Ogni volta che vado in Italia, una mia aspirazione è visitare la Sicilia. Attraversare lo stretto sul traghetto e arrivare sull’isola è un’esperienza bellissima, ancora più bella se si viaggia in auto e si visitano diverse città siciliane. Quest’anno in Sicilia ci sono stata due volte, la prima per passare una giornata a Taormina in compagnia di mio fratello e dei miei nipoti; la seconda invece per un obbiettivo culturale più specifico, arrivare a Sant’Agata di Militello, il paese natio di Vincenzo Consolo, considerato uno tra i maggiori narratori italiani contemporanei, e visitare la Casa Letteraria, inaugurata di recente. Volevo vedere di persona la collezione che include le opere dello scrittore, i suoi quadri, i premi ricevuti, e le sue cose personali.
Vincenzo Consolo oltre a scrittore e saggista, aveva lavorato come giornalista, insegnante, e consulente per la Einaudi. Il libro “La mia isola non è Las Vegas” contiene cinquantadue racconti, racconti di viaggio, d’infanzia, incontri con personaggi, e ricordi professionali pubblicati nell’arco di 50 anni su diversi giornali e periodici italiani come: L’Ora di Palermo, l’Unità, Il manifesto, Il Messaggero, La Stampa, Il Corriere della Sera, Giornale di Sicilia, La Sicilia; alcuni di questi quotidiani non esistono più. Leggendo i suoi saggi, i suoi romanzi, e ascoltando le sue video interviste, Consolo descrive “la sua isola” nei minimi dettagli, raccontandone le bellezze e i problemi. A me la Sicilia affascina moltissimo, la trovo veramente bellissima; una terra ricca di civiltà mediterranee, di storia, di cultura, di arte, con un mare da sogno, sole africano, e cibi gustosissimi. Non si finirebbe mai di girarla e di apprezzarne le sue bellezze, la sua storia, e il suo cibo, proprio come scrive Consolo in uno dei racconti di Le pietre di Pantalica, in cui il protagonista si chiede: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”.
Ero in compagnia di mio marito, e quando siamo arrivati al Castello Dei Principi Gallego, nel centro storico della città, tra piazza Francesco Crispi e la storica piazza Vittorio Emanuele ribattezzata Piazza Vincenzo Consolo il 18 febbraio 2017, ci aspettava Claudio Masetta Milone, uno dei fondatori dell’Associazione “amici di Vincenzo Consolo”. Claudio, cortesemente ci ha fatto da guida del castello incominciando da “La casa letteraria di Vincenzo Consolo” dove sono custodite, a disposizione della cittadinanza, le opere dello scrittore e la sua biblioteca personale con oggetti preziosi e premi ricevuti nel corso della sua lunga carriera letteraria. La donazione voluta dalla signora Consolo, include ricordi e ricchezze culturali che Consolo collezionava durante i suoi viaggi, e tra questi ho notato modelli di piccolissimi libretti di ceramica o di ottone, e lumache di ceramica o di ottone (chiocciole, simbolo del castello Gallego e del romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio). Ci sono pezzi antichi che ricordano il lavoro fatto a mano della cultura contadina siciliana, come un telaio per tessere, dei birilli di legno, i suoi libri, i suoi quadri, le onorificenze ricevute da diversi Paesi esteri come la Francia, l’onorificenza del Presidente italiano, la macchina da scrivere che usava per il suo lavoro, e tante altre cose; troppe per essere elencate in questo pezzo, e tutto a disposizione degli studiosi e del pubblico. Ero contentissima di trovarmi li ed emozionata allo steso tempo guardando e toccando le cose personali di Vincenzo Consolo sullo scaffale; tra le sue cose c’era anche L’opera completa di Vincenzo Consolo, opera pubblicata nei Meridiani Mondadori grazie alla cura di Gianni Turchetta.
Nello studio c’erano anche molte foto, ma una foto datata 1968 aveva attratto la mia attenzione, erano fotografati: Consolo insieme allo scrittore Leonardo Sciascia e al poeta Lucio Piccolo nel giardino della villa Piccolo a Capo di Orlando. Mente guardavo la foto ho chiesto al signor Masetta Milone, amico intimo di Consolo e della signora Consolo, quanta importanza dava lo scrittore all’amicizia, Claudio mi rispose con una citazione dal libro La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo: “…E questa amicizia, che quando uno è solo contro tutti, l’altro gli dice ecco qua, siamo in due”. Lucio Piccolo era un poeta e viveva nella villa “Piccolo” a Capo d’Orlando, ma passava molto tempo anche a Palermo. Piccolo era conosciuto come il barone, ed era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, autore di un unico ma famosissimo romanzo, Il Gattopardo. Lucio Piccolo era un uomo molto solitario e chiuso in se stesso, amava la solitudine. Consolo da giovane lo andava a trovare spesso alla sua villa a Capo d’Orlando e ci restava per ore a parlare di poesie e di lingua. Per Consolo visitare Piccolo era come andare a lezione, lo stimava molto e lo riteneva un suo maestro.
Con Leonardo Sciascia Consolo aveva un rapporto diverso da quello con il poeta Lucio Piccolo. Consolo per Sciascia custodiva un’amicizia storica e un gran rispetto, e come Sciacca, egli era motivato a sconfiggere l’ignoranza che alimenta la cultura mafiosa in Sicilia. Leonardo Sciascia viveva a Recalmuto e Consolo doveva prendere il treno da Sant’Agata di Militello per andare a visitarlo, ma di solito lo faceva una volta la settimana. Prima di Sciascia, nessun scrittore aveva scritto di Mafia, egli fu il primo a scriverne nel suo grande successo Il giorno della civetta, terminato nel 1960 e pubblicato nel 1961. Al romanzo si ispirò il film, dello stesso nome, del regista Damiano Damiani uscito nel 1968. Con i suoi romanzi Sciascia dimostrò che l’esistenza pericolosa della Mafia si deve combattere con ogni mezzo disponibile, specialmente scrivendone e diffondendo la cultura e la legalità. Dopo Sciascia Consolo continuò la battaglia contro la Mafia e la criminalità organizzata usando anche lui come arnese la stressa arma, la letteratura. Il signor Masetta Milone, che ha sempre vissuto in Sicilia, dice che la letteratura insieme alla cultura e alla bellezza sono l’arma più potente da usare contro la criminalità organizzata e la Mafia.
Vincenzo Consolo è conosciuto come l’autore della pluralità di lingue e di toni, una caratteristica che afferma la sua identità di scrittore. Lo stile linguistico di Consolo non è dialetto ma nemmeno lingua nazionale. Egli usa vocaboli che esprimono emozioni ma non sono parole dialettali. Il suo stile si allontana dall’italiano comune che egli riteneva troppo tecnico. La pluralità di toni e di lingue comporta anche una pluralità di prospettive, Consolo nei suoi romanzi sceglie di raccontare secondo la prospettiva soggettiva e particolare dei personaggi. Riconoscibile in ogni sua frase è l’utilizzazione di lessici incrociati tra l’italiano antico (la lingua volgare o lingua del popolo) e il siciliano, quindi, la sua è una scrittura che narra una continua ricerca di originalità. Nei suoi romanzi racconta secondo la prospettiva soggettiva di chi è dentro la storia giocando con le parole, come possiamo notare in “Retablo”, nella ode a Rosalia: “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. […] Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore”. In un’intervista curata da Marino Sinibaldi, giornalista, critico letterario, e conduttore radiofonico, Consolo aveva dichiarato: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”.
Consolo amava la Sicilia, la lingua siciliana, la cultura dell’isola e la lingua italiana, ma era convinto che i giovani a scuola debbano studiare l’italiano e non il dialetto. Nel 2011 egli fu il più critico scrittore contro l’insegnamento del dialetto nelle scuole. Console vedeva la legge che regolava lezioni di dialetto in ogni istituto di ordine e grado come un’iniziativa leghista: “Ormai siamo alla stupidità”, aveva affermato Consolo. “Una bella regressione sulla scia dei ‘lumbard’. Che senso hanno i regionalismi e i localismi in un quadro politico e sociale già abbastanza sfilacciato? Abbiamo una grande lingua, l’italiano, che tra l’altro è nata in Sicilia: perché avvizzirci sui dialetti? Io sono per la lingua italiana, quella che ci hanno insegnato i nostri grandi scrittori, e tutto ciò che tende a sminuirla mi preoccupa”. Consolo usa anche l’arma dell’ironia, ma da quasi tutti i suoi scritti trapela una Sicilia amara per quanto sempre molto amata.
Tornando alla mia visita al Castello dei Principi Gallego, dopo aver ammirato “La casa letteraria di Vincenzo Consolo”, visito il resto del castello con il signor Masetta Milone, un tempo dimora dei Principi Gallego. Risalendo una scala a chiocciola – simbolo del castello e del nome Gallego – si raggiunge il piano superiore dove si trovava la residenza di Principi Gallego: i saloni di ricevimento, i soggiorni, le stanze da letto, il giardino, le cucine e le stanze più riservate del castello. Come ogni residenza nobile, il castello ha pure una cappella, anche questa con dei segreti: i Principi Gallego potevano assistere alle funzioni religiose senza essere visti, affacciandosi da una finestrella comunicante con alcune stanze dell’abitazione. Aprendo la finestrella Claudio dice: “Da questa finestra i principi guardavano se c’erano belle ragazze in chiesa senza che gli altri se ne accorgessero”. L’ingresso della chiesa si trova sulla piazza, e all’interno della cappella si possono ammirare tele, dipinti e statue di legno dei secoli XVIII e XIX. Visibile da lontano, il campanile della chiesa con il grande orologio.
Continuando il giro del castello arrivo sulle terrazze del palazzo: alcuni sono balconi che si affacciano sulle terrazze settentrionali, un tempo armati d’artiglierie per fermare gli attacchi dei pirati che arrivavano via mare. Da ognuna delle terrazze si poteva ammirare un panorama bellissimo e suggestivo del porto di Sant’Agata Di Militello, dove erano ancorate barche a vela e motoscafi. Si avvistava la curva della costa di Cefalù, e la punta di Capo d’ Orlando, e guardando in rettifilo si poteva riconoscere il bellissimo arcipelago delle isole Eolie. “Il castello domina le isole Eolie, dunque da qui il Mandralisca doveva passare navigando per recarsi a Cefalù – ci spiega Claudio Masetta Milone. E nelle prigioni del castello sono stati imprigionati molti rivoluzionari di Alcara Li Fusi. Consolo parla delle prigioni del castello con molta tristezza; attraverso la figura di Mandralisca, nel romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo si fa portavoce del malessere delle genti siciliane tradite dalle strutture politiche.
I Principi Gallego ottennero la signoria della città nel 1573, Vincenzo Gallego e suo figlio Luigi costruirono il castello nel 1663. Il castello fu venduto nel 1820, insieme alle terre, dall’ultimo erede dei Gallego al Principe di Trabia. Nello stesso secolo i privilegi feudali declinarono. Il libro di Vincenzo Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio finisce con una descrizione precisa del castello-carcere di Sant’Agata di Militello, che per la sua forma a chiocciola divenne un simbolo architettonico per anime malvagie: “E siam persuasi che quell’insolito e capriccioso nome chiuso tra le parentesi che vien dopo Girolamo del principe marchese, Còcalo, sicuramente d’accademico versato in cose d’arte o di scienza, sennò sarìa stato eretico per paganità, abbia ispirato l’architetto. Essendo Còcalo il re di Sicilia che accolse Dedalo, il costruttore del Labirinto, dopo la fuga per il cielo da Creta e da Minosse, ed avendo il nome Còcalo dentro la radice l’idea della chiocciola, kokalìas nella lingua greca, còchlea nella latina, enigma soluto, falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso, la grande entrata da cui si può uscire seguendo la curva sinuosa ma logica, come nella lumaca di Pascal, della sua spirale, l’architetto fece il castello sopra questo nome: approdo dopo il volo fortunoso dal grande labirinto senza scampo della Spagna, segreto sogno di divenire un giorno viceré di Sicilia, sforzo creativo in sfida alla Natura come l’ali di cera dell’inventore greco o solo capricciosa fantasia?” Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio.
Come la vita di ogni scrittore, anche quella di Vincenzo Consolo non fu facile. Terminate le scuole superiori si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, dell’Università Cattolica di Milano. Consolo decise di fare l’università a Milano perché c’erano Vittorini, Quasimodo, e c’era stato Verga. Però, per far contenti i suoi genitori egli si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza e non a quella di lettere; la sua famiglia considerava l’insegnamento un lavoro da donne e non da uomini. Durante il tempo in cui si trovava a Milano fu costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, e in seguito si laureò in Giurisprudenza con una tesi in filosofia del diritto dall’Università di Messina, e ritornò a vivere in Sicilia dove si dedicò all’insegnamento nelle scuole agrarie. Nel 1963 debuttò con il suo primo romanzo, La ferita dell’aprile, una narrazione della vita di un paese siciliano straziato dalle lotte politiche del dopoguerra. Nel 1968, dopo aver vinto un concorso alla Rai, si trasferisce a Milano, dove vivrà e lavorerà fino alla sua morte svolgendo un’intensa attività giornalistica ed editoriale, e alternando alla vita milanese con lunghi soggiorni nel paese d’origine. Nel 2007 ricevette la laurea “honoris causa” in Filologia moderna dall’Università di Palermo.
Tra le opere di Vincenzo Consolo riordiamo: La ferita dell’aprile (1963), Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, la sua opera più celebre), Retablo (1987, premio Grinzane), Le pietre di Pantalica (1988), Nottetempo, casa per casa (1992, premio Strega), L’olivo e l’olivastro (1994), Lo spasimo di Palermo (1998). Lunaria (1985, dialogo fiabesco di sapore leopardiano). Consolo ha scritto anche per il teatro (Catarsi, 1989) ed è stato autore di saggi dedicati alla sua terra, la Sicilia: La pesca del tonno in Sicilia (1986), Il Barocco in Sicilia (1991), Vedute dallo stretto di Messina (1993).
Concludo con una citazione di Vincenzo Consolo, tratta da una video intervista: “Perché molti siciliani scriviamo? Noi scrittori siciliani non è che non sapevamo che fare, ma abbiamo sentito il bisogno di spiegarci, di capire le ragioni di tanto malessere di quest’isola. Da sempre un’isola che potrebbe essere veramente un isola felice, l’Isola dei Feaci, perché abbiamo tutto; abbiamo la terra, le antichità. Eppure, per i mal Governi che si sono succeduti da sempre quest’isola e diventata un’isola maledetta, un’isola infelice”.
Il nome di Vincenzo Consolo è stato associato, ormai quasi definitivamente, a quelli di Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, con i quali ha condiviso un lungo sodalizio intellettuale. Consolo è convinto che “non si possano scrivere romanzi perché ingannano il lettore”, perciò le sue creazioni narrative sono protese al setacciamento dell’ovulo della parola, alle alchimistiche operazioni di orchestrazione lessemo–stilematiche e sintattico-ritmiche al fine di far sprigionare dalla solfeggiata andatura del periodo, il soffio segreto dell’elegia. Infatti la sua prosa riecheggia di sonorità liriche, ricca di figure retoriche, allitterazioni, assonanze, paronomasie che, nello scandire i momenti evocativi della memoria e i temi scottanti dell’attualità, particolarmente della storia siciliana, si innalza ai vertici della poesia, con una chiarezza razionale di stampo illuministico.
Vincenzo Consolo nasce a S. Agata di Militello (Messina) il 18 febbraio del 1933 da padre borghese e da madre popolana. Visse l’infanzia durante gli anni della Seconda guerra mondiale, turbato dalle crudeltà del conflitto e dalla lotta partigiana, per cui insieme alla famiglia si trasferì in campagna, dove, tuttavia, continuò a riecheggiare l’eco dei bombardamenti, scompigliando anche gli incontri gioiosi dei bambini, compagni di gioco del nostro e vittime innocenti della guerra. Tornato al paese natale, dopo lo sbarco degli alleati, le dolorose vicende di quegli anni fornirono allo scrittore il materiale per comporre il suo primo romanzo. Dopo aver frequentato gli studi presso i salesiani, consegue la licenza liceale al “Valli” di Barcellona P.G. (ME). Quindi si iscrive alla Cattolica di Milano dove, dopo essere stato costretto ad interrompere gli studi per far fronte alla leva obbligatoria, si laurea in Giurisprudenza a Messina con una tesi in Filosofia del diritto; svolge poi encomiabilmente l’apprendistato di notaio tra il paese natale e Lipari. Presto, però, prevale in lui la vocazione letteraria, sfociata nella composizione del suo primo romanzo “La ferita dell’aprile”. Il testo è ambientato negli anni della “guerra fredda” in un paese della Sicilia settentrionale, e narra le lotte politiche del Secondo dopoguerra, filtrate nel racconto in prima persona del protagonista, un ragazzo che studia in un istituto religioso in un paese di contadini e di pescatori, dove i “carusi” spiano la vita della piccola comunità patriarcale, attraversata dalla tragedia esistenziale. Trasferitosi a Milano nel 1968, le acque del suo mare, tra le coste siciliane e le Eolie e il paesaggio e la storia delle vittime della civiltà contadina e dello stupro della tragedia siciliana, offrono le ragioni profonde della trama del suo capolavoro “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1976), con cui Vincenzo Consolo è conosciuto dal grande pubblico. La genesi del libro non è stata continua; infatti la stesura, per volere dell’autore, fu interrotta dopo i primi due capitoli che furono pubblicati, in edizioni numerate, con un’iscrizione di Renato Guttuso, ma l’attenzione suscitata, indusse Consolo a completare l’opera, con l’aggiunta di altre sette sezioni, dopo dieci anni, su pressante invito dell’editore Einaudi. Il romanzo presenta una struttura complessa ed è ambientato nella Sicilia degli anni 1856 – 1860, cioè negli ultimi anni del regime borbonico, a ridosso della spedizione dei mille e della rivolta contadina di Alcara li Fusi (maggio 1860), repressa nel sangue dai garibaldini di Bixio. Il protagonista realmente esistito, é facilmente collegabile al contesto di una rigorosa storicità, in cui si dipana anche la vicenda del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il barone Enrico Piraino di Mandralisca, protagonista del romanzo di Consolo, e il principe Fabrizio Salina, protagonista del Gattopardo, sono entrambi aristocratici illuminati e assistono al passaggio dallo stato borbonico a quello unitario nazionale; al radicale pessimismo di don Fabrizio, di idee democratiche e patriottiche, ma lontano dalle vicende politiche e chiuso nelle sue ricerche scientifiche, si contrappone l’illusionistica speranza del Mandralisca, dapprima umbratilmente serpeggiante negli accadimenti ribellistici, ma progressivamente sempre più palese, fino all’epifania finale, paradigmata dalle epigrafi che scandiscono la tragedia dei martiri – eroi, innalzata e premessa ipotetica della redenzione della plebe siciliana. Il romanzo di Consolo è caratterizzato da due metafore fondamentali: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, ironico e pungente simbolo dell’apparente rifiuto aristocratico verso ogni forma di impegno, e la chiocciola, concretizzazione simbolica del labirinto della storia, dalle ampie entrate e dall’uscita sinuosa, speculare emblematicità del percorso delle vicende umane. L’opera è caratterizzata da moduli narrativi complessi, espressi in terza persona e con proiezioni in spazi neutri, la “lettura e la “memoria”, redatte e osservate dal protagonista, con scene corali, ora inflesse in enigmatiche articolazioni, ora riflesse sui tabulati della tragedia, sono declinate con contrapposti regimi narrativi, connotati dalla lingua brillante del Mandralisca, e dalle molteplici inflessioni popolari, sopra cui si staglia la cesellatura linguistica dello scrittore che dispiega galassie paesaggistico –naturali e implosive oscillazioni emotive, in scansioni descrittive di aureo impianto lirico – semantico. La scelta dei molluschi si traduce, come si è detto, in metafora della vita, in cui si condensano sia le tematiche del libro, che le strutture linguistiche e lessicali. Altro personaggio chiave è Giovanni Interdonato, come il Mandralisca realmente vissuto, protagonista gradualmente emergente da una sorta di baluginante ambiguità, fino alla chiarificazione del suo ruolo di mente nel movimento di liberazione della Sicilia.
Dopo aver chiarito le corrispondenze semantiche tra il sorriso di costui, incontrato su una nave diretta dalle Eolie a Cefalù, i rapporti con il Mandralisca e con altri elementi della nobiltà siciliana destinata al declino, affiorano alla ribalta della storia i contadini della sua terra, protagonisti della sanguinosa rivolta di Bronte, tutti processati per strage, ma alla fine tardivamente assolti per interessamento dell’Interdonato, con segrete interferenze plasmatiche del barone Mandralisca, rivelatosi determinante nell’indicazione e decrittazione dei documenti apposti in appendice, che imprimono chiarezza alle iniziali sinuosità della progressione storico – narrativa.
Enrico Mandralisca non è un nobile, ottusamente custode degli interessi di classe, è consapevole del nuovo corso della storia, non ripiega narcisisticamente nelle bolge della nostalgia, ma sostiene, con modalità correlate al sussulto degli eventi i rivoluzionari che intendono liberare la Sicilia dalle ataviche sedimentazioni di sudditanza, per renderli protagonisti del proprio destino esistenziale e storico.
Il barone sa che la storia è una “scrittura continua di privilegiati” e vorrebbe raccontarne una dove i contadini sono i protagonisti della stessa, ma si accorge che la scrittura dei “cosiddetti illuminati” è sempre “un’impostura”, perché questi si rifanno alle idee astratte di Libertà, Eguaglianza, Democrazia, Patria, che i vinti non sono in grado di capire; solo quando essi conquisteranno da soli quei valori, i discendenti saranno capaci di definirli con parole nuove. Il nobile intellettuale conclude con il riconoscimento dell’inutilità della scrittura e della necessità assoluta dell’azione, perciò, ritiene utile lasciare tutti i suoi beni a favore di una scuola, per i figli dei popolani in modo che imparino a scrivere e narrare la loro storia, per poterne capire gli orrori e coscientemente lottare contro le sopraffazioni subite per conquistare la libertà.
Anche nel romanzo successivo “Retablo” (1987) il racconto scivola su diversi piani narrativi e quadri storici staccati, come le scene variegate di una narrazione continua. Si narra dell’impossibile amore di due protagonisti, il pittore girovago milanese in viaggio in Sicilia, Fabrizio Clerici, e il prete siciliano Isidoro, per due donne, da cui rimarranno sempre lontani. Lo sfondo è una Sicilia lontana, preziosa, agreste. La lingua è ben studiata, con la strategica posizione di lessemi e stilemi idonea ad omogeneizzare lo spazio tra sequenze descrittivo – narrative e pause sono re con l’elencazione paesaggistico – oggettuale, in un intrico d’espressioni secondarie e subordinate condensate in una ampia tavolozza di immagini, situazioni e frammenti realistici, riprodotti con spiralizzante bulinatura neo – post – barocca, che imprime al romanzo una virtuosistica e profondamente vitalistica unità, al di là degli apparenti oscillamenti strutturali e nominali.
“Lunaria” (1985) è un originale testo dialogato, sotto forma di favola destinata al palcoscenico che nella Sicilia del ‘700, riscopre il mito della caduta della luna. Il testo inizia nel primo Novecento, quando un anziano barone, in odore di irreversibile declino storico, scrive poesie in cambio di pane, ispirandosi soprattutto alla lun. Dopo anni, il manoscritto del barone, attraverso il ritrovamento di un giovane di Palermo, perviene a Consolo che lo rielabora in testo teatrale, dove mito, storia e poesia, risultano riplasmati sincronicamente nella metrica e nell’ambientazione epocale della Palermo settecentesca, governata da un viceré. Il centro narrativo è caratterizzato appunto dalla “caduta della luna”, che richiama a “L’esequie della luna” di Lucio Piccolo e alle pagine leopardiane delle “Odi”. Ma in Consolo i ritagli testuali delle correlazioni si dispiegano nel ventaglio della teatralizzazione della vita che diventa ansia e vertigine, panico, terrore, di fronte all’eternità e all’iniquità fatuamente terapizzata dall’uomo con inganni e illusioni, che non cancellano il male della Storia. Per cui, alla fine, il vicerè, tra riecheggiamenti leopardiani e intonazione pirandelliana, è costretto, di fronte all’impossibilità della Materia a dischiudersi: “Non sono più il viceré. Io l’ho rappresentato solamente (depone lo scettro, si toglie la corona e il mantello). E anche voi avete rappresentato una felicità che non avete. Vero re è il sole, tiranno indifferente. E’ finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica solida la cangiante terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima […] sipario dell’eterno”.
Qui la lucreziana giostra dei mutamenti fonomenologici si fonde all’originario immobilismo aristocratico paradigmato dalla mobilità dei registri logico – strutturali, pirandelliani, e avvolti nell’angosciosa indifferenza del lirismo leopardiano. Il motivo della luna i rivela ora ingrediente logico del percorso narrativo consoliano; infatti, innalzato in aree di sublimità lirico – razionale in “Lunaria”, era già presente nella opera adolescenziale “Triangolo e luna”, distrutto dallo scrittore.
A differenza degli scrittori citati, la luna, nell’opera di Consolo, oltre alla insita accezione semantico – filosofica, diventa anche occasione di polemica contro ogni forma di imbrigliante istituzione, anche linguistica, utilizzata anche con l’obiettivo di creare un linguaggio letterario originale. Con tale opera, ridotta a forma dialogica di livello alto, e perciò non teatralmente rappresentabile, Consolo ha inteso rappresentare il tramonto di una cultura e di una civiltà.
Nelle “Pietre di Pantalica” (1988) la storia della Sicilia, riemersa dal sipario della preistoria, e indagata fino ai crudeli anni recenti, dove la scrittura, immersa a captare tracce esaltanti del passato, preme all’interno della sottile rifrangenza delle reliquie e lo scrittore, nella memorabile pagina de suo diario, risulta testimone straziato del precipitare della sua isola verso ogni forma di dissacrazione di carattere morale e umana, che assurge a metafora della crudeltà e dell’iniquità del mondo. Ritornano le riflessioni pessimistiche e una storica catena di sconfitte, ma anche una rinnovata sfida della ragione, a cui è riconducibile il nucleo sotterraneo dell’anima e l’identità genetica dello scrittore.
Un particolare successo ha riscosso la pubblicazione del romanzo “Nottetempo, casa per casa” (1992). In questo romanzo, Consolo affronta la storia dell’Italia, alle origini del fascismo, nei primi anni Venti. Qui il giovane intellettuale Pietro Marano, turbato dalle tensioni del primo dopoguerra, aderisce al movimento anarchico – socialista e, dopo aver subito le violenze delle squadracce del regime, attenta con una bomba al palazzo del barone don Ciccio, corrotto sostenitore del fascismo. La dura repressione costringe Pietro ad allontanarsi dalla Sicilia e, lasciato il movimento anarchico, mentre abbandona la sua terra, in seguito ad una operazione di profonda riflessione, ripudia ogni forma di violenza, purtroppo generatrice in quel tempo di efferatezza, di crudeltà e di sopraffazioni. Nella quiete dell’esilio, recuperata una lucida razionalità, decide di ritrovare attraverso il racconto, le vere ragioni di tanto orrore. In questo nuovo romanzo, si registra in Consolo, una visione diversa della storia. Se la scelta finale del protagonista del “Sorriso dell’ignoto marinaio” era l’azione, ora lo scrittore ritiene che solo la letteratura può ricostruire, attraverso il disordine doloroso degli eventi, il vero senso della storia e dei suoi orrori. È il trionfo della letteratura, attraverso cui soltanto si può ridare senso alla morte e ad ogni forma di aberrazione e di irrazionalità. È il romanzo corale di una intera civiltà, dove nobili e contadini, artigiani, disertori ed emigranti, anarchici e squadristi, animano le umane vicende di una Sicilia che sta per essere travolta da tanto dolore e da tanto degrado umano. Lo scritto, anche se ambientato in un’epoca precedente, riflette anche la premonizione dello scrittore di un ritorno del crollo delle ideologie e il preludio di una nuova era di oscurantismo culturale, condizione da cui sono nate sempre nella storia le involuzioni istituzionali verso la tirannide.
“L’olivo e l’olivastro” (1994) è un libro al di fuori dei consueti canoni di scrittura. Il protagonista non ha un nome, ma può essere individuato, nonostante l’uso della terza persona, nell’Io narrante dello stesso Consolo. Due sono i grandi temi, apparentemente divergenti, ma che in realtà costituiscono un motivo unico del viaggio del narratore per la Sicilia, sulla scia del naufragio collettivo; come “L’olivo e l’olivastro”, nati dallo stesso tronco, hanno destini diversi, così il primo percorre i luoghi epici di Omero e dei Malavoglia, alla scoperta di civiltà millenarie, comunità immaginarie e mestieri perduti, e rappresenta l’ulivo (che richiama al mito dell’Odissea, quando Ulisse, distrutto dal vano peregrinare, si rifugia nell’isola dei Feaci e si ristora sedendosi sotto un albero di ulivo, accanto a cui cresce l’olivastro), simbolo di una Sicilia innalzata al sistema della ragione, che rievoca amori e passioni. L’olivastro (a volte scatenamento di matta bestialità) rappresenta, invece, quella moderna dello sfacelo architettonico, ambientale e sociale, la nuova Sicilia, flagellata da episodi di rimbarbarimento, di perdita di identità, di orrori, di inquinamento, come quello provocato dalla costruzione della raffineria di Milazzo, dove prima sorgevano sterminati campi di gelsomino. Ad una terra che soffre il dramma storico della disoccupazione e vive nell’eterna tensione della più assoluta precarietà e dell’inappagamento, si contrappone un Nord, dove la tendenza a ridurre l’uomo a mero strumento di produttività, ha ridotto gli spazi di libertà ed ha creato altre condizioni di infelicità, come traspare in questi anni, senza alcuna possibilità di finzione. La Sicilia dalle due anime, rappresentata tra viaggio della memoria e discesa nel labirinto della pietà, viene riscattata dall’immagine della negatività assoluta, nella riaccensione finale della straziante utopia, che fiorisce negli interstizi della catastrofe storica e della selvatica bestialità dell’isola mediante l’illusione della salvezza attraverso la cultura, creditata dalla civiltà greca e ancora viva nella forza del pensiero. Ora il linguaggio è percorso da una più accentuata tensione poetica che sembra accarezzare gli stupri storici e ecologici, con cui la Sicilia ha pagato il prezzo di un’illusoria industrializzazione, con lo scempio del suo incantevole paesaggio, che continua a vibrare nei ritmi del melodico periodare.
Il romanzo “Lo spasimo di Palermo” (1992) è un “nòstos”, il racconto di un ritorno, quello del protagonista, lo scrittore Gioacchino Martinez, ai luoghi odioso – amati della sua infanzia e della giovinezza, Palermo e la Sicilia. Ambientato nel periodo dalla fine della guerra ai nostri giorni, su una linea di evoluzione cronologica del pensiero di Consolo, l’opera contiene al suo interno, il romanzo della Sicilia e dell’Italia – tra Milano e Palermo – dell’ultimo mezzo secolo, in un flusso della memoria tra i mali della storia individuale e collettiva fino alle ben note cronache, dell’assassinio di un giudice, a cui si contrappone la storia letteraria d’Italia, caratterizzata da tanta letteratura siciliana. Emblema del romanzo è la chiesa di S. Maria dello Spasimo, oltraggiata nei secoli ed ora restaurata, ed il quadro di Raffaello ivi dipinto, che mostra lo sgomento della Vergine di fronte a Cristo in ginocchio sotto la croce, in un simbolico atteggiamento di implorazione e di pietà per la perdizione dell’uomo di questi anni, che ha smarrito la rotta dell’identità di nobile creatura. C’è il romanzo di Gioacchino Martinez e suo padre, ucciso dai nazisti, il romanzo di Gioacchino e suo figlio, esule a Parigi per la sua adesione al terrorismo politico, c’è il romanzo d’amore di Gioacchino e Lucia, dolcissimo e disperato fino all’annegamento nella follia. C’è il fluire romanzesco della vita verso l’oblio, da cui si salva la voce immortale della poesia, ricantata nelle pagine dei più grandi scrittori, consegnati dalla memoria all’immortalità del futuro, in una sorta di utopistica sopravvivenza della sublimità della letteratura, di cui Consolo avverte di essere fibra consustanziale, già preannunciata in “Nottetempo, casa per casa”. Ne deriva una struttura, lontana da un prefissato schema narrativo, ma formatosi per sovrapposizione di circolari frammenti, disorganicamente ricomposto in una sfuggente dimensione spazio – temporale. Sui fotogrammi di violenze, sopraffazioni e fratture della storia di una pena lacerata, dilaga il regno del silenzio, in cui galleggia il protagonista – scrittore schiacciato dall’inefficienza pragmatica e dalla vacuità della parola, evirata di ogni vitalismo propulsivo. Emerge sul destino sociale e sul racconto del dolore e del silenzio, l’operazione della scrittura sperimentale del protagonista, che, però, si interrompe con l’ultima esperienza della sua vita. Allora decide di tornare alla sua isola, dove muore, come un Ulisse ucciso dai Proci, cioè dai pirandelliani “giganti della montagna”, senza volto e senza ragione, metaforicamente i sacri mostri del nostro tempo, che hanno devastato storia, memoria e tutto.
Sono gli anni straziati della violenza del terrorismo e della mafia, in cui Gioacchino, dopo aver tentato la rivolta, nell’ambito della scrittura distruggendo le convenzioni letterarie, responsabili dello “sfascio” sociale, è condannato alla sconfitta, anche della scrittura. Anche la chiusura del romanzo, con l’uccisione del giudice Borsellino, nel luglio del 1992, risulta desolatamente pessimistica e sancisce la sconfitta della ragione di fronte alle barbarie della società post – moderna.
La narrativa di Consolo, come quella di Sciascia, è pervasa da un forte sentimento civile che vede l’intellettuale misurarsi con i più sconvolgenti eventi della storia e misura la possibilità di incidenza della letteratura sugli ingorghi delle vicende della nostra Sicilia. Ma se lo scrittore nel suo ultimo romanzo abbandona l’intreccio del romanzo, rimpiange di non avere il dono della poesia, attraverso le cui forme di comunicabilità è possibile ritrovare ed esprimere la logica del mondo.
Dal punto di vista strutturale, i romanzi di Consolo risultano molto intrecciati sia sul piano spazio-temporale, che sulla linearità della fabula, su cui s’intrecciano documenti e citazioni, flussi di coscienza e lacerti di un intenso lirismo, in cui le oscillazioni interiori del personaggio diventano le occasioni poetiche dello scrittore.
Il lettore non è guidato da un trasparente filo conduttore, ma tra le geometriche rappresentazioni delle cose e dei sentimenti, nel sedimentarsi di fratture logiche e spiralizzazioni immaginifiche, sorrette da una straniante tecnica-linguistica orchestrata da un lucido razionalismo descrittivo di stampo illuministico, può trovare un collegamento tra spazio letterario e spazio comunicativo, tra procedimento logico e dialogico della narrazione, un modo di superamento delle diverse innovazioni artistiche, infarcite di stilemi e lessemi arcaico-letterarie-dialettali, che risentono della lezione di Gadda, sempre tesa al sublime e al tragico, binomio inscindibile che solo nella poesia ritrova la sua armonica funzionalità.
La vocazione intellettuale di Consolo si manifesta fin dal 1952 quando si allontana dalla Sicilia per andare a studiare Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, dove nella creazione letteraria affiora la cultura meridionalistica e neorealista come avviene per altri scrittori conterranei della diaspora.
Nel suo primo soggiorno milanese egli coltiva dentro di sé un modello di letteratura rappresentato dalla realtà contadina e una tipologia espressiva di stampo sociologico e di facile comunicatività ma già ne “La ferita dell’aprile” e nella produzione successiva, a partire dal “Sorriso dell’ignoto marinaio”, s’impone una scelta di scrittura iperletteraria, attraverso sui, da un lato lo scrittore si colloca accanto alla sperimentazione di Gadda e di Pasolini, dall’altro include l’utopia vittoriana di giustizia che rimarrà antagonistica con gli sviluppi involutivi della storia della sua Sicilia.
Allora incomincerà quella costante discesa di un siciliano nelle drammatiche pieghe dolorose della sua terra vilipesa nella sua dignità e nei suoi diritti dal sedimentarsi di regimi oppressivi, per cui il viaggio rappresenta il tema archetipico del “nostos” ricorrente anche nelle opere successive, come nelle “Pietre di Pantalica”, dove il viaggio si manifesta come immersione totale dell’anima fino alle più ataviche radici della storia siciliana, alla riscoperta di una identità italiana, eterna ed assoluta, fino all’“Olivo e l’olivastro” e alla storia disperata del popolo siciliano, scandita ne “Lo spasimo di Palermo”, dove la rivisitazione di una tragedia storica viene letta nei protagonisti, trucidamene seppelliti nei gorghi di un tempo di spaventosi orrori.
Come ha sottolineato lo stesso Consolo, la sua narrativa riveste “romanzi di ritorno all’isola” e deve essere interpretata come resoconto di un’esperienza di viaggio; “L’olivo e l’olivastro”, infatti, è un diario, tra narrativa e saggistica, in sintonia con la concezione estetica di Consolo, del ritorno doloroso in una Sicilia, “terra di tanti mali”, del passato, mescolati alla devastazione dei valori umani del presente, ma anche utero materno, in cui si agitano nuove ostinate speranze, assieme all’urgenza di nuovi doveri, ma dove l’ulisside consoliano conclude il suo viaggio, senza ritrovare più simboli per l’umana redenzione, perché la terra della memoria è stata radicalmente devastata dallo scempio di tanti Proci imbestialiti, che l’hanno ridotta a rovine.
La conclusione di una Sicilia irredimibile, dove l’isola può essere paragonata alla Troia incendiata di Omero, rappresenta anche l’incupirsi della visione consoliana, che coinvolge l’intera storia italiana, infatti, lo scrittore Gioacchino Martinez, per sfuggire allo sfacelo politico e socio-culturale di una invisibile Milano, dove si era recato alla ricerca di nuovi spazi di civiltà, come Vittorini di “Conversazione in Sicilia”, è ridisceso nella natia Palermo, ora mortalmente imprigionata nella spirale della violenza e del malaffare.
In questi ultimi anni lo scrittore tace. La sua vana creatività sembra essersi prosciugata nella inguaribile ferita della sua isola. Tuttavia, non si arresta la sua attività pubblicitaria, in cui continua a denunciare le devianze e la barbarie dell’Italia contemporanea.
La sua pena di vivere, tuttavia, scorre in maniera autobiografica nelle pagine del testo “Madre Coraggio” (in cui viene evocata idealmente la madre di Vittorini), Consolo scrive: “E qui, al sicuro, nel mio Paese, nella mia casa, appena tornato dal viaggio in Israele/Palestina, per le atroci notizie che arrivano, per le telefonate giornaliere con Piera un’italiana sposata a un palestinese, chiusa nella sua casa di Ramallah, priva di luce, di acqua, sento l’inutilità di ogni parola, la sproporzione tra questo mio dovere di scrivere, di testimoniare della realtà che abbiamo visto, delle persone che abbiamo incontrato e la grande tragedia che si stava svolgendo laggiù”[1].
Il suo negativismo storico si è esteso ai popoli dell’intero pianeta, ma la necessità di testimoniare sopravvive intatta per poter consegnare al futuro dell’umanità la memoria di un tempo apocalittico.
L’attuale silenzio narrativo dello scrittore è stato interpretato come convinzione dell’impossibilità della letteratura di poter redigere un’immagine credibile del mondo, per il fatale estinguersi dell’utopia che nella tradizione letteraria siciliana si è opposta all’omologazione delle riflessioni e della stessa scrittura, travolgendo gli eroi verghiani, vittoriniani e sciasciani. Infatti, nella nuova generazione di scrittori, sembra aprirsi ad un dialogo con le letterature nazionali e internazionali, dove dato esistenziale e denuncia disillusa del gattopardismo convivono armonicamente nell’attuale classe dirigente siciliana, verso la quale Consolo ha espresso, sia in letteratura, sia nella sua attività pubblicistica e nel suo impegno personale, il suo disgusto e la sua convinta condanna.
BIBLIOGRAFIA
Per quanto riguarda la bibliografia degli scritti di e su (anche stranieri) Vincenzo Consolo, si veda il numero monografico di “Nuove Effemeridi”, viii, 1995/i, 29, a lui dedicato, che contiene una foltissima e significativa antologia della critica.
Di seguito, diamo la prima edizione delle opere: La ferita dell’aprile, Milano 1963; Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, in AA.VV., Narratori di Sicilia, a cura di L. Sciascia e S. Guglielmino, Milano 1967; Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino 1976; Un giorno come gli altri, in AA.VV., Racconti italiani del Novecento, a cura di E. Siciliano, Milano 1983; Lunaria, Torino 1985; Retablo, Palermo 1987; Le pietre di Pantalica, Milano 1988, Catarsi (1989), in AA.VV., Trittico, cit.; Nottetempo, casa per casa, Milano 1992; Neró metallicó, Genova 1994; L’olivo e l’olivastro, Milano 1994. Importante, il libro-intervista Fuga dall’Etna, Roma, 1993. Questi gli scritti critici più importanti, a esclusione dei tanti interventi giornalistici: G. Finzi Strutture metriche nella prosa di Consolo, in “Linguistica e Letteratura”, iii, 1978; M. Fusco, Questions à Vincenzo Consolo, in “La Quinzaine litteraire”, 31 marzo 1980; L. Sciascia, L’ignoto marinaio, in Id, Cruciverba, Torino 1983; G. Amoroso, Narrativa italiana 1975-1983. Con vecchie e nuove varianti, Milano 1983; M. Fusco, Récit et histoire, Université de Picardie 1984; A.M. Morace, Consolo tra esistenza e storia.La ferita dell’aprile, in Id., Spettrografie narrative, Roma 1984; F. Gioviale, Vìncenzo Consolo: la memoria epico-lirica contro gli inganni della storia, in Id., La narrativa sicilianad’oggi, successi e prospettive, Palermo 1985; G. Pampaloni, Modelli ed esperienze narrative della prosa contemporanea, in AA.VV., Storia della letteratura italiana. Il Novecento, tomo 2, Milano 1987; C. Segre, introduzione a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Milano 1987; G. Amoroso, Vincenzo Consolo, in AA.VV., La realtà e il sogno. Narratoriitaliani del Novecento, a cura di C. Mariani e M. Petrucciani, vol. i, Roma 1987; N. Tedesco, “Retablo”: Consolo tra restauro della memoria e ira (1988), in Id., La scala achiocciola, Palermo 1991; N. Zago, C’era una volta la Sicilia. Su “Retablo” e altre cosedi Consolo (1988), in Id., L’ombra del moderno, cit.; N. Tedesco, “Le pietre di Pantalica”. L’irrequietudine e la carta della letteratura, in Id., Interventi sulla Letteratura italiana. L’occhio e la memoria, cit.; G. Amoroso, Narrativa italiana 1984-1988, Milano 1989; N. Tedesco, Ideologia e linguaggio nell’opera di Vincenzo Consolo, in AA.VV., Beniamino Joppolo e lo sperimentalismo siciliano contemporaneo, a cura di D. Perrone, Marina di Patti 1989; G. Turchetta, Consolo: Pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degliorrori, in “Linea d’ombra”, gennaio 1989; G.C. Ferretti, introduzione a La ferita dell’aprile, Milano 1989; N. Di Girolamo, Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo, in “Arenaria”, agosto-settembre 1990; F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l’opera, Marina di Patti 1990; C. Segre, Teatro e racconto su frammenti di luna, in Id, Intrecci di voci, Torino 1991; S. Perrella, Tra etica e barocco, in “L’Indice”, maggio 1992; M. Onofri, Vincenzo Consolo: Nottetempo, casa per casa, in “Nuovi Argomenti”, 3a serie, 1992, 44, ottobre-dicembre; M. Onofri, L’umano e l’inumano nascono dallo stessoceppo, in “L’Indice”, dicembre 1994; J. Farrell, Metaphors and false histories, in AA.VV., Italian Writers of the Nineties, a cura di L. Pertile e Z. Baranski, Edinburgh 1994; J. Farrel, Translator’s afterword in Id., The Smile of the Unknown Mariner, Manchester 1994; A. Scuderi, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna 1997.
[1] V. Consolo, Viaggio in Palestina, Roma, Nottetempo, 2003, p. 70.
Vincenzo Consolo: da “Accordi” a “Marina a Tindari”
di
Sergio Palumbo
La plaquette di Vincenzo Consolo “Accordi” apparsa nel dicembre del 2015 per Zuccarello Editore, lo stabilimento tipografico di Sant’Agata di Militello diventato famoso per la pubblicazione delle “9 liriche” di Lucio Piccolo finita poi nelle mani di Eugenio Montale, mallevadore dell’aristocratico poeta siciliano, non sorprende perché questo scrittore non è nuovo per rarità bibliografiche. Ma la plaquette postuma ha la particolarità di raccogliere una manciata di versi, il che rappresenta un fatto inedito perché Consolo non ha mai pubblicato sue poesie né, diceva, di averne mai scritte.
Si tratta di una curiosità letteraria che certo non autorizza a parlare adesso di un Consolo poeta. Egli rimane un narratore puro come lo è Vittorini così come Quasimodo, Cattafi e Lucio Piccolo sono poeti puri. Gli altri importanti autori siciliani del secondo Novecento, non volendo scomodare ancor prima Pirandello, quali Sciascia, Bufalino, D’Arrigo, Bonaviri, Addamo, per quanto vengano considerati dalla critica essenzialmente dei narratori, ci hanno lasciato sillogi di versi, soprattutto gli ultimi due. Gli “Accordi” di Consolo, ritrovati nell’archivio milanese dello scrittore dalla moglie Caterina Pilenga e, come specificato nel libriccino, risalenti non si sa a quale data, sono stati amorevolmente raccolti a cura di Claudio Masetta Milone e Francesco Zuccarello. La plaquette, con impaginazione grafica di Giulia Tassinari, presenta in copertina un’incisione di Mario Avati.
Diego Conticello, sempre attento e puntuale nelle sue ricognizioni, recensendo per “Carteggi letterari – Critica e dintorni” il 16 marzo scorso la plaquette consoliana, “Una mancata armonia: Accordi”, sottolinea opportunamente che in verità un precedente poetico di Vincenzo Consolo, edito, esiste. Una sua lirica infatti è compresa nell’antologia curata dal sottoscritto “Poesia al Fondaco” (Pungitopo, 1992). S’intitola “Marina a Tindari”. Nel 1972 venne data alle stampe, presso il laboratorio d’arti grafiche di Piero De Marchi a Vercelli, un fascicolo, su carta Fabriano tirata a mano in cento esemplari numerate fuori commercio (una delle preziose rarità bibliografiche appunto in cui appaiono testi consoliani), contenente, oltre a un commento curato da Sergio Spadaro, quello che si riteneva fino ad allora l’unico testo poetico dello scrittore santagatese. La plaquette (posseggo la copia numero 78) s’intitola “Marina a Tindari”. Il singolare componimento, all’epoca scritto per una mostra del pittore Michele Spadaro, reca in calce la firma di Vincenzo Consolo e la data: 27 febbraio 1972.
In realtà. come ha poi chiarito lo stesso Sergio Spadaro, fu lui a mettere in versi il testo consoliano, anche se bisogna ammettere che dal fascicolo ciò non risulta con immediatezza. Occorre leggere il commento critico dello stesso Spadaro che accompagna la composizione lirica di Consolo per prenderne atto. Comunque, ripeto, la precisazione di Spadaro, ribadita pubblicamente in più occasioni, è giusta e va rispettata. Qui vorrei aggiungere ancora una cosa inedita. L’esemplare mio di “Marina a Tindari” reca addirittura due dediche autografe. La prima, dell’8 febbraio 1992, è del pittore per il quale Consolo scrisse il testo, Michele Spadaro, che fu pure mio amico. “Col permesso degli Autori, con simpatia, a Sergio Palumbo”. La seconda dedica, invece, riagganciandosi alla prima, è di Vincenzo Consolo. E Consolo, curiosamente, si attribuisce la “paternità” di quegli “antichi” versi. “Sant’Agata, 21 aprile 1992: Permetto, e come!, anche perché l’ispirazione di questi miei ‘antichi’ versi mi veniva da una mostra di Michele Spadaro, oltre che dalla memoria del Tindaro.
A Sergio Palumbo, Vincenzo Consolo”.
Una prospettiva, un’aura mai del tutto manifestata accompagna questi pochissimi e per questo ancora più preziosi versi di Vincenzo Consolo in una plaquette, Accordi, curata da Claudio Masetta Milone e stampata artigianalmente dall’editore santagatese Francesco Zuccarello – e addirittura rilegata a mano con filo di rete da pesca (cosa che allo scrittore di mare non sarebbe per niente dispiaciuta) – che continua a coltivare così anche la memoria paterna dello storico Stabilimento tipografico “Progresso” dove ebbero la fortuna di nascere le introvabili 60 copie delle 9 Liriche di Lucio Piccolo in quei “caratteri frusti e poco leggibili” di cui parlò Montale che fecero infuriare Zuccarello senior: «io questo Pontale lo denunzio!» (nota puntualmente registrata dal giovane Consolo nel racconto Il barone magico).
Alcune liriche di Vincenzo Consolo erano state rese pubbliche nel lontano 1992 all’interno della pregevole antologia curata da Sergio Palumbo e intitolata Poesia al Fondaco. Il cenacolo culturale della libreria Ospe, nella quale erano presenti anche poesie di Piccolo, Cattafi, Vann’Antò, Ballotta e molti altri, in quella che Palumbo definì «‘na fazzulittata d’amici».
Il punto lirico si massima intensità era tuttavia stato raggiunto da Consolo – a mio avviso – nel prologo-mantra di Lunaria, laddove cantava la notte palermitana sospesa tra sogno e memoria:
Origine del tutto,
fine d’ogni cosa,
eco, epifania dell’eterno,
grembo universale,
nicchia dell’Averno,
sosta pietosa, oblio,
loto che nutre e schiude
la semenza.
Nutta, nuce, melània,
vòto, ovo sospeso,
immòto.
Oh notte di Palermo,
Mammuzza bedda,
lingua dulcissima,
parola suavissima,
minna d’innocenti,
melassa di potenti,
tana di briganti,
tregua di furfanti,
smània monacale,
desìo virginale:
deh dura perdura,
dimora,
ristagna nella Conca,
non porgere il tuo cuore
alla lama crudele dell’Aurora.
Questo Accordi consta di soli quattro testi ma vi si ravvisano molti degli elementi che caratterizzano anche la prosa dell’autore nebroideo: una propensione alla nomenclatura precisa, quasi scientifica degli oggetti e degli ambiti richiamati; il gusto eclettico per la commistione etimologica e, non ultimo, il senso profondo per gli spazi memoriali di una civiltà contadina isolana ormai perduta, che ne fanno un gioiello da rileggere e, soprattutto, conservare gelosamente.
Le parole (non) sono pietre: la scrittura plurale di Vincenzo Consolo, fra sperimentalismo e meridionalismo Sperimentalismo ed eticità: l’(in)attualità di Consolo Può destare sorpresa, vista la loro estrema complessità linguistica, ma i libri di Vincenzo Consolo sono stati tradotti in molte lingue: francese, inglese, tedesco, olandese, polacco, portoghese, spagnolo, catalano. In spagnolo addirittura alcune opere sono state tradotte due volte: in castellano continentale e nello spagnolo dell’America Latina; lo stesso è accaduto per il portoghese, con una seconda traduzione in portoghese brasiliano. Il sorriso dell’ignoto marinaio 1 è stato tradotto persino in arabo. Consolo è insomma scrittore di indubbia caratura internazionale, conosciuto in molti paesi. Per avviare il discorso su di lui, mi appoggerò all’auctoritas di Cesare Segre, autore di Un profilo di Vincenzo Consolo che precede l’edizione dei Meridiani Mondadori da me curata: un profilo che è stata l’ultima fatica del grande critico e filologo saluzzese, scomparso nel 2014. Scrive Segre: « Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione » 2 , quella degli anni Trenta (Consolo è nato nel 1933 ed è scomparso pochi anni fa, nel 2012). Non voglio contraddire ciò che dice Segre, che ha certo ragione, ma dire che « Consolo è lo scrittore più grande della generazione degli anni Trenta » soltanto rischia di essere un po’ riduttivo. Diciamo allora, senza mezzi termini, che Consolo è, in assoluto, uno dei massimi scrittori italiani del Secondo Novecento. Proviamo a restare ancora un poco sulle generali. Consolo è anzitutto un autore di altissima qualità artistica. Il suo stile, di straordinario spessore, ha un’immediata riconoscibilità, un inconfondibile marchio di fabbrica, ed è dotato di una densità, complessità e originalità straordinarie. Spesso Consolo ha parlato di una lingua in qualche modo « inventata », e addirittura di una sua ferma intenzione di «non scrivere in italiano», di allontanarsi dalla piattezza della lingua comunemente parlata, mescidando lingue, registri e sottocodici, in un amalgama che si distende lungo una gamma amplissima di varianti diacroniche e diatopiche. Nel racconto autobiografico I linguaggi del bosco 3 , tratto da Le pietre di Pantalica, Consolo racconta di quando, a cinque anni, per leggeri problemi di salute – era infatti troppo magro e un po’ malaticcio – era stato portato per qualche mese in montagna, nella casa di famiglia al bosco della Miraglia. Qui egli vive un’amicizia, che è quasi una infantile ma serissima storia d’amore, con Amalia, una ragazzina dodicenne del posto: non si può certo parlare di amore in senso stretto, però i due si piacciono, e, per farla breve, sono sempre in giro insieme. Consolo racconta di come Amalia gli rivelasse il bosco, facendogli scoprire un mondo variegato e coloratissimo, fatto di cose, ma anche di parole: gli insegna come si chiamano gli alberi, gli arbusti, le erbe, i fiori, gli animali, e glielo insegna, fatto molto importante, non solo in siciliano, ma anche in sanfratellano, una lingua provenzale parlata in alcuni paesi del nord della Sicilia, * 1 V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino, Einaudi, 1976 (1a ed.); Milano, Mondadori, 1987 (2a ed., introduzione di C. Segre); ora in V. CONSOLO, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di G. TURCHETTA e uno scritto di C. SEGRE, Milano, Mondadori (I Meridiani), 2015, pp. 123-260. 2 C. SEGRE, Un profilo di Vincenzo Consolo, in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. XI. 3 V. CONSOLO, I linguaggi del bosco, in V. CONSOLO, Le pietre di Pantalica, Milano, Mondadori, 1988 (1a ed.); 1990 (2a ed. Oscar , a cura e con introduzione di G. TURCHETTA) ; ora in in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 606-612. 2 ** nella zona dei monti Nebrodi, subito a ridosso della costa di Sant’Agata di Militello, dove Consolo è nato. In molti casi, però, Amalia inventava le parole, costruendo un proprio personale linguaggio: Dietro i porci e le capre al pascolo, fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava. Ma Amalia poi conosceva altri linguaggi: quello sonoro, contratto, allitterato con cui parlava alle bestie; conosceva il sampieroto, col quale comunicava con la famiglia; conosceva il sanfratellano e il siciliano coi quali comunicava cogli estranei. In quella sua lingua d’invenzione, che s’era forgiata nelle lunghe ore del pascolo, nella solitudine del bosco, chiamava per esempio sossi i maiali, beli le capre, scipe le serpi, aleppi i cavalli, fràuni gli alberi, golli le ghiande, cici gli uccelli, fèibe le volpi, zimpi le lepri e i conigli, lammi le mucche…4 In questo modo Consolo delinea evidentemente una sorta di mise en abyme della propria poetica e della propria scrittura, mostrandoci appunto la costruzione di un linguaggio altro, analogo in qualche modo al suo: come Amalia dava alle cose “altri” nomi, anche Consolo costruisce una lingua che « chiama » sempre le cose in modo diverso da come le « chiamiamo » nella lingua di tutti i giorni. Prima di tornare a parlare del suo stile e della sua scrittura, voglio sottolineare che Consolo è molto importante anche perché ha un eccezionale spessore intellettuale. Si rileggano per esempio i saggi del suo volume Di qua dal faro 5 , che chiude il Meridiano. Il titolo evoca polemicamente un modo di dire dei Borboni, che con l’espressione «Di là dal faro» designavano appunto la Sicilia, vista dal continente, e più specificamente da Napoli, come la parte del loro regno collocata al di là del faro di Messina: una regione a cui guardavano evidentemente con sufficienza e distacco. La prospettiva «di qua dal faro» implica invece uno sguardo partecipe, ma al tempo stesso, mentre sottolinea la centralità della Sicilia, intende sottolineare anche la necessaria apertura verso il Mediterraneo tutto: la Sicilia, dunque, in qualche modo come mondo “altro” e però anche emblematica di un mondo più vasto. Si tratta di un libro di saggi dove si trovano anche tante “storie” straordinarie: come per esempio la ricostruzione della storia dell’estrazione dello zolfo, una grande vicenda economica e antropologica della storia italiana, o quella della pesca del tonno. Ma questo libro è solo una piccolissima parte della vasta produzione del Consolo saggista, poiché ci sono ancora decine di saggi che non sono stati mai raccolti in volume: nel prossimo futuro mi piacerebbe lavorare a un’edizione degli altri scritti saggistici di Consolo. Pensiamo per esempio ai numerosi saggi dedicati alla storia dell’arte, di cui era un grande conoscitore: a Antonello da Messina, a Caravaggio, ma anche a innumerevoli artisti contemporanei, per i quali in numerosi casi ha scritto prefazioni per i cataloghi delle loro mostre. Consolo, grande intellettuale, ha avuto anche un’attività giornalistica di straordinaria ampiezza e intensità: rimando per questo alla bibliografia da me * 4 V. CONSOLO, I linguaggi del bosco, cit., p. 610. Corsivi nel testo. 5 ID. Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 987-1260. 3 curata per il Meridiano 6 . ** E pensare che alcuni critici hanno scritto che Consolo era “pigro”: una insostenibile falsità! È vero solo, semmai, che egli ha scritto un numero relativamente limitato di libri propriamente di letteratura: ma questo è avvenuto proprio perché, quando scriveva « letteratura » impiegava anni a costruire quelle prodigiose macchine espressive, che chiameremo ora, assai provvisoriamente, i suoi “romanzi”. Ma mentre si dedicava alle scritture letterarie, egli scriveva anche pezzi giornalistici, a un ritmo che ha dell’incredibile. Nella bibliografia del Meridiano Mondadori ho cercato di fare un censimento (quasi) totale di tutti i suoi scritti, anche « militanti » e d’occasione: le bibliografie, si sa, non sono mai complete, ma spero di essermi avvicinato abbastanza all’ esaustività. Ma che cosa si vede da quest’attività? Si guardi per esempio al volumetto pubblicato da Sellerio, Esercizi di cronaca 7 , che raccoglie solo una selezione degli articoli pubblicati sul quotidiano di Palermo « L’Ora » . Possiamo cogliere già come Consolo fosse costantemente presente nella vita pubblica e nella vita politica, ma ben salvaguardando la sua specificità di intellettuale, secondo un modello che, a ben vedere, deriva proprio dalla cultura francese: pensiamo per esempio a Émile Zola o allo stesso Jean-Paul Sartre. Consolo era un intellettuale sempre pronto a parlare della realtà, del presente, della quotidianità. Vorrei fra l’altro segnalare che nel 2017 uscirà presso Bompiani, per le cure di Nicolò Messina, un volume che raccoglie un’ampia selezione degli scritti di Consolo sulla mafia: per un siciliano, certo, scrivere sulla mafia è un grande dovere morale. In questo grande scrittore c’è quindi sempre una straordinaria tensione etica, che è anche, dato senso, a una tensione politica. A suo modo Consolo ha sempre fatto politica, per quanto in maniera molto diversa e lontana da quella dai politici… Il suo eccezionale spessore artistico e intellettuale rende sempre più necessaria sua una più stabile e più percepibile «canonizzazione» – per usare un termine classico della storiografia e della teoria letteraria -, che gli consenta di diventare parte integrante e ben riconosciuta del senso comune della letteratura. Anche per questo era necessaria un’edizione come quella dei Meridiani Mondadori, che, oltre a raccogliere tutti i suoi libri principali, fosse corredata di ampie note e di apparati critici capaci di aiutare nella comprensione dei testi. Ma degli apparati parleremo più avanti. In prima approssimazione vorrei dire che Consolo è, un po’ paradossalmente, uno scrittore « attuale » anche e proprio per la sua « inattualità », e che questa sua (in)attualità ha a che vedere con la sua idea di letteratura. Consolo è ossessionato, da un lato, dalla necessità di dire la storia – perché per lui bisogna parlare della storia, del passato, del presente, della storia tutta -, ma dall’altro mostra anche la fine della fiducia nell’engagement, cioè proprio di un modo di essere intellettuale che Sartre ha reso poco meno che proverbiale. Anche questo è un paradosso, e apparentemente una contraddizione; ma nella scrittura di Consolo le contraddizioni sono vitali, e prendono avvio da un’irriducibile contraddizione di partenza: bisogna parlare, ma sapendo che le parole hanno limiti così severi che diventa quasi avere la tentazione di tacere. Proprio su questa irrisolvibile duplicità Consolo costruisce quella sua originalissima unione di sperimentalismo ed eticità che ne rappresenta la più acuta e flagrante specificità. Vi sono tanti scrittori sperimentali e tanti scrittori etici – per dirla in un modo un po’ rapido e sommario – ma è quasi impossibile, trovare una così stretta congiunzione tra due atteggiamenti * – 6 In V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 1481-1517. 7 V. CONSOLO, Esercizi di cronaca, a cura di S. GRASSIA, Prefazione di S. S. NIGRO, Palermo, Sellerio, 2013. 4 ** che non vanno molto d’accordo. Detto in modo ancora molto sommario: di solito lo sperimentatore sembra sempre proiettato soprattutto verso le forme, laddove lo scrittore etico, e tanto più lo scrittore « politico », verso i contenuti. Spesso Consolo è stato accusato di “formalismo”: un’accusa veramente ingiusta e poco fondata. Come si evince anche dal sottotitolo di questo intervento, Consolo è, da un lato, uno scrittore che attinge alla tradizione meridionalistica, cioè agli scrittori, ai saggisti e agli studiosi, a volte anche ai politici, che hanno scritto del Meridione d’Italia, della sua storia, della sua miseria, dell’oppressione, della distanza tra l’Italia del Sud e le altre parti più ricche d’Italia; ma al tempo stesso è uno scrittore molto vicino a quello che possiamo chiamare il “modernismo”, cioè, in tre parole, allo sperimentalismo non avanguardistico: questo è un altro suo tratto forte, che serve anche a ricordarci quanto egli sia stato, nonostante la convergenza di date (il suo romanzo d’esordio, La ferita dell’aprile, è del 1963), lontano dalla Neoavanguardia, con cui anzi polemizzava aspramente, in riconoscibile sintonia con le critiche ad essa rivolte da Pier Paolo Pasolini. Vi proporrò ora un esempio molto caratteristico della forza di Consolo, della sua originalità e della sua irriducibile, e produttiva, duplicità. Tutti abbiamo presente ciò che sta succedendo in Europa e nel mondo: dove migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone migrano, si spostano e spesso muoiono nel tentativo di emigrare. Moltissimi, tragicamente, soccombono nel canale di Sicilia e al largo delle coste dell’Egeo, uccisi “dall’acqua”. Ecco, Consolo, in tempi molto lontani, ha cominciato a cogliere questo movimento che oggi è sotto gli occhi di tutti e che ha preso proporzioni così ampie da diventare uno degli argomenti centrali in discussione nell’agenda politica dell’Unione Europea. Se ne parla tutti i giorni, e ci si scontra su questo: i muri, le quote, i soldi alla Turchia e ricatti di Erdogan, gli imbarazzi politici della Merkel. Consolo ha capito prestissimo la rilevanza assoluta del fenomeno incombente delle migrazioni nella tarda modernità, anche e proprio nell’area mediterranea: già negli anni Ottanta ha scritto infatti spesso di migranti che morivano in acqua, specie nord-africani. Ecco così che possiamo ben percepire il Consolo che guarda al presente, alla storia, al Meridione nostro e al Meridione del mondo, cogliendo con eccezionale profondità quello che sta succedendo, prima di tanti altri. Ma se guardiamo a questa sua percezione da un altro lato, ci accorgeremo che Consolo ha anche un’ossessione letteraria, che lo rincorre fin dai primissimi racconti (si veda Un sacco di magnolie, 19578 ) e poi ricorrerà per tutta la sua carriera di scrittore: l’immagine del morto in acqua e “per acqua”, non solo perché ha davanti una certa realtà, ma anche perché ha sempre in mente l’immagine della Death by water della Waste Land di Thomas Stearns Eliot, sezione IV, con la figura di Phlebas il fenicio, morto nell’affondamento della sua nave. L’ossessione letteraria (formale, se volete), fa insomma tutt’ uno con la profondità e la lucidità nello scandaglio del reale (dei “contenuti”): Consolo è anche questo, con un’intensità che ben pochi possono vantare. E ci sarebbe peraltro da insistere – la critica non l’ha fatto abbastanza – sulle radici propriamente modernistiche, in senso letterario, di Consolo, e quindi non solo su quelle meridionali, di cui si parla più spesso. Vorrei ricordare, ad esempio, che il suo primo romanzo, un * 8 Ora in V. CONSOLO, La mia isola è Las Vegas, a cura di N. MESSINA, Mondadori, Milano 2012, pp. 7-10. 5 ** romanzo di formazione, La ferita dell’aprile 9 , parla di un ragazzo che cresce in una scuola di preti del Nord della Sicilia, in un luogo mai nominato ma che assomiglia molto alla Barcellona Pozza di Gotto dove Consolo effettivamente frequentò le scuole medie, e in un mondo che parla una lingua che non gli appartiene. Il protagonista viene infatti da San Fratello, e ha come lingua madre il già citato sanfratellano: egli impara il dialetto siciliano, l’italiano e anche un po’ di francese, che studia a scuola. Intravediamo quindi una questione della lingua, in cui prende corpo una questione d’identità. Ma anche, e questo certo non è stato sottolineato abbastanza dalla critica, in La ferita dell’aprile è evidente ancora una volta il richiamo alla letteratura modernista: non solo nel vistoso richiamo ancora ad Eliot, al suo April is the cruellest month (celeberrimo attacco di The burial of the dead, sezione I di The Waste Land), attraverso la mediazione di Basilio Reale, ma anche e soprattutto a Joyce, il cui A portrait of the artist as a young men presenta non poche analogie tematiche e narrative, a cominciare proprio dal tema principale, l’educazione di un giovane in una scuola di preti. D’altra parte, già in questo primo Consolo c’è molto dialetto, e, per farla breve, non è per lui possibile rinunciare a nessuna delle due componenti, ovvero il Meridione e la grande letteratura modernista europea, o limitarne il peso. Resta inoltre tutta da studiare un’altra interessante questione, ovvero il ruolo di Pavese nella formazione di Consolo. Pavese, significativamente citato nell’ epigrafe del capitolo finale, poi espunto, di La ferita dell’aprile 10 , fa da mediatore, come traduttore e non solo, per molti scrittori italiani verso la letteratura di lingua inglese e americana. Sicuramente, ad esempio, ha un peso importante nell’avvicinare Consolo e tanti altri scrittori italiani a William Faulkner. Sono ancora tutti da approfondire i rapporti tra Faulkner e la letteratura italiana (ma anche di altre nazioni, a cominciare da quella Sudamericana: si pensi per esempio a quanto di Faulkner arriva a Garcia Marquez). Tutto ciò conferma l’eccezionalità della congiunzione, in Consolo, tra la dimensione meridionale costante, ossessiva, e una non meno costante, rigorosa prospettiva di sperimentalismo modernista, non avanguardistico. Fatte queste premesse, nel mio discorso seguirò quattro piccole tappe: la Sicilia; la poetica di Consolo – perché nella sua poetica risiedono le radici e le ragioni della sua grandezza -; alcuni aspetti formali della sua scrittura, delle strutture dei suoi testi e della lingua; infine spiegherò a grandi linee com’è articolata l’edizione delle sue opere da me curata per i Meridiani Mondadori. L’ossessione della Sicilia Consolo ha sempre in mente la Sicilia, ne parla sempre. Ma che Sicilia è? Ancora una volta la contraddizione è vitale: da un lato è una Sicilia costruita con un’attenzione documentaria, storica, e una cura di una severità rara: possiamo dire, da questo punto di vista, che Consolo è un vero storiografo. Frequentando per tanto tempo le sue carte ho potuto vedere bene in che modo arrivava ad ogni sua scrittura letteraria, raccogliendo documenti e materiali vari per anni. Per esempio nel Sorriso dell’ignoto marinaio (la cui costruzione ha richiesto tredici anni * 9 V. CONSOLO, La ferita dell’aprile, Milano, Mondadori, 1963 (1a ed.); Torino, Einaudi, 1977 (2a ed.); Milano, Mondadori 1989 (3a ed., con introduzione di G.C. Ferretti).; ora in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 3- 122. 10 Cfr. G. TURCHETTA, Da un luogo bellissimo e tremendo, introduzione a V. CONSOLO, L’opera completa, cit., p. XXXVIII, e Id., Note e notizie sui testi, ivi, p. 1293. 6 di lavoro) ** si parla della rivolta contadina di Alcàra Li Fusi, del maggio 1860, repressa poi nel sangue, ma a sua volta assai cruenta. Consolo l’ha ricostruita non solo studiando i libri di storia, ma andando in archivio, ritrovando tutte le carte di quella vicenda: tant’è vero che, per fare un esempio concreto, si è procurato tutti i certificati di morte di coloro che furono fucilati alla fine della prima parte del processo contro i rivoltosi. Alla fine del Sorriso dell’ignoto marinaio troviamo infatti proprio un certificato di morte, quello del bracciante Peppe Sirna: è anzitutto un documento autentico, ma certo ha anche la funzione simbolica di farci percepire il contrasto terribile fra la nuda povertà di un certificato di morte, che è quasi un nulla, e la vigorosa intensità della vita in corso, che abbiamo percepito quando, nel cap. V, la rappresentazione passa proprio attraverso la focalizzazione interna su Peppe Sirna. Consolo lavora così sempre: da un lato lavora come un vero storico, che mette insieme i documenti con un’attenzione ligia al rigore della ricostruzione; dall’altro, la Sicilia che egli rappresenta è sempre “altro”, nel senso che è una metafora dotata di una profonda forza di generalizzazione. Secondo me, si potrebbe dire della Sicilia di Consolo qualcosa di simile a ciò che è stato detto da Italo Calvino a proposito della Lucania rappresentata in Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, un libro peraltro fondamentale per la formazione di Consolo. Nel romanzo di Levi si parla della miseria, dell’oppressione dei più deboli e della rabbia contadina che a volte esplode in rivolte selvagge e sanguinose. Calvino sostiene che la Lucania di Carlo Levi è servita da modello per tanti altri Sud del mondo: non a caso questo romanzo è stato tradotto e letto in America Latina, in Asia, ed è diventato un libro di riferimento per altre lotte, per altre rivoluzioni 11 . Ma anche la Sicilia di Consolo è una grande rappresentazione del Sud del mondo, di ciò che succede attraverso i processi di modernizzazione che distruggono il mondo contadino e che vediamo all’opera in Italia ma anche in tante altre nazioni, soprattutto extra-europee. C’è un avvenimento che si ricorda poco e che apparentemente ha poco o nulla a che fare con la letteratura: nel 2008, per la prima volta, gli abitanti del mondo che vivono in città sono diventati più numerosi di quelli che vivono nelle campagne. Si tratta di un cambiamento enorme, epocale: in tutta la storia dell’uomo gli abitanti delle campagne sono sempre stati di più rispetto a quelli delle città, mentre ora assistiamo al fenomeno inverso. Consolo ci parla proprio di come i processi di modernizzazione stiano distruggendo molte civiltà e mettano a rischio la sopravvivenza del pianeta stesso, ma in lui non vi è, come spesso accade negli intellettuali, il pianto, la nostalgia, la lamentela su un mondo che era più bello, anche se egli costantemente critica senza nessuna indulgenza questa modernizzazione. Ricordiamo che l’idea di Consolo di scrivere mescolando tante lingue è anche l’idea di conservare, attraverso le parole, le culture, i punti di vista sul mondo, i modi di vita che sono dentro quelle parole. Nella scrittura di Consolo vi è una grande preoccupazione, oltre che storica, anche antropologica: egli desidera mostrare come cambia la cultura e, cogliendo i processi di cambiamento della Sicilia, coglie emblematicamente anche i cambiamenti del mondo tutto. Come molti altri intellettuali siciliani, Vincenzo Consolo ha rappresentato la Sicilia andando a vivere al Nord, e in particolare a Milano, come Verga, Vittorini, Quasimodo e tanti altri. Rappresentare la Sicilia da lontano ha significato anche vivere l’ossessione della Sicilia nei termini, consapevolmente contraddittori (un’altra contraddizione produttiva) di necessità * 11 I. CALVINO, La compresenza dei tempi (1967), in C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Einaudi, 1945, poi 2010, p. XI. 7 ** del ritorno, ma anche di impossibilità del ritorno. Significativamente, egli ha reinventato il mito di Ulisse alla sua maniera, parlandoci di un Ulisse che non ha più un’Itaca dove tornare, della quête ormai impossibile di una patria essenziale che non esiste più: questa impossibilità ha come causa evidente proprio i processi di modernizzazione. A questo allude, per esempio, una delle più celebri poesie di Giuseppe Ungaretti, Girovago: «in nessuna parte di terra / mi posso accasare». Consolo è ossessionato da questa sua patria che non è più quella di prima, che non è più patria: ma, una volta di più, parlando della Sicilia ci parla di noi tutti, di come ci spostiamo e di come non riusciamo più a ricostruire la nostra identità: perché ormai la nostra identità è un processo che si costruisce giorno per giorno, e non è più possibile affidarsi a un’appartenenza originaria. Parlando della Sicilia Consolo ci racconta una storia drammatica, anche perché molte volte i cambiamenti sono parsi offrire delle possibilità di rinnovamento, di liberazione, che poi però sono andati perdute, che hanno deluso. Nelle sue opere egli ha messo a fuoco tre momenti fondamentali di questa parabola storica in tre romanzi storici, che a posteriori ha collocato in una trilogia. Nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) parla del Risorgimento italiano, di quello che ha rappresentato, come grande speranza ma anche grande delusione, straordinaria occasione perduta. Il Risorgimento infatti ha rappresentato l’illusione di un grande cambiamento non solo politico, ma anche sociale ed economico: il potere, infatti, non si sposterà di molto rispetto al periodo precedente. In Nottetempo casa per casa (1992, Premio Strega 12) Consolo parla dei primi anni Venti e della nascita del fascismo, in un periodo caratterizzato dall’irrazionalità e dalla violenza, che hanno segnato non solo la storia italiana ma anche gran parte della storia europea. E nel romanzo Lo spasimo di Palermo (199813) ci racconta un terribile presente, quello dei primi anni Novanta del Novecento, delle stragi di mafia del 1992, ovvero il presente dalla mafia (non soltanto siciliana), della corruzione, della complicità fra potere politico e potere criminale, della necessità di denunciarlo e anche della difficoltà di uscire da una situazione sempre più drammatica. Al di qua e al di là della Storia, per Consolo la Sicilia è però anche una densa metafora dell’ambivalenza della vita. La Sicilia è infatti, lo sappiamo, una terra bellissima, dove, per farla breve, c’è tutto quello che si potrebbe desiderare per essere felici: straordinari monumenti, della Magna Grecia e della romanità, del Medioevo, del Barocco; una natura rigogliosa; e inoltre la Sicilia è pure un posto, perdonate la banalità, ma… perché non dirlo?, dove si mangia benissimo. In Sicilia c’è tutto, e quindi da un lato potrebbe essere il migliore dei mondi possibili; ma per altri versi è un mondo esemplarmente e tragicamente violento e corrotto, pieno di orrori, addirittura proverbiale, nel mondo intero, per la mafia, quella criminalità organizzata così importante che tutte le criminalità organizzate del mondo vengono chiamate «mafie», in analogia con quella siciliana. Pensiamo ora al romanzo Retablo 14 , in cui vi sono dei meravigliosi incontri tra amici, e nuove amicizie che nascono, e al tempo stesso assistiamo alla rappresentazione di un orrore senza fine: leggiamo per esempio la scena delle prostitute a * 12 V. CONSOLO, Nottetempo, casa per casa, Milano, Mondadori, 1992; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 647-755. 13 V. CONSOLO, Lo Spasimo di Palermo, Milano, Mondadori, 1992; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 873-975. 14 V. CONSOLO, Retablo, Palermo, Sellerio, 1987; ora a in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 365-475. 8 ** cui per punizione viene tagliato il naso 15. Una violenza atroce, quella delle mutilazioni come pena legale, che si praticava nel mondo passato, certo: ma anche che continua ad accadere ancora oggi in non poche parti del mondo… La Sicilia appare dunque in Consolo come un luogo in cui vi è tutto il male e tutto il bene, ed è di conseguenza anche per questo un’immagine della vita tutta, un luogo «bellissimo e tremendo», per riprendere un’espressione di Consolo stesso 16 . La Sicilia è metafora della vita, della sua bellezza straordinaria e della sua terribile violenza, che convivono; ma è importante aggiungere che Consolo non cade mai in un vizio tipico dei letterati – non solo italiani, ma di quelli italiani di sicuro: quello di mettere tutto in «un tempo senza tempo», di parlare della violenza e della tristezza come di qualcosa di eterno, di un destino senza fine. In questo Consolo è davvero radicalmente diverso dal Tomasi di Lampedusa del Gattopardo, che consapevolmente contestava: egli non dice mai che la storia non cambia, che «cambia tutto» perché «non cambi niente». Tutt’al contrario, Consolo ci ricorda in continuazione che i cambiamenti sono sempre storicamente determinati, che non c’è un male metafisico eterno. E che quindi noi dobbiamo continuare a combattere. Sempre. La poetica di Consolo Partendo da lontano potremmo farci una domanda molto difficile a cui darò, di necessità in modo rapido, varie risposte: «Che cos’è la letteratura?» O meglio: «Che cos’è questo discorso così particolare, che continuiamo a sentire come un discorso così fragile e allo stesso tempo così necessario?» Il grande sociologo francese Pierre Bordieu ha scritto un libro straordinario, Les règles de l’art (1992), per mostrare che cosa ha significato nella cultura dell’Occidente definire una specificità del «campo» della letteratura. Quello che noi sentiamo come «letteratura», infatti, lungi dall’essere una tipologia testuale ben delimitata da millenni, come di solito crediamo, nasce e si definisce nel secondo Ottocento, da un movimento che mette radici già nel Romanticismo. Qualcuno ha tentato di definire la letteratura secondo i suoi tratti linguistici: è stato il sogno degli Strutturalisti e, ancora prima, dei Formalisti russi, che hanno aspirato ad un’identificazione e a una definizione scientifica della specificità della letteratura; ma non ce l’hanno fatta, perché la letteratura può essere scritta in tutti i modi possibili, come mostra ad abundantiam il romanzo. C’è poi una definizione che potremmo chiamare di tipo retorico, quella di un grande teorico italiano, purtroppo scomparso abbastanza giovane, Franco Brioschi (1945-2005): egli mette a fuoco la letteratura come un linguaggio, o meglio delle pratiche discorsive legate ad una situazione comunicativa particolare, spiegando che «la letteratura è ciò che chiamiamo letteratura». A prima vista si tratta di una tautologia, ma in realtà non lo è, perché rinvia ad una specificità comunicativa, al fatto che i discorsi che noi identifichiamo con l’etichetta generica “letteratura” sono una varietà dei discorsi di “riuso” (un termine che Brioschi riprende dal grande filologo tedesco Heinrich Lausberg), che assume la sua qualità specifica, la sua letterarietà, in virtù di un contesto comunicativo, e storico, che gliela attribuisce. Il grande sociologo della letteratura francese Robert Escarpit, invece, pensava – in modo molto vicino alla definizione di Brioschi –che ciò che noi intendiamo come letteratura è * 15 Ivi, p. 400. 16 V. CONSOLO, Viaggio in Sicilia, in Id., Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 1999; in Id., L’opera completa, cit., p. 1224. 9 ** l’immagine sociale che una certa epoca si fa della letteratura: un’immagine che ci viene consegnata dai testi che definiscono il canone condiviso. Nel suo sempre illuminante Qu’est-ce que la littérature? (1947) Jean-Paul Sartre afferma che «écrire est dévoiler le monde, et en même temps le proposer comme un devoir à la générosité du lecteur». È un’immagine profondamente etica della letteratura, secondo la quale la letteratura non solo svela sempre qualcosa al lettore, ma anche gli impone, nel disvelamento, la necessità di tentare di cambiare quel mondo. E per Consolo, che cosa significa «letteratura»? Cerchiamo di capire dov’egli si collochi, perché in questa collocazione sta molto della sua grandezza. Per lui, da un lato la letteratura esiste solo come letteratura stricto sensu, nel senso che è importante distinguere tra le scritture giornalistiche e la scrittura d’invenzione, appunto la “letteratura”, ovvero fra gli articoli ch’egli stesso scrive quasi tutti i giorni e i libri costruiti attraverso una fatica di molti anni. Per Consolo la “letteratura” è il linguaggio spinto sino alle sue estreme possibilità. Si ha “letteratura” quando, cioè solo quando vi è una pressione sul linguaggio, una tensione, un’aspirazione violenta, che è al tempo stesso formale e morale. Consolo cerca sempre di dare al linguaggio il massimo di densità formale, attraverso quella che io chiamo la pluralizzazione del linguaggio, cioè la moltiplicazione, esibita, dei suoi vari strati, ai quali si sforza di attribuire sistematicamente una speciale densità linguistico-retorica una speciale intensità. Da un altro lato però questo linguaggio preme verso una verità, una capacità di dire il reale che, unita alla densità formale, vorrebbe far sì che le parole fossero dense, al limite, come le cose. Quindi da un lato Consolo vuole che le parole siano come cose, magari addirittura, per citare ancora una volta Carlo Levi, che le parole siano come pietre. En passant, Le parole sono pietre 17 è il libro di Carlo Levi sulla Sicilia: tre narrazioni di storie vere siciliane, che Consolo cita spesso e a cui fa spesso riferimento esplicito, o implicito, come nel titolo Le pietre di Pantalica. Da un lato quindi le parole vogliono essere come cose e, per renderle più dense, Consolo le “moltiplica”, le pluralizza in tanti modi; ma le parole non sono cose, non sono pietre: e quindi Consolo ci dice allo stesso tempo che la “letteratura”, perdonate la citazione molto mainstream, è per definizione una «mission impossible». È infatti necessario caricare le parole sino a farle diventare più che parole, azioni e cose: ma bisogna farlo sapendo che non è possibile… Proprio qui, a ben vedere, sta la grandezza di Consolo: cioè sia in questo sforzo di caricare all’estremo le parole, ma anche nella costante, coesistente consapevolezza dei limiti invalicabili della parola. Sono pochi gli scrittori che come Consolo hanno spinto verso la grande letteratura, che comunque resiste come ideale di riferimento, ma continuando al tempo stesso a rivelarci la miseria della letteratura stessa, anche della più alta. In Consolo è costante la coscienza e la problematizzazione dei limiti della parola. Proprio perché la parola ha dei limiti irriducibili, che vanno sottolineati, si genera nelle sue opere un discorso che è anche costantemente meta-linguistico, in cui le parole non sono solo quello che sono, ma diventano anche discorso su se stesse. In Consolo, percepibilmente, c’è inoltre anche una costante tensione meta-letteraria: la sua è una letteratura che si domanda sempre «che cos’è la letteratura?»; e la sua narrativa è meta-narrativa, e mette costantemente in discussione la narrazione e le sue strutture ingannevolmente continue. Il sorriso dell’ignoto 17 C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Torino, Einaudi, 1955; poi ivi, 1979, con prefazione di V. Consolo, e anche, col titolo Carlo Levi, in Di qua dal faro, cit., pp. 1227-1233. 10 marinaio, per esempio, è un romanzo ma anche un anti-romanzo, così come è un romanzo storico e un anti romanzo-storico: è quindi, se vogliamo, sia ciò che vuole essere sia ciò che sa di non poter essere. Mentre sta scrivendo un romanzo-storico, inoltre Consolo sa bene che il romanzo-storico è già di per sé una contestazione della Storia, come ben sapeva Alessandro Manzoni, nume tutelare indiscutibile dell’idea consoliana del romano storico-metaforico; ma intanto egli contesta il romanzo-storico che sta facendo insieme alla storiografia ch’esso mette in discussione: come dire che in ogni momento egli fa un certo tipo di discorso, ma intanto gli toglie subito il terreno da sotto i piedi, lo svuota, lo demistifica. Se la parola è sempre problematizzata, proprio mentre egli la spinge verso le sue massime capacità espressive, ciò accade anche perché Consolo ci dà la percezione profonda e costante del fatto che ogni discorso è detto da qualcuno, che la parola è radicata in un soggetto e che quindi non esistono discorsi che si fanno ‘da soli’, perché la lingua è sempre «in situazione», come ci ha insegnato Michail Bachtin, e dopo di lui la pragmatica e la linguistica degli Speech Acts. Non esiste una lingua astratta, perché le parole derivano da persone che le hanno dette o scritte, e questo significa che le parole sono dotate di una capacità di verità legata, e non è una contraddizione, proprio al fatto che derivano da qualcuno che le utilizza in relazione ad una specifica esperienza di vita. In altri termini, in ogni parola c’è un vissuto che si afferma: e quindi per Consolo anche il più cattivo, il più stupido e il più infame degli uomini ci dirà delle verità perché ci parlerà di qualcosa che ha davvero vissuto; e la sua verità farà tutt’uno con i limiti invalicabili della sua parzialità, della sua non-verità. Nel terzo capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, per esempio, c’è la rappresentazione dall’interno di un personaggio terribile, Frate Nunzio: un reazionario, un violento, un maniaco sessuale, che appartiene alla Chiesa ma al tempo stesso ne fa di tutti i colori, arrivando addirittura ad uccidere una ragazza e a stuprarla dopo morta… Nelle narrazioni, in genere, come ha spiegato Wayne Booth, raramente si rappresenta il punto di vista dei personaggi spregevoli, perché quando si presenta il punto di vista di qualcuno ci si avvicina alle sue ragioni, alle sue motivazioni. Ma Consolo ci mostra anche il più cattivo, il più infame, ci mostra che è possibile metterlo in scena, perché così svela e offre alla nostra comprensione una realtà esistenziale. L’ossessione di radicare il discorso dentro qualcuno che parla è anche un modo di mettere in scena la concreta verità nell’esistenza. Da un altro lato però, proprio perché le parole sono sempre di qualcuno, Consolo ci mostra che le parole sono sempre una mistificazione; qui sta l’altro lato della mission impossibile consoliana: «devo dire la verità, ma se la verità è sempre di qualcuno, non potrà mai essere una verità assoluta, e quindi devo anche criticarla, demistificarla». La complessità del discorso che Consolo fa sulla parola è grandissima, come possiamo vedere bene nel capitolo VI del Sorriso dell’ignoto marinaio, in cui troviamo la voce del protagonista principale, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, figura storica realmente esistita, che si dedicava ad attività intellettuali nobili, disinteressate, e forse anche inutili, o comunque di utilità assai limitata: egli era infatti un grande studioso di lumache, un malacologo, e la lumaca diventa simbolo portante del libro, come figura di inutile complicazione, di mescolanza di geometria e caos, come equivalente del labirinto. Mandralisca si trova a confrontarsi con la violenza della Storia ed è chiamato in qualche modo ad impegnarsi, ma non riesce a farlo sino in fondo o, quanto meno, coglie i limiti della propria azione. Consolo rappresenta il barone mentre mette in discussione il proprio discorso, che si presenta anche e proprio come 11 discorso di un intellettuale, che non riesce ad incidere sulla realtà storica. Consolo fa così quindi chiaramente una mise en abyme, mettendo in discussione anche il proprio discorso di intellettuale e di scrittore. Al tempo stesso egli imita lo stile di un erudito dell’Ottocento, uno stile un po’ retorico, pomposo, complicato, con una sintassi e un lessico complessi e un po’ involuti. Il passo a cui faccio riferimento è una lettera (un testo di fiction che ha l’apparenza di un genere di non fiction) in cui il barone Mandralisca, di Cefalù, che è anche colui che nella realtà storica ha acquistato il Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, conosciuto anche come Il ritratto dell’ignoto marinaio, scrive a Giovanni Interdonato, a sua volta personaggio storico reale e militante molto attivo nella vicenda Risorgimentale. Mandralisca scrive dopo la rivolta di Alcàra Li Fusi, dove la rabbia dei contadini era esplosa al punto da portarli a massacrare tutti i “notabili” che si erano trovati sulla loro strada: i padroni, le autorità locali, i benestanti, i preti, ma anche i bambini… Siamo di fronte quindi a una violenza terribile, da un lato giustificata da secoli di oppressione, ma dall’altro assurda e cieca, come succede spesso in queste rivolte (come accadeva nelle jacquéries, ovvero nella contro-rivolta contadina e realista degli anni della Rivoluzione francese). Ecco le parole di Consolo, che imita uno stile in cui non crede e ci fa vedere, anche nello stile, la necessità di demistificare: Nelle more del giudizio che dovrà emettere codesta Corte nei riguardi degli imputati, villani e pastori , scansati alla fucilazione cui soggiacquero tredici d’essi in Patti, dietro sentenza di quella Commissione Speciale, il dì 18 dell’agosto scorso, quali in catene e quali latitanti, questa memoria non suoni invito istigativo a far pendere i piatti della bilancia della Giustizia sacra da una parte o dall’altra, ma sia intesa quale mezzo conoscitivo indipendente, obiettivo e franco, di fatti commessi da taluni che hanno la disgrazia di non possedere (oltre a tutto il resto) il mezzo del narrare, a voce o con la penna, com’io che scrivo, o Voi, Interdonato, o gli accusatori o contro parte o giudici d’essi imputati abbiamo il privilegio. E cos’è stata la Storia sin qui, egregio amico? Una scrittura continua di privilegiati. A codesta riflessione sono giunto dopo d’aver assistito a’ noti fatti. Or io invoco l’Esser Supremo, l’Intelletto o la Ragione o Chiunque Altro ci sovrasti, a che la mente non vacilli o s’offuschi e mi regga la memoria nel narrare que’ fatti per come sono andati. E narrar li vorrei siccome narrati li averìa un di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti, non dico don Ignazio Cozzo, che già apparteneva alla classe de’ civili e quindi sapiente nel dire e nel vergare, ma d’uno zappatore analfabeta come Peppe Sirna inteso Papa, come il più giovine e meno malizioso, ché troppe sono, e saranno, le arringhe, le memorie, le scritte su gazzette e libelli che pendono dalla parte contraria agli imputati: sarà possibile, amico, sarà possibile questo scarto di voce e di persona? No, no! Ché per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizzi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo. Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci son le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta. Poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata, dire le ragioni nella parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare. S’aggiunga ch’oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima… E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia, riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiamo veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioja e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno interamente riempiti dalle cose. 12 Che vale, allora, amico, lo scrivere e il parlare? La cosa più sensata che noi si possa fare è quella di gettar via le chine, i calamari, le penne d’oca, sotterrarle, smetter le chiacchiere, finirla d’ingannarci e d’ingannare con le scorze e con le bave di chiocciole e lumache, limaccia, babbalùci, fango che si maschera d’argento, bianca luce, esseri attorcigliati, spiraliformi, viti senza fine, nuvole coriacee, riccioli barocchi, viscidumi e sputi, strie untuose… » 18 . Ci sono coloro che hanno il diritto di prendere la parola e coloro che non riescono a raccontare la propria storia: e la letteratura sarà quindi anche un modo di dare voce a chi non può parlare. Ma è importante notare il lato critico dei personaggi consoliani, ossia mettere in discussione il loro discorso proprio nel momento stesso in cui lo pronunciano. Appare anche, sì, il sogno di dire le cose come stanno, ma è un sogno impossibile, perché il barone di Mandralisca parlerà fatalmente come un barone, anche se barone progressista, “di sinistra”. Ricordiamo che Peppe Sirna, detto Papa, è un bracciante agricolo, analfabeta, di cui, come accennato, si rappresenta nel cap. v il punto di vista, contrapposto poi alla sua morte, e di cui Consolo inserisce nell’ultima Appendice il vero certificato di morte. Significativamente, «impostura» è un termine che ricorre spesso in un’opera di Leonardo Sciascia a cui Consolo guarda sovente, e soprattutto per Il sorriso: Il consiglio d’Egitto. Le parole non sono solo parole, dice anche chiaramente Mandralisca, che da questo piunto di vista è un porta-parola dell’autore, ma rinviano ad una situazione culturale, ad un modo di sentire e ad emozioni che sono culturalmente e socialmente determinate. Il barone Mandralisca sogna un giorno in cui «le parole siano intieramente riempite dalle cose»: ma Consolo ci fa intuire che questo è un sogno impossibile». Allo stesso tempo, bisognerebbe scongiurare il rischio di smettere di scrivere, di parlare. In Consolo c’è insomma sempre una tensione verso l’assoluto della parola che confina con l’afasia: qualcosa che, mutatis mutandis, lo avvicina al rischio dell’afasia e della pagina bianca in Mallarmé, o alla tentazione di buttar via la penna, di smettere di scrivere, perché non ce n’è più bisogno o comunque non serve a niente, come ha fatto a Rimbaud, che smise di scrivere poesie, andando a fare il mercante di cannoni. Può parere strano questo accostamento per il “meridionalista” Consolo: eppure egli fa stare insieme, fa convivere l’impegno e la tentazione del silenzio, proprio perché mette in discussione il senso delle parole, di qualsiasi parola. Per lui è quindi necessario essere consapevoli dei limiti della parola e però anche combattere contro questi limiti. E come? Proprio con la strategia di moltiplicazione, di pluralizzazione: cui è dedicata la terza parte del mio discorso. La parola plurale È possibile combattere i limiti della parola o, meglio, provare a combatterli – perché questi limiti comunque resteranno -, ma bisogna spingerli oltre se stessi, in un certo senso «lanciare il cuore oltre l’ostacolo»: lo lanceremo, non ce la faremo, ma è necessario, bisogna farlo, altrimenti non ci sarà letteratura. Consolo si pone il problema dei limiti della parola, facendoci capire che esso è intimamente legato alla questione degli intellettuali. In lui c’è infatti, non a caso, una presenza molto profonda del pensiero di Gramsci, un autore che ha posto costantemente la «questione degli intellettuali», ovvero del loro ruolo storico, specie in rapporto alle peculiarità della storia italiana, e alla necessità di abbandonare la posizione * 18 Cfr. V. CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio (cap. VI), in V. CONSOLO, L’opera completa, cit., pp. 215- 217. 13 ** dell’intellettuale tradizionale, orgoglioso di far parte di una casta, per diventare intellettuale organico, partecipe di un progetto politico. Ma torniamo alla strategia consoliana di pluralizzazione, cercando di capire la complessità di Consolo, che opera a tanti livelli, non solo al livello stilistico. Per esempio a livello di genere, poiché i generi nei suoi testi (salvo forse in La ferita dell’aprile) sono sempre rimescolati. Lunaria, ad esempio, è un libro che parla nuovamente della Sicilia, in particolare di Palermo, di una Palermo settecentesca un po’ storica e un po’ inventata, di una Palermo bellissima e corrotta. Quest’ambivalenza, lo sappiamo, vale per tutta la Sicilia: e poi anche per la vita tutta, «bellissima e terribile» allo stesso tempo. Lunaria è la storia fantasiosa di un momento drammatico, in cui cade sulla terra un pezzo della luna. La luna, ammalatasi a causa della corruzione del mondo, perde un pezzo, che cade in una remota contrada, lontana dalla corte di Palermo, dove è ambientata inizialmente la rappresentazione: una contrada dove vivono dei contadini che portano in sé ancora un’autenticità emotiva, sentimentale; quindi non a caso la luna sceglie di cadere proprio lì: è un segnale proprio dell’intima verità dei suoi abitanti, dell’autenticità di questi contadini, in qualche modo riconosciuta da un evento cosmico emblematico. Il viceré, allo stesso tempo uomo di potere e intellettuale problematico, porterà la propria corte proprio lì dov’è caduto il pezzo di luna, che verrà raccolto e riappiccicato al suo posto. La contrada verrà allora chiamata Lunaria. Ma ecco invece un’immagine della bellissima e corrotta Palermo: Ecco il più bel promontorio del mondo, corona di Ruggeri e di Guglielmi, ecco la grotta ove s’adagia l’Odalisca santa, la vergine romita, avida d’omaggi, d’allusioni, di maschili moventi sfigurati, sospiri, ardori, ceri esorbitanti… Declina, si scioglie quella roccia all’Arenella, all’Acquasanta: ed ecco il feudo senza barone, il regno di nessuno, la piana che palpita di scaglie, mobile strada per le Spagne, per le Afriche, per oltre le Colonne, la porta delle Nuove Indie… Da dove vengono, dove vanno tanti uccelli bianchi, tanti fiocchi, tanti vascelli del sogno? Che predano, quali speranze portano? (Esce dal suo nascondiglio e si sposta davanti al terzo balcone.) E qui è il corpo grande, la maschera della giovine disfatta, la rossa, la palmosa, la bugiarda… Ah la processione di cupole smaglianti, giare andaluse, lozas doradas, le facciate di zuccheri, cannelle, mandorlate, la pampillónia dei marmi nelle chiese, e i monasteri d’ombre, bocce ove crescono lieviti malsani, e i conventi turpi, Ostérii di supplizi, cani ch’alimentano roghi disumani, vampate di barbarie… E i superbi palazzi de’ superbi, in gara eterna col Nostro, con Noi, con gli Dèi… E i giardini, le fontane, le peschière, impensabili ville sopra i Colli, alla Bagarìa, pietrificazioni d’orgogli, d’incubi, follie, sonni, echi snaturati di Cube, di Zise, di Favàre… Ah città bambina, ah vanità crudele, ah fermento cieco, serpaio, covo di peste, di vaiolo, esplosione di furie, ribellioni! Ah carnezzeria feroce, stazzo di lupi, tana di sciacalli!… Ignorancia, altaneria, locùra, tumba de verdad, cuna de matanza!» 19 La struttura del testo è teatrale, con le dramatis personae, le scene e le didascalie; ma, al tempo stesso, siamo davanti a una fiaba, che però è anche un testo molto poetico, in gran parte scritto in versi20. Quindi Lunaria è teatrale e non è teatrale, è una fiaba, ma allude anche alla storia, è poesia e allo stesso tempo ha una dimensione saggistica, che la rende affine a un conte philosophique. E qui gli esempi potrebbero continuare. Si pensi a un libro come L’ulivo e l’olivastro: è un saggio o una narrazione? A che genere appartiene? I testi di Consolo sono quindi caratterizzati quasi sempre da un’alta complessità a livello di genere, da un addensamento, una pluralizzazione anche sul piano macro-strutturale. Vi è poi, ma lo sapevamo già, * 19 V. CONSOLO, Lunaria, Torino, Einaudi, 1985; ora in Id., L’opera completa, cit., pp. 276-277. 20 Recentemente Etta Scollo, una cantante siciliana che vive e lavora in Germania, ha musicato i testi in versi di Lunaria, facendone un disco bellissimo: Nella gioia luminosa dell’inganno, Jazzhouse, 2013. La Scollo si occupa di repertorio siciliano classico, come quello di Rosa Balistreri, per esempio. 14 una grande complessità a livello di lingua, tanto che si è parlato di «plurilinguismo» per la lingua di Consolo; ma Cesare Segre obiettava giustamente che «plurilinguismo» – come ci ha spiegato anzitutto Bachtin, che Segre riprende – è anche «polifonia», cioè pluralità di prospettive, e dunque non si tratta soltanto di molte lingue, ma di diverse prospettive sul mondo. Per questo «raccogliere le parole», come fa Consolo, significa cercare di preservare la «biodiversità» del linguaggio, la sua varietà, e dunque quella delle culture che lo impiegano. In Consolo vi è una moltiplicazione anche a livello di tono: di solito si è insistito sul lato tragico di Consolo, che si fa più unilaterale nelle ultime opere, quando il suo linguaggio e la sua prospettiva hanno iniziato a farsi più cupi. Però mi sembra importante sottolineare quanto c’è di ironico e persino di comico in Consolo e quanto la sua rappresentazione mescoli continuamente l’alto e il basso: come per esempio nel personaggio di Vito Parlagreco, un contadino che parla solo dialetto, a dispetto del suo cognome…. Vito fa una riflessione d’intonazione leopardiana, e si chiede: «Ma che siamo noi? Che siamo?» si chiedeva Vito Parlagreco, masticando pane e pecorino con il pepe. «Formicole che s’ammazzan di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo.» 21 Una riflessione altissima, metafisica ed esistenziale, fatta da un personaggio di modestissima condizione e di ancor più modesta caratura intellettuale, mentre mangia pane e pecorino: ma il suo formaggio e la sua condizione di persona ignorante, di bracciante, si mescolano visibilmente con le sue nobili interrogazioni, cambiandone profondamente il tono. Ancora: in Consolo vi è una costante mescolanza di poesia e di prosa. Qui la critica ha lavorato molto ed è stato notato spesso che i testi di Consolo possono essere riscritti mettendo in molti luoghi gli ‘a capo’ e quindi creando dei versi, che sono già presenti nella ritmica, anche ‘per l’occhio’. Spesso, significativamente, si hanno delle sequenze di endecasillabi e settenari, che certo alludono proprio al modello della canzone leopardiana. Ma questi versi, comunque, non sono propriamente versi, tranne in Lunaria o in qualche altro luogo, perché a rigore restano comunque prosa. In questo senso penso che Consolo condivida l’aspirazione a fare una prosa narrativa che sia completamente poesia, aspirazione che era di Vittorini, per certi versi un maestro per Consolo: anche se, absit iniuria verbis, la qualità della scrittura di Consolo è a mio avviso superiore a quella di Vittorini. Ancora: spesso Consolo fa entrare in conflitto, in calcolata contraddizione, diverse voci. Citerò qui soltanto Retablo, in cui si raccontano e s’intrecciano più storie d’amore. Retablo è un termine spagnolo che indica una «pala d’altare»: e il libro è costruito proprio come una pala d’altare, con un capitolo breve all’inizio e uno breve di analoghe dimensioni alla fine, e con in mezzo una parte molto più ampia, proprio a simulare la proporzione fra le parti di un polittico. Nel primo capitolo, il primo “quadro” del retablo, vi è il racconto di Isidoro, disperato, che rimpiange la sua amata Rosalia; alla fine troveremo il racconto speculare di Rosalia, che ci rivela come, anche se si prostituiva, ha sempre amato solo Isidoro. Deve lasciarlo, ma lo ama. Al centro vi è un altro romanzo d’amore, assai più ampio, che ha come protagonista Fabrizio Clerici, che è anche il narratore principale. Abbiamo quindi tre protagonisti e tre narratori, che si alternano e alludono anche a una struttura pittorica: ma Fabrizio Clerici era anche un pittore vero, contemporaneo e amico di Consolo, di cui nell’edizione Sellerio sono 21 V. CONSOLO, Filosofiana, in Le pietre di Pantalica, cit., p. 541. 15 anche riprodotti dei quadri. Bisogna ammettere che un difetto serio del Meridiano è quello di non aver potuto aggiungere le immagini e le copertine di tutti i libri, che erano parte integrante dell’operazione artistica, e che inoltre ribadiscono l’interesse di Consolo per la storia dell’arte e la pittura in particolare, che si fanno spesso parte integrante della sua scrittura. Ma c’è ancora un’ulteriore complicazione, perché in realtà Fabrizio Clerici dà costantemente la parola ad altri personaggi che, a loro volta, raccontano delle lunghe storie e diventano, come direbbe Genette, narrateurs de deuxième dégré, quindi ancora altre voci. Inoltre, se c’è la Rosalia numero uno, ovvero quella dell’ultimo capitolo, l’amata di Fra’ Isidoro – un frate che poi deve allontanarsi dal convento -, c’è anche un’altra Rosalia, Rosalia Granata, che pure, nel capitolo Confessione 22 , racconta una storia in cui si parla di amori controversi con preti e che viene presentata come se fosse fisicamente scritta sul retro, sul verso delle pagine che Fabrizio Clerici sta scrivendo. Quindi c’è una pagina scritta in carattere tondo e una, dietro, scritta in carattere corsivo, come un secondo racconto, perché Fabrizio dice che sta usando una carta che è già stata usata: dove si assiste a uno sfondamento del testo nella realtà, a un’uscita nella materialità della scrittura e della costituzione fisica del testo, che è poi un’altra maniera di cercar di andare oltre i confini della parola, di segnalarceli e, allo tempo stesso, di vincerli. La mescolanza tra scrittura e pittura è un’altra forma di pluralizzazione, di sfondamento, come per esempio il riferimento costante nel Sorriso dell’ignoto marinaio al Ritratto d’ignoto di Antonello da Messina, a cui assomiglia in modo incredibile uno dei personaggi, Giovanni Interdonato, di cui conosciamo l’aspetto fisico, appunto perché scopriremo, assieme a Mandralisca, che è identico al ritratto di Antonello da Messina. Consolo ci sta così spingendo, con una sorta di “violenza” semiotica, al di fuori del testo, che pure resta fatalmente un testo. E potrei citare ancora come ne Lo spasimo di Palermo si parli del cinema, mettendo in gioco un altro codice semiotico. Consolo continua quindi a mescolare i vari codici e a fare questo gioco teatrale in molte sue opere, come in La ferita dell’aprile o in Retablo, in cui si parla di spettacoli teatrali e se ne mostra la messa in scena, ricordando intanto, con una prospettiva barocca, molto spagnola ma non meno siciliana, che la vita è un teatro, e forse addirittura che «la vita è sogno». Il richiamo a Calderón de la Barca e a Cervantes è esplicito: infatti in Retablo viene messo in scena un intermezzo (un entremés) di Cervantes, mentre il resoconto narrativo dice esplcitamente che la vita in qualche modo è recitazione e illusione. L’edizione di Consolo nei Meridiani In questa edizione dei Meridiani ho cercato di dare il più possibile la parola a Vincenzo Consolo e negli apparati ho usato tutto quello che ho potuto trovare di sue dichiarazioni. L’ho anche intervistato e interrogato per circa tre mesi, nell’autunno del 2011: e qui vorrei ricordare con grande affetto e intensità la sua generosità e il suo coraggio, poiché persino negli ultimi mesi di vita continuava a rispondere senza sosta alle mie sollecitazioni, ai miei dubbi. Anche per me è stato difficile, e non nascondo che quel lavoro mi dava una grande angoscia: ma Consolo era anche certo contento che stessimo lavorando insieme all’edizione completa delle sue opere. Sono stati mesi affascinanti e terribili, durante i quali sino a poche settimane prima della morte egli continuava a riflettere sul suo lavoro e a spiegarlo; e anche, voglio sottolinearlo, sino a pochi giorni prima della morte continuava a scherzare. 22 V. CONSOLO, Retablo, cit., pp. 416-422, alle pagine pari. 16 Certo, negli ultimi anni si era incupito; ma Consolo certo non è, come ho già sottolineato prima, solo uno scrittore che sa adoperare esclusivamente il tragico: egli è stato un uomo molto spiritoso e vivace, e anche la sua scrittura, a ben guardaare, ce lo mostra così. Così ho potuto dargli la parola anche attraverso le molte risposte che mi ha dato direttamente, soprattutto domande su singole parole. In seguito ho raccolto le numerose lettere che ha scritto ai traduttori, rispondendo alle loro infinite domande: perché Consolo, certo, è difficile e i traduttori avevano tanti dubbi. Gli scrivevano moltissimo e Consolo rispondeva con lettere che vanno dalle due alle venti pagine circa, in cui rispondeva una per una a tutte le loro domande, di nuovo con cortesia e generosità straordinarie. Nel Meridiano si trova spesso la sigla LT, che significa «lettere ai traduttori», senza però l’indicazione ogni volta del nome del traduttore a cui Consolo aveva risposto, perché sarebbe stata una scelta editorialmente troppo macchinosa. Però ho raccolto tutte queste sue risposte, in modo che la stragrande maggioranza delle questioni poste dal testo al lettore è di fatto chiarita dalle sue stesse parole, in modo da non lasciare dubbi. Ho poi costruito, con la Cronologia, una biografia di Consolo, che prima mancava totalmente: la sua vita forse non ha grandissimi eventi, ma ci sono tantissime cose interessanti. Qui vorrei anzitutto ricordare che Consolo si è laureato in Giurisprudenza. È comprensibile che abbia scelto questo corso di laurea, certo, perché in Meridione, dove non ci sono grandi industrie, moltissimi studiano per ottenere una laurea in Giurisprudenza, così da fare poi l’avvocato o il magistrato o il notaio. Ma per Consolo è stato un po’ diverso, forse un po’ più complicato: perché il padre, il nonno e il bisnonno di Consolo, da tre o quattro generazioni, erano commercianti di alimentari. Essi raccoglievano un eccellente olio di Sicilia, che veniva usato per ‘tagliare’ e integrare la scarsa produzione di un olio ligure di una grande azienda, quella dei Fratelli Costa, che fingevano di vendere olio di Liguria. La Sicilia, quindi, come spesso accadeva, era sfruttata da quelli del Nord, che ne traevano lauti guadagni. La famiglia Consolo raccoglieva dunque l’olio che andava alla grande azienda Costa, che peraltro esiste ancora. Però ad un certo punto i Consolo hanno pensato di creare la loro l’azienda invece di far guadagnare tanti soldi a industriali liguri: e a quel punto hanno deciso che il settimo dei nove figli di Calogero, Vincenzo, avrebbe dovuto seguire studi universitari di chimica. Ma questi voleva studiare Lettere e poiché la famiglia, soprattutto gli zii, avrebbero voluto impedirgliele, perché li consideravano «studi da femmine», alla fine Giurisprudenza viene scelta come una mediazione: Vincenzo avrebbe dovuto diventare l’esperto legale dell’azienda di famiglia. Mi permetterò ora di raccontarvi ancora qualche aneddoto divertente della vita di Consolo e dei suoi familiari. Ecco il primo: a Sant’Agata di Militello, cittadina del Nord nella provincia di Messina, in realtà un po’ più vicina a Palermo che a Messina, davanti alle isole Eolie, i Consolo avevano un negozio di alimentari, dove vendevano olio, granaglie varie e pasta, che allora veniva venduta sfusa. C’era la pasta di prima, di seconda e di terza qualità, quest’ultima comprata dai più poveri. Al negozio dei Consolo si recava sempre il barone Lucio Piccolo, poeta, diventato molto noto per un articolo su di lui scritto da Eugenio Montale, anche se la sua notorietà sarebbe poi stata superata di molto da suo cugino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. I Piccolo erano molto ricchi, avevano una proprietà straordinaria e anche una grande, bellissima villa a Capo d’Orlando, Villa Vina: proprietà che poi gli furono praticamente rubate da amministratori disonesti. Il barone Piccolo andava a far la spesa dai Consolo, o 17 meglio faceva andare il suo autista, Peppino, poiché lui non usciva mai dall’auto imponente con cui si faceva portare in giro, una Lancia Lambda, forse perché noblesse oblige… o forse anche perché c’era la puzza di pesce che lo disturbava – dice Consolo stesso. Peppino comprava cinquanta chili di pasta di seconda qualità, e il nonno di Consolo continuava a domandarsi perché il barone Piccolo, così ricco, acquistasse pasta di seconda qualità; era scandalizzato, perché gli sembravano troppo tirchi. Un giorno chiese a Peppino il perché e questi rispose: «Ma no, quella è per i cani…». Secondo scandalo: allora i baroni Piccolo erano troppo spendaccioni…, e sprecavano pasta comunque buona che sarebbe stata più opportunamente da dare ai cristiani! Un altro aneddoto divertente della biografia di Consolo e della Cronologia riguarda l’acquisto del primo televisore. I Consolo non erano ricchi, però stavano bene in quanto commercianti e quindi acquistarono presto un televisore, e, come accadeva allora, invitavano spesso amici e parenti a guardare i programmi RAI. Una sera la famiglia era riunita intorno alla tavola e tutti mangiavano con la televisione accesa: tranne la zia Rosina, di anni novanta, che non mangia quasi nulla e se ne resta tutta triste ed intimidita in disparte. Alla fine della serata esclama: «Ma che vergogna! Mangiare davanti a tanti estranei… ». Un altro aneddoto. Un giorno Vincenzo e sua moglie Caterina – che voglio ringraziare infinitamente per l’ospitalità e la generosità, perché per tre anni e mezzo mi ha accolto con affetto e disponibilità impareggiabili – hanno finalmente ospite a cena Leonardo Sciascia, che era il migliore amico di Vincenzo. Caterina vuole fare bella figura, e, essendo originaria della zona di Bergamo, in più residente a Milano, decide di preparare una cena alla milanese – risotto con lo zafferano e cotoletta alla milanese -. Sciascia mangia tutto con appetito e gusto e alla fine sentenzia: «Però se non mangio la pasta mi sembra di non aver mangiato…! ». Per tornare agli apparati dell’edizione, e per terminare, nella parte finale del Meridiano c’è anche un Glossario, ovvero una raccolta lemmatica delle parole ricorrenti che possono creare delle incomprensioni; anche in questo caso una buona parte delle parole mi è stata illustrata e chiarita dallo stesso Consolo. Le Note e notizie sui testi, che sono frutto di un lavoro davvero molto lungo e approfondito, forniscono una ricostruzione ampia e sistematica della storia di tutti i testi del Meridiano. Voglio segnalare, fra le altre, la ricostruzione della storia redazionale ed editoriale di La ferita dell’aprile, il libro d’esordio, attraverso cui Consolo assume piena consapevolezza di essere davvero uno scrittore e combatte contro chi vuole fargli cambiare troppo, snaturando il suo stile, così laboriosamente costruito: è una battaglia importante e decisiva, di cui ora ho ricostruito tutto il percorso, attraverso le varianti e attraverso le lettere. Un’altra sezione delle Note e notizie sui testi che ci offre dati finora non conosciuti è quella in cui mostro la genesi di Le pietre di Pantalica, un libro nato come reportage storico-giornalistico sul processo ai frati estorsori di Mazzarino, per una collana sui processi celebri diretta da Giulio Bollati e Corrado Stajano, e poi diventato in corso d’opera un progetto di romanzo-storico sulla cittadina di Mazzarino: ma anche questo progetto è stato nuovamente riorganizzato, anche se è stato in parte compiuto, e ancora se ne percepiscono le linee portanti nella struttura del libro così come lo leggiamo ora, specie nelle prime due parti. L’edizione Mondadori è poi corredata da una vastissima Bibliografia. In conclusione, vorrei comunque sempre ricordare, financo con insistenza, come in Consolo troviamo una continua tensione verso la vita, per il gusto del vivere: forse non è così banale ricordare quante volte egli parli di cibi, di dolci; per me, curatore, è stato fra l’altro un grande e non sempre facile lavoro trovare tutte le spiegazioni dei diversi dolci, dei vari formaggi, dei materiali per preparare e cucinare. Sono convinto che tutto ciò ha a che fare con una percezione sensuale, piena di godimento della vita. Consolo è uno scrittore problematico, drammatico, ma dobbiamo anche sentire in lui tutta questa vitalità, questa voglia di farci sentire appunto che questo luogo che è il mondo è tremendo, ma è anche bellissimo. Vorrei finalmente davvero chiudere, leggendo l’inizio di Retablo, in cui il fraticello Isidoro parla della sua Rosalia. Due brevi commenti linguistico-letterari prima di leggere il testo. Consolo costruisce un attacco di romanzo in cui c’è un nome di donna a partire dal quale produce vari giochi linguistici: si tratta di una reinvenzione, non certo solo una riscrittura, dell’attacco di Lolita in Nabokov, dove c’è tutta una serie di giochi linguistici sul nome di Lolita. Qui Consolo gioca su Rosalia, che è Rosa, il fiore, e Lia, che cioè “lega” (dal verbo “liare” che significa “legare”); ma va aggiunto che Rosalia è la Santa Patrona di Palermo e di Rosalia si parla ricordando non solo lei come santa, ma anche la cripta, la grotta di Santa Rosalia, a Palermo, dove c’è una teca di cristallo con una sua statua molto venerata. Di questa grotta parla a lungo Goethe nel suo Viaggio in Italia, cui Consolo fa chiaramente riferimento: il che ci ricorda anche che Retablo è anche un libro di viaggio, che riprende la grande tradizione della letteratura di viaggio Sette-Ottocentesca: Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi! con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei? T’ho cercata per vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai Colli a la Marina, per piazze per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare. Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo pieno, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo… Rosalia, diavola, magàra, cassariota, dove t’ha portata, dove, a chi t’ha venduta quella ceraola, quella vecchia bagascia di tua madre? * 23 23 V. CONSOLO, Oratorio, (incipit) di Retablo, cit., pp. 369-370. 19 ** Riflessioni e domande del pubblico : Laura Toppan : Nello Spasimo di Palermo il personaggio di Gioacchino afferma : « invidiava i poeti, e maggiormente il veneto, rinchiuso nella solitudine di una Pieve saccheggiata, tu possa del Montello questo mondo, le tue egloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vibrava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante, la tua seconda scoscesa, questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sponda del suo Mediterraneo devastato”. « Il veneto » è Andrea Zanzotto, rinchiuso nella sua Pieve di Soligo, attento ai cambiamenti epocali e alla trasformazione del paesaggio, come Consolo che, da Milano, è attento alle trasformazioni della ‘sua’ Sicilia. È interessante notare che Consolo si definiva un « archeologo della vita » e Zanzotto « un botanico di grammatiche ». In queste espressioni possiamo ritrovare uno stesso modo di concepire il lavoro letterario. E lo sperimentalismo linguistico e di generi che Consolo attua in prosa, Zanzotto lo raggiunge in poesia. L’affinità tra i due grandi autori la si riscontra anche nella loro apertura europea e sarebbe interessante forse andare più a fondo di questa consonanza. Giorgia Bongiorno : D : Un altro « meridonialista europeo » è Gesualdo Bufalino. Che tipo di rapporto o di contrasto c’era tra Consolo e Bufalino? R : Non si amavano molto, non c’era molta simpatia. Consolo sentiva Bufalino come uno scrittore un po’ troppo professore. C’è un apprezzamento abbastanza tiepido, anche se c’è una foto che gira molto con loro due e Sciascia che ridono: +una foto scattata in occasione della collaborazione per il volumetto Trittico. Complessivamente era un autore che Consolo non riusciva ad amare; ma non penso che vi fosse competizione. Anche Bufalino è certo testimone della forza della tradizione siciliana: qualcuno ha detto che è la regione d’Italia che ha prodotto la miglior letteratura del Novecento; altri hanno invece detto « sì, ma la Sicilia non è Italia; la Sicilia è la Sicilia». Secondo me è vero e allo stesso tempo non è vero: pensiamo per esempio al titolo di una raccolta di racconti di Consolo, La mia isola è Las Vegas, dove il racconto eponimo racconta di un siciliano mafioso che dopo la seconda Guerra Mondiale spera che gli americani si prendano la Sicilia e ne facciano la 51esima stella degli Stati Uniti, così si potrebbe farne finalmente una specie di immensa bisca, come Las Vegas. Consolo era consapevole dell’importanza di molti scrittori siciliani e quindi anche di Bufalino, ma lo avvertiva come troppo «letterato», nel senso che in lui non avvertiva così tanta pressione verso la vita. Secondo me è importante insistere su questo punto per capire sino in fondo Consolo. Egli ha avuto infatti una vita intellettuale ricchissima, anche dal punto di vista dei contatti e delle amicizie, come per esempio José Saramago o Milan Kundera. Sébastien Ortoleva (studente) : D : Dal punto di vista dei rapporti con altri autori, com’era il rapporto che Consolo aveva con Sciascia ? R : Consolo ha sempre avuto un’ammirazione grandissima per Sciascia, sia come intellettuale che come persona, però ha sempre pensato che il modello di letteratura di Sciascia non fosse quello ‘giusto’, perché troppo comunicativo, più vicino alla saggistica, più denotativo, e che invece fosse necessario fare ‘altra’ letteratura. Dal punto di vista della pratica letteraria quindi 20 Consolo ha sempre contestato il suo grande amico, in modo esplicito, ma sempre ‘amoroso’, perché l’affetto per lui è sempre rimasto grande. L’ha difeso infatti anche nei momenti più difficili, per esempio all’indomani dell’uscita dell’articolo I professionisti dell’anti-mafia (gennaio 1987 sul « Corriere della Sera ») – un articolo molto problematico di cui si discute ancora oggi – in cui Sciascia parla male dei magistrati anti-mafia, del pool di Borsellino e di Falcone, e soprattutto di quest’ultimo. Sciascia parlava, in modo un po’ sprezzante, di coloro che hanno fatto carriera occupandosi di mafia… Sciascia fu difeso da Consolo, ma altri non furono d’accordo e in effetti bisogna dire che l’articolo fece fare dei passi indietro al lavoro del pool. Questo dimostra che Consolo difendeva Sciascia anche nei momenti in cui sarebbe stato meglio non difenderlo, però lo contestava anche, ovvero contestava quel modello di letteratura troppo comunicativa, rappresentata appunto da Sciascia e anche da Calvino. Per Consolo infatti questo tipo di letteratura non riusciva a «caricare» abbastanza il linguaggio come lui voleva fare, tanto che Il sorriso dell’ignoto marinaio, il suo secondo romanzo, il suo massimo libro, forse il suo capolavoro, di eccezionale complessità, comincia proprio con una polemica con Sciascia. Si ricorda il quadro di Antonello da Messina e un episodio che Consolo reinventa ma che in qualche modo è storicamente vero, ossia quello di una ragazza che ha sfregiato con un punteruolo un po’ di questo sorriso (e questo danno è ancora visibile). Forse l’ha fatto, come racconta Consolo, perché era innamorata di colui che assomigliava proprio al ritratto dell’ignoto, cioè Giovanni Interdonato, e forse perché il suo amato si faceva vedere troppo poco, dato che era sempre a combattere per il Risorgimento e l’unificazione d’Italia. Ma lo stesso Consolo ha affermato che quell’attacco al quadro di Antonello – quadro di cui parla anche Sciascia in un famoso saggio, L’ordine delle somiglianze, e che viene citato all’inizio del Sorriso – e in quel sorriso sembra poter riconoscere qualcuno che conosciamo, anche se si tratta di una persona che non sappiamo chi sia… Consolo cita Sciascia, ma poi, quando vuole citare il ritratto sfregiato di cui parla Sciascia, fa un’ironia sul Sorriso che è nel ritratto dell’Ignoto, polemizzando proprio con Sciascia. Ancora una volta Consolo ha scelto, programmaticamente, una via lontana da quella di Sciascia, e l’ha fatto anche quando lo cita, poiché nel Sorriso ci sono molti rinvii a Il Consiglio d’Egitto e a Morte dell’inquisitore. Consolo non voleva una letteratura tutta razionale, e l’idea di sfregiare il quadro per amore corrispondeva alla vitalità, alla passione che Consolo in Sciascia non trovava poi tanto. Il progetto di stile di Consolo è, se non opposto, molto lontano quindi da quello di Sciascia. Nell’Archivio ho ritrovato tutte la corrispondenza relativa all’edizione del primo romanzo: essa mostra un processo molto importante di questo giovane scrittore che sta acquisendo la consapevolezza di essere uno scrittore e combatte per difendere la propria opera. Consolo si rivolge anzitutto a Basilio Reale, un importante intellettuale – a sua volta poeta e soprattutto psicanalista – cha è stato colui che ha portato il manoscritto alla Mondadori, e attraverso questo carteggio e anche altre lettere – per esempio gli interventi dei lettori editoriali – si può ricostruire tutto l’iter della pubblicazione. Ma c’è ancora molto da fare, perché per il momento mi sono limitato a fare solo una sintesi per spiegare lo stato di questi dattiloscritti: possediamo non soltanto il dattiloscritto della prima versione, che possiamo confrontare con quella finale, ma anche due dattiloscritti uguali: in uno ci sono le note dell’amico Basilio Reale che suggeriva cambiamenti, nell’altro ci sono sia gli interventi suggeriti da Raffaele Crovi, editor alla Mondadori, sia le controcorrezioni di Consolo. Questi a volte cambiava in base alle richieste dell’editore, a volte effettuava delle scelte ancor più radicali. C’è quindi il dattiloscritto, ci sono le varianti interlineari, quelle a margine e quella sul verso dei fogli dattiloscritti, dove Consolo riscrive il pezzo a penna. Attraverso questi documenti preziosi si può vedere com’egli costruisse piano piano la misura ritmica, perché alle volte scrive un testo quasi identico: copia alcune righe ma cambia qualche pezzetto, cerca la misura giusta: è lo spettacolo del “farsi in diretta” della scrittura. 21 Inoltre nelle carte delle Pietre di Pantalica ho trovato un racconto totalmente inedito, di cui anche Caterina Consolo ignorava l’esistenza: un racconto che è un segno del progetto cambiato e di una parte di questo progetto, un racconto che c’è nell’apparato del Meridiano e si intitola L’emigrante. C’è un certo Vito – probabilmente il Vito Parlagreco di cui parlavamo prima – che sta emigrando a Milano. Poi forse Consolo ha ritenuto che spingere anche verso l’emigrazione lo allontanava troppo da quel territorio siciliano in cui doveva restare la rappresentazione. Però questo ritrovamento è davvero molto interessante: c’è un racconto, non dimenticato ma messo da parte, dell’emigrante che arriva a Milano e vede dal suo punto di vista soggettivo la città.
Conférence du Professeur Gianni TURCHETTA de l’Université Statale de Milan qui s’est tenue à Nancy, le 8 Mars 2016 sous invitation et organisation de Laura Toppan, MCF en Italien (transcription de la conférence enregistrée et du dialogue avec le public par Laura Toppan)
Pubblicate una raccolta di poesie dello scrittore premio Strega nel 1992
25 FEB 2016
Un Vincenzo Consolo inedito. Dagli archivi dello scrittore autore del «Sorriso dell’ignoto marinaio», si disvela un aspetto inusitato di poeta. «Accordi» è la raccolta di poesie pubblicata dall’editore Zuccarello. Il volume è stato presentato nelle sale del castello Gallego di Sant’Agata di Militello. Un luogo e un editore, paradigmatici nell’opera di Vincenzo Consolo. Il castello Gallego fa da sfondo al romanzo che ha reso celebre lo scrittore siciliano, «Il sorriso dell’ignoto marinaio». La sede dell’editore Zuccarello è il luogo del riscontro del giovane Consolo e del poeta Lucio Piccolo. Come raccontato tra le pagine de «Le pietre di Pantalica». Le poesie erano custodite in un cassetto dello scrittoio di Consolo nella sua casa milanese. Una serie di liriche che Consolo, aveva curiosamente assemblato in maniera artigianale. Un’insolita serie di fogli battuti con la sua storica Olivetti. Un Consolo insolito, privato, intimo. Un tratto poetico che lo scrittore premio Strega nel 1992, aveva consegnato alla discrezione di un cassetto segreto. Il libro è stato realizzato con una fattura attenta. Carta prodotta con un antico processo artigianale e cucita con un bizzarro filo da pescatore. In copertina, un’incisione del pittore Mario Avati. La grafica è stata realizzata da Giulia Tassinari. Il volume è stato stampato in cento esemplari numerati. Prevista una successiva ristampa commerciale della raccolta. Il libro è stato curato da Claudio Masetta Milone e da Francesco Zuccarello.
La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo
Cultura | 23 febbraio 2016
Un Vincenzo Consolo inedito. Dagli archivi dello scrittore autore del «Sorriso dell’ignoto marinaio», si disvela un aspetto inusitato di poeta. «Accordi» è la raccolta di poesie pubblicata dall’editore Zuccarello. Il volume è stato presentato nelle sale del castello Gallego di Sant’Agata di Militello. Un luogo e un editore, paradigmatici nell’opera di Vincenzo Consolo. Il castello Gallego fa da sfondo al romanzo che ha reso celebre lo scrittore siciliano «Il sorriso dell’ignoto marinaio». La sede dell’editore Zuccarello è il luogo del riscontro del giovane Consolo e del poeta Lucio Piccolo. Come raccontato tra le pagine de «Le pietre di Pantalica». Le poesie erano custodite in un cassetto dello scrittoio di Consolo nella sua casa milanese. Una serie di liriche che Consolo, aveva curiosamente assemblato in maniera artigianale. Un’insolita serie di fogli battuti con la sua storica Olivetti. Un Consolo insolito, privato, intimo. Un tratto poetico che lo scrittore premio Strega nel 1992, aveva consegnato alla discrezione di un cassetto segreto. Il libro è stato realizzato con una fattura attenta. Carta prodotta con un antico processo artigianale e cucita con un bizzarro filo da pescatore. In copertina, un’incisione del pittore Mario Avati. La grafica è stata realizzata da Giulia Tassinari. Il volume è stato stampato in cento esemplari numerati. Prevista una successiva ristampa commerciale della raccolta. Il libro è stato curato da Claudio Masetta Milone e da Francesco Zuccarello.
Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia “Progresso”. Entra, seguito dall’autista don Peppino. «Ecco qua» dice Piccolo. «Queste sono le poesie» e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri (vecchi libri che scovavo qua e là sulle bancarelle), ne lesse i titoli: Almanacco perpetuo di Rutilio Benincasa, Guida del monte Pellegrino, Patti e la storia del suo vescovado. Rise, guardò me, s’accorse che ero come contrariato, e si scusò. «Gli almanacchi, le guide, le storie locali, ah, sono pieni d’insospettabile poesia. Senta quest’attacco» aggiunse, aprendo la Guida del monte Pellegrino alla prima pagina; e si mise a leggere, con quella sua voce chiara: «Quando, mio caro lettore, ti trovi in quella grande pianura, alla quale i moderni diedero il nome di piazza del Campo, e che comunemente, da antichissimo tempo, si chiama Falde, gira lo sguardo a te attorno, e per quanto la tua vista si estende, di fronte, fino alle grandi prigioni, ed a sinistra fino al mare…». (Avrei ritrovato poi lo stesso attacco, la stessa cadenza, in Guida per salire al monte, inclusa in Plumelia: «Così prendi il cammino del monte: quando non / sia giornata che tiri tramontana ai naviganti, / ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola / e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento…».) Ero rimasto lì incantato, quando Lucio Piccolo sorrise ancora, mi tese la mano e: «Ho un’intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa» e sparì con Don Peppino dietro.
Venne stampato quel libretto che fu inviato a Montale per il premio San Pellegrino. E quando Mondadori pubblicò i Canti barocchi con quella prefazione di Montale che diceva: «Il libricino, intitolato: 9 liriche, stampato da una sola parte del foglio e impresso in caratteri frusti e poco leggibili, non aveva dedica ma conteneva una lettera d’accompagnamento. Proveniente da Capo d’Orlando (Messina), i tipi erano quelli dello stabilimento “Progresso”, quel «caratteri frusti e poco leggibili» fu un affronto per Don Ciccino Zuccarello. «Io lo denunzio questo Pontale, lo denunzio!» si mise a urlare.
Alla casa dei Piccolo si arrivava per una ripida stradetta a giravolte, bordata di piante, iris, ortensie, che finiva in un grande spiazzo dove era la porta d’ingresso su una breve rampa di scale. Oltrepassata questa, ci si trovava subito nell’unica sala che per tanti anni conobbi. Era una grande sala dalle pareti nude, senza intonaco, e il pavimento di cotto. Sulla destra, vicino a una finestra, tre poltrone di broccato e velluto controtagliato dai braccioli consumati attorno a un tavolinetto. Al muro, un monetario siciliano di ebano e avorio; più in là, un grande tavolo quadrangolare con le gambe a viticchio e con sopra panciuti vasi Ming blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina, draghi, galli e galline di Jacobpetit. Di fronte, sulla sinistra, una grande vetrina con dentro preziose ceramiche ispano-sicule, di Deruta, di Faenza. Negli angoli, colonne con sopra mezzibusti di antenati. Sopra le porte che si aprivano verso il resto della casa, medaglioni del. Màlvica, bassorilievi in terracotta incorniciati da festoni di fiori e di frutta a imitazione dei Della Robbia. E ancora, per tutte le pareti, ritratti a olio di antenati o quadretti a ricamo o fatti delle monache coi fili di capelli. Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta, che sedeva con le spalle alla finestra sempre chiusa, anche d’estate (la luce filtrava fioca nella sala attraverso le liste della persiana). Lì, due, tre volte la settimana si faceva « conversazione», ch’era un lungo monologo di quell’uomo che «aveva letto tous les livres», come scrisse Montale, ch’era un pozzo di conoscenza, di memoria, di sottigliezza, di ironia. Le interruzioni erano solo quando nella stanza irrompeva Puck, la sua cagnetta, un grifoncino di Bruxelles, brutta e spelacchiata, ringhiosa. «Vieni qua, vieni qua dal tuo padrone, scimmietta, cosa vuoi, ah, cosa vuoi?» la vezzeggiava facendosela saltare sulle gambe. O quando a tin certo punto entrava Rosa, la cameriera, col vassoio del caffè o delle granite. Ogni tanto appariva anche il fratello, il barone Casimiro, bello fresco rasato ed elegante come dovesse uscire per qualche festa. Era invece, come mi rivelò una volta in gran confidenza, ch’egli dormiva di giorno e vegliava di notte, e nel tardo pomeriggio, quando s’alzava, faceva toilette perché più tardi sarebbe cominciata la sua grande avventura dell’attesa notturna delle apparenze, delle materializzazioni degli spiriti. Il barone era un cultore di metapsichica e studiava trattati e leggeva riviste come «Luci e ombre». Mi spiegò una sua teoria sulle materializzazioni, non solo di uomini, ma anche di cani., di gatti, mi disse che a quelle presenze, per lo sforzo nel materializzarsi, veniva una gran sete ed era per questo che per tutta la casa, negli angoli, sotto i tavoli, faceva disporre ciotole piene d’acqua.
Di tanto in tanto arrivavano a villa Vina (Vena, in italiano: vena d’acqua, vena poetica?) in visita i «continentali». Arrivò Piovene, Quasimodo, la Cederna e tanti e tanti altri, letterati e giornalisti.
L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una domenica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano. Sciascia arrivò da Caltanissetta al mio paese e assieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali».
Avevo deciso di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Milano. «Non parta, non vada via » mi diceva Piccolo. «A Milano, con tutti gli altri, rischia di annullarsi. La lontananza, l’isolamento danno piùn fascino, suscitano interesse e curiosità». Non potevo rispondergli che non ero ricco, che dovevo guadagnarmi la vita. Non potevo dirgli, soprattutto, che lì in Sicilia mi sembrava tutto finito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia.
Partii in gennaio. Quando tornai, in estate, andai ancora a trovare Piccolo. «Cosa dicono di me a Milano, cosa dicono?» mi chiese subito. Niente, non dicevano niente. Piccolo, dopo la curiosità suscitata al suo esordio, e dopo essere stato trascinato nel ciclone del Gattopardo, era bell’e dimenticato: altri miti, altre scoperte andava fabbricando per più rapidi consumi l’industria culturale.
Lo vidi l’ultima volta un anno dopo. Trascrivo da un mio diario: «Entro in casa Piccolo a Capo d’Orlando nel momento in cui la televisione trasmette l’arrivo sulla Terra dell’Apollo 8. Il fratello del poeta mi chiama e mi fa accomodare davanti al televisore. Il poeta non viene. È sera. Nelle grandi, stanze della villa, poche e fioche luci negli angoli e la luce lattiginosa del video sulle nostre facce. Fuori, il vento e la pioggia sferzano le campagne. Il fragore delle onde penetra la casa attraverso le persiane. Di quel mare di Capo d’Orlando che qualche giorno prima ha devastato il litorale. Vicina, la fiumara di Zappulla in piena trascina macigni, sbatte contro i piloni del ponte della ferrovia già incrinato. I treni che giungono dal Continente carichi di emigrati si fermano e quindi attraversano il ponte lentissimamente. La voce dello speaker alla televisione, man mano che passano i minuti, è sempre più forte, ansiosa, concitata. Piccolo è sprofondato nella poltrona, silenzioso e immobile, in un’altra stanza piena di penombra. Non ha visto gli astronauti finalmente giunti a bordo dello Yorktown, non ha sentito la voce di Frank Borman che saluta il mondo. Lo raggiungo. “Per la Teoria delle ombre” , mi dice “la mia prossima raccolta, ho preso spunto dagli studi di prospettiva che ho fatto nella mia giovinezza…”».
Una mattino di maggio mi trovavo in assemblea nell’azienda dove lavoravo. Era un’assemblea accesa, concitata, tumultuosa: c’era in ballo il rinnovo del contratto di lavoro. I sindacalisti litigavano con quelli del Cub, il comitato unitario di base. Fu lì che mi vennero a chiamare e mi dissero di telefonare in Sicilia. Così appresi della morte di Lucio Piccolo, ch’era avvenuta durante la notte. Provai dolore, ma dolore anche per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne andavano. Mi tornavano in mente i suoi versi, e questi soprattutto: «…spento il rigore dei versetti a poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco». Ma i versi, gli infiammati versi di Piccolo, tornato in assemblea, furono fugati, sopraffatti dalle voci, dalle grida, da quel linguaggio per me incomprensibile.
***
Lo sentivo sempre favoleggiare d’una Naso Illustrata per Carlo Incudine, in cui gran parte aveva il santo medievale Conone Navacita. Mi bastavano allora quei tre nomi, Naso, Incudine, Conone, disposti su tre piani, in una luce d’oro sospesa di meriggio mediterraneo, per restare rapito a contemplare un sibillino quadro surreale. Mi favoleggiava del libro Lucio Piccolo, e di grandi che per quelle contrade eran passati lasciando impronte, segni poetici e regali. Come Ruggero il Normanno che, dopo vittoriosa battaglia contro i saraceni, lascia per voto al convento di Fragalà il suo stendardo. O Federico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi («biondo era e bello e di gentile aspetto »). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?». Ironizzava poi su quel santo dal geometrico nome, Cono, Conone, la cui particolarità era quella di restar sempre in estasi sospeso (si può immaginare un santo più metafisico?) o su un altro secentesco, frate Perlongo, fatto beato per l’avversione dimostrata in tutta la sua vita verso le donne, al punto che da bambino si rifiutava di baciare la madre per non commettere peccato. E sorrideva Piccolo, sorrideva malizioso, schermendo le labbra con quel suo gesto di portarsi il pollice sotto il naso e carezzarsi i baffi.
Quel libro introvabile mi restò per molti anni misterioso, come quell’imprecisato Libro del Cinquecento da cui traevano divinazioni, profezie i maghi e le maghe di queste parti. Fino a quando il neoproduttivismo e la tecnologia non m’hanno portato finalmente tra le mani la ristampa anastatica del libro. E vi ho letto allora ch’era Naso una città fondata da popolazioni greche venute da Naxos e chiamata Naxida, da cui Naso, che quindi niente aveva a che fare con l’organo che sta al centro del volto, rincagnato o ciranesco. Che fu poi, quella città, dal medioevo fino al ’700 dominio di conti. Dei quali l’ultimo, e più dispotico, un certo Sandoval, spodestato, per amor di giustizia, da un barone Piccolo. Così l’Incudine: «Ed ecco tin bel dì fars’innanzi un giovane: vestiva un mantello azzurro alla spagnola, calzone nero stretto a ginocchio da sfarzose frange di argento, coturni dalle fibbie d’oro, e toccava i ventiquattro anni.
Ricchezze godea di poderi estesissimi, perocché con l’ala dell’occhio, meno poche interruzioni, ci poteva dominare liberamente quasi dal Timeto al Fitalia, il più bel tratto dell’agro nassense, dicendo: è mio! Nobili i natali e per le armi e per scienza di leggi, allegoricamente significati con araldica bizzarria dallo stemma di famiglia; nobilissime le tradizioni. Egli era Gaetano Piccolo». Un antenato di Lucio Piccolo di Calanovella. E tra il Time-to e il Fitalia, nel più bel tratto dell’agro nassense, v’era, di proprietà dei Piccolo, Capo d’Orlando, il paese e il territorio sulla costa tirrenica della Sicilia. Su una pianura di fitti limoni, un cupo tappeto verde trapuntato di frutti d’oro, sovrastato dalle snelle, altissime palme con la cascata a fontana del fogliame, scandito dai filari di cipressi spartivento. In mezzo, invisibili, le casupole d’arenaria e calce dei contadini. Una pianura stretta tra i colli, folti d’ulivi grigioargento, e il mare. Di fronte, galleggianti sulla linea dell’orizzonte, le isole Eolie. Nei giorni in cui il vento fuga i veli dei vapori, si scorgono le casette bianche di Lipari e Salina, il faro di Vulcano.
Il paese è adagiato sotto il promontorio, il Capo, un perfetto cono a picco sopra il mare, un ammasso d’arenaria sopra cui crescono, a macchia, il ficodindia, il lentischio, l’acanto, il selino, l’euforbia, il cappero. In cima al Capo, i ruderi d’un castello e un santuario della Madonna dei pescatori pieno d’ancore, timoni, ex-voto di caicchi, gozzi, velieri in balìa di fortunali. Il Capo prende il nome da Orlando, il più «furioso » dei paladini di Carlo Magno. Doppiato il Capo, v’è la cala di San Gregorio, il villaggio dove di notte sbarcavano i pirati, «Terrore a la riva: la furia dei ratti trae fra gli strilli la gonna come bandiera / e il corsaro dagli occhi di nera porcellana, / da la barba serpentine: / la scimitarra stride con l’arma paesana… ».
Qui abitava zia Genoveffa, la vecchia fattucchiera the tagliava col coltello dal manico bianco le trombe marine, toglieva il malocchio con fumigazioni di rametti d’alloro, erica, rosmarino. Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena, Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai primordi, alle origini della civiltà. Ma qui s’intrecciano ancora e si confondono mito e storia, natura e civilizzazione, poesia e realtà, simboli e metafore, vita e morte: qui gli uomini venivano sepolti dentro giaroni di terracotta, accovacciati in posizione fetale, come dentro l’utero materno.
Sopra un poggio che domina la pianura di Capo d’Orlando, il Tìndari e Cefalù ai due poli dell’orizzonte, era la villa dei baroni Piccolo di Calanovella. Erano tornati nel 1930 su queste loro terre. Il padre era fuggito con una ballerina, se n’era andato a vivere a San Remo. La moglie, una principessa Tasca Filangeri di Cutò, sorella della madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, offesa nel suo orgoglio, aveva detto addio alla vita mondana di Palermo, dominata allora dai Florio, alle estati al castello di Santa Margherita Belice, la Donnafugata de Il Gattopardo, e s’era ritirata qui, coi suoi tre figli, Casimiro, Lucio e Giovanna, in esilio volontario, imponendo a sé stessa e ai figli, una vita austera, monacale.
Morta la madre, i tre fratelli, quasi ubbidendo a un segreto patto, a un giuramento, continuano fino alla morte la loro vita solitaria. In questa villa bianca, tra palme, pini, glicini, buganvillee, stipata di mobili, arazzi, porcellane antiche, lontani dal mondo, distaccati d’ogni preoccupazione d’ordine pratico (pensavano i tre amministratori alla conduzione delle terre; l’autista, il cuoco, le cameriere a quella della casa). Uniche frequentazioni, qualche amico o parente che ogni tanto veniva dalla Capitale a fare visita. Più frequente quella di Tomasi di Lampedusa che qui a lunghi periodi soggiornava, e qui aveva concepito e scritto gran parte del suo romanzo (il nome dato a don Fabrizio, lo prende senz’altro dall’isola che ogni mattino si vedeva apparire di fronte, celeste e trasparente all’orizzonte, affacciandosi al terrazzo-giardino pieno di piante esotiche, di ninfee galleggianti nelle vasche).
I tre fratelli, in questo buon ritiro, coltivavano le loro segrete passioni. Calsimiro il primogenito, l’occultismo, la fotografia e la pittura. La baronessa Giovanna la passione della floricultura. Sperimentava innesti, inseminazioni inusitati. Coltivava ortensie, iris, orchidee. Ma il suo orgoglio era l’aver fatto attecchire qui, in questa sua terra, una delicata e rara pianta tropicale, la puja, che dava un fiore blu come di porcellana, un fiore mallarmeano. Lucio, terzogenito, aveva la passione della letteratura, della poesia. Aveva fin da giovane scritto, scritto e distrutto. Finché non compose i Canti barocchi, in uno stato di incandescenza, di raptus, e non decise d’esporsi, di pubblicare: a cinquantadue anni. Fece stampare un piccolissimo libretto, dal titolo 9 liriche.
Liriche purissime, singolari, inedite nel panorama italiano, in cui convergevano tutta l’esperienza poetica europea vecchia e nuova. Una poesia dove vi è la natura dolce e panica, misteriosa, concreta ma mutevole della campagna di Capo d’Orlando; dove vi sono le chiese barocche, gli oratori, i vecchi conventi, e le «anime adeguate a questi luoghi», della Palermo della sua infanzia-adolescenza; le passate stagioni, i trapassati che ritornano, in amorosa evocazione, in notturna processione, in febbrile ansia, in struggente flusso di memoria.
Lo frequentai per tanti anni, fino a quando non decisi di lasciare la Sicilia. Ma ogni volta che ritornavo nell’Isola, non mancavo d’andare a trovare il poeta. Fu in uno di questi ritorni che insieme scendemmo dalla villa per andare in paese, a Capo d’Orlando. Da lì, alla cala di San Gregorio. Era una giornata d’aprile, chiara, cristallina. Al villaggio ci venne incontro zia Genoveffa, la maga delle trombe marine e dei fumi di rametti aromatici. «Bacio le mani, barone» salutò la vecchia. Piccolo si staccò da me e le andò incontro. Vicini, si parlarono.
Il sole calava verso le Eolie, il mare era fermo.
«I giorni della luce fragile, i giorni / che restarono presi ad uno scrollo / fresco di rami… / oh non li richiamare, non li muovere, / anche il soffio più timido è violenza / che li frastorna… ».
Vincenzo Consolo, Il barone magico
Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988
— Penso che vincere un premio come lo Strega possa essere, per uno scrittore serio, un’assicurazione contro i faccendoni, e il dilagare della carta. — La carta seppellisce i libri. Una volta gli scrittori lavoravano con la speranza nel futuro1 . Senza troppa esagerazione si può affermare che il tono essenziale della prosa consoliana rimane soprattutto riflessivo e didascalico. E se con questo ci si vuole riferire ad una remota disposizione che si ripresenti nelle opere degli scrittori siciliani, e cioè, una ricorrenza di quella peculiarità, nominata da Leonardo Sciascia una “specie di follia”. In questa zona discorsiva, acquista un rilievo massimo la figura di Luigi Pirandello atteggiata nell’argomentativo e sofistico ritmo di un ragionatore e di un maestro tutto volto a spiegare e insegnare. Ma questa razionalizzante sicilitudine non è da credere che s’aggiri in una forma di cattedratica istruzione o di astratta lezione2 . Al contrario, la meditazione svolta dell’autore, pur nei confini dello schema prestabilito si avvia di acute analisi e di fini notazioni psicologiche 1 F. Parazzoli: Il gioco del mondo. Dialoghi sulla vita, i sogni, le memorie […]. Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1998, p. 23. 2 Cfr. M. Tropea: Nomi, „ethos”, follia negli scrittori siciliani tra Ottocento e Novecento. Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2000, p. 5. essenza della sicilitudine che superano i consueti limiti del comune repertorio morale. Pirandello, nel modo più autonomo, è riuscito a collegare i motivi siciliani come: mania, follia e superstizioni e grandi temi dello smarrimento dell’animo dell’uomo. Si potrebbe dire, a titolo non solo di paradosso, che lo scrittore avverta la presenza della conoscenza della vita nella totalità dei suoi aspetti come il frutto di un’esperienza non gradita e tendenzialmente rifiutata. Invece la liberazione dei sentimenti e dell’invenzione dal peso del reale presuppone un’intensa partecipazione ad esso, non un rifiuto, non un esilio, ma un’accettazione contrastata e difficile. Ad una maggiore immediatezza d’espressione si torna con l’esperienza di Vitalino Brancati che distingue la cultura della Sicilia in due grandi suddivisioni: “[…] quella occidentale degli arabi, dei cavilli, delle sottigliezze, della malinconia, di Pirandello e di Giovanni Gentile e dei mosaici; e quella orientale dei Fenici, dei Greci, della poesia, della musica, del commercio, dell’inganno, di Stesicoro, Verga, Bellini, San Giuliano”3 . Con le opere di Brancati si rimane sempre nella stessa dimensione della poesia invasa dalla follia che forma la peculiarità dell’anima e della cultura siciliana. Secondo Mario Tropea l’esistenza di una “letteratura siciliana” costituisce una figurazione di una insularità affermata non solamente dal punto di vista storico e antropologico. Nella sua sostanza si conferma una tonalità narrativa della psicologia umana4 . Allo sguardo satirico di Brancati, l’universo siciliano non appare come lo spazio di cui celebrare il fasto, né tanto meno la sede in cui si elaborano progetti politici; esso diviene piuttosto il bersaglio privilegiato di un processo di smascheramento, teso a mettere a nudo l’incapacità dei rappresentanti del potere, l’interesse dei cittadini e il loro stato di umiliante soggezione. In questo senso appare emblematico il punto di vista di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pieno d’ironia, pensata come sintesi di distacco aristocratico. Forse ha capito che allo scrittore non si chiede più l’eroismo di una classe feudale, ma la naturale mutevolezza di caratteri osservati nella 3 Ibidem, p. 6. 4 Cfr. ibidem. realtà quotidiana. L’ottica dall’interno con cui il mondo della Sicilia è narrato compare nella presenza di nozioni dell’ironia e della storia. L’isola ha una sua storia che la genera e rigenera. Nella scelta di una narrazione mimetica l’insularità diventa una proprietà imprescindibile. Consolo non inventerebbe l’isola se non vi fosse venuto al mondo, se nella vita, nella scrittura non fosse venuto incontro ad esso e se non l’avesse raccontato tramite le vicissitudini dei compaesani. Pubblicando i suoi scritti, Consolo ha salvato dall’oblio inerente all’oralità le storie dolorose e fragili. Sembra che, simbolicamente, lo scrittore abbia saldato un debito nei confronti degli interlocutori del paese natio. Non si tratta, in questa analisi, di propugnare uno scavalcamento delle gerarchie né di rinnegare gli interessi degli scrittori; invano si cercherebbe in queste opere un progetto di riforma della società in base a nuovi valori. Mondo insulare e mondo della penisola sembrano impermeabili. Eclettico Capuana non tanto lontano dalla realtà del naturalismo di Verga rappresenta la follia proprio tramite uno studio “clinico”. Nella poetica che sembra quella di un generico realismo, Consolo varca la soglia della finzione e recupera le forme testuali della verità quasi documentaria: struttura e tono del reportage, appendici forniti dalla storia, narrazione in terza persona. Un’idea di narrazione polimorfica potrebbe risultare una necessità di inquadrarsi all’interno di una prospettiva di moderno umanesimo delle contraddizioni. Ferruccio Parazzoli ha ammesso di sentirsi come Ismaele — il protagonista di Moby Dick. Invece, però di andarsene per mare, lo studioso si accontenta di svolgere la ricerca tra gli amici5 . In Mondadori, la sua casa editrice, Consolo viene considerato uno dei più ascoltati scrittori italiani. “Quando dice fa opinione” — ricorda Parazzoli6 . Se lo scrittore si riferisce alla quotidianità politica, lo fa direttamente come nella constatazione rapportata alla situazione del settembre del 1994: “Io credo che chi ci governa sia affetto da una grave malattia mentale. […] Tutti i suoi gesti, tutte le sue azioni, tutti 5 Cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 54. 6 Ibidem. gli ordini, tutto quanto lui dispone è all’insegna dell’irrazionalità e della follia”7 . Prendendo le mosse dal mito sul Cavallo inventato da Ulisse, Consolo cerca di individuare un’ipotesi fondamentale dell’illusione vissuta dall’Italia dopo la seconda guerra mondiale; l’illusione dell’Itaca e cioè dell’armonia, della storia e degli affetti. Dopo le tragedie subite c’era bisogno di razionalità e di ordine che potevano essere visti come tappe di un possibile recupero della ragione. Va poi sottolineato, sul piano delle corrispondenze fra la ragione e la follia che questa oscillazione è diventata una costante della storia dell’Italia. Consolo dichiara decisamente il desiderio di testimoniare il senso storico del suo tempo. In questo caso la testimonianza riguardante la situazione del paese è un espediente narrativo esemplare della tecnica della trasformazione che si gioca su capovolgimenti. La generazione di Consolo ha conosciuto un mondo che era la civiltà contadina è che poi ha cominciato a sostituire la vita con le cose, con la merce. In conseguenza è accaduto lo spostamento della centralità dell’essere e la sua sostituzione con l’avere. La rapidità di questo processo ha lesionato anche le altre sfere dell’attività umana. Secondo Consolo il movimento delle masse contadine ha portato alla distruzione della cultura popolare. Anche un discorso svolto dallo scrittore sui colpevoli di questo stato di cose indica chiaramente i politici un primo luogo e poi gli intellettuali. Questa idea di responsabilità sopravvive nella coscienza letteraria consoliana, specialmente quanto il narratore sottolinea la propria provenienza siciliana. In questo paesaggio dell’Italia corrotta e arrettrata, Milano è cominciata ad essere considerata come la città dell’utopia, senza sopraffazione e violenza. Non è quindi per un caso nemmeno da questo punto di vista, in fondo, che Vincenzo Consolo come Verga e Vittorini, approdì a Milano. Con il passare di tempo nasce la delusione. La cosa da notare subito è la convinzione di Consolo della responsabilità maggiore della Milano moderna, siccome più dotata nel campo di lavoro e di cultura, della digradazione e dell’avvilimento. 7 Ibidem, p. 25. Si capisce ancora meglio, così, perché sia proprio quest’inclinazione a renderci più coscienziosi e più sensibili ai problemi della realtà circostante. Esaminando il percorso dello sviluppo del romanzo politico, Consolo pronuncia apertamente la sfortuna di Sciascia e di Pasolini. Il primo è stato dimenticato, il secondo invece, è stato imbalsamato in una nicchia di santità laica. Nelle sue narrazioni ci si rivolge come un’ultima volta a uno spazio e a un tempo che stanno per svanire definitivamente. Attingendo ai maestri come Verga, Pirandello, Vittorini, Consolo vuole mettere in evidenza una realtà che si può raccontare. Non consumata dall’informazione, dalla televisione o dai giornali ma capace di far sopportare e di capire la realtà. Una delle caratteristiche di questo modo robusto di narrare è quel ricorso frequente alla parola “armonia” che è diventata una parola chiave nel suo vocabolario di scrittore. Si scopre così che, correntemente alla sua essenza patetica, questa parola, come specchio e rappresentazione dello sguardo che lo affronta, può diventare un espediente che renderà più facile il conciliarsi con la vita e con la realtà. È altrettanto importante mettere in evidenza un’altra costante della produzione letteraria consoliana e cioè, la volontà di decifrare un passato remoto. L’atteggiamento di protesta contro la dissacrazione del nostro tempo. Gli elementi della materia che diventano veri e propri protagonisti della memoria di Consolo sono tra l’altro: le pietre, le piante e il mare. La loro capacità di ipostatizzare lo sguardo che li contempla e di oggettivarlo in una forma visibile, non si trasforma mai in pura contemplazione ma cambia nell’esperienza interiore. La memoria del mondo ormai dimenticato e trascurato diventa anche il modo per salvarlo. Con questo espediente lo scrittore vuole opporsi al senso della precarietà del mondo moderno. Nella prefazione al saggio di Basilio Reale lo scrittore constata: Ho sempre pensato la letteratura siciliana (e non solo la letteratura, ma la pittura, la scultura, la musica: l’arte insomma) svolgersi su due crinali, su due filoni o temi distinti: quello della storia e quello dell’esistenza (o della natura, o del mito)8 . 8 V. Consolo: Prefazione. In: B. Reale: Sirene siciliane. L’anima esiliata in “Lighea” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Bergamo, Moretti & Vitali Editori, 2001, p. 15. La memoria di quel mondo viene conservata anche nella dimensione di fuga dal paese. La fuga che è possibile forse solo in letteratura. La letteratura come possibilità di staccarsi dalla Sicilia, pur restando in Sicilia: l’esilio dall’interno. Molto legato ai valori come l’orgoglio, l’umiltà e il pudore, Consolo constata che la mancanza di pudore che ormai fa parte di ogni settore dell’attività umana, lo disorienta e offende. La paragona a una forma di violenza, come nei teatri anatomici quando si squadernavano i corpi. Parlando dell’importanza della memoria, lo scrittore rievoca la testimonianza di Pirandello, vissuta a circa due anni e legata ad un’eclisse solare che diventa un autentico archetipo della scrittura pirandelliana e un’ipostasi che è presente anche nella narrativa di Consolo9 . La prova di ricostruire questa memoria storica riguarda un mondo in cui la memoria sta per annullarsi. Ne rimangono solo delle apparenze e degli stereotipi. Per salvare questa realtà acquisisce soprattutto una forza dell’espressione linguistica, il richiamo alla lingua: unico segno realmente distintivo e significativo di appropriazione del mondo nelle possibilità di narrarlo, il che vuol dire per Consolo di ricrearlo narrativamente. Non a caso Giulio Ferroni riconosce allo scrittore il merito di essersi mosso alla ricerca di un linguaggio capace di unire in sé “la curiosità storica e razionale di Sciascia e il violento plurilinguismo di Gadda”10. Per Consolo la forza stilistica e inventiva diventa simbolo dell’aspirazione barocca a inglobare i diversi aspetti del reale in un complesso eterogeneo, ma organizzato. Le stesse ansie e inquietudini che, come si è visto, stanno a fondamento della ricerca dello scrittore siciliano, permeano altrettanto la prosa di diversi autori legati alla loro terra, alla loro regione, al loro quartiere. Il rapporto con il nichilismo del Novecento, la crisi di valori, la redifinizione dell’identità, i temi fondamentali non solo dell’opera di Consolo non solo hanno volto l’attenzione di molti su 9 Consolo, questa prosa, la nomina “la memoria di un’eclisse”, cfr. F. Parazzoli: Il gioco del mondo…, p. 29. 10 G. Ferroni: Storia della letteratura italiana. Milano, Einaudi, 1991, p. 129. questi problemi ma sono anche stati oggetto di analisi di vari critici11. Joanna Ugniewska, nella parte conclusiva del saggio di Matteo Collura ci ricorda che l’autore, attingendo al modello vittoriniano del viaggio orientato verso i luoghi dell’isola d’infanzia e di origine, definisce la propria narrazione come il percorso verso luoghi dove la memoria è stata imprigionata12. Nel corso del Novecento la critica aveva riesaminato con accenti più serrati il ruolo degli autori siciliani. Alcuni di loro come Elio Vittorini e Leonardo Sciascia e un po’ più tardi Giuseppe Tomasi di Lampedusa sono stati premiati con il Nobel per la letteratura, gli altri hanno goduto un notevole successo editoriale. Nel quadro di questo pensiero siciliano non sarà luogo d’azione a sancirne il suo carattere originale. È vero che le narrazioni consoliane sono ambientate nella Sicilia, ma accade che le opere degli autori rievocati presentino i contesti geografici più neutri e generici. Da questo punto di vista, dunque, la provenienza potrebbe risultare un mero dato anagrafico. Ma in effetti la personalità consoliana era lungi dal limitarsi a tale rapporto tra la terra di nascita e le scelte future, tra l’aspirazione e i contrasti della vita, rapporto in certo modo risolto nella posizione dello scrittore di estrema apertura verso il reale, quale era propria di una scrittura che avverte in sé il continuo bisogno di nuovi orizzonti e di nuove situazioni. Se si volesse configurare la letteratura d’arte come perenne conflitto di “rappresentazione” e di “intellettualità”, si dovrebbe tornare mentalmente allo Stilnovismo, ma la presenza del momento intellettualistico è percepibile anche nell’arte moderna. Nel suo saggio dedicato agli scrittori siciliani del Novecento, Massimo Naro constata che l’atteggiamento intellettuale degli scrittori isolani si innesta sulla loro provenienza, non solo nel senso anagrafico o geografico, ma molto più profondamente, con le implicazioni etiche come antichi modi 11 Cfr. G. Pellegrino: Lotta, memoria e responsabilità: Eraldo Affinati. In: Scrittori in corso. Osservazioni sul racconto contemporaneo. A cura di L.A. Giuliani, G. Lo Castro. Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p. 155. 12 Cfr. M. Collura: Na Sycylii. Przeł. J. Ugniewska. Warszawa, Fundacja Zeszytów Literackich, 2013, p. 158. di percepire il mondo a partire dalla terra di nascita13. L’esperienza siciliana diventa una specie di prospettiva nella quale gli autori contrappongono l’isola ad ogni terraferma. Più netti sono i contorni dell’isola, più il mondo fa da sfondo, diventa il miraggio. Così, quando lo sguardo degli scrittori entra “dentro” l’isola, la descrizione della concretezza fisica dello spazio non perde mai di vista gli elementi “strutturali” della Sicilia stessa. Una concretezza descrittiva che non trascura la peculiarità funzionale di questa scrittura, di esprimerne la gratitudine e la nostalgia. Questa caratteristica dell’ottica siciliana viene confermata fortemente nell’analisi del titolo dell’opera di Antonio Di Grado Finis Siciliae14 svolta da Anna Tylusińska-Kowalska nella parte introduttiva al volume dedicato alla produzione artistica di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno e Matteo Collura15. Nel commentare il titolo del libro citato del Di Grado e il contenuto del proprio volume, la studiosa sottolinea la funzione del diversificato paesaggio siciliano da cui scaturisce il mito della tradizione, del legame con la terra di nascita e della storia non sempre felice. Pirandello ha già definito le caratteristiche di questa specie di ottica, usando il termine “raziocinare” per questo modo di esaminare: volutamente più lento, più pacato, meno calcolante e più poetico, ma sempre capace di focalizzare l’attenzione sulle questioni problematiche e urgenti del tempo. Le cose hanno un volto diverso nel senso che qui sono appunto gli scrittori a porsi delle domande che nelle altre parti del mondo si pongono dei filosofi: sull’esistenza, sulla verità, sulla giustizia e sul potere. Gli echi dello stesso dibattito sorgono nei pensieri di Gesualdo Bufalino che si chiedeva se ciò che l’uomo sperimenta sia conclusivo o provvisorio, reale o illusorio? Nelle sue 13 Cfr. Sub specie typographica. Domande radicali negli scrittori siciliani del Novecento. A cura di M. Naro. Caltanissetta—Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2003, p. 6. 14 A. Di Grado: Finis Siciliae. Scrittura nell’isola tra resistenza e resa. Acireale— Roma, Bonanno, 2005. 15 Cfr. Literacki pejzaż Sycylii. Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Luisa Adorno, Matteo Collura. Red. A. Tylusińska-Kowalska. Warszawa, Wydawnictwo DiG, 2011, p. 9. opere l’isola diventa metafora della teatralizzazione della vita16. Vale ancora aggiungere che nella sua ricerca appare chiara la volontà di valutare questa “qualità interrogante” della letteratura siciliana. Questo capitolo, di carattere esclusivamente introduttivo, si limita a considerare alcuni nomi e testi esemplari di questa lunga e complessa storia letteraria. La problematicità della letteratura siciliana si comprende nell’antirazionalità della poesia di Bartolo Cattafi, nell’opposizione tra certezza e dubbio nei libri di Giuseppe Antonio Borgese, nella contrapposizione tra fede e follia nei testi di Lucio Piccolo e Carmelo Samonà nella rappresentazione della dignità umana nelle opere di Elio Vittorini, nella ricerca del senso della vita in Francesco Lanza o in Nino Savarese, nella felicità perduta in Ercole Patti, nel nichilismo esistenziale in Sebastiano Addamo, nel dramma dell’emigrazione nella poesia di Stefano Vilardo, nell’impegno intellettuale di Vincenzo Consolo, nella protesta contro le violenze quotidiane di Dacia Maraini, nell’angoscia esistenziale nella narrativa di Gianni Riotta, Giosuè Calaciura e Roberto Alajmo. Consolo si realizza nella sua coscienza dell’intellettuale, egli misura costantemente la propria sorte d’uomo di cultura. Allude in questo modo alla tradizione l’iniziatore della quale viene considerato Dante — il primo intellettuale in senso moderno. Il sapere ritrovato è tutto orientato in senso “morale” e la reintegrazione della cultura nel destino dell’uomo segno un punto fermo nella storia della civiltà letteraria17. La caratteristica che unisce ambedue i personaggi è la coscienza “militante”. Alla letteratura siciliana è stato quindi assegnato il privilegio di colmare un ritardo, a sua volta necessario per riflettere sul valore e sulla ragione dell’esistenza umana. Giulio Ferroni denuncia la tendenza ad apparizione degli scrittori impegnati su altri terreni. Lo scrittore si pone cioè di fronte a un mondo passato e la sua continuità nel mondo postmoderno con gli strumenti mentali e catalogatori con cui aveva sempre osservato la 16 Cfr. J. Ugniewska: O zaletach peryferyjności, czyli jak można być Sycylijczykiem. W: Literacki pejzaż Sycylii…, p. 37. 17 Cfr. S. Battaglia: Mitografia del personaggio. Milano, Rizzoli Editore, 1968, p. 516. resistenza della Sicilia continuamente decrescente18. Di qui il richiamo ad un rapporto difficile ma molto efficace tra memoria storica e ricerca linguistica, alle quali Consolo riconosce di essere “a livello d’indagine”. Un “livello” situato evidentemente nell’aver stabilito un nuovo rapporto con la realtà in cui appaiono mutati i fattori stessi del passato. Alla narrativa ha assegnato il dovere di confrontare la violenza del passato e quella del presente e provare la presenza della stessa continuità di un modo di soffrire e di cercare la via di salvezza. L’interesse per questi scrittori, che, con precisa terminologia, sono stati definiti siciliani, non è un fatto recente, ma ancora in fase di sistemazione critica. Nell’ottica della ricezione che esprime l’orizzonte dell’opera letteraria, si scorge negli scrittori siciliani la coscienza di un dramma e di un dissidio psicologico e quindi la profonda serietà morale dell’ispirazione. L’indagine più recente, mentre respinge l’interpretazione che fa degli autori siciliani le figure periferiche, accetta alcune conclusioni critiche precedenti, ma le integra con una nuova serie di proposte e di riconoscimenti. Vincenzo Consolo vive nella tradizione segnata dagli studiosi quasi esclusivamente per il fatto che fu l’amico, l’ammiratore e l’ereditario letterario di Leonardo Sciascia. Ma accanto a questa immagine esiste un’altra figurazione civica di Consolo, quella del letterato enciclopedico, che fa sentire nelle sue opere, con l’ardore della scoperta e l’ansia di comunicarla, tutto l’amore della scienza, della storia e della cultura. E non è da dimenticare il contegno civile di Vincenzo Consolo. Anche se opera nell’ambiente milanese, in uno stadio di involuzione più profonda, non è lontano dall’atteggiamento di partecipazione. Anzi, risulta propenso a stabilire fra la letteratura e la vita quotidiana un legame, in cui si celebri la nuova teorizzata libertà e dignità del letterato. La letteratura che prende avvio dalla Sicilia è caratterizzata dalla straordinaria pluralità e varietà delle voci in cui si esprime 18 Cfr. G. Ferroni, A. Cortellessa, I. Pantani, S. Tatti: Storia della letteratura italiana. La letteratura nell’epoca del postmoderno. Verso una civiltà planetaria 1968—2005. Vol. 17. Milano, Mondadori, 2005, p. 87. 31 il sentimento di una cultura letteraria assai più complessa e insieme obbediente a molte sollecitazioni. Una letteratura di transizione, segnata da parecchie fortissime personalità di orgogliosi cantori della propria terra e capostipiti della civiltà antica, e da una propensione ai tentativi e agli esperimenti, in cui si rispecchia la vita difficile, contradditoria, irta di delusioni e di utopie, di un mondo che si dibatte nella travagliosa ricerca di un nuovo ordine politico, morale ed intellettuale. Esperienza intima e reale è quella che Consolo invera nelle sue opere e che egli fa conoscere distinguendo, su un fondamento assiologico due cose: il valore metaforico di vicende individuali nelle quali ciascuno può ritrovare le proprie passioni e il valore universale dei fatti della storia siciliana con le loro proiezioni ed interpretazioni. Bisogna quindi accostarsi alle opere consoliane come a una cronaca, i cui personaggi rappresentano una specie di dramatis personae, capaci di facilitare il passaggio dalla confessione e dall’indagine psicologica e antropologica ai processi della conoscenza di una più profonda e più complessa realtà, quella che non vive costretta nei limiti di questo, cioè, isolano, spazio. Il significato che assumono gli eventi riportati da Consolo nelle narrazioni, per esempio la strage che conclude il suo ultimo romanzo, risulta assai vasto. Lo spasimo di Palermo sembra una sconfitta della ragione di fronte alla violenza, invece secondo il messaggio metaforico può assumere il valore della presa di coscienza della società civile rinata. Nei romanzi consoliani vi è presente un’immensa esperienza di vita, ed è presente come può esserla a chi non solo la contempla ma anche a chi si mescola fra la vita. I flashback che illuminano l’infanzia difficile dei protagonisti consoliani, la fuga dall’isola e il deludente soggiorno a Milano sono raccontati come il dramma umano che appartiene all’universale travaglio. Questa prosa ci offre, alle soglie della civiltà postmoderna, un’ampia documentazione di fatti e di figure, un quadro mobile e profondo delle società e delle storie diverse. Non sorprende affatto, quindi, che in polemica con l’esistenza e la funzione del confine gli scrittori siciliani non abbandonassero il carattere della loro terra, indicando come correlato della sua consi – 32 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine stenza non la limitatezza causata dal mare, ma la fermezza della vicinanza del continente. Nell’immaginario degli autori siciliani l’isola risulta dunque un paesaggio percepito prima staticamente (da lontano) e poi dinamicamente (dall’interno), in una dialettica giustapposta tra “dentro” e “fuori”, tra spazio guardato e spazio vissuto che corrisponde alla duplice essenza dell’isola stessa, che è per definizione un luogo d’accesso posto al confine con mare, uno spazio in cui si abita in uno spazio in cui si viaggia. Per i siciliani le relazioni di spostamento seguono questa fenomenologia lineare di inoltramento (varcare il confine, passare il mare), che si accorda a un’inclinazione all’esplorazione delle direzioni ben determinate come: l’America, l’Italia e l’Europa occidentale. Nell’intreccio di queste istanze antitetiche ancora più nitido sembra il capovolgimento della situazione siciliana, che affonda in complesse dinamiche sociali e antropologiche. La Sicilia, dall’essere terra di emigrazione, è diventata la terra di immigrazione. La sintesi più valida del ribaltamento avvenuto, la dobbiamo a Leonardo Sciascia che nel suo racconto intitolato Il lungo viaggio presenta la partenza dei clandestini da una spiaggia tra Gela e Licata in cui adesso approdano gli immigrati dal Nordafrica. Un’attenzione più dettagliata al rapporto fra la letteratura e la storia viene espressa molte volte nei libri degli scrittori siciliani contemporanei. All’efficacia della storia reinterpretata dalla scrittura non si può non accostare quella della produzione letteraria sempre più florida che spesso coincide con la prima. L’attenzione per la scrittura siciliana è un fenomeno rilevante e procede di pari passo con le vere esplorazioni delle presenze letterarie che si compiono sempre più sistematicamente. Accanto agli autori e ai temi di massima rappresentatività, vi si trovano quelli più recenti che completano l’artistico panorama siciliano. Tra gli argomenti narrati quelli più frequenti riguardano l’espatrio (in America, in Africa, in Germania) e l’attuale condizione della penisola siciliana. Non di rado gli scrittori siciliani tendono a rappresentarsi in questo luogo in cui si concretizza la loro invenzione. Del ritorno in Sicilia scrivono dunque: D’Arrigo, Brancati, Vittorini, Consolo. Secondo Ignazio Romeo: “Tornare significa infatti anche, metaforicamente, Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine 33 scavare in se stessi e nella propria storia, cercare l’estraneo in quello che si è familiare: guardare, insomma, in profondità e a distanza”19. Ma è vero anche che da questo spazio limitato fisicamente si aprono i grandi percorsi della cultura e della fantasia. Sono due elementi fondamentali che reggono l’asse assiologico della letteratura siciliana, il primo riguardante il dibattito relativo all’attuale e storica esistenza umana e il secondo relativo alla letteratura stessa e il suo ruolo nella nostra modernità. Non si tratta di due realtà distintive che finiscono con lo scontrarsi ma di due componenti che complementandosi occupano un posto considerevole nel panorama letterario non solo siciliano o italiano. La forza dell’autoriflessione letteraria degli scrittori siciliani finisce nella maggior parte dei casi come il metadiscorso. Le domande sul senso dell’arte, poste da Verga e Pirandello — i primi esploratori di tale problematica, hanno un carattere ben definito. Una specie di slittamento metonimico da una fase di lotta per la ricchezza ad uno stadio di lotta per la parola, il contrasto essere/apparire, la permanenza del binomio vita/teatro diventano motivi costanti di chi vuole autointerrogarsi. Non meraviglia dunque il fatto che tutto ciò che Pirandello nomina nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore ”il tumulto della civiltà” trae l’ispirazione dalla figura leopardiana del poeta “inattuale” che ha provocato la discussione sulla relazione tra la scrittura e la lettura, l’autore e il pubblico20. Si radica ai nostri occhi l’opinione che la Sicilia sia soltanto il simbolo, l’espediente che consente di stabilire un contatto tra l’uomo e la sua identità. Vincenzo Consolo si dedica alla stesura delle sue opere ricorrendo alla pluralità linguistica che caratterizza la sua espressione letteraria. Accanto all’uso del lessico dell’italiano comune, il prosatore si serve del dialetto siciliano con delle varietà di re19 I. Romeo: Passare il mare. Dall’emigrazione all’immigrazione: cento anni di memorie e racconti nelle pagine degli scrittori siciliani. Palermo, Regione Siciliana, Assessorato dei beni culturali ed ambientali e della pubblica istruzione, Dipartimento dei beni culturali, ambientali e dell’educazione permanente, 2007, p. 12. 20 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura alle domande sulla scrittura. La coscienza letteraria dei siciliani. Caltanissetta, Sciascia, 2003, p. 11. 34 Capitolo I: Vincenzo Consolo — essenza della sicilitudine gistri e di toni dal domestico familiare al lirico-volgare21. Giuseppe Bellia, analizzando il modo di scrivere consoliano, parla dell’autonomo sviluppo del filone gaddiano rafforzato dalla ricerca costante di linguaggi antichi, di tradizioni locali e di ritualità arcaiche. E nell’affermato gusto barocco dello scrittore riconosce il meccanismo di un reperimento o di un ritrovamento della parola e non della sua invenzione22. Rifiuta le parole e i pensieri comuni, cerca con accuratezza quelle che rinchiudono il più d’accessori, esimio soprattutto nella scelta degli epiteti e dei verbi. Mira ad esprimere molto in poco. Ha l’idolatria della parola, non solo come espressione dell’idea, ma staccata, presa in sé come suono, attento a separare le parole nobili dalle plebee, le poetiche dalle prosaiche, ed raccontare tutto con sincerità. Anche nell’uso delle parole poetiche Consolo segue l’ultimo Verga che invade lo strato sintattico introducendo le formule dubitative. Con questo procedimento lo scrittore ha dichiarato l’allontanamento dal centro ed ha espresso la mancanza di una univocità dei significati23. La prosa consoliana manifesta un’inquietudine uguale causata dall’assenza dell’interlocutore immediato inscrivendosi nell’attuale discorso sulla comunicazione letteraria. Lia Fava Guzzetta nomina Consolo “un intellettuale meridionale, consapevole di una ‘ferita’, di una esclusione e di uno sradicamento”24 che si applica allo studio profondo del passato troppo facilmente rifiutato dalla società odierna. La difficoltà sta nell’impossibilità dell’abbinare la parola di oggi alla rappresentazione della Sicilia di una volta. La narrazione che avviene per frammenti viene paragonata a volte alla dimensione del reportage giornalistico. Anche Giuseppe Traina nel suo saggio dedicato allo scrittore siciliano mette in rilievo l’importanza di questo genere destinato da Consolo alla testimonianza degli avvenimenti accaduti negli ultimi anni come, per esempio, i funerali dello studente Walter Rossi, militante della sinistra extraparlamentare ucciso 21 Cfr. G. Passarello: Un’isola non abbastanza isola. Palermo, Palumbo, 2007, p. 136. 22 Cfr. G. Bellia: L’obliquo percorso della memoria. La scrittura di Vincenzo Consolo tra storia, ritualità e sdegno. In: Sub specie typographica… 23 Cfr. L. Fava Guzzetta: Dalle domande della scrittura…, p. 15. 24 Ibidem, p. 19. 35 dai neofascisti25. Perciὸ, per evitare l’ambiguità del discorso, Consolo ricorre più volte ad un referente diverso dalla scrittura, appartenente invece al campo delle arti figurative, come i quadri di Antonello, di Caravaggio e di Raffaello, i dipinti di Clerici. Il romanzo Lo spasimo di Palermo vuole essere infatti la manifestazione della forza stilistica orientata verso la ricreazione di una speranza di giustizia e di razionalità nel modo in cui dominano oppressione e terrore anche se la sospensione della comunicazione tra un padre e un figlio espressa tramite il motivo di una lettera rimane una tra le scene più suggestive di questo romanzo che tratta dell’impossibilità della continuazione di scrivere. Consolo è cosciente delle conseguenze della postmodernità così come lo era George Steiner che nel Linguaggio e silenzio parla dell’esaurimento dell’era verbale e del dominio delle forme “postlinguistiche” e addirittura del silenzio parziale26. 25 Cfr. G. Traina: Vincenzo Consolo. Fiesole, Cadmo, 2001, p. 21. 26 Cfr. G. Steiner: Linguaggio e silenzio. Milano, Garzanti, 2001, p. 56.
Aneta Chmiel ” Rompere il silenzio I romanzi di Vincenzo Consolo“
Nel 1988 Lucio Zinna curò per la RAI-Sicilia – negli studi di Palermo, allora in Via Cerda – un programma radiofonico in tredici puntate dal titolo “Incontri”/Letteratura, quale autore dei testi e conduttore in studio. Si trattava di uno dei programmi culturali allestiti dalla regista Maria Cefalù, parecchi dei quali si avvalsero della collaborazione del poeta siciliano, nel periodo tra il 1981 e il 1988: ricordiamo (oltre ai testi di alcuni documentari televisivi) i programmi radiofonici: “Poesia oggi” e “Sicilia letteraria” (1981-1982, in collaborazione con Giovanni Cappuzzo), “Sei storie dal reale” (1983), “Questi maledetti poeti” (1984), “Tra il reale e l’immaginario”(1986), “C’era una volta /sei favole di Luigi Capuana” (1988) e altri.
Il ciclo “Incontri”/Letteratura era basato su interviste in studio o telefoniche a personaggi del mondo letterario siciliano e non (fra questi gli scrittori Gesualdo Bufalino, Giovanni Gigliozzi, Andrea Vitello, autore di un’insuperabile biografia di Tomasi di Lampedusa, lo storico Orazio Cancila), con lettura, da parte di attori, di brani tratti da opere alle quali si faceva riferimento. In una di queste trasmissioni, andata in onda il 21 novembre 1988, Zinna intervistò in studio lo scrittore Vincenzo Consolo, di cui era appena uscito il libro di racconti “Le pietre di Pantalica”. Un brano dell’opera fu letto da Gabriella Guarnera. Regia di Maria Cefalù, con la realizzazione tecnica di Saro Cordaro e Nicola D’Addelfio.
Trascriviamo il testo della conversazione da registrazione su nastro magnetofonico.
Buon pomeriggio da Lucio Zinna. Il nostro ospite di oggi, per il ciclo di “Incontri/Letteratura”, è lo scrittore Vincenzo Consolo, del quale è apparso in questi giorni – edito da Mondadori – “Le pietre di Pantalica”. Ci intratterremo con l’autore subito dopo il nostro consueto profilo.
Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933. Conseguita la maturità a Barcellona Pozzo di Gotto, studia legge alla Cattolica di Milano dove si laurea. Torna in Sicilia per dedicarsi all’insegnamento, frequentando nel contempo scrittori come Leonardo Sciascia e il poeta Lucio Piccolo. Nel 1968 si trasferisce a Milano, dove vive tuttora, con frequenti catabasi nella sua terra.
La sua prima opera, “La ferita dell’aprile”, è un romanzo lirico e meta-dialettale apparso nel 1963. Una metafora del transito dall’adolescenza speranzosa alla deludente maturità. L’ambientazione è quella della Sicilia dell’immediato dopoguerra. Del 1976 è “Il Sorriso dell’ignoto marinaio”, edito da Einaudi. Una ricerca archetipica della psicologia dei siciliani, esemplata su un famoso quadro di Antonello da Messina. Il romanzo, ambientato in epoca garibaldina, narra di un esule siciliano, l’Interdonato, che rientra nell’isola sotto mentite spoglie nel 1852, per condurvi la sua lotta antiborbonica. Narra anche di un aristocratico cefaludese, Piraino di Mandralisca. Il sorriso ironico del primo esprime la consapevolezza che ogni spinta rivoluzionaria finisca per frangersi nell’isola contro il pessimismo storico della sua gente. Del secondo è evidenziato invece l’evolversi da un mondo di puri interessi scientifici a quello della dura realtà degli oppressi, con i quali viene casualmente a contatto, fino al suo impegno politico a favore degli oppressi medesimi, specie in occasione di rivolte popolari provocate da irrisolti problemi sociali dopo la spedizione dei Mille.
Del 1985 è “Lunaria”, edizione Einaudi. Una fiaba teatrale in cui il persistente passato barocco di una Palermo settecentesca fa da contraltare al degrado del presente. Due anni dopo appare, presso Sellerio, “Retablo”, esemplare illustrazione di una Sicilia multiforme, proteica, aristocratica e plebea, feudale e rivoluzionaria, classica e illuminista, popolana. Anch’esso ambientato nel ‘700, come ‘Lunaria’, il romanzo si incentra sulla figura di due personaggi: il pittore milanese Fabrizio Clerici (diciamo che Fabrizio Clerici è vivente, ma è collocato, a ritroso, nella vicenda) e il siciliano Isidoro: un monaco smonacato. Sono ambedue innamorati: il primo di una nobildonna, il secondo di una popolana e mantenuta. Consolo pone a confronto due mondi diversi: la Lombardia ricca ed estetizzante e la Sicilia ansiosa di riscatto sociale. Il punto d’incontro è all’interno degli individui, nella spirale dei sentimenti.
“Le pietre di Pantalica” è una coordinata raccolta di racconti nello scenario di una Sicilia variegata nelle sue tinte, ma costantemente dolente per le lunghe offese storiche subite, per le angherie da sempre esercitate sulla povera gente dai proprietari di turno, i quali sono ora baroni ora mafiosi, ciascuno con il loro stile e la loro immagine. Ogni guerra finisce per lasciare immutata la situazione sociale, quasi sulla falsariga di un latifondo solo di recente scomparso, ma riemergente in altre forme, fino a farsi degrado a un passo dall’identità etnica. Un’affascinante e ironica girandola di paesi, di città, di campagne, di personaggi in cui si svolgono le vicende di ieri e di oggi.
La scrittura di Consolo si fonda su una singolare commistione di moduli narrativi, realistici e sperimentali, una scrittura lessicalmente ricca, fluente, che coinvolge il lettore nell’operazione di decodifica del testo. Più comunicative sono queste Pietre di Pantalica, in cui pur si innestano termini dialettali e termini culti, nonché forme verbali elegantemente arcaiche.
Vincenzo Consolo è qui in studio e noi cogliamo la gradita occasione di rivolgergli alcune domande.
Lei è siciliano e vive a Milano. Ci sono scrittori siciliani che hanno dovuto cercare il successo fuori dall’Isola (Vittorini, Quasimodo), altri che hanno dovuto fare la spola tra Sicilia e continente (Sciascia, Cattafi), altri ancora, per singolari circostanze, non si sono mossi dai loro luoghi: Piccolo, Bufalino. Quale è stata la sua iniziale avventura letteraria?
La mia iniziale avventura letteraria credo che abbia avuto degli intenti contrari a quelli che di solito sono avvenuti nella storia, cioè il cammino dal Sud verso il Nord, e la Sicilia in questo senso, come lei ha detto, ha una lunga storia, da Verga a Capuana a De Roberto fino a Vittorini a tanti altri. C’erano, dalla Sicilia, due modi di partire verso la Milano, verso la Lombardia dell’organizzazione sociale e dell’organizzazione culturale, e verso la Roma dove c’era il potere politico, e dove i climi erano molto italiani e molto somiglianti a quelli della capitale siciliana, Palermo. Questi due modi di partire erano anche due modi di concepire la letteratura. Qui è molto lungo indagare le ragioni dell’emigrazione verso Roma o verso Milano. Comunque io, come lei ha ricordato, ho fatto i miei studi universitari a Milano negli anni ’50, negli anni in cui in Italia, dopo il disastro, l’azzeramento della guerra, si ricominciava a ricostruire, come si dice. I miei compagni di Università, allora più o meno più anziani di me forse di qualche anno, e comunque frequentanti lo stesso ambiente, respiranti lo stesso clima di studi e lo stesso clima culturale, si chiamavano De Mita, Misasi, Bianco, si frequentavano gli stessi luoghi. In questa piazza straordinaria che era la piazza Sant’Ambrogio, l’antica piazza del Giusti, della basilica di Giuseppe Giusti, lì, in questa piazza, si incrociavano i vari destini che erano, allora, i destini dell’Italia. C’era lo studente universitario che veniva da questo sud povero, c’era anche l’emigrato che arrivava in questa piazza, perché lì c’era il centro di emigrazione. Questi emigrati venivano prelevati direttamente dalla stazione e portati in questo centro di emigrazione di piazza Sant’Ambrogio e poi spediti in Belgio, in Francia, nelle varie miniere delle varie fabbriche; poi c’era il poliziotto che si arruolava proprio per bisogno perché lì, in questa stessa piazza, c’era una caserma della celere, quindi in queste trattorie letterarie, dove si andava a mangiare poteva capitare di imbattersi nel compaesano. Ecco, io sono andato a Milano perché ho obbedito a una sorta di mitologia letteraria, perché era stata la città di Verga, perché a Milano c’era Vittorini. Poi, dopo finiti gli studi, sono tornato in Sicilia per fare lo scrittore, perché mi interessava naturalmente il mio ambiente storico, il mio ambiente sociale. Sono stato fino al ’68 ma poi ho visto che quest’isola si desertificava, il mondo che mi interessava non c’era più e anch’io ho fatto le valige e sono tornato a Milano perché era l’unica città possibile per me, perché a Milano mi sembrava che allora – proprio ancora sulla spinta della mitologia vittoriniana dell’industria a misura d’uomo, delle sperimentazioni che allora si facevano di industria e letteratura –, mi sembrava, appunto, che a Milano ricominciasse una nuova storia, volevo conoscere questo mondo industriale. Anche questa è stata una mitologia, il crollo di questa mitologia. Intanto io avevo pubblicato il mio primo romanzo e a Milano sono stato proprio per questo sradicamento e per questo reinnesto in un’altra cultura, tredici anni in silenzio, fino a che, dopo avere osservato questo mondo, ho capito che io non potevo scrivere di Milano perché mi mancava la memoria di una società industriale. Però ho potuto esprimere, spero, questo mondo di allora, questo momento storico a cavallo degli anni ’60 e ’70 attraverso la mia memoria, che era la memoria della Sicilia, però in modo metaforico. Scrivendo di questo mondo importantissimo in Sicilia, cioè degli anni attorno il 1860 con l’unità d’Italia, nodo storico in cui ci siamo imbattuti quasi tutti gli scrittori siciliani – da Verga a Pirandello a De Roberto a Lampedusa allo stesso Sciascia –, nodo storico che quasi tutti abbiamo affrontato, perché partendo da lì ci siamo potuti rendere conto di certi mali che sono sociali, di cui soffre la nostra isola… Ho voluto metaforicamente esprimere non solo il mondo siciliano ma il momento storico nazionale, i temi che allora si agitavano erano quelli degli intellettuali di fronte alla storia, quello delle masse popolari esclusi dalla storia che non avevano la parola e temi di questo genere.
Parte per vivere altrove, si porta la Sicilia dentro. Se la porta appresso questa Sicilia?
Si, è il nostro mondo. Io ho sempre detto che esistono due modi di essere scrittore: lo scrittore di superficie e lo scrittore di profondità. Naturalmente questo non implica una valutazione qualitativa, sono modi di essere. Io credo che uno scrittore siciliano non può essere che uno scrittore di profondità, cioè la nostra è una cultura talmente composita, ricca, stratificata, come del resto la nostra storia, che non si può prescindere dal riportare nella scrittura tutto questo mondo che ci ha preceduto. Io ho sempre detto, e ripeto, che noi non siamo figli della natura ma siamo figli della storia; noi nasciamo incisi da dei segni culturali e in Sicilia i segni culturali sono molto importanti, sono molto profondi e sono difficili da eliminare.
Ne ‘Le pietre di Pantalica’figurano, quali personaggi, alcuni nostri scrittori e poeti, alcuni viventi quali Buttitta e Sciascia, altri scomparsi quali Lucio Piccolo e Antonino Uccello. Cosa è filtrato nella sua opera delle frequentazioni e consonanze con tali personalità?
Mah, sono persone a me care. Io le ho volute raffigurare qui proprio come le persone più rappresentative di un mondo che è quello contadino, di una civiltà che è quella contadina. Sono le persone che più hanno rappresentato questa civiltà e questo mondo che per me ormai è scomparso, e quindi persone anche oggettivamente importanti dal punto di vista poetico.
In prolepsi al racconto “Le Chesterfield”lei cita la seguente considerazione di Sciascia: « […] tutti i miei libri in effetti ne fanno uno, un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione […]». Così Sciascia. È così anche per lei?
Sciascia parla della sconfitta della ragione in senso sociale, nel senso della organizzazione sociale. La sconfitta della ragione lui la rappresenta attraverso tutta la sua letteratura, con la violenza dell’Inquisizione, la violenza fatta all’uomo, l’impostura e tanti altri mali che ci hanno afflitto, parla appunto di sconfitta della ragione dal punto di vista sociale, qui io l’ho voluto riportare alla sua radice letterale, cioè la dialettica fra ragione e follia. Per me che constato i fatti, in un certo senso, mi porterebbero a dire di si, di essere d’accordo con Sciascia. Però io penso e voglio sperare che la storia mi smentisca continuamente. Io credo nella Storia, credo che la storia abbia un andamento flessuoso, dei momenti in cui la linea raggiunge livelli molto bassi, in cui ci sono delle grandi aperture, in cui si aprono dei nuovi orizzonti e si possono nutrire delle grandi speranze. Tutto questo può essere deciso da persone assolutamente pessimiste, ma io, non credendo ad altro, io credo nelle forze progressiste della storia.
Sempre ne “Le Pietre di Pantalica” lei parla di una Palermo-Beirut, una città mattatoio, una città nella quale, sempre sulla scia di tristi avvenimenti, che purtroppo conosciamo bene, gravano ricorrenti e cupi bagliori. Quanto è da addebitare di tale situazione ai palermitani stessi? Intravede qualche segno di ripresa, di risalita?
Queste pagine su Palermo così violente, così assolutamente pessimistiche, non sono altro che la registrazione di una realtà in un determinato momento che era l’estate del 1982. È una invettiva abbastanza violenta che io faccio
ma anche lirica in certi momenti…
anche lirica per certi aspetti si, però questa invettiva così risentita così forte nel tempo non denuncia che un amore mio nei confronti di Palermo, un amore tradito. C’è nei miei libri, sin dal romanzo “Il sorriso dell’ignoto marinaio”… io ho sempre detto che avrei ambientato una parte del libro a Cefalù, l’ho chiamato “la porta verso il mondo palermitano”, che per me è il mondo più bello, più affascinante, più ricco storicamente. Poi è venuto “Lunaria”, anche quello ambientato a Palermo, lo stesso “Retablo” è ambientato a Palermo. È una città che io amo perché è la città più impregnata di storia, più ricca di segni culturali e storici e quindi in questa invettiva c’è una sorte di tradimento di delusione per questo amore mal corrisposto.
[Gabriella Guarnera legge un brano, riguardante Palermo, dal racconto eponimo “Le pietre di Pantalica”]
Chi ha tradito Palermo?
Palermo, si lo sappiamo, è quella che è. C’è anche in questa città, malgrado tutto, malgrado la mafia, adesso voglio dire il quadro non è tutto nero, ci sono dei bagliori bianchi, ci sono dei bagliori di luce e questo si vede in tante cose che avvengono a Palermo nonostante tutto.
Le rivolgo una domanda che lei rivolge a se stesso nella prefazione al libro di Mario Lombardo, “Giudice popolare al Maxi Processo” (Edizione ILA PALMA): ”Come è possibile che qui in quest’isola di tanta cultura, tanta civiltà, ci possano essere mafiosi criminali autori di efferati delitti, di stragi?”. Ecco la domanda che io vorrei rivolgerle è questa. C’è una risposta a questo interrogativo?
Sinceramente io non riesco a rispondere. Quando leggo, sento, assisto a delle atrocità che avvengono in quest’isola civilissima, io ogni volta mi chiedo con raccapriccio, con smarrimento come è possibile che in questa terra così umana, in questa terra che ha prodotto tanta cultura, tanta arte, come è possibile che si arrivi a tali abissi di barbarie. Ecco, io ogni volta non trovo risposta a tutto questo
…è lo sgomento di tutti
si è proprio così, sono domande che smarriscono.
Passiamo a un aspetto più squisitamente letterario. La sua ideale misura narrativa pare consista nel romanzo breve o nel racconto. Si considera uno degli scrittori così detti minimalisti o ritiene queste solo delle vuote formule letterarie o’ da letterati’?
Mah, io non credo a queste formule che ci vengono imposte dall’estero. Non credo ai ‘minimalismi’ di sorta. Nessun minimalismo di sorta. Io credo che la letteratura tratti di fatti minori, minimi, che non c’è bisogno di connotarli con questo termine che è mutuato dall’arte: il Minimalismo. La letteratura è sempre minimalista, perché parla dell’uomo nella vita quotidiana, dell’uomo…
… si scava all’interno della coscienza…
della coscienza nei fatti quotidiani, io credo poi che questo non è più tempo delle grandi narrazioni…
…di stampo ottocentesco…
… di stampo ottocentesco, perché lo spazio letterario è relegato sempre più altrove. Bisogna scandagliare e sapere dov’è questo spazio letterario e io credo che la letteratura oggi, proprio perché questo spazio letterario è invaso da altri tipi di narrazioni quali sono quelli dei media, della radio, della televisione, dei giornali, cose che nell’Ottocento non c’erano. Nell’Ottocento i romanzi-fiume avevano altre esigenze, di informare, anche di supplire a delle scienze, le cosiddette ‘scienze umane’,che allora non esistevano. I romanzi di Balzac informavano, dovevano contenere anche delle cognizioni di ordine sociologico, che oggi assolutamente il romanzo non dà e quindi la letteratura oggi, il romanzo oggi, si interiorizza e diventa sempre più sintetico, sempre più profondo.
Ha appreso qualcosa dagli sperimentalismi, dal neoformalismo degli anni ’60 e ’70 o li ha preceduti di stretta misura, considerato che la “La ferita dell’aprile” è datata 1963, che è un anno ormai ben definito nella nostra storia letteraria?
Io non ho mai amato gli avanguardismi. Io credo di essere figlio della cultura siciliana che è stata sempre sperimentale, da Verga in poi, almeno l’operazione linguistica di Verga: una operazione grandissima e altamente sperimentale. L’avanguardia è una operazione di azzeramento e di cancellazione di tutto quanto ci ha preceduto. Io invece credo nella sperimentazione tenendo presente tutto quanto ci ha preceduto, tenendo presente la storia. Io non ho potuto scrivere – ma come me tanti altri scrittori – non avendo consapevolezza di questa grande letteratura siciliana che ci ha preceduto.