* Quasimodo le chiama “Le isole dolci del Dio” e le guarda dal Tindari nella bellissima lirica intitolata “Vento a Tindari”. Per noi siciliani dell’isola grande, queste isole che avevamo di fronte, soprattutto per noi che abitavamo sulla costa settentrionale, erano delle isole da una parte fantasmatiche perché apparivano e sparivano a seconda del tempo, le nebbie o le calure estive, a volte sembravano vicinissime e dalla zona dove io abitavo si vedeva finanche il faro di Vulcano. Però d’altra parte era un mondo “maledetto” per noi isolani perché quelle erano le isole dei coatti e poi anche dei confinati politici quindi quando la mia sorellina andò a Lipari e incontrò il suo fidanzato, io l’andai a prendere al molo di Milazzo poi l’accompagnai a casa in treno, perché le signorine da sole non viaggiavano, lei in treno mi raccontò questo suo incontro e mi disse tutta felice che poi questo ragazzo sarebbe venuto a casa per chiedere la mano di mia sorella come si usava allora. Io le dissi “vedrai papà cosa dirà…”. Infatti la sera a cena lei disse “sai papà ho incontrato un giovane, ci siamo parlati e mi ha detto che verrà a chiederti la mia mano.” Mio padre, che era molto rigoroso soprattutto con le figlie femmine, le diede uno schiaffo e disse “e io ti ho mandato a Lipari per cercare un fidanzato?”. Poi si sono sposati nel ’60. Allora ero studente a Barcellona e quando potevo andavo da mia sorella e scoprii questo Paradiso che sono le isole Eolie. Quando avevo tempo libero mi imbarcavo a Milazzo sulla “Luigi Rizzo” che allora era l’unica nave e man mano scoprii prima Lipari poi le altre isole, Salina, Alicudi e Filicudi, Stromboli. Una volta ebbi anche un naufragio su un aliscafo: tornavo da Stromboli, era estate e c’erano tantissimi turisti, a Panarea avevano caricato molte persone per cui questo aliscafo cominciò a imbarcare acqua e quasi affonda, spararono i razzi per chiedere aiuto, arrivarono i pescherecci, ci portarono su questi pescherecci e poi ci abbandonarono su una spiaggia di Panarea tutti bagnati. L’indomani finalmente ho potuto raggiungere Lipari. Un altro ricordo alle Eolie: nel ’62 ero lì e arrivò la colonia romana di Moravia, Pasolini con tutti i suoi ragazzetti e Dacia Maraini con la madre Topazia Alliata: io li vedevo, li osservavo, sapevo chi erano. Andavano a fare il bagno a Vulcano alle sabbie nere e io mi mettevo vicino ad ascoltare i loro discorsi. Un giorno sulla spiaggia dopo aver fatto il bagno mi sono seduto accanto a Moravia con nonchalance; Moravia era paralitico da una gamba e zoppicava e arriva una persona che gli racconta che un subacqueo aveva raggiunto una profondità di non so quanti metri ed egli sentenziò “io mi contento di scendere nella profondità dell’animo umano”. Nasceva proprio quell’estate il nuovo amore fra lui e Dacia Maraini. Al Centro Studi Eoliano ho avuto un incontro per l’anniversario del Constitutum, la costituzione democratica che si erano dati gli eoliani. C’era anche un altro personaggio straordinario che ho frequentato a Lipari, Leonida Buongiorno, che mi raccontava le sue vicende personali e non, di cui ero molto amico era una specie di biblioteca delle isole Eolie. Ho conosciuto anche il prof. Giuseppe Iacolino, un altro studioso delle isole Eolie. Pirandello dice che “noi siamo i primi 9 anni della nostra vita” nel senso che da quando nasciamo cominciamo a guardare quindi questi segni esterni ce li portiamo dentro per tutta la vita, sia i segni visuali che i segni orali – questo lo dice anche Dante nel “De vulgari eloquentia”: noi impariamo la prima lingua, la lingua volgare, dalle persone che ci stanno intorno nei primi anni della nostra vita. Nascere in una grande città come Palermo, Catania o ad Agrigento dove è nato Pirandello o nascere alle Eolie è assolutamente diverso perché i segni sono diversi, per cui un eoliano ha un carattere diverso dall’abitante dell’isola grande. Per la vita così dura e aspra l’eoliano era un tipo parsimonioso e laborioso, sull’isola non c’era il latifondo quindi non c’era la mafia e quindi il lavoro per gli eoliani era senza nessun tipo di compromissione e di cedimento ai poteri. C’è un libro di un confinato politico a Lipari che racconta degli altri confinati: quelli che potevano affittavano una casa a Lipari, gli altri invece erano relegati nel castello, una sorta di prigione, però c’era molta solidarietà da parte degli eoliani, c’era aiuto nei confronti di questi confinati. Quindi gli eoliani erano anche persone generose. Oggi non so se è ancora così. Vedere un mondo “altro” anche primigenio, che cos’è la vita nella sua elementarità e nelle sue leggi fondamentali. I turisti spesso vengono dal nord industriale, da luoghi più abbienti e devono capire cosa significa vivere in una piccola isola. L’esempio della rivolta che c’è stata a Lampedusa per quelli che chiamano centri di accoglienza ma che sono dei veri e propri lager: i lampedusiani vivono anche loro di turismo ma non sopportano che la loro isola diventi un lager a cielo aperto, molti questi poveri infelici hanno anche perso la vita. Se questi turisti approdando a Lipari, nelle isole Eolie leggessero prima e conoscessero i 5000 anni di storia che ha avuto soprattutto Lipari, la stratificazione di civiltà che c’è stata andando a vedere il museo unico che c’è a Lipari capirebbero che luogo unico è, al di là del mare e del cielo. Sulle Eolie c’è anche il libretto “Isole dolci del Dio” uscito nel 2002 per le edizioni l’Obliquo, scritto per amore delle isole. Al momento sono impegnato a scrivere un’opera per Mondadori, alla conclusione della quale l’editore ristamperà tutta la mia produzione nella collana Meridiani. Dopo quest’ultima fatica, mi piacerebbe lasciare Milano e tornarmene finalmente nella mia amata Sicilia, ma non so se mia moglie Caterina è d’accordo…
Vincenzo Consolo venerdì, 03 aprile 2009 – (da “Il notiziario delle Isole Eolie)
JEAN FRACCHIOLLA Dire che ogni scrittore vive di storie è un po’ un truismo. Che cosa fa in effetti qualsiasi narratore? Ci racconta delle storie: Sia delle storie che possono appartenere alla realtà quotidiana dell’epoca in cui ci trasporta il narratore, e allora si tratta di un romanzo realista, ciò che Stendhal definisce, per riprendere la sua celebre immagine, come «le miroir qu’on promène le long d’un chemin». Sia delle storie che si nutrono di miti radicati nell’immaginario collettivo, e allora abbiamo a che fare con dei racconti che rasentano il meraviglioso, il fantastico, il lirico, l’epico o il tragico… Come ogni romanziere Vincenzo Consolo non sfugge a questa regola: i suoi romanzi sono strapieni di storie, di racconti, nonché di aneddoti, di notazioni, d’impressioni, come quelle che ci presenterebbe uno scrittore viaggiatore. E qui apro subito una breve parentesi per fare una costatazione che mi sembra importante: tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio. Tutte ci invitano ad un viaggio attraverso dei luoghi privilegiati, quasi sempre in Sicilia, il cui epicentro sembra essere la città di Cefalù; ma tornerò più avanti su questo punto. Però Vincenzo Consolo non è un semplice romanziere realista che si accontenta di registrare e di descrivere la realtà in cui vive (anche se questo gli capita, naturalmente, ad esempio quando egli denuncia il totale degrado in cui sono cadute oggi le grandi città di Sicilia, come Palermo o Siracusa), ma in generale le storie di Consolo affondano le loro radici nella Storia, quella della Sicilia degli anni e dei secoli passati, cioè di una Sicilia splendida nella bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi siti ancora intatti, di una Sicilia pura e vergine nei suoi costumi non ancora corrotti, di una Sicilia mitica (che ci ricorda e rimanda a quella di Verga e Vittorini), di cui il nostro scrittore esprime continuamente la straziante e lacerante nostalgia. Per altro questo rapporto con la Storia caratterizza tutta la tradizione del romanzo italiano moderno, dal Manzoni, passando poi per Verga, De Roberto, Tomasi di Lampedusa, perfino Sciascia, tradizione nella quale s’inserisce profondamente Vincenzo Consolo, ma in modo molto originale, come vedremo più avanti. Tutti i romanzi e tutte le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Così La ferita dell’aprile, il romanzo che, nel 1963, segna gli inizi letterari di Consolo, misto sapientemente dosato di autobiogafia e di storia, di quotidiano e di mito. La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente e di un paese siciliano all’indomani della seconda guerra mondiale. La storia di un adolescente che, alla fi ne di un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e di dolori, giunge alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza. In effetti la «ferita», alla quale allude il titolo, è di sicuro la «ferita» della giovinezza, nella sua esperienza dolorosa di passaggio all’età adulta; ma è anche forse «la ferita» politica delle elezioni del 18 aprile 1948, profondamente risentita dallo scrittore impegnato Consolo, che rimane solidale delle vittime di una storia che gli appare immutevole e insensata. Tra La ferita dell’aprile e il suo secondo romanzo, Il sorriso dell’ignoto marinaio del 1976, dodici anni di silenzio, sui quali potremo chiedere dopo a Vincenzo Consolo qualche chiarimento. Poi viene Lunaria (1985), in cui Consolo tiene un discorso sottilmente politico e storico (notiamo anche, ‘en passant’, come nel nostro autore Storia e politica sono sempre strettamente legate). Lunaria ci presenta una Palermo del Settecento, in cui l’autore mette in scena un mito poetico, quello della luna contro il potere. La caduta della luna mette in luce «la diversità» di un vicere che non crede nel potere, il ché lo avvicinerà ai suoi sudditi (contadini e popolani), e lo aiuterà a smascherare la falsa scienza ben diversa da quella vera scienza capace di audacia e di spirito concreto. Solo la gente umile, i poeti, i marginali saranno capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. Ne La ferita dell’aprile, rileviamo questa frase: “Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte femmine, correte, prima che si squagliano”1 . Questa frase annuncia già Lunaria e ci rivela, in nuce, nel suo potente lirismo, due elementi essenziali della poetica di Consolo:
da una parte il faro che invita al viaggio, un viaggio rituale dall’esistenza alla Storia, che invita quindi alla conoscenza del mondo e di se stessi. Il faro, cioè la luce, e quindi per Consolo la ragione che attrae, che illumina in modo intermittente le tenebre; il faro che simboleggia il tentativo umano, mai completamente appagato, di penetrare il mistero dell’esistenza.
dall’altra parte la luna, altro topos al quale il nostro autore è particolarmente legato, che rappresenta il bisogno assoluto di immaginazione, di creazione poetica. Qui, in quei repentini bagliori del faro di Cefalù che, con la sua luce, trafigge la luna e ne fa cadere le briciole, le molliche nel mare, possiamo rilevare non soltanto una immagine intensamente poetica, ma anche una prima e delicata immagine della «violazione» e della «caduta» della luna che sono precisamente i temi centrali del racconto teatrale Lunaria. E qui vediamo anche come, da un’opera all’altra, si stabilisce una rete di corrispondenze e di echi interni. Anche Retablo (1987) è, a modo suo, un romanzo storico, ambientato nel Settecento, nella Sicilia occidentale, che per Consolo è quella della Storia. Retablo si presenta come un racconto di viaggio -forma che ritroveremo ancora ne L’olivo e l’olivastro- quello del Cavaliere Clerici, pittore milanese, in cui, come avviene nei romanzi di avventure, gli episodi si susseguono senza legami necessari tra di loro. Attraverso la Sicilia del Settecento, sontuosa e misera, accecante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e squallida, si delinea e dispiega il conflitto tra ‘avere’ e ‘essere’, vale a dire tra i falsi valori (della ricchezza, la nobiltà del nome, del potere) e i valori autentici, cioè quelli che si affermano per sé stessi e che caratterizzano un’umanità umile, marginale, diversa, vale a dire quella dei pastori, dei poeti, dei nobili vegliardi, dei briganti generosi o dei mercanti disinteressati. È con questi umili che simpatizza ovviamente il Cavaliere Clerici (come il vicere di Lunaria di cui costituisce un’eco), intellettuale illuminato del secolo dei lumi, eco anche lui del barone Mandralisca e di Giovanni Interdonato de Il sorriso dell’ignoto marinaio. Le Pietre di Pantalica (1988), non più romanzo ma raccolta di novelle, conservano un legame molto stretto con la storia della Sicilia. L’opera si dipana su un arco di tempo che va dal periodo della liberazione fi no ai conflitti sociali del dopoguerra, dal «boom» economico degli anni’60, ai problemi, ai danni e al degrado causati da questo «boom» nella Sicilia e nell’Italia contemporanea. Siccome la Sicilia e i mali siciliani sono spesso, per non dire sempre, una metafora dell’Italia e dei mali italiani, ritroviamo, ne Le pietre di Pantalica, la critica contro la cultura dei privilegi e del potere; ritroviamo il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso ed endemico» di una Sicilia emblematica; ritroviamo la visione di una storia immobile ed immutevole nelle sue prevaricazioni, i suoi inganni e le sue menzogne, nelle sue ingiustizie e le sue esclusioni. Le pagine emblematiche del penultimo racconto, intitolato appunto “Le pietre di Pantalica”, ci offrono un ritratto terrificante delle città che una volta furono tra le più belle della Sicilia, si vuol parlare naturalmente di Siracusa e di Palermo: “Sono tornato a Siracusa dopo più di trent’anni, ancora come spettatore di tragedia. Allora, in quel teatro greco, nel momento in cui Ifi genia faceva il suo terribile racconto del suo sacrificio in Aulide, … o nel momento in cui il coro cantava… in questi alti momenti e in altri, nel teatro greco di Siracusa era tutto un clamore di clacson di automobili, trombe di camion, fischi di treni, scoppiettìo di motorette, sgommate, stridore di freni… Attorno al teatro, dietro la scena, dietro il fondale di pini e cipressi il paesaggio sonoro di Siracusa era orribile, inquinato, selvaggio, barbarico, in confronto al quale, il fragore del mare Inospitale contro gli scogli della Tauride era un notturno di Chopin… E, usciti dal teatro, che cosa si vede? La distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini. Le raffinerie di petrolio e le industrie chimiche di Melilli e Priolo, alle porte di Siracusa, hanno corroso, avvelenato la città. Nel centro storico, nell’isola di Ortigia, lo spettacolo è ancora più deprimente. La bellissima città medievale, rinascimentale e barocca, la città ottocentesca e quella dell’inizio del Novecento è completamente degradata: una città marcia, putrefatta”2 . E più avanti: “Palermo è fetida, infetta. In questo luglio fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti che bruciano sopra Bellolampo… Questa città è un macello, le strade sono ‘carnezzerie’ con pozzanghere, rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati, legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati, chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta…”3 Queste pagine annunciano ciò che diventerà il leitmotiv di un’opera successiva di Consolo, cioè L’olivo e l’olivastro, pubblicata nell’agosto del 1994. L’olivo e l’olivastro è una specie di odissea, di ritorno nella patria natale; è un’immagine desolata, corrotta, apocalittica della Sicilia, quella che ci offre la prosa lirica e barocca di Consolo. Anche qui ritroviamo il tema del viaggio che costituiva la struttura portante di Retablo; però tutto quello che il poeta vede è soggetto a un paragone che oppone la Sicilia mitica di una volta, la Sicilia eterna, superba, splendida attraverso i suoi siti, la sua natura ed i suoi monumenti, alla Sicilia attuale che non è altro che squallore e abbrutimento. Bisognerebbe citare tutte le pagine che segnano questa trasformazione, quella di Caltagirone, di Gela di cui Consolo ci presenta un ritratto terrificante per non dire raggelante, quella di Segesta, di Mazzara ed infine di Gibellina che si offre come l’ultimo esempio, in quest’opera, di un’antica, nobile e magnifica civiltà, sacrificata agli dei di un modernismo dello scandalo e dell’orrore. L’olivo e l’olivastro, a parer nostro, costituisce, nel percorso letterario di Vincenzo Consolo, un’opera-somma in cui s’incrociano e si rispondono tutti i temi maggiori della poetica consoliana, e un’opera in cui l’uomo, il romanziere ed il poeta, gridano la loro indignazione ed il loro sgomento di fronte ai templi della bruttezza architettonica e morale di quel che si è soliti chiamare la civiltà moderna. L’olivo e l’olivastro è un libro-chiave per capire tutta l’opera di Consolo. Occorrerebbe poterne citare tutte le pagine, in particolare quelle in cui Consolo rivela al lettore il significato profondo della sua scoperta di Cefalù, ma sarebbe ovviamente troppo lungo, perciò ci accontenteremo di citarne un breve passo: “Si ritrovò così a Cefalù… Ricorda che lo meravigliava, man mano che s’appressava a quel paese, l’alzarsi del tono di ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nei visi, nei gesti, negli accenti; il farsi il tono più colorito e forte, più netto ed eloquente, più iattante di quello che aveva lasciato alle sue spalle. Aspra, scogliosa era la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fi no alla gran rocca tonda sopra il mare -Kefa o Kefalè-, al capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù… Alti, chiari, dai capelli colore del frumento erano gli abitanti, o scuri e crespi, camusi, come se, dopo secoli, ancora distinti, uno accanto all’altro miracolosamente scorressero i due fi umi, l’arabo e il normanno, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggiero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. S’innamorò di Cefalù. Di quel paese che sembrava anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la cappella Palatina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa e il Borgo, anticipare la grande capitale. Abitò a Cefalù nell’estate. Gli sembrava, ed era, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi, che volevano essere letti, interpretati”4 . Così quindi Cefalù, centro del mondo di Consolo, sorta di Aleph borgesiano, citando Borgès: “in cui si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti sotto tutti i punti di vista”, Cefalù è per Consolo la città d’incontro e di scoperta, la città che diventerà la citta-simbolo di un intero universo. E quale migliore transizione di Cefalù per parlare dei due romanzi senz’altro più compiuti e tra i più importanti di Consolo, e di cui volutamente non si è parlato finora, cioè Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) -cronologicamente il secondo di Consolo- e Nottetempo, casa per casa (1992 -Premio Strega 1992). Cefalù, alfa e omega di Vincenzo Consolo, terra di ogni scoperta e ogni delizia, Cefalù col suo faro, Cefalù e la sua cattedrale, che di opera in opera sono, come i ciottoli seminati da Pollicino, i punti di riferimento di Consolo, Cefalù caput mundi (kefalè=testa), Cefalù è il luogo privilegiato di questi due romanzi, romanzi storici per antonomasia, che costituiscono come ama a ricordarlo il loro autore: «Il dittico di Cefalù». Con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato integralmente nel 1976, Consolo si tuffa letteralmente nella storia, quella del Risorgimento a Cefalù e in Sicilia, per tentare di capire le ragioni del fallimento parziale degli ideali di uguaglianza e di giustizia che avevano attraversato tutta la prima metà dell’Ottocento, per concretizzarsi momentaneamente nella data dell’undici maggio 1860, giorno dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. Il protagonista della prima parte del romanzo, quella di Cefalù, è Enrico Piraino, barone di Mandralisca, malacologo e archeologo, intellettuale impegnato a favore del nuovo corso della storia. Consolo ne fa il portavoce della propria ideologia, delle proprie convinzioni sull’idea di proprietà e delle ingiustizie che da essa derivano. Mandralisca va paragonato al Cavaliere Clerici di Retablo e al Vicere di Lunaria. Consolo è rimasto affascinato dalla statura morale di questo personaggio, decisamente più generoso del principe Salina ne Il Gattopardo di Lampedusa, e personaggio in cui egli sente, per via dell’amore comune che nutrono tutti e due per il viaggio (reale o metaforico), un fratello di elezione. Nei numerosi spostamenti del barone “da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia”, come lo dice lui stesso, Consolo ha trovato un antecedente storico al proprio viaggio-scoperta-iniziazione, dalla regione di Messina dove è nato ed ha vissuto la propria infanzia (a Sant’Agata di Militello), e che rappresenta per lui il mondo della natura e del quotidiano, verso la regione di Palermo che rappresenta invece, tramite la tappa intermedia di Cefalù, autentica porta del mondo, la cultura e la Storia. Mandralisca è l’intellettuale che si pone in modo problematico di fronte alla storia per cercare di capirne il corso e gli sviluppi. È lui peraltro che ha comprato il «Ritratto d’ignoto» d’Antonello da Messina il cui sorriso e sguardo enigmatici, nel contempo complici e distanti, ironici e aristocraticamente benevoli, ci dicono a che punto quest’uomo la sa lunga sulla vita e i suoi segreti. D’altronde questo sorriso enigmatico dell’uomo misterioso dipinto da Antonello, Consolo lo fa rivivere sul viso di un altro personaggio importante del romanzo, il democratico Giovanni Interdonato, latore di tutti i valori positivi del cambiamento sperato: quello di una Sicilia migliore, in cui il lavoro e la capacità di sacrificio dei suoi abitanti potranno far regnare, alla luce della ragione e dello spirito (la cui sede è il capo, cioè Cefalù / kefalè), una maggiore giustizia. Il sorriso dell’ignoto marinaio ci offre, per lo meno nella sua prima parte, una visione allegra dell’esistenza, che Consolo ci comunica mediante parole che attingono la loro bellezza nella poesia dei luoghi descritti, nel lirismo dei gesti quotidiani, offerti al lettore senza compiacimento paternalistico, ma piuttosto attraverso un’estasi poetica profonda. La seconda parte del dittico, Nottetempo casa per casa (marzo 1992), arriva dopo anni di approfondimenti tematici e di sperimentazioni linguistiche molto personali: l’agonia della poesia in Lunaria, il tema e la metafora del viaggio, il rapporto scritturavita e le riflessioni esacerbate sull’alienazione della nostra epoca (Retablo e Le pietre di Pantalica). Nottetempo casa per casa è storicamente ambientato negli anni 20 del Novecento, scelta naturalmente non affatto casuale. Consolo stabilisce un parallelo implicito tra quel periodo ed il nostro, si serve del passato e della storia per parlarci meglio del presente: in effetti il clima di violenza e d’intolleranza, che s’instaura in Italia con l’avvento del fascismo, trova degli echi nella follia e l’oltraggiosa disconoscenza della dignità umana che regnano oggigiorno. Cefalù, come la Sicilia di Sciascia, diventa in questo romanzo metafora di una realtà generale non solo problematica e contraddittoria, ma anche, per certi aspetti, stretta e volgare. Per tutte queste ragioni, Petro Marano, il protagonista del romanzo, è naturalmente sconcertato -come lo è lo scrittore- davanti a questa realtà che perde la propria consistenza, che si sfrangia e si sfi laccia sotto i colpi dei movimenti irrazionalistici che sembrano fare dei proseliti anche tra i suoi compatrioti: “Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita, storie, trame, segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità di intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri. Ora sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo tra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nell’insania”5 . Mentre ne Il sorriso dell’ignoto marinaio i luoghi di Cefalù erano le contrade dell’utopia, della speranza appassionata di un cambiamento storico e sociale, in Nottetempo casa per casa gli stessi luoghi diventano come le regioni del disincanto, dell’assenza di ragione, della scomparsa temporanea della luce del faro, del «chiarore della lanterna». Allora la scrittura di Consolo in Nottetempo casa per casa si mette in posizione di attesa, pur rimanendo costruttiva poiché continuare a scrivere, a raccontare, significa per Consolo denunciare la notte della ragione, ma anche continuare a sperare, non abbandonarsi al pessimismo più tetro che genera l’afasia, l’impossibilità di creare e d’inventare. A Cefalù Consolo ha compiuto un «rito di passaggio», di cui lui stesso ha abbondantemente parlato, che gli ha permesso di fare emergere, dal suo magma interno, l’altra parte della verità, l’altro colore dell’esistenza, l’emisfero nascosto della luna. Questo viaggio, senza alcun dubbio, più che un viaggio spaziale vero e proprio, ha un valore piuttosto simbolico di conoscenza e d’iniziazione. Cefalù, «rito di passaggio», unisce strettamente i due romanzi. D’altronde Consolo fa notare che nessun critico aveva notato che i due libri hanno lo stesso incipit: il primo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, inizia così: “E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci”6 . Inizia quindi con una congiunzione, «E», e un’aurora. In altri termini è un libro augurale ed aurorale, è un libro diurno e solare, perché si tratta del romanzo della speranza. il secondo invece, con un effetto di simmetria oppositiva, inizia con una congiunzione, «E», e un notturno: “E la chiarìa scialba all’oriente… Sorgeva l’algente luna”7 . Inizia con il sorgere della luna, con l’apparizione di un personaggio inquietante, anche lui notturno, il padre di Petro Marano, notturno perché soffre di licantropia. Se Il sorriso dell’ignoto marinaio era il libro della speranza, Nottetempo casa per casa è il libro della disperazione e del dolore. Lascio ora la parola a Consolo che citerò lungamente: “Ho voluto rappresentare il dolore… e questo libro è stato da me concepito proprio come una tragedia: la scansione in capitoli del libro è proprio quella delle scene di una tragedia greca… Mi è stato soprattutto rimproverato da un critico, per altro molto acuto, che io cerco consolazione in un genere ormai scaduto, nel romanzo. L’ho trovato offensivo. La letteratura non è scaduta, essa è stata avvilita. Credo che la funzione della letteratura sia ancora quella di essere testimone del nostro tempo. Petro Marano è questo. Di fronte al fallimento dell’utopia politica, di fronte alla follia della storia e alla follia privata, alla sua follia esistenziale, al dolore che lui si porta dentro, capisce che il suo compito è quello dell’anghelos, del messaggero che nella tragedia greca ad un certo punto arrivava sulla scena e raccontava ciò che si era svolto altrove. Ecco, la funzione dello scrittore, di Petro Marano è quella di fare da anghelos, da messaggero. Nei momenti in cui cadono tutti i valori, la funzione della letteratura è di essere testimone non soltanto della storia, ma anche del dolore dell’uomo. È l’unica funzione che la letteratura può avere. La politica si preoccupa delle sorti immediate dell’uomo, la letteratura, invece, va al di là del tempo contingente. Di una letteratura, parlo di narrativa, quanto mai minacciata, oggi, da quella che è la mercificazione di questo genere letterario. È per questo che ho concepito il mio impegno letterario, non soltanto per un fatto di propensione verso il lirismo ma anche ideologicamente devo dire, come difesa dello spazio letterario. Ho cercato di allontanarmi sempre di più da quel linguaggio senza memoria, insonoro, che i mezzi di comunicazione di massa oggi ci impongono e che ormai ha invaso tutti i settori della nostra vita. Il settore più minacciato, dicevo, è quello della narrativa. Credo che l’unica salvezza per questo genere fortemente appetito dai produttori dell’industria culturale -appunto perché è mercificabile- rimanga quella di avvicinare la narrazione alla poesia”. Ho tenuto a riferire lungamente le parole di Vincenzo Consolo perché, da sole, costituiscono un’ottima conclusione ai miei propositi di oggi. Propositi un po’ brevi e lapidari per una materia così ricca, sulla quale ci sarebbe ancora molto da dire. Ma il mio intento e la mia ambizione erano solo quelli d’introdurre un dibattito con l’autore in persona. Quindi, per concludere, in Consolo narrativa e Storia sono intimamente legate. La Storia costituisce la trama intima del tessuto romanzesco. Ma Consolo non è uno storico e non è semplicemente, direi, un romanziere storico. È anche e soprattutto, per via di ciò che la sua prosa ha di lussureggiante, colorato, colto, prezioso, spesso barocco e lirico, è anche quindi un poeta della storia e del romanzo. La lettura di alcuni brani citati lo dimostra. I suoi legami e la sua dimestichezza di spirito e di penna con alcuni dei più grandi poeti contemporanei, quali Montale e soprattutto Lucio Piccolo, il grande poeta siciliano che fu amico di Consolo, lo attestano. Ma questo aspetto del nostro scrittore potrebbe essere oggetto di un’altra presentazione e di un altro dibattito.
1 CONSOLO, V. (1989: 31).2CONSOLO, V. (1988: 165-6). 3CONSOLO, V. (1988: 170).4 CONSOLO, V. (1994: 123-4).5 CONSOLO, V. (1992: 144). 6 CONSOLO, V. [(1976) ma 1997: 12].7 CONSOLO, V. (1992: 5). BIBLIOGRAFIA: CONSOLO, V. (1988): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (1989): La ferita dell’aprile, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (1992): Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (1994): L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori. CONSOLO, V. (1997): Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori («Scrittori italiani») [1 ed. 1976, Torino: Einaudi].
È
accovacciata sul marciapiede sconnesso, le gambe incrociate sotto l’ampia gonna
colorata, il fazzoletto bianco in testa. Ha davanti a sé una cesta piena di
mazzetti di nepitella, la mentuccia che spontaneamente cresce nei luoghi
selvatici. Con un rapido gesto della ruvida mano nasconde sotto la gonna il
falcetto. Con quello, chissà in quale ora antelucana è andata su per i colli
rocciosi e desertici intorno a Ramallah per raccogliere quell’erba aromatica,
il cui infuso rinfresca le viscere e insieme allontana svariati malanni, calma
i nervi, toglie ansie, paure. Quella contadina imponente, dalla faccia
indurita da calure e da geli, deve essere una madre che mantiene i figli
vendendo nepitelle, vendendo cicorie, cardi, carciofi selvatici. Mi fa venire
in mente la Umm Saad, la madre di
Saad, dell’omonimo racconto di Ghassan Kanafani. E le eroiche madri di altri
scrittori, La madre di Gor’kij, Madre Coraggio di Brecht, la madre di Conversazione in Sicilia di Vittorini.
Ha un figlio, Saad, che combatte? E un altro figlio bambino, Said, che già si
esercita con il fucile? Deve certo abitare nel fango di un campo di profughi,
in una angusta stanza dalle pareti di latta.
Sono qui nel
centro di Ramallah, con lo scrittore spagnolo Juan Goytisolo, il poeta cinese
Bei Dao e il palestinese Elias Sanbar, traduttore in Francia de La terre nous est étroite di Mahmoud
Darwish. Ci aggiriamo nella rotonda piazza principale di questa città
dimessa, ferita, dov’è la fontana secca con quattro leoni di marmo. Sanbar ci
fa notare una stranezza: alla zampa di uno dei leoni l’artista ha voluto
scolpire un assurdo, surreale orologio. Quale ora segna? Della guerra, della
pace, della fine dello strazio infinito di questa terra martoriata? Facciamo
parte, noi tre, della delegazione del Parlamento internazionale degli scrittori
giunta qui ieri da Tel Aviv. Siamo partiti la mattina del 24 marzo da Parigi
(scrittori, registi, giornalisti), siamo giunti a Tel Aviv nel pomeriggio.
Su un pullman ci dirigiamo verso Ramallah. È un paesaggio, quello che attraversiamo,
di colline rocciose e desertiche, che somiglia all’altopiano degli Iblei in
Sicilia. Ci fermano per controlli ai checkpoint israeliani, postazioni in cemento
armato coperte da teli mimetici, dalle cui feritoie sbucano le canne delle
mitragliatrici. Presi in consegna dai palestinesi, siamo preceduti da una
vettura della polizia con i lampeggianti e un lugubre suono di sirena. All’albergo
incontriamo Darwish e altri palestinesi, fra cui Laila, portavoce dell’OLP,
che sarà nostra guida per tutto il viaggio. Di Darwish, obbligato dagli
israeliani a rimanere, come Arafat, prigioniero a Ramallah, Goytisolo aveva
scritto qualche giorno prima su Le
Monde che il poeta è la metonimia del popolo palestinese. Popolo scacciato
da questa “stretta terra”, costretto nei campi profughi, prigioniero in
questa Palestina straziata da conflitti senza fine.
“Il mio indirizzo è cambiato.
L’ora dei pasti,
la mia razione di tabacco, sono cambiati,
e il colore dei miei vestiti, la mia faccia e la mia sagoma. La luna
cosí cara al mio cuore qui,
è piú bella e piú grande ormai”,
scrive Darwish in La
prigione.
Una luna
piena, luminosissima campeggia nel cielo terso quando usciamo la sera. Qualcuno
ci indica, alte su un colle, le luci di un insediamento di coloni da cui piú
volte hanno sparato su Ramallah. Partiamo l’indomani per Bir Zeit. Facciamo
sosta al campo profughi Al-Amari, che porta lo stesso nome di Michele Amari, lo
storico dell’Ottocento, autore de La
storia dei musulmani di Sicilia. Il campo è misero, squallido. Le sue
stradine sono piene di bambini, nugoli e nugoli di bambini dagli occhi neri,
vivaci. Dice un palestinese, ironico: “Gli israeliani controllano tutta la
nostra vita, ma non riescono a controllare la nostra sessualità”. Anche questa
della demografia è una lotta contro l’occupazione, occupazione territoriale,
urbanistica, architettonica, agraria, linguistica…
Ci fanno
vedere la sede di un’associazione sportiva sventrata dagli israeliani
all’interno, stanza dopo stanza, devastata, l’arredo ridotto ad ammassi
informi. Raccolgo da terra un manifesto in cui è effigiata una squadra di calcio:
giocatori in maglia rossa e pantaloncini neri. Chissà chi è vivo e chi è morto
di quei giovani, chi è libero o in prigione. Lo stesso gesto, di raccogliere un
foglio tra le macerie, l’avevo fatto a Sarajevo, nella redazione distrutta
dalle cannonate del giornale Oslobodjenje
(Liberazione).
In uno
strettissimo vicolo tra le baracche, quattro anziane donne sono sedute una
accanto all’altra. Al nostro passaggio, parlano tutte insieme a voce alta,
cadenzano le parole con gesti delle mani: un flusso fra il lamento e l’invettiva
in cui si distingue chiaro solo il nome di Sharon. Sembra, questo delle anziane
donne, il coro d’una tragedia greca.
Dopo una
lunga attesa al checkpoint, dove è ferma una colonna infinita di macchine e
autocarri, una lunghissima fila di gente appiedata, raggiungiamo l’università
di Bir Zeit. Gli studenti ci accolgono festosi, accolgono con gioia
soprattutto il loro poeta, Darwish. Sono 1500 gli studenti, ci dicono i
professori, che ogni giorno, a causa dei blocchi stradali, fanno grande fatica
per raggiungere l’università. Abbiamo un incontro con scrittori e intellettuali
palestinesi e una conferenza stampa al Palestina Media Center.
Di ritorno a
Ramallah, siamo condotti al quartier generale dell’Autorità della Palestina,
per incontrare Arafat. Il quale appare, dopo un po’, nel suo ufficio.
Riconosce Soyinka e Saramago. Il presidente del Parlamento internazionale
degli scrittori, l’americano Russell Banks, gli dice del nostro appello per la
pace diffuso il 6 marzo scorso, gli dice quale messaggio ci vuole affidare.
Risponde Arafat: “Fra qualche giorno è la Pasqua giudaica, la ricorrenza della
liberazione del popolo ebraico dalla schiavitú in Egitto. Sono loro adesso che
devono tendere la mano agli schiavi di oggi, a noi palestinesi. Dite agli
ebrei americani che domandiamo agli israeliani la liberazione dei territori
occupati e il riconoscimento dello stato palestinese. Quando ero bambino,”
aggiunge, “abitavo a Gerusalemme, vicino al Muro del pianto. Per tutta la
mia infanzia ho giocato coi bambini ebrei. Dite agli americani che qui, nel
mio ufficio, vicino al mio tavolo di lavoro, tengo la menorah” e si alza,
Arafat, va a prendere il piccolo candelabro a sette braccia e ce lo mostra.
Poi ricorda che ventuno donne hanno partorito in macchina al checkpoint, che
due di esse lí sono morte, che è morto un neonato.
Avevo
incontrato quest’uomo nel novembre del 1982 (vent’anni fa!) ad Hammam-Lif,
vicino Tunisi, dove si era rifugiato dopo la fuga dal Libano, la strage di
Sabra e Chatila. Ed era là, a cercare di ucciderlo, il suo nemico di sempre,
Ariel Sharon. Quello che ancora oggi, nel momento in cui scrivo, lo assedia
con i suoi carri armati, spara contro il suo quartier generale, lo costringe in
due stanze, senza luce elettrica, senza acqua. E intanto, ragazze e ragazzi
imbottiti di tritolo si uccidono e uccidono in questa terra santa che è
diventata infernale. Intanto, la pervicacia e la violenza del duellante Sharon,
il silenzio assenso dell’alleato Bush provocano la reazione dei paesi arabi,
fanno temere il peggio. “Fanno la guerra alla pace” ha detto, quasi in
pianto, il Papa di Roma.
E qui al
sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in
Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate
giornaliere con Piera, un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua
casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la
sproporzione fra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà
che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato, e la grande tragedia
che si sta svolgendo laggiú.
Ma si ha il
dovere di scrivere. Partiamo l’indomani per Gaza. Lunga attesa al checkpoint di
Erez, sul confine della Striscia. Ci attendono di là le macchine con le bandiere
dell’ONU. Nella Striscia di Gaza, come in una discesa nei gironi infernali,
arriviamo ai due estremi villaggi di Khan Yanus e di Rafah, villaggi
recentemente rioccupati e distrutti. Rafah soprattutto, sul confine con
l’Egitto, rasa completamente al suolo dai bulldozer. Ci raccomandano di stare
sempre uniti al gruppo, di non isolarci, se no rischiamo d’essere colpiti da
una qualche pallottola sparata dagli alti fortini di cemento là sul confine.
Mentre saliamo sul terrapieno di macerie, un uomo con le stampelle accanto a
me cade, si ferisce il viso, le mani. Lo aiutiamo a rialzarsi. E l’uomo,
tenace, arriva al centro del gruppo, comincia a dire, a raccontare. Qui, dove
sono le macerie, era la sua casa, la casa dove abitava con la moglie e i sette
figli.
Alle due di
notte sono giunti i carri armati, i bulldozer, che in un paio d’ore hanno
abbattuto e spianato tutte le case del villaggio. Sotto quelle macerie sono
ora seppelliti tutti i loro ricordi, i libri, i quaderni di scuola dei figli.
Una donna accanto, forse la moglie, con voce acuta gli fa eco, riprende il
racconto.
A Khan
Yanus, poco dopo, si sente una nenia diffusa da un altoparlante. In una
stradina, addobbata a drappi e festoni, si sta svolgendo una cerimonia funebre
per uno di quei combattenti e terroristi che loro chiamano “martiri”. La
cerimonia, ci spiegano, dura tre giorni, con visite ai parenti, con offerte di
cibo e musiche. È l’antica cerimonia funebre mediterranea, quella che Ernesto
De Martino ha illustrato in Morte e
pianto rituale.
Sono ancora
notizie di morte e pianto mentre scrivo, delle occupazioni delle città
palestinesi; di esplosioni di tritolo, di suicidi e stragi in ogni dove.
Notizie di angoscia. E devo scrivere del nostro viaggio, della breve, fortunata
sospensione della violenza in cui esso si è svolto. Ma il ricordo ora si fa
confuso, come un sogno di cui al risveglio non ci rimangono che frammenti.
Frammenti sono ora l’incontro a Gerusalemme con David Grossman, la visita
alla città vecchia, la processione di padri francescani in una stretta via, la
corsa degli ebrei ortodossi, con cappelloni e palandrane neri, verso il Muro
del pianto, l’aggirarci nel quartiere arabo. Frammenti, nella grande hall
dell’albergo di Tel Aviv, la visione di tenere fanciulle e di giovinetti
vestiti da soldati di Sharon. Ma nitido m’è rimasto il viso del poeta Aharon,
un israeliano dissidente, e il viso del suo figliolo David, disertore
dell’esercito. Sono loro due, padre e figlio, che davanti all’albergo, con
mesto sorriso e timido cenno della mano, ci salutano mentre sul pullman ci
muoviamo per andare all’aeroporto. Aharon e David ricordo, e la madre di
Ramallah, quella accovacciata a terra, con accanto il suo falcetto e i mazzi di
nepitella.
[i] In Viaggio in Palestina, Roma: Nottetempo, 2003, pp. 65-72; «Odissea», maggio-giugno 2003. Il racconto è datato in calce: «Milano, 3 aprile 2002». Una prima versione abbreviata è uscita con il titolo: Fra le macerie dei Territori ho visto dolore, orgoglio, tenacia, «Corriere della sera», 5 aprile 2002 [occhiello: «Medio Oriente sfida senza fine/ Il viaggio di uno scrittore»; sottotitolo: «La madre-coraggio con la mentuccia, il poeta che fa sognare gli studenti»], subito seguita da quella integrale in spagnolo: Las palabras y la tragedia, «El País», 13 aprile 2002; e in francese: Mère courage, in Russell Banks, Breyten Breytenbach, Vincenzo Consolo, Bei Dao, Juan Goytisolo, Christian Salmon & Wole Soyinka, Le voyage en Palestine, Montpellier: Climats, 2002, pp. 69-77.
Di Vincenzo Consolo si sente già
la mancanza. Era una presenza, un punto di riferimento, un’intelligenza sulla
quale poter contare per avere una riflessione lucida e illuminante su quello
che sta succedendo nel nostro paese e nella sua Sicilia. Da Milano scrutava,
studiava, rifletteva e, solo quando aveva qualcosa da voler comunicare, parlava
o scriveva. Non è mai stato uno scrittore prolifico, tra “Il sorriso
dell’ignoto marinaio” e “Retablo” sono passati dieci anni. La Sicilia era il suo chiodo
fisso anche se aveva deciso di lasciarla, come racconta in un’intervista
inedita, che adesso vogliamo riproporvi, di qualche anno fa, ma di estrema
attualità perché, come diceva Consolo, «c’è un impegno morale nel rappresentare
il nostro tempo da parte dello scrittore; anche se scrive libri di storia, non
deve essere la storia romanzata, deve essere una storia metaforica come ci ha
insegnato Manzoni, cioè si parla del passato per rappresentare la nostra
contemporaneità».
A distanza di una settimana dalla
sua morte, ci manca il suo modo di saper cogliere e raccontare la realtà,
avremmo voluto chiedere il suo punto di vista su tanti temi di estrema
attualità, dal movimento dei Forconi che agita da settimane la Sicilia fino
all’immigrazione, al quale è stato sempre particolarmente sensibile. Alcune di
queste domande trovano una risposta in quell’utile, unica e senza tempo
chiacchierata di qualche anno fa, nella sua casa siciliana a Sant’Agata di
Militello, di fronte alle Isole Eolie.
LA
SICILIA DI
VINCENZO CONSOLO. INTERVISTA ALLO SCRITTORE DEL “SORRISO DELL’IGNOTO
MARINAIO”
Trascorrere un paio d’ore
conversando con Vincenzo Consolo è stato come aver riletto pagine significative
di storia e di letteratura della Sicilia e averle fatte proprie. Il suo modo di
parlare con semplicità di fatti non sempre comprensibili ai non siciliani,,
denota una linearità di pensiero che solo un attento conoscitore di quell’Isola
può possedere. Ascoltarlo provoca un piacere diverso rispetto a leggere i suoi
libri, noti invece per una prosa ricercata, non di immediata comprensione,
anche se musicale, intessuta di riferimenti linguistici che derivano radici
culturali della terra siciliana.
Consolo vive a Milano da più di
trent’anni, ma torna spesso a Sant’Agata di Militello, suo paese d’origine,
dove l’abbiamo incontrato.
«Ormai siamo diventati degli
Ulissidi, espropriati della nostra identità e alla ricerca della nostra Itaca.
Quando torniamo però Itaca non c’è più; la patria è ormai diventato un luogo
interiore .Vedendo la realtà siciliana fatta di ingiustizie ho deciso di spostarmi
a Milano, patria di Beccaria. Qui da noi il diritto si trasforma in favore che
ti lega ad una persona, in alcuni casi, anche per tutta la vita. Sono andato via per
questo. Lo sradicamento (solamente fisico, le mie memorie sono qui) è doloroso,
però alla fine necessario. Non è facile ricostruire legami in luoghi che non
sono i tuoi. Ma stando qui si fa un
danno a se stessi. Bisogna però tornare e quando si torna si è più forti, forse
anche meno vulnerabili, o meglio, meno ‘ricattabili’».
“Sciascia è lo scrittore che è perché è nato a Racalmuto”, si legge in
uno dei suoi saggi; e anche per quanto riguarda Pirandello lei sottolinea la
sua provenienza dalla provincia di Agrigento, una zona ricca di miniere di zolfo.
La vita delle miniere entra in molti romanzi siciliani, a tal punto che si
parla di una “letteratura dello zolfo”. Dopo questa premessa, com’è stato
influenzato lei dalle sue zone d’origine, sempre presenti nei suoi romanzi?
«Tutta una serie di scrittori di
cui io parlo sono stati influenzati dalla condizione delle zolfare, in cui
esisteva un rapporto di assoggettamento totale dell’operaio al padrone. La
realtà delle zolfare poggiava principalmente sulle spalle di due soli
lavoratori: il picconiere e il caruso. Dalla
condizione di carusi, sfruttati come servi
della gleba, era quasi impossibile riscattarsi. Col tempo però questi presero coscienza della loro condizione e dal
mondo delle zolfare si sollevarono le prime proteste operaie. La prima riunione
di sindacati (allora si chiamavano Società di Mutuo Soccorso) avvenne a Grotte.
Per l’occasione vennero gli operai del nord a portare la loro solidarietà, come
oggi avviene per gli operai della Fiat di Termini Imerese.
Nella Sicilia occidentale è nata
una letteratura diversa rispetto a quella orientale. Così Pirandello parla del
mondo delle zolfare e dei primi scioperi (ne “I vecchi e i giovani”); ma non è
l’unico. Altri esempi sono Alessio Di Giovanni in “Gabrieli lu carusu” o Angelo
Petix, nel dopoguerra, in “La miniera occupata”. Anche Verga ne parla, in “Dal
tuo al mio”o in “Rosso Malpelo”; ma lo scrittore catanese non è un uomo di
zolfo e per lui la lotta di classe non serve a niente. Verga parla piuttosto di
una metafisica della roba e la sua è una concezione conservatrice.
In scrittori della parte
orientale della Sicilia, anche se di forte impegno civile, mi riferisco a
Brancati o a Vittorini, è invece più marcata la propensione ad una scrittura
lirica (vedi “Conversazione in Sicilia”).
Arrivando a me: quando ho deciso
di intraprendere questa strada, provenendo da un paese intermedio tra queste
due realtà da me descritte seguendo una sorta di geografia ideale, ho dovuto
decidere da che parte stare. Nella mia zona, quella di Sant’Agata di Militello,
non c’è stato il problema del latifondo, della distruzione della natura; c’era
la piccola proprietà terriera, ma non ci sono mai stati grandi scontri sociali.
Per me si pose quindi il problema se rimanere chiuso in quest’ambito,
sviluppando temi di tipo esistenziale, oppure avvicinarmi alle zone di Messina
o Catania, oppure ancora spostarmi verso le zone occidentali. Bene, alla fine
ho concepito una sorta di ibrido, una ‘chimera’ , tra mondo occidentale, di
impegno civile, e mondo orientale, lirico».
Al di là dei suoi orientamenti stilistici, di quale Sicilia ama
parlare?
«Si ha della Sicilia un’immagine
eccessivamente colorata, nel senso più negativo. Un po’ come avviene per il sud
America: del Brasile, per esempio, si parla per il Carnevale di Rio e si rischia
di non andare oltre. La
Sicilia vera, quella di cui mi piace parlare, è quella
dell’uomo che ha cercato di riscattarsi, di ritrovare la sua identità. Niente
colorismo alla Camilleri! Rischiamo di farci espropriare del nostro patrimonio
umano. L’identità non deve però essere compiacenza di sé, ma comprensione
dell’altro partendo da una migliore conoscenza di noi stessi».
Al tema dello scontro tra civiltà, non pensa
che la storia della Sicilia abbia dato una risposta, intessuta com’è di cultura
e di tradizioni arabe? Basti pensare alle tecniche per la coltivazione degli
agrumi o ai sistemi di pesca del tonno.
«Chi solleva lo scontro di
civiltà mostra ignoranza e malafede. Confondere l’integralismo islamico con la
religione islamica è lo stesso di confondere il Cristianesimo con l’Inquisizione
e l’Autodafè. Parlare di crisi dell’Islam significa alimentare razzismi e
xenofobie. Sciascia, citando Amari, “Storia dei musulmani in Sicilia”, dice che
la storia della nostra isola inizia con
l’arrivo degli arabi musulmani, nell’827; da lì è iniziato un risveglio
culturale, economico e artistico. Non si può cancellare questa storia. I
normanni, intelligentemente, non hanno cancellato
questa dominazione. Nel periodo normanno a Palermo c’erano ancora
numerose moschee , oltre che sinagoghe e chiese cristiane, e un riconoscimento
reciproco. Con gli spagnoli è venuta meno questa pacifica convivenza.
Nel corso degli anni ci sono
stati degli intellettuali che hanno cercato di creare dei fossati di odio e di
vendetta; la Fallaci
appartiene a questa schiera e purtroppo interpreta il
pensiero di molti».
Nella Sicilia attuale, dei condoni
edilizi, delle case costruite sulla Valle dei Templi, del clientelismo, delle
coste sempre più deturpate dal cemento (da cui anche i tonni sono scappati!),
pensa che “l’olivastro”, il selvatico, abbia completamente asfissiato “l’olivo”,
usando la distinzione presente nel suo libro, “L’olivo e l’olivastro”, appunto.
«Credo di sì. Ho paragonato Falcone e Borsellino a persone che hanno cercato di disboscare, con l’ascia della legge, il selvatico. Ma sono stati uccisi. A Palermo si è diffuso un clima di assoluto fastidio verso i magistrati. Si è passati dall’indignazione degli anni di Falcone, alla dimenticanza. E’ un brutto segno quando in una società non si riconosce l’importanza della magistratura e quando non si riconosce l’indipendenza dell’Antimafia».
Valentina Pinello 15 gennaio 2012 pubblicata su Golem
Potrebbe essere l’incipit del più noto romanzo di Vincenzo Consolo, il romanzo che costituì l’avvenimento letterario di quasi vent’anni fa e rivelò prepotentemente alla critica e al pubblico, soprattutto, lo scrittore siciliano. Ci si riferisce a Il sorriso dell’ignoto marinaio, che come si sa prende spunto, anche se lo scenario storico è quello delle vicende siciliane negli ultimi decenni del dominio borbonico dal celebre dipinto antonelliano conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, il cosiddetto Ritratto d’ignoto, citato perfino nel titolo del romanzo. In quest’opera il sorriso dell’uomo ritratto nel dipinto di Antonello da Messina, sorprendentemente simile a quello di un marinaio incontrato dal barone Mandralisca sulla nave che lo portò da Lipari a Cefalù, rappresenta un preciso leitmotiv. Eppure la citazione iniziale non è tratta dal Sorriso dell’ignoto marinaio, bensì dall’ultimo volume di Consolo, L’olivo e l’olivastro. L’enigmatico sorriso antonelliano, dunque, continua a impressionare fortemente lo scrittore, in questo libro non è più un leitmotiv, vi appare solo un attimo, occupa poco meno di una pagina a tre quarti del libro, però è una sintesi emblematica che spiega esemplarmente il significato de L’olivo e l’olivastro. Il viaggio di Consolo nella Sicilia odierna, novello Ulisse alla ricerca di una perduta Itaca, rivela una realtà in pieno disfacimento culturale, etico e ambientale, disumanizzata in nome di un falso progresso, che rischia di smarrire la propria identità e la propria memoria storica. Il profondo malessere esistenziale dell’autore, che sta alla base di questo libro indefinibile quanto genere letterario perché può essere letto come un saggio o un romanzo anche se alla fine propende più per il poema lirico si coglie proprio nell’immagine di quel Ritratto di Ignoto. L’uomo dipinto da Antonello ora per lo scrittore non ostenta più compiaciuta sicurezza nell’intelligenza dello sguardo e nell’ironia del sorriso: i suoi occhi sono chiusi, il sorriso si è tramutato in smorfia. Questa metamorfosi è allegorica, in fondo per certi versi paragonabile alle dicotomie di Stevenson e Kafka, perché se da un lato rappresenta l’equilibrio classico della razionalità, la fiducia nei valori, dall’altro simboleggia il delirio barocco dell’irrazionalità, la paura del vago. Vincenzo Consolo lancia anatemi per denunciare il degrado che segna inesorabilmente la Sicilia e le colpe di cui essa tutt’ora si macchia, ma in questa sua indignazione morale, in questa sua tensione civile, c’è la segreta speranza per un futuro migliore, la speranza forse nel riscatto umano e sociale di un’isola che diventa metafora di tutto un paese e del mondo intero.
L’olivo e l’olivastro è, insomma, opera di uno scrittore
che, rifiutando la diffidenza o l’evasione, si sente ancora motivato, crede
nell’impegno dell’intellettuale, ha una missione da compiere. Il pessimismo di
Consolo, dunque, a ben guardare, non rasenta l’annullamento alla Beckett, di
Aspettando Godot per intenderci, perché quest’ultima sua prova letteraria, alla
fin fine, è una dichiarazione d’amore nei confronti di un’umanità non ancora
perduta. L’ideale richiamo a La terra desolata di Eliot non si può tralasciare
( tanto più che questo testo è perfino citato esplicitamente), ma non ci sono approdi
metafisici in Consolo, perché la sua fede è laica, la sua speranza è tutta
terrena. D’altra parte L’olivo e l’olivastro, non a caso, già nel titolo stesso
mette in risalto le due anime della Sicilia e Consolo per questo è ricorso, con
felice scelta, a un’immagine dell’Odissea.
L’olivo e l’olivastro, infatti, nascono dal medesimo tronco, ma hanno sorte
diversa, simboleggiano il contrasto tra il coltivato e il selvatico, l’umano e
il bestiale, la salvezza nella cultura o la perdita di sé in un destino
puramente naturale. La scrittura fluisce quasi magmatica, non sostenuta da una
vera e propria trama, secondo una peculiarità stilistica di Consolo; la sua preoccupazione,
tuttavia, qui non è tanto il raccontare qualcosa organicamente, quanto far
evidenziare lo stato di disagio interiore dinanzi ad un mondo che non riconosce
più, un mondo dal passato glorioso, addirittura mitico, ora ridotto in cenere
dagli scempi ambientali, dalla corruzione politica, dalla sanguinosità della
mafia, dall’omologazione sociale, dal consumismo della civiltà post
-industriale che non rispetta secolari tradizioni e cancella i segni di una
singolare cultura millenaria. Il viaggio di Consolo, quindi, è davvero il
viaggio di un Ulisse disperato, che non si dà per vinto, però, e che nel suo
peregrinare oppone alle violenze del presente folgorazioni senza tempo dove gli
appaiono figure ed eventi straordinari: i leggendari mostri di Scilla e Cariddi
e gli armenti del Sole descritti nell’Odissea; Pirandello che rende omaggio a
un Verga vecchio e deluso; Caravaggio intento a dipingere per la siracusana
chiesa di Santa Lucia al Sepolcro una sacra effige giudicata oscena dal vescovo
per il suo drudo realismo. L’autore, tra un gorgoglio lessicale di
“sicilianerie”, che stuzzica il ricordo e la nostalgia (anche se il
potere evocativo della parola non servirà comunque a scongiurare l’oblio),
percorre i luoghi epici e domestici di Omero e dei Malavoglia, segue le orme di
viaggiatori illustri come Goethe e Maupassant, vagola nei paesi distrutti dai
terremoti o dall’insipienza degli uomini, lasciandosi prendere dallo stupore
ogni qualvolta paesaggi lui familiari disegnano l’orizzonte: “Ora remote,
lievi, diafane come carta o lino, ferme o vaganti in mare, sospese in cielo,
ora invisibili come cortine di nuvole, ora avanzanti, prossime alla costa,
scabre e nitide”. E’ una fiabesca visione delle Eolie, dettata forse da
una suggestione quasimodiana, dove lo scrittore può abbandonarsi alla poesia, a
quegli squarci lirici che insieme agli inserti romanzeschi costituiscono le
uniche, vere accensioni per il lettore. Bisogna dire, in effetti, che una certa
discontinuità in quest’opera di Consolo c’è, ma la sua risulta un’operazione
riuscita complessivamente, grazie all’attenta ricerca linguistica. Musicalità e
sapienza nell’amalgamare bene cronaca a prosa aulica, poesia a documento,
contribuiscono sensibilmente a fare de L’olivo e l’olivastro un libro
interessante con un grande pregio, quello di spingere alla riflessione,
espressionisticamente mettendo in luce il problema ecologico con un
procedimento che ricorda in qualche modo, sia pure trasposto in termini
cinematografici, Sogni, l’ultimo film del grande regista giapponese Akiro
Kurosawa.
Sergio Palumbo (articolo tratto da “nuovo notiziario delle Isole Eolie” – Ottobre 1995)