verso anche le piaghe della storia: il latifondo e
la conseguente mafia rurale.
Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la
sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni
Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così
a Cefalù. E trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel
modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal
mare alla terra, dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura:
Enrico Pirajno di Mandralisca. Recupera, il Mandralisca, in una
spezieria di Lipari, il Ritratto d’ignoto di Antonello dipinto sul
portello di uno stipo.
Il viaggio del Ritratto, sul tracciato d’un simbolico triangolo,
avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me allora
di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di arte e di
cultura sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città
fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina
nel XV secolo, cacciata per la catastrofe naturale che per molte
volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, cacciata in
quel cuore della natura qual è un’isola, qual è la vulcanica Lipari,
un’opera d’arte, quella di Antonello, che viene quindi salvata
e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di
Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di
vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi tra Scilla e
Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Quel Ritratto d’uomo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e
nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto,
sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal
dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”, quel Ritratto
era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della
ragione. Mandralisca destinerà per testamento la sua casa della
strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue
e vasi antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e
museo pubblico.
Fu questo piccolo, provinciale museo Mandralisca il mio primo
museo. Varcai il suo ingresso al primo piano, non ricordo più
quando, tanto lontano è nel tempo, varcai quella soglia e mi trovai
di fronte a quel Ritratto, posto su un cavalletto, accanto a una
finestra. Mi trovai di fronte a quel volto luminoso, a quel vivido
cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana,
enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare?
“Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un
fondo scuro, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione,
balzava avanti il viso luminoso […] L’uomo era in quella giusta
età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza,
s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente
nell’uso ininterrotto. […] Tutta l’espressione di quel volto era fissata,
per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia,
velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti
coprono la pietà”.
Ragione, ironia: equilibrio difficile e precario. Anelito e chimera
in quell’Isola mia, in Sicilia, dov’è stata da sempre una caduta
dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene
sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio,
locura, pirandelliano smarrimento dell’io, sonno, sogno,
ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del
Sordo.
Ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o
dice del degradato Paese che è l’Italia, dice di questo nostro tremendo
mondo di oggi?


Milano, 20 ottobre 2006

Vincenzo Consolo, viene intervistato in occasione della mostra alle scuderie del Quirinale dedicata a Antonello Da Messina – 2006

Incontro con Vincenzo Consolo La voce della storia

Intervista di Giulia e Piero Pruneti

«Insieme ai resti dei templi i viaggiatori del Grand Tour trovavano le rovine della società siciliana»

«Con gli Arabi iniziò una nuova civilizzazione»
«La Sicilia è metafora dell’essere italiani»
«I Romani ci trattarono come una colonia e io sarei stato dalla parte di vinti»
«Amo la multiculturalità dei tempi di Ruggero il Normanno»
«Non condivido il meccanicismo sociale di Tomasi di Lampedusa»

Si dice che la modestia sia virtù dei grandi. Restare un po’ bambini quando tutto intorno fa rumore. Anche questo è un privilegio assoluto. Difficile non pensarci quando si è a contatto con una persona come Vincenzo Consolo. Negli occhi l’umiltà della cultura, quella vera, che vale anche e soprattutto al di fuori del tempo. Nel cuore il ricordo vivissimo di Leonardo Sciascia (1921-1989), l’amico, la guida nella e per la vita. Consolo ne parla spesso. Ricorda i loro momenti, le giornate di primavera passate alla Noce, la casa di campagna poco fuori Racalmuto (Ag), città natale dello scrittore scomparso.

In qualche modo anche per questa intervista siamo a casa sua: alla Fondazione Sciascia; in molte delle foto appese i due amici sono insieme. L’occasione è quella del Premio Parnaso (direttore artistico Piero Nicosia), manifestazione di teatro, cinema e letteratura organizzata da Comune di Canicattì, Associazione culturale Kairos e Fondazione Sciascia, riproposto per la seconda volta nel proverbiale comune siciliano sul tema “Scherzare col fuoco, ovvero con il potere legittimo e illegittimo”.
Consolo è ospite d’onore. È contento di essere intervistato per Archeologia Viva: «Prima che faccia buio, però, vorrei fare visita alla tomba del mio maestro se non le dispiace».

Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello (Me) nel 1933. Dal 1968 vive e lavora a Milano, sua patria d’adozione. Romanziere e saggista, ha pubblicato numerose opere di narrativa ambientate soprattutto nella sua Sicilia. Ha vinto il Premio Pirandello per il romanzo Lunaria nel 1985, il Premio Grinzane Cavour per Retablo (1988), il Premio Strega (NottetempoCasa per casa, 1992) e il Premio Internazionale Unione Latina (L’olivo e l’olivastro, 1994). I suoi libri sono stati tradotti in francese, tedesco, inglese, spagnolo, portoghese, olandese, rumeno.

D: Nel suo Retablo è possibile rintracciare molto della Sicilia archeologica e delle civiltà che vi hanno lasciato segni importanti. Come nacque l’idea di quest’opera?

R: Il libro è sulla linea del Grand Tour e dei grandi viaggiatori del Settecento e Ottocento. Una tradizione che andò intensificandosi a partire da Goethe. Naturalmente questi viaggiatori eruopei avevano un’idea mitica della Sicilia. Solitamente s’imbarcavano a Napoli per Palermo, da dove iniziavano il loro giro passando dai siti archeologici del centrosud (Segesta, Selinunte, Agrigento, Siracusa, Catania), per poi giungere a Messina da dove tornavano in continente. Così lasciavano sempre scoperta la parte tirrenica settentrionale dell’isola, che è ricchissima d’interesse (e alla quale io appartengo!).

Ecco, il tour tipico era quello, alla ricerca della grecità e della classicità e, comunque, nell’ignoranza di ciò che era vermaente questa terra. Goethe quando arriva a Napoli scrive alla sua donna: «Vado in quella parte d’Africa che si chiama Sicilia…»; poi, però, al termine del suo “tour” afferma che «non si può comprendere l’Italia senza vedere la Sicilia che è la chiave di tutto, è qui che sono contenuti tutti i raggi della storia».

Fatalmente, i viaggiatori europei finivano per confrontarsi con la realtà. Al di là dei templi e dei teatri, oltre il mito, emergeva una Sicilia inedita condita dal barocco (che Goethe giudica letteralmente “osceno”), ma anche dalla società sciliana con tutte le sue contraddizioni. Dunque, questi viaggiatori venivano sì con in testa l’idea della Sicilia classica, ma se ne ripartivano con altre sensazioni.

C’era questa volontà esclusiva di visitare le rovine, ma poi evidentemente non si poteva fare a meno di osservare altri ruderi, quelli della società, con le sue distanze paurose. Soprattutto nelle grandi città, per esempio a Palermo, era macrospopico il fasto delle residenze nobiliari rapportato al degrado dei quartieri popolari. Inoltre, era impossibile non rendersi conto che in Sicilia la civiltà greca, l’Arcadia, era ormai lontana, cancellata prima di tutto dalla dominazione romana, poi dai bizantini, con le loro devastazioni. Quelli furono momenti duri, infelici per la mia terra. Basta leggere le Verrine di Cicerone. E la desertificazione… L’isola divenne il granaio d’Italia, ma le foreste scomparvero, tagliate per coltivare frumento e costruire navi. […]

Archeologia Viva n. 116 – marzo/aprile 2006
pp. 80-82

Vincenzo Consolo, a Segesta estate 2005

Teriomorfismo e malinconia Una storia notturna della Sicilia: Nottetempo, casa per casa di Consolo Rossend Arqués

copertina-nottetempo

 

Quaderns d’Italià 10, 2005 79-94

Teriomorfismo e malinconia Una storia notturna della Sicilia:
Nottetempo, casa per casa di Consolo

Rossend Arqués

Universitat Autònoma de Barcelona

Abstract

L’articolo vuol essere una lettura di Nottetempo, casa per casa che prende spunto dall’analisi del sostrato mitico e iconografico delle rappresentazioni teriomorfiche più importanti del romanzo (il «luponario» e il «caprone») per sottolineare il cammino del protagonista dall’afasia animale e malinconica in cui è immersa la sua famiglia, e lui stesso, all’accesso al linguaggio accompagnato dalla presa di coscienza della decadenza della società siciliana che coincide anche con il suo esilio. Parda chiavi: Vincenzo Consolo, licantropia, Pan, malinconia, letteratura siciliana.
Abstract

The article aims at providing a reading of Nottetempo, casa per casa, starting with the analysis of the mythological and iconographic substrata of the most significant theriomorphic representations within the novel (the «lycanthrope» and «goat») in order to emphasise the path taken by the protagonist from that animal, melancholy aphasia in  which he and his family are immersed, through to the access to language, accompanied by the growing awareness of the decadence of Sicilian society that also coincides with his exile.

Key words: Vincenzo Consolo, lychanthropy, Pan, melancholy, Sicilian literature.

  1. Nottetempo… all’interno del trittico consoliano
    La notte, la notte mitica, ha tutti gli elementi dell’incubo. Nottetempo, casa
    per casa (1992)1 nella trilogia che ha inizio con Il sorriso dell’ignoto marinaio
    (1976) e si conclude con Lo spasimo di Palermo (1998), occupa il secondo momento del periodo storico che Consolo ha dedicato alla Sicilia, il primo essendo il Risorgimento e gli anni che precedono l’assassinio del giudice Borsellino.
    2 Si tratta di un periodo della storia siciliana (siamo negli anni Venti),quello di Nottetempo, nero come le camicie dei fascisti che piano piano riempiono le piazze dei paesi e delle città d’Italia. Più concretamente, ci troviamo a Cefalú, già scenario de Il sorriso…3 Anni difficili, non solo per le vicende politiche, ma anche e soprattutto per quelle morali, come tanti altri della storia italiana. Consolo ha sempre agito come una memoria attenta e sensibile del passato che viene accostato agli avvenimenti più recenti di cui egli è testimone e interprete. In Nottetempo… Consolo stabilisce implicitamente un nesso tra l’Italia degli anni Venti e quella degli anni Settanta, così come nel Sorriso…tra il Risorgimento e gli anni Sessanta e nello Spasimo…tra gli anni 30 e l’inizio degli anni 90, con le morti di Falcone e Borsellino. Fasi storiche tutte segnate da successive cadute della società isolana e continentale in un pozzo senza uscita e senza possibilità di riemersione. «Traversare la Sicilia intera —scrive Consolo in un articolo intitolato «Paesaggio metafisico di una follia pietrificata »
    4 — , visitare quelle città e quei paesi un tempo vitali per umanità e cultura, carichi dunque, ancora fino a pochi anni addietro, di volontà e di speranza, luoghi che il moderno feticcio dell’accelerazione spasmodica, l’autostrada, ha tagliato fuori dallo spazio (…); visitare oggi Enna, Caltanissetta (…)più che accenderti furori, inutili ormai, ti infonde sconsolazione e pena. Sono paesi che si sono svuotati d’uomini e significato».5 Seguendo gli esempi di Manzoni, Verga e, soprattutto di Tomasi di Lampedusa e Sciascia, l’autore sceglie la formula narrativa del romanzo storico con questo obiettivo: collocare in figure, luoghi e trame del passato problemi e sentimenti del presente, che altrimenti risulterebbero non solo difficili da trattare ma addirittura pericolosi. Ne era ben conscio Calvino quando stabilì un parallelismo tra la narrazione realista e la Medusa. Per sfuggire allo sguardo pietrificante del mostro mitologico non resta nessun altro modo che osservare   la realtà attraverso la corazza-specchio di Perseo. La narrazione storica di Consolo ha questa funzione di corazza-specchio: proprio allontanandosi dal presente, essa è in grado di coglierlo, analizzarlo e giudicarlo, mentre riesce contemporaneamente a immergersi con spirito critico e analitico nel momento storico preso di volta in volta in esame, senza mai tralasciare la dimensione del mito nelle sue diverse sfaccettature, soprattutto di quei miti arcaici che hanno dato essenza e forma alla natura umana e morfologica della terra di Sicilia Come lo stesso Consolo ha dichiarato in «Le interviste d’Italialibri» 2001, anche se molte altre sue opere percorrono episodi ed eventi dell’isola: quello greco (Le pietre di Pantalica), quello dominato dagli spagnoli (Lunaria), quello illuministico (Retablo), ecc.«E Cefalù è stata un approdo, un luogo d’elezione e di passione. Perché Cefalù e non Palermo? Cefalù perché microcosmo, antifona di quel gran mondo che è Palermo […]. Io ho scelto Cafalù. Sono piccoli mondi così ricchi dentro il cui viaggio, la scoperta può non finire mai.» «La corona e le armi», Giornale di Sicilia, 14 marzo 1981.Pubblicato il 19 ottobre 1977 su Il Corriere della sera, cit. da Francesco GIOVIALE, «L’isola senza licantropi», in Id., Scrivere la Sicilia. Vittorini e oltre, Siracusa: Ediprint, 1983, p. 165-176.Lo stesso messaggio possiamo trovarlo in altri articoli e testi suoi. Citiamo a mo’ di esempio «La cultura siciliana è tramontata per sempre», L’Ora, 31 maggio 1982 e «Flauti di reggia o fischi di treno?», Il Messaggero, 19 luglio 1982. lia. Una narrazione storica, cioè, rivolta programmaticamente a evitare ognirealismo politico e storico, e alla ricerca di un nuova lingua letteraria capace di unire, condensare e quindi conservare fuse tra loro tutte quelle tracce. Di questo aveva già parlato Giovanardi in una sua bellissima recensione a Nottetempo…in cui sostiene che piú che a una storia questo romanzo sembra dar vita a una contrapposizione tra due diversi modelli di vita e di cultura, due modelli antropologici da sempre compresenti nello spazio insulare,6 e cioè la cinica accettazione dell’esistente e il pervicace ricorso alla fantasia come fuga dalla realtà.
    7 Ciò detto, però, non si può dimenticare che lo stesso Consolo ha insistito piú volte sulle fratture prodottesi nel tessuto sociale, ambientale e antropologico insulare in periodi concreti della storia siciliana piú recente (si veda a questo proposito il citato articolo Paesaggio metafisico… in un punto del quale leggiamo: «È il paesaggio della nuova umanità siciliana, uguale ormai, per perdita di cultura e di identità, alle altre realtà regionali italiane nate dallo squallore consumistico degli anni del cosiddetto boom economico»).
    8 Per stabilire fin dall’inizio la metodologia di questo mio lavoro, devo informare che la mia lettura di Nottetempo… parte dalle teorie analitiche junghiane e, in particolar modo, di quelle di Hillman, non perché io abbia una particolare predilezione per questo approccio critico, ma perché credo che effettivamente questo testo narrativo, come gran parte dell’opera consoliana, trovi spunto nell’universo degli archetipi di derivazione junghiana.
    9 Stefano GIOVANARDI, «Dalla follia alla scrittura», in La Repubblica, 25 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 152]. Si vedano anche Giulio FERRONI, «Bestie trionfanti», in L’Unità, 27 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 153-157]; Francesco GIOVIALE, «L’isola senza licantropi», in Id., Scrivere la Sicilia. Vittorini e oltre, Siracusa: Ediprint, 1983, p. 168; Francesco GIOVIALE, op. cit., p. 168; Lorenzo MONDO, «Invasati e dolenti», in La Stampa, 4 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 147-148]; Attilio SCUDERI, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna:

Il Lunario, 1997; Giuseppe TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole: Cadmo, 2001.

  1. L’autore stesso in un articolo del 1986 intitolato «Sirene siciliane» (ora in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 2001, p. 175-181), tenta di dividere la letteratura siciliana in due grandi rami: «occidentale e orientale, storico e esistenziale, poetico-lirico e prosaico, mitico e razionale, simbolico e metaforico», con tutti gli spostamenti e le contraddizioni del caso, fino ad ipotizzare una letteratura siciliana che riesca a fondere i due mondi: «E poi a me sembra di aver capito che tu, come capita ad alcuni siciliani della specie migliore, sei riuscito a compiere la sintesi di sensi e di ragione — dice La Ciura a Corbera» [i due personaggi del racconto Lighea di Tommasi di Lampedusa]. Quella sintesi che lui stesso tenterà in Nottetempo…, se non in tutta la sua opera.
  1. Un argomento simile si legge nell’articolo di Vincezo CONSOLO, «La cultura siciliana è tramontata per sempre», pubblicato su L’Ora (31 maggio 1982): «Con la seconda rivoluzione industriale, con la rivoluzione tecnologica, con i movimenti umani avvenuti nel nostro Paese in questi ultimi trent’anni, con i cambiamenti antropologici che questi movimenti hanno comportato, sono finite le culture locali, quelle che avevano una loro precisa individualità, una loro storia, una loro realtà «realtà». La cultura siciliana secondo me è tramontata».
  1. L’influsso hillmaniano è accertato. Lo stesso Consolo mi ha informato che un suo amico, Giovanni Reale, analista e filosofo junghiano, l’aveva introdotto a questo tipo di letture, tra cui c’erano anche alcuni libri di HILLMAN di cui qui mi preme sottolineare in particolarmodo, Saggio su Pan, Animali del sogno e Il sogno e il mondo infero. In un articolo intitola
    2. Licantropia: dolore e cosciencia
    Di che notte si tratta e quali sono le creature che vivono quella pittura notturna
    dominata dalla animalità e dal teriomorfismo? Passiamo ad analizzare,
    dunque, dettagliatamente e in profondità le diverse facce della bestialità e le
    funzioni che esse hanno nel testo oggetto della nostra attenzione. Non avrebbe
    senso, infatti, ridurre a una sola tutte le forme di animalità presenti nell’opera,
    omettendo di mettere in luce le differenze morfologiche e mitologiche di ciascuna di loro.
    10 Il romanzo ha inizio con la descrizione di un notturno lunare dominato
    da un uomo in pieno delirio, il cui terribile ululato squarcia il silenzio delle
    tenebre. Dietro a lui vaga attenta e angosciata un’altra figura, che in seguito sapremo essere il figlio, vero protagonista del romanzo. Il licantropo è Marano
    (il cognome derivato dallo spagnolo marrano ci dice delle sue origini di ebreo convertito a forza), padre di Pietro, vedovo. Il suo dolore straziante, insieme a quello di tutta la sua famiglia, è causato sia dal lutto per la perdita della sposa, sia dalla «memoria genetica» della violenza subita dagli antenati ebrei obbligati a cambiare cultura e religione,11 sia dall’ascesa sociale che lui e la sua famiglia hanno recentemente sperimentato grazie all’eredità lasciatagli da un eccentrico possidente locale, una specie di libertario tolstoiano che ha voluto beneficare la famiglia Marano al posto del suo legittimo erede, il nipote imbecille. Questo cambio repentino e non voluto di classe sociale sarà responsabile di una specie di schizofrenia comportamentale, almeno per quei personaggi femminili che si sentono obbligati a osservare scrupolosamente le regole sociali della piccola borghesia, per quanto diverse da quelle in cui sono nati e cresciuti.
    12 Un chiaro esempio di questo ci è offerto dal rifiuto di Lucia non solo di accettare ma neppure di ascoltare la dichiarazione d’amore di Janu, il capraio e amico d’infanzia, ora considerato solo un puzzolente pezzente. La famiglia Marano corrisponde a un catalogo di figure malinconiche, a una «follia dai molti volti», come scrive Segre.
    13 Serafina, la sorella maggiore di Pietro, rappresenta l’immagine stessa della fenomenologia depressiva che la porta all’immobilità corporale, alla pietrificazione autistica o alla schizoto «Sirene siciliane» (ora in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, cit., p. 175-181) che prende spunto dal racconto Lighea, di Tomasi di Lampedusa, per parlare di altre sirene siciliane, tra cui Giovanni Reale, leggiamo (p. 181): «Se è vero, come sostiene Hilmann, che la pratica analitica non è altro che poiesis, quella di Reale lo è pienamente». Come fa, invece, Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa», in Enzo PAPA (a cura di), Per Vincenzo Consolo, San Cesario di Lecce: Manni, 2004, p. 23-58, che considera l’intero testo di Nottetempo… solo dal punto di vista della licantropia, senza avvertire la dialettica tra questa forma di animalità e le altre forme di trasformazione umana in bestia che sono presenti nello stesso testo consoliano.
  1. «Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ànsime, malinconie, rimorsi dentro le vene» — si legge a p. 42.Come chiarisce Vincenzo CONSOLO in «Le interviste d’Italialibri» 2001. Cesare SEGRE, «Una provvisoria catarsi», in Corriere della sera, 19 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 150]. frenia catatonica,14 così come ci è stata rappresentata iconograficamente nei secoli.
    15 La figlia minore, Lucia, invece, psichicamente alterata dal nuovo status della sua famiglia, è affetta da una psicosi maniaco-depressiva, in preda, com’è, a un continuo delirio paranoico.16 Parleremo di Pietro in seguito, dedicandogli più ampio spazio, per adesso occupiamoci del padre e del suo male «siciliano», come lo definisce Cervantes nel Persiles (I, 18).17 Non c’è dubbio che la descrizione cervantina, lasciando da parte il particolare del movimento in gruppo («en manada») dei lupi, è presente sia nell’immaginario narrativo di Mal di luna di Pirandello18 che nel testo di Consolo, pur con la presenza in entrambi dell’elemento lunare,19 assente, invece, in Cervantes. Colpisce, «E Serafina, ch’aveva preso il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni giorno, immmobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza soste.» — si legge a 42. Per una tassonomia attuale di questa malattia depressiva si veda Eugenio BORGNA, Malinconia, Milano:Feltrinelli, 1992 e Marie-Claude LAMBOTTE, Esthétique de la mélancolie, Paris: Aubier, 1984.Quest’ultima vede nell’inibizione il tratto più significativo della malinconia moderna.Ricordiamo qui le incisioni del Maestro F. B. (Franz Brun?) (1560), A. Janssens (1623),Feti (1614) o C. Friedrich (1818), si veda Raymond KLIBANSKY, Erwin PANOFSKY, Fritz SAXL, Saturno e la malinconia, Torino: Einaudi, 1983.
  1. Il narratore ci parla della sua malattia a p. 45-48, da dove prendiamo le seguenti frasi: «Lei era innocente, immacolata come la bella madre. E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla toletta a pettinarsi» (…) Finché un giorno, un mezzogiorno (…) non si mise a urlare disperata sul balcone, a dire che dappertutto, dietro gli ulivi le rocce il muro la torre le sipale, c’eran uomini nascosti che volevano rapirla, farla perdere, rovinare (…) «Mi parlano, mi parlano!» diceva stringendo la testa fra le mani». «Nell’orecchio, nel cervello, vigliacchi!’e torbidi erano i suoi occhi, più neri nel pallore della faccia.». Per una tassonomia moderna della sua delirante afezione psicotico-paranoica si veda Eugenio BORGNA, Op. cit.«Lo que se ha de entender desto de convertirse en lobos es que hay una enfermedad, a quienlos médicos llaman manía lupina, que es de calidad que, al que la padece, le parece que sehaya convertido en lobo, y se junta con otros heridos del mismo mal, y andan en manadaspor los campos y por los montes, ladrando ya como perros o ya aullando como lobos; despedazanlos árboles, matan a quien encuentran y comen la carne cruda de los muertos, y hoy día sé yo que hay en la isla de Sicilia (que es la mayor del Mediterráneo) gentes deste género,a quienes los sicilianos laman lobos menar, los cuales, antes que les dé tan pestífera enfermedadlo sienten y dicen a los que están junto a ellos que se aparten y huyan dellos, o que losaten o encierren, porque si no se guardan, los hacen pedazos a bocados y los desmenuzan,si pueden, con las uñas, dando terribles y espantosos ladridos.», Miguel de CERVANTES, Lostrabajos de Persiles y Sigismunda, ed. di Carlos Romero, Madrid: Cátedra, 2002, p. 244. D’altronde l’autore del Quijote poco si allontana dalla iconografia tradizionale dell’uomo lupo, così come è attestata nel Licaone di Pausania o di Ovidio. Si veda Paola MICOZZI, «Tradición literaria y creencia popular: el tema del licántropo en Los trabajos de Persiles y Segismunda de Cervantes», Quaderni di filologia e lingue romanze, III serie, n. 6, 1991, p. 107-152.Luigi PIRANDELLO, «Mal di luna», in Novelle per un anno, vol. II, t. I, a cura di M. Costanzo,Introduzione di G. Macchia, Milano: Mondadori, 1987, p. 486-495.La presenza della luna, invece, diventa elemento costante e ricorrente in particolar modo a partire dal XIII secolo, anche se nel Satyricon di Petronio era già stata descritta una metamorfosi lupina al chiaro di luna. Si vedano Gaël MILIN, Le chiens de Dieu, Centre de Recherche Bretonne et Celtique, 1993 (trad. it. El licantropo, un superuomo?, a cura di Jose Vincenzo Molle, Genova: ELCIG, 1997: p. 60-64) e P. MENARD, Les lais de Marie de France, París:P.U.F., 1979. In quest’ultimo leggiamo a p. 222-223. «So bene — scrive Gervasio di Tilbury al capitolo CXX (De hominibus qui fuerunt lupi) della terza parte degli Otia — che nel in merito a questo, la supplica che il malato dirige ai familiari di allontanarsi da lui quando arriverà l’attacco del male. Inoltre è importante qui sottolineare che il male della licantropia20 viene attribuito da Cervantes alla terra siciliana, 21 e abbiamo già visto che Consolo nel citato articolo Paesaggio metafisico…dichiara che l’identità arcaica dell’isola risiede appunto nell’esistenza di forme di bestialità terrorifica: nostro paese càpita ogni giorno che certe persone siano mutate in lupo sotto l’influsso delle lunazioni (per lunationes mutantur in lupus)». Con il corpo coperto di pelo, l’infermo correva per i boschi, in preda al delirio, celandosi allo sguardo altrui e attaccando ferocemente persone o animali con cui s’imbatteva. Passata che era la crisi, la persona malridotta, di solito un uomo (è una malattia prettamente maschile, per quanto ci siano versione femminili di trasformazioni zoomorfe, come la donna-pantera), tornava in sé dimentico dell’attacco di follia. Questa versione del problema ha alimentato molta letteratura scritta e cinematografica, fino al punto che Boris Vian (Le loup-garou) ne fece una versione inversa, il lupo che si trasforma in uomo, cioè, il lupo-uomo. Chiamati anche ulfhednar (uomini vestiti di pelli di lupo), i lupi mannari facevano parte tranquillamente delle truppe delle antiche popolazioni germaniche e scandinave in quanto eccezionali combattenti. La licantropia (dal greco lykos, lupo, e anthropos, uomo), cioè la trasformazione di un uomo in «lupo mannaro», il «luponario», per effetto di una forza malvagia o di uno spirito animale capace d’impossessarsi di un essere umano e agire attraverso di lui, non solo ha riempito leggende e storie di tutto il mondo, ma è stata da alcuni considerata una vera e propria infermità mentale. Una malattia che portava a chi la soffriva ad assumere l’aspetto di un lupo, almeno per un periodo di tempo non troppo lungo, coincidente il più delle volte con il plenilunio. Si veda Gabriele CHIARI, «Il lupo mannaro», in Lützenchirchen, Mal di luna, Roma: Newton Compton, 1981, p. 57-81; J.A. MAC CULLOCH, «Lycanthropy», in J. HASTING (a cura di), Enciclopedy of Religion and Ethics, tomo VIII,206-220; Gaël MILIN, Op. cit. e Ermanno PACAGNINI, «Uno sguardo amaro e memoriale», in Il Sole-24 ore, 5 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 148-149];P. BLUM, The Bordeline Childhood of the Wolf-Man, in Freud and his patients, a cura di Kanzer e J. Glenn, II, New York-London, 1980, p. 341-58; S. CAMPANELLA, Mal di luna e d’altro, Roma: Bonacci, 1986; Gilbert DURAND, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Paris, Bordas, 1969; M. GARDINER (a cura di), The Wolf-Man by the Wolf-Man, New York, 1971; Carlo GINZBURG, «Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari», in Id, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino: Einaudi, 1992, p. 239-251; F. HAMEL, Human animals, Wellingborough: The Aquarian Press, 1973; Th. LESSING, Haarmann. Storia del lupo mannaro, trad. it. Milano: Adelphi, 1996; Guglielmo LÜTZENKIRCHEN et alt., Mal di luna, con un saggio introduttivo di Alfonso M. Di Nola, prefazione di Nando Agostinelli, Roma: Newton Compton editori, 1981; R. VALENTI PAGNINI, «Lupus in fabula. Trasformazioni narrative di un mito», in Bolletino di studi latini, n. 11, 1981, p. 3-22. Ringrazio l’amico Giosuè Lachin, esperto in luponari, l’arricchimento della mia biblioteca sull’argomento. Carlos ROMERO (en su edición de Miguel de Cervantes, Los trabajos de Persiles…, cit, 244-245) commenta a nota 15 de la p. 244: «[Cervantes] tendría oído y memoria suficiente para recordar un termino siciliano, aunque no privativo, desde luego, «de la mayor isla del Mediterráneo», en la que — no lo olvidemos — vivió bastantes meses y pudo tenerefectivo conocimiento de casos de licantropía o manía lupina. En DEI, art. lupomannaro, se lee: «V[oce] di orig. merid., che raggiunge la Sicilia, cfr. abr.[uzzese], lopëmënarë, dal molfett[ano] lëpòmërë, cal[abrese] sett. lëpuómmërë, dal la.t. regionale lupus homines (…) Si error de transcripción sigue habiendo, por parte de C., es ahora mínimo — y comprensible dada la ardua fonética de los dialectos del sur de Italia.» Io penso, invece, che l’etimologia di «luponario» provvenga dal latino lupus hominarius. Un urlo bestiale rompeva il silenzio nella notte di luna piena. Ed era uno svegliarsi, un origliare dietro le porte serrate, uno spiare dietro le finestre socchiuse, un porsi in salvo al centro dei crocicchi o impugnare la lama per ferire alla fronte e far sgorgare gocce di nero sangue. Il licantropo s’aggirava per l’abitato, a quattro zampe, ululando, grattando, le porte, con le sue unghie adunche. Il lupo mannaro era l’incubo, lo spavento notturno, nella vecchia cultura contadina, carico di male e malefizio, contro il quale opponeva crudeli gesti esorcistici. La rappresentazione del licantropo che ulula alla luna all’inizio della narrazione consoliana non lascia indifferenti. La metafora dell’uomo lupo ci parla del dolore straziante di alcuni esseri umani — forse anche dell’intera umanità intesa come singoli individui, famiglie o intere società — contro i quali il destino si è accanito da decenni, se non addirittura da secoli, sotto forma di sfruttamento,depredazione, violenza fisica e morale. Condizione aggravata, nel caso dei Marano e della società siciliana degli anni Venti, dall’avvento del capitalismo selvaggio e soffocante e dall’ascesa del fascismo. La metafora dell’uomo lupo ci parla ancora dell’impossibilità di reagire da parte delle vittime di tale accanimento, se non attraverso la pazzia (di Lucia), la metamorfosi e le urla bestiali (di Marano padre) o il silenzio (del protagonista, Pietro, e di sua sorella Serafina). La licantropia di Marano padre si pone al di là della densità mistica e folclorica della licantropia e del licantropo in generale, già studiata da alcuni autori. C’è infatti in essa una eco di afflizione amorosa che ricorda l’acme dello stato di malinconia d’amore, descritta dal medico catalano Arnau di Vilanova, e da lui denominata cicubus, nel De parte operativa (1271). Tra i sintomi del male non vi è soltanto l’orrore e l’odio irrazionale per la società, ma la convinzione di essere «galli, lupi, cani, vasi di vetro, o di avere la testa di vetro o persino di essere senza testa o anche morti».22

Anche il lessico e il ritmo poetico del primo capitolo ci ricordano i poeti lunari che sono, per sua stessa ammissione, i preferiti di Consolo e che non a caso formano con le loro opere la biblioteca ereditata dalla familia Marano e quella privata di Pietro. Penso in particolare a Leopardi (ma riferendoci all’autore, dovremmo citare anche Lucio Piccolo) i cui idilli notturni sono l’ipotesto di alcuni dei momenti di altissima poesia delle descrizioni di questa parte. Basti un esempio: «Nelle solinghe case sopra il colle, scossi nel pietoso sonno del ristoro, credettero ai passi di mali cristiani, ladri o sderegnati che la notte e il vuoto covrono e incorano». Alla base di questo nucleo narrativo-descrittivo c’è dunque la rappresentazione del malessere dell’umanità o almeno, di quella parte di essa, vittima di soprusi sociali, senza però mai perdere di vista i riferimenti di tipo mitico e archetipico. Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 85 «Alienatio, quam concomitatur horror, vel odium irrationabile sive immoderatum, et frequenter haec species manifestatur in errore societatis humanae, vel cuiuscumque individui humani (…) Verbi gratia: de melancholicis, utrum aestiment se gallos esse, vel lupos, aut canes, etc. vel utrum esse vitrea vasa, vel caput vitreum, aut non habere caput: et sic de membris aliis: aut se esse mortuos, et non debere comedere.» Tenendo ben presente questi due ultimi aspetti, a questo punto dell’analisi emerge prepotentemente la tipologia bestiale di Pan, il grande caprone, figura mitica e archetipica, contrapposta per morfologia e comportamento al luponario che, con le sue zanne e in solitudine, è costretto a vivere il suo calvario lunare. A Pan è dedicata qui di seguito una particolare attenzione. Janu o il ritorno e la nuova morte di Pan «Jeli, lui, non pativa di quelle malinconie», scrive Verga parlando del pastore protagonista della novella omonima.23 E si potrebbe sostituire «Jeli» per «Janu», tale è il collegamento tra il personaggio verghiano e quello di Consolo. Janu, però, è molto di più. Si tratta, innanzi tutto, di uno dei personaggi principali e dei più simbolici della narrazione, visto che le sue vicende occupano gran parte del testo, senza le quali non avremmo diegesi. Egli, come Jeli, è figlio, fratello, amante degli animali con cui vive. Entrambi i protagonisti delle  ispettive

narrazioni sono anche i pastori che, tra le altre cose, iniziano i giovani figli di famiglia agiata alla conoscenza della natura: Petro (e anche sua sorella Lucia), nel romanzo oggetto di questa analisi. Anzi, l’iniziazione sessuale di Petro, a imitazione dello stesso Janu, avviene con le capre en plein air. Petro aveva imparato tuttto dalla mandra (…). Avanti Janu, che aveva più di Petro un paio d’anni. E l’aiutò per questo, là alla mandra, a provare una volta con la capra. «Io la tengo,» disse «sta’ sicuro che non guardo… «Meglio che niente, è cosa naturale…» Una capra lui stesso, Janu («la faccia lunga come quella di una capra»), non proprio incarnazione del dio Pan, ma certo di uno dei suoi fauni. Janu, inoltre, ha un nome che denuncia l’ambivalenza della sua condotta. Giano è infatti il nome del dio bifronte che annuncia i transiti dal passato al futuro e i cambiamenti da una condizione a un’altra. Janu nel racconto è il protagonista principale del passaggio da un mondo nel quale il mito è vissuto ancora in forma pressocché «naturale», con i suoi riti e rappresentazioni cicliche, a un mondo in cui, invece, il mito è forzato a rinascere imparentato con il diavolo o, meglio detto, trasformato nello stesso Satana. Janu è sì la divinità panica («Piace your divine prick, a real satyr’ tool. This sicilian caprone entrare in nostro ovile… Vene, prego, a nostro Tempio, a villa di La pace, all’Abbèi de Thelèm», dice Cronwell, p. 80) che Aleister Crowley — la Grande Bestia 666, to mega therion— cercava negli antenati dell’isola dei satiri, ma anche la vittima propiziatoria del nuovo culto al dio Pan nella sua versione decadente di stregone o diavolo, propria dei costrutti mitici delle contemporane teorie della liberazione. Ma Pan è morto ormai da tempo e il suo ritorno non dipende da Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 86
23Cit. da Giovanni VERGA, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano: Mondadori, 1979,137-172. queste forme superficiali e decadenti di rievocazione mitica, tutte intrise come sono di erotismo sadomasochista e pertanto non soltanto incapaci di guarire, ma al contrario, buone solo ad ammorbare corpo e anima. Il mito della morte di Pan (Pan, le Grand Pan, est mort) già ascoltato nella tarda antichità, indica che la natura ha finito di parlarci e che tutto è reificato, cessando di essere divinità e diventando semplicemente cosa.24 La morte di questo dio che distrugge e insieme preserva, annuncia la scomparsa della società.25 Per questo, il povero Janu, oltre a prendersi una malattia venerea, viene accusato di abigeato. Il dio Pan, il caprone divino, è stato degradato a puro pastore, anzi, a mera capra. Janu è, nella sua ingenuità, un essere ambiguo, senza alcuna malizia, puro istinto («restò solo nel rifugio della mandra. Privo di pensiero, di volere», p. 71). Nella sua degradazione senza pensiero, Janu coincide pienamente con l’immagine di Pan che il nuovo ordine ideologico insegue per i propri sfoghi falsamente liberatori. Ciò appare chiaramente nella scena dell’orgia panica nella quale Janu, il divine prick (il Pan redivivo), rischia di mancare al suo compito, quando, in piena performance priapica, non riesce a raggiungere l’erezione per penetrare la Cortigiana del Mondo. L’impasse è risolta, insieme alla sensazione di ridicolo che Janu vive, grazie alla cocaina. Tra i partecipanti all’orgia si trova anche il dannunziano Baron Cicio, nemico giurato dei Marano, oltre ad altri seguaci delle diverse manifestazioni dell’irrazionalità dell’epoca. Le quali manifestazioni confluiscono poi nell’ideale fascista e negli ambienti fascisti trovarono anche stimoli rappresentati dalle nuove mode, come l’ostentazione di marche e di marchingegni d’oltralpe (che hanno nella Targa Florio il suo acme), lo snobbismo e la violenza cieca. Arrivati a questo punto è evidente lo scontro tra due atteggiamenti contrapposti da ogni punto di vista (antropologico, culturale, ideologico, morale e persino mitico) che si concretizza nella descrizione delle due opposte biblioteche (chiaro riferimento alle biblioteche del Fu Mattia Pascal): quella di Mandralisca, cioè del defunto Michele, «zio» di Pietro Marano, e quella del suo avversario, don Nenè Cicio, patrizio di Cefalù. Quest’ultima un coacervo di tradizioni locali, cinismo, volgarità intellettuale e edonismo dannunziano e decadente, quanto la prima è «esercizio ostinato e appassionato della fantasia», fuga della mente verso altre realtà, con la presenza di grandi autori, tra cui brillano in modo particolare Leopardi, Dante, Pascoli, accanto a Tolstoi e Hugo.
26 Scrittori che alla fine del romanzo Petro contrapporrà anche alla letteratura
politica e ai poeti e letterati realisti e dialettali. Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 87 James HILLMAN, Saggio su Pan, Milano: Adelphi, 1977. «La société tombe en dissolution. Le riche se clôt dans son égoïsme et cache à la clarté du jour le fruit de sa corruption; le serviteur improbe et lâche conspire contre le maître; l’homme de loi, doutant de la justice, n’en comprend ples les maximes; le prêtre n’opère plus de conversions, il se fait séducteur; le prince a pris pour sceptre la clef d’or, et le peuple, l’âme désespérée, l’intelligence assombrie, médite et se tait. Pan est mort, la societé est arrivé au bas» — scrive Proudhon, cit in Jean CHEVALIER— Alain GHEERBRANT, Dictionaire des symboles, Paris, Robert Laffont, 1969, p. 724.

  1. Stefano GIOVANARDI, op. cit., p. 152.
    «Ora — leggiamo in Nottetempo… — sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nella insania. E corrompeva il linguaggio, strancangiava le parole, il senso loro — il pane si faceva pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senso sonno…» (p. 140). L’oltraggio e le sue diverse forme, insieme alle svariate reazioni ad esso, è il grande tema di questo romanzo. E l’offesa che ha già colpito le persone (i Marano, Janu) fa scempio anche degli oggetti, come appare chiaramente nel capitolo intitolato «L’oltraggio», in cui degli sconosciuti penetrano in casa Marano per frantumare giare, rovesciare fusti, trafiggere otri. Il desolante spettacolo che lascia dietro di sé la furia devastatrice degli uomini non suggerisce al narratore né amare lamentazioni né veementi denunce contro gli «occulti» mandanti dello scempio, bensì una minuziosa descrizione del processo di realizzazione di un oggetto, una giara, che è stata vittima di tanta furia appunto: l’impasto di creta e acqua che l’artigiano plasma e modella, l’azione solidificatrice del fuoco a cui l’artigiano l’affida, gli asini che la trasportano per i mercati dell’isola e continentali. Dall’evocazione della materialità oltraggiata dell’oggetto scaturisce la spaccatura tra arcaicità e modernità. Tradizioni e geometrie di civiltà soccombono alla violenza cieca dei tempi moderni. In senso più lato è la spaccatura già annunciata simbolicamente dalla morte di Pan che nel romanzo acquista le fattezze di Janu. «Trapassa così l’ignaro pastorello dentro l’irrealtà, viene ridotto a maschera, figura, a bruto strumento di cerimonia» si legge nel capítulo «La calura» (p. 79).  Petro o la malinconia positiva E giungiamo finalmente a Petro, protagonista e a tratti voce narrante di Nottetempo…. Anche se la narrazione è a prima vista eterodiegetica, in realtà in molti punti, soprattutto per la focalizzazione costante e per le pause riflessive, risuona la voce di questo personaggio che diventa occhio e penna del narratore, e anche dello stesso autore, quando il romanzo lascia il posto all’autobiografia. Petro attraversa questa storia notturna della Sicilia con quella sua malinconia che lo porta alla fuga dall’isola, deluso dalla politica e dal suo linguaggio, ma destinato a trovare un approdo nella vera letteratura e nella nuova parola. Consideriamo in primo luogo il nome, Petro. Si tratta della variante semidotta e meridionale del nome latino Petrus, dovuta anche all’influsso del greco ecclesiastico. La pronuncia retroflessa della consonante dentale è un ulteriore marchio di sicilianità. Nella scelta del nome si potrebbe vedere un riferimento al Vangelo di Matteo, là dove Gesù consacra l’Evangelista capo della chiesa cristiana: «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia chiesa… e ti darò le chiavi del regno dei cieli». Non tralasciando questa metafora della fondazione che sta alla base del nome Petro e comunque al di là di qualsiasi riferimento ecclesiastico, non è da scartare che il nome alluda a un altro tipo di fondazione, quella dell’illuminazione conoscitiva, essa pure associata alla tradizione biblica. Petro, però, è qui soprattutto una specie di Sisifo, obbligato a vivere costantemente con la pietra addosso («’No, io non sopporto più, più dentro di me questo cotogno», lamentava Petro «sopra di me questo macigno!» e la sua voce sembrava vorticare per le pietre della torre», si legge a p. 37). Lo stesso peso che ha paralizzato Serafina, ha reso pazzo suo padre e sua sorella Lucia.27 Un dolore nato molto prima di lui e dei suoi famigliari («da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri.» p. 106), un freddo nell’anima, qualcosa che «era successo al tempo tangeloso dell’infanzia, una rottura, un taglio mai più rimediato» (p. 135), ripete la voce narrante poco prima dell’incontro di Petro con Grazia (non sfugga la grande valenza simbolica anche di questo nome proprio), la donna con cui egli tenta di «frantumare, con furia, senza posa, la pietra del dolore» (p. 135). Petro, dunque, si trova in una situazione opposta a quella dell’apostolo Pietro, perché la sua pietra è dentro di lui e su di essa si ergerà una più profonda conoscenza del mondo: pietra del dolore o della follia che non pietrifica ma che fonda un nuovo linguaggio che non lascia niente d’inesplorato (sentimenti, credenze arcaiche, gesti e volti, movimenti irrazionali e possibilità di redenzione). Forse per questo, all’inizio del capitolo «La torre», Petro che rappresenta la propria dimora come «casa della dolora, patimento, casa dell’innocenza», rifiuta la visione di Dio che gli è sopraggiunta.
    28 Non c’è dubbio che, in questo senso, l’opera è anche un romanzo di iniziazione a un tipo concreto di saggezza, quella letteraria e linguistica che passa, comunque, per la comprensione generale e particolare dell’umano (casa per casa, appunto). Basta leggere, a questo proposito, un frammento del capitolo «Pasqua delle rose»: «Dal piano di essa [la Rocca], da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, le famiglie dentro, padre figli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità d’intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri». Essendo dunque la scrittura e il linguaggio il fulcro del romanzo, è fondamentale seguire con speciale attenzione le tappe attraverso le quali Petro vi accede: dall’impotenza di esprimersi iniziale all’epifania finale. Quasi tutto il capitolo «La torre» gira intorno allo sforzo del protagonista di lasciarsi dietro l’afasia, il grido, l’ululato (anche lui licantropo, in preda al «male catubo»), per appropriarsi finalmente dei nomi («rinominare, ricreare il mondo», p. 39) e con essi del senso, dato che a lui è concesso di non inabbissarsi completamente nella follia, di poter ancora tornare indietro. La luce della candela che compare in queste pagine è metafora della possibilità, non ancora solidamente fondata: sem-Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 89
  1. E che ha petrificato, se vogliamo, la stessa Sicilia, come Consolo non manca di ripetere ponendo particolare enfasi sulla metáfora della «petrificazione». «’No, no!… Non voglio!’ e sventagliò le mani per frantumare, fugare quell’immagine, l’immenso dio di tessere che invadeva il cato della fortezza del suo Duomo». Vale a dire il pantocrator del mosaici della cattedrale di Cefalù. plicemente «un lume, nella bufera». Questo stesso capitolo registra il tentativo frustrato di accesso alla scrittura: E nella torre ora, dopo le urla, il pianto, anch’egli, stanco, s’era chetato. Si mise in ginocchio a terra, appoggiò le braccia alla pietra bianca della macina riversa di quello ch’era stato un tempo un mulino a vento, e cercò di scrivere nel suo quaderno — ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento (p. 53). A questa straziante dichiarazione d’impotenza segue, alcune pagine più avanti (nel capitolo «Il capretto»), quella della descrizione di una catabasi, una discesa, accompagnata inizialmente dal «chiaror di una lanterna»,
    29 dentro «i sotterranei del tempio diruto della Rocca», ma, in realtà, nei luoghi della memoria mitica e materiale dell’isola. Qui ha luogo «un passo nel silenzio»,
    come dice il narratore alla fine di questa scena, vale a dire «un passo all’interno
    del silenzio e al fine di uscirne». È questo un momento centrale: assistiamo a
    un inabissamento in una «zona incerta» della memoria che recupera assenze,
    mondi arcaici, miti e età sepolte; negli «spazi inusitati» illuminati da «una luce labile» ma «nuova», grazie alla quale sembra ancora ipotizzabile la narrazione, per quanto fatta di «frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie». Il narratore, a un certo punto, ricorda, quasi con le parole di Petro, il momento in cui in un passato imprecisato scoprì l’angelo, assorto e fermo, il cui attento sguardo di accecante luce, enuncia enigmi, misteri ed è «preambolo d’ogni altro spettro». Quest’angelo che Petro dice di aver visto nei sotterrani della torre è, in realtà, uno dei bellissimi nunzi dei mosaici del Duomo di Cefalù,30 come risulta dalla descrizione: «Da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bruni, da strati sopra strati, chiazze, da scialbature lievi, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve». Ma quest’angelo collima con l’altro, lo Scriba, meno esternamente lucente, ma più illuminante internamente, dell’incisione Melencolia I di Dürer: «lo Scriba affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte o come il libro poggiato sui ginocchi. (…) È l’ora questa degli scoramenti, delle iner-Ricordiamo, a riprova dell’importanza di quest’immagine del lume, la sua ripresa in una sequenza di chiara ascendeza pascoliana: «Lo guardò Petro allontanarsi [al padre], dietro una finestra, l’altra [Lucia], trapassa, per le stanze un lume, palpita, s’è spento. L’assale l’infinita pena, lo sgomento, si smuove, spande il dolore che ristagna dentro». Inoltre Consolo aveva voluto inserire l’opera di un anonimo Maître de la Chandelle sulla copertina della prima edizione dell’opera. «È un lume che esprime una fede, e questa fede è la letteratura, l’unico antidoto alla pazzia», scrive FRANCHINI 1992: XII. I mosaici si trovano nell’abside e nella crociera. I primi raffigurano Cristo pantocratore a mezzo busto nel catino, la vergine orante fra i quattro arcangeli: Michele, Gabriele, Uriele, Raffaele nel registro inferiore e i dodici apostoli, raggruppati per sei nei due registri inferiori. Nelle vele della crociera, invece, hanno posto le figure dei serafini e dei herubini,questi ultimi accompagnati dalle figure degli angeli del Signore.
    zie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie
    perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia….(…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita.» (p. 65) Lo stesso Consolo ha confermato la fondatezza del rapporto tra il suo angelo e quello dureriano, per quanto alcuni particolari della descrizione non l’avallino; soprattutto il riferimento al volto bianco, poiché è noto che quello dell’angelo della malinconia è nero.31 A meno che non si voglia ritenere che alcune di queste divergenze appartengano alle zone d’intersezione tra le due immagini angeliche, se non addirittura a una vera e propria contaminazione fra le due iconografie il cui risultato sarebbe un lettura in positivo, un vero e proprio superamento, di quella dureriana. Il resto della descrizione dello «Scriba» «in bianca tunica» con il «il libro appoggiato sui ginocchi» nell’ «ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia » ci porta, invece, inesorabilmente alla citata acquaforte dell’incisore di Norimberga. Per non parlare della luce crepuscolare di per sé sufficiente elemento di collegamento fra le due immagini. Un crepuscolo, quello dell’incisione dureriana «magicamente illuminato — detto con parole degli studiosi tedeschi — dal chiarore di fenomeni celesti, che fanno sí che il mare nel fondo brilli di una fosforescenza, mentre il primo piano sembra illuminato da una luna alta nel cielo che proietta ombre profonde ». È una «doppia luce» (significato letterale di twilight, crepuscolo) altamente fantastica che domina tutta l’immagine, la quale non intende riprodurre le condizioni naturali di una data ora del giorno, ma alludere piuttosto al misterioso crepuscolo di uno spirito, che non riesce a cacciare i suoi pensieri nella tenebra, né a «portarli alla luce».32 Il contenuto concettuale di quest’immagine è doppio, come lo è chiaramente la rappresentazione della scena da parte del narratore consoliano («l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita »). È doppia anche la natura stessa di Crono o Saturno, dio del Tempo, dominatore dell’età dell’oro e divinità triste e detronizzata, generatore e divoratore contemporaneamente di tutto l’esistente; spirito maligno e dio antico e saggio dei malinconici, esseri divini e bestiali allo stesso tempo. Così come l’ambivalenza del verso di Ungaretti citato qualche volta da Consolo: «la notte nelle vene ti sveglierà». Tutti questi elementi iconografici dureriani (il libro, la geometria e gli oggetti di misura e calcolo), presenti persino in gran parte della tradizione iconografica della malinconia,33 rappresentano oggetti già predisposti alla scrittura, alla strutturazione dello spazio in linee e vettori, al calcolo, ma non ancora utilizzati, poiché l’attenzione del protagonista è previa all’azione, cioè tutta rivolta alle profondità della sua mente. La saggezza dei malinconici è figlia delle profondità. Ma ci vuole l’angelo della luce per passare a uno stadio superiore Si veda KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 272-273 y 300. KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 300.
  1. Walter BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, Torino: Einaudi, 1980, p. 145-161. Per quanto riguarda gli oggetti si veda KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 287-297. di linguaggio e conoscenza. Un angelo bianco che era stato annunciato pagine addietro dalla figura vestita di bianco di Lucia, sorella di Petro, quando questi la consegna al ricovero di malati mentali di Bàida (in arabo, bianco) in preda alle allucinazioni («Mi parlano, mi parlano»).34 È anche indubbio che nella scena narrativa a cui ci siamo dedicati vengono esplorate le rovine di quella Sicilia cantata in diversi luoghi delle Metamorfosi ovidiane e nell’Eneide di Virgilio (soprattutto nel libro III). A essi rimandano gli «abissi, i vuoti, il nulla che s’è aperto ai nostri occhi» dai quali emergono «frammenti, schegge», giacché per un istante il mondo lascia scorgere le sue profondità. Si tratta sicuramente di una scena importante per il suo legame con la malinconia generosa o positiva che è il fondamento psicologico di tutte le arti, la conditio sine qua non di ogni invenzione poetica; un fascio di luce intensissimo che fa risplendere le cose e l’esperienza che di esse abbiamo. 35 È lo sguardo fisso dell’Angelus novus con gli occhi spalancati, la bocca aperta e le ali dispiegate. «L’angelo della storia — scrive Benjamin nella Tesi IX delle note “Tesi della Filosofia della Storia”36— deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera.» La malinconia è dunque la dimensione dalla quale è possibile comprendere la profondità del mondo; è quindi il tentativo disperato di salvare le cose dal loro precipitare nelle fauci del tempus edax (Che non consumi tu Tempo vorace, ripete il narratore citando Ovidio). Scrive Benjamin in una pagina che amo citare e che qui mi sembra piuttosto pertinente: «La melancolia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.» La fuga di Petro è anche una fuga sia dal silenzio sia dal grido, per aprirsi finalmente alla possibilità di accedere alla parola. Se quella del padre, il luponario, era la fuga nella notte della ragione, nella nera irragionevolezza, nel grido della disperazione, quella di Petro può raggiungere finalmente l’espressione vera che rivela fino in fondo l’angoscia. La Tunisia, in cui approda Petro, è certamente un omaggio dell’autore a una delle prime destinazioni degli espatriati siciliani,37 ma è anche, e soprattutto, la prospettiva dalla quale, liberi dall’oppressione ambientale, si può finalmente guardare e capire la martoriata Sicilia, così come insegnano tanti grandi scrittori siciliani, quali Verga, Capuana, Vittorini che hanno potuto parlare della loro terra solo quando si trovavano lontano da essa. Il libro finisce come è cominciato, con un plenilunio che illumina il camposanto. Selene, però, non diffonde il suo distaccato candore sui passi disperati di un licantropo, ma è il lume amico che rischiara la strada, non dico verso la guarigione, ma verso un sapere che aiuti a capire il mondo; invece di accompagnare con fredda luce una delle sue creature condannate, ispira un futuro poeta, giacché la conoscenza è fulgore — folgorazione — lunare. Per giungere al punto in cui la luna è sole che illumina il mondo interiore del soggetto, è stato necessario passare attraverso il dolore e la disperazione, conoscere tutte le case e le cose, le pareti, le pietre; leggere tutti i libri, assistere alla degradazione bestiale di amici e nemici, alla degradazione delle tradizioni, dei costumi e dei miti, alla depravazione dei presunti liberatori dello spirito, alla violenza criminale dei fascisti, alla cieca ottusità dei millenaristi politici di qualsiasi specie («Petro costernato aveva visto ancora in quel vecchio la bestia indomita. La bestia dentro l’uomo che si scatena e insorge, trascina nel marasma. La bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze» — p. 170). Petro ha dovuto attraversare il silenzio e il grido: «Ma prima è l’inespresso, l’ermetico assoluto, il poema mai scritto, il verso mai detto. È il sibillino, il mùrmure del vento, frammento, oscuro logo, profezia dei recessi. È la ritrazione, l’afasia, l’impetramento la poesia più vera, è il silenzio. O l’urlo disumano» — si legge a p. 164, giusto prima che le parole e lo

    stile adeguati escano finalmente dalla penna, si stampino sulla pagina. Da qui deriva, per conseguenza, la critica sia del realismo che del decadentismo letterari. Un nuovo tipo di letteratura è necessario. Dalla catabasi, dal descensus nella memoria addolorata del mondo siciliano deve sorgere un nuovo stile che riunisca senza distinzioni gerarchiche tutti i livelli di realtà della  faro, p. 219: «Riprende l’emigrazione italiana nel Maghreb nei primi anni dell’Ottocento.
    È un’emigrazione questa volta intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia […]. A Tunisi s’era stabilita da tempo una nutrita colonia di imprenditori, commercianti, banchieri […]. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Trapani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno nelle coste maghrebine. // Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. […] Alla Goletta, a Tunisi, in varie città dell’interno, v’erano popolosi quartieri che erano chiamati «“Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. » È una storia troppo complessa, quella delle conseguenze che hanno avuto, in seguito, la guerra di Libia, il fascismo, la seconda guerra mondiale sulle comunità siciliane e italiane di Tunisia per poterla riassumere qua. Lo stesso Consolo rimanda al libro di Nullo Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia. storia. Non una narrazione lineare, ma una storia piena di tortuosità, a strati sovrapposti, con personaggi, sensazioni e sentimenti del presente, del passato prossimo e di quello più remoto, che attinge a miti a cui si rifanno i comportamenti, in una frantumazione caleidoscopica. Non una lingua standard, ma quella più vicina al punto dal quale sgorgano le emozioni, alla gola strozzata di chi sta per emettere un grido che, invece, si trasforma in una frase, mozza e imperfetta, ma già intelligibile; una lingua piena di terrori e di incertezze di chi si dibatte tra l’impossibilità dell’esprimersi e la necessità di parole, di storia, di narrazione.38 La verticalità poetica opposta alla piatta orizzontalità della lingua standard. L’enumerazione, il pastiche, il miscuglio formato da italiano, inversioni, iperbati) e una accozzaglia di termini siciliani, spesso impenetrabili per un lettore non isolano, non rispondono al gusto di un mero «edonismo linguistico», di un puro artificio, ma a una scelta linguistica concreta che obbedisce al mondo interiore di questo Figlio del Lupo, il Wölfing. Egli esprime il dolore e la rabbia con il nuovo linguaggio asformato la sua pietra del dolore, la sua tristezza abissale. L’identità Petro-narratore è, credo, la conseguenza logica di quello che abbiamo appena detto: la fine del romanzo coincide con il suo stesso inizio, vale a dire che la storia inizia quando la voce narrante può finalmente raccontare il suo travagliato accesso alla scrittura. Nottetempo… è dunque l’autobiografia di Petro Marano, il figlio del bastardo, il capro malinconico che ha attraversato il dolore, la storia notturna sua e del suo paese, la Sicilia.39 «Forme e funzioni del linguaggio», in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 15-29.per quanto essenziale per capire il valore del linguaggio con il quale entrambi tentano di recuperare Pan e l’irrazionalità dell’istinto, considerati parte della nostra stessa realtà. Non si tratta di un programma di recupero superficiale degli istinti, come quello ideato dal satanista Crowley, ma di riappropriarsi delle caverne di Pan e di Licaone come parte della nostra mente notturna. Se anche essa non potrà ridarci la salute, ci renderà comunque più chiaroveggenti.
    Le riflessioni di Massimo CACCIARI, L’Angelo necessario, Milano: Adelphi, 1986 sull’angelo nuovo hanno molti punti di contatto con questi nostri angeli, in particolar modo il capitolo II («Angelo e demone»), dove leggiamo: «Il paradiso è perduto per sempre cercato, ma la ricerca si svolge “sin luz para siempre”. Essi [gli angeli] inondano il quotidiano, la loro dimora non è più in nessun modo inseparabile dall’ aria che l’uomo respira». Si veda ancheJosé JIMÉNEZ, El ángel caído, Barcelona: Seix Barral, 1982.Eugenio BORGNA, Op. cit., 1992, P. 149 Walter BENJAMIN, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino: Einaudi, 1997.Come ci ricorda lo stesso Vincenzo CONSOLO in «Il ponte sul canale», ora in Di qua dalPer una ricerca più approfondita della lingua di Consolo, si veda Salvatore C. TROVATO,Invece l’identità Petro — Consolo è più complessa, e in un certo modo meno interessante,