Vincenzo Consolo (a destra) con Leonardo Sciascia nel 1966
di Tano Grasso
Vincenzo Consolo, “Cosa Loro. Mafie tra cronaca e riflessione”, Bompiani, pp. 320, euro 18.
Sono dieci anni che Vincenzo Consolo, uno dei più importanti scrittori del secondo Novecento italiano, non è più tra noi. L’editore Bompiani nel 2017 ha mandato in stampa un libro, curato con intelligenza e competenza da Nicolò Messina, che raccoglie una serie di articoli, saggi, introduzioni pubblicati su riviste e quotidiani dal 1970 al 2010, sessantaquattro pezzi ordinati cronologicamente sulle “mafie tra cronaca e riflessione”.
Uno scrittore così intimamente legato alla sua Sicilia, con tormento, con affetto, con dolore, con speranza, non poteva non confrontarsi con la questione mafiosa che, purtroppo, in larga parte ha segnato un pezzo di storia dell’isola; e questa ambivalenza trova espressione nell’uso dell’immagine omerica dell’olivo e dell’olivastro, che aveva già dato il titolo ad uno dei suoi libri, per spiegare «il duplice atroce destino della Sicilia» (p. 257).
Consolo è stato poeta delle “profondità”, romanziere che non ha avuto mai timore a scandagliare le viscere più inquiete e meno consolatorie, e poi tentare, cercare di trovare, d’offrire spiegazioni e, come nel “Sorriso dell’ignoto marinaio”, suggerire soluzioni, vie d’uscita, a volte di fuga. Ogni suo romanzo, ogni sua parola rimanda alla Sicilia, alla sua bellezza e alle sue tragedie.
Il 23 maggio del 1992 sull’autostrada a Capaci esplode il tritolo in un Paese allo sbando, senza classe dirigente e con incerte istituzioni. Ai mesi di quell’estate rimandano le ultime pagine del romanzo “Lo Spasimo di Palermo” scritto, sin dall’inizio, con parole marchiate da sangue, dolore, malinconia, distanza: esilio dalla/nella terra dell’altra annunciata strage del 19 luglio. Bisogna partire da qui per apprezzare fino in fondo il senso di questi scritti sulla mafia, bisogna aver chiaro il rapporto dello scrittore con l’isola e con la parola decisiva: esilio.
Se la sua produzione creativa è il risultato di quella «nascita nell’isola, nell’assurdo della storica stortura, prigione dell’offesa, deserto della ragione, dissolvimento, spreco di vite, d’ogni umano bene», c’è sempre dell’altro: un carico di ragione, certamente di speranza. Nelle ultime pagine dello “Spasimo” scrive: “(Un lume occorre, una chiara luce)”, un lume timidamente indicato tra due parentesi tonde. Una fievole luce per sopravvivere? O, forse, per meglio capire. E questa luce si apre su ogni pagina di “Cosa loro”.
In un testo del luglio 2007 pubblicato sull’”Unità” in occasione dell’anniversario della strage di Via d’Amelio (“Borsellino, l’uomo che sfidò Polifemo”), quando Consolo affronta un tema cruciale riferendosi a quanti hanno creduto che la «mafia fosse qualcosa di separato dal nostro contesto civile, che essa sarebbe stata prima o dopo tagliata con un colpo d’ascia dal ceppo sano della nostra società da parte di organi a questo delegati» (p. 261), si avverte quella lucida consapevolezza propria sia di Leonardo Sciascia che di Giovanni Falcone.
In “Cose di Cosa nostra” il giudice contesta l’opinione di chi pensa che la mafia sia un soggetto esterno, un nemico che da fuori minaccia i siciliani. I mafiosi sono «uomini come noi» e, conclude, «se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia». Più dolente Sciascia (“La Sicilia come metafora”): «Prendiamo ad esempio questa realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo con dolore e “dal di dentro”; il mio “essere siciliano” soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in qualsiasi siciliano, continuano a essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così lottando contro la mafia io lotto contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione».
A partire dal primo intervento della raccolta, un dattiloscritto probabilmente del 1969, Consolo individua nell’assenza di fiducia nello Stato la causa del radicamento e rafforzamento della mafia; egli conosce bene l’Italia all’indomani dell’Unità quando le repressioni e «il trattamento da cittadini di seconda classe da parte del nuovo governo» (p. 14) non fanno altro che perpetuare anziché risolvere quella causa, tenendo «viva la sfiducia verso lo Stato», dando «maggior fiato alla mafia in un drammatico circolo vizioso», rinfocolando l’ostilità della popolazione «e questo, a sua volta, dava motivo per altri provvedimenti repressivi» (p. 15).
Ritorna in un altro testo del 1994 denunciando come «dopo l’impresa di Garibaldi […] la mafia rafforza ancora di più in Sicilia il suo potere, fidando su una maggiore lontananza del governo centrale e sul malcontento, sulla sfiducia nel potere costituito per le nuove leggi che impongono […] nuovi obblighi, come quello della leva militare, e pesanti tasse come quella sul macinato» (p. 158).
La mafia non è un fenomeno accidentale o casuale, continua a ricordarci Consolo, è l’effetto di precise responsabilità che chiamano in causa le classi dirigenti dell’isola e del Paese, sia nella fase di origine, sia nei decenni più recenti. Da questo punto di vista, nella riflessione dello scrittore un’attenzione particolare è riservata alla critica del “Gattopardo”. In un articolo del 1986 Consolo disvela la mistificazione ideologica del «sentenzioso romanzo che è “Il Gattopardo”».
`Noi fummo i Gattopardi e i Leoni; quelli che ci sostituiranno…», è la sentenza del Lampedusa. Ma non è stato così: «Che i gattopardi e i leoni non sono stati del tutto sostituiti, ma che essi stessi si sono trasformati in sciacalli e iene e che forse tali sono sempre stati» (p. 64). In un altro testo del 2007, più diretto è l’obiettivo polemico: «Ma il principe di Salina ignorava o voleva ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermo a passare il tempo tra feste e balli» (p. 251).
La mafia era figlia di quel sistema economico e sociale, era l’effetto di concreti comportamenti delle classi dirigenti: «Tomasi di Lampedusa, l’autore del “Gattopardo”, ignorava questo?» Insomma: «Al Salina o al Lampedusa, grande scrittore e sapiente letterato, vogliamo dire che sciacalletti e iene erano anche loro, i Gattopardi, consapevoli complici di quei mafiosi che agivano là, nei loro feudi» (p. 296). Era già stato molto chiaro Leopoldo Franchetti nel libro dato alle stampe nel 1877. Il giovane studioso toscano, un liberale conservatore, sottolineava le gravi responsabilità della classi “abbienti” siciliane. La relazione tra mafiosi e classe dominante è «un fenomeno complesso» ma con una certezza: se la classe dominante lo volesse la mafia verrebbe immediatamente distrutta (ha i mezzi materiali e l’autorità morale). Invece la relazione è reciproca e i destini intrecciati.
In un saggio scritto dopo la strage di Capaci Consolo spiega come sia cambiato il rapporto tra mafia e politica. Se per decenni «mafia e potere politico procedevano trionfalmente in simbiosi perfetta […] l’una e l’altro si alimentavano di un vasto consenso […] insieme poi davano e ricevevano protezione e padrinaggio al e dal potere di Roma» (p. 110), tutto cambia con quello che lo scrittore chiama «il Grande affare»: «Il devastante traffico internazionale della droga, con i suoi traffici succedanei, ha mutato il rapporto di forza tra mafia e potere politico, Cosa nostra ha finito per dominare politica, invadere industria, commercio, finanza».
Ma è cambiata anche la percezione della mafia e delle sue vittime, adesso uomini delle istituzioni, giudici, prefetti, ufficiali, politici, imprenditori. Sino al secondo dopoguerra la mafia uccideva capilega e sindacalisti che si opponevano ai gabellotti, e queste morti «provocavano dolore e rimpianto forse soltanto nel gruppo politico, nella classe da cui provenivano» (p. 126). Cambia la mafia, cambiano le vittime, cambia l’antimafia. Umberto Santino (“Storia del movimento antimafia”) sottolinea il passaggio di fase: a cambiare sono soprattutto le motivazioni dell’opposizione: se prima la lotta alla mafia si intrecciava e in larga parte si sovrapponeva al conflitto sociale e politico (antimafia sociale), dagli anni ottanta in poi il movente è l’indignazione e la rivendicazione dei valori civili (il diritto, la democrazia, la non violenza, ecc.) che non hanno una specifica connotazione di classe. Scrive Consolo: «Il dolore e il rimpianto per le vittime non ritrovavano più risonanza in un gruppo politico, in una classe sociale, ma in tutta la società civile».
Il nuovo anno da poco entrato è anche quello del trentesimo anniversario di Mani pulite. Tangentopoli, scrive efficacemente Consolo in un articolo del 1994, è la «perfetta realizzazione di un’utopia negativa» (p. 145) in cui il malaffare è divenuto elemento fisiologico, «quasi legale, sistematicamente accettato, praticato e tacitamente regolarizzato dai partiti al governo e qualche volta pure dall’opposizione»; e le leggi, vane e violate, assomigliavano sempre più «alle “gride” nella Lombardia del Seicento, la cui applicazione era sempre lasciata “all’arbitrio di Sua Eccellenza”».
L’implacabile descrizione del degrado morale del mondo politico e imprenditoriale non impedisce a Consolo di esprimere una dura, e all’epoca in controtendenza, critica alla trasmissione televisiva del processo Enimont, «un orrendo, fascinoso spettacolo». Non c’è nelle sue parole solo la rivendicazione della forza del diritto, il rifiuto della gogna mediatica, il rispetto della dignità degli imputati, c’è la denuncia di quella ipocrisia nazionale che tiene incollati al video milioni di telespettatori che non hanno mancato di dare il proprio voto ai politici processati: «Elettori-telespettatori che nello spettacolo-gogna si autoassolvono» (p. 146).
Il caso ha voluto che la scorsa domenica in allegato all’Espresso e a Repubblica venisse venduto il primo volume di una raccolta di scritti di Umberto Eco; in una delle sue “Bustine di Minerva”, commentando un altro processo, il famoso semiologo mette in guardia sul “«dovere di difendere la dignità del colpevole, che paga già in altra moneta», non esitando a parlare di «attentato alla Costituzione»: «Non vediamo la Giustizia in azione, ma la Televisione che interpreta la Giustizia».
Forza del diritto, dunque, e irriducibile denuncia di ogni ipocrisia. Nell’ottobre del 1990 su “L’Ora” in risposta ad un articolo di giornale dopo le dimissioni dal Premio Racalmare – Leonardo Sciascia, Consolo spiega il suo un inevitabile gesto di protesta: «Finché la mafia uccide in Sicilia […] non possiamo permetterci di “celebrare cerimonie letterarie sovvenzionate da pubblico denaro”». Ci sono momenti in cui bisogna saper dire “no”, non si può far finta che tutto prima o poi passi. Nella polemica, poi, mette in guardia su un altro rischio: le “cerimonie” finanziate da denaro pubblico forniscono «soltanto alibi a gravi responsabilità altrui, [danno] una mano a imbellettare ingiuriosamente i cadaveri» (p. 80). «Ci sono momenti» – questa la dolorosa consapevolezza dello scrittore – «in cui bisogna rifiutarsi di suonare e cantare in pubbliche feste o cerimonie […] perché non s’ingenerino equivoci o fraintendimenti […] per non allietare i responsabili dei mali».
Infine, qualche parola a titolo personale sul rapporto di Consolo con l’esperienza del movimento antiracket a cui sono dedicati alcuni degli articoli di “Cosa loro”. Vincenzo nella rivolta dei commercianti di Capo d’Orlando individuava una ragione di speranza che covava proprio in quei Nebrodi in cui era cresciuto e a cui ritornava ogni estate e ad ogni occasione. A partire dal famoso articolo all’indomani dell’omicidio di Libero Grassi “Morti in licenza” e, poi, dopo la sciagurata decisione del governo Berlusconi nei confronti di chi scrive e, ancora, in un saggio del 2005, Enzo è sempre stato un appassionato e affettuoso compagno di viaggio che ha saputo apprezzare quella strategia contro la solitudine e l’isolamento che è stata alla base dell’ACIO di Capo d’Orlando e continua a essere la ragione di fondo delle associazioni nate ispirandosi a quel modello. E proprio guardando a questo centro di commercianti affacciato sul Tirreno si può a ragione dire che la mafia è Cosa “loro”.
La lingua, espressionistica e fisica. Lo sguardo, tagliente e ironico. Soprattutto, la vita della sua Isola. A dieci anni dalla morte, resta colui che più intensamente ne ha descritto mistero, fascino e violenza10 GENNAIO 2022
Credo che Vincenzo Consolo richieda oggi un’attenzione ben maggiore di quella che viene accordata ad altri di lui molto meno rilevanti: tra gli scrittori siciliani contemporanei Consolo è quello che più intensamente fa percepire e quasi toccare il corpo vivo della sua terra, il suo ambiente e la sua storia, la sua bellezza e la sua violenza, il suo fascino e il suo colpevole degrado.
Di Ada Bellanova, laureata in lettere classiche e insegnante di liceo, conoscevo la prima tesi di dottorato (sulla presenza dei classici greci e latini nell’opera di Borges) e avevo letto con interesse i racconti L’invasione degli omini in frac (e altre piccole nostalgie) (Siena, Pascal, 2010), Le mal du pays (vincitore del Concorso Scrivere Altrove – Associazione MaiTardi Nuto Revelli) e il romanzo Papamusc’ (Arcidosso, Effigi, 2016); mi trovo ora a sfogliarne la ponderosa monografia Un eccezionale baedeker: la rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (rielaborazione della seconda tesi di dottorato discussa presso l’Université di Lausanne), accolta nella collana «Punti di vista. Testi e studi di letteratura italiana contemporanea» di Mimesis (2021), prova in cui la vocazione narrativa si sposa felicemente con l’attitudine allo studio assiduo e ponderato.
Narrativo ne è certamente l’incipit («Quando, alcuni anni fa, sono andata nella Sicilia occidentale per la prima volta, Retablo è stato il mio eccezionale baedeker»); narrativo è senz’altro l’avvio delle Conclusioni («Chiusi i libri, riposti gli articoli, resta un nastro di immagini, ‘fotografie’ accostate e sovrapposte: boschi, strade, aranceti, giardini, profili di palme e castelli, spiagge e isole, chiese e dimore di santi, rovine e musei, città che non esistono più e altre che restano eterne, altre ancora “invisibili” o chiuse l’una nell’altra in mirabile convivenza»); narrativi sono certi slanci esegetici, come la rêverie sulla pianta secentesca del Passafiume collocata di fronte all’Ignoto di Antonello da Messina, «quasi che lo sguardo penetrante del ritratto sia impegnato a scrutare e sorvegliare costantemente il microcosmo in cui è stato collocato»; ma rigorosa, oculatissima e ben documentata è l’indagine, suggerita dalla ragguardevole presenza, nell’opera di Consolo, di «indicazioni toponomastiche, direzionali, localizzative», dalla «segnalazione ricorrente di aree territoriali, contrade, vie, piazze, edifici», dall’«insistenza e l’accuratezza nel nominare i luoghi»: fenomeni ricondotti al «piacere precocemente sperimentato nella scoperta della stessa Sicilia, quando da ragazzino, al seguito del padre, imparava la novità e la varietà del paesaggio, pur segnato dalle macerie della guerra, al di là dei ristretti confini della natia Sant’Agata di Militello».
Sulla scorta di testi come Maps of the imagination: the writer as cartographer, di Peter Turchi, e con una preventiva discussione delle prospettive teoriche fiorite dallo spatial turn (geocritica, geopoetica, geotematica, ecocritica) e delle proposte della narratologia cognitivista, l’autrice cerca di definire il «principio territoriale» della scrittura di Consolo, di individuarne le cartografie (le mappe che orientano le sue esplorazioni e le mappe, reali o immaginarie, che lui stesso costruisce), distinguendovi in via preliminare due caratteri precipui: la natura ‘palinsestica’ (o, secondo il suggestivo battesimo di Daragh O’Connell, ‘palincestuosa’), ovvero il loro «legame particolarmente intenso e stretto con i testi anteriori»; i segni di «suggestioni sensoriali, risultato di una conoscenza ravvicinata e personale», di Storia (una «Storia che si può sperimentare, che si vive, una Storia dal basso, lontana dunque da quella dei grandi eventi») e di attività umane che vi sono impressi.
Quanto all’uso dei «testi anteriori», la ricerca stabilisce che il contributo dei classici greci e latini diventa apprezzabile «a partire dall’esperienza di traduzione dell’Ifigenia fra i Tauri euripidea del 1982», per costituire in seguito «un riferimento ricorrente, quasi un marchio presentato come garanzia di solennità e autorevolezza», che lo spazio ‘classico’ di Retablo si incista nella letteratura odeporica settecentesca (Von Riesedel, Brydone, Goethe), che L’olivo e l’olivastro si contagia (in specie nel cammino delle Latomie e nell’entusiasmo per la Venere Landolina) del Maupassant di La vie errante, che Di qua dal faro adotta lo sguardo tutto umano di Carlo Levi («un antiGoethe in carne e ossa»), valutando infine l’apporto degli scrittori siciliani plasmati dall’Isola che a loro volta plasmano in tratti memorabili: Pirandello, Sciascia e Tomasi di Lampedusa per l’area agrigentina; Cattafi e D’Arrigo per lo Stretto; Verga per il territorio dominato dall’Etna; Piccolo per l’arcadia dei Nebrodi; Vittorini per il simbolismo del nóstos.
Insieme a queste orditure intertestuali, Ada Bellanova prende in esame l’impiego originale di «geografie letterarie già divenute simbolo in forza di una lunga tradizione»: la Sicilia-Itaca (terra «irriconoscibile, luogo di mostruosità, di efferatezze, reggia in cui hanno vinto i Proci […] diventata Troia, perché non esiste più, se non nel ricordo», e dall’Ulisse-Enea che vi approda «in cerca di una nuova patria nella consapevolezza che la propria è ormai consumata dalle fiamme»; il «personale criterio di associazioni» che sovrintende al modello odissiaco di L’olivo e l’olivastro (esemplato dal particolare ‘trattamento’ delle Eolie: «La memoria delle regolari visite di un tempo a Lipari rende le isole un luogo intimo e l’elemento affettivo e personale prevale anche quando compare l’evocazione della vicenda odissiaca: il dio dei venti è l’oggetto della narrazione di Consolo ai nipoti, mentre la tempesta sull’equipaggio di Ulisse dopo l’incauta apertura dell’otre è sostituita dal tremendo mare che accompagna la fuga precipitosa dall’isola a causa della lettera di leva»); la declinazione dell’incontro con la madre a Sant’Agata «come ritorno a Itaca e insieme Nekya». Una particolare attenzione è poi riservata allo scenario di Ifigenia fra i Tauri (per la sorprendente associazione di Milano con la Tauride, come terra «gretta, inospitale, luogo di perdita della memoria, campo fertile per l’attecchimento di ideologie razziste», e per il suo contraltare di una Sicilia-Argo, oggetto del desiderio che può a suo luogo trasfigurare in violenta e prevaricatrice Tauride), alle suggestioni manzoniane di Il sorriso dell’ignoto marinaio (nel capitolo V, dove risuona, ma in un ambiente del tutto diverso, lo «scampanìo che prelude al mutamento d’animo dell’Innominato», e nel capitolo VII, per l’allusione alla peste e per lo «scendea per uno di quei vicoli», che «richiama alla mente l’immagine della madre di Cecilia che coltiva la compostezza e il decoro nella pietosa consegna dell’amato corpo della propria bambina al monatto»), all’eco, in Filosofiana, del Pitrè di Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, dell’Agamennone di Eschilo e delle Rane di Aristofane.
L’inventario considera poi gli apporti dell’universo figurativo (le ecfrasi dichiarate del Ritratto di ignoto, del Seppellimento di Santa Lucia, dello Spasimo di Sicilia, di una foto di Robert Capa, di reperti archeologici e beni architettonici, le citazioni pittoriche di Lo sposalizio della Vergine e di Los desastres de la guerra, le allusioni all’Ave Maria a trasbordo di Segantini e all’Angelus di Millet), delle recensioni artistiche dello stesso autore (sulle mostre di Michele Spadaro e di Franco Mulas), delle «trame sensoriali» che disegnano «paesaggi sonori, olfattivi, persino paesaggi gustativi» (come le offerte culinarie che accompagnano il viaggio di Clerici in Retablo, la fiera di San Calogero e la Pasqua in La ferita dell’aprile), delle fantasie scaturite da un «confronto personale con i luoghi», e del loro «uso simbolico» (così nel racconto giovanile Un sacco di magnolie «il profumo conturbante dei fiori e poi il nero delle corolle marcite rinvia alla morte del protagonista», in L’olivo e l’olivastro «il gelsomino lasciato marcire delle raccoglitrici in sciopero […] allude ai morti dell’industria di Milazzo», in Un filo d’erba al margine del feudo «il nero dominante sulle case e sulle persone del borgo di Tusa […] si lega alla morte drammatica di Carmine Battaglia»), dei tasselli di storia che, attraverso una «lingua non compromessa con il potere», danno voce «agli esclusi e alle loro utopie» e mettono in mora l’impresentabile presente, dei quadri che attestano il sofferto lavoro dell’uomo (la vita del latifondo in Ratumeni, la vendemmia in Nottetempo, casa per casa, la famiglia contadina in Il fosso, il museo contadino di Antonino Uccello in La casa di Icaro, gli agrumeti di Arancio, sogno e nostalgia, i cavatori di pomice di Il sorriso dell’ignoto marinaio, i pescatori in La ferita dell’aprile e La pesca del tonno).
Ma il cuore del libro è la sua seconda parte, Un percorso tra luoghi-simbolo, che verifica, per così dire, sul campo l’ampia e motivata premessa costituita dalla prima, Strumenti per percorrere i luoghi, nonché dall’Introduzione, perlustrando partitamente le sedi privilegiate della scrittura di Consolo: Sant’Agata; Cefalù; Palermo; Siracusa; le rovine dell’Isola; Milano.
Il paese natale – «limen», discrimine «tra un oriente e un occidente» che calamita una «grande ricchezza di notazioni affettive e di riferimenti a percezioni sensoriali» e diviene il prototipo di «un’immagine della Sicilia metafisica, arcaica e magica, e nel contempo viva e palpitante nei problemi sociali, economici e politici» – è chiamato, nel Sorriso, a una cruciale missione diegetica (per la scelta di mappare il suo castello Gallego con le scritte dei prigionieri di Alcara: «Lo spazio reale si traduce in scenario e simbolo: la scala diventa chiocciola, la chiocciola diventa storia, anzi la Storia, che si avvolge su se stessa e si confonde e confonde»), laddove in L’olivo e l’olivastro vi si incidono «i dettagli del ritorno doloroso […] mentre la madre si fa evanescente come Euridice e la casa viene distrutta, spazzata dalle ruspe, sostituita da un palazzo di banche e uffici che nasconde la vista della spiaggia e del mare».
Il microcosmo cefaludese, scena del Sorriso e di Nottetempo, è per Consolo già Occidente, una Palermo in miniatura (dove si può più facilmente leggere il meticciato arabo-normanno sotteso all’identità siciliana), epperò infinitamente espansibile come una «faulkneriana yoknapatawpha». In questo «labirinto di vicoli e strade» che – sebbene non sia «precisamente collocato nel territorio, tra la Rocca e la spiaggia della Calura, che ha il suo centro nel Duomo», come invece, in un volo poetico, lo vede l’autrice: la Calura si trova in verità dietro la Rocca, nel fianco opposto a quello che dà sull’abitato, e il Duomo sta semmai tra la Rocca e il porticciolo – è fedelmente restituito nei due romanzi (con l’ausilio di mappe a loro volta oggetto di ariose descrizioni), i percorsi dei personaggi sono delineati, con una ricca e persuasiva analisi, come itinerari sonori e luminosi. Quello di Sasà, nel Sorriso, è dapprima scandito dal «latrato dei cani», dal «gemito dei mulini attivi», da «galline ruspanti», dal «ronzìo di vespe e zanzare», dalle grida dei pescivendoli, dalle imprecazioni dei carcerati, mentre nella piazza del Duomo predomina «il senso della vista» e più innanzi le due percezioni sfociano nel «si videro oscillare le campane», dove «è proprio il propagarsi del suono che suggerisce uno sguardo più ampio sul paese, altrimenti impossibile».
Similmente, in Nottetempo, il suono dello zoccolo del cavallo di don Peppino «mentre si propaga, ci fa vedere» e, nell’incipit, «Il procedere dolorante del luponario, accompagnato da un ululato profondo, mostra i luoghi a gara con la luce. Le reazioni al suo passaggio […] costruiscono un itinerario sonoro. È proprio questa la prima immagine di Cefalù del romanzo, quella disegnata dal percorso disperato dell’uomo, sotto l’altro, luminoso, della luna». Altre epifanie del ‘sentiero luminoso’ saranno il ferino crepuscolo dal balcone di Don Nené (colto come controcanto ironico all’incipit del Piacere), il sole che illumina «la vista dei pascoli di Janu, quindi la Rocca» e «scandisce poi con le sue gradazioni le tappe dell’incontro e dell’amore con la thelemita», per culminare nel fulgido trionfo del Duomo che sarà ancora celebrato nella visitazione satanico-mistica di Crowley e nel racconto La corona e le armi.
«Se Cefalù è la porta del mondo, Palermo è il mondo», e la sua rappresentazione sarà quindi più complessa, attuata «integrando una varietà di sguardi letterari e testimonianze della stratificazione urbanistica e accogliendo innumerevoli stimoli sensoriali, alternativamente seducenti e inquietanti». Il palinsesto letterario (che annovera prelievi da Boccaccio, Ibn Giubayr, Amari, Tomasi di Lampedusa, Lucentini, Falcone, Goethe, Brydone, Pitrè, La Lumìa, Lucio Piccolo) si intreccia con le sontuose quanto ambigue «sollecitazioni sensoriali» cui è impossibile sottrarsi, tanto che «Solo l’immedesimazione permette di fare esperienza dell’universo multiforme di Palermo», e con il «multistrato» delle sue architetture, distribuito fra le sopravvivenze arabo-normanne e i più recenti misfatti urbanistici: un coacervo che trova il suo emblema nella pasta con le sarde, perfetta versione culinaria della feconda contaminazione di culture differenti che costituisce «l’identità più vera» della città che nello Spasimo di Palermo giunge a configurarsi come un’Itaca, se pure stravolta (dato che «non sa offrire consolazione all’esule nel momento del ritorno, ma non ha saputo offrirne neppure un tempo»), o a esibire finte topografie, come quella del palazzo di Martinez in cui Consolo trasferisce «la vicenda della propria casa natìa di Sant’Agata».
La Siracusa di Consolo (scoperta precocemente nel 1950, in una gita scolastica) è luogo di luce che prende un corpo di donna in cui confluiscono la statua di Venere Anadiomene, divinità del mito (Aretusa, Atena, Afrodite, Artemide, Kore), Santa Lucia, e ogni altra femminea sembianza, «a partire da quelle che per i loro capelli e il portamento apparvero diverse, nuove, nel primo incontro con la città ricordato in Siracusa il mio primo talismano» (caratteri restituiti con una insolita «ricchezza di riferimenti intertestuali», un «collage di citazioni e richiami» in cui entrano in gioco gli itinerari di Caravaggio, Maupassant, Von Platen, del ceroplasta Zummo, della Dichiarazione della pianta delle antiche Siracuse di Vincenzo Mirabella, i versi di Pindaro, Virgilio, Ibn Hamdis, Ungaretti), ma è insieme, soprattutto nelle ultime prove, icona del tramonto di una civiltà, divenuta (per il suo odierno degrado, per i mostri delle raffinerie, per il suo «squallore sonoro») «Argo del sogno e della nostalgia di Ifigenia, un luogo che non esiste più perché stravolto dall’orrore dall’omicidio».
Con il pellegrinaggio nelle rovine siciliane Consolo continua a coltivare un gusto appreso già nell’adolescenza, una consuetudine che vale anche a «evadere dal presente», in una «prospettiva idealizzante» anch’essa affidata a una «fitta trama intertestuale in cui spiccano pause ecfrastiche, memorie di autori antichi, narrazioni di miti, evasioni arcadiche». Con questa singolare contaminazione di fatti sensibili e fatti libreschi, Segesta, Selinunte e Mozia acquisiscono «tutta l’intensità di luoghi fisici, di cui si può fare esperienza, in una ricchezza di suggestioni non solo mentali – l’imponente passato a cui rinviano – ma anche visive, olfattive, uditive». Se Segesta induce anzitutto «la contemplazione estatica del paesaggio e l’evocazione del passato, delle infinite epoche trascorse, fino al rapimento nel passato», la Selinunte di Retablo è, nelle metope che la finzione restituisce al luogo d’origine, pietra che parla ed è parlata: nella descrizione del riquadro di Zeus e Era la studiosa ipotizza un attendibile richiamo «a uno specifico passo dell’Iliade, ovvero XIV 346-351» e nella bellissima fanciulla del témenos di Demetra Malophoros intravede l’allusione «ad uno dei Desastres de la guerra di Goya, ovvero Murió la verdad». Mozia è invece, sempre in Retablo, mistero: il mistero dei naufragi, nel passo suscitato dai relitti intravisti nei fondali al momento dello sbarco di Clerici (al cui riguardo si congettura «la conoscenza di Naufragio con spettatore di Hans Blumemberg»); il mistero dei reperti, oggetto di un «procedimento ecfrastico originale che restituisce la natura delle antiche opere d’arte ipotizzandone la collocazione settecentesca, quindi lo stato d’abbandono e l’accumulo casuale»; il mistero dell’efebo greco in terra fenicia, che il racconto destina ancora a un fondale marino, includendo, secondo l’autrice, una «reminiscenza di Morte per acqua di Eliot, IV sezione di The Waste Land», con lo scambio fra il ragazzo ellenico e Phlebas il Fenicio.
La rassegna dei ‘luoghi-simbolo’ si chiude con Milano, contrada della speranza divenuta inospitale e difficilmente narrabile, spazio ostile che respinge il migrante cresciuto nel suo mito: la relazione di Consolo con la città «non arriva mai ad essere equilibrata, pacifica». Con l’eccezione dell’oasi multiculturale e versicolore di Porta Venezia, «uno spazio di riconciliazione», la metropoli lombarda appare scialba e sorda e, nello Spasimo (dove l’amaro congedo di Chino profila «un Addio ai monti capovolto»), «recinto dei moribondi di manzoniana memoria», mentre in Retablo la corrotta città del Settecento filigrana «il degrado della Milano craxiana», deriva morale che provoca in ultimo le requisitorie contro i successi elettorali di Mascelloni/Berlusconi.
La terza parte del libro, Ecologie consoliane, articolata nelle sezioni Per un’ecologia del paesaggio e dell’identità e La prova della ricostruzione. Per un’ecologia del dopo disastro, ritaglia le zone che in Consolo investono il «delicato rapporto tra uomo e ambiente in Sicilia e nel Mediterraneo».
I casi dei poli industriali di Milazzo, Gela e Siracusa, gli incendi e la speculazione edilizia ne rappresentano, nella prima sezione, il versante negativo. A formare l’immagine di Milazzo concorrono un’antica familiarità con il luogo (l’adolescente Consolo era solito sostarvi «di ritorno dalle Eolie dove viveva una delle sorelle»), le notizie dello storico locale Giuseppe Piaggia (che ne fanno una terra d’idillio, promossa in La mia Sicilia «giardino di Alcinoo» e «sicula terra dei Feaci») e, con un «effetto straniante», il racconto odissiaco degli armenti del Sole (tradizionalmente posto nella piana di Mylai), quando l’empietà degli industriali e dei politici che hanno voluto la raffineria a spese del paesaggio e degli esseri umani viene assembrata a quella dei compagni di Ulisse, e l’esplosione è il momento in cui essi «banchettano con le carni dei buoi sacri, autoassolvendosi nella promessa del futuro sacrificio». Un analogo straniamento raggiunge il polo industriale siracusano, accostato a sorpresa, in L’olivo e l’olivastro, «al culmine di una descrizione che, per quanto cupa, ha tratti realistici», al paese dei Lestrigoni (che un passo tucidideo vuole in Sicilia), e dove si rileva che il modello omerico lotta con quello virgiliano («l’area si presenta come un’Itaca impossibile, non approdo del ritorno ma regno dei Lestrigoni, ed è allo stesso tempo la città di Troia devastata dalla guerra»), mentre il petrolchimico di Gela attira, per evocare l’inferno, anche morale, della città, la parola di Eschilo (quando condanna il delitto di Clitennestra), proponendo inoltre l’«associazione del petrolio alla trovatura nelle tombe greche, nelle cisterne saracene».
Passando alle devastazioni prodotte dagli incendi e dalla speculazione edilizia, l’accurato scandaglio dell’intera produzione di Consolo, soprattutto giornalistica, permette di concludere che esse sono per lui «il risultato di quella profonda e repentina trasformazione che consiste nella fine della civiltà contadina e nell’avvento forzato del miracolo industriale». Viceversa, il lato positivo del ‘pensiero ambientale’ di Consolo è comprovato dalla sua autentica militanza a favore di «una biodiversità naturale e umana ancora possibile», manifestata dalle pagine sui Nebrodi (che prevedono anche «un impegno attivissimo a favore dell’istituzione del parco») e sull’area dei monti Iblei («tratteggiata come un’alternativa di rinascita», con la necropoli di Pantalica a rappresentarvi «la resurrezione, la vita, pur essendo un luogo di morte, poiché in essa riposa la memoria identitaria», e presidiata dalle straordinarie persone di Antonino Uccello, del mielaio Blancato, del «vecchio Paolo Carpinteri, che intaglia il legno, costruisce zufoli e narra storie di erbe e animali fantastici», di Gina e Pino Di Silvestro, di Sebastiano Burgaretta), e annunziata dal pastore Nino Alaimo di Retablo, che raffigura «l’equilibrio, la serenità, un modo più umano e sostenibile di vivere».
La seconda sezione di Ecologie consoliane si concentra sui luoghi colpiti da disastri naturali e sulle «implicazioni antropologiche, identitarie, relazionali, storiche» del ricostruire. Le eruzioni dell’Etna, guardate attraverso il Leopardi della Ginestra e la filosofia di Empedocle, chiamano in causa il mito: il selvaggio Polifemo è identificato con il vulcano, e Ulisse con l’«uomo tecnologico», capace, con le sue arti, di fronteggiarne la devastante potenza. I brani sul terremoto di Noto si muovono invece, mediante l’«associazione Kore-ape-Noto», tra le note gaudiose che inneggiano alla mirabile ricostruzione dopo il terremoto del 1693 e il rammarico per il successivo degrado che ha prodotto la «dimenticata marcia scenografia teatrale» di L’olivo e l’olivastro, facendone l’«Argo amara, in guerra» di una «Ifigenia smarrita»: uno sfacelo che diviene «l’emblema di una rovina che non riguarda solo gli Iblei, ma la Sicilia, l’Italia, il mondo» e che si fa ancor più evidente nel caso di Gibellina e della sua discussa ricostruzione. In L’olivo e l’olivastro il sito «è innalzato a simbolo: è Ilio nel momento della partenza dopo il disastro, non sa essere Itaca nel ritorno, perché troppo diversa si presenta all’esule» (in Metamorfosi di una melodia, sarà «emblema della negazione dell’identità e della memoria», come la Gerusalemme distrutta dai Romani), mentre nei testi del 2008, chiamati a ricordare il quarantesimo anniversario del sisma, «prevale l’invito alla rinascita della Valle del Belice».
La quarta parte del libro, Leggere e scrivere il Mediterraneo, si sofferma sui modi in cui l’interesse di Consolo per la Sicilia e il sud si riverbera sull’intero spazio del mare nostrum. Se la Sicilia si identifica nel «flusso incessante di energie umane e culturali», tutta l’area mediterranea è «crocevia di popoli differenti»; ed entrambe sono insieme «scenario di devastazione» e «archivio di eredità preziose». Il loro Ulisse «non è l’eroe del ritorno, è piuttosto il migrante», condannato a un esilio perenne. Nel suo viaggio, «insieme all’ansia di scoperta e conoscenza, è evidenziato il senso di colpa e il rimorso per l’abuso della tecnologia che distrugge patrimoni e vite umane». Il Mediterraneo è per Consolo un «mondo unico». L’arancio diffuso nelle sue coste è «sogno di un Eden perduto», simbolo di «uno spazio sano in cui le piante odorose possono ancora fare mostra di sé accanto alle rovine del passato». In Palestina le colline di roccia e deserto gli ricordano i prediletti Iblei, e il lamento delle donne per i guerriglieri morti la tragedia greca. La Casbah di Algeri gli fa pensare al centro storico di Palermo. Di Utica lo colpiscono le rovine e il basilico, ma «tutto il Mediterraneo in qualche modo è Utica».
Come la Sicilia, tutto il Mediterraneo è oggi «una Tauride senza speranza». In Le pietre di Pantalica Beirut è come Palermo. Le macerie di Sarajevo 1997 cancellano la civiltà. La Palestina 2002 è un inferno appena mitigato dalla rugosa matrona di Ramallah che offre nepitella. Ma, come il suo Ulisse è un migrante, il Mediterraneo di Consolo è soprattutto «spazio di migrazioni». Il suo mare «non è di nessuno, non può essere veramente limite, e la terra non reca un marchio di possesso ma molti strati di identità che il tempo e i popoli plasmano, partendo, arrivando». La presenza degli Arabi in Sicilia ha lasciato segni profondi sia nell’ambito agricolo che in quello artistico-culturale. L’antica emigrazione megarese nel versante orientale dell’Isola è piegata, forzando l’anodino referto di Tucidide, a modello di uguaglianza, progresso e raziocinio. Le migrazioni italiane verso il Maghreb e l’emigrazione maghrebina in Italia tradiscono la contiguità dei due mondi. Di qui l’impegno civile di Consolo: la coraggiosa denuncia di episodi di xenofobia e persecuzioni, di leggi disumane, del cinismo politico, della barbarie dei cosiddetti centri di accoglienza, dell’ipocrisia di chi vuole per Lampedusa, prima che un’ospitalità degna di questo nome, il sepolcro imbiancato di un Museo, la beffa di un Monumento.
Terminato il viaggio cartaceo, riposto il voluminoso volume, la ricognizione di Ada Bellanova nell’ideale baedeker di Consolo ci appare a sua volta come una preziosa ‘guida alla guida’, un’appassionata quanto precisa cartografia che registra le concrezioni che vi sono depositate, i fili sotterranei che ne muovono le piste. Fra i suoi esiti, giustamente rivendicati nelle Conclusioni, piace qui rimarcare la esaustiva mappatura dei numerosi rimandi a Omero, Virgilio, Euripide, Tucidide e agli storici greci, svolta con acribia e sulla base di solide competenze: apprendiamo così che le geografie omeriche hanno in Consolo una funzione connotativa, interrogano la natura dei luoghi attraversati; che l’Eneide è adottata come «racconto di migrazione», dove «i simboli dell’epos latino integrano e correggono quelli dell’Odissea omerica nella rappresentazione di uno spazio compromesso con l’esperienza dell’esilio»; che l’Argo di Ifigenia fra i Tauri «concorre a definire i tratti della patria lontana, desiderata», quando la Tauride «è la terra dell’esilio, ovvero dell’estraneità, della perdita culturale, non solo luogo geograficamente definito, ma anche tempo di condanna e di sconfitta».
Ugualmente significative mi sembrano le considerazioni sul ruolo dei termini dialettali (adoperati da Consolo per restituire «un’affettività dello sguardo e testimoniare il legame del ricordo», ma anche per rendere «tratti non altrimenti riferibili con altrettanta precisione»). Ma le notazioni che più mi hanno sorpreso sono quelle che toccano la passione civile di Consolo (rivelata soprattutto dal sistematico spoglio della sua vasta produzione giornalistica), milizia che trasforma il suo baedeker in uno strumento insolito, obliquo (portato com’è all’indignazione e alla protesta), e dove l’invettiva contro la profanazione dei luoghi e della loro identità richiama un plurilinguismo che è anch’esso un ‘gesto politico’: il ricorso al dialetto, a termini greci, bizantini, arabi, normanni, sancisce il rifiuto dell’«im-mondo», il monocorde presente che annulla le differenze, nega le nostre singole storie.
Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).
La ristampa
di un volume illustrato dalle foto di Giuseppe Leone e arricchito ora da nuove
immagini
“La vita o si vive o si scrive”.
Parafrasando il Pirandello de “Il fu Mattia Pascal”, anche la Sicilia
la si vive o si ammira nei libri. Come quello di rara bellezza pubblicato
dall’editore Mimesis, “La Sicilia passeggiata”, con un testo di
Vincenzo Consolo e fotografie di Giuseppe Leone (pag. 176, 16 euro). Il volume,
curato al professore Gianni Turchetta, è inserito nella collana “Sguardi e
visioni” diretta da Francesca Adamo.
Si tratta di una riproposizione arricchita di una
prima edizione presentata in occasione della 42a edizione del Premio Italia,
tenuto a Palermo nel settembre del 1990. Il titolo muove da un’opera secentesca
di Ambrogio Maia. Sono pagine connaturate da un ritmo gioiosamente mozartiano.
Un continuo rimando tra la scrittura ipnotica e onirica di Vincenzo Consolo e
lo stupore affatturante delle immagini di Giuseppe Leone.
La filosofia che sottende questa pubblicazione sta
tutta nelle parole dello scrittore siciliano: “Io non so che voglia sia
questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di
percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in
città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone,
conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un
posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e
toccare prima che uno dei due sparisca”.
Il libro svela una Sicilia sognante, forse illusoria,
popolata da monumenti, chiese, piazze, paesaggi, un continuo racconto di
prodigi, sortilegi, incantamenti. “Da molti anni speravo di ripubblicare
“La Sicilia passeggiata” – sottolinea Gianni Turchetta, docente di
Letteratura italiana all’università Statale di Milano e curatore dell’opera
completa di Vincenzo Consolo per i Meridiani della Mondadori – Mi piace ricordare
subito come anche Caterina, la compagna di una vita di Vincenzo Consolo, lo
desiderasse molto. Benché rimasto appartato, e conosciuto quasi solo dagli
specialisti, questo testo, esercita sul lettore una seduzione intensa, fatta di
leggerezza e profondità, dinamismo e erudizione. Queste qualità sono rilanciate
e riecheggiate a ogni pagina dalla forza vibrante e dalla fulminea capacità di
condensazione visiva e simbolica delle foto di Giuseppe Leone”.
Grazie anche al contributo di Claudio Masetta Milone,
è stato possibile recuperare le postille al testo di Consolo che hanno
consentito non solo di ampliarlo materialmente, ma hanno anche contribuito a
spostare l’intonazione verso l’alto. Questa nuova edizione si avvale di una
appendice fotografica integrativa, oltre cento immagini firmate dal celebre
fotografo ragusano.
“Questo libro, grazie al testo di Consolo è tra i
più belli che io abbia mai pubblicato – commenta Giuseppe Leone – Ricordo
ancora, con intensa emozione, le lunghe conversazioni con Vincenzo nella sua
casa di via Volta a Milano. Abbiamo scelto con cura le immagini che compongono
questo racconto fotografico. Ancora oggi, sfogliando queste pagine, assumono
un’intensità di rara bellezza, soprattutto in questo triste momento di crisi
mortale dell’editoria d’arte Sono felice di aver firmato questo volume, lo
interpreto come un omaggio dovuto in ricordo di un grande scrittore, un artista
raro, un intellettuale contro”.
Il testo di Consolo è una narrazione che fonde felicemente poeticità e saggismo. L’autore de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, dal suo esilio milanese, la sua aspra Tauride, evoca una Sicilia sognante: “Sospinti dal vento, immaginiamo d’approdare sulla costa siciliana tra Thapsos e Megara Hyblaea, dove gli uomini dell’età del bronzo costruirono villaggi, dove giunsero i coloni di Micene, Megara Nisea, Calcide, Corinto; oppure d’inoltrarci nel golfetto, più in su di punta Izzo”
Questo è l’attacco di Consolo, marcato a ogni passo
dai verbi di moto, in una continua sosta e ripartenza: “Siamo giunti:
all’Ànapo che gorgoglia sonoro tra le gole di Pantàlica. Perché è da qui che
vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della
Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti
d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per
conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio
d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione”. Una
scrittura che rapisce, questa cifra dello scrittore di Sant’Agata di Militello.
Un’elencazione ipnotica, dalle sonorità antiche e mediorientali, un’architettura
linguistica perfetta, tonda e fratta allo stesso tempo, come certe partiture
musicali.
Un innesto continuo da saggio storico, trattato di botanica, testo di archeologia. Quello proposto è un viaggio in verticale attraverso le stratificazioni storiche della Grande Isola. Come era già accaduto nel romanzo “Retablo” che vede protagonista Fabrizio Clerici, un pittore lombardo giunto in una Sicilia di un vago Settecento. Consolo e Leone, in questo libro, come Clerici e Isidoro, intraprendono un viaggio da oriente a occidente, dal Mito alla storia. Le pagine più intense sono quelle dedicate a Palermo, l’approdo finale: “Rossa, Palermo, come immaginiamo fosse Tiro o Sidone, fosse Cartagine, com’era la porpora dei Fenici; di terra rossa e grassa, con polle d’acqua, da cui alto e snello, pieghevole ai venti, s’erge il palmeto fresco d’ombra, eco e nostalgia di oasi, verde moschea, tappeto di ristoro e di preghiera, immagine dell’eterno giardino del Corano”.
Viene ripubblicato oggi un libro a torto ritenuto
“minore” del grande autore siciliano, narrazione di un viaggio nello
spazio e nel tempo, nella leggenda, nella storia e nella cultura dell’isola,
accompagnato dalle foto di Giuseppe Leone
di Maurizio Di Fazio
Nel 1990, per il Premio Italia che si tenne a Palermo, la Rai affidò al grande scrittore siciliano Vincenzo Consolo, vincitore due anni dopo del Premio Strega, un testo che raccontasse la sua terra natia. Da par suo naturalmente. Ne venne fuori un’iniziativa editoriale di culto, divenuta presto irreperibile: “La Sicilia passeggiata”, accompagnata dalle foto dense e metonimiche di Giuseppe Leone. Non nuovo, quest’ultimo, alle collaborazioni insular-letterarie d’autore, da Sciascia a Bufalino. Oggi questo libro torna in libreria, per iniziativa di Mimesis Edizioni e col supplemento di nuove immagini. Distillato da un «titolo più svariante, più illusorio, infine più sognante”, è la narrazione di un viaggio nello spazio e nel tempo, nella leggenda, nella storia e nella cultura dell’isola «da oriente a occidente». Dal primo approdo dei coloni greci a Taormina alla Agrigento della Valle dei Templi e di Pirandello; dalle miniere di Zolfo alle tonnare. «Vogliamo partire per un nostro viaggio – scrive Consolo -, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione». Splendori e macerie, ferite e polvere divina. «Isola dell’esistenza pura e contrastante. Isola dell’infanzia, dei miti e delle favole. Isola della storia. Di storia dei primordi, degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri, di decadenze, di crolli, di barbarie – aggiunge -. Crogiuolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue. Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph, geroglifico consunto, alfabeto monco». Con la speranza che «questa terra, che è la mia terra, possa, in una prossima desiderata primavera, risorgere dalle tenebre dell’attuale inverno, dal fondo dell’inferno». Questa ristampa speciale è stata curata da Gianni Turchetta, titolare della cattedra di letteratura italiana contemporanea all’Università degli studi di Milano e tra i massimi esperti di Vincenzo Consolo, di cui ha cesellato l’opera completa per i Meridiani Mondadori.
Caro Turchetta, come è nata l’idea di ristampare questo libro 31 anni dopo?
«Da molti anni pensavo di proporre una nuova edizione di La Sicilia passeggiata. Avevamo cominciato a parlarne con Vincenzo Consolo stesso, nel 2011, quando fu colpito dal grave male di cui sarebbe morto nel gennaio 2012. Era un libro molto amato, in particolare, anche da Caterina (a sua volta mancata nel settembre 2020), sua moglie e compagna di una vita, che giustamente ne rivendicava la bellezza e l’importanza e con la quale spesso ci eravamo riproposti di ripubblicarlo, dopo che Vincenzo era mancato. Bisognava solo trovare un editore, perché non era stato possibile inserirlo nel Meridiano. L’occasione è venuta quando, pubblicando, sempre con Mimesis, il volume di Ada Bellanova Un eccezionale Baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo, sono entrato in contatto con Giuseppe Leone, autore delle magnifiche foto che s’intrecciano con il testo di Consolo. Leone ci ha regalato la foto di copertina del libro appena citato. D’intesa con Francesca Adamo, caporedattore di Mimesis, gli abbiamo chiesto anche la disponibilità a fare una nuova edizione, arricchita di nuove foto, di La Sicilia passeggiata: Leone ha risposto con grande entusiasmo e disponibilità. Così, nei primi mesi del 2021, abbiamo avviato la realizzazione editoriale del volume e… eccoci qui».
Che peso specifico sprigiona La Sicilia passeggiata nella vicenda intellettuale e nella produzione narrativa di Vincenzo Consolo?
«La Sicilia passeggiata è solo a prima vista un testo minore
della produzione di Consolo. In realtà, riesce a ritagliarsi uno spazio molto
peculiare, come racconto di viaggio che allude a uno spostamento reale, ma
contemporaneamente viaggia avanti e indietro attraverso i millenni, dandoci una
serie di flash sul passato della Sicilia e sulle straordinarie
tracce che ha lasciato nel territorio siciliano. Consolo ha sempre narrato
della Sicilia. Ma nel corso dei tardi anni Ottanta e ancor più negli anni
Novanta il racconto della Sicilia è andato collegandosi in modo sempre più
esplicito all’esperienza personale dell’autore, a quel suo continuo ritornare
nel paese delle sue origini e della sua giovinezza. Ricordiamoci come suona
l’attacco del racconto Comiso: “Io non so che voglia sia questa,
ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare […] Una voglia, una
smania che non mi lascia star fermo in un posto”».
Qual è la sua forza, la sua seduzione maggiore? Forse (come annota lei nella prefazione) sta nell’«equilibrio tra narrazione, poeticità e saggismo»?
«La Sicilia passeggiata è il frutto di quella smania di cui
dicevo prima. Ma è un frutto che non lascia pesare più di tanto i sentimenti
negativi, l’angoscia davanti a una realtà che, oltre a essere la terra
d’origine di Consolo, mostra sempre più drammaticamente evidenti i segni del
degrado, della devastazione, dei lutti prodotti da una politica rapace e dalla
mafia. Se già in Le pietre di Pantalica (1988) molti racconti
parlano di quella devastazione e di quella violenza, La Sicilia
passeggiata riesce a raggiungere un miracoloso, diverso equilibrio,
trovando una misura che tiene conto della morte, ma continuamente la riporta
alla possibilità della vita e della rinascita. Si sente che è un viaggio vero,
o meglio che mette insieme tanti viaggi veri: questo viaggio ha un suo
procedere lineare, francamente narrativo, che diventa l’asse portante di
innumerevoli escursioni nella storia e nel mito, ognuna delle quali trova una
sua misura narrativa, dando energia e dinamismo alle molte informazioni che
Consolo immette in continuazione».
Il testo si situa tra il romanzo Retablo del 1987 e L’olivo e l’olivastro del 1994. E anche queste due opere erano incardinate, seppure in modo diverso, in un viaggio più meno trasfigurato in Sicilia. Quali sono le differenze più rimarchevoli?
«Come ho scritto anche nell’introduzione, Retablo è un
romanzo-romanzo, ambientato in un Settecento volutamente remoto e irreale,
mezzo storico e mezzo fantastico, in opposizione alla deludente realtà storica.
La polemica verso il presente si fa ben sentire, ma prevale la messa in scena
romanzesca, contesa fra momenti drammatici, con punte molto crude, e momenti in
cui prevalgono invece la dimensione dell’incontro fra gli umani e la stessa
valorizzazione delle bellezze della Sicilia. Invece L’olivo e
l’olivastro è un libro segnato proprio dalla volontà di criticare
aspramente un presente che tradisce la storia così ricca e preziosa dell’isola.
Prevalgono così nettamente da un lato uno stile tutto teso verso l’alto, da un
altro, e soprattutto, la deprecatio temporis, con la denuncia dei
“processi di imbarbarimento, di perdita, di orrori”, che stanno distruggendo la
Sicilia. Con L’olivo e l’olivastro Consolo inclina
definitivamente verso il cupo pessimismo degli ultimi anni».
Che tipo di viaggiatore era Vincenzo Consolo? In questo libro, il viaggio è
un po’ qualcosa di extra-geografico: un oscillare nel tempo e nella leggenda,
nei tòpoi profondamente stratificati e contaminati della
sua terra natia.
«Era un viaggiatore incredibilmente attento al tessuto non solo storico dei
luoghi visitati, ma anche alle caratteristiche della natura: aveva per esempio
una conoscenza incredibilmente approfondita delle piante locali, anche nelle
varianti più peculiari di certe piccole zone. Conosceva poi in modo molto
profondo le diverse realtà artigianali, di cui era curiosissimo. Proprio queste
conoscenze, unite allo studio della storia (era, fra le altre cose, un
autentico cultore di libri di storia locale), lo rendono in grado di fare in
continuazione quelle escursioni, come dice giustamente lei, extra-geografiche,
da cui germogliano le continue oscillazioni verso il passato remoto e il mito».
Secondo lei La Sicilia passeggiata riesce anche nell’intento di promuovere l’arte, la cultura e il paesaggio siciliani, oltre che a ipostatizzarne, magistralmente, l’irriducibile complessità?
«Penso proprio di sì. Bisognerebbe trovare uno sponsor pubblico per
diffondere questo libro come strumento di promozione della Sicilia. Non è
facile trovarne di migliori…».
«Trovarsi nel centro meraviglioso, dove convergono tanti raggi della storia universale, non è cosa da nulla» scrive Goethe poco prima di partire per l’isola nel suo Viaggio in Italia. È per questo che gran parte dell’opera di Consolo ruota intorno alla sua Sicilia, letta soprattutto in prospettiva storica?
«In qualche modo sì: da un lato Consolo rappresenta la Sicilia lavorando come un vero storico, che mette insieme i documenti con un’attenzione ligia al rigore della ricostruzione; dall’altro, la Sicilia che egli racconta è sempre anche “altro”, nel senso che si fa metafora del mondo, una metafora dotata di una profonda forza di generalizzazione. La sua Sicilia riesce ad essere immagine del Sud del mondo, di ciò che succede attraverso i processi di modernizzazione che distruggono il mondo contadino e che vediamo all’opera in Italia ma anche in tante altre nazioni. Inoltre, per Consolo la Sicilia è anche una densa metafora dell’ambivalenza della vita. È infatti una terra bellissima, dove c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per essere felici: straordinari monumenti, una natura rigogliosa e, perché no?, una cucina straordinaria (Consolo ne parla spesso…). In Sicilia insomma c’è tutto, potrebbe essere il migliore dei mondi possibili; ma per altri versi è un mondo tragicamente violento e corrotto, pieno di orrori, addirittura proverbiale, nel mondo intero, per la sua mafia, tanto che tutte le criminalità organizzate del mondo vengono chiamate “mafie”, in analogia con quella siciliana. Nel bene e nel male, la Sicilia è un mondo intero: ma portato agli estremi…».
Lei è uno dei massimi esperti internazionali di Vincenzo Consolo. Perché ne consiglia la lettura a chi non lo ha ancora scoperto, magari per motivi anagrafici? Cosa resta, e resterà, del suo pensiero e della sua scrittura?
«Consolo costruisce una originalissima miscela di sperimentalismo e di eticità. Vi sono tanti scrittori sperimentali e tanti scrittori etici: ma è rarissimo trovare una così stretta congiunzione tra queste due dimensioni. Inoltre, affida alla parola letteraria un compito molto impegnativo di verità; ma allo stesso tempo continua a invitarci a diffidare di ogni parola. La sua letteratura spinge verso verità forti, per non dire assolute, ma pure a ogni passo ci impone la coscienza critica dei limiti di ogni parola: è una sfida impossibile, che sa di essere tale, ma solo a questo prezzo la letteratura può raggiungere la sua speciale verità».
Vincenzo Consolo, “La Sicilia passeggiata” Fotografie di Giuseppe Leone Mimesis Edizioni, Pagine 170
LUNARIA LUNEDÌ 5 LUGLIO ORE 21.15 PIAZZA SAN MATTEO GENOVA di Vincenzo Consolo con Pietro Montandon tecnico luci e fonica Luca Nasciuti costumi Maria Angela Cerruti scene Giorgio Panni Giacomo Rigalza regia Daniela Ardini
Lunaria Teatro Genova Uno dei testi più ricchi di suggestione della drammaturgia contemporanea e insieme un capolavoro della letteratura del Novecento. Questo è Lunaria, favola scritta da Vincenzo Consolo, vincitrice nel 1985 del Premio Pirandello, realizzata in prima nazionale da Daniela Ardini e Giorgio Panni nel 1986 e successivamente realizzata in molte versioni in Italia e all’estero. La storia. In una Palermo di fine Settecento, una mattina il Viceré si sveglia madido e tremante: ha sognato che la Luna è caduta dal cielo e, una volta raggiunto il terreno, si è spenta, lasciando nel cielo un buco nero. La giornata del Viceré prosegue nella sala delle udienze dove arriva Messer Lunato, uno strambo viaggiatore in mongolfiera. A conclusione dell’udienza i ministri srotolano una mappa sulla quale sono indicati i possedimenti vicereali sul quale il Viceré fa scorrere il suo scettro che inspiegabilmente si impunta su una estrema Contrada senza nome. A questo punto la scena si apre sulla Contrada senza nome, dove alcuni villani guardano sorpresi la Luna che sta per sorgere e che appare insolitamente grande e colorata di rosso scarlatto. Dopo un po’ la Luna ritorna ad essere bianca e luminosa, ma comincia a creparsi e falde di luna cominciano a piovere a terra. Un Caporale ubriaco intima ai villani di raccogliere i cocci di Luna e di metterli in una giara, quindi ordina ad uno di loro, Mondo, di andare dal Viceré per riferire l’accaduto e chiedere istruzioni sul da farsi. La scena torna quindi a Palazzo Reale, dove è riunita l’Accademia dei Platoni Redivivi per disputare circa la malattia, lo sfaldamento e la conseguente caduta sub specie pluviae della Luna. Tra loro arriva Mondo che racconta l’accaduto, portando con se una falda di Luna come prova. Posto il coccio in uno scrigno, Mondo viene congedato e ciascuno degli accademici esprime la propria opinione sull’accaduto. Finita la disputa, nell’Accademia deserta dalle ante di un armadio esce il Teatro delle Bizzarrie: geni, fate, folletti, astri, pianeti, allegorie; quindi i personaggi fantastici spariscono a mano a mano, lasciando solo la Luna. Nell’epilogo si torna nuovamente nella Contrada senza nome, dove uomini e donne vestiti di nero seppelliscono i resti della Luna nella fontana e, di li a poco, assistono alla ricomparsa in cielo della Luna che, pero, tra i due corni della falce mostra una macchia nera. Giunge allora il Caporale il quale, deluso di ritrovare la Luna al proprio posto, inveisce contro i villani; viene pero interrotto dal sopraggiungere del Viceré, il quale sale una scala a pioli e incastra nella Luna il pezzo mancante, decretando che da allora in poi la Contrada senza nome si chiamerà “Lunaria”. La lingua e lo stile. Dal punto di vista linguistico Lunaria accosta stili diversi: dal narrativo al dialogico, dal lirico-poetico al linguaggio scientifico o pseudo scientifico degli usato dagli Accademici. Inoltre Lunaria, pur nella sua brevità, si configura come un crogiolo di lingue e dialetti. Sono facilmente riconoscibili l’uso dell’italiano nei suoi diversi registri: da quello accademico-scientifico, a quello visionario, mimetico, letterario, lirico, popolare; l’uso del siciliano, del dialetto gallo-italico, dello spagnolo di Dona Sol e degli inquisitori, del latino nonché di latinismi vari. Il Viceré e ricorre saltuariamente a tutti questi idiomi, compreso il dialetto gallo- romanzo, ossia il sanfratellano, tanto che a Mondo risponde parlando nella sua stessa lingua. Interi brani di poesia e versi “nascosti” compaiono in Lunaria. Lo stile si avvicina alla poesia come mai prima era avvenuto: il testo pullula di anafore, allitterazioni, rime interne. Si assiste cosi a una sorta di tendenza mimetica per cui al tema dell’intima necessita per il mondo della poesia (simboleggiata dalla Luna) corrisponde uno stile che si fa poesia. Il linguaggio si presenta talvolta oracolare, la forma espressiva risulta nervosa, essenziale: la parola si fa incantatrice e trascina il lettore nella “poesia” della vita. La critica letteraria. Cosi Cesare Segre: “Uno dei lavori più mirabili di Consolo, Lunaria (1985). In esso c’è un abbandono pieno all’invenzione. Invenzione tematica e invenzione formale. Il libro non è certo un romanzo, ma appartiene piuttosto a un “genere che non esiste”, a un conato di teatralità divertita fra entremes alla spagnola e teatrino delle marionette. Si sa che molta dell’elaborazione di Consolo è “letteratura sulla letteratura”. Ebbene, in Lunaria la falsariga è costituita da un racconto di Lucio Piccolo, L’esequie della luna(1967), con cui Consolo si pone felicemente in gara, non dimenticando naturalmente Leopardi. Voglio evocare un aneddoto sintomatico. Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procuro la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore”. La regia. Lunaria è sempre una favola, la favola della luna, che vuole far sognare il pubblico affascinato da sempre dall’astro poetico. Per Consolo la sua caduta “rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo”, poesia che è invece illusione necessaria contro la precarietà della storia e della vita (Scende la luna; e si scolora il mondo, aveva scritto Leopardi ne Il tramonto della Luna).La regia di questo allestimento punta a riportare Lunaria ad alcune delle sue matrici originarie: il cunto e l’opera dei pupi. La tradizione infatti in Consolo si mescola arditamente all’elaborazione poetica e all’artificio letterario. Un solo attore, Pietro Montandon, da voce e gesto a tutti i personaggi, partendo dall’essere in primo luogo il narratore-cuntista dell’opera. Un baule da teatro, un leggio e un praticabile palcoscenico su cui si “interpretano” i vari personaggi e la storia, citano insieme narrazione e teatro. Consolo stesso asseriva che “le didascalie, pur conservando in qualche modo la loro funzione di indicazione mimetica e ambientale, vogliono assumere anche dignità di testo, sono insomma didascalie che ambiscono ad essere recitate da un eventuale personaggio (il Narratore)”. Montandon prende per mano il suo pubblico e lo guida con ironia, ma anche con mano ferma e mente fredda nei meandri non sempre facili dell’opera di Consolo, facendolo assistere ad un gioco letterario, ma anche teatrale, che diverte con l’astrusità dei vari linguaggi, il paradosso di alcune situazioni (l’Accademia dei Platoni Redivivi che cercano di dare “spiegazione” alla caduta della luna), l’ironia di alcuni personaggi (Messer Lunato, Cerusici, Dona Sol, e altri), da emozioni con il linguaggio poetico del Viceré e la versificazione dei Villani e delle Villanelle, ultimi baluardi di un mondo dove rimane ancora la poesia. La scenografia disegna in modo astratto la corte del Viceré di Sicilia e la contrada senza nome. Il gioco musicale è arricchito da effetti sonori sulle tante voci di Montandon. L’attore PIETRO MONTANDON per lunghi anni interprete nella compagnia Mummenshanz, con Lunaria Teatro straordinario interprete di Maruzza Musumeci di Andrea Camilleri e de Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. www.lunariateatro.it info@lunariateatro.it
Un archivio monumentale. Per raccontare la fine della civiltà agricola, gli scempi edilizi, le feste patronali. E quella celebre foto che ritrae Bufalino, Consolo e Sciascia (foto di Giuseppe Leone) di Concetto Prestifilippo
29 GIUGNO 2021
«Caro Andreose, mi permetta di segnalarle un fotografo con bottega a Ragusa che sembra scivolato da una pagina di Brancati». Giuseppe Leone è il nome del fotografo citato. La bizzarra lettera di patronage reca la firma di Leonardo Sciascia. Destinatario della missiva, Mario Andreose, direttore editoriale della Bompiani. Milano, era il 1986. Seguì una serie di elegantissimi libri fotografici di grande successo. Dopo trentacinque anni, Andreose ha inviato la stessa eccentrica fideiussione a Elisabetta Sgarbi. Questa volta l’invito trova realizzazione nella mostra fotografica “Metafore”, appena inaugurata a Bergamo presso la galleria Ceribelli, evento inserito nel palinsesto delle manifestazioni di “Milanesiana 2021”. «Non andrò mai più in Sicilia», scrive nella sua introduzione al catalogo della mostra Elisabetta Sgarbi. Un proposito doloroso legato alla scomparsa dei suoi amici Claudio Perroni e Franco Battiato. Mentre si arrovellava tra questi pensieri, è giunta la proposta della retrospettiva. «La mia adesione è stata istantanea, la mostra fotografica di Giuseppe Leone è stato un rimbalzo nel passato», sottolinea lei con trasporto: «A lui mi legano i primi ricordi da giovane editor, quando Mario Andreose, direttore dell’allora gruppo editoriale Fabbri Bompiani, mi portava in Sicilia, per sedurre i due massimi scrittori siciliani: Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino».
Giuseppe Leone, 84 anni, custodisce nel suo archivio più di 500 mila scatti, sessanta i libri fotografici con testi firmati dai grandi autori della letteratura del Novecento. Trovarlo è semplicissimo. Chiedi informazioni nel centro storico di Ragusa e tutti rispondono con un’esclamazione: «Ah, Peppino», e indicano il suo studio-galleria che troneggia sulla salita di corso Vittorio Veneto a pochi metri della cattedrale di San Giovanni Battista, la chiesa dove per quasi sessanta anni fu maestro d’organo il padre. Voleva fare il pittore ma si ritrovò a fare il ragazzo di bottega nello studio del fotografo Antoci. Giusto il tempo di apprendere l’arte della foto di studio e di comprare una prima macchina fotografica a soffietto, una Voigtlander Bessa 6×9. La stessa macchina che gli consentì, appena sedicenne, di immortalare uno dei suoi più celebri scatti: un treno che attraversa ansimante il ponte della vallata San Leonardo e Ragusa Ibla sullo sfondo.
A dispetto della sua età, il dopo Covid per il fotografo siciliano è un tripudio di iniziative. Oltre l’esposizione bergamasca, a Ragusa è stata inaugurata una mostra dedicata agli scrittori Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia. In Campania, a luglio, si inaugura una mostra dedicata alle meraviglie della Costiera amalfitana. In autunno è prevista l’uscita del libro “La Sicilia passeggiata” con un testo di Vincenzo Consolo, curato dal critico letterario Gianni Turchetta. Altri due libri in uscita per il prossimo Natale.
Leone è un bracconiere di epifanie. Nel corso di quasi settanta anni di attività ha percorso in lunga e largo la Sicilia. Non c’è villaggio dell’entroterra o paesino della costa che non abbia fotografato, prima che uno dei due sparisse, definitivamente, per dirla con le parole del suo grande amico, lo scrittore Vincenzo Consolo. Scattando, senza sosta, ha messo in salvo, condotto a riva i relitti di un naufragio culturale. Immagini che testimoniano una trasformazione sociale epocale, la fine della civiltà contadina. Alberga ormai solo in questo mezzo milione di fotogrammi la Sicilia della grande emigrazione. Tra il 1960 e il 1970, 700 mila siciliani lasciarono l’isola. Duecentomila nella sola Germania. Il treno del Sud, che di solare aveva solo il nome, era una tradotta con tanfo di creolina. Scaricava nelle gelide stazioni padane eserciti di braccianti trasformati in operai utili al nascente triangolo industriale del nord. Seguendo il monito inascoltato di Pier Paolo Pasolini, Leone ha continuato a fermare questi attimi. Mentre l’Italia si omologava inesorabilmente, ha registrato l’abbandono delle campagne, lo spopolamento dei centri storici, lo stravolgimento del paesaggio, la distruzione del patrimonio archeologico, la sistematica spoliazione delle chiese, la speculazione edilizia, il deturpamento delle coste, l’imbarbarimento dei costumi. Un casellario fotografico che vale un intero museo antropologico. Nei suoi classificatori albergano le sequenze delle feste patronali, quelle delle confraternite dolenti e degli incappucciati spagnoleggianti. Il mare vagheggiato immortalato guadagnando promontori sospesi. Svelato il fasto d’antan varcando la soglia di palazzi nobiliari. Mostrato le ritualità dei contadini scapicollando per colline ineffabili. Rianimato l’atmosfera sospesa delle botteghe artigianali. Catturato scorci sconosciuti agguattato nei conventi e nelle chiese. I suoi scatti sono stati pubblicati sulle copertine delle riviste più prestigiose. Ha ritratto i grandi intellettuali e gli artisti più affermati. Fotografie che continuano a disvelare la Sicilia bramata dai viaggiatori del Grand Tour. Vengono a intervistarlo le troupe delle Bbc, giungono collezionisti da tutto il mondo, grandi couturier come Dolce & Gabbana utilizzano le sue foto per le loro campagne pubblicitarie mondiali, ma la Sicilia non ha mai trovato il tempo di dedicargli un’antologica.
L a sua carriera muove dall’incontro di due straordinari artisti, Leonardo Sciascia ed Enzo Sellerio. Fu una strana coincidenza. Una di quelle stranezze misteriose che Sciascia amava tanto. Il loro primo incontro ebbe come scenario la sede palermitana della casa editrice Sellerio. Leone aveva chiuso l’impaginazione del suo primo libro “La pietra vissuta”. Enzo Sellerio, maestro di tutti i maestri della fotografia siciliana, gli chiese di seguirlo, voleva presentargli una persona. Il fotografo di Ragusa si trovò al cospetto di Sciascia, seduto su un divano mentre fumava l’eterna sigaretta. A colpirlo fu l’immediata domanda del maestro di Regalpetra che gli chiese se conoscesse la prefettura di Ragusa. Leone, intimorito, rispose ingenuamente di sì. Sciascia rincalzò, divertito, spiegando che il riferimento era alle tempere realizzate da Duilio Cambellotti. Pitture che adornavano il palazzo della prefettura. Lo scrittore aveva già in mente un lavoro dedicato a una pagina rimossa della storia italiana. Paradossalmente quella sua prima domanda, dopo qualche anno, si trasformò nel loro ultimo libro: “Invenzioni di una prefettura”, edito da Bompiani. Il libro fu pubblicato proprio dal direttore editoriale Mario Andreose, dopo la bizzarra lettera di presentazione sciasciana. A Ragusa, Sciascia riuscì a visitare i saloni della prefettura. Le pareti erano state foderate, per anni, da teloni scuri che coprivano le pitture di Cambellotti. Fu dunque un autentico disvelamento. Realizzarono un libro autenticamente sciasciano. Contraddistinto dalla sua cifra stilistica: la spasmodica ricerca della verità. Anche la verità scomoda, come quella del regime fascista.
Dunque misteriosamente, la prima cosa che Sciascia aveva chiesto a Leone, fu l’ultimo libro della loro lunga collaborazione. Dopo il primo incontro palermitano, i due entrarono subito in sintonia. Sciascia si recò a Ragusa, più volte. Batterono la Sicilia in lungo e largo per mostre, convegni, feste di piazza. Ma in tanti anni di amicizia, il fotografo non osò mai dare del tu all’autore del “Giorno della civetta”. Sciascia è stato una persona determinante, per la carriera di Leone. Le sue parole, le sue indicazioni, gli hanno aperto orizzonti inesplorati, conferendo metodo al suo lavoro di fotografo. Il loro primo libro fu “La Contea di Modica”. In quell’occasione, ricorda Leone, ebbe modo di conoscere il grande valore dell’uomo e dello scrittore. Quando gli chiese, intimidito, come procedere, Sciascia gli rispose che dovevamo agire in piena autonomia. Al fotografo lasciava l’autonomia di sviluppare il suo racconto per immagini, Sciascia avrebbe tratteggiato la sua narrazione con le parole. Quando Sciascia arrivava a Ragusa, non mancava l’appuntamento a Scicli, nello studio del pittore Piero Guccione che lo scrittore stimava e apprezzava per la sua maestria e per il suo riserbo, una taciturna discrezione che sembrava accomunarli. La conversazione con Leone è un continuo affastellarsi di aneddoti legati al carosello di ritratti che affollano le pareti del suo studio. Osserva le immagini che tratteggiano i volti di Enzo Sellerio, Danilo Dolci, Ignazio Buttitta, Franco Battiato, Piero Guccione, Elvira Sellerio e mille altri artisti. Ma una spicca su tutte.
Una fotografia che ormai diventata una foto simbolo, quella che ritrae i tre scrittori Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e Leonardo Sciascia. Un frammento in bianco e nero dell’intensa intimità che si registrava in contrada Noce, la tenuta estiva di Leonardo Sciascia. Lo scatto è del 1982 e segna non solo la fine del Novecento letterario, ma anche il tramonto della cultura eccentrica. Quella incarnata da tre intellettuali che operarono lontano dai centri del potere della cultura ufficiale. Scrittori di provincia ma non provinciali. Artisti di levatura europea, nati in tre minuscoli paesi siciliani: Racalmuto, Sant’Agata di Militello e Comiso. Ad organizzare il rendez-vous a Racalmuto fu Aldo Scimè, intellettuale e giornalista della Rai. Una circostanza memorabile, per il tenore della conversazione e per gli argomenti trattati, permeato da un clima di meravigliosa complicità. La risata immortalata nella sequenza fotografica smonta anche un altro abusato assunto, quello che vedeva i tre grandi autori siciliani tratteggiati come tristi e inguaribili pessimisti. A scatenare l’incontenibile e fragorosa risata fu il riferimento ad altri due grandi autori isolani: Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Lucio Piccolo. Sciascia raccontò del loro arrivo a Milano, invitati dall’organizzatore del premio San Pellegrino, Eugenio Montale. Il poeta aveva convocato i due cugini siciliani che accompagnati da un valletto, si presentarono infagottati in pesanti pastrani, bizzarri come Totò e Peppino nella celebre sequenza cinematografica. Mentre Sciascia raccontava l’episodio e si appalesò la scena dei due cugini a Milano curiosamente intabarrati, scoppiò la fragorosa risata dei tre scrittori, eternizzata dal bianco e nero della sequenza fotografica.
A conclusione della lunga conversazione, Giuseppe Leone racconta un episodio accaduto alla fine degli anni Ottanta, l’arrivo in Sicilia proprio del direttore editoriale della Bompiani Mario Andreose, personaggio dal quale muove questa conversazione. Uomo elegante, colto e raffinato, si ritrovò smarrito al cospetto delle complessità della Sicilia. Leone e Andreose partono alla volta di Racalmuto. Ad attenderli lo scrittore e la moglie Maria. Nel caldo di un’estate siciliana infuocata, non vengono risparmiati all’inappuntabile intellettuale veneto, ragù ribollenti e succulenti manicaretti. Con lo stesso smarrimento che attanagliava il buon Chevalley tra le pagine de “Il Gattopardo”, Andreose rivolgendosi di soppiatto al vicino Leone, chiese furtivamente se il numero delle portate fosse destinato ad aumentare. Ricevuto, per tutta risposta, che si era solo all’inizio, allentò con discrezione il nodo della cravatta, estraendo un fazzoletto dal taschino della giacca, asciugando con altrettanta discrezione la fronte dalle minuscole gocce di sudore che imperlavano la sua fronte.
In copertina: Leonardo Sciascia con Vincenzo Consolo a Racalmuto, contrada La Noce, 1984 – Foto di Giuseppe Leone (su licenza dell’autore)
Di Rosalba Galvagno
Con una lettera d’accompagnamento datata Sant’Agata Militello 6 dicembre 1963, Vincenzo Consolo inviava a
Leonardo Sciascia il suo primo romanzoLa ferita dell’aprile. Viene così inaugurata una corrispondenza che si chiuderà il 21 aprile 1988 con
una lunga lettera, sempre di Consolo, inviata questa volta all’amico Sciascia
da Milano. Con la sua prima missiva lo scrittore esordiente desidera sottoporre
alla lettura del «Conterraneo», il suo romanzo fresco di stampa: “Egregio signor Sciascia, mi permetto inviarle il mio libro La
ferita dell’aprile. Ho chiesto il Suo indirizzo alla redazione de L’Ora di
Palermo per compiere questo gesto che è dettato da due motivi: riconoscenza per
la parte che hanno avuto i Suoi libri nella mia formazione e desiderio d’essere
letto dal Conterraneo. Spero che questo primo contatto possa dare inizio a
futuri colloqui. La ringrazio intanto per l’attenzione che vorrà prestarmi e Le
porgo molti cordiali saluti.”
Sciascia reagisce a questa sollecitazione con tempestività, il 12 dicembre
1963, rispondendo con parole di stima nei confronti del
romanzo. Il grande scrittore di Racalmuto fa sapere al suo giovane
ammiratore di aver letto il testo con molta attenzione, in più chiede alcuni
«ragguagli», riguardanti specialmente la lingua utilizzata, con l’intenzione di
scriverne presto una recensione.
È così che, in breve tempo, si instaura un’autentica
e reciproca curiosità tra i due autori siciliani. Il più anziano,
nello stesso tempo in cui invita il più giovane a presentarsi ai premi
letterari di cui egli è giurato, non disdegna di apprezzarne il giudizio sulle
proprie opere, come ad esempio sul recente Morte dell’inquisitore,
un “libretto ora uscito (che è propriamente un libretto, ma mi è
costato molto lavoro)” (Caltanissetta, 18 marzo 1964). Consolo
si mostra sempre attento e sensibile ai suggerimenti dello scrittore
agrigentino e ricambia l’interesse capitale che quest’ultimo nutriva per il tema dell’Inquisizione e particolarmente per la
vicenda storica dell’Inquisizione in Sicilia. Lo stesso che gli fece scoprire e
notevolmente apprezzare un personaggio come il racalmutese Diego La Matina,
una “gigantesca figura” sulla quale Sciascia tornerà a
più riprese, specialmente dopo aver letto e riletto il romanzo di Luigi Natoli,
come scriverà in un bel saggio del 1967.
Sciascia, quindi, già all’inizio di questa frequentazione epistolare,
propone a Consolo di presentarsi al premio Soverato con La ferita dell’aprile, appena pubblicato nella collana
mondadoriana “Il Tornasole” diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Ma un
curioso destino escluderà il giovane scrittore dalla vittoria sia di questo che
di altri premi letterari cui l’amico scrittore, da giurato, lo invitava a
partecipare. Caduta l’iniziale barriera formale ben presto ̶ già a
partire dalle missive risalenti al 1964, i due corrispondenti abbandonano la
terza persona per la seconda ̶ , subentra in queste lettere una
confidenza diretta e spontanea, che non censura i problemi di salute o quelli
legati alla famiglia e soprattutto al proprio lavoro. Insomma, la
corrispondenza, in un primo momento prevalentemente letteraria, si fa anche
biografia del quotidiano, come quando ad esempio Sciascia accenna ripetutamente
all’acquisto e al pagamento di una certa quantità di olio, per sé e anche per
l’amico Emilio Greco, dal fratello di Consolo, o alla noia che lo opprime, o
ancora ai propri acciacchi fisici, o a certi obblighi familiari che si
intrecciano con quelli del lavoro.
Naturalmente non poteva mancare in questo carteggio la presenza di Lucio
Piccolo, che viene nominato per la prima volta da Sciascia in un post-scriptum
della lettera del 15 giugno1965: «Se vedi Lucio Piccolo, salutalo tanto da
parte mia». In un racconto che rievoca la prima lettera del nostro epistolario,
Consolo ricorda i due scrittori, «due archetipi per
me», proprio da lui fatti incontrare: «Leonardo Sciascia […] a cui avevo
mandato il libro con una lettera, mi rispose chiedendomi delucidazioni sulle
particolarità linguistiche della mia scrittura, e invitandomi insieme ad andare
a trovarlo a Caltanissetta, dove allora abitava. Così feci. E dopo, di tempo in
tempo, cominciai a frequentare, oltre Piccolo, anche Sciascia. Mi diceva
Piccolo, quando gli comunicavo che sarei andato a Caltanissetta, «Mi saluti il
caro Sciascia». E Sciascia, a sua volta, quando mi congedavo da lui, «Salutami
Piccolo». Così, alla fine, feci in modo di far incontrare il poeta e lo
scrittore, così antitetici, così lontani l’uno dall’altro: due archetipi per me, due cifre letterarie che ho
cercato, nella mia scrittura, di far conciliare. L’incontro avvenne una
domenica, la domenica in cui per la prima volta si celebrava nelle chiese la
messa in italiano. […]. Sciascia rimase affascinato dal personaggio e ne
scrisse dopo, in Carte segrete e ne la Corda pazza. Scrisse: “Tutto quello che Piccolo dice è
di un’acutezza che sempre, sia che giunga a verità semplici sia che attinga al
paradossale, sorprende e incanta. È uno che sottilmente conosce l’arte del
conversare; i giudizi, gli aneddoti, i calembours, gli
epigrammi, le citazioni scorrono nella sua conversazione con limpida e
incantevole fluidità”».
Oltre all’interesse letterario e storico per la Sicilia dei secoli XVII,
XVIII e XIX Consolo e Sciascia dichiarano anche di condividere l’amore per
Parigi, un mito incrollabile, com’è noto, per molti aristocratici e
intellettuali siciliani a partire già dal Settecento, e che scandisce a più
riprese, tra il 1976 e il 1988, questa corrispondenza. Sciascia
intitolerà Parigi un singolare saggio autobiografico
e storico-letterario al contempo, nel quale colpisce la scoperta di Parigi
fatta attraverso la Sicilia, come se Parigi gli avesse consentito di riscoprire
una certa immagine dell’isola.
Tra queste lettere sui «luoghi dell’anima», c’è anche quella in cui
Sciascia nomina La Noce, la contrada di campagna dove egli soleva trascorrere
le sue vacanze estive e amava ospitare gli amici, che è stata immortalata in
alcuni celebri scatti degli amici fotografi Ferdinando Scianna e Giuseppe
Leone.
Tra il fitto scambio di libri, di articoli e di recensioni, preme infine
segnalare il ripetuto riferimento di Sciascia alla bella, e oggi un po’
dimenticata, antologia dei Narratori di Sicilia,
nella quale, accanto ai testi dei più significativi scrittori siciliani, appare
il racconto di Consolo Per un po’ d’erba al limite del
feudo che Sciascia gli aveva caldamente richiesto.
Numerose altre curiosità letterarie e aneddoti biografici riserva
naturalmente la lettura integrale di questo prezioso carteggio, che condensa la
vita e il lavoro di poco meno di un trentennio di due fra i più grandi
scrittori del Novecento, offrendo uno spaccato singolare del contesto non
soltanto letterario ma più profondamente antropologico dei due corrispondenti,
un contesto da un lato fortemente radicato nell’arcaismo della cultura
siciliana, dall’altro incredibilmente aperto all’Europa (alla modernità). Ma
questo apparente, fecondo e affascinante contrasto costituisce, com’è noto,
l’originalissima cifra della grande letteratura siciliana classica.
Note Rosalba Galvagno ha insegnato Letterature comparate e Teoria della letteratura all’Università di Catania. Il testo per Ferraraitalia ripropone parzialmente l’Introduzione di Essere o no scrittore: Lettere 1963-1988. Libro di Leonardo Sciascia e Vincenzo Consolo , a cura di Rosalba Galvagno, Milano, Archinto, 2019
pubblicato il 16 febbraio 2021 sul quotidiano indipendente “FerraraItalia”
Consolo Vincenzo, L’ora sospesa e altri scritti per artisti,
a cura di Miguel Ángel Cuevas, Valverde, Le Farfalle Edizioni, Collana Turchese – Saggistica, 5, 2018, 140 pp.
Che vi sia, nella cultura italiana, una tendenza a tradurre concetti, argomenti, segni in simboli, figure ed immagine è cosa, dopo gli studi di Esposito ed altri, accertata;che in Sicilia, forse la regione letteraria più defilatamente importante nell’Italia odierna, tale tendenza si faccia oltranza, come scriveva un critico appunto siciliano,Natale Tedesco, era già da tempo chiaro a chi avesse delibate le preziosissime prose che dall’Isola, veramente munifica in fatto di letteratura, hanno arricchito le lettere italiane.A conferma di quell’ immaginare scrivendo, di cui dicevamo, giunge un volumetto – in realtà una preziosissima tessera, ecdoticamente succulenta, che s’aggiunge al mosaico imponente dell’opera di Vincenzo Consolo – con cui la competenza sicura,ed invidiabile, di un curatore in perfetto sincrono col suo autore, Miguel Ángel Cuevas,unita al civile impegno di una piccola casa editrice di cultura, Le Farfalle, salvano alcune, importanti, «occasioni di scrittura», come dice, con lungimiranza, il Cuevas (p. 16) del maestro di Sant’Agata di Militello. L’ora sospesa raccoglie, suddividendoli in quattro sezioni cui s’aggiunge un’appendice,ventidue brevi testi consoliani, ventidue frammenti, come dice Cuevas, dei quali i diciannove in prosa sono tutti apparsi come introduzione, o testo di accompagnamento,a cataloghi di mostre d’arte di amici scultori, fotografi o pittori, tranne i tre compresi nella terza sezione, «Vedute di Antonello», dedicate al maestro messinese un cui quadro fu ispirazione de Il sorriso dell’ignoto marinaio, forse una delle migliori prove di prosa a partire dall’immagine pittorica del Novecento italiano. Chiudono il volume una corta sezione, «Due frammenti lirici», di versi e un calligramma
in forma di limone, «Autoritratto», posto in appendice a quest’antologia
paradossale come ultimo, raffinatissimo congedo. Formano però parte della carne di questo volume anche l’introduzione, «L’arte a parole» (pp. 9-16), e l’utilissimo apparato che segue ai testi – poiché, sebbene abbia il modesto titolo di «Notizie sui testi» (pp. 132-138), di vero e proprio apparato, in realtà, si tratta – con cui Cuevas ci fa da guida non solo nelle scritture che qui presenta, ma nell’ intera scrittura consoliana, di cui questo volumetto rappresenta una
ponderata, profonda misura.Il grosso dei testi è compreso nelle tre sezioni che vanno sotto i titoli di: «Bozze di scrittura», «Prove di saggi», «Vedute su Antonello». I tre testi che compongono la sezione dedicata ad Antonello: «Pittore di una città tra sogno e nostalgia» (pp. 101-103), «Lasciò il mare per la terra, l’esistenza per la storia» (pp. 104-109) e «Ad Occidente trovai “l’ignoto”» (pp. 111-117), definiscono,in maniera insolitamente univoca per Consolo, uno stadio preciso della sua attività autoriale. Queste scritture “antonelliane”, tutte pubblicate fra il 1981 ed il 1983, di-Cuadernos de Filología Italiana ISSN: 1133-9527 https://dx.doi.org/10.5209/cfit.63479 RESEÑAS324 Reseñas. Cuad. filol. ital. 26, 2019: 323-326 scendono infatti dal patrimonio segnico definito ne Il sorriso dell’ignoto marinaio,di cui rappresentano un’eco, o piuttosto una sorta di paradossale accordatura successiva all’esecuzione; leggendole è, infatti, impossibile non coglierne il valore autocritico. È forse qui, nella sezione in cui l’itinerario di formazione della scrittura consoliana assume una linearità altrove sconosciuta, che emerge più forte quella modalità auto-interpretativa da cui l’intera produzione di Consolo è pervasa, quasi fosse questo il reale genere (o, piuttosto, meta-genere) nel quale iscrivere l’opera del maestro di Sant’Agata di Militello. Antonello, la sua ombra, l’insolita grandezza di un’esperienza artistica che, come molte altre volte accadrà in Sicilia, surclassa la pochezza del suo ambiente d’origine,costituiscono dunque un ancoraggio solido nel variare della fuga continua da cui è segnata l’opera consoliana, ed è uno dei non pochi meriti de L’ora sospesa il fatto di permetterci, grazie a questi tre testi,
una considerazione attenta del valore di Antonello per Consolo. È però nelle altre due sezioni che emerge la fitta trama di rimandi interni, autocitazioni,riusi, riscritture che formano il fitto intreccio dell’attività di Consolo, scrittore per cui la continiana variante d’autore rappresenta più che un modo di lavoro la vera e propria cifra di una scrittura che trova nell’ecfrasi, nella fuga, nella variazione la sua natura più vera. E sarebbe, invero, difficile per il lettore riuscire a cogliere il senso e l’importanza di questi testi senza l’ausilio di Miguel Ángel Cuevas, vero e proprio Virgilio pronto ad accompagnarci nell’intricata selva dei testi che costituiscono le prime due sezioni del volume: «Bozze di scrittura» e «Prove di saggi». Si tratta di sedici testi, nove compresi in «Bozze di scrittura», e sette in «Prove di saggi», spalmati su un arco temporale di trent’anni, dal 1968 al 1998, che di fatto coincide con un vasto segmento della scrittura consoliana, un segmento in cui si raccolgono i “romanzi” principali dell’autore siciliano. Qui il valore ecdotico delle notizie dateci da Cuevas è di fondamentale importanza per seguire alcuni movimenti della scrittura consoliana, permettendoci così di confermare fatti già noti ma anche di scoprire nuove vie d’indagine all’interno della raffinatissima trama inter- ed intra-testuale di Consolo. Non intendiamo, né sarebbe opportuno privare il lettore della duplice scoperta, quella del testo stesso e quella dei brevi, ma preziosi e puntuali commenti di Cuevas, presentare singolarmente ognuno dei frammenti raccolti in quest’antologia, poiché antologia, anche se paradossalmente, può a pieno titolo essere definita L’ora sospesa – il testo eponimo, pubblicato da Sellerio nel 1989 in catalogo di una mostra dedicata a Ruggero Savinio, si legge alle pagine 42-46 – giacché il frammento rappresenta una precisa forma della scrittura consoliana. Preferiamo invece soffermarci un poco sulla divisione in due sezioni di questi testi, sul criterio cioè che regge la distinzione fra «Bozze di scrittura», da una parte,e «Prove di saggi», dall’altra. Se infatti i due frammenti in versi occupano, naturalmente, verrebbe da dire, una loro sezione in esergo, se, come abbiamo visto, i tre testi antonelliani, per tema, ma più ancora per il valore autopoetico che quel tema ha,sono destinati ad un loro saldo “a parte”, il mannello di quelli divisi fra le prime due sezioni del volumetto potrebbe sembrare non fornire sufficiente materia alla divisione che ne determina l’assegnazione all’una piuttosto che all’altra parte.Un primo importante indizio a riguardo lo dà Cuevas nella breve nota che precede il commento, scrivendo: «La selezione e disposizione dei testi – su proposta del curatore,accettata non senza modifiche, soppressione e aggiunte – è autoriale. I testi sono Reseñas. Cuad. filol. ital. 26, 2019: 323-326 325 stati sempre proposti nella loro prima forma […]» (p. 132). Tre sono le informazioni importanti che la nota ci dà: la prima, che i testi proposti sono, come sempre Cuevas dice nell’introduzione («L’arte a parole», p. 19), reali occasioni di scrittura, qui siamo,cioè, di fronte ad una scrittura in statu nascenti; la seconda, che l’autorialità non era per Consolo un qualche stato demiurgico la cui funzione fosse quella di procedere ad una creazione ex nihilo, quanto piuttosto un lavoro testuale di seguimento e sviluppo di tracce che trovano nell’abbozzo la loro prima, precisa sebbene embrionale, espressione;
la terza, che questa era dialogo, e non monologo, con un’alterità non solo di
segni e di codici, ma anche di pratiche e di persone, o almeno di quelle pratiche e di quelle persone che Consolo stesso coinvolgeva nella digressione della sua scrittura.Queste tre considerazioni hanno molto a che vedere col modo in cui l’immagine,fatto primordiale, causale, materico della scrittura di Consolo, viene trattata in queste pagine, giustamente definite come “forme prime” e non come “forme originali”,“forme prime” che possono svilupparsi, come nel Sorriso, come in Retablo, come in Nottetempo casa per casa ne Lo spasimo di Palermo, lungo le vie della narrazione, a sua volta, nelle pagine di Consolo, una sorta di meta-immagine, oppure, come avviene in altre pagine, possono imboccare la via della concettualizzazione, divenendo quasi icona, più che allegoria, di un pensiero.
Qui, ne L’ora sospesa, i testi, appunto iniziali, non hanno ancora ricevuta la loro
piega, non sono ancora stati messi lungo un di queste due vie, lungo cui poi, seguendo il commento di Cuevas, potremo vederli invece cambiare e riapparire trasformati;per tanto, la scelta di assegnazione all’una od all’altra sezione, a prescindere dalle poche, solitamente esili e non esclusive tracce di alcuni testi, è espressione di una volontà autoriale che indica la strada prescelta per il testo, ossia per l’occasione di scrittura, in questione. In questo senso il curatore co-autore compie, proponendo la divisione del lavoro che poi l’autore discute e sanziona, un altissimo esercizio di ecdotica testuale, permettendoci di entrare nel punto più intimo del laboratorio di scrittura consoliano,esattamente laddove un testo nasce, laddove si presenta un’immagine, destinata poi a farsi figura, o concetto, e suggerendoci, secondo una modalità di sapientissimo annullamento del critico, una verità ermeneutica fondamentale per la comprensione di Consolo, quella secondo cui l’immagine funziona da principio motore e ricapitolazione dei due assi linguistici, quello espressivo e quello definitorio, così intimamente intrecciati nell’opera del siciliano. L’elegante raffinatezza di quest’operazione critica, tanto profonda da segnalare la presenza tramite l’invisibilità della mano che l’ha voluta e preparata, rimanda direttamente
alle poche, pregnanti pagine di un’introduzione densissima, «L’arte a parole
» (pp. 9-16), con cui Cuevas è capace di giungere ai moventi più veri della scrittura di Consolo. Si potrebbero, e forse si dovrebbero, scrivere non poche pagine sulle non molte che, invece, compongono l’introduzione di Cuevas, tante sono le riflessioni che esse suscitano, tali sono gli echi che in esse risuonano; sia qui concesso soffermarsi fuggevolmente sulla necessità che queste pagine pongono di leggere Consolo alla luce di una figuralità vissuta come occasione di scrittura. Il portato forse più profondo dell’introduzione di Cuevas, almeno secondo quanto ci sembra, è infatti proprio quello di stabilire che l’immagine è occasione dello scrivere, il quale a sua volta all’immagine ritorna, rivelandola e conferendole quell’esistere che fuori dalla scrittura non potrebbe mai avere.
Questa duplice via della dialettica immagine/scrittura, finemente definita nell’introduzione di Cuevas, apre così una via interpretativa che passa per la scrittura di Consolo e che, potenzialmente, può essere estesa ad altri tipi di scrittura, a tutta quella scrittura che, come ben sa il curatore e prefatore de L’ora sospesa, non nuovo ad esperienze siciliane, definisce, come si diceva all’inizio, la Sicilia come dimensione fantastica e fantasmagorica della letteratura in italiano.
Libro fecondo, esemplare per l’onestà ecdotica – merce sempre più rara – e la
finezza di lettura di un’ermeneutica sicura ma non ingombrante, L’ora sospesa è libro su cui ma non di cui si possa scrivere, tanta è la ricchezza della voce di Consolo che qui torna, finalmente, a risplendere.
Marco Carmello
Universidad Complutense de Madrid
macarmel@filol.ucm.es