Per una storia di Il sorriso dell’ ignoto marinaio

Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio
di Vincenzo Consolo
Nicolò Messina
Universitat de Girona
Abstract
Il contributo tenta di delineare la storia del farsi dell’opera piú studiata di Vincenzo Consolo
sulla scorta dei testimoni già sottoposti a recensio (edizioni a stampa, dattiloscritti,
manoscritti).
Parole chiave: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, edizioni critico-genetiche, ecdotica
di testi moderni e contemporanei.
Abstract
The contribution attempts to outline the history of the creation of Vincenzo Consolo’s
most studied work, based on the supply of accounts already submitted to review (printed,
typed and manuscript editions).
Key words: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, critical-genetic editions, critical editions
of modern and contemporaneous texts.
1. In limine
Nella presentazione della nuova collana «Clásicos Modernos» di una delle piú
prestigiose case editrici spagnole, José Saramago, senz’altro nel suo castigliano
deliziosamente lusitaneggiante e con il suo abituale tono deciso, asseriva pubblicamente:
«Estamos hechos de pasado. El presente no existe y el futuro no
sabemos lo que es».
1 La frase potrebbe ben costituire l’esergo di queste pagine,
che hanno per oggetto-soggetto Il sorriso dell’ignoto marinaio, e l’aggancio
è almeno doppio.
1. L’incontro pubblico, organizzato dalle edizioni Alfaguara, si è tenuto al Círculo de Bellas
Artes di Madrid il 27 settembre 2004. L’idea della collana è dovuta — a detta della stessa direttrice
editoriale di Alfaguara, Amaya Elezcano — a un suggerimento del Nobel portoghese.
La collana, inaugurata da Jacques el fatalista di Denis Diderot, annovera tra i primi
volumi, già in libreria, anche i manzoniani Los novios nella traduzione fattane da Esther
Benítez. Cfr. El País (Martes 28 de septiembre de 2004): 42.
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Da un lato, infatti, e non appaia aneddotico, il Sorriso è stato la scorsa primavera
ripubblicato da Mondadori in una collana che curiosamente ricorre
alla medesima etichetta: «Classici moderni»;
2 dall’altro, poi, l’affondo di Saramago
— non a sproposito in un oggi affetto da multiformi amnesie — rivendica
in sé e per sé il ruolo della memoria senza la quale non siamo, e non certo
perché atteggiati a conservatori idolatri del vissuto umano, perché abbarbicate,
irremovibili ostriche verghiane3 o stanchi e immalinconiti laudatores temporis
acti. Al riguardo, quale migliore sintonia con Consolo? Il quale — è risaputo
— da sempre s’oppone vigile all’appiattimento stritolante sull’unica dimensione
temporale del presente, comodo, se non programmaticamente ricercato
dagli autarchi che s’ispirano al pensiero unico. Ecco perché forse Consolo,
da sempre, fa letteratura ricorrendo a metafore storiche. D’altra parte, come
piú di uno ha sottolineato, è certo intorno alla funzione attiva, alla forza propulsiva
della memoria che quaglia la metafora del Sorriso: un ieri, ottocentescamente
databile, in dialettica con l’oggi del lettore (la metà degli anni Settanta
del secolo breve appena concluso, ma anche la metà del primo decennio di
questo nostro nuovo secolo).4
2. Cfr. piú avanti il riferimento bibliografico completo.
3. Per fugare ogni possibile dubbio sulla propulsività della memoria, da non intendere pertanto
quale attaccamento […] allo scoglio di un rassegnato immobilismo, non è fuori luogo
citare per esteso, il noto passo di Fantasticheria (1879), che, pur estrapolato dal suo contesto
e con tutti i sottili distinguo dell’autore, sembra presago di un certo fatalismo misoneista,
improntato piú all’inutilità che all’impossibilità di ogni reazione umana alle condizioni
e ai ruoli assegnati; manifestazione, in breve, di una sorta di noluntas: «Insomma l’ideale
dell’ostrica! direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di
trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento
di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre
seminava príncipi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di
stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che
la circondano, mi sembrano — forse pel quarto d’ora — cose serissime e rispettabilissime
anch’esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente
nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati
di generazione in generazione.» (G. VERGA, Tutte le novelle, ed. Carla RICCARDI, Milano:
Mondadori, 1979; 19965, p. 135-136)
4. Per felici coincidenze, alle giornate sivigliane all’origine di queste note partecipava anche
Maria Attanasio, fine autrice di poesie (Interni, Parma: Guanda, 1979; Nero barocco nero, Caltanissetta-Roma:
Sciascia, 1985; Eros e mente, Milano: La Vita Felice, 1996; Amnesia del
movimento delle nuvole, Milano: La Vita Felice, 2003; 20043), che si rivela scossa dall’identica
volontà di resistenza all’oblio, a giudicare dai frutti delle ore da lei dedicate alla
prosa: Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Palermo: Sellerio, 1994;
Piccole cronache di un secolo, Palermo: Sellerio, 1997 (con Domenico AMOROSO); Di Concetta
e le sue donne, Palermo: Sellerio, 1999. Proprio da quest’ultimo, commosso, bel librotestimonianza
si estrapolano deliberatamente due brani assai eloquenti sull’etica dello
scrivere: «Un tempo ogni città, piccola o grande, affidava la storia civile della comunità alla
scrittura del cronista; insieme agli eventi civici e allo straordinario egli spesso registrava
anche l’ordinario di essa […] sottraendone la memoria alle azzeranti generalizzazioni della
storia, che per sua natura emargina in un’impenetrabile zona d’ombra l’alfa e l’omega costitutivi
della sua trama» (p. 32); «Non restava che […] testimoniare direttamente questa piccola
storia di ordinaria militanza, una tra le tante di quegli anni. || Senza però sottrarsi al
Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 115
2. De finibus terminisque constituendis
Su Consolo e Il sorriso dell’ignoto marinaio, in particolare, l’interesse critico
non è mai tramontato. Ingente è ormai la letteratura secondaria. Da un lato,
ne fanno fede le bibliografie via via aggiornate e desumibili da volumi e riviste:
dalla prima monografia di Flora Di Legami5 al numero omaggio di Nuove Effemeridi,
6 dal libro di Attilio Scuderi7 a quello recente di Giuseppe Traina,8 dal
«ritratto» di Enzo Papa9 alla premessa editoriale dell’ultima ristampa dell’opera.10
Dall’altro, chiara eco se ne riceve anche da collectanea a seguito di convegni
dedicati allo scrittore: si rammentino almeno quelli organizzati nel solo
ultimo torno di tempo a Parigi, Siracusa, Siviglia.11
Anche i lettori, dilettanti e non solo professionisti della letteratura, compresi
quanti si escludono dal novero degli estimatori piú ferventi dell’opera
consoliana, riconoscono unanimi nel libro, in questo libro, un classico: non
sorprende perciò il suo inserimento in una collana ad hoc, né che qualcuno,
come Sergio Pautasso, dichiari apertamente il piacere di rileggerlo o che qualcoinvolgimento
emozionale, né fingere un’ipocrita oggettività: memoria emotivamente condivisa
per i protagonisti che ancora camminano per le strade, gesticolano odiano amano,
continuano a resistere come possono, e s’incazzano in questo smemorato Occidente dove la
supponenza della mondializzata economia di nuovo si autocelebra, in nome del mercato e
del profitto, universale essenza dell’uomo contro l’uomo. E la sua spregiudicata ancilla
— la politica — l’asseconda, insieme a Marx e a Voltaire, gettando l’utopia, come un nastro
smagnetizzato, nelle discariche della storia.» (p. 35)
5. F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti (Messina): Pungitopo,
1990.
6. Nuove Effemeridi. rassegna trimestrale di cultura, 29, [Palermo: Guida] 1995.
7. A. SCUDERI, Scritture senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna:
Il Lunario, 1998.
8. G. TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze): Cadmo, 2001.
9. E. PAPA, «Ritratti critici di contemporanei: Vincenzo Consolo», Belfagor, LVIII 344, 2003,
179-198.
10. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori,
2004, p. XIV-XVII.
11. Ancora in corso di stampa gli atti del convegno Vincenzo Consolo. Éthique et écriture, tenuto
alla Sorbonne Nouvelle venerdì 25 e sabato 26 ottobre 2002, con interventi di Guido
Davico Bonino, Maria Pia De Paulis, Denis Ferraris, Giulio Ferroni, Rosalba Galvagno,
Walter Geerts, Valeria Giannetti, Claude Imberty, Jean-Paul Manganaro, Antonino Recupero,
Marie-France Renard, Cesare Segre. Sono invece usciti quelli del convegno siracusano:
Enzo PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo. Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo
Consolo (Siracusa, 2-3 maggio 2003), San Cesario di Lecce: Manni, 2004, con contributi
di Paolo CARILE, «Testimonianza» (p. 11-13); Maria Rosa CUTRUFELLI, «Un severo, familiare
maestro» (p. 17-22); Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo
Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo» (p. 23-58); Massimo ONOFRI, «Nel magma
italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale» (p. 59-67); Sergio
PAUTASSO, «Il piacere di rileggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, o dell’intelligenza narrativa»
(p. 69-80); Carla RICCARDI, «Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa
di Consolo» (p. 81-111); Giuseppe TRAINA, «Rilettura di Retablo» (p. 113-132). Le relazioni
presentate alle giornate di studio sivigliane, Vincenzo Consolo. Per i suoi 70 (+1) anni
(Universidad de Sevilla, Facultad de Filología, 15-16 ottobre 2004), costituiscono il nucleo
di questo numero di Quaderns d’Italià.
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che altro, come Massimo Onofri, ammetta Consolo in un canone resistente
allo stesso variare delle mode critiche.12
D’altronde, il ruolo principe rappresentato dal Sorriso nel corpus consoliano
è a piú riprese e in vari modi e gradazioni sottolineato dallo stesso autore:
in interviste13 o anche in interventi sparsi, dalla postfazione all’edizione mondadoriana
del ventennale14 alla lectio magistralis in occasione dell’investitura a
doctor honoris causa dell’Università di Roma Tor Vergata (18 febbraio 2003).
Delineato tale scenario, arduo intervenire su quest’opera. Per l’occasione,
quindi, con formula ciceroniana, mihi fines terminosque constituam e sottoporrò
al dibattito critico un qualcosa di forse piú congeniale alla mia natura di
manovale della filologia: un tentativo di tracciare una storia o, meno ambiziosamente,
una cronaca del farsi del libro dalla sua «preistoria» in avanti, sistematizzando
materiali sparsi, piú o meno noti, e aggiungendovi, con cautela,
alcuni elementi nuovi. Una certa prudente reticenza è peraltro consigliabile, dettata
com’è dallo svolgimento in atto di una ricerca, ormai quasi in dirittura
d’arrivo, intesa proprio all’allestimento di una edizione critico-genetica del
Sorriso. Insomma, ricorrendo alle categorie di avantesto, paratesto e testo, le
mie intenzioni saranno piú perspicue e, ancor di piú, se si preciseranno le
coordinate di una prospettiva ecdotica in cui nulla va «ricostruito», perché
niente è stato «distrutto»; e nemmeno si tende a restituire in via ipotetica un
archetipo smarrito e forse mai tangibilmente esistito, per definizione optimus
e via via degradatosi nelle sue imperfette, corrotte riproduzioni, giacché l’opera,
nella lezione licenziata dall’autore, è a nostra portata di mano. È una
prospettiva di contro piú complessa e solo nominalmente, per cosí dire, capovolta:
in essa, difatti, i testimoni recentiores, già dopo Giorgio Pasquali ammessi
non deteriores, non sono però di necessità accettabili come senz’altro meliores
— anzi meta raggiunta, immigliorabile e addirittura ottima dell’iter creativo —
e pertanto suggellati dal definitivo ne varietur dell’autore. Essi semmai presuppongono,
trovano giustificazione fondante nei testimoni antiquiores, o piuttosto
antiquissimi (dalla nota sparsa allo scartafaccio, ai prodotti delle successive
fasi e decantazioni scrittorie), i quali al cospetto dei recentiores o ultimi, espressione
dell’optima voluntas dell’autore, sarebbero certo da considerare tout court
12. Cfr. rispettivamente i saggi accolti in E. PAPA, (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 69-80 e
59-67.
13. Dalle lontane Mario FUSCO (ed.), «Questions à Vincenzo Consolo», La Quinzaine Litté-
raire, 321, 1980, 16-17; a Marino SINIBALDI (ed.), «La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo»,
Leggere, 2, 1988, 8-15; dalla piú organica uscita in volume dal titolo guttusiano (è la
didascalia di un quadro [olio su tela, cm.147,2 x 256,5] del 1940, finito l’anno prima e
conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma), V. CONSOLO, Fuga dall’Etna.
La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma: Donzelli, 1993, a quelle recentissime,
l’una a cura di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 123-138, o l’altra leggibile in internet,
a cura di Dora MARRAFFA e Renato CORPACI, Italialibri, www.italialibri.net, 2001.
14. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni
dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori, 1997, p. 173-183; poi in ID., Di qua dal
faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 276-282, ed anche nell’ultima riproposta del Sorriso,
ed. 2004, p. 167-175.
destituiti di tutti i valori loro attribuibili dalla stemmatica classica, in quanto
— pur prossimi al codice x dell’opera — non si collocherebbero al di sotto di esso,
non ne costituirebbero una fase cronologica piú bassa, inferiore, bensí soltanto
e nient’altro che il piú alto, superiore e superato, perciò trascurabile, stadio
magmatico embrionale. E tuttavia, per ciò stesso, tali reperti vanno sottoposti
ad accurata recensio e collatio, e risultano necessari e imprescindibili per studiare
il di-venire del testo dalla prima intelaiatura verso la tessitura rifinita,
proprio perché nella genesi dell’opera rappresentano il caos primordiale, l’arché
primigenia, non formata, l’impulso d’avvio e soprattutto la prova dei vari
movimenti del testo fino al risolutivo colpo di timone dell’autore, insomma
una sorta di illuminante pre-archetipo.15
3. L’emerso
Per comodità converrà sin dall’inizio tracciare la mappa delle edizioni a stampa
[in grassetto l’ulteriore precisazione cronologica], anche perché sono quelle
consultabili ed accessibili, e ad esse si rimanderà spesso:
1969 «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Nuovi Argomenti, Nuova Serie, n. 15
[luglio-settembre]: edizione parziale, cap. I, senza Antefatto né Appendici
I e II;
1975 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Gaetano Manusé, edizione numerata
con un’incisione firmata di Renato GUTTUSO: edizione parziale,
cap. I, con Antefatto e Appendici I e II; e cap. II, L’albero delle quattro
arance, senza Appendici I e II [autunno];
1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi: editio princeps [finito di
stampare 10 luglio, 1ª ed.; 18 settembre, 3ª ed.];
1987 Il sorriso dell’ignoto marinaio, intr. Cesare SEGRE, «Oscar oro. 9», Milano:
Mondadori [marzo];
1992 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Nuovi Coralli. 464», Torino: Einaudi;
1995 Il sorriso dell’ignoto marinaio, ed. commentata a cura di Giovanni TESIO,
intr. Cesare SEGRE, «Letteratura del Novecento», Milano: Elemond
Scuola [dicembre];
1997 Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni
dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori [febbraio];
2002 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar scrittori del Novecento», Milano:
Mondadori [gennaio];
2004 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano:
Mondadori [marzo].
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15. Solo qualche riferimento bibliografico ormai canonico: Louis HAY (ed.), Essais de critique géné-
tique, Paris: Flammarion, 1979; Amos SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des
Caraïbes du XX siècle. Théorie et pratique de l’édition critique, Roma: Bulzoni, 1988; Almuth
GRÉSILLON, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris: P.U.F., 1994;
Giuseppe TAVANI, «Filologia e genetica», Cuadernos de Filología Italiana, 3 (1996): 63-90;
Michel CONTAT & Daniel FERRER (edd.), Pourquoi la critique génétique? Méthodes, théories,
Paris: CNRS Éditions, 1998.
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Non è agevole fissare date precise di avvio di una scrittura, neanche — si sa
— nel caso di scrittori ancora produttivi con cui poter dialogare. Nel caso del
nostro libro, ad ogni modo, tutto il movimento del testo — è ovvio — sarà
iniziato verosimilmente tra l’a quo di La Ferita dell’aprile, il «mese piú crudele»
di eliotiana memoria, cioè il 1963,16 e la prima «orditura» licenziata dall’autore:
quel Il sorriso dell’ignoto marinaio apparso su Nuovi Argomenti
(luglio-settembre 1969), che corrisponde grosso modo al futuro cap. I del libro,
ma non è ancora corredato né dell’Antefatto, né delle due Appendici documentarie
a firma del protagonista, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca.17
È un dato accertato, comunque, che le pagine appena ricordate, già dotate
evidentemente, all’avviso dell’autore, di una loro autonomia e compiutezza
narrativa, erano state in precedenza mandate, ma senza esito, alla rivista Paragone
di Roberto Longhi e Anna Banti. A motivare l’invio è appunto il Trittico
siciliano di Longhi, scritto in occasione della grande mostra del 1953 a Messina
su Antonello e la pittura del ‘400 in Sicilia, ma il critico, in un incontro pubblico
a Milano nel 1969, all’autore che chiedeva notizie del suo racconto cosí
rispondeva severamente: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore
letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio
deve finire!».
18 Rievocando l’episodio, Consolo cerca di giustificarlo cosí:
Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava
il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente,
che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma
su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare
Antonello. Quello effigiato lí era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in
chiave scientifica, ma letteraria.19
Il testo veniva, allora, risolutamente spedito a Enzo Siciliano ed usciva finalmente
su Nuovi Argomenti, la rivista di Alberto Carocci, Alberto Moravia e
Pier Paolo Pasolini. La memoria personale dell’autore, corroborata dalla testimonianza
di Caterina Pilenga, conosciuta subito dopo il trasferimento a Milano
nel Capodanno del 1968, e da un certo punto in possesso di «ambo le chiavi
| del cor» consoliano,20 questa doppia memoria fornisce altri dati di notevole
interesse nella cronologia del farsi dell’opera.
16. Dal colophon si estraggono i seguenti dati piú precisi: «[…] impresso nel mese di settembre
dell’anno 1963 […] Il Tornasole — Pubblicazione periodica mensile — Registrazione
Tribunale di Milano n. 6273 del 14-3-1963 […]». Dell’opera si attende l’imminente versione
spagnola a cura di Miguel Ángel Cuevas.
17. La pubblicazione — sia concessa l’indiscrezione — avrebbe fruttato all’autore un compenso
di Lit. 16.000. In una lettera della direzione della rivista del 12 dicembre 1969, infatti, si
conferma l’avvenuta pubblicazione (nel «numero testé pubblicato») e si comunica l’emissione
di un assegno di tale importo.
18. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 37-38.
19. Ibid., p. 38.
20. Cosí viene presentata la futura moglie: «una delle cinque o sei persone che avevano letto» con
entusiasmo la Ferita su segnalazione di Raffaele Crovi (Ibid., p. 35). Il quale è tra l’altro fra
In primo luogo, riporta la chiusura del racconto, con quelle verosimili fattezze,
a quell’anno 1968 e informa dell’avvenuta stesura, a quella data, e prima
dell’arrivo a Milano nel gennaio 1968, anche del futuro cap. II L’albero delle
quattro arance; inoltre, conferma che, dopo il fisico manifestarsi in Nuovi Argomenti,
il progetto narrativo, di cui il racconto pubblicato è la prima concretizzazione,
viene momentaneamente accantonato, anche se l’autore è nel
frattempo preso dalla stesura del futuro cap. III Morti sacrata, che nessuno ha
letto, tranne la moglie Caterina, e di cui alcuni sono a conoscenza (Corrado
Stajano); infine, aggiunge che nel 1975 Consolo ottiene dalla RAI, nella cui
sede milanese lavorava,21 un permesso di sei mesi, lascia Milano e torna in
Sicilia dove collabora al giornale L’Ora di Vittorio Nisticò22 ed è raggiunto
quell’estate da Caterina.
Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 119
i pochi frequentati da Consolo, oltre al conterraneo Basilio Reale, sin dal tempo del primo
soggiorno milanese (G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 11): sono i tre anni della frequenza
della Cattolica (1952-56), che saranno poi seguiti dal servizio militare a Roma,
dalla laurea a Messina, dal praticantato notarile, dall’inizio del lavoro d’insegnante nel 1958
(E. PAPA, art. cit., p. 194).
21. A sottolineare i difficili rapporti di lavoro, l’azienda viene definita, una «fabbrica di armi»
(V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 34).
22. Vale la pena di riportare sull’esperienza giornalistica consoliana un brano dello stesso V.
NISTICÒ, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, I, Palermo: Sellerio, 2001,
p. 113-114: «[…] Vincenzo Consolo, sebbene vivesse ormai a Milano, da inquieto esule
qual era, non perdeva occasione per tornare in Sicilia, dai suoi a Sant’Agata, e far sosta,
potendo, anche al giornale. In fondo, tra i nostri scrittori era quello che sentivamo piú di
casa, il piú famigliare. Amavamo di lui il garbo, la modestia, il senso di amicizia, gli accenni
di sorridente ironia, non meno di quanto ci affascinassero i ricami della sua scrittura, la
sua totale mediterraneità, quei fuochi improvvisi della sua passione letteraria e civile. Tra
il ‘68 e il ‘69 pubblicammo una sua rubrica di annotazioni, «Fuori casa», un piccolo gioiello
di giornalismo che diventa letteratura. || Nei primi mesi del ‘75 Consolo si trasferì per un po’
di tempo a Palermo; glielo avevo chiesto perché ci desse una mano in vista delle importanti
elezioni amministrative di giugno e di un evento che ci interessava direttamente: la candidatura
di Leonardo Sciascia al consiglio comunale di Palermo. Era, la venuta di Consolo, un
ritorno in redazione dopo l’esperienza di alcuni anni prima, quando si era trasferito da
Sant’Agata per lavorare al giornale e impratichirsi del mestiere. Ma si era trattato di un’esperienza
durata relativamente poco, interrotta dalla decisione di andarsene a Milano e
dare, da allora in poi, la priorità assoluta alla letteratura; sarebbe stata lei la sua vita, il suo
destino. || Tuttavia un desiderio di giornalismo, sebbene latente, rimase sempre vivo, e pronto
a venir fuori quando si presentava l’occasione buona. Fu cosí in quei mesi del ‘75, quando
facendo la spola tra la casa materna di Sant’Agata e la nostra redazione, si buttò con
manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. Partecipando dapprima con articoli e
interviste alla campagna per il buon governo e la candidatura di Sciascia, poi nell’estate
andando in giro col taccuino del cronista a seguire a Trapani il processo al «mostro di Marsala»
(l’uomo che aveva fatto morire tre bimbe gettandole vive in un pozzo), o la vicenda del
sequestro Corleo, il patriarca delle esattorie. In pieno agosto, si era persino spinto, e credo
anche divertito, a fare un «viaggio» di osservazione tra gli uffici semideserti di Palermocapitale.
Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio
e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a «Il sorriso
dell’ignoto marinaio»: il capolavoro che da lí a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi
della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione. A dicembre ne pubblicammo in
anteprima un capitolo: la festa in casa del barone Mandralisca.»
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Siamo dunque, estate del 1975, alla vigilia dell’edizione numerata in 150
esemplari con incisione firmata di Renato Guttuso per i tipi di Gaetano Manusé,
edizione nel cui colophon è dichiarata la data dell’«autunno MCMLXXV».
Manusé, da Valguarnera Caropepe di Sicilia, titolare prima di una bancarella
poi di una libreria antiquaria a Milano, si era dichiarato interessato a pubblicare
qualcosa di Consolo e, saputo dalla moglie Caterina, sollecitata in tal
senso, dell’esistenza di un prosieguo del racconto già apparso sulla rivista moraviana,
propone la pubblicazione per bibliofili del Sorriso. Basta ricordare che della
composizione e tiratura si occuperà Martino Mardersteig della Stamperia Valdonega
di Verona, erede della prestigiosa Officina Bodoni di Verona fondata dal
padre Giovanni Hans, e che per l’occasione Leonardo Sciascia coinvolgerà
Renato Guttuso il quale, rileggendo il ritratto di Antonello, appresterà un’incisione
in cui viene rovesciata l’angolazione dell’immagine rispetto all’attante:
il trequarti del misterioso personaggio non è rivolto a sinistra, ma a destra.23
Domenica 30 novembre 1975, la pagina culturale di Il Giorno di Milano
pubblica un lungo articolo di Corrado Stajano, dal titolo redazionale molto
allettante.24 Al corrente delle alterne, combattute vicissitudini dello scriptorium
di Consolo, conscio di quanto vi sta accadendo, Stajano fa una mossa a
sorpresa: recensisce il libro appena uscito, ma ad un tempo, parlandone come
della parte di un tutto imminente, sembra voler forzarne la definitiva confezione.
Dopo aver presentato, difatti, le attività del libraio, cosí scrive:
Adesso Manusé ha esaudito il gran sogno della vita, è diventato editore e c’è la
possibilità, dicono gli uomini di penna, che questo primo libro che ha stampato,
[…] possa creare un nuovo caso letterario. Perché qui si sono incontrate
due corde pazze siciliane, quella di Manusé e quella dello scrittore del libro,
o meglio dei primi due capitoli del libro pubblicati in questo volume, che gli editori,
quando il romanzo sarà finito, certo si contenderanno, perché «Il sorriso dell’ignoto
marinaio» è un nuovo «Gattopardo», ma piú sottile, piú intenso del
romanzo di Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia poetico, di venosa lava sanguigna
e insieme razionalmente freddo nei suoi teoremi dell’intelligenza. Uno
scritto che arriva dentro l’impensata bottiglia di Manusé e che non ha nulla in
comune con nessuno dei 17 mila libri che si pubblicano ogni anno in Italia.
Gli articoli pubblicati nel 1975 sono: «Un moderno Ulisse fra Scilla e Cariddi. Sfogliando
il Gran libro di Stefano D’Arrigo» (22 febbraio); «L’avventurosa vita di Emilio
Isgrò» (4 aprile); «Il malgoverno e l’impegno politico di Sciascia. Conversazione con Alberto
Moravia» (30 maggio), «Il malgoverno e l’Università. Conversando con il Rettore dell’Università
di Palermo, Giuseppe La Grutta» (13 giugno); vari servizi per il «Processo al
“Mostro di Marsala”» (20, 21, 25, 30 giugno; 5, 11 luglio) e sul sequestro dell’esattore Luigi
Corleo (18, 19 luglio); «A colloquio con il tenore Di Stefano» (14 luglio); «Tanta scienza e
un po’ di show» (26 luglio); «Che ne pensa Grassi, sovrintendente della Scala, del “caso
Lanza Tomasi”?» (29 luglio); «In giro per gli uffici ad agosto» (9, 13 agosto); «Il giallo Majorana
visto da Sciascia» (9 settembre).
23. L’incisione all’acquaforte viene eseguita a Palermo, in una stamperia vicina alla Galleria
Arte al Borgo frequentata dallo scrittore di Racalmuto.
24. C. STAJANO, «Il sorriso dell’ignoto marinaio. Due siciliani pazzi per un libro “unico”», Il Giorno,
Domenica 30 novembre 1975, 3.
E piú avanti, in chiusa, fornisce anticipazioni sulla fabula e sprona, quasi rimbrotta
l’autore:
Vincenzo Consolo, con tutte le sue contropoetiche, politicamente motivate,
è troppo scrittore per rinunciare a scrivere, come avrebbe voluto. Gli è successa
la sorte descritta da Roland Barthes ne «Il grado zero della scrittura»:
«Partito per uccidere la letteratura, l’assassino si ritrova scrittore». […] ora sta
lavorando ai capitoli finali del romanzo, la rivoluzione contadina di Alcara Li
Fusi, la repressione dello Stato italiano dopo la speranza portata da Garibaldi.
Interdonato è il procuratore generale del processo contro i contadini, violenti
contro la violenza. Mandralisca gli scrive una lunga memoria, i contadini
cercano di narrare loro, la loro storia. Ci riusciranno?
«Il sorriso dell’ignoto marinaio» […] è l’ultima difesa di uno scrittore che
non voleva scrivere piú perché, quando il mondo s’incendia, la vita è meglio
viverla che raccontarla.
C’è da pensare che, sotto la forte pressione morale-psicologica delle tre
colonne di Stajano, Consolo raccogliesse il guanto della sfida che vi era insita
e che, nello scorcio del 1975 e il primo semestre del 1976, con un lavoro che
non si fa fatica ad immaginare, con il Leopardi da lui tanto amato, «matto e
disperatissimo», stendesse e organizzasse il resto dell’opera: gli attuali capitoli
IV-IX. Einaudi finisce, infatti, di stampare la prima edizione del libro quale
sarà conosciuto dal vasto pubblico, l’editio princeps, il 10 luglio 1976 e ne farà
circolare altre due stampe identiche, la terza licenziata il 18 settembre dello
stesso anno.
4. Tra emerso e sommerso
Questi in buona sostanza i punti fermi del farsi del testo, i momenti fondanti
della sua storia esterna. Se ne trae l’immediata idea di un progetto in crescendo,
in progressione geometrica.25 Ma questi dati, relativi al merito e alle
vicende dei soli testimoni a stampa, rappresentano solo l’emerso del testo e,
in una prospettiva ecdotica critico-genetica, vanno naturalmente confrontati con
quelli di quante altre fonti sia ancora possibile sottoporre a recensio e collatio.
E qui, come anche per ogni altra opera di qualsivoglia altro scrittore, qualunque
sforzo risulterebbe vano se l’autore volesse tutelare ad oltranza la legittima
riservatezza della propria fucina, del proprio scriptorium. Il lavoro insomma
Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 121
25. Forzando la suggestiva immagine del fondamentale saggio di Cesare SEGRE, «La costruzione
a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», in ID., Intrecci di voci.
La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino: Einaudi, 1991, p. 71-86 (trattasi dell’«Introduzione»
dell’edizione 1987 del Sorriso, p. V-XVIII, ripubblicata in quella del 1995,
p. V-XIX), è come se tessere autonome (dal racconto iniziale, cap. I e II, all’integrazione del
resto) si siano andate collocando a formare il mosaico dei gradini della scala tortile, ad
imbuto dantesco, che — se si vuole accogliere l’interpretazione dei simboli di G. TRAINA,
Vincenzo Consolo, op. cit., p. 61-70 — avrebbe consentito la discesa agli inferi e l’ascesa salvifica
del protagonista.
122 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina
si bloccherebbe o potrebbe andare avanti solo con le carte di scrittori conservate
in biblioteche, fondazioni, centri appositi (l’esempio piú noto, Pavia) o
variamente e comunque riscattate, come per gli oltre 40 volumi già pubblicati
della Collection Archives,
26 il cui comitato scientifico è presieduto dal prestigioso
romanista italiano Giuseppe Tavani.27
Nel caso del Sorriso, la generosa disponibilità dei coniugi Consolo, informati
della necessità di queste esplorazioni per il mio studio, e in particolare l’amorevole
scrupolosità di Caterina nel preservare materiali rivelatisi preziosi, hanno
consentito di accumulare ingente informazione sulla scorta degli altri testimoni
superstiti: tre bozze di stampa, di cui una eliminanda perché descripta,
tre cartellette di dattiloscritti e un fascicolo dattiloscritto rilegato con l’opera intera;
cinque manoscritti.
Ma prima, per completare il quadro dell’emerso, bisognerà rendere conto
anche della contemporanea attività scrittoria del Nostro, in qualche misura
dialogante con il progetto non ancora ben definito in quel lasso di tempo. La
preistoria del Sorriso, quei tredici anni di lunga gestazione, grosso modo dal
1963 al 1976, sono affiancati da altre scritture.
Da una parte, le collaborazioni giornalistiche, tra cui spiccano: la rubrica
Fuori casa, tenuta su L’Ora di Palermo;28 e vari reportages per Tempo illustrato.
Ai fini dello studio del Sorriso sembrano importanti diversi di tali scritti. In
primo luogo, il racconto Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, uscito prima su
26. La collana, diretta da Amos Segala e posta sotto il patrocinio dell’UNESCO, è affidata a
un Consiglio di firmatari europei e latino-americani del Protocollo Archivos — ALLCA
XX (Association Archives de la Littérature Latino-américaine, des Caraïbes et Africaine du XXe
siècle) e sottoposta alla valutazione di un Comitato scientifico internazionale. Le pubblicazioni
seguono le indicazioni emerse dai seminari di Parigi (1984) e Oporto (1985), poi
confluite nel volume di A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe
siècle, op. cit.
27. Oltre all’art. cit., imprescindibili sono per equilibrio e dottrina: G. TAVANI, «Le Texte:
son importance, son intangibilité»; «Teoría y metodología de la edición crítica», «Los textos
del Siglo XX», «Metodología y práctica de la edición crítica de textos literarios contemporáneos»;
«L’édition critique des auteurs contemporains: vérification méthodologique»,
tutti in A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit.,
rispettivamente: p. 23-34, 35-51, 53-63, 65-84, 133-141. Cfr. inoltre: G. TAVANI, «L’edizione
critico-genetica dei testi letterari: problemi e metodi», in Venezia e le lingue e letterature
straniere. Atti del Convegno, Università di Venezia, 15-17 aprile 1989, Roma:
Bulzoni, 1991, p. 323-331; «L’apporto dell’edizione di testi moderni alla pratica ecdotica,
ovvero: l’apporto della pratica ecdotica all’edizione di testi moderni», in Anna FERRARI
(ed.), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del
Convegno di Roma, 25-27 maggio 1995, Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo,
1998, p. 545-554.
28. Cfr. l’elenco completo degli articoli firmati da Consolo per il giornale in V. NISTICÒ, Accadeva
in Sicilia, op. cit. In particolare, la rubrica Fuori casa inizia il 7 dicembre 1968 e va
avanti con cadenze irregolari per tutto il primo semestre del 1969 (11 gennaio, 24 febbraio,
10 marzo; 5, 24 e 25 maggio). Dello stesso anno sono: la recensione a Elio VITTORINI, Le
città del mondo (27 settembre 1969) e un articolo sui rapporti tra mafia siciliana e americana
(30 settembre 1969).
L’Ora,
29 poi in un’autorevole silloge di narratori siciliani:30 un racconto strutturato
come cronaca di una visita a Tusa alla famiglia di Carmine Battaglia,
ucciso dalla mafia, in cui si innesta un breve brano documentario del 1860
sull’avversione dei nobili latifondisti al decreto garibaldino del 2 giugno 1860
lesivo dei propri privilegi. L’impianto rappresenterebbe quindi il primo, timido
apparire, non piú di un accenno, di un modo costruttivo esemplato su
modelli tedeschi, sul quale, per sua stessa affermazione, Consolo scommette
con forza nel Sorriso31 e anche in seguito.32 Poi, su Tempo illustrato, un’inchiesta
sui cavatori di pietra pomice delle Eolie affetti da silicosi, come quello
dell’incipit del Sorriso, in pellegrinaggio al santuario di Tindari,33 e un’altra su
Cefalù e quell’Aleister Crowley che apparirà molto dopo in Nottetempo, casa
per casa (1992), e di cui si ha traccia in un quaderno ms del Sorriso che cosí
contribuisce a datare.34 Infine, ancora su L’Ora, il resoconto dell’inaugurazione
di una mostra di Guttuso, i cui appunti iniziali e primo svolgimento si trovano
in un altro quaderno ms alla cui datazione ci si potrà cosí approssimare.35
Dall’altra parte, si annoverano le presentazioni di vari cataloghi di mostre,
di cui due soprattutto rilevanti per la costituzione testuale del Sorriso: l’una di
un’esposizione di Luciano Gussoni (1971), l’altra di un’esposizione di Michele
Spadaro (1972), rilevanti in quanto i cataloghi sono latori di due lacerti rifusi
rispettivamente nei capitoli VII e I.36
Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 123
29. L’Ora, 16 aprile 1966. All’assassinio sono dedicati sul giornale, sempre in prima linea contro
la mafia, articoli di Mauro DE MAURO (in seguito vittima della cosiddetta lupara bianca)
e Mario FARINELLA (24, 25, 26, 28 marzo 1966) e di Felice CHILANTI (9 aprile 1966).
30. Leonardo SCIASCIA & Salvatore GUGLIELMINO (edd.), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia,
1967, p. 428-434.
31. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49.
32. Se si guarda solo alle opere limitrofe al Sorriso, il metodo sarà applicato, per le appendici
erudite, a Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 71-85 (Milano: Mondadori, 1996, p. 93-
129) e, per gli inserti documentari, al racconto lungo «Ratumemi», in Le pietre di Pantalica,
Milano: Mondadori, 1988, p. 47-74, altra storia di feudi del secondo dopoguerra,
tematicamente piú affine a Per un po’ d’erba…
33. «Così la pomice si mangia Lipari», Tempo illustrato, 17 ottobre 1970, di cui non si ha alcuna
traccia nei mss. sottoposti a recensio. In Ms 2 si riscontra invece la prima attestazione di
«Una Sicilia trapiantata nella nebbia», che uscirà sempre su Tempo illustrato. L’articolo è
conservato nel Fondo personale Consolo con l’annotazione di Caterina Consolo: «1970»,
senza indicazione del giorno e del mese, ma nel corpo si ravvisa un post quem: «ottobre».
34. Ms 2, ff. 1-5. Cfr. «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre
1971.
35. Ms 4, ff. 41v
-33v
. Cfr. «Guttuso torna nella “sua” Milano», L’Ora, 18 ottobre 1974. Sempre
nell’ambito delle arti figurative, un altro articolo di alcuni mesi prima: «Bruno Caruso provoca
Milano», L’Ora, 9 febbraio 1974.
36. V. CONSOLO, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza,
10-30 novembre 1971; ID., «Marina a Tindari», in Michele Spadaro, Como, Galleria Giovio,
15-30 aprile 1972; poi anche in ID., Marina a Tindari, commento a cura di Sergio
SPADARO, tiratura in cento esemplari numerati fuori commercio, Vercelli, Arti grafiche Cav.
Piero De Marchi, 1972, p. 15-18. Quest’ultima presentazione è firmata e precisamente
datata, com’è consuetudine dello scrittore: «Vincenzo Consolo || (27 febbraio 1972)».
Nella fase preparatoria delle giornate di studio di Siviglia, ognuno in possesso e informato
di un solo testimone, ci siamo scambiati i dati con il collega Miguel Ángel Cuevas.
124 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina
5. Il sommerso
Tornando ora ai testimoni manoscritti e dattiloscritti del Sorriso, non è questa
la sede per proporne una descrizione esaustiva. Si cercherà invece di metterne
in evidenza la portata facendo solo due esempi su versanti apparentemente
diversi.
Intanto, sulla loro scorta, sarà possibile qualche correzione di tiro cronologica.
Tra i quaderni mss, gli antiquiores, numerati appunto Ms 1 e Ms 2, contengono
frammenti confluiti nella lezione di Nuovi Argomenti. Tra il 1969 e
il 1975 si collocherebbero gli altri due, denominati Ms 3 e Ms 4: sono latori,
infatti, di lacerti non presenti nell’edizione 1969 e interpolati come due scatole
cinesi in quella del 1975: l’uno, Ms 3, di un inciso avente per confini: «Lasciò
la speronara […] alla sua casa a Cefalù» (ff. 31-30v
), l’altro, Ms 4, di un ulteriore
innesto nel tronco dell’inciso precedente: «Dietro questi pezzi […] Caserta
e di Versailles» (f. 18).
Questi stessi due quaderni Mss 3 e 4 sono inoltre legati dal ricordo, presente
in entrambi, del primo incontro tra Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo
avvenuto in un giorno segnalato, il primo in cui grazie a una disposizione del
Concilio Vaticano II si celebrava la messa in lingua italiana: domenica 7 marzo
1965.37 L’appunto potrebbe essere trattato alla stregua di un indizio temporale
e, per come e dove è tradito, una sorta di a quo / ad quem.
38
Il riuso da parte dell’autore di Ms 4, vergato capovolto, assicura poi la trasmissione
dell’articolo giornalistico su Guttuso già ricordato e da datare perciò
ante il 18 ottobre 1974.
Se, infine, contestualmente ai dati appena forniti, consideriamo che Ms 3
tramanda varie stesure di Morti sacrata (futuro cap. III), le prime prove di Val
Dèmone (futuro cap. IV), un appunto che rinvia a Il Vespro (futuro cap. V) e che
Ms 4 tramanda brani di Val Dèmone e la Lettera di Enrico Pirajno all’avvocato
Giovanni Interdonato (futuro cap. VI), si potrebbe inferire che, se non proprio
intorno al 1965 (incontro Sciascia-Piccolo), già alla data del 1974 (articolo
sulla mostra di Guttuso) o tutt’al piú, in ultima istanza, nel 1975 prima dell’edizione
Manusé, il Sorriso fosse per buona parte, quasi per intero in movimento.
Allo stato attuale, mancherebbero attestazioni mss databili solo dei
capitoli VII, VIII, IX.
37. Cfr. Ms 3, ff. 17v e 20; Ms 4, f. guardia 1v
.
38. L’appunto sarà sviluppato in Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 142 e ricordato in Fuga dall’Etna,
op. cit., p. 23-24, dove viene ulteriormente esteso (testo in corsivo nostro): «Al congedo,
sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per
le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”.
“C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente
(avevo trentatrè anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una
sfida verso il barone». L’interesse per il poeta aveva già dato frutto in un’intera pagina del
giornale di Nisticò con un articolo: «Il barone magico: Lucio Piccolo», L’Ora, 17 febbraio
1967, accompagnato da quattro canti inediti. Si noti che «Il barone magico» è il titolo scelto
da Consolo per il trittico che costituisce la penultima parte della sezione Persone, seconda
e centrale di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135, 136-144, 145-149.
Se andiamo ora, secondo esempio, alle tre cartellette di dattiloscritti, se ne
potrà ricavare informazione sia dai fascicoli contenuti, sia anche dai bifogli di
cartoncino colorato (rosa) che li raccolgono e conservano. Ed è informazione
di peso circa il crescere del progetto di scrittura e la graduale definizione dell’architettura
dell’opera. Solo qualche breve accenno.
Si confronti ad es. la copertina della cartelletta denominata Ds 1, contenente
prime stesure dei capp. I-VI, con annotazioni a mano di Caterina Consolo,
con varie modifiche di titolo, con quella della cartelletta designata Ds 3,
contenente tutta l’opera tranne il cap. VI (Lettera…), sulla quale appare già lo
schema definitivo autografo con le date relative alla scansione del tempo interno
dell’opera, in corrispondenza dei singoli capitoli: un’articolazione in tre
parti (la prima: cap. I + App. I e II, cap. II + App. I e II; la seconda: capp. IIIV;
la terza: capp. VI-IX) + Appendici finali, numerate «10)» e intitolate inizialmente
«10) La fucilazione» e poi poste sotto l’epigrafe generica «10)
Appendici»; e ancora qualche titubanza sulla collocazione di Morti sacrata (il
capitolo prima segue «3) Val Dèmone» ed è quindi numerato «4)», ma poi
entrambe le numerazioni vengono emendate ed invertite).
Ancora piú illuminante il fascicoletto numerato Ds 1.1, intitolato polisemicamente
Carte per gioco e con l’eloquentissimo sottotitolo «(Racconti e cose
da raccontare fin dal tempo di Garibaldi)», il quale sembra in tutto e per tutto
lo schema strutturale di un’opera non nata, o piuttosto la crisalide che si trasformerà
nella futura farfalla:39 le Carte sono articolate in tre tempi: «narrativo»
(e sarebbe il Sorriso del 1969, quello di Nuovi Argomenti, preceduto però da
un «Antefatto» scritto ex novo e seguito da un’appendice documentaria (Lettera
di Enrico Pirajno barone di Mandralisca al barone Andrea Bivona),40 «storico»
(con riportati brani documentari storici sulla strage di Alcara e un
bollettino di guerra), «magico o poetico», dedicato a Lucio Piccolo, brano
che con qualche variante vedrà la luce molto tempo dopo nelle Pietre di Pantalica.
41
È evidente, e non può non sorprendere, come in tempi insospettati ed alti
nella cronologia del Sorriso, fossero già tutti presenti i principali semi, gli elementi
lievitati nel futuro libro: l’invenzione diegetica, l’analitico storico d’influenza
tedesca, il poetico; ci fossero i personaggi e i fatti: insomma, come
scrive Enrico Pirajno di Mandralisca, per un momento alter ego dell’autore,
«il timbro e il tono, e le parole» (Sorriso, ed. 2004, p. 119). Sembra pure chiaPer
una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 125
39. Il titolo è allusivo: nugae, carte da gioco (tre come i tempi), cartelle dss «per giocare»,
e verosimilmente anche nel senso traslato del jouer, del play, «da eseguire, interpretare, rappresentare».
Ancor di piú il sottotitolo, con l’accenno al già raccontato (la propria pièce iniziale)
e alle cose o fatti otto-novecenteschi ancora in cerca d’autore, un autore che sappia
come raccontarli, e in quale chiave: diversa dalla canonica, allora, da quella suggerita dagli
auctores?, non alla Verga, Pirandello, Tomasi, Sciascia?
40. Sarebbe la prima attestazione della futura «Appendice prima» del cap. I.
41. È il primo dei tre capitoletti riuniti — come già detto — sotto il titolo «Il barone magico»
nella sezione Persone di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135.
126 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina
ro come fosse già maturata la scelta del «romanzo storico-metaforico»42 con
un occhio rivolto al Manzoni, ma superandone il paternalismo espressivo grazie
all’insegnamento di Verga,43 e l’altro ai tedeschi del Gruppo 47, gli «analitici»
Hans Magnus Enzensberger, Alexander Kluge ed altri, di cui aveva dovuto
leggere pagine sul Menabò vittoriniano (9, 1966) e nelle traduzioni dei primi
anni Settanta,44 e che lo riportavano forse al Manzoni che ritratta e, ormai
spinto alla negazione dei suoi stessi precetti poetici, è capace solo di redigere la
Storia della colonna infame45 che a tutti i costi vuol pubblicare in solido con
I promessi sposi (1842).46
Scorgiamo già all’orizzonte, insomma, il Sorriso quale è arrivato a noi, e
nella chiave e forma, scelte dall’autore, di «romanzo ideologico», cioè di romanzo
«critico», di una ideologia che consiste «nell’opporsi al potere, qualsiasi potere,
nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o
meglio la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze,
i mali e gli orrori del nostro tempo.»47
42. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70; all’insegna della convinzione piú volte manifestata,
ed esplicitata dall’esergo di questo stesso libro-intervista (p. 1), che: «Il solo coerente
sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la
letteratura (H. M. ENZENSBERGER, Letteratura come storiografia)».
43. C. RICCARDI, «Inganni e follie della storia », in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit.,
p. 91.
44. Ibid., p. 82 e p. 109, n. 3. E, prima, cfr. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49.
45. Nell’a parte, quasi alla fine del cap. VII del Sorriso, viene alla fine omesso un brano dell’Introduzione
della Storia manzoniana, che viene bensí riportato nella fonte di quel passo
(in corsivo nostro il lacerto tradito da Luciano Gussoni, op. cit. e poi espunto): «Che vengano,
vengano ad orde sferraglianti, con squilli lame della notte, perché il silenzio, la pausa
ti morde. || Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce.
«…La rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati
che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale…; il
timor fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono state
issate le colonne dell’infamia. || Ma tu aspetta, fa’ piano. […]» (Sorriso, ed. 2004, p. 130).
46. Un’incisiva descrizione della macerante riflessione manzoniana viene proposta da Giovanni
ALBERTOCCHI, Alessandro Manzoni, Madrid: Síntesis, 2003, p. 106-116.
47. In questi termini viene esplicitata la definizione in V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit.,
p. 70. Dalla facile accusa di ideologismo mette al riparo la pregnante valutazione di M. ONOFRI,
«Nel magma italiano», in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 60: «Consolo,
ecco il punto, è un miracoloso scrittore politico: laddove il miracolo sta nel fatto che la
politica gli si eserciti sulla pagina per via di un’oltranza di stile.»download

Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo

Nicolò Messina Universitat de Girona



Il contributo tenta di delineare la storia del farsi dell’opera più studiata di Vincenzo Consolo sulla scorta dei testimoni già sottoposti a recensio (edizioni a stampa, dattiloscritti, manoscritti). Parole chiave: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, edizioni critico-genetiche, ecdotica di testi moderni e contemporanei. Abstract The contribution attempts to outline the history of the creation of Vincenzo Consolo’s most studied work, based on the supply of accounts already submitted to review (printed, typed and manuscript editions). Key words: Consolo, Sorriso dell’ignoto marinaio, critical-genetic editions, critical editions of modern and contemporaneous texts. 1. In limine Nella presentazione della nuova collana «Clásicos Modernos» di una delle più prestigiose case editrici spagnole, José Saramago, senz’altro nel suo castigliano deliziosamente lusitaneggiante e con il suo abituale tono deciso, asseriva pubblicamente: «Estamos hechos de pasado. El presente no existe y el futuro no sabemos lo que es». 1 La frase potrebbe ben costituire l’esergo di queste pagine, che hanno per oggetto-soggetto Il sorriso dell’ignoto marinaio, e l’aggancio è almeno doppio. 1. L’incontro pubblico, organizzato dalle edizioni Alfaguara, si è tenuto al Círculo de Bellas Artes di Madrid il 27 settembre 2004. L’idea della collana è dovuta — a detta della stessa direttrice editoriale di Alfaguara, Amaya Elezcano — a un suggerimento del Nobel portoghese. La collana, inaugurata da Jacques el fatalista di Denis Diderot, annovera tra i primi volumi, già in libreria, anche i manzoniani Los novios nella traduzione fattane da Esther Benítez. Cfr. El País (Martes 28 de septiembre de 2004): 42. 114  Da un lato, infatti, e non appaia aneddotico, il Sorriso è stato la scorsa primavera ripubblicato da Mondadori in una collana che curiosamente ricorre alla medesima etichetta: «Classici moderni»; 2 dall’altro, poi, l’affondo di Saramago — non a sproposito in un oggi affetto da multiformi amnesie — rivendica in sé e per sé il ruolo della memoria senza la quale non siamo, e non certo perché atteggiati a conservatori idolatri del vissuto umano, perché abbarbicate, irremovibili ostriche verghiane3 o stanchi e immalinconiti laudatores temporis acti. Al riguardo, quale migliore sintonia con Consolo? Il quale — è risaputo — da sempre s’oppone vigile all’appiattimento stritolante sull’unica dimensione temporale del presente, comodo, se non programmaticamente ricercato dagli autarchi che s’ispirano al pensiero unico. Ecco perché forse Consolo, da sempre, fa letteratura ricorrendo a metafore storiche. D’altra parte, come piú di uno ha sottolineato, è certo intorno alla funzione attiva, alla forza propulsiva della memoria che quaglia la metafora del Sorriso: un ieri, ottocentescamente databile, in dialettica con l’oggi del lettore (la metà degli anni Settanta del secolo breve appena concluso, ma anche la metà del primo decennio di questo nostro nuovo secolo).4 2. Cfr. piú avanti il riferimento bibliografico completo. 3. Per fugare ogni possibile dubbio sulla propulsività della memoria, da non intendere pertanto quale attaccamento […] allo scoglio di un rassegnato immobilismo, non è fuori luogo citare per esteso, il noto passo di Fantasticheria (1879), che, pur estrapolato dal suo contesto e con tutti i sottili distinguo dell’autore, sembra presago di un certo fatalismo misoneista, improntato piú all’inutilità che all’impossibilità di ogni reazione umana alle condizioni e ai ruoli assegnati; manifestazione, in breve, di una sorta di noluntas: «Insomma l’ideale dell’ostrica! direte voi. — Proprio l’ideale dell’ostrica, e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere mentre seminava príncipi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano — forse pel quarto d’ora — cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione.» (G. VERGA, Tutte le novelle, ed. Carla RICCARDI, Milano: Mondadori, 1979; 19965, p. 135-136) 4. Per felici coincidenze, alle giornate sivigliane all’origine di queste note partecipava anche Maria Attanasio, fine autrice di poesie (Interni, Parma: Guanda, 1979; Nero barocco nero, Caltanissetta-Roma: Sciascia, 1985; Eros e mente, Milano: La Vita Felice, 1996; Amnesia del movimento delle nuvole, Milano: La Vita Felice, 2003; 20043), che si rivela scossa dall’identica volontà di resistenza all’oblio, a giudicare dai frutti delle ore da lei dedicate alla prosa: Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile, Palermo: Sellerio, 1994; Piccole cronache di un secolo, Palermo: Sellerio, 1997 (con Domenico AMOROSO); Di Concetta e le sue donne, Palermo: Sellerio, 1999. Proprio da quest’ultimo, commosso, bel libro testimonianza si estrapolano deliberatamente due brani assai eloquenti sull’etica dello scrivere: «Un tempo ogni città, piccola o grande, affidava la storia civile della comunità alla scrittura del cronista; insieme agli eventi civici e allo straordinario egli spesso registrava anche l’ordinario di essa […] sottraendone la memoria alle azzeranti generalizzazioni della storia, che per sua natura emargina in un’impenetrabile zona d’ombra l’alfa e l’omega costitutivi della sua trama» (p. 32); «Non restava che […] testimoniare direttamente questa piccola storia di ordinaria militanza, una tra le tante di quegli anni. || Senza però sottrarsi al Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 115 2. De finibus terminisque constituendis Su Consolo e Il sorriso dell’ignoto marinaio, in particolare, l’interesse critico non è mai tramontato. Ingente è ormai la letteratura secondaria. Da un lato, ne fanno fede le bibliografie via via aggiornate e desumibili da volumi e riviste: dalla prima monografia di Flora Di Legami5 al numero omaggio di Nuove Effemeridi, 6 dal libro di Attilio Scuderi7 a quello recente di Giuseppe Traina,8 dal «ritratto» di Enzo Papa9 alla premessa editoriale dell’ultima ristampa dell’opera.10 Dall’altro, chiara eco se ne riceve anche da collectanea a seguito di convegni dedicati allo scrittore: si rammentino almeno quelli organizzati nel solo ultimo torno di tempo a Parigi, Siracusa, Siviglia.11 Anche i lettori, dilettanti e non solo professionisti della letteratura, compresi quanti si escludono dal novero degli estimatori più ferventi dell’opera consoliana, riconoscono unanimi nel libro, in questo libro, un classico: non sorprende perciò il suo inserimento in una collana ad hoc, né che qualcuno, come Sergio Pautasso, dichiari apertamente il piacere di rileggerlo o che qualche coinvolgimento emozionale, né fingere un’ipocrita oggettività: memoria emotivamente condivisa per i protagonisti che ancora camminano per le strade, gesticolano odiano amano, continuano a resistere come possono, e s’incazzano in questo smemorato Occidente dove la supponenza della mondializzata economia di nuovo si autocelebra, in nome del mercato e del profitto, universale essenza dell’uomo contro l’uomo. E la sua spregiudicata ancilla — la politica — l’asseconda, insieme a Marx e a Voltaire, gettando l’utopia, come un nastro smagnetizzato, nelle discariche della storia.» (p. 35) 5. F. DI LEGAMI, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti (Messina): Pungitopo, 1990. 6. Nuove Effemeridi. rassegna trimestrale di cultura, 29, [Palermo: Guida] 1995. 7. A. SCUDERI, Scritture senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna: Il Lunario, 1998. 8. G. TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze): Cadmo, 2001. 9. E. PAPA, «Ritratti critici di contemporanei: Vincenzo Consolo», Belfagor, LVIII 344, 2003, 179-198. 10. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori, 2004, p. XIV-XVII. 11. Ancora in corso di stampa gli atti del convegno Vincenzo Consolo. Éthique et écriture, tenuto alla Sorbonne Nouvelle venerdì 25 e sabato 26 ottobre 2002, con interventi di Guido Davico Bonino, Maria Pia De Paulis, Denis Ferraris, Giulio Ferroni, Rosalba Galvagno, Walter Geerts, Valeria Giannetti, Claude Imberty, Jean-Paul Manganaro, Antonino Recupero, Marie-France Renard, Cesare Segre. Sono invece usciti quelli del convegno siracusano: Enzo PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo. Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2-3 maggio 2003), San Cesario di Lecce: Manni, 2004, con contributi di Paolo CARILE, «Testimonianza» (p. 11-13); Maria Rosa CUTRUFELLI, «Un severo, familiare maestro» (p. 17-22); Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo» (p. 23-58); Massimo ONOFRI, «Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale» (p. 59-67); Sergio PAUTASSO, «Il piacere di rileggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, o dell’intelligenza narrativa» (p. 69-80); Carla RICCARDI, «Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo» (p. 81-111); Giuseppe TRAINA, «Rilettura di Retablo» (p. 113-132). Le relazioni presentate alle giornate di studio sivigliane, Vincenzo Consolo. Per i suoi 70 (+1) anni (Universidad de Sevilla, Facultad de Filología, 15-16 ottobre 2004), costituiscono il nucleo di questo numero di Quaderns d’Italià. 116 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina che altro, come Massimo Onofri, ammetta Consolo in un canone resistente allo stesso variare delle mode critiche.12 D’altronde, il ruolo principe rappresentato dal Sorriso nel corpus consoliano è a più riprese e in vari modi e gradazioni sottolineato dallo stesso autore: in interviste13 o anche in interventi sparsi, dalla postfazione all’edizione mondadoriana del ventennale14 alla lectio magistralis in occasione dell’investitura a doctor honoris causa dell’Università di Roma Tor Vergata (18 febbraio 2003). Delineato tale scenario, arduo intervenire su quest’opera. Per l’occasione, quindi, con formula ciceroniana, mihi fines terminosque constituam e sottoporrò al dibattito critico un qualcosa di forse più congeniale alla mia natura di manovale della filologia: un tentativo di tracciare una storia o, meno ambiziosamente, una cronaca del farsi del libro dalla sua «preistoria» in avanti, sistematizzando materiali sparsi, più o meno noti, e aggiungendovi, con cautela, alcuni elementi nuovi. Una certa prudente reticenza è peraltro consigliabile, dettata com’è dallo svolgimento in atto di una ricerca, ormai quasi in dirittura d’arrivo, intesa proprio all’allestimento di una edizione critico-genetica del Sorriso. Insomma, ricorrendo alle categorie di avantesto, paratesto e testo, le mie intenzioni saranno più perspicue e, ancor di più, se si preciseranno le coordinate di una prospettiva ecdotica in cui nulla va «ricostruito», perché niente è stato «distrutto»; e nemmeno si tende a restituire in via ipotetica un archetipo smarrito e forse mai tangibilmente esistito, per definizione optimus e via via degradatosi nelle sue imperfette, corrotte riproduzioni, giacché l’opera, nella lezione licenziata dall’autore, è a nostra portata di mano. È una prospettiva di contro più complessa e solo nominalmente, per così dire, capovolta: in essa, difatti, i testimoni recentiores, già dopo Giorgio Pasquali ammessi non deteriores, non sono però di necessità accettabili come senz’altro meliores — anzi meta raggiunta, immigliorabile e addirittura ottima dell’iter creativo — e pertanto suggellati dal definitivo ne varietur dell’autore. Essi semmai presuppongono, trovano giustificazione fondante nei testimoni antiquiores, o piuttosto antiquissimi (dalla nota sparsa allo scartafaccio, ai prodotti delle successive fasi e decantazioni scrittorie), i quali al cospetto dei recentiores o ultimi, espressione dell’optima voluntas dell’autore, sarebbero certo da considerare tout court 12. Cfr. rispettivamente i saggi accolti in E. PAPA, (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 69-80 e 59-67. 13. Dalle lontane Mario FUSCO (ed.), «Questions à Vincenzo Consolo», La Quinzaine Littéraire, 321, 1980, 16-17; a Marino SINIBALDI (ed.), «La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo», Leggere, 2, 1988, 8-15; dalla più organica uscita in volume dal titolo guttusiano (è la didascalia di un quadro [olio su tela, cm.147,2 x 256,5] del 1940, finito l’anno prima e conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma), V. CONSOLO, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma: Donzelli, 1993, a quelle recentissime, l’una a cura di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 123-138, o l’altra leggibile in internet, a cura di Dora MARRAFFA e Renato CORPACI, Italialibri, www.italialibri.net, 2001. 14. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori, 1997, p. 173-183; poi in ID., Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 1999, p. 276-282, ed anche nell’ultima riproposta del Sorriso, ed. 2004, p. 167-175. destituiti di tutti i valori loro attribuibili dalla stemmatica classica, in quanto — pur prossimi al codice x dell’opera — non si collocherebbero al di sotto di esso, non ne costituirebbero una fase cronologica più bassa, inferiore, bensì soltanto e nient’altro che il più alto, superiore e superato, perciò trascurabile, stadio magmatico embrionale. E tuttavia, per ciò stesso, tali reperti vanno sottoposti ad accurata recensio e collatio, e risultano necessari e imprescindibili per studiare il di-venire del testo dalla prima intelaiatura verso la tessitura rifinita, proprio perché nella genesi dell’opera rappresentano il caos primordiale, l’arché primigenia, non formata, l’impulso d’avvio e soprattutto la prova dei vari movimenti del testo fino al risolutivo colpo di timone dell’autore, insomma una sorta di illuminante pre-archetipo.15 3. L’emerso Per comodità converrà sin dall’inizio tracciare la mappa delle edizioni a stampa [in grassetto l’ulteriore precisazione cronologica], anche perché sono quelle consultabili ed accessibili, e ad esse si rimanderà spesso: 1969 «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Nuovi Argomenti, Nuova Serie, n. 15 [luglio-settembre]: edizione parziale, cap. I, senza Antefatto né Appendici I e II; 1975 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Gaetano Manusé, edizione numerata con un’incisione firmata di Renato GUTTUSO: edizione parziale, cap. I, con Antefatto e Appendici I e II; e cap. II, L’albero delle quattro arance, senza Appendici I e II [autunno]; 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi: editio princeps [finito di stampare 10 luglio, 1ª ed.; 18 settembre, 3ª ed.]; 1987 Il sorriso dell’ignoto marinaio, intr. Cesare SEGRE, «Oscar oro. 9», Milano: Mondadori [marzo]; 1992 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Nuovi Coralli. 464», Torino: Einaudi; 1995 Il sorriso dell’ignoto marinaio, ed. commentata a cura di Giovanni TESIO, intr. Cesare SEGRE, «Letteratura del Novecento», Milano: Elemond Scuola [dicembre]; 1997 Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, con «Nota dell’autore, vent’anni dopo», «Scrittori italiani», Milano: Mondadori [febbraio]; 2002 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar scrittori del Novecento», Milano: Mondadori [gennaio]; 2004 Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni. 193», Milano: Mondadori [marzo]. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 117 15. Solo qualche riferimento bibliografico ormai canonico: Louis HAY (ed.), Essais de critique génétique, Paris: Flammarion, 1979; Amos SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XX siècle. Théorie et pratique de l’édition critique, Roma: Bulzoni, 1988; Almuth GRÉSILLON, Éléments de critique génétique. Lire les manuscrits modernes, Paris: P.U.F., 1994; Giuseppe TAVANI, «Filologia e genetica», Cuadernos de Filología Italiana, 3 (1996): 63-90; Michel CONTAT & Daniel FERRER (edd.), Pourquoi la critique génétique? Méthodes, théories, Paris: CNRS Éditions, 1998. 118 Quaderns d’Italià 10, 2005 Nicolò Messina Non è agevole fissare date precise di avvio di una scrittura, neanche — si sa — nel caso di scrittori ancora produttivi con cui poter dialogare. Nel caso del nostro libro, ad ogni modo, tutto il movimento del testo — è ovvio — sarà iniziato verosimilmente tra l’a quo di La Ferita dell’aprile, il «mese più crudele» di eliotiana memoria, cioè il 1963,16 e la prima «orditura» licenziata dall’autore: quel Il sorriso dell’ignoto marinaio apparso su Nuovi Argomenti (luglio-settembre 1969), che corrisponde grosso modo al futuro cap. I del libro, ma non è ancora corredato né dell’Antefatto, né delle due Appendici documentarie a firma del protagonista, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca.17 È un dato accertato, comunque, che le pagine appena ricordate, già dotate evidentemente, all’avviso dell’autore, di una loro autonomia e compiutezza narrativa, erano state in precedenza mandate, ma senza esito, alla rivista Paragone di Roberto Longhi e Anna Banti. A motivare l’invio è appunto il Trittico siciliano di Longhi, scritto in occasione della grande mostra del 1953 a Messina su Antonello e la pittura del ‘400 in Sicilia, ma il critico, in un incontro pubblico a Milano nel 1969, all’autore che chiedeva notizie del suo racconto così rispondeva severamente: «Sì, sì, mi ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve finire!». 18 Rievocando l’episodio, Consolo cerca di giustificarlo così: Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione, e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare Antonello. Quello effigiato lí era un ricco, un signore. Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il quadro non in chiave scientifica, ma letteraria.19 Il testo veniva, allora, risolutamente spedito a Enzo Siciliano ed usciva finalmente su Nuovi Argomenti, la rivista di Alberto Carocci, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. La memoria personale dell’autore, corroborata dalla testimonianza di Caterina Pilenga, conosciuta subito dopo il trasferimento a Milano nel Capodanno del 1968, e da un certo punto in possesso di «ambo le chiavi | del cor» consoliano,20 questa doppia memoria fornisce altri dati di notevole interesse nella cronologia del farsi dell’opera. 16. Dal colophon si estraggono i seguenti dati più precisi: «[…] impresso nel mese di settembre dell’anno 1963 […] Il Tornasole — Pubblicazione periodica mensile — Registrazione Tribunale di Milano n. 6273 del 14-3-1963 […]». Dell’opera si attende l’imminente versione spagnola a cura di Miguel Ángel Cuevas. 17. La pubblicazione — sia concessa l’indiscrezione — avrebbe fruttato all’autore un compenso di Lit. 16.000. In una lettera della direzione della rivista del 12 dicembre 1969, infatti, si conferma l’avvenuta pubblicazione (nel «numero testé pubblicato») e si comunica l’emissione di un assegno di tale importo. 18. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 37-38. 19. Ibid., p. 38. 20. Così viene presentata la futura moglie: «una delle cinque o sei persone che avevano letto» con entusiasmo la Ferita su segnalazione di Raffaele Crovi (Ibid., p. 35). Il quale è tra l’altro fra In primo luogo, riporta la chiusura del racconto, con quelle verosimili fattezze, a quell’anno 1968 e informa dell’avvenuta stesura, a quella data, e prima dell’arrivo a Milano nel gennaio 1968, anche del futuro cap. II L’albero delle quattro arance; inoltre, conferma che, dopo il fisico manifestarsi in Nuovi Argomenti, il progetto narrativo, di cui il racconto pubblicato è la prima concretizzazione, viene momentaneamente accantonato, anche se l’autore è nel frattempo preso dalla stesura del futuro cap. III Morti sacrata, che nessuno ha letto, tranne la moglie Caterina, e di cui alcuni sono a conoscenza (Corrado Stajano); infine, aggiunge che nel 1975 Consolo ottiene dalla RAI, nella cui sede milanese lavorava,21 un permesso di sei mesi, lascia Milano e torna in Sicilia dove collabora al giornale L’Ora di Vittorio Nisticò22 ed è raggiunto quell’estate da Caterina. Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 119 i pochi frequentati da Consolo, oltre al conterraneo Basilio Reale, sin dal tempo del primo soggiorno milanese (G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 11): sono i tre anni della frequenza della Cattolica (1952-56), che saranno poi seguiti dal servizio militare a Roma, dalla laurea a Messina, dal praticantato notarile, dall’inizio del lavoro d’insegnante nel 1958 (E. PAPA, art. cit., p. 194). 21. A sottolineare i difficili rapporti di lavoro, l’azienda viene definita, una «fabbrica di armi» (V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 34). 22. Vale la pena di riportare sull’esperienza giornalistica consoliana un brano dello stesso V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti dell’«Ora» di Palermo, I, Palermo: Sellerio, 2001, p. 113-114: «[…] Vincenzo Consolo, sebbene vivesse ormai a Milano, da inquieto esule qual era, non perdeva occasione per tornare in Sicilia, dai suoi a Sant’Agata, e far sosta, potendo, anche al giornale. In fondo, tra i nostri scrittori era quello che sentivamo più di casa, il più famigliare. Amavamo di lui il garbo, la modestia, il senso di amicizia, gli accenni di sorridente ironia, non meno di quanto ci affascinassero i ricami della sua scrittura, la sua totale mediterraneità, quei fuochi improvvisi della sua passione letteraria e civile. Tra il ‘68 e il ‘69 pubblicammo una sua rubrica di annotazioni, «Fuori casa», un piccolo gioiello di giornalismo che diventa letteratura. || Nei primi mesi del ‘75 Consolo si trasferì per un po’ di tempo a Palermo; glielo avevo chiesto perché ci desse una mano in vista delle importanti elezioni amministrative di giugno e di un evento che ci interessava direttamente: la candidatura di Leonardo Sciascia al consiglio comunale di Palermo. Era, la venuta di Consolo, un ritorno in redazione dopo l’esperienza di alcuni anni prima, quando si era trasferito da Sant’Agata per lavorare al giornale e impratichirsi del mestiere. Ma si era trattato di un’esperienza durata relativamente poco, interrotta dalla decisione di andarsene a Milano e dare, da allora in poi, la priorità assoluta alla letteratura; sarebbe stata lei la sua vita, il suo destino. || Tuttavia un desiderio di giornalismo, sebbene latente, rimase sempre vivo, e pronto a venir fuori quando si presentava l’occasione buona. Fu così in quei mesi del ‘75, quando facendo la spola tra la casa materna di Sant’Agata e la nostra redazione, si buttò con manifesta gioia in un intenso lavoro giornalistico. Partecipando dapprima con articoli e interviste alla campagna per il buon governo e la candidatura di Sciascia, poi nell’estate andando in giro col taccuino del cronista a seguire a Trapani il processo al «mostro di Marsala» (l’uomo che aveva fatto morire tre bimbe gettandole vive in un pozzo), o la vicenda del sequestro Corleo, il patriarca delle esattorie. In pieno agosto, si era persino spinto, e credo anche divertito, a fare un «viaggio» di osservazione tra gli uffici semideserti di Palermo capitale. Insomma, un bel bagno mediterraneo di umile giornalismo, mentre tra un servizio e l’altro trovava il luogo e il silenzio dove ripararsi per dare gli ultimi ritocchi a «Il sorriso dell’ignoto marinaio»: il capolavoro che da lí a qualche mese lo avrebbe consacrato tra gli eredi della grande letteratura che la Sicilia ha dato alla nazione. A dicembre ne pubblicammo in anteprima un capitolo: la festa in casa del barone Mandralisca.» 120 Siamo dunque, estate del 1975, alla vigilia dell’edizione numerata in 150 esemplari con incisione firmata di Renato Guttuso per i tipi di Gaetano Manusé, edizione nel cui colophon è dichiarata la data dell’«autunno MCMLXXV». Manusé, da Valguarnera Caropepe di Sicilia, titolare prima di una bancarella poi di una libreria antiquaria a Milano, si era dichiarato interessato a pubblicare qualcosa di Consolo e, saputo dalla moglie Caterina, sollecitata in tal senso, dell’esistenza di un prosieguo del racconto già apparso sulla rivista moraviana, propone la pubblicazione per bibliofili del Sorriso. Basta ricordare che della composizione e tiratura si occuperà Martino Mardersteig della Stamperia Valdonega di Verona, erede della prestigiosa Officina Bodoni di Verona fondata dal padre Giovanni Hans, e che per l’occasione Leonardo Sciascia coinvolgerà Renato Guttuso il quale, rileggendo il ritratto di Antonello, appresterà un’incisione in cui viene rovesciata l’angolazione dell’immagine rispetto all’attante: il trequarti del misterioso personaggio non è rivolto a sinistra, ma a destra.23 Domenica 30 novembre 1975, la pagina culturale di Il Giorno di Milano pubblica un lungo articolo di Corrado Stajano, dal titolo redazionale molto allettante.24 Al corrente delle alterne, combattute vicissitudini dello scriptorium di Consolo, conscio di quanto vi sta accadendo, Stajano fa una mossa a sorpresa: recensisce il libro appena uscito, ma ad un tempo, parlandone come della parte di un tutto imminente, sembra voler forzarne la definitiva confezione. Dopo aver presentato, difatti, le attività del libraio, così scrive: Adesso Manusé ha esaudito il gran sogno della vita, è diventato editore e c’è la possibilità, dicono gli uomini di penna, che questo primo libro che ha stampato, […] possa creare un nuovo caso letterario. Perché qui si sono incontrate due corde pazze siciliane, quella di Manusé e quella dello scrittore del libro, o meglio dei primi due capitoli del libro pubblicati in questo volume, che gli editori, quando il romanzo sarà finito, certo si contenderanno, perché «Il sorriso dell’ignoto marinaio» è un nuovo «Gattopardo», ma più sottile, più intenso del romanzo di Tomasi di Lampedusa, uno Sciascia poetico, di venosa lava sanguigna e insieme razionalmente freddo nei suoi teoremi dell’intelligenza. Uno scritto che arriva dentro l’impensata bottiglia di Manusé e che non ha nulla in comune con nessuno dei 17 mila libri che si pubblicano ogni anno in Italia. Gli articoli pubblicati nel 1975 sono: «Un moderno Ulisse fra Scilla e Cariddi. Sfogliando il Gran libro di Stefano D’Arrigo» (22 febbraio); «L’avventurosa vita di Emilio Isgrò» (4 aprile); «Il malgoverno e l’impegno politico di Sciascia. Conversazione con Alberto Moravia» (30 maggio), «Il malgoverno e l’Università. Conversando con il Rettore dell’Università di Palermo, Giuseppe La Grutta» (13 giugno); vari servizi per il «Processo al “Mostro di Marsala”» (20, 21, 25, 30 giugno; 5, 11 luglio) e sul sequestro dell’esattore Luigi Corleo (18, 19 luglio); «A colloquio con il tenore Di Stefano» (14 luglio); «Tanta scienza e un po’ di show» (26 luglio); «Che ne pensa Grassi, sovrintendente della Scala, del “caso Lanza Tomasi”?» (29 luglio); «In giro per gli uffici ad agosto» (9, 13 agosto); «Il giallo Majorana visto da Sciascia» (9 settembre). 23. L’incisione all’acquaforte viene eseguita a Palermo, in una stamperia vicina alla Galleria Arte al Borgo frequentata dallo scrittore di Racalmuto. 24. C. STAJANO, «Il sorriso dell’ignoto marinaio. Due siciliani pazzi per un libro “unico”», Il Giorno, Domenica 30 novembre 1975, 3. E più avanti, in chiusa, fornisce anticipazioni sulla fabula e sprona, quasi rimbrotta l’autore: Vincenzo Consolo, con tutte le sue contropoetiche, politicamente motivate, è troppo scrittore per rinunciare a scrivere, come avrebbe voluto. Gli è successa la sorte descritta da Roland Barthes ne «Il grado zero della scrittura»: «Partito per uccidere la letteratura, l’assassino si ritrova scrittore». […] ora sta lavorando ai capitoli finali del romanzo, la rivoluzione contadina di Alcara Li Fusi, la repressione dello Stato italiano dopo la speranza portata da Garibaldi. Interdonato è il procuratore generale del processo contro i contadini, violenti contro la violenza. Mandralisca gli scrive una lunga memoria, i contadini cercano di narrare loro, la loro storia. Ci riusciranno? «Il sorriso dell’ignoto marinaio» […] è l’ultima difesa di uno scrittore che non voleva scrivere più perché, quando il mondo s’incendia, la vita è meglio viverla che raccontarla. C’è da pensare che, sotto la forte pressione morale-psicologica delle tre colonne di Stajano, Consolo raccogliesse il guanto della sfida che vi era insita e che, nello scorcio del 1975 e il primo semestre del 1976, con un lavoro che non si fa fatica ad immaginare, con il Leopardi da lui tanto amato, «matto e disperatissimo», stendesse e organizzasse il resto dell’opera: gli attuali capitoli IV-IX. Einaudi finisce, infatti, di stampare la prima edizione del libro quale sarà conosciuto dal vasto pubblico, l’editio princeps, il 10 luglio 1976 e ne farà circolare altre due stampe identiche, la terza licenziata il 18 settembre dello stesso anno. 4. Tra emerso e sommerso Questi in buona sostanza i punti fermi del farsi del testo, i momenti fondanti della sua storia esterna. Se ne trae l’immediata idea di un progetto in crescendo, in progressione geometrica.25 Ma questi dati, relativi al merito e alle vicende dei soli testimoni a stampa, rappresentano solo l’emerso del testo e, in una prospettiva ecdotica critico-genetica, vanno naturalmente confrontati con quelli di quante altre fonti sia ancora possibile sottoporre a recensio e collatio. E qui, come anche per ogni altra opera di qualsivoglia altro scrittore, qualunque sforzo risulterebbe vano se l’autore volesse tutelare ad oltranza la legittima riservatezza della propria fucina, del proprio scriptorium. Il lavoro insomma Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 121 25. Forzando la suggestiva immagine del fondamentale saggio di Cesare SEGRE, «La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino: Einaudi, 1991, p. 71-86 (trattasi dell’«Introduzione» dell’edizione 1987 del Sorriso, p. V-XVIII, ripubblicata in quella del 1995, p. V-XIX), è come se tessere autonome (dal racconto iniziale, cap. I e II, all’integrazione del resto) si siano andate collocando a formare il mosaico dei gradini della scala tortile, ad imbuto dantesco, che — se si vuole accogliere l’interpretazione dei simboli di G. TRAINA, Vincenzo Consolo, op. cit., p. 61-70 — avrebbe consentito la discesa agli inferi e l’ascesa salvifica del protagonista. 122 si bloccherebbe o potrebbe andare avanti solo con le carte di scrittori conservate in biblioteche, fondazioni, centri appositi (l’esempio più noto, Pavia) o variamente e comunque riscattate, come per gli oltre 40 volumi già pubblicati della Collection Archives, 26 il cui comitato scientifico è presieduto dal prestigioso romanista italiano Giuseppe Tavani.27 Nel caso del Sorriso, la generosa disponibilità dei coniugi Consolo, informati della necessità di queste esplorazioni per il mio studio, e in particolare l’amorevole scrupolosità di Caterina nel preservare materiali rivelatisi preziosi, hanno consentito di accumulare ingente informazione sulla scorta degli altri testimoni superstiti: tre bozze di stampa, di cui una eliminanda perché descripta, tre cartellette di dattiloscritti e un fascicolo dattiloscritto rilegato con l’opera intera; cinque manoscritti. Ma prima, per completare il quadro dell’emerso, bisognerà rendere conto anche della contemporanea attività scrittoria del Nostro, in qualche misura dialogante con il progetto non ancora ben definito in quel lasso di tempo. La preistoria del Sorriso, quei tredici anni di lunga gestazione, grosso modo dal 1963 al 1976, sono affiancati da altre scritture. Da una parte, le collaborazioni giornalistiche, tra cui spiccano: la rubrica Fuori casa, tenuta su L’Ora di Palermo;28 e vari reportages per Tempo illustrato. Ai fini dello studio del Sorriso sembrano importanti diversi di tali scritti. In primo luogo, il racconto Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, uscito prima su 26. La collana, diretta da Amos Segala e posta sotto il patrocinio dell’UNESCO, è affidata a un Consiglio di firmatari europei e latino-americani del Protocollo Archivos — ALLCA XX (Association Archives de la Littérature Latino-américaine, des Caraïbes et Africaine du XXe siècle) e sottoposta alla valutazione di un Comitato scientifico internazionale. Le pubblicazioni seguono le indicazioni emerse dai seminari di Parigi (1984) e Oporto (1985), poi confluite nel volume di A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit. 27. Oltre all’art. cit., imprescindibili sono per equilibrio e dottrina: G. TAVANI, «Le Texte: son importance, son intangibilité»; «Teoría y metodología de la edición crítica», «Los textos del Siglo XX», «Metodología y práctica de la edición crítica de textos literarios contemporáneos»; «L’édition critique des auteurs contemporains: vérification méthodologique», tutti in A. SEGALA (ed.), Littérature Latino-américaine et des Caraïbes du XXe siècle, op. cit., rispettivamente: p. 23-34, 35-51, 53-63, 65-84, 133-141. Cfr. inoltre: G. TAVANI, «L’edizione critico-genetica dei testi letterari: problemi e metodi», in Venezia e le lingue e letterature straniere. Atti del Convegno, Università di Venezia, 15-17 aprile 1989, Roma: Bulzoni, 1991, p. 323-331; «L’apporto dell’edizione di testi moderni alla pratica ecdotica, ovvero: l’apporto della pratica ecdotica all’edizione di testi moderni», in Anna FERRARI (ed.), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno di Roma, 25-27 maggio 1995, Spoleto: Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1998, p. 545-554. 28. Cfr. l’elenco completo degli articoli firmati da Consolo per il giornale in V. NISTICÒ, Accadeva in Sicilia, op. cit. In particolare, la rubrica Fuori casa inizia il 7 dicembre 1968 e va avanti con cadenze irregolari per tutto il primo semestre del 1969 (11 gennaio, 24 febbraio, 10 marzo; 5, 24 e 25 maggio). Dello stesso anno sono: la recensione a Elio VITTORINI, Le città del mondo (27 settembre 1969) e un articolo sui rapporti tra mafia siciliana e americana (30 settembre 1969). L’Ora, 29 poi in un’autorevole silloge di narratori siciliani:30 un racconto strutturato come cronaca di una visita a Tusa alla famiglia di Carmine Battaglia, ucciso dalla mafia, in cui si innesta un breve brano documentario del 1860 sull’avversione dei nobili latifondisti al decreto garibaldino del 2 giugno 1860 lesivo dei propri privilegi. L’impianto rappresenterebbe quindi il primo, timido apparire, non più di un accenno, di un modo costruttivo esemplato su modelli tedeschi, sul quale, per sua stessa affermazione, Consolo scommette con forza nel Sorriso31 e anche in seguito.32 Poi, su Tempo illustrato, un’inchiesta sui cavatori di pietra pomice delle Eolie affetti da silicosi, come quello dell’incipit del Sorriso, in pellegrinaggio al santuario di Tindari,33 e un’altra su Cefalù e quell’Aleister Crowley che apparirà molto dopo in Nottetempo, casa per casa (1992), e di cui si ha traccia in un quaderno ms del Sorriso che così contribuisce a datare.34 Infine, ancora su L’Ora, il resoconto dell’inaugurazione di una mostra di Guttuso, i cui appunti iniziali e primo svolgimento si trovano in un altro quaderno ms alla cui datazione ci si potrà così approssimare.35 Dall’altra parte, si annoverano le presentazioni di vari cataloghi di mostre, di cui due soprattutto rilevanti per la costituzione testuale del Sorriso: l’una di un’esposizione di Luciano Gussoni (1971), l’altra di un’esposizione di Michele Spadaro (1972), rilevanti in quanto i cataloghi sono latori di due lacerti rifusi rispettivamente nei capitoli VII e I.36 Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo Quaderns d’Italià 10, 2005 123 29. L’Ora, 16 aprile 1966. All’assassinio sono dedicati sul giornale, sempre in prima linea contro la mafia, articoli di Mauro DE MAURO (in seguito vittima della cosiddetta lupara bianca) e Mario FARINELLA (24, 25, 26, 28 marzo 1966) e di Felice CHILANTI (9 aprile 1966). 30. Leonardo SCIASCIA & Salvatore GUGLIELMINO (edd.), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, p. 428-434. 31. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 32. Se si guarda solo alle opere limitrofe al Sorriso, il metodo sarà applicato, per le appendici erudite, a Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 71-85 (Milano: Mondadori, 1996, p. 93- 129) e, per gli inserti documentari, al racconto lungo «Ratumemi», in Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori, 1988, p. 47-74, altra storia di feudi del secondo dopoguerra, tematicamente piú affine a Per un po’ d’erba… 33. «Così la pomice si mangia Lipari», Tempo illustrato, 17 ottobre 1970, di cui non si ha alcuna traccia nei mss. sottoposti a recensio. In Ms 2 si riscontra invece la prima attestazione di «Una Sicilia trapiantata nella nebbia», che uscirà sempre su Tempo illustrato. L’articolo è conservato nel Fondo personale Consolo con l’annotazione di Caterina Consolo: «1970», senza indicazione del giorno e del mese, ma nel corpo si ravvisa un post quem: «ottobre». 34. Ms 2, ff. 1-5. Cfr. «C’era Mussolini e il diavolo si fermò a Cefalù», Tempo illustrato, 2 ottobre 1971. 35. Ms 4, ff. 41v -33v . Cfr. «Guttuso torna nella “sua” Milano», L’Ora, 18 ottobre 1974. Sempre nell’ambito delle arti figurative, un altro articolo di alcuni mesi prima: «Bruno Caruso provoca Milano», L’Ora, 9 febbraio 1974. 36. V. CONSOLO, «Nottetempo, casa per casa», in Luciano Gussoni, Villa Reale di Monza, 10-30 novembre 1971; ID., «Marina a Tindari», in Michele Spadaro, Como, Galleria Giovio, 15-30 aprile 1972; poi anche in ID., Marina a Tindari, commento a cura di Sergio SPADARO, tiratura in cento esemplari numerati fuori commercio, Vercelli, Arti grafiche Cav. Piero De Marchi, 1972, p. 15-18. Quest’ultima presentazione è firmata e precisamente datata, com’è consuetudine dello scrittore: «Vincenzo Consolo || (27 febbraio 1972)». Nella fase preparatoria delle giornate di studio di Siviglia, ognuno in possesso e informato di un solo testimone, ci siamo scambiati i dati con il collega Miguel Ángel Cuevas. 124 5. Il sommerso Tornando ora ai testimoni manoscritti e dattiloscritti del Sorriso, non è questa la sede per proporne una descrizione esaustiva. Si cercherà invece di metterne in evidenza la portata facendo solo due esempi su versanti apparentemente diversi. Intanto, sulla loro scorta, sarà possibile qualche correzione di tiro cronologica. Tra i quaderni mss, gli antiquiores, numerati appunto Ms 1 e Ms 2, contengono frammenti confluiti nella lezione di Nuovi Argomenti. Tra il 1969 e il 1975 si collocherebbero gli altri due, denominati Ms 3 e Ms 4: sono latori, infatti, di lacerti non presenti nell’edizione 1969 e interpolati come due scatole cinesi in quella del 1975: l’uno, Ms 3, di un inciso avente per confini: «Lasciò la speronara […] alla sua casa a Cefalù» (ff. 31-30v ), l’altro, Ms 4, di un ulteriore innesto nel tronco dell’inciso precedente: «Dietro questi pezzi […] Caserta e di Versailles» (f. 18). Questi stessi due quaderni Mss 3 e 4 sono inoltre legati dal ricordo, presente in entrambi, del primo incontro tra Leonardo Sciascia e Lucio Piccolo avvenuto in un giorno segnalato, il primo in cui grazie a una disposizione del Concilio Vaticano II si celebrava la messa in lingua italiana: domenica 7 marzo 1965.37 L’appunto potrebbe essere trattato alla stregua di un indizio temporale e, per come e dove è tradito, una sorta di a quo / ad quem. 38 Il riuso da parte dell’autore di Ms 4, vergato capovolto, assicura poi la trasmissione dell’articolo giornalistico su Guttuso già ricordato e da datare perciò ante il 18 ottobre 1974. Se, infine, contestualmente ai dati appena forniti, consideriamo che Ms 3 tramanda varie stesure di Morti sacrata (futuro cap. III), le prime prove di Val Dèmone (futuro cap. IV), un appunto che rinvia a Il Vespro (futuro cap. V) e che Ms 4 tramanda brani di Val Dèmone e la Lettera di Enrico Pirajno all’avvocato Giovanni Interdonato (futuro cap. VI), si potrebbe inferire che, se non proprio intorno al 1965 (incontro Sciascia-Piccolo), già alla data del 1974 (articolo sulla mostra di Guttuso) o tutt’al più, in ultima istanza, nel 1975 prima dell’edizione Manusé, il Sorriso fosse per buona parte, quasi per intero in movimento. Allo stato attuale, mancherebbero attestazioni mss databili solo dei capitoli VII, VIII, IX. 37. Cfr. Ms 3, ff. 17v e 20; Ms 4, f. guardia 1v . 38. L’appunto sarà sviluppato in Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 142 e ricordato in Fuga dall’Etna, op. cit., p. 23-24, dove viene ulteriormente esteso (testo in corsivo nostro): «Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: “Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali”. “C’è qui Consolo”, rispose Sciascia. “Consolo è ancora giovinetto”, replicò Piccolo sarcasticamente (avevo trentatré anni!). Ma io presi quella frase come impegno verso Sciascia e come una sfida verso il barone». L’interesse per il poeta aveva già dato frutto in un’intera pagina del giornale di Nisticò con un articolo: «Il barone magico: Lucio Piccolo», L’Ora, 17 febbraio 1967, accompagnato da quattro canti inediti. Si noti che «Il barone magico» è il titolo scelto da Consolo per il trittico che costituisce la penultima parte della sezione Persone, seconda e centrale di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135, 136-144, 145-149. Se andiamo ora, secondo esempio, alle tre cartellette di dattiloscritti, se ne potrà ricavare informazione sia dai fascicoli contenuti, sia anche dai bifogli di cartoncino colorato (rosa) che li raccolgono e conservano. Ed è informazione di peso circa il crescere del progetto di scrittura e la graduale definizione dell’architettura dell’opera. Solo qualche breve accenno. Si confronti ad es. la copertina della cartelletta denominata Ds 1, contenente prime stesure dei capp. I-VI, con annotazioni a mano di Caterina Consolo, con varie modifiche di titolo, con quella della cartelletta designata Ds 3, contenente tutta l’opera tranne il cap. VI (Lettera…), sulla quale appare già lo schema definitivo autografo con le date relative alla scansione del tempo interno dell’opera, in corrispondenza dei singoli capitoli: un’articolazione in tre parti (la prima: cap. I + App. I e II, cap. II + App. I e II; la seconda: capp. IIIV; la terza: capp. VI-IX) + Appendici finali, numerate «10)» e intitolate inizialmente «10) La fucilazione» e poi poste sotto l’epigrafe generica «10) Appendici»; e ancora qualche titubanza sulla collocazione di Morti sacrata (il capitolo prima segue «3) Val Dèmone» ed è quindi numerato «4)», ma poi entrambe le numerazioni vengono emendate ed invertite). Ancora più illuminante il fascicoletto numerato Ds 1.1, intitolato polisemicamente Carte per gioco e con l’eloquentissimo sottotitolo «(Racconti e cose da raccontare fin dal tempo di Garibaldi)», il quale sembra in tutto e per tutto lo schema strutturale di un’opera non nata, o piuttosto la crisalide che si trasformerà nella futura farfalla:39 le Carte sono articolate in tre tempi: «narrativo» (e sarebbe il Sorriso del 1969, quello di Nuovi Argomenti, preceduto però da un «Antefatto» scritto ex novo e seguito da un’appendice documentaria (Lettera di Enrico Pirajno barone di Mandralisca al barone Andrea Bivona),40 «storico» (con riportati brani documentari storici sulla strage di Alcara e un bollettino di guerra), «magico o poetico», dedicato a Lucio Piccolo, brano che con qualche variante vedrà la luce molto tempo dopo nelle Pietre di Pantalica. 41 È evidente, e non può non sorprendere, come in tempi insospettati ed alti nella cronologia del Sorriso, fossero già tutti presenti i principali semi, gli elementi lievitati nel futuro libro: l’invenzione diegetica, l’analitico storico d’influenza tedesca, il poetico; ci fossero i personaggi e i fatti: insomma, come scrive Enrico Pirajno di Mandralisca, per un momento alter ego dell’autore, «il timbro e il tono, e le parole» (Sorriso, ed. 2004, p. 119). Sembra pure chiaPer una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo, 2005 125 39. Il titolo è allusivo: nugae, carte da gioco (tre come i tempi), cartelle dss «per giocare», e verosimilmente anche nel senso traslato del jouer, del play, «da eseguire, interpretare, rappresentare». Ancor di più il sottotitolo, con l’accenno al già raccontato (la propria pièce iniziale) e alle cose o fatti otto-novecenteschi ancora in cerca d’autore, un autore che sappia come raccontarli, e in quale chiave: diversa dalla canonica, allora, da quella suggerita dagli auctores?, non alla Verga, Pirandello, Tomasi, Sciascia? 40. Sarebbe la prima attestazione della futura «Appendice prima» del cap. I. 41. È il primo dei tre capitoletti riuniti — come già detto — sotto il titolo «Il barone magico» nella sezione Persone di Le pietre di Pantalica, op. cit., p. 133-135. 126 come fosse già maturata la scelta del «romanzo storico-metaforico»42 con un occhio rivolto al Manzoni, ma superandone il paternalismo espressivo grazie all’insegnamento di Verga,43 e l’altro ai tedeschi del Gruppo 47, gli «analitici» Hans Magnus Enzensberger, Alexander Kluge ed altri, di cui aveva dovuto leggere pagine sul Menabò vittoriniano (9, 1966) e nelle traduzioni dei primi anni Settanta,44 e che lo riportavano forse al Manzoni che ritratta e, ormai spinto alla negazione dei suoi stessi precetti poetici, è capace solo di redigere la Storia della colonna infame45 che a tutti i costi vuol pubblicare in solido con I promessi sposi (1842).46 Scorgiamo già all’orizzonte, insomma, il Sorriso quale è arrivato a noi, e nella chiave e forma, scelte dall’autore, di «romanzo ideologico», cioè di romanzo «critico», di una ideologia che consiste «nell’opporsi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.»47 42. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70; all’insegna della convinzione più volte manifestata, ed esplicitata dall’esergo di questo stesso libro-intervista (p. 1), che: «Il solo coerente sistema di segni da cui può essere colta la storia come realtà materiale sembra essere la letteratura (H. M. ENZENSBERGER, Letteratura come storiografia)». 43. C. RICCARDI, «Inganni e follie della storia », in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 91. 44. Ibid., p. 82 e p. 109, n. 3. E, prima, cfr. V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 49. 45. Nell’a parte, quasi alla fine del cap. VII del Sorriso, viene alla fine omesso un brano dell’Introduzione della Storia manzoniana, che viene bensì riportato nella fonte di quel passo (in corsivo nostro il lacerto tradito da Luciano Gussoni, op. cit. e poi espunto): «Che vengano, vengano ad orde sferraglianti, con squilli lame della notte, perché il silenzio, la pausa ti morde. || Chi sparse quella peste? Nessuno. Nessuno con cuore d’uomo accese queste micce. «…La rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale…; il timor fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire». Ma già è tardi. Già sono state issate le colonne dell’infamia. || Ma tu aspetta, fa’ piano. […]» (Sorriso, ed. 2004, p. 130). 46. Un’incisiva descrizione della macerante riflessione manzoniana viene proposta da Giovanni ALBERTOCCHI, Alessandro Manzoni, Madrid: Síntesis, 2003, p. 106-116. 47. In questi termini viene esplicitata la definizione in V. CONSOLO, Fuga dall’Etna, op. cit., p. 70. Dalla facile accusa di ideologismo mette al riparo la pregnante valutazione di M. ONOFRI, «Nel magma italiano», in E. PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, op. cit., p. 60: «Consolo, ecco il punto, è un miracoloso scrittore politico: laddove il miracolo sta nel fatto che la politica gli si eserciti sulla pagina per via di un’oltranza di stile.»

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Della luce e della visibilità Considerazioni in margine all’ opera di Vincenzo Consolo

 

Della luce e della visibilità
Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo
Paola Capponi Universidad de Sevilla
Abstract

La luce, la luminosità, ossia le forme con cui la luce è presente nell’intertesto consoliano paiono assumere valenze che trascendono la mera descrittività , la nota paesaggistica. Un lessico della luce (e dell’ombra) preciso e puntuale definisce il rapporto tra Milano e la Sicilia, tra il centro e la periferia, tra passato e presente. L’intreccio di tali coppie oppo-sitive rende incalzanti i rimandi dal piano diatopico (Milano – Sicilia) a quello diacronico(passato-presente). La riflessione stessa sulla memoria e sulla possibilità del narrare attinge ad un repertorio di immagini e di luoghi della tradizione che si rifanno alla luce come ele-mento metaforico portante. Si apre così la possibilità di articolare intorno al tema della luce un percorso che, attraverso più livelli di lettura, arriva ad alcuni nodi della scrittura dell’ autore. Parole chiave: luce, lessico, diatopia, diacronia, memoria  (Vincenzo Consolo).

Abstract The light, the brightness, namely the shapes in which light is present throughout Consolo’s writing seem to take on contents that transcend mere descriptiveness and notes on the land scape . A precise and punctual vocabulary of light (and shadow) defines the relation ship between Milan and Sicily, between the centre and the periphery, between past and pre-sent. The interweaving of such opposing pairs makes the references from the diatopic plane(Milan-Sicily) to the diachronic plane (past-present) more imminent. The reflection onmemory itself and on the ability to tell a story draws on a repertoire of images and tradi-tional places that take their revenge on light as the main metaphorical element. This opensup the possibility of constructing a path around the subject of light, which, on several lev-els of reading, gets to the heart of the author’s writing.Key words:light, vocabulary, diatopics, diachronics, memory
( Vincenzo Consolo ).

1.Per motivare la scelta della luce come oggetto di riflessione, parto da un testo breve, 29 aprile 1994: cronaca di una giornata (pubblicato nel numero 29 di Nuove Effemeridi) in cui Vincenzo Consolo racconta di una mattinata dedicata alla scrittura (e precisamente alla stesura de L’olivo e l’olivastro) e alla memoria, al flusso memoriale, interrotta a mezzogiorno per comprare il giornale,grigio momento in cui rientrare nell’ avvilente e bigia quotidianità. La cesura della giornata, la bipartizione, evidente e chiara nella brevità del testo nonché le riflessioni iniziali, proprie del momento della scrittura, della narrazione e della memoria, offrono lo spunto per alcune osservazioni di carattere più generale che costituiscono la nervatura di questo intervento. Due sono gli elementi sui quali voglio soffermarmi: la cesura e il viaggio. Cesura, ossia spaccatura, individuazione di due poli distinti, e viaggio, quasi geometricamente inteso, quale tratto, segmento che unisce due punti separati. Nella prima parte del testo, Consolo racconta di un viaggio, anzi di molti viaggi e, più propriamente, di fughe, allontanamenti in cui punto di dipartita e punto d’approdo si intrecciano, alternandosi. I due poli sono la Sicilia e Milano; al movimento di fuga dalla Sicilia, dalla periferia verso un Nord di lavoro, di rispetto di leggi e di diritti, al viaggio da una terra di «immobilità,
privazione e offesa»1 verso la città dei lumi, si oppone un movimento contrario che dalla città delle nebbie riporta all’ isola del sole.
Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano […] Credo sia questo ormai il destino d’ogni ulisside d’oggi, di tornare sovente nell’ Itaca del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restare prigioniero nella reggia d’Alcinoo, in quel regno di supposta utopia, d’irreale armonia, condannato a narrare all’ infinito, come un cieco cantore, un vecchio svanito, i suoi nostoi,le sue odissee.
2 Il nostos fiorisce e si complica dunque in una serie di viaggi senza posa, in cui la Sicilia già non è più l’isola del Sud, geograficamente e puntualmente individuabile, ma l’Itaca dei distacchi e dei ritorni infiniti, la terra cui si anela tornare e da cui si continua a fuggire, ormai spaccata, franta in lacerazioni amare. Il nostos privato si fa viaggio di «ogni ulisside d’oggi», viaggio che presuppone un ritorno o, meglio, un movimento pendolare perpetuo, quasi tra i labbri di una ferita, tra i lembi di una frattura lenita solo dalla narrazione. Proprio la biforcazione è eletta a simbolo e titolo in L’olivo e l’olivastro. L’opposizione coltivato-selvatico, civile-barbarico non è solo emblema della condizione della Sicilia, bensì di una regione universale, di una Sicilia che si fa «metafora dell’Italia (dell’Europa, del mondo?)».3 La frattura è certo quella 1.  Vincenzo CONSOLO, «29 aprile 1994: cronaca di una giornata», in Nuove Effemeridi, n. 29,1995, p. 4.2.Ibid.,p. 4.3.Ibid., p. 5.

Tra la città del Nord, Milano, e l’isola del Sud, la Sicilia, ma è anche spaccatura interna alla Sicilia stessa, terra dal glorioso e sfavillante passato e dal presente oscurato da privazioni e barbarie, ed è, in ultima analisi, condizione comune, universale. Se in una dimensione sincronica, possiamo rintracciare dunque l’opposizione tra Milano e Sicilia, centro e periferia, luce e ombra, e ricostruire geograficamente il viaggio tra i due poli, nella dimensione diacronica individuiamo il contra-sto tra la luce del passato e il buio del presente. Si intrecciano insomma due coppie oppositive, una sul piano orizzontale, diatopico: [Milano : Sicilia] e una su quello verticale, diacronico: [Presente :Passato]. La combinazione dei due piani è una delle cife della scrittura consoliana: i tagli diacronici sono abilmente incastonati nella tessitura lineare,quasi incursioni verticali che paiono imprimere alla scrittura un movimento vorticoso, un avvitamento che penetra le stratificazioni della storia e acuisce il «dolore» della lacerazione. Il viaggio non è tanto rappresentabile come linea piana che unisce due punti, quanto come percorso carsico, a volte riaffiorante in superficie, trivellazione di strati profondi, discesa nelle profondità ipogee. A Siracusa stride il contrasto tra lo sfarzo della potenza antica e il degrado presente: Mi trovo, confuso, smarrito, in questo teatro di profonda memoria, di continui richiami, in questa scena odierna di degrado e macerie, deserta di parola,poesia, in questa cavea di urla e fragori, sotto un cielo di spesse caligini, presso un mare di petroli e liquami. In Siracusa è scritta la storia dell’infinito tra-monto della civiltà nostra e cultura, dell’umano sentire, è impressa la notte della ragione e della pietà.
4 A Milano non meno doloroso è lo spegnersi dei Lumi, un tempo baluardo e faro per la società civile, ora fioche luci tra le nebbie:questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della mediocrità più squallida,della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia, d’ogni bellezza, perché non c’è più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui ricomporre l’armonia perduta.
5 La desolazione del tempo presente irrompe nella giornata di Consolo quando, a mezzogiorno, sospende il lavoro (e, con esso, il fluire di antiche memo-rie) e compra il giornale: «È il momento, quello, della frattura, del ritorno brusco nella prosa offensiva del presente, dell’ingresso nel grigio miserevole teatro di questo regno dei Feaci ».
6 La chiusura del testo è affidata ad un’immagine di allargato tramonto infinito, che cala sulla giornata (il 29 aprile 1994),su Siracusa e su Milano: «Tutto ormai in questo Paese è di banalità e orrore,4.Ibid., p. 5.5.Ibid., p. 6.6.Ibid., p. 6.
di degrado e oblìo, è tramonto infinito, è Siracusa, è fiammella d’olio o di candela che si spegne, è buio di catacomba».7 Lenizione e riparo all’ offesa presente è l’interruzione stessa del presente, la sua sospensione, e quindi lo scrivere e la memoria: «Mai sempre tuttavia il viaggio, come distacco, come lontananza dalla realtà che ci appartiene è un sognare. E sognare è vieppiù lo scrivere, lo scriver memorando del passato come sospensione del presente, del viver quotidiano. E un sognare infine, in suprema forma, è lo scriver d’un viaggio, ed’un viaggio nella terra del passato».82. La luce è elemento fondante del panorama meridionale. La luminosità e la pienezza di luce sono dati del paesaggio, tratto distintivo della campagna siciliana arsa, bruciata dal sole, ostica, assopita nei silenzi meridiani («Nei silenzi, si udiva solo il mormorio dei piccioni, il lamento della cicala, di tutta la campagna sotto il sole»9), vibrante nell’ aria calda del meriggio:il sole […] dal balcone era arrivato prima sulla tovaglia. Così caldo, questo sole, che si levava già dalla rena alla marina il fumo tremolante del vapore.[…] Due cani si mordevano gli orecchi saltando sopra il mucchio dei rifiuti, si davano zampate, giravano attaccati attorno a un palo inesistente. Questo sole.
10 La Sicilia si presenta tutta «sotto il segno del sole», terra dura di stenti e di fatiche, di uomini «nutriti di sarde e di cicorie ed asciugati al sole»,11 che mangiano «sole come pane».12 La luce riflessa sulle pietre, nel riverbero del mare, battente sugli splendori antichi di antiche città, è sfarzo e bagliore accecanti; filtra, rimbalza tra le mura e i palazzi, le rovine e i ruderi, quasi principio vivificante in grado di restituire in forma di miraggio l’antico splendore, grazia e armonia del passa-to. L’opposizione è netta rispetto alle città del Nord, rispetto a Milano, città di brume e di foschie, di luci spente:una terra nordica, luntana, ’na  piana chiusa da montagne altissime, d’eterni ghiacci e d’intricati boschi, rotta da lunghi fiumi e laghi vasti, terra priva di mare, cielo, sole, stelle, lune, coi verni interminabili carichi di nevi, e con l’estati brevi, umide, brumose, ove la gente ognora mangia lardi, cotiche, verze,ranocchi, passeri, pulenta di granturco…137.Ibid., p. 7.8.  ID., Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 77.9.  ID., La ferita dell’Aprile, Milano: Mondadori, 1963, p. 147.10.Ibid., p. 120.11.Ibid., p. 106.12.Ibid., p. 72.13.Retablo, p. 66.

La gamma cromatica calda dei tramonti siciliani, oro-arancio-viola, o lo sfavillío dorato dell’aurora a Palermo, «latteggiante e rosseggiante», stride con le sfumature nel grigio delle nebbie e dei fumi, con il biancastro e con il grigiastro del gelo del Nord. Nell’ ora del tramonto, l’occhio indugia nel paesaggio di Sicilia mutante di colori; un sole cefalutano «imporporava il mondo,stramangiava le cose, faceva di fuoco cielo, terra alberi, uomini, rendeva irreale ogni presenza, movimento».
14 È un paesaggio in vitro quello offerto dalla città dei Lumi, da cui si fugge,di desolante grigia uniformità, indefinitezza di confini in cui vaga l’occhio vacuo e perso:Era una mattina di novembre. Al di là del capannone, oltre i vetri polverosi, si scorgeva un piccolo campo, un terreno vago circondato d’altri fabbricati, d’ altri capannoni con ciminiere, sfumati dalla nebbia, un campo sulle cui stoppie marcite di granturco gravava una bruma grigiastra, si stendeva una pellicola biancastra di brina gelata.
15 La terra a cui tornare, l’armonia perduta cui ricongiungersi richiamata quasi in controcanto dal panorama milanese è la Sicilia ma, ancora una volta, con drammatico taglio diacronico, non già la Sicilia d’oggi, quanto la Sicilia, metaforicamente intesa, d’un tempo:la Sicilia era un’isola surreale o metafisica, con solo città sepolte, necropoli,latomie, ipogei pieni di sarcofagi di marmo luminoso, di neri lucidi crateri con dei ed eroi graffiti; con templi teatri agorai di città morte in luoghi remo-ti, deserti, incontaminati.16 In una menzione del nostos di Ulisse (più volte echeggiato nei romanzi consoliani ) offerta in L’olivo e l’olivastro è possibile rintracciare, esplicitato, l’intreccio delle due dimensioni. Così è raccontato il ritorno di Ulisse, dalle macerie di Ilio ad Itaca «chiara nel sole…»17:Viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella vastità del mare, è come fosse il suo un viaggio in verti-cale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo. Si muove il navigante tra streghe, giganti, mostri impensati, tra smarrimenti, inganni, oblii, malie, perdite tremende,fino alla solitudine, all’ assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e perla vita.
1814.  ID., Nottetempo, casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 21.15.  ID., Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988, p. 112.16.Ibid., p. 113.17.  ID., L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 19.18.Ibid., p. 19.

Il ritorno pare coincidere qui con l’inabissamento di sé, con l’immersione nella memoria, con un percorso di progressivo avvicinamento al limen, al limi-te estremo, oltre il quale dilagano il silenzio e l’assenza. Procede il navigante(come la scrittura consoliana) per accumulazione, nel suo duplice percorso in’orizzontale e in verticale; le due forze paiono comporsi in un movimento vorticoso, in un turbinio (o in una «chiocciola») che pare sottendere un unico punto di fuga, un occhio del ciclone in cui punto di dipartita e punto d’arrivo coincidano, ma la meta è solo supposta, suggerita, sfiorata e il ciclone pare sospeso a mezz’aria, pare progressivamente stringere le maglie intorno all’ innominabile, come a stringere d’assedio il non detto o il non dicibile, il silenzio e l’assenza, in un abile e meticoloso lavorio di approssimazione. L’Itaca con cui riconciliarsi è svanita, la terra patria cui è sempre dolce tornare è un luogo della memoria, una meta nel tempo. Il ritorno è ad un presente di degrado e di macerie, ombra della luce di un tempo, fantasma dell’armonia perduta. Nel cielo, le incrinature di fumo dei comignoli dell’Etna, parte del paesaggio antico di Sicilia, lasciano spazio ai fumi delle raffinerie, ai gas dei lacrimogeni, segno, nella volta celeste, delle crepe nella natura e nella società. Forma parte del paesaggio di Sicilia «la colonna attorta del fumo del cratere»19 dell’Etna, che si conficca, quasi incastonata, nel piano orizzontale del cielo, ma alle striature di fumi naturali e di nuvole si aggiungono e si sovrappongono, nel presente, i fumi del degrado, i mia smidella corruzione. A Milazzo, «la colonna di denso fumo» che si vede «levarsi fino al cielo»20 è il segno dell’esplosione della raffineria; «nel cielo si formano nuvole»21 quando a Comiso sono sparati lacrimogeni per disperdere la folla,mentre a Palermo«ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti».22 Il sole, prima vivificante in un paesaggio armonico, ora secca i gelsomini,al sole di luglio s’incrosta e annerisce il sangue. 23 La luce è elemento che pare acuire di forma tagliente la desolazione e il degrado; svela piazze svuotate,«vuoti gusci di cicale»; è stasi, paralisi, immobilità. A Comiso il sole illumina una città morta:Non resterà di noi neanche una vuota, dorata carcassa, come quella della cicala scoppiata nella luce d’agosto. Non resterà compagna, figlio o amico; ricordo, memoria; libro, parola. 24 Palermo «è fetida e infetta» nel «luglio fervido». Di Avola, «il nuovo paese ricostruito al piano dopo il terremoto» sono ricordate le perfette geometrie, la bellezza dell’antica architettura da cui il paese pare trarre «giustizia e armonia»;
19.Ibid., p. 60.20.Ibid., p. 23.21.Le pietre di Pantalica, p. 179.22.Ibid., p. 166.23.Ibid., p. 170.24.Ibid., p. 166.

Ne sono citate la laboriosità, l’attività umana fervente di dibattiti e di discussioni;è descritto un paese che, nomina omina, è «Apicola soave e laboriosa»: Avola del terreno arso, del mandorlo, dell’ulivo, del carrubo, della guerra con il sole, con la pietra, la città nuova di geometrica armonia, di vie diritte, d’ariose piazze, d’architettura di luce e fantasia […]. La vasta piazza quadrata, il centro del quadrato inscritto nell’ esagono, […] fu sempre il teatro di ogni incontro,convegno, assemblea, dibattito civile. 25 L’armonia passata in cui la mente e la memoria trovano ristoro si frange nel presente, nel momento del «ritorno brusco nella prosa offensiva del presente»: 26 Entra nel vasto spazio nell’ ora della luce umana,della calura che si smorza,nel meriggio tardo ch’ era in passato del brulichio, del brusio sulla piazza […]sotto il cielo fitto dei voli obliqui, degli stridi, dei rintocchi di San Nicola, di Santa Venera, dell’Annunziata, che ora è vuota, deserta, sfollata come per epidemia o guerra […]. Cos’ è successo in questa vasta, solare piazza d’Avola? Cos’ è successo nella piazza di Nicosia, di Scicli, Ispica, Modica, Noto, Palazzolo,Ferla, Floridia, Ibla? Cos’ è successo in tutte le belle piazze di Sicilia, nelle piazze di quest’Italia d’assenza, ansia, di nuovo metafisiche, invase dalla notte, dalle nebbie, dai lucori elettronici dei video della morte? 27 Alla luce e al caldo soffocanti, alle vuote ore meridiane, sarebbe dovuta seguire «l’ora della luce umana», che propizia e accompagna il dibattito, l’incontro, l’attività, ma il tramonto non raccoglie più oggi, come era nel passato,il fervore e l’azione, bensì abbandoni, vacuità, silenzi, attese.3. Con puntualità è rilevato il trascolorare della luce, modulazioni di intensità luminosa che accompagnano il procedere delle ore e scandiscono l’ordine delle attività umane. Il sole ritma inesorabilmente il tempo delle opere e i giorni,dei lavori della campagna e del mare: le ore mattutine sono le più adatte al lavoro, temibile è l’ora meridiana, con il sole a perpendicolo, mentre il tra-monto coincide con la fine delle fatiche del giorno. È un tempo ciclico, chiuso nell’ alternarsi di notte e dì. La luce è dapprima tenue, non ancora dispiegata:Il paese, già sul mattino primo e nella luce ancor non dispiegata, era una scorreria di carri e bestie, di comitive allegre, di musicanti, villani e mercanti cheper ogni porta, di Trapani e Palermo, dello Stellario, di Corleone e del Castello, invadevano le strade e le piazze.2825.L’olivo e l’olivastro, p. 110.26.29 aprile 1994…, p. 6.27.L’olivo e l’olivastro, p. 112.28.Retablo, p. 50.

si fa luce ferina, nel meriggio: Dall’ alba dava forte con la sua sciamarra, un colpo dietro l’altro, rantolando, hah hah, su quella crosta dura di petraia, in dorso di collina declinante, panetomazzo e acqua unico ristoro a mezzogiorno. Piegato in due. Zuppa la camicia e il gilè, il fazzoletto al collo, con quel sole di maggio che ancora gli mordeva sulle spalle. 29 ed è infine luce rosseggiante, prima di spegnersi al tramonto:Il sole sbucava all’ orizzonte sotto una banda nera di foschia, e prima d’eclissarsi dietro i monti, dietro Barrafranca, Pietraperzìa, rosseggiò potente, infiammò gli uomini sopra Ratumeni, le pietre bianche della masseria. Poi, lentamente tramontò e tutto s’incupì. Smisero i braccianti d’arare, di zappare ed erpica-re, riposero gli attrezzi. 30 La scomparsa del sole dietro l’orizzonte, segnale della fine del lavoro per l’uomo di terra, è invece alba e segnale d’inizio, di nuovo giorno, per il pescatore: È l’alba, per loro, questo tramonto, poi si fa notte, scura: la luna piena dice fame ai pescatori, offusca le lampare. Non sanno altro tempo fuori che questo, come le farfalle, i pipistrelli.
31 È forse possibile leggere tale circolarità del tempo non tanto, o non solo,su un piano orizzontale, bidimensionale, come catena perenne di ritorni sempre uguali, quanto nella profondità, in verticale. Frequenti incursioni diacroniche paiono infatti restituire al presente uno specchio lontano, come se dalle profondità del passato e della memoria risalissero tracce, percorsi sommersi che emanano luce sul presente. Lo scorrere del tempo è ritratto come sovrapporsi di stratificazioni che, tagliate trasversalmente, svelano tra loro ricorrenze, similitudini, ritorni. È la lente della memoria e della storia che offre la terza dimensione alla lettura, e consente di cogliere e acuire il sentimento della frattura, della perdita, dei ritorni sotto nuove spoglie, della metamorfosi dell’identico. L’«ordine continuo», il «rosario fatale della corsa»32 è dunque colto nell’ accumulazione di rovine, su cui rinascono altri templi, altre illusioni:La Contrada è illuminata da una luce livida. Si odono ululati di cani, pigolare d’ uccelli notturni, mentre dall’ alto, sulla fontana, sullo spiazzo, piovono lentamente falde di Luna simili a garze luminescenti. Così è stato e così sempre sarà: rovinano potenze, tramontano imperi regni civiltà, cadono astri, si 29.  ID., Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano: Mondadori, 1976, p. 105.30.Le pietre di Pantalica, p. 61.31.La ferita dell’Aprile, p. 74.32.Nottetempo…, p. 129.

Sfaldano, si spengono, uguale sorte hanno mitologie credenze religioni. Ogni fine è dolore, smarrimento ogni mutazione, stiamo saldi, pazienza, in altri teatri, su nuove illusioni nascono certezze. 33 Quando il sole, reggitore dell’universale armonia, impallidisce nella sera,la melanconia attanaglia il Viceré di Lunaria («La luce solare, meridiana, che entra dai balconi, si smorza, da dorata diviene argentea, lunare, illividisce lasala, gli astanti.»).344. Si apre qui una nuova possibile valenza della luminosità nell’ opera consoliana, per indagare la quale è forse opportuno rifarsi al verso di Ungaretti che apre il capitolo Le pietre di Pantalica: «Soli andavamo dentro la rovina», da Ultimi cori per la terra promessa. I versi che precedono quello citato sono questi: «Calava a Siracusa senza luna / La notte e l’acqua plumbea / E ferma nel suo fosso riappariva, / Soli andavamo dentro la rovina / Un cordaro si mosse dal remoto».35 E così recita il primo paragrafo consoliano: È l’ora in cui dal suo acuto ferino di bianca incandescenza si torce, si modula nei toni più mansueti, tangibili — oro arancio viola — la luce. Appaiono quindi le pietre, dal fitto fondale di pini e cipressi avanzano in linee parallele come onde, grigio rosa, muschiate, negli intervalli dove appena s’addensano sottilissime ombre, dentro il cerchio mistico dell’orchestra. Al cui centro, reale e idea-le, bocca d’un segreto cunicolo, d’un buio ipogeo, è una porta, due corti pilastri e un architrave appena arcuato. Scenografia vera, come l’ha conciata degli scenografi il più riduttore, il più essenziale: il tempo. Nella cavea affollata, succede improvviso il silenzio. Ha inizio la rappresentazione della tragedia.
36 Lo scenario di cerchi concentrici, come onde susseguenti si, la polarità verso un centro che ancora sfugge, perché imbocco nero verso profondità ipogee,l’accesso senza sbocco: è questa la scenografia del tempo, opera secolare di stratificazioni circolari i cui raggi ipotizzano un centro. L’architettura complessi-va si svela nell’ ora calda e lieve del tramonto, nella luce crepuscolare che segue«l’acuto ferino» del demone meridiano. Si tratta di un topos particolarmente caro a Ungaretti che al demone meridiano dedicò assidue ricerche, a partire dal commento alla leopardiana canzone Alla primavera.
3733.  ID., Lunaria, Milano: Mondadori, 1985, p. 50.34.Ibid., p. 139.35.  Cfr. Anche L’olivo e l’olivastro, p. 84.36.Le pietre…, p. 157.37.  Nell’ora voraginosa, ora di «luce nera nelle vene», confluiscono memoria e malinconia,furore del sole e zenitale acedia, si congiungono demone meridiano e notturno meridio .Cfr. Carlo OSSOLA, «“Nell’abisso di sé”: Ungaretti e Racine», in B. M. DARIFe C. GRIG-GIO(a cura di), Dal Tommaseo ai contemporanei, Miscellanea di studi in onore di Marco Pecoraio, Firenze: Olschki Ed., 1991, p. 343-358.

Così scrive Consolo in Nottetempo: in un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci. È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia… Venne poi il crepuscolo, la sera. Una sera azzurra e bruna, vermiglia e gialla. Con un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci.È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia… (la luna suscita muffe, fiori di salnitro…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita. […] Oltre sono le Rovine.
38 Ritroviamo qui i termini ossimorici ungarettiani (la «luce nera nelle vene»di Ti svelerà) e in altri brani ancora immagini e allusioni al demone meridiano,notturno meridio. L’eccesso di luce, l’incandescenza meridiana, confondono confini, accecano, confluiscono nel buio, nell’ inabissamento di sé, negli abissi di memoria, buio fluire del tempo. La trasfigurazione indotta dalla luce a per pendicolo è colta in più occasioni da Consolo; così nel Sorriso:Luce che brucia, morde, divora lati spigoli contorni, stempera toni macchie, scolora. Impasta cespi, sbianca le ramaglie, oltre la piana mobile di scaglie orizzonti vanifica, rimescola le masse. 39 o in alcune pagine di Nottetempo:Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati […].Ora, in questa luce nuova — privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinio di superficie, sfondo infinito, abissitade — , in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo.
40 L’abbandono e il silenzio grevi dell’ora demente accompagnano e propiziano la calata nel vorticoso fluire del tempo, in un’immagine di memoria anche borgesiana: «d’un tempo che contiene tutti i tempi, un attimo ogni altro attimo. In quest’istante rapido, in quest’immensa stasi, l’uomo rivive tutta la sua vita».41Ed ecco, calati nell’abisso, nel luogo di tutti i luoghi, ormai prossimi alla scaturigine, l’interrogativa sulla possibilità del racconto, memoria,scansione, parola, che è passaggio. Ritorna l’immagine dell’accumulazione, del sovrapporsi di strati sopra strati, di lavorio continuo, di movimento d’approssimazione incessante, ai confi-ni del silenzio, come a strappare terre ai deserti. La risposta all’ istanza finale è di desolazione siderale; nei «graffi indecifrati» si può sentire forse l’eco del «rilu-cere inveduto » ungarettiano (da Ultimi cori per la terra promessa: «Rilucere inveduto d’abbagliati / Spazi ove immemorabile / Vita passano gli astri / Dal peso pazzi della solitudine»). La vita è consumata ai margini del silenzio, è tra  versata nel silenzio,
-38. Nottetempo…, p. 65.39.Il sorriso…, p. 17.40.Nottetempo, p. 6441.Ibid., p. 91.

 silenzio come cerchio con il centro in ogni luogo e la circonferenza in nessuno: E tu, e noi chi siamo? Figure emergenti o svanenti, palpiti, graffi indecifrati. Parola, sussurro, accenno, passo nel silenzio. 42I due protagonisti di Retablo si calano nelle acque lenitive dei Bagni Segestani, quasi alla ricerca di un Lete in cui adagiarsi e trovare ristoro. L’effetto del bagno induce alla perdita di sé nel «vacuo smemorante, nel vago vorticare».43 Il ricordo di Fabrizio Clerici va al primo incontro con Doña Teresita, un’apparizione nella luce e nello splendore; così Clerici riflette:pur sulla soglia di questa forte terra, nel primo cerchio di questo vortice di luce, sull’ingresso di questo laberinto degli olezzi, nell’ incamminamento di questa galleria de’ singolari tratti e d’occhi ardenti, mi pare di viaggiare alla ricerca degli stampi o matrici del vostro maraviglioso sembiante. 44 Se, da un lato, la visione dell’amata nella luce, il riscoprirne espressioni e gesti in altre figure femminili risponde a un topos letterario di tradizione antica, l’insistenza con cui paiono ricorrere i riferimenti alla lux veritatis, visione ineffabile del Vero, così come la non rara citazione di Platone anche attraverso latopica settecentesca della bellezza ideale («eccelso modello di beltà») 45 auto-rizzano un approfondimento dell’analisi delle valenze simboliche della luce anche in questa direzione. Torniamo così al primo testo citato, 29 Aprile 1994: cronaca di una giornata, dove esplicito era il riferimento alla caverna platonica, in quel caso usato con vis polemica diretta contro il «regime telecratico» e le ingannevoli e false ombre televisive degne solo di una «degradata, miserabile caverna platonica».46 Nell’ opera consoliana è possibile rintracciare con apprezzabile frequenza il riferimento ad una verità cui tornare suggerita da pallide tracce terrene, cui avvicinarsi procedendo per gradi, per accumulazioni, sempre vigili a non essere tratti in inganno da ombre fuggevoli, per arrivare preparati alla verità, in grado di sostenerne la tremenda forza autenticante. Così sin dalle prime prove:Se mi si dice non si guarda alla finestra, allora mi volto alla parete bianca ed è più bello il gioco delle ombre rovesciate, e qualcuna l’indovino: il gobbo lo spazzino la posta il pane, l’ombra di tutti i giorni all’ ore eguali.
4742.Ibid., p. 67.43.Retablo, p. 61.44.Ibid., p. 63.45.Ibid., p. 64.46.29 aprile 1944…, p. 7.47.La ferita…, p. 81.

La luce di verità è difficilmente sopportabile per occhi avvezzi all’ ombra,ombra consolatoria di una luce che ferisce, come quella dei quadri caravaggeschi, in cui una lama di luce, proveniente dall’ esterno, («La luce su Lucia giunge da fuori il quadro») 48 ferisce il volto della figura. Caravaggio, «col suo corpaccio, la grossa testa bergamasca, i capelli peciosi e spessi, la fosca pelle,gli occhi ingrottati» pare posseduto da «dolore innominato» e da una «melanconia senza riparo che lo spingeva a denudare il mondo, togliere agli uomini,alle cose, ogni velame, ombra, illusione, esporli alla cruda lama della luce, alla spietata verità di questo giorno, di questa vita, squarcio, ferita immedicata, nel corpo della notte, del sonno, della stasi, amava scontrosamente la bellezza,pativa per la sua labilità, la sua assenza».49 Instabile sull’ abisso e sul vuoto, si tende in funambolico equilibrio come«passo nel silenzio»,50 come «ferita di luce nel buio»51(G. Ungaretti, Immagini del Leopardi e nostre), la parola dolente.5. In conclusione, pare di poter affermare che la luce, le modulazioni o le assenze di luce, assumono nella scrittura consoliana valenze che chiaramente tra-scendono la mera descrittività, la nota paesaggistica o bozzettistica. Ho qui cercato di offrire alcune possibili chiavi interpretative. All’ opposizione luce-ombra intesa come confronto tra Milano -città dei Lumi, meta per una Sicilia-cupa periferia di degrado, si accosta e sovrappone l’opposizione luce del passato e buio del presente. Questa seconda opposizione fa sì che i due poli, Milano e la Sicilia, che nella diatopia si oppongono e tra i quali si intraprende un movimento di perpetuo viaggio, di fughe e di ritorni eterni, confluiscano, in una prospettiva diacronica, a formare un unico punto, coincidano,condividendo il tramonto infinito del presente. La patria con cui riconciliar-si pare dunque sfuggire, risucchiata nel tempo, proiettata nel passato, luogo della memoria. Tale opposizione, [buio-presente : luce-passato], non è resa solo attraverso il ricorso ad un «lessico della luce» per il passato e ad un «lessico dell’ ombra» per il presente, ma anche mediante l’attribuzione alla luce di segni diversi:positivo in riferimento alla luce del passato e negativo in relazione alla luce del presente. In un paesaggio, umano e morale, armonico, come quello passato,la luce è forza vivificante, principio di movimento e di vita, di attività; nella miseria e nel degrado presenti la luce dissecca, prosciuga, svela silenzi, assenze. Eppure la luce, pare leggere tra le righe o sous les mots, è sempre la stessa luce, da sempre scandisce il ritmo della giornata, dei lavori quotidiani, ma la ciclicità del tempo,
-48.L’olivo…, p. 94.49.Ibid., p. 88.50.Nottetempo…, p. 67.51.  Giuseppe UNGARETTI, Immagini del Leopardi e nostre, saggio letto il 29 gennaio 1943 nell’ Università di Roma, in M. Diacono e L. Rebay (a cura di), Saggi e interventi, Milano:Mondadori, 1974, p. 447.

  i ritorni, non sono tra loro identici, si scrivono nella storia e la storia è sovrapposizione di strati, accumularsi di nuovi castelli su antiche rovine. Anche in questo caso dunque è la composizione di piano orizzontale e verticale, la discesa dal piano sincronico e orizzontale a quello della storia e della memoria, verticale, ad offrire nuove chiavi di lettura. Il tempo della memoria e della malinconia è il tempo della luce nera in cui si congiungono demone meridiano e notturno meridio, di ungarettiana memo-ria. È il tempo di luce calcinante, ferale, e di buio vorticare nel flusso degli evi. Luce nera è dunque quella che accompagna la memoria e la malinconia, la ricerca e la catabasi, ed è luce bianca, luce dalla tremenda forza autenticante, la lux veritatis, ferita di luce che occhi avvezzi all’ ombra non sanno sostenere. Ed è dunque infine anche monito alla vigilanza, alla diffidenza verso opachi lucori, finte luci, vacue illusioni e pericolose menzogne.

Caravaggio in Sicilia ” Le orme del maestro ” Vincenzo Consolo

CARAVAGGIO IN SICILIA

“E venne l’ora. Arrivò il tempo del carosello a mare, giunse il momento dell’annuale torneo navale, la giostrata con le galere da Marsa Grande a Marsamuscetto, per onorare la memorabile vittoria, la più alta palma regalata da Dio ai cristiani”. Questo è l’attacco del romanzo di Pino di Silvestro, La fuga, la sosta – Caravaggio a Siracusa, l’ultima fra lo sterminato numero di opere, di saggistica e di narrativa, dedicate al pittore. Dice, quell’attacco del romanzo, della confusione a Malta per la celebrazione della vittoria di Lepanto. E di quel notturno tripudio, di quel frastuono di festa in cui Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, riesce a fuggire dalla prigione di Forte Sant’Angelo, a calarsi con una corda dalla torre, arrivare sulla spiaggia e da lì, confuso tra un gruppo di marinai fiamminghi, imbarcarsi sulla speronara del raìs Leonardo Greco e sbarcare, l’8 di ottobre del 1608, a Siracusa, nel porto grande di  Ortigia

Perché in prigione, Caravaggio, nell’isola di Malta, dove s’era rifugiato dopo esser fuggito da Roma, inseguito dal “bando capitale”, per condanna in contumacia “in penam ultimi supplitij”,per aver ucciso in Campo Marzio Ranuccio Tomassoni? In prigione, sì, per aver ferito gravemente, il gran ribelle, il cavaliere di giustizia Girolamo Varays. In prigione, nonostante la sua fama di pittore eccelso, il conferimento della croce di cavaliere di “grazia”, la committenza di opere  come la straordinaria Decollazione del Battista per la chiesa di San Giovanni dei Cavalieri, due ritratti del Gran Maestro Alof de Wignacourt. E nonostante soprattutto la protezione di don Fabrizio Sforza, figlio di Francesco e di Costanza Colonna, marchesi di Caravaggio, al cui servizio era stato il “mastro di casa” Fermo Merisi, padre di Michelangelo; nonostante la protezione di don Fabrizio, che era, in quell’anno 1608, ammiraglio della flotta maltese. Ed è lo Sforza che aveva dato al fuggitivo asilo nell’isola dei Cavalieri, dopo la prima sosta o rifugio del pittore nei

domini dei Colonna, tra Palestrina, Paliano e Zagarolo dopo la sosta a Napoli, dentro una realtà teatrale e popolare. Da Napoli Caravaggio s’imbarca per raggiungere Malta.

Ora, ci sono due considerazioni che qui vogliamo fare. E la prima è questa. Il geniale pittore, il rinnovatore della pittura, attardata allora nei canoni della Controriforma, colui che dice che la vera realtà è quella che rivela la luce squarciando la cortina buia del mondo, colui che annulla i due piani separati del divino e dell’umano e afferma che grazia e santità dimorano nell’umanità più sofferente ed emarginata, che la vita è violenza, agone, e morte, questo Caravaggio è apprezzato e conteso da cardinali e principi durante la sua stagione romana. Eppure, pur potendo rimanere chiuso e al sicuro nei palazzi del cardinal Del Monte, dei, dei Mattei o dei Borghese, vivere delle loro protezioni e committenze, sono le strade che egli predilige, i quartieri malfamati di bari, prostitute, ragazzi di vita. In un “romanzo nero” è immersa la vita del pittore, nella violenta vita secentesca della Roma controriformistica e bigotta di Sisto V, Clemente VIII e di Pio V. Una Roma di scontri armati tra squadre di bravi al servizio delle varie casate nobiliari divise tra partigiani degli Spagnoli e dei Francesi, la Roma della decapitazione dei Cenci e del rogo di G. Bruno. E i nobili dimostravano il loro potere proteggendo le loro “squadre” fino all’ultimo scherano, i loro dipendenti fino all’ultimo servo. “Il mondo così andava nel secolo decimo settimo” scrive Manzoni. Così andava in quel secolo di ingiustizia e di marasma, e dunque così si spiega la costante protezione degli Sforza-Colonna per il figlio di Fermo Merisi, di Michelangelo da Caravaggio, al di là o al di sopra del fatto che egli fosse il geniale pittore conclamato.

La seconda considerazione o il secondo quesito che poniamo è il seguente. Cosa aveva dentro, il giovane Michelangelo, di dolore e di furore per prediligere i margini, i bassifondi, per essere spinto più e più volte a coinvolgersi in risse, ferimenti, per arrivare fino all’omicidio ? Nel natìo borgo di Caravaggio, nell’aspra natura e nella vita ancor più aspra e dura dei contadini, e quindi a Milano, presso il pittore Simone Pederzano (aveva allora soltanto undici anni), in giro col maestro, l’apprendista, per la Lombardia, a Bergamo, a Brescia, a Cremona, a Lodi, avrà visto miserie, orrori, violenze, e avrà forse subito egli stesso una qualche violenza, fanciullo com’era.

La furia del pittore riesplodeva dunque nel rifugio e nel sicuro asilo di Malta. Non si sa per quale motivo il Caravaggio litiga col Varays e lo ferisce gravemente. E ormai qui, a Malta, cupo e furente, lontano dai momenti di serenità romani, lontano dal tempo, sia pure della “libera fame”, presso Lorenzo siciliano, “che di opere grossolane tenea  bottega”, lontano dal felice tempo adolescenziale presso la corte del cardinal Del Monte, tempo quello per esempio del Giovane con un cesto di frutta, del Suonatore di liuto,  del Concerto, de I bari, del Ragazzo morso da un ramarro, e lontano anche da tutto lo spettacolo di corpi in primo piano di Santi e Madonne per le chiese di Roma. C’è qui a Malta e ancor più dopo in Sicilia qualcosa come la pasoliniana abiura della “trilogia della vita”.

In Sicilia dunque, a Siracusa, sotto la protezione dei Cappuccini, e con la compagnia di don  Vincenzo Mirabella, musicista e storico di Siracusa. E’ don Vincenzo a fare da guida a Caravaggio per i vari strati o gironi nella profondità storica di Siracusa. Dalla contemporanea città controriformistica, di inquisizione e ispanica militarizzazione, di religiosità popolare e di superstizione, fino alla Siracusa della solarità dei templi, dei teatri e degli anfiteatri greci e romani, alla Siracusa delle latomie, tra cui quelle profonde del Paradiso, in cui penosamente lavorano i cordari  e in cui è l’Orecchio di Dionisio. Ed è ancora il Mirabella a convincere il Senato a commissionare al pittore il grande quadro del Seppellimento di Santa Lucia per la chiesa di Santa Lucia al Sepolcro nell’antica zona dell’Acradina. In questo quadro, come in quello di Malta della Decollazione del  Battista, è l’ambiente, lo spazio che prevale. I personaggi, clero e fedeli, sono relegati, quasi schiacciati contro l’alta parete di tufo, n ella penombra d’una latomia o catacomba. E il gonfio corpo della fanciulla, di Lucia, Giustiniani steso a terra, s’intravede tra le quinte in primo piano dei corpacci ignudi di due interratori, cordari delle latomie oppure monatti del remoto ricordo della peste del 1576 in Lombardia, in cui morirono il padre Fermo e il nonno  Bernardino del pittore. La luce qui non ha i tagli obliqui e forti della precedente pittura caravaggesca, ma è come se sorgesse al di qua del quadro, e nel quadro si diffonde rivelando la scena. “Contrasti istantanei di misura, sbalzi tra ‘primi piani’ e ‘campo lungo’, che solo il Caravaggio seppe escogitare….” Scrive Roberto Longhi. Non è sicuro che a Siracusa Caravaggio abbia rincontrato il pittore siracusano Mario Minniti, già suo compagno a Roma nella bottega di Lorenzo Carli, noto come Lorenzo siciliano, il Minniti che sembra gli abbia fatto allora da modello per il Suonatore di liuto e per altri quadri. Ma il Minniti adulto, in ogni caso, come altri pittori siciliani, da Alonzo Rodriguez a Filippo Paladini, a Pietro Novelli, subì il fascino e l’influsso della pittura di Caravaggio.

Due mesi rimane a Siracusa Caravaggio, chè già nel dicembre dello stesso 1608 è a Messina. La città, per via del porto e dell’industria della seta, della presenza di una classe di mercanti, è più aperta, più “liberale” di Siracusa o della capitale, di Palermo, dove risiede il retrivo e superstizioso viceré spagnolo marchese di  Villana. A Messina, preceduto com’è il Caravaggio da “grande rumore…ch’egli fosse in Italia il primo dipintore” ha richieste di quadri per chiese e privati. Otto mesi trascorre nella città dello stretto e qui dipinge vari quadri, sette o otto almeno, ma due soltanto ne rimangono oggi nel Museo Regionale di quella città, L’adorazione dei pastori  e la Resurrezione di Lazzaro. Quello della Natività, della nascita di Cristo in una stalla è un tema che interpreta il “pauperismo” dei Cappuccini, e Caravaggio lo rappresenta nel modo più vero, più radicale. La Madonna, con il Bambinello in braccio, è semisdraiata a terra (humus = humilitas, hanno osservato i critici), e i pastori sono disposti, come gli apostoli nella Incredulità di San Tommaso, a forma di croce. Anche qui un grande spazio, il fondo nero della sconnessa capanna, sovrasta la scena, i personaggi. Siamo qui a Messina nel tempo estremo di un Caravaggio sempre più cupo, tragico. E il susseguente, o precedente, quadro Resurrezione di Lazzaro esprime con più evidenza il suo stato d’animo. La scena, con quel corpo di Lazzaro appena riesumato dalla tomba, è di assoluta tragicità, nonostante il braccio teso del Cristo che richiama alla vita. Ma qui  è la morte in proscenio, la morte con quel

corpo rigido e livido di Lazzaro simile a quello gonfio della Santa Lucia di Siracusa. Scrive il barone messinese Nicolao di Giacomo: “Ho dato la commissione al sig. Michiel’Angelo Morigi da Caravaggio di farmi le seguenti quatri: Quattro storie della passione di Gesù Cristo da farli a capriccio del pittore (…) S’obbligò il pittore portarmeli nel mese di Agosto con pagarli quanto si converrà da questo pittore che ha il cervello stravolto”. Ha il “cervello stravolto” il disperato Caravaggio perché si sente continuamente braccato dagli emissari dei Cavalieri di Malta o della famiglia di Ranuccio Tomassoni, stravolto perché privo come qui in Sicilia della protezione degli Sforza-Colonna; stravolto, perché forse sente la sua fine imminente. Delle quattro storie della passione di Gesù Cristo solo una, l’Ecce Homo, ora a New York, sembra abbia dipinto, chè nell’agosto 1609 Caravaggio è già a Palermo.

A Palermo infatti, per l’Oratorio di San Lorenzo, dipinge la Natività con i santi Lorenzo e Francesco.E rientra, anche in questa natività nei canoni cappuccineschi dell’umile scena, con la Madonna seduta a terra a contemplare il  Bimbo sopra la paglia, con un san Giuseppe non vecchio, ma uomo ancor vigoroso, di spalle, con il cocuzzolo o “ritrosa” imbiancato. Il nero dello spazio in alto è rotto questa volta dalla luminosità di uno dei tanti angeli caracollanti in cielo di Caravaggio.

Questo quadro, ahi noi, esiste ormai nel ricordo o in qualche riproduzione fotografica perché è stato rubato da un mafioso nel 1969 e mai più ritrovato. La Palermo dell’inquisizione e della nobiltà più retriva e dissennata, del lusso e della miseria, dei loschi traffici di personaggi protomafiosi, da quel  Seicento della sosta di Caravaggio ad oggi non è mai cambiata, è rimasta sempre uguale a se stessa.

Dello stesso periodo palermitano sembra sia il San Francesco in meditazione sulla morte, oggi nella chiesa di San Pietro di Carpineto Romano. E quest’immagine di un fraticello con il teschio in mano ci sembra un ulteriore autoritratto del pittore, non per somiglianza fisica come quella del romano Bacchino malato o del Golia del napoletano David, ma per  somiglianza psicologica.

La limpida luce mediterranea di Malta e di Sicilia non è riuscita a consolare  il tetro umore del povero Caravaggio. Ma il suo passaggio per le due isole ha illuminato quel periferico e arretrato mondo, ha rivoluzionato la pittura del tempo suo e del futuro.

                                                     Vincenzo Consolo

Milano, 10.12.03

In FMR n. 1 giugno/luglio pag. 18/24  2004  in italiano

Col titolo “Le orme del maestro”- pag. 17-24

“ col titolo in spagnolo “ Las huellas del maestro” pag.17-24

Caravaggio - La Decollazione di San Giovanni Battista

Conferenza all’Accademia di Belle Arti di Perugia1

Vincenzo Consolo

Metto le mani avanti dicendo che non sono addetto ai lavori, non sono un esperto d’arte, come ha detto il professor Caruso, sono uno scrittore. Uno scrittore che però nella stesura di quasi tutti i suoi libri (Caruso ha citato Lunaria, ma forse fin dal primo libro) ricorre sempre a una citazione pittorica. Anche Calvino, che sembra meno implicato con la pittura, ha dichiarato che da sempre l’immagine di un dipinto lo ispirava nella scrittura dei suoi libri. Allora comincio teoricamente col dire che la letteratura è un discorso assolutamente lineare che ha una sua dinamica temporale nella quale bisogna saper leggere anche la sua verticalità, cioè la complessità. Bisogna dunque nella linearità del discorso letterario saper individuare le molteplicità dei significati oltre naturalmente dei significanti, cioè oltre al significato della parola bisogna anche ascoltarne il suono e comprendere che si propaga nel tempo.
Significante che si riporta ancora nella dimensione temporale: la scrittura si svolge nel tempo. Nell’arte figurativa, pittura o scultura, al contrario il discorso non è lineare, si svolge non nel tempo, ma nello spazio: sono due dimensioni diverse. Le due arti hanno essenze diverse. Ora cito un illuminista che non è il Lessing filosofo che conosciamo, ma un illuminista tedesco di nome Lessing che aveva analizzato la differenza tra letteratura e pittura. Egli afferma che la pittura usa figure e colori nello spazio, mentre la letteratura suoni articolati nel tempo, la pittura rappresenta oggetti che esistono uno accanto all’altro e sono colti con la loro proprietà visibile. È chiaro che qui si parla di pittura figurativa, non della pittura astratta, e quindi di figure di corpi, mentre la letteratura rappresenta oggetti1 che si susseguono uno dopo l’altro, la letteratura rappresenta un’azione nella quale gli oggetti o i corpi sono uno accanto all’altro e nella rappresentazione si segue una sintassi; questi oggetti o corpi sono legati, appunto come dice la parola, da una sintassi che regola la rappresentazione. Sia la pittura che la letteratura ubbidiscono alla legge della sintassi e dei legami. C’è però da osservare che spesso la sintassi pittorica e la sintassi letteraria si possono incrociare, si possono incontrare, e questo significa che vi può essere in pittura una componente temporale e dicendo questo non voglio riferirmi ai quadri medievali dove vi sono delle parole scritte. Mi riferisco soprattutto alle Annunciazioni dove l’angelo che annunzia ha le parole che escono dalla bocca e la Madonna risponde. Credo che le scritte dipinte si chiamassero filatteri. C’è una tradizione altissima di testi letterari dipinti da grandi pittori; basta pensare alle illustrazioni della Divina Commedia, ma anche per esempio al Boccaccio illustrato da Botticelli e in particolare ai due quadri famosi della novella di Nastagio degli Onesti. Vi sono delle pitture in cui vengono affiancati momenti successivi di un’azione e questo è evidente in quel genere di pittura soprattutto religiosa che si chiama Retablo. Il Retablo è un racconto pittorico che si svolge in più quadri, così come nelle narrazioni letterarie dei romanzi o racconti sono inserite narrazioni implicite, esplicite di esempi pittorici, pitture che possono fare da motivo ispiratore o da leitmotiv di una narrazione. Fatta questa premessa teorica facile e scontata voglio dire di me come scrittore, come la pittura mi ha influenzato, quali sono stati i temi pittorici che mi hanno segnato e mi hanno portato a scrivere. Devo iniziare dai primi passi che ho mosso in campo letterario e questo risale a parecchi anni fa, al primo libro La ferita dell’aprile, del 1963 pubblicato in una collana sperimentale, di ricerca letteraria. A quei tempi gli editori si permettevano di mantenere delle collane di ricerca che non avevano fine di profitto, così come le grandi aziende hanno il laboratorio di ricerca. Vittorini dirigeva la collana dei Gettoni presso Einaudi e cercava le nuove voci della letteratura italiana; per mezzo delle collane di ricerca si scoprirono grandi scrittori come Primo Levi, Giorgio Bassani, Leonardo Sciascia e tantissimi altri. Mondadori ha voluto con la chiusura della collana dei Gettoni di Einaudi continuare questa esperienza aprendo una collana che si chiamava il Tornasole, diretta dal poeta Vittorio Sereni e da un grande critico che si chiamava Niccolò Gallo. Quando ho scritto il mio primo libro sapevo già che il libro si sarebbe potuto collocare benissimo in quella collana. Credo che quando si opera in qualsiasi campo letterario, pittorico o musicale, chi comincia deve avere consapevolezza di quello che si è svolto prima che lui nascesse come artista, come autore, quindi conoscere la tradizione letteraria nel momento in cui comincia ad operare, essere consapevole degli autori contemporanei e soprattutto della grande letteratura italiana ed europea, ma anche degli autori che immediatamente lo hanno preceduto e sapere cosa stava succedendo negli anni ‘60 in campo letterario in Italia. Questi autori, Moravia, Morante, Bassani, Calvino, Sciascia e moltissimi altri, in massima parte avevano scelto di scrivere in un registro assolutamente comunicativo, razionalista o illuministico. Io mi sono sempre chiesto perché loro avevano scelto questo registro, questo stile illuministico o razionalistico e mi sono dato una risposta. Ho pensato che le persone che avevano vissuto l’esperienza del fascismo e della guerra, da Primo Levi a Nuto Revelli, a Rigoni Stern e a tantissimi altri che hanno scritto sulla guerra partigiana e sulla campagna di Russia e che hanno restituito la loro esperienza in forma referenziale e comunicativa, avevano scelto quel registro proprio perché speravano che con la fine del fascismo, con la fine della guerra si sarebbe potuta formare in Italia una società civile con la quale comunicare, per cui questi scrittori avevano adottato un registro di speranza, lo stesso registro di speranza che aveva teorizzato e che aveva voluto il padre sacramentale della narrativa italiana, Alessandro Manzoni. Manzoni scrivendo la seconda stesura dei Promessi Sposi, aveva adottato appunto il linguaggio toscano – ricordiamo la famosa frase “sciacquare i panni in Arno” – dopo aver scritto Fermo e Lucia con ancora dei dialettismi, dei localismi lombardi, perché sperava che con l’unità d’Italia gli italiani avrebbero potuto avere anche un’unità linguistica. È stata un’utopia molto generosa, però nonostante l’opera di Manzoni evidentemente questa unità linguistica non si è raggiunta. Per tornare a me, nato dopo le generazioni di scrittori che avevano nutrito questa speranza, nascendo come scrittore nel ’63 ho trovato i giochi politici già fatti. In Italia era avvenuto un profondo mutamento, una mutazione possiamo dire antropologica che nessun paese europeo aveva avuto. Era finito il millenario mondo contadino, c’erano stati spostamenti di massa, di braccianti meridionali verso il mondo industriale, c’era stato il processo di industrializzazione del Nord, un processo rapido che ha portato dei cambiamenti straordinari. Naturalmente il cosiddetto miracolo economico ha liberato il meridione dalla fatica contadina, ma nel contempo ha costretto i contadini a trasformarsi in operai, minatori, carpentieri. Miracolo economico è stato chiamato, (in un paese dove c’è il Papato tutto diventa miracolistico). C’è stata la fine del nostro mondo contadino e della cultura contadina alla quale è succeduta la cultura industriale. Intellettuali come Vittorini e Calvino da una rivista che si chiamava «Il Menabò» invitavano i giovani autori a lasciare i vecchi mestieri, i mestieri liberali dell’insegnamento o dell’avvocatura e di inurbarsi per cercare di spiegare da vicino, nei centri come Milano, o Torino, soprattutto Torino, dove c’era la Fiat, il mondo industriale. Studiare il fenomeno dell’Olivetti dove molti scrittori e poeti sono entrati, come Franco Fortini, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri e studiare proprio dentro l’industria, quella che Vittorini chiamò l’industria a misura d’uomo, le strutture per una condizione sociale dignitosa per gli stessi operai. Dicevo che questo nostro paese è cambiato profondamente anche nella lingua, nel senso che la vecchia lingua italiana, quella unica ipotizzata da Manzoni che era stata ripercorsa dagli scrittori della generazione che mi aveva preceduto, quella si era assolutamente trasformata. Pasolini nel 1964 aveva scritto un saggio intitolato Nuove questioni linguistiche dove aveva analizzato il cambiamento profondo della nostra lingua italiana perché col “miracolo economico” era avvenuto quel fenomeno nuovo della esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto della televisione. I due affluenti che avevano arricchito la nostra lingua, cioè la lingua popolare dal basso e la lingua colta dall’alto, si erano quasi prosciugati, si era formata una lingua media di comunicazione dove si perdevano le radici memoriali della lingua stessa. Sul problema della lingua italiana, oltre Pasolini, andando indietro nel tempo ci sono stati molti scrittori che ne hanno scritto. Ma ci sono stati anche scrittori che non avevano sentito il bisogno di riflettere su questo strumento che erano obbligati a usare. Non credo che ci siano stati nella storia della pittura pittori che abbiano sentito il bisogno di analizzare i colori che dovevano usare, io credo che solo in letteratura questo sia avvenuto, cioè che gli scrit- tori abbiano sentito il bisogno di riflettere sulla lingua che di volta in volta devono usare. La riflessione sulla lingua parte da Dante che sente il bisogno di scrivere un saggio, il De vulgari eloquentia, che è il primo saggio di linguistica italiana e di poetica personale, dove Dante parla di una lingua di primo grado, che è la lingua che noi parliamo da bambini quando noi sentiamo i primi suoni e della lingua grammaticale, cioè della lingua colta. Dopo Dante ci sono stati tantissimi altri scrittori che si sono occupati del problema della lingua, ma quello che l’ha analizzata profondamente è stato Leopardi. Nello Zibaldone scrive un saggio di linguistica in cui studia il rapporto tra società e letteratura, e fa un continuo confronto tra la lingua italiana e la lingua francese. Leopardi sostiene che la lingua francese è una lingua geometrizzata, cioè racchiusa in una serie di regole già dal tempo di Luigi XIV, e quindi lamentava la perdita di infinito che questa lingua aveva prima dell’avvento di Luigi XIV. Con questo sovrano in Francia si era formata una società, ancora prima della rivoluzione, e quindi si aveva bisogno di uno strumento linguistico che fosse estremamente comunicativo. Leopardi invece esalta la ricchezza e la profondità della lingua italiana e naturalmente dice che l’unico momento di unità linguistica nel nostro paese, parliamo di lingua letteraria, non di lingua strumentale, è stato quello del Rinascimento toscano. Il momento in cui tutti gli scrittori da tutte le periferie italiane, sia dai conventi sia dalle accademie si attenevano e usavano la lingua ideale, cioè il toscano. Con la Controriforma l’unità linguistica si disgrega e si comincia di nuovo a ritornare a quelle che erano le espressioni localistiche dialettali: quindi c’è una grande fioritura soprattutto in poesia, poesia dialettale con i grandi nomi di Belli, di Porta o di un narratore napoletano il Basile, autore de Lo cunto de li’ cunti. Si possono fare tantissimi altri nomi. Comunque in Italia non c’era mai stata fino ai nostri anni ’60 una lingua unica che poteva chiamarsi lingua nazionale e Pasolini alla fine del suo saggio Nuove questioni linguistiche porta come esempio di questa nuova lingua italiana, di questa lingua ormai tecnologizzata, assolutamente rigida e orizzontale, un brano del discorso di Aldo Moro nel momento significativo della inaugurazione dell’autostrada del sole. E riporta questo brano in un italiano che sino a quel momento non era stato scritto, infarcito di tecnologismi, quasi impenetrabile, in un registro linguistico pseudo afasico, che non raggiunge il suo referente, cioè l’oggetto della parola. E Pasolini conclude con ironia e amarezza «Che finalmente è nata la lingua italiana come lingua nazionale». Era una lingua nazionale assolutamente impoverita ed è quella che ascoltiamo alla televisione, che non è solo una lingua di comunicazione quotidiana, non è una lingua che sentiamo soltanto nei media, ma è una lingua che viene anche praticata nella scrittura letteraria. Dopo questa lunga riflessione voglio tornare a dire di me. Quando appunto ho cominciato a scrivere ho pensato che non avrei mai potuto scegliere quella lingua comunicativa, lingua assolutamente impraticabile in letteratura e quindi la scelta consapevole e in qualche modo anche istintiva è stata di scegliere un registro altro, diverso, che non fosse la lingua coniata dal potere. Ho scelto un contro codice linguistico che fosse appunto di difesa della memoria linguistica del nostro paese. E quindi il registro che si chiama sperimentale, espressivo; questa scelta mi metteva fatalmente in una linea che era sempre esistita (accanto alla linea razionalistica illuministica), che partiva da Verga, perché il primo che aveva rovesciato l’assunto della lingua ideale del Manzoni era stato Verga che aveva scritto in una lingua fino a quel momento mai scritta. L’italiano che Pasolini definisce irradiato di dialettalità era l’italiano con cui Verga faceva parlare i pescatori di Aci Trezza e i contadini di Vizzini, che non era l’italiano centrale toscano, ma che esprimeva il modo di essere, di sentire, di pensare delle classi non borghesi, delle classi popolari, delle classi umili, quindi il periodare, l’esprimersi per proverbi dei personaggi dei Malavoglia. Ma da Verga in poi naturalmente c’era tutto un filone di scrittori espressivi sperimentali che passava attraverso il grande Gadda, che appunto aveva orchestrato nel modo più vasto e polifonico tutti i dialetti italiani per dare proprio un’ immagine di quella che era l’Italia prima del miracolo economico, prima del processo di industrializzazione, specialmente nel libro Il pasticciaccio brutto di Via Merulana. Nel filone gaddiano si erano mossi poi tanti altri scrittori sperimentali da Lucio Mastronardi a D’Arrigo a Meneghello fino a Pasolini. Pasolini era uno scrittore sperimentale che era partito da un’esperienza dialettale, quella della poesia friulana scritta, in questa lingua-dialetto, e poi arrivando a Roma scrive i romanzi, ma non la poesia, nel romanesco del sottoproletariato romano. Anch’io mi colloco subito in questo filone. Scrivo in un mistilinguismo o quello che Cesare Segre ha definito plurivocità, per una difesa della memoria, perché la letteratura è memoria, memoria linguistica nel cercare di non far seppellire e cancellare tutti i giacimenti linguistici della terra dove mi ero trovato a nascere e a vivere e a capire i suoni, perché la Sicilia che citava il professor Caruso, che ci accomuna, è una terra dove sono passate tutte le civiltà, dagli antichi fenici, ai greci, ai romani, agli arabi. È inutile fare della retorica sulla Sicilia in un luogo come Perugia, in questa Umbria e Toscana, luoghi di grande civiltà. Gli antichi hanno lasciato i monumenti, templi greci, chiese arabo-normanne, ma anche giacimenti linguistici molto preziosi. Io ho fatto un lavoro da archeologo, ho cercato di disseppellire parole che provenivano da queste lingue ormai dimenticate, che erano di volta in volta il greco, l’arabo, il latino, lo spagnolo, il francese, immettendo, innestando nel codice linguistico italiano vocaboli che avessero un loro significato, molto più vasto che il termine italiano poteva darmi, ma anche che avesse una sua valenza di significante, cioè di sonorità, che si potesse incastrare nella frase,
nel discorso per creare un’armonia sonora, che si svolge nel tempo, come dicevo poco fa. La mia scrittura, per la mia ricerca, è contras segnata da questa organizzazione della frase in prosa che ha un suo metro, un suo ritmo che l’accosta un po’ al ritmo della poesia. Ho diffidenza verso la comunicazione, verso la comunicazione che ha in sé la narrazione. La scrittura in prosa è una scrittura ibrida perché la letteratura è nata in forma poetica: i grandi narratori dell’antica Grecia erano poeti orali. I poemi omerici prima erano poemi orali e poi con i grammatici alessandrini sono stati portati sulla carta. Anche la Bibbia era un racconto orale. L’oralità comportava l’organizzazione della frase sia per un fatto mnemonico e sia per un fatto di seduzione degli ascoltatori e le frasi avevano una loro componente ritmica e poetica. In questa epoca, in questa nostra civiltà di massa penso che l’elemento comunicativo che in sé fatalmente ha la scrittura in prosa debba essere sempre più ridotto, che il registro della scrittura debba spostarsi verso la parte ritmica, verso la parte espressiva. Uno scrittore sud americano dice che la scrittura in prosa ha una parte logica e una parte magica, la parte magica è la parte espressivo poetica; parliamo di forma, non di sostanza poetica. Mi sono perso in molti rivoli. Voglio tornare alle citazioni, e alle ispirazioni della pittura nei miei libri. Parlo del mio secondo libro Il sorriso dell’ignoto marinaio dove l’elemento ispiratore è il ritratto di ignoto di Antonello da Messina. Racconto un aneddoto per quanto riguarda questo titolo. Avevo scritto i primi capitoli di questo mio romanzo a metà degli anni ‘70, nel ’73-’74. Per l’ispirazione pittorica che aveva il libro avevo man dato i primi due capitoli alla signora Banti la direttrice della rivista «Paragone», e il cui marito era Roberto Longhi, che dirigeva anche lui la rivista, in parte di critica letteraria e in parte di critica d’arte. Mi sembrava quindi la sede più giusta per avere un riscontro su questi due primi capitoli. Non ho avuto risposta dalla rivista. Un giorno Roberto Longhi è venuto a Milano per presentare la ristampa del suo libro Me pinxit e quesiti caravaggeschi. Sono andato alla presentazione e alla fine gli ho detto con molta timidezza: «Professore le ho mandato due capitoli del mio romanzo. Mi chiamo Consolo. Non ho avuto risposta». Longhi mi ha guardato severamente e mi ha risposto: «Sì, mi ricordo perfettamente, mi ricordo dei bei racconti, mi ricordo il suo nome. Non voglio assolutamente entrare nel merito letterario dei racconti, però questa storia dell’ignoto marinaio deve finire». Sapevo quello che lui aveva scritto nei suoi saggi su Antonello da Messina. Longhi diceva che popolarmente era detto L’ignoto marinaio il ritratto che si conserva al museo Mandralisca di Cefalù, ma Longhi sosteneva che Antonello non era un pittore che faceva quadri di genere, era un pittore molto affermato e che si faceva pagare profumatamente, e quello era un ritratto di un signore, di un proprietario terriero, di un barone, ecc. Io sapevo bene quello che il critico d’arte aveva scritto, ma a me serviva la dizione popolare, la vulgata dell’ignoto marinaio, perché volevo svolgere il tema proprio in questo senso. Naturalmente avevo molta dimestichezza con questo quadro: mi aveva molto incuriosito perché il ritratto dell’uomo aveva un’espressione a me familiare che riscontravo in molti visi di persone che mi stavano intorno, insieme familiare e sfuggente. Ma quando pensai di rimettere insieme vari elementi per scrivere questo romanzo, da una parte il ritratto che avrebbe fatto da filo conduttore, poi la scoperta dei cavatori di pomice delle isole Eolie che si ammalavano di silicosi, e le rivolte popolari del 1860, il personaggio storico di Mandralisca, il protagonista Giovanni Interdonato, erano tutti elementi che mi hanno portato a unire i fatti storici secondo la lezione manzoniana: attingere alla storia e inventare altri personaggi che avessero i colori del tempo. Devo aggiungere che in questo libro ho mancato un’occasione, che sarebbe stata straordinaria, dell’incontro, che ho scoperto dopo la pubblicazione del libro, del barone Mandralisca con il Cavalcaselle. Il Cavalcaselle era anche lui un rivoluzionario risorgimentale che per ragioni politiche era stato costretto a rifugiarsi in Inghilterra. Lo straordinario critico d’arte clandestinamente proprio negli anni delle rivolte era andato a Cefalù alla ricerca delle opere di Antonello da Messina. A Cefalù si era incontrato con il barone Mandralisca e aveva steso uno schizzo di questo ritratto dipinto da Antonello. Volevo leggere il brano in cui racconto del quadro portato dall’isola di Lipari nella casa di Cefalù del barone Mandralisca e di quando viene presentato agli amici. Il barone oltre ad essere uno scienziato e uno studioso di malacologia, cioè studiava lumache, era anche un collezionista di opere d’arte, ma la gemma del suo privato museo era il ritratto di Antonello da Messina.

Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal basso e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso interrotto. L’ombra sul volto di una barba di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso, quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza per dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini.
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Ecco qui la descrizione dove lo scrittore diventò un po’ critico d’arte, ma naturalmente questo mi serviva per fare della metafora. Il libro che è ispirato a un genere pittorico che si chiama retablo è appunto Retablo, dove la struttura del libro è come fosse un polittico. C’è un primo pannello, un pannello centrale e poi un altro pannello. In tutti e tre i pannelli si racconta la storia. Retablo è un termine catalano che viene dal latino retro tabulo. Nel retablo non c’è più la fissità, ma un’azione che si svolge pittoricamente.2 Il Sorriso dell’ignoto marinaio, pp. 143-144. Questo libro nasce da un’occasione: era venuto in Sicilia il pittore Fabrizio Clerici, testimone in un matrimonio a Palermo dove anch’ io ero testimone. Dopo questo matrimonio avevamo fatto un viaggio nella Sicilia classica, il famoso tour che facevano i viaggiatori stranieri da Goethe a Brydone a un’infinità di altri viaggiatori che partendo da Napoli, arrivando a Palermo facevano poi il giro della Sicilia da Segesta a Mozia a Selinunte ad Agrigento a Siracusa e spesso facevano l’ascensione sull’Etna e poi s’imbarcavano a Messina per fare il viaggio di ritorno. Durante questa escursione nei luoghi classici della Sicilia occidentale vedevo Fabrizio Clerici che prendeva degli appunti, faceva dei disegni. Clerici era un pittore surreale, metafisico, era già diventato un personaggio di un romanzo di Alberto Savinio nel libro Ascolto il tuo cuore, città. Di lui Savinio diceva che era un personaggio stendhaliano e che si chiamava appunto Fabrizio come Fabrizio del Dongo, poi addirittura che potevano essere parenti perché lui si chiamava De Chirico e il pittore Clerici, quindi tutti e due avevano una matrice clericale. Da questo pittore straordinario, intelligente e raffinato mi è venuta l’idea di trasferire nel ’700 il mio Fabrizio Clerici e il trasferimento significava che volevo scrivere un libro che non avesse una matrice storica, ma che fosse una fantasia, fosse un viaggio in una Sicilia ideale. Un pittore del ‘700,
Fabrizio Clerici, lascia la Milano illuministica di Beccaria e dei Verri, innamorato e non corrisposto di una fanciulla, Teresa Blasco, che sposerà poi Cesare Beccaria l’autore Dei delitti e delle pene. Da questa unione nasce Giulia Beccaria, che sarà la madre di Alessandro Manzoni. Faccio muovere Fabrizio Clerici dalla Milano illuminista per andare in Sicilia, non solo perché il suo è un amore infelice e quindi compie un viaggio alla ricerca delle tracce della bellezza della donna di cui è innamorato, ma per fare un omaggio alla letteratura. Negli anni in cui scrivevo il libro, a Milano c’era un’accensione politica molto forte, non c’era spazio per la dimensione umana, per i sentimenti. Io rivendicavo il primato della letteratura attraverso questo libro, passando dall’illuminismo al romanticismo manzoniano attraverso Teresa Blasco e il pittore Fabrizio Clerici. Clerici arriva nei luoghi classici con i suoi metri, come faceva Goethe, arriva in Sicilia pensandola come una sorta di eterna arcadia dove vi erano soltanto monumenti greci, i templi di Segesta e di Selinunte, di Agrigento. I viaggiatori avevano l’idea romantica di trovare i satiri e le ninfe. Senonché viaggiando per le zone della Sicilia occidentale Fabrizio Clerici insieme al suo accompagnatore siciliano, frate Isidoro, che aveva gettato il saio alle ortiche proprio perché sconvolto da una passione d’amore per una fanciulla, Rosalia, si accorge che la Sicilia non era soltanto arcadia. L’arcadia non c’era più. La Sicilia era una terra di forti contraddizioni, di grande miseria, di afflizione, di sopraffazione, di violenza. Clerici incontra banditi, corsari saraceni, ma scopre una dimensione che lui non sospettava, incontra persone dai sentimenti profondi e di grande umanità. Attraverso l’immagine pittorica del retablo ho voluto scrivere una rivendicazione del primato della letteratura nei confronti della politica, ho voluto descrivere la complessità dell’uomo, i suoi sentimenti, le sue passioni. Nel libro c’è l’ironizzazione di certa pittura imbrogliona, prendendo spunto dall’opera teatrale di Cervantes che si chiama appunto El Retablo de las meravillas. In Spagna la parola retablo è un termine che indica sia un’opera pittorica, sia un’opera teatrale. Nel Don Chisciotte c’è il “retablo del maestro don Pedro”, che è un teatrino di marionette portato in giro per la Mancha da don Pedro e che don Chisciotte nella sua follia distrugge. Cervantes mette in ridicolo il
conflitto di allora tra cristiani vecchi e cristiani nuovi, tra spagnoli ed ebrei, e mori convertiti. Questo intermezzo, o atto unico teatrale, lo riprendo nel mio libro Retablo, dove il conflitto questa volta è tra persone ingenue, oneste e fedeli alla chiesa e disonesti, infedeli o traditori:

Irreali come il retablo delle meraviglie che lo scoltor d’effimeri Crisèmalo e il poeta vernacolo Chinigò facean vedere sopra un palco. Un trittico a rilievo basso di cartapesta o stucco coperto d’una polvere dorata (terribilmente baluginava al sole come l’occhio adirato del padre Giove o quello pietrificante di Gorgonia), privo di significato e di figure vere, ma con increspature, rialzi e avvallamenti, spuntoni e buchi, e tutto nell’apparenza d’una arcaica scrittura, di civiltà estinta per tremuoto, diluvio o eruzione di vulcano, e sotto le ruine, in fondo all’acque o nella lava ardente si perse la chiave di sua lettura.

Vide chi pote e vole e sape
dentro il retablo de le maraviglie
magia del grande artefice Crisèmalo,
vide le più maravigliose maraviglie:
vide lontani mondi sconosciuti,
cittate d’oro, giardini di delizie,
[…].
Vide solamente il bravo cristiano,
l’omo che fu tradito mai dalla sua sposa,
la donna onesta che mai tradì il suo sposo…3
3 Retablo, pp. 395-396.

Nella mia scrittura, nello spostamento della prosa comunicativa verso la prosa espressiva ci sono dei momenti di arresto della narrazione, ci sono delle digressioni che io chiamo cantica, come fosse una parte corale, quella dei cori greci. La mia idea oggi di letteratura, di scrittura in prosa, è di una
scrittura dove, come nella tragedia greca non appare sulla scena il messaggero o l’anghelos, cioè il personaggio che comunicava con il pubblico che sedeva nella cavea, che raccontava di un fatto avvenuto prima, in un altro luogo, e da quel momento, dopo questa comunicazione, con un linguaggio assolutamente comunicativo, poteva incominciare la rappresentazione della tragedia, potevano agire i personaggi e intervenire il coro. Credo che oggi in questa nostra civiltà di massa il Messaggero, cioè lo scrittore che comunica con il lettore non può più apparire sulla scena e quindi la scrittura si riduce alla parte corale, alla parte poetica in cui si commenta, si lamenta la tragedia… Diciamo è una rappresentazione priva di catarsi. Ora vi leggo un brano di un altro mio romanzo Nottetempo casa per casa dove con la memoria descrivo un luogo sotterraneo nel quale
sono stati scoperti affreschi romani. Questo brano mi è stato ispirato da una mostra che ha fatto Ruggero Savinio anni fa. Le figure di Ruggero Savinio mi apparivano come venute fuori da una profondità, da un ipogeo, come nelle scoperte di scavi archeologici, e quindi nel racconto del romanzo ci sono interruzioni per raccontare un viaggio dentro un mondo antico:

Quindi per gradi, per lenti processi discendiamo in spazi inusitati
(dimenticammo l’ora, il punto del passaggio, la consistenza, la figura
d’ogni altro, dimenticammo noi sopra la terra, di là della parete, al
confine bevemmo il nostro lete).
Ora in questa luce nuova – privazione d’essa o luce stessa rovesciata, frantumo d’una lastra, rovinìo di superficie, sfondo infinito, abissitade –, in nuovi mondi o antichi, in luoghi ignoti risediamo. O ignote forme, presenze vaghe, febbrili assenze, noi aneliamo verso dimore perse, la fonte dove s’abbevera il passero, la quaglia, l’antica età se polta,
immemorabile.
In questa zona incerta, in questa luce labile, nel sommesso luccichio
di quell’oro, è possibile ancora la scansione, l’ordine, il racconto ? È
possibile dire dei segni, dei colori, dei bui e dei lucori, dei grumi e degli strati, delle apparenze deboli, delle forme che oscillano all’ellisse, si stagliano a distanza, palpitano, svaniscono? E tuttavia per frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie tentiamo di riferire di questo sogno, di questa emozione. Viene e sovrasta un Nunzio lampante, una lama, un angelo abbagliante. Da quale empireo scende, da quale paradiso? O risale prepotente da quale abisso? È lui che predice, assorto e fermo, ogni altro evento, enuncia enigmi, misteri, accenna ai portenti, si dichiara vessillo, simbolo e preambolo d’ogni altro spettro. Da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bru ni, da strati sopra strati, chiazze, da scialbature lievi, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve, lo Scriba affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte o come il libro poggiato sui ginocch
i. Venne poi il crepuscolo, la sera. Una sera azzurra e bruna, vermiglia e gialla. Con un reticolo d’ombre, di caligini, un turbine di braci. È l’ora questa degli scoramenti, delle inerzie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia…(la luna suscita muffe fiori di salnitro…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita. Oltre sono i foschi cieli e le chiome degli alberi impietrati, gli scuri ingressi degli antri delle vuote dimore, del volo di vespertili, verso della civetta.
Oltre sono le Rovine. Che non consumi tu Tempo vorace. 4 Che non consumi tu…Che non consu…”5

È la poesia delle rovine, delle vestigia del nostro passato che ci
commuovono ogni volta che le vediamo.

Prof. Caruso. Volevo ringraziare. È qualcosa di più di una conferenza, è anche una confessione stupenda e soprattutto hai dato una prova di come la pittura e la letteratura siano strettamente connesse, fraterne e vicine. Poi hai parlato delle rovine che ci commuovono tanto: ci commuovono perché sono il nostro passato, i nostri ricordi. 4
«Riprende una frase che “i paesaggisti del Cinque-Seicento scrivevano
dietro i paesaggi con rovine” (Villa, p. 177)». Così nel dattiloscritto. D.
O’Connell da parte sua commenta questa frase come segue: « A detta dello
scrittore questa frase è ripresa dagli incisori dell’Ottocento che la lasciavano scritta sopra le rovine riprodotte. Ma ci sembra di sentire qui anche un’eco del latino, in particolare da Ovidio (Metamorphoses XV, 234-236): Tempus edax rerum, tuque, invidiosa vetustas, / Omnia destruitis vitiataque dentibus aevi / Paulatim lenta consumitis omnia morte! (Id., Consolo narratore e scrittore palincestuoso, cit., p. 173). 5 Nottetempo, casa per casa, pp. 686-687.

Hai anche detto che i pittori non analizzano i loro strumenti. Non è assolutamente vero. Purtroppo i vari strumenti linguistici dell’arte figurativa, dell’arte visiva vengono fin troppo analizzati. Questa è una puntualizzazione. Poi io direi a proposito del tuo ritmo di scrittura e anche di come tu parlavi delle origini della letteratura che la grande matrice di tutte le arti è la musica; anche le prime parole nascono da un ritmo musicale. Il ritmo musicale in qualche modo ci guida in qualsiasi attività artistica, perché se non c’è ritmo non c’è scansione e non c’è parola, né pagine, né spazio. Hai parlato in modo da provocare una quantità di associazioni. Ti ringrazio. Consolo. Mi scuso per l’errore che ho fatto, data la mia ignoranza pensavo che i pittori trovassero i colori a portata di mano, che andassero in un colorificio e in modo rapido comprassero i loro colori. Sono stati tanti i pittori che mi hanno ispirato. Però mi hanno ispirato anche molti libri o pagine di libri, ma c’è un pittore che più degli altri mi ha impressionato e che compare nel Sorriso dell’ignoto marinaio, è Goya. Goya dei Disastri della guerra, Nel mio libro c’è la descrizione di una strage che hanno fatto i rivoltosi popolani di un paesino dove appunto mi servo delle didascalie delle incisioni di Goya per scandire la tragedia. E insieme c’è anche la malinconia del Dürer. Ho parlato di un altro pittore, Caravaggio, ne L’olivo e l’olivastro, che non è un libro di invenzione narrativa, è un viaggio nella realtà siciliana, dove sono inseriti frammenti narrativi, tra cui la sosta di Caravaggio a Siracusa dopo la fuga da Malta, e la commissione che gli viene data dal senato di Siracusa tramite un erudito locale, Mirabella, del quadro del seppellimento di S. Lucia. Volevo leggere il brano dove descrivo il quadro:

Effigiò la santa come una luce che s’è spenta, una Lucia mutata in Euskìa, un puro corpo esanime di fanciulla trafitta o annegata, disposto a terra, riversa la testa, un braccio divergente, avanti a donne in lacrime, uomini dolenti, stretti, schiacciati contro la parete alta della latomia, avanti alla corazza bruna del soldato, la mitria biancastra, aperta a becco di cornacchia, del vescovo assolvente, dietro le quinte dei corpi vigorosi e ottusi dei necrofori, cordari delle cave o facchini del porto, che scavano la fossa. La luce su Lucia giunge da fuori il quadro, dalla pietà, dall’amore dei fedeli astanti, da quel corpo riverbera e si spande per la catacomba, a cerchi, a onde, parca come fiammella di cera dietro la pergamena. Nel sentimento della morte che ormai l’ha invaso e lo possiede, Michelangelo è oltre la violenza, l’assassinio, è alla resa, alla remissione, al ritorno ineluttabile, al cammino verso la notte immota. 6

Il vescovo di Siracusa, dicono i documenti, non ha trovato questo quadro di suo gradimento e glielo ha fatto correggere; sempre secondo i documenti, la testa di Santa Lucia era staccata dal corpo, la santa era stata decapitata, e il vescovo gli ha fatto congiungere la testa con il corpo, lasciando una piccola ferita nel collo. Nel quadro oggi si vede soltanto questo piccolo squarcio. Dicevo che c’è il passaggio, da questa lama di luce che c’è nella pittura caravaggesca che squarcia le tenebre controriformistiche, alla forma necrofila di arte del ceroplasta siracusano Gaetano Zumbo, il quale componeva dei teatrini rappresentanti la morte e la corruzione del corpo umano. Il cereo corpo di Lucia si decompone insomma negli ipogei della
morte, negli avelli, nelle catacombe dei liquami; nella ferita del collo
bianco s’è insinuato il bacillo della peste che cova e germina nelle
volute, nei ghirigori del barocco».

6 L’olivo e l’olivastro, pp. 828-829.

Il testo di questa Conferenza, tenuta all’Accademia di Belle Arti di Perugia il 23 maggio 2003, mi era stato affidato alcuni anni orsono da Caterina Pilenga, vedova dello scrittore, come un prezioso inedito che io ho gelosamente custodito. In calce al testo dattiloscritto, sotto la firma di Vincenzo Consolo, si legge la data: Milano, 19.3.2004, verosimilmente apposta da chi ha dattilografato il manoscritto, forse la stessa Caterina


Vincenzo Consolo : l’alchimie du logos

Chroniques italiennes n. 73/74 (2-3 2004), M. GIACOMO-MARCELLESI

Vincenzo Consolo : l’alchimie du logos

Femmine, che sono sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca ?

La transposition narrative du monde de Vincenzo Consolo, ce « Finistère » dont les frontières sont sans cesse repoussées dans l’espace et dans le temps, comporte une telle force dans les évocations langagière, qu’on a parfois l’impression de ne pas pouvoir comprendre le texte si on ne le lit pas à voix haute.

Il est sans doute difficile de trouver une production littéraire où la voix humaine aux mille parlers occupe autant de place que dans cet univers dont la dimension chorale exprime l’infinitude de la souffrance humaine. L’extrême richesse de la narration se développe dans la cristallisation métaphorique des mots, expressions, formules nées de la mémoire individuelle de l’écrivain qui renvoient à une culture populaire et savante, ainsi qu’à une sensibilité et une éthique forgées dans ce contexte.

Consolo définit lui-même la genèse de son oeuvre littéraire comme le projet d’une écriture de type sociologique, à la Carlo Levi, qui s’est inscrite dans la perspective d’une écriture expressive ou sentimentale quand il a compris que l’esthétique littéraire généralement qualifiée de néo-réalisme était dépassée. Son choix se porte donc sur cette écriture expressive, dont il voit l’archétype en Giovanni Verga, « il primo grande rivoluzionario stilistico nella letteratura moderna ».

Le critique Enzo Papa signale enfin une autre influence invoquée par Consolo, celle du groupe allemand ’47:

Vi resistono an cora gli echi della poetica neorealistica, già in congedo… ma vi appare evidente la lezione del tedesco gruppo ‘47, di quegli scrittori tedeschi che Consolo definisce analisti, come anche quella delle sperimentazioni linguistiche di Gadda e di Pasolini. 1

Dans cette lignée, Consolo manifeste dès son premier ouvrage La ferita dell’aprile ( bien qu’il ait fallu attendre Il sorriso dell’ignoto marinaio pour que la critique s’en aperçoive) une maîtrise des ressources de la langue et une originalité de style qui permettent de le reconnaître dès la première lecture, ad apertura di pagina, dit un critique2.

Nous verrons comment les voix populaires résonnent dans l’oeuvre de Vincenzo Consolo, les mots, les dialogues, mais aussi les interjections, les murmures, les balbutiements, les bruits. Il n’est pas jusqu’aux cris et au silence qui ne prennent une signification métaphorique dans cet univers.

1.Langue(s) et dialecte(s) :

1.1 La musique de l’inflexion dialectale:

La langue italienne dans ses inflexions dialectales diverses est évoquée avec émotion par l’écrivain Giacchino Martinez, héros du roman Lo Spasimo di Palermo (en partie autobiographique) quand il l’entend résonner dans le train, au retour d’un exil de plusieurs années : les voyageurs descendent à Florence et à Rome relayés par d’autres qui montent, le couloir est envahi par les soldats en permission qui hurlent, s’interpellent, se moquent les uns des autres d’un bout à l’autre du wagon dans un joyeux brouhaha, la baraonda : l’intellectuel se complaît à entendre résonner ces parlers qui ne sont plus le dialecte mais ne sont pas encore « la terrible nouvelle langue nationale que le malheureux Pasolini avait prophétisé pour le pays.

1 Enzo Papa, « Vincenzo Consolo : », in Id., « Ritratti critici di contemporanei», in: Belfagor, Firenze, Olschki, marzo 2003, LVIII, n.2, p. 179-198 : « on y trouve encore les échos de la poétique néoréaliste, …mais déjà apparaît en pleine évidence l’influence des écrivains du groupe allemand ’47…de ces écrivains que Consolo définit comme analystes, et aussi celle des expériences linguistiques de Gadda et de Pasolini ».

N.B. Cette traduction, comme toutes celles qui suivront, en note ou dans le texte, sauf mention spécifique, a été établie par l’auteure de la présente étude.

2 Gianni Turchetta, « Introduction » in : Vincenzo Consolo, Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988, p. V-XII

Vincenzo Consolo : l’alchimie du logos 199

Oltre l’eterna melodia napoletana, cercava di distinguere i suoni di Calabria, quello aspro dei monti e quello piano di Vibo e di Lamezia. Nelle parlate poi della sua isola, indovinava facilmente, nelle sue varianti, le città e i paesi da cui i ragazzi provenivano. Sentiva l’incolore e aggirante messinese, il rotondo e iattante palermitano, l’allusivo e cantilenante catanese, il pietroso e aspirato agrigentino, e l’antico lombardo di Piazza, Nicosia o San Fratello3.

1.2 Le sicilien

Le premier roman La ferita dell’aprile4, propose, dès 1963, une langue de ce type, italienne souvent fortement infléchie par le dialecte tandis que le dernier roman (à ce jour), Lo spasimo di Palermo, sépare la langue italienne académique des énoncés en sicilien qui sont le plus souvent des noms de lieux ou des proverbes. Il sorriso dell’ignoto marinaio5 et Retablo6 se rapprochent plutôt de cette deuxième solution, tandis que Le pietre di Pantalica7 accorde une place beaucoup plus importante au dialecte puisque ce livre évoque l’occupation des terres par les journaliers agricoles, I braccianti. Enfin le livre consacré au Baroque en Sicile présente de longs passages en sicilien, les récits de témoins du tremblement de terre d’Acireale et de celui qui a détruit Syracuse en 16938.

Le sicilien proprement dit résonne à travers les dialogues, les proverbes, les rituels des travaux des champs, les insultes, les slogans politiques, les joutes poétiques de la vie quotidienne, les chansons du « folklore », et de nombreux textes sont eux-mêmes en dialecte.

Les caractéristiques phonologiques et morphologiques du sicilien sont présentes aussi bien dans La ferita dell’aprile que dans d’autres teste de Consolo.

– Vocalisme : l’absence de diphtongue dans le suffixe –ère « -ièri » (cavalere « cavaliere » sciarmère, « mèi « miei », sui « suoi »), -les voyelles fermées en syllabe tonique (chisti « questi », sunno « sono », signuri « signore », vui « voi »), les voyelles semi-ouvertes en syllabe atone (sicolo « siculo », scoltori « scultori »)

– Consonantisme : le rhotacisme (Arcamo « Alcamo », ascortate « Ascoltate »), la séquence –nn- correspondant à la séquence italienne –nd- : (monno « mondo », granne « grande »), l’absence de l’élément labio-vélaire (chisti « questi »), la présence de la fricative palatale dans la séquence consonantique –str- (nosctro « nostro »), la non-assimilation du groupe –ntpour l’italien –tt- (pintori « pittori »)

En revanche, la morphosyntaxe du sicilien est plus particulièrement présente dans la prose italienne de La ferita dell’aprile, qui reprend le rythme de la langue dialectale, sicilienne mais aussi plus généralement méridionale : emploi systématique du passato remoto là où la langue emploie le passato prossimo, postposition systématique du verbe, soli restammo, cavaliere è, essa fu, io sono, etc., emploi systématique de l’indicatif dans des subordonnée introduites par des verbes exprimant

Le lexique sicilien apparaît dans La ferita dell’aprile, certains mots connus comme caruso, picciotto, d’autres moins répandus dans la péninsule : il dubotti (due colpi en italien, (« deux coups » en français ), d‘autres enfin si obscurs qu’ils sont éludés dans les traductions françaises, comme le balate9, « les roches lisses qui donnent un accès facile à la mer », « les dalles ».

3 Vincenzo Consolo, La spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1998, p.94-95 :Au-delà de l’étzrnelle mélodie du napolitain, ilessayait de discerner les sons de Calabre, l’âpre calabrais des monts et de la plaine de Vibo et de Lamezia. Dans les parlers de son île, il devinait facilement, à travers ses diverses variantes, les cités et les bourgs dont provenaient les jeunes gens. Il entendait l’incolore et insinuant parler de Messine, le palermitain sonore e glapissant, le parler de Catania comme une cantilène discrète, le parler âpre et pierreux d’Agrigente, et l’ancien lombard de Piazza, Nicosia ou San Fratello. »

4 Id., La ferita dell’aprile, Torino, Einaudi, 1963

5 Id., Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano, Mondadori, 1976

6 Id., Retablo, Torino, Einaudi, 1998

7 Id., Le pietre di Pantalica, 1988

8 Id., Il barocco in Sicilia : la rinascita del Val di Noto, Milano, Bompiani, 1991

9 Id., La ferita dell’aprile, p. 122

  1. 3 La différence linguistique comme vécu:

Cette expérience est autobiographique. Vincenzo Consolo tout en assumant son destin de grand intellectuel européen n’en finit pas de donner à entendre la différence linguistique qu’il a vécue dès son enfance. Comme le jeune héros de La ferita dell’aprile il est né dans un bourg en province de Messine, où on parle, aujourd’hui encore, un idiome « gallo-italique » qu’il appelle antico lombardo, qui s’est rapproché au cours des siècles du sicilien, tout en gardant de nombreux traits spécifiques. L’enfant prend conscience de cette singularité quand sa mère l’emmène vivre dans une autre localité, où la population le traite, lui et les siens, comme des étrangers, zanglé, zerabuini, « anglais », « arabes », êtres possédés du diable, affligés de tous les vices que même Mussolini n’avait pu convertir au christianisme. Alors que le paysage qu’il voit de l’institut où il est scolarisé lui donne l’impression rassurante de se rapprocher de son village, les collines entrevues comme un lion protecteur au repos, l’enfant se trouve confronté aux moqueries de ses camarades, pour sa différence de langue, celle d’un bourg « vieux comme le monde, où on parle d’une façon telle que personne ne nous comprend, et les illettrés, quand ils parlent, semblent être originaires du Nord » :

Don Sergio me lo chiese, un giorno che dicevo la lezione.- Di’ un po’ : non sarai mica settentrionale ?

– E le risate di que’ stronzi mi fecero affocare. Glielo dissero che ero uno zanglé, che avevo una lingua speciale. Don Sergio volle sapere e fece la scoperta che poteva esse colonia francese, che zanglé storpiava lesanglé, non inglesi, ma normanno.

Ma non sono neanche uno zanglé, un civile di casino, facce smorte e pertiche di faggio, zarabuino, se ci tiene tanto.

-Zarabuini sono gli arabi, disse don Sergio.10

L’altercation donne lieu à une leçon d’instruction civique empirique, une leçon de tolérance et de respect de l’autre « étranger ». Don Sergio se risque à une analyse hasardeuse de la différence entre « les arabes zarabuini et les normands, deux races, deux classes bien distinctes » dit-il, « la seconde s’étant imposée sur la première provoquant une fracture nette qui dure encore aujourd’hui ». Puis il propose à l’enfant un échange métalinguistique qui montre les correspondances entre les deux idiomes, pen « il pane », mer « il mare », travai « il lavoro » et d’où il ressort que la différence n’est pas un problème :

Vedete, vedete ! Che c’è da vergognarsi, è storia, storia.11

Le camarade de classe Mùstica devient alors un ami, lui qui avait été le premier à l’appeler zanglé , et il reconnaît à son tour « que chacun est fils de son père, un point c’est tout, et que tous nous sortons du même terrier ». Un des prêtres de l’institut, Don Baraglio lui suggère fort judicieusement d’opposer des insultes de sa propre langue à ceux qui l’appellent zanglé.

La coexistence de plusieurs idiomes dans la narration est illustrée notamment par le récit de l’arrivée du voyageur lombard, le peintre Fabrizio Clerici, à la cour princière de Alcamo :

« Venisse, venisse… » soggiunse, facendo segno d’ascendere alla loggia.

« Ben vinuto, ben vinuto ad Arcamo ! » disse quando gli fui di fronte, e m’abbracciò e mi baciò sulle guance.

« L’amici di Sepporta sunno amici mèi. E chisti » disse quando gli fui di fronte presentandomi gli altri ch’avea s ‘intorno « sunno mèi amici, e dunca vosctri. »

« Vino, vino al cavalère di Milano ! » gridò il Soldano. E mi si offrì nel cristallo una bevanda spessa e giulebbosa che dopo il primo assaggio, rifiutai

10 Id., La ferita dell’aprile, Torino, Einaudi, 1963, p. 25-26 : « Don Sergio me le demanda, un jour où je récitais la leçon. –Dis-moi un peu, tu ne serais pas septentrional, par hasard ?. – Les éclats de rires de ces cons ont failli me faire suffoquer. Ils lui ont dit que j’étais un zanglé, que j’avais une langue spéciale. Don Sergio voulut en savoir davantage et il découvrit que c’était peut-être une colonie française, que zanglé était une déformation de lesanglé, non pas des anglais, mais des normands. Mais je ne suis pas non plus un zanglé, un clients de bordel, avec un visage livide et des cannes de hêtre, plutôt zarabuini, si vous y tenez tant à anglé – Zarabuini, ce sont les arabes, dit Don Sergio. »

11 Id., Ibid. p. 26 : Vous voyez, vous voyez ! De quoi avoir honte, c’est de l’histoire, de l’histoire. »

« si contrstava…se sia opportuno, nel poetare o pure rivolgere al sicolo idioma tragedia antiqua oppur poema, sia opportuno dicimo per nui nativi d’Arcamo , patria del primo e granne, onore de la cosca de’poeto e luce di cinnàca, di Ciullo intenno, chiaro al monno intero, e surtuto per nui de l’Academia ardente che al nome suo s’impenne, far crescere la cima sicola da ràdica toscana o puramente far sbocciare in aura toscana la semente sicola. Giudicate vui, vah, giudicate vui »

« Ma veramente, » balbettai vergognoso « mi so nient di lingua e di poesia»

« Checchecchè ? ! »fece il Soldano.

« Non m’intendo, non m’intendo » dissi allungando le braccia » 12

Cet épisode prend toute sa signification si on donne une valeur anaphorique à un paragraphe postérieur où l’auteur évoque avec soulagement, et même une allégresse qui n’est pas due seulement à la limpidité de l’aube et de l’ora antelucana, son départ de la cour d’Alcamo. Cette évocation confirme qu’il s’agit bien de Frédéric II:

Gai giannetti e novi letticari, nell’aere lieve dell’ora antelucana, presto ci portarono lontani dalle mura turrite del paese d’Alcamo, madre di lingua e cuna di poesia, dal grasso amante d’ogni lusso e arte, il castellano e ospite Soldano, dal protervo satiro suo figlio, dalla corte de’bardi, scoltori, pintori e teatranti servi, sciarmèri e questuanti13.

L’ensemble de la rencontre illustre en fait, de façon parodique, le ontraste entre l’apparence orientale et mauresque du Sultan et l’identité du souverain d’origine anglo-saxonne, germanique par son père Henri fils de Frédéric Barberousse, et normande par sa mère Constance de Lecce. L’intérêt de Frédéric II pour les langues, sa maîtrise de la langue arabe, sapassion pour l’astronomie e plus généralement, pour une experimentation scientifique linguistique mais aussi biologique, qui ne recule pas devant la cruauté, sont suggérés ici dans un anachronisme parodique. Le sicilien est utilisé dans une dimension caricaturale, mais il présente des traits intrinsèques, vocaliques, consonantiques, morphologiques, presents également chez les protagonistes populaires du roman.

En contraste avec la générosité princière et linguistiquement sicilienne du Sultan, la formule lombarde mi non so nient exprime l’émotion du peintre lombard Fabrizio Clerici, déjà fortement éprouvé par la dégustation forcée de fruits artificiels, surtout par la vue des foetus monstrueux macérant dans de bocaux, et terrorisé à la perspective de la nouvelle épreuve.

Le même effet comique et parodique naît du plurilinguisme qui se dégage également des allocutions des deux bardes en « contraste », nouvelle allusion aux joutes poétiques médiévales en usage à la cour de Sicile comme dans d’autres régions de Méditerranée où elles sont encore vivantes. Le premier barde, Don Emilio Chinigò, in Accademia inteso Abelio Zenòdotto, s’exprime sans doute dans l’idiome gallo-italique des anciennes coloniespiémontaises :

12 Id., Ibid., p. 40 : « Venez, venez », suggérait-il en nous faisant signe de monter dans la loggia. Bienvenu, bienvenu, » dit-il quand je fus en face de lui, et il me serra contre lui et m’embrassa sur les joues. –« Les amis de Sepporta sont mes amis. Et ceux-ci, dit-il quand je fus en face de lui, en me présentant ceux qui l’entouraient, ce sont mes amis et donc les vôtres.- Du vin, du vin pour le chevalier de Milan ! » cria le Sultan. Et il m’offrit dans un verre de cristal une boisson épaisse que je repoussai dès la première gorgée. – Nous débattions, pour savoir s’il est opportun de rédiger une poésie ou une tragédie en sicilien, pour nous natifs d’Alcamo, patrie du premier, le grand, l’orgueil de la compagnie des poète, je veux parler de Ciullo, célèbre dans le monde entier, et surtout pour nous de l’Académie ardente, faut-il cultiver les sommets siciliens avec une racine toscane, ou bien faire s’épanouir dans l’atmosphère toscane la semence sicilienne. Donnez votre jugement, allez, donnez votre jugement. – « Mais vraiment, balbutiais-je, plein de honte, – je ne sais rien en langue et en poésie.- Quoi, quoi, fit le Sultan. – Je n’y connais rien, je n’y connais rien, » dis-je en allongeant les bras.

13 Id., Ibid., p. 53 :De joyeux guides et de nouveaux jeunes porteurs nous emmenèrent, dans l’air léger de l’aube, loin des remparts crénelés de la ville d’Alcamo, mère de la langue et berceau de la poésie, loin de l’amant de tous les luxes et de tous les arts, le châtelain notre hôte, le Sultan, et loin de son arrogant satire de fils, loin de la cour des bardes, des sculpteurs, des peintres, des comédiens, des jongleurs et des mendiants.

Esultante quindi l’accademico, con voce forte, chiara, si mise a recitare versi oscuri, incomprensibili a me, a voi, a chicchessia, mi credo, non fusse nato in Alcamo, che rumorosi applausi si ebbero, e numerosi brindisi, di tutta l’adunanza14.

Le second barde, padre don Getulio Camàro, in Accademia Aristeo Apollonio, use d’une langue artificielle et ampoulée, peut-être celle du trobar clus et des poètes définis comme siculo-toscans :

Poscia seguì il prete, grevio, untuoso, che pur poetando nel più cercato e prezioso italico linguaggio, tanto dolz e pien di sghiribizz, di pess, e pazz, e pozz, e puzz, e pizz, come ridendo dice il nostro Maggi, erano i versi suoi gonfi di metafore e di immagini e di concetti sùi peregrini e falsi, e manierato il tono, e il ritmo artefatto…15

Dans la diversité des langues, il faut inclure l’argot, il gergo, gergo adolescenziale revendiqué par Consolo, l’emploi des mots fottere, minchione, etc.

Certains mots sont difficiles à comprendre parce qu’ils correspondent à une époque où se situe le roman, ainsi serraglio e mentòla pour les cigarettes « légères »

D’autres idiomes sont conviés, grec, arabe, espagnol, français, anglais, allemand, et même une langue inconnue, dans une comptine que le prêtre fait chanter aux enfants pour exorciser leur peur pendant les bombardements16 Ces idiomes apparaissent à travers des répliques ou mots isolés, souvent des toponymes, qui sont « la dent et la griffe de l’histoire dans la langue » comme disait un illustre géographe. Ces insertions prennent une valeur symbolique dans le déroulement de la narration que nous nous proposons d’évoquer plus longuement dans la troisième partie de notre étude.

  1. Le choix du genre : roman, poème narratif ?

A travers la série d’interviews organisées à Rome, le 25 juin 1993, par l’Imes, l’Istituto meridionale di storia e scienze meridionali, et publiées dans le recueil Fuga dall’Etna17, Vincenzo Consolo affirme un point de vue selon lequel, dans les conditions actuelles de l’Italie, la fonction de l’écrivain connaît une grave mutation. Cette situation est due à l’absence d’ancrage national des intellectuels italiens, à la rupture du rapport entre la société et les intellectuels :

Gli scrittori italiani hanno sempre dovuto andare all’estero per poter scrivere in prosa, da Manzoni a Calvino, a Sciascia, mutuare cioè la loro dalla prosa francese, o adottare una sorta di koiné funzionale di tipo transnazionale come Pirandello o Morzavi18.

Cette analyse correspond, de manière significative, aux remarques d’Antonio Gramsci sur le clivage entre les intellectuels italiens et le peuple, leur éloignement de la vie « nationale-populaire »19. C’est dans le vide de cette relation entre la société et les intellectuels que s’est installé, selon Consolo, un type de communication qui est, en fait, une véritable imposture.

14 Id., Ibid. p. 41 : « Exultant, l’académicien se mit d’une voix forte et claire, à réciter des vers obscurs et incompréhensibles pour vous, pour moi, pour qui que ce soit croyez-moi, qui ne serait pas né à Alcamo, et il recueillit bon nombre d’applaudissements et de toasts »

15 Id., Ibid. p.41 : Puis le prêtre, d’une contenance grave et onctueuse, débitza des poesies dans le plus précieux et recherché des idiomes italiques, tout en dolz et plein de sghiribizz, de pess, de pazz, de pozz, et puzz, et pizz comme dit en riant notre Maggi, et ses vers étaient gonflés de métaphores , d’images , d’idées étranges et fausses, le ton maniéré, le rythme artificiel .»

16 Id., Lo spasimo di Palermo : p. 14

17 Fuga dall’Etna (La Sicilia e Milano, la memoria e la storia) Roma, Donzelli, 1993.

18 Ibid., p. 53-54 : « Les écrivains italiens ont toujours du se rendre à l’étranger pour pouvoir écrire en prose, de Manzoni à Calvino et à Sciascia, changer leur prose avec la prose française ou bien adopter une sorte de koiné fonctionnelle, de type transversal, comme Pirandello ou Moravia. ».

19 Gramsci Antonio, Quaderni del Carcere, Torino, Einaudi, 1975, 4 vol. , plus particulièrement, dans le volume II, le cahier 8, « Note sparse e appunti per una storia degli intellettuali » , p. 922 et suivantes.

Il explique avoir adhéré au Manifesto per la difesa della lingua italiana parce qu’il estime que la langue italienne est menacée par la langue du pouvoir, langue « absolument horizontale », un pouvoir qui n’est pas seulement politique, mais aussi économique et technologique avec le développement d’une communication de masse dominée par Internet et Monsieur Gates. Seule la pratique de codes linguistiques qui plongent dans les couches profondes de la langue italienne, « le langage vertical » – dit-il- , peut sauver la langue italienne. Dans la même logique, il revendique le choix d’une forme d’écriture qui s’inscrit dans le refus de la forme romanesque, refus affirmé au cours de son itinéraire intellectuel et porté à l’extrême par son dernier ouvrage, Lo Spasimo di Palermo, tandis que l’ouvrage précédent, Il Sorriso dell’ignoto Marinaio, accueilli triomphalement par la critique, témoignant d’un langage prodigieusement inventif, mêlant étroitement langue et dialecte, tradition cultivée et tradition populaire, avait été classé comme « poème narratif ».

Voglio essere radicale per una volta, credo che nel nostro contesto non si possa più praticare questa forma narrativa che è stata di nobilissima tradizione in Europa20

Pourtant, Vincenzo Consolo écrira de nouveau au moins un roman, sa dernière oeuvre jusqu’à présent. Il y exprime quelques justifications par rapport à son impossibilité d’écrire quand son fils lui reproche son silence et lui donne en exemple « le castor ligure, l’indifférent romain, son ami l’amer sicilien », et le père écrivain répond ceci :

Hanno la forza, loro, della ragione, la chiarità, la geometria civile dei francesi. Meno, meno talento, e poi mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono21

et dans les entretiens de 1999-2001 avec Fabio Gambaro, il rapproche les deux formes, roman et poème narratif et il développe de façon encore plus nette sa position par rapport aux deux lignées d’écrivains italiens.

Ainsi, le résultat final rappelle souvent le poème narratif. A ce propos, il faut rappeler que nous n’avons jamais eu de langue unitaire de communication, les particularismes ayant toujours gagné à tous les niveaux. Par conséquent, les écrivains ont toujours dû se poser la question de la langue et s’inventer un langage pour leurs ouvrages. D’un coté, certains écrivains – de Manzoni à Moravia, de Calvino à Sciascia- ont choisi une langue rationnelle et communicative, qui exprimait l’espoir de la naissance d’une société plus civilisée. D’autres écrivains ont préféré s’exprimer dans une langue que j’appelle « du désespoir », une langue très expressionniste. De Verga jusqu’à Gadda, en passant par Pasolini, Meneghello ou d’Arrigo, les écrivains qui ont choisi cette option forment une tradition à laquelle je suis heureux d’appartenir.22

C’est la lecture de Retablo qui a imposé à l’auteure de la présente étude le sentiment d’une étonnante solution narrative symbolisée par la métaphore de l’ « alchimie », impliquant à la fois la relation entre la langue et le monde qu’elle représente, et la fusion entre langue(s) et dialecte(s), expression employée lorsque l‘auteure a interrogé sur ce mystère23.

Vincenzo Consolo qui a alors récusé l’étiquette « dialecte », indigne de cette noble langue qu’est le sicilien24. Il a évoqué, en revanche, le processus de ré-appropriation des mots qu’il avait, enfant, entendu prononcer par sa mère et dont il a découvert, à l’âge adulte, qu’ils remontaient souvent au grec, ou à l’arabe, ou à l’espagnol. Le travail sur le matériau sonore des premières années de la vie convoque la recherche étymologique, mais il suppose aussi un rapport vivant, émotionnel avec la langue maternelle, opposée à « l’hypothétique code linguistique de la langue nationale ». Le parti pris d’écriture résulte d’un choix expérimental, intuitif et conscient à la fois, déjà à l’oeuvre dès son premier roman, La ferita dell’aprile :

20 Fuga dall’Etna, « Je veux être radical au moins une fois, je crois que dans le contexte qui est le nôtre, on ne peut plus pratiquer cette forme narrative qui relève de la plus noble tradition européenne. »

21 Id., Lo spasimodi Palermo, p. 88 : E ux, ils ont la force de la raison, la clarté, la géométrie civile des français. J’ai beaucoup moins de talent, et puis je me perds dans les eaux stagnantes de l’affection, l’opacité du lexique, la vanité du son. »

22 Fabio Gambaro, L’Italie par ses écrivains, Paris, Liana Levi, 2002

23 L’auteure de cette étude a posé à Vincenzo Consolo une question relative à ces problèmes de la présente étude au cours du débat au Colloque international qui lui a été consacré, organisé par Dominique Budor & Denis Ferraris, Ethique et écriture, 25-26 ottobre 2002, Sorbonne-Nouvelle-Paris III (Actes sous presse).

Mi ponevo con esso subito, un po’ consapevolmente, un po’ intuitivamente, sul crinale della sperimentazione, mettendo in campo una scrittura fortemente segnata dall’impatto linguistico, dal recupero non solo degli stilemi e del glossario popolari e dialettali, ma anche, dato l’argomento, di un certo gergo adolescenziale. Gergo quanto mai parodistico, sarcastico, quanto mai oppositivo ad un ipotetico codice linguistico nazionale, a una lingua paterna, comunicabile25 .

L’univers narratif de Vincenzo Consolo offre des solutions originales à l’ancienne interrogation qui hante l’histoire linguistique et culturelle de l’Italie : la questione della lingua, et la problématique de la mimesis, la résonance dans la trame du texte des voix populaires et dialectales C’est en tant qu’auteur du roman historique, pour la métaphore et non pour ses choix linguistiques, qu’Alessandro Manzoni est défini comme un auteur de référence 26 :

« La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo chiesto perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile ».

Consolo évoque aussi comme référents Sciascia e Piccolo, qui représentent respectivement ses deux Siciles, la Sicile orientale et la Sicile occidentale.

Dalla mia Finisterra, potevo muovere verso il Centro del Caos, verso il Vulcano o verso lo iatto dello Stretto, verso le fate morgane e i terremoti o muovere verso l’occidente dei segni della storia profondi e affollati… E mi sembrò poi, questo movimento, questo partire ogni volta da lontano, dal profondo e approdare al presente alla superficie, l’essenza della narrativa : un ibrido, un incrocio di comunicazione ed espressione, di logico e di magico27.

Dans cet univers « hybride », entre logique et magie, les mots étrangers, les mots étranges, le « parole peregrine » contribuent au processus créatif de cette oeuvre.

  1. Le parole peregrine : le mystère des mots dans la métaphore:

La diversité des langues comme malédiction est évoquée par le spectacle que découvre le romancier à son retour à Palermo : ses livres ont été rangés par la vigoureuse et dynamique Michela, la fille des fidale Delfio et Cristina, en fonction de leur couleur (ils auraient pu l’être en fonction de leur taille !). Le babelico assemblaggio 28, insupportable pour un intellectuel qui utilise les livres en fonction de leur contenu et non en fonction de la couleur de la couverture, préfigure la tragédie finale puisque c’est le mari aussi mafieux que vulgaire de cette même Michela qui organise l’attentat contre le juge.

24 La même interrogation est formulée par le coordinateur de l’interview dans Fuga dall’Etna,. Après un assez long développement sur la mémoire historique et la mémoire personnelle, Renato Nicastò évoque le rôle du dialecte dans la mémoire personnelle et conclut par la question suivante : « Ecco, l’alchimia di tutto questo come succede, come nasce ? »

25 Vincenzo Consolo, Per una metrica della memoria, 1997.» Je me suis immédiatement situé sur la ligne de l’expérimentation, en mettant en oeuvre une écriture marquée par l’impact linguistique, par la récupération non seulement des stylèmes et des glossaires populaires et dialectaux, mais aussi, vu le thème de l’ouvrage, un certain argot d’adolescent. Un argot parodique, sarcastique, en contraste avec un hypothétique code linguistique national, et une langue paternelle, véhiculaire. »

26 Id . , Fuga dall’Etna, p. 46-47. « La leçon de Manzoni réside justement dans la métaphore. Nous nous sommes demandé pourquoi il a situé son roman au XVIIème siècle et non au XIXème. Justement pour donner une distance à l’incontournable métaphore. L’Italie de Manzoni est vraiment éternelle, indestructible. »

27 Id., Per una metrica della memoria: « De mon Finistère, je pouvais me déplacer vers le centre du Chaos, vers le Volcan et vers la fracture du Détroit, vers les fées Morgane et les tremblements de terre, ou avancer vers l’occident les signes profonds de l’histoire. Par la suite, ce mouvement, ce départ chaque fois renouvelé depuis l’éloignement, depuis la profondeur, jusqu’à la surface m’est apparu comme l’essence du récit : un hybride, un croisement dans la communication et l’expression, de la logique et de la magie. »

28 Id. Lo spasimo di Palermo, p. 102.

L’écriture de Consolo est profondément métaphorique, dans le sens où de nombreux mots, de nombreuses évocations ont une signification qui n’est pas liée au seul contexte immédiat, mais s’inscrit dans la relation anaphorique et cataphorique qu’un passage entretient avec l’ensemble du texte, parfois de façon très fugitive, de sorte que seules des relectures successives peuvent en révéler le mystère. Cet arrière-plan multiple s’inscrit dans la discrétion et le minimalisme chers à Consolo, et qui n’ont d’égal que l’extrême densité sémantique.

Dans La ferita dell’aprile, la « blessure » qui donne son titre au roman est évoquée, au détour du récit, à la fin du chapitre 10, presque à la fin de l’ouvrage qui en comporte 12 d’importance à peu près égale.

N’ammazzarono tanti in una piazza (c’erano madri e c’erano bambini) come pecore chiuse nel recinto, sprangata la porta. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò buttò buttò riversi sulle pietre una rosa maligna nel petto e nella tempia : negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto29.

Le récit pourrait être celui de bien des hécatombes passées ou des hécatombes à venir que prophétise, nouvelle Cassandre sicilienne, la vieille femme encore debout sur le lieu du massacre :

Femmine, che sono sti lamenti e queste grida con la schoiuma in bocca ? Non è la fine : sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso !30

Le véritable message est suggéré par la couleur du tissu du drapeau rouge, toujours plus rouge au fur et à mesure qu’il s’imprègne du sang des victimes :

La pezza s’inzuppò e rosso sopra rosso è un’illusione, ancore un’illusione31.

Le drapeau rouge, le « superbe drapeau rouge, rouge du sang des fusillés »32 retrouve sa signification réactualisée au moment où s’évanouissent les illusions sur la démocratie, une démocratie italienne don’t on sait aujourd’hui que son gouvernement a organisé le massacre d’une innocente, dans une mise en scène qui permet d’en imputer la responsabilità au populaire bandit Salvatore Giuliano. Cette signification ne peut être comprise que si on met en relation ce passage avec celui qui précède, les cris d’une manifestation populaire de 1er mai : « Con la bandiera rossa gridano, al Primo Maggio, ai Lavoratori evviva ! » mêlée à l’évocation statuaire d’un monument aux morts, un soldat qui s’élance pour la patrie de Piémont-Sardaigne, une liste de noms révoquant l’appel des recrues, etc.:

Vicino al fante verderame slanciato avanti, Savoja !, le balate e i nomi, presente !, scoloriti per il tempo che ci è passato sopra: le ruote grandi e i raggi neri mangiati dalla ruggine e i fusti dei cannoni, con la bandiera rossa gridano, al Primo Maggio, ai Lavoratori, evviva !33

La ruelle qui relie l’intérieur des terres à la mer, via Rotolo, dont le nom revient dans d’autres ouvrages, au bout de laquelle se trouve cette statue est elle-même précédée d’une description du paysage, voir comme un tableau de peintre à travers les yeux décillés d’un narrateur le héros luimême caruso, bastaso, devenu désormais jeune homme qui fume sa première cigarette en compagnie d’un jeune maçon, fixé dans la position du jeune désoeuvré qui « tient le mur » dans une attitude qui exprime l’ascendant qu’ont pu avoir les mafiosi sur la jeunesse34 (il ne faut pas oublier que mafioso est une appellation à l’origine positive, comme ‘ndrangheta ‘la société des hommes debout).

29 Id., La ferita dell’aprile, p. 122 : « Ils en ont tué beaucoup sur place (il y avait des mères et des enfants) comme des brebis enfermées dans l’enclos, la barrière fermée. Ils ont tourney comme des fous en quête d’un abri mais ils ont été jetés à la renverse sur les pierres, les uns après les autres, par une rose mauvaise qui les frappés à la poitrine et à la tempe : dans leurs yeux, un soleil jaune comme les genêts, un soleil vert, un soleil noir de poudre, de lave, de désert. ».

30 Id. Ibid. « Femmes, qu’est ce que ces lamentations et ces cris ? Epargnez votre souffle et votre robe en prévision des nombreux morts qui vont suivre ! »

31 Id., Ibid., « le tissu s’imbiba et rouge sur rouge c’est une illusion, encore une illusion .»

32 Chant de la Commune de Paris.

33 Id., Ibid., :: « Près du fantassin vert-de-gris qui s’élance, en avant, Savoie !, les balata, les noms, présent !, décolorés par le temps qui est passé dessus, les grandes roues et les rayons noirs rongés par la rouille ainsi quet les fûts des canons, avec le drapeau rouge, ils crient : vive le 1er mai, vive les Travailleurs ! »

Un nom étranger relie la signification immédiate que le mot prend dans le texte à d’autres significations, qui se superposent à elle dans le déroulement du texte. Nous ne donnons ici que quelques exemples :

-Il packet-boat :

L’insistance avec laquelle ce mot revient dans plusieurs ouvrages ne peut être fortuite, même s’il s’agit d’une façon sicilienne de désigner le navire. Les mots d’origine anglaise passé par le français, il packet-boat, symbolise l’éloignement de l’île, la distance qui le sépare du monde européen.

-Il marabutto :

Ce mot d’origine arabe est prononcé par le père de Gioacchino (Chino), en réponse à une question de son entourage, il dit où il va pour cacher un Polonais évadé de l’armée allemande. L’enfant ne peut s’empêcher de le ressortir quand les Allemands torturent Delfio pour le faire parler. Il occulte plus ou moins ce mot qui symbolise sa culpabilité pour n’avoir pas pu se taire, car son imprudence langagière a déterminé le destin tragique de ses parents, et peut-être celui de son propre fils, pense-t-il, car l’attitude rebelle celui-ci à l’égard de la société, à l’égard de son propre père incarne au-delà du problème oedipien, une punition pour la faute qu’il a commise enfant. Mais au-delà de cette névrose, c’est la signification même du mot que le romancier découvre à la fin du roman, puisqu’il apprend, au hasard de ses enquête sur l’histoire de la Sicile, que le mot marabutto est une adaptation du mot arabe qui signifie ermite, un religieux qui s’est luimême enfermé dans le silence.

-Il monello :

Bien que ce mot soit un mot italien, il est aussi significatif de la valeur métaphorique de la différence de langue. Ce nom est celui par lequel le film de Chaplin The Kid, est désigné en italien. Lorsque Gioacchino Martinez arrive dans son hôtel parisien, qui a été rénové sous le signe du cinéma, il voit immédiatement une affiche du film. Est-ce un hasard ? En français, le titre anglais n’est pas traduit. Or, le mot monello a une histoire significative : c’est à l’origine un mot d’argot, parola gergale, désignant celui qui doit être réprimandé35, fortement, un voyou, même, puis le mot a pris une signification moins forte, par euphémisme, celui qui n’est pas très sage et doit être grondé. Mais le rapport conflictuel entre le fils du romancier et la société, avec le père symbolisant la société, rapport difficile qui était déjà celui de Chino avec son propre père.

Les insultes en langue étrangère sont une forme de défense, que suggère un enseignant au jeune héros de La ferita dell’aprile et dans Lo spasimo di Palermo. Autre épisode significatif : Dans Lo spasimo di Palermo, pendant un bombardement, le prêtre propose aux enfants une comptine en langue inconnue, une arme contre la peur, mais aussi, peut-être symboliquement, l’arme des mots contre les armes de la guerre

« Fermi, fermi ! Tutti sotto le panche, le mani sulla testa » si mise a vociare il prete. E nella breve pausa, dopo le prime raffiche, ordinò di cantare l’aria con parole senza senso, ch’erano forse parodia, scherno d’una lingue :

Sukkerlain suttreklain

Kulì jutek ansamadain

Ma sei ni kuskei dublei

Kulì brudak mundai mundei

Suleik dindi moni dindindin

Suelik dindi moni dindindind36…

34 Id., Lo spasimo di Palermo

35 Gianfranco Folena, Semantica e Storia di « monello », in Lingua Nostra, XVII, 1956, p.

65-77, et Id., « Ancora maonello-famiglie », ibid., XVIII, p. 33-35

36 Id., Lo spasimo di Palermo : p. 14 : « « Arrêtez, arrêtez! Tous sous les bancs, les mains

sur la tête » se mit à crier le prêtre. Et dans la brève pause, a^rès les premières rafales, il

odronna de chanter l’air avec de sparoles dépourvues de sens, qui étaient peut-être une

parodie, la dérision d’une langue. – Sukkerlain suttrekalin… »

Le silence même suggère les cris, hurlements si terribles qu’ils sont muets, de toutes les victimes des catastrophes « naturelles » ou provoquées par la folie meurtrière des sociétés humaines, cris silencieux sortis de la bouche grande ouverte des victimes, dans un visage aux yeux exorbités par la peur que représentent tableaux, fresques et sculptures de l’art baroque :

Un cielo livido come nelle Crocefissioni di Antonello, piane colli monti privi d’ombre, sfumature, d’una insopportabile evidenza ; un tempo immobile, sospeso, e un silenzio attonito, rotto da ulular di cani, strider d’uccelli, nitriti di cavalli : un mondo che sembra attendere da un momento all’altro la sua fine : l’uomo, di consegnarsi ineluttibilmente all’ultima certezza. Il cui panico Michelangelo ha rappresentato nel Giudizio in un personaggio (in basso, sul lato dei dannati, un occhio reso cieco da una mano, l’altro sbarrato, con dentro lo sgomento)37.

Les cris se confondent avec les grondements terribles de la mer déchaînée et des ouragans en furie et des volcans et de la terre dans les éruptions et les secousses sismiques, sifflements des sirènes et des bombes, etc. A la fin du Spasimo di Palermo, est évoqué le tableau La montée au Calvaire, que Raphaël a peint à la demande des prêtres ulivetani, qui a ensuite été offert au roi d’Espagne de sorte qu’il est maintenant à l’Alcazar de Madrid38

La métaphorique, c’est aussi celle du cri muet de Munch, l’horreur de l’éruption du champignon atomique.

Mathée GIACOMO-MARCELLESI

,37 Id & Giuseppe Leone, Il barocco in Sicilia : l a rinascita del Val di Noto, Milano, Bompiani, 1991, p. v. : « Un ciel livide comme dans les crucifixions d’Antonello, platine collines montagnes sans ombre, sans nuances, d’une évidence insupportable ; un temps immobile, suspendu ; et un silence étouffé, interrompu par des hululements de chiens, des cris stridents d’oiseaux, des hennissements de chevaux ; un monde qui semble attendre d’un moment à l’autre sa propre fin ; l’homme qui semble attendre de pouvoir se confier inéluctablement à l’ultime certitude et dont la panique est représentée par Michelange, chez l’un des personnages de la fresque du Jugement, (en bas, du coté des damnés, un oeil obturé par une main, l’autre oeil exorbité reflétant l’effroi) ».

38 Id. La Spasimo, p.