L’intervista Viaggio, reportage, discesa agli inferi: esce «Udivo e l’olivastro». Così lo scrittore racconta il suo ritorno a casa.
E’ un risentimento profondo, non so se chiamarlo odio. L’odio. in fondo, è furore per un amore tradito, per un’offesa, ha la stessa intensità dell’amore: se si arriva all’odio significa che si ama tantissimo». L’olivo e l’olivastro è il titolo del prossimo libro di Vincenzo Consolo. E sin dal titolo si rivela quell’accostamento di opposti che dà forma a tutto il «romanzo»: amore e odio, appunto, dolcezza e atrocità, fuga e desiderio di ritorno, passione e violenza, umanesimo e irrazionalità, lussureggiante bellezza e disfacimento. Insomma, olivo e olivastro. Romanzo? Forse. Ma anche diario di viaggio in diciassette capitoli, anche reportage, anche pamphlet, leggenda, invettiva, poesia, persino saggio. Racconto: per esempio, nel capitolo dedicato al breve e disperato soggiorno di Caravaggio a Siracusa. Memoria: nelle bellissime pagine in cui si rievoca la madre ormai incapace di riconoscere il figlio. Un libro ad albero, dal cui tronco spuntano rami nervosi, rami spogli, rami frondosi e mobili. Olivo e olivastro: nati da un unico ceppo e indissolubilmente intrecciati tra loro, come nel cespuglio sotto cui Ulisse si nascose appena giunto nell’isola di Scheria, abitata dai Feaci. «L’immagine dell’olivo e dell’olivastro – dice Consolo – compare nell’Odissea, quando l’eroe è al massimo della degradazione umana: ferito, nudo, solo. Omero dice che da uno stesso arbusto vengono fuori rami d’olivo e d’olivastro. E’ una specie di indicazione di quel che Ulisse si era lasciato alle spalle e di quel che lo aspettava nel futuro: da una parte la natura malvagia e minacciosa, il selvatico, il bestiale: dall’altra il coltivato, l’umano, l’armonia. Infatti, arrivato nell’isola dei Feaci, Ulisse troverà una città molto alta, un’utopia, un modello di perfezione. Ulisse poteva rimanere lì, in quel regno beato, ma sente l’urgenza della realtà e della storia, la necessità di tornare a Itaca». Urgenza del ritorno, urgenza della memoria: «Anche per me è un desiderio che brucia. – dice Consolo – e quando torno provo molto dolore e pochissimo conforto, tutto mi pare omologato nel male, nella perdita. Io ho sentito l’esigenza di raccontare il disastro». Niente giornalismo, però, tiene a precisare Consolo: «La differenza tra giornalismo e letteratura è che la letteratura lavora con la memoria». E viene in mente la polemica aperta recentemente da Bocca. «Lo scrittore, attraverso la memoria. riesce a dare spessore al presente», Un viaggio nell’isola delle meraviglie e della barbarie, ma un viaggio universale, nello strazio della nostra civiltà. A Milazzo, dove accanto allo stabilimento esploso, alle canne fumarie delle industrie, ai morti carbonizzati, cresce il gelsomino delicato. A Siracusa, dove nella dissoluzione urbanistica si rimane inebriati dal profumo intenso del basilico. Il viaggiatore, come Ulisse che cerca la sua Itaca, non riconosce più la sua terra. Ovunque trova desolazione: a Gela, a Catania, a Palermo, a Ortigia. Non riconosce più il barocco di Noto, un tempo rigoglioso, vede Cefalù. Trapani, Segesta devastate dai terremoti, si inoltra nell’inferno di acidi e diossine che esalano dalle raffinerie di Melilli. Torna a Trezza, il paese dei Malavoglia. Parte da Gibellina e la ritrova irrimediabilmente deformata. «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo? », si chiede con rabbia. Viaggio agli inferi. «Credo che la letteratura siciliana – dice Consolo – sia letteratura della stasi. Il più statico è il mondo verghiano, dominato dal fato. Quello che ha cercato di rompere il «cerchio della fatalità e della condanna è stato Pirandello, attraverso ladialettica e il ragionamento: ma tra «sferiva la chiusura del mondo contadino e marinaro in un’altra chiusura, piccolo-borghese: è quella che Macchia ha chiamato la camera della tortura. Poi Vittorini, con conversazione in Sicilia, ha portato il viaggio nella letteratura siciliana. Io oscillo tra questi due opposti. Ma l’esigenza di muoversi o di star fermi dipende anche dalle speranze che si nutrono nella storia. Questo è un libro di grande disperazione, anche se ci sono qua e là. piccoli barlumi di sopravvivenza». E poi il libro di Consolo ci parla di letteratura: si apre con una dichiarazione di apparente sfiducia: «Ora non può narrare». Come, non può narrare? «Nel libro – dice Consolo viene agitato il tema dell’afasia. Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori e ti viene voglia di chiuderti. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere. Per narrare bisogna essere angeli, messaggeri, avere degli interlocutori in cui trovare comprensione. Se viene meno questa speranza, lo scrittore rischia l’afasia: basta pensare a Empedocle, a Ezra Pound, a Hòlderlin». E c’è l’afasia del vecchio Verga, raccontata in un capitolo del libro. Eccolo, l’autore dei Malavoglia, al suo ottantesimo compleanno, chiuso nel suo soliloquio, nell’amarezza dell’incomprensione, insensibile ai festeggiamenti e muto persino davanti a Pirandello chiamato a celebrarne ufficialmente la grandezza: «Verga ha subito una grave ingiustizia. E’ l’ingiustizia perpetrata ogni volta nei confronti degli scrittori che non adottano il codice linguistico imperante. Io ho voluto narrare il momento del suo risentimento e della sua ritrazione. Fu preso per un traditore, perché a un certo punto abbandonò il linguaggio mondano, assolutamente comunicabile, che piaceva tanto nei salotti nobili milanesi. Quando riscopre la memoria, sceglie una lingua intraducibile ma di estrema verità e poesia: a quel punto non viene più capito». Dalla parte di Verga, della sua lingua, una scelta che oltrepassa la superficie formale e che affonda nelle profondità della narrazione. Come le esplosioni barocche di Consolo, che da sempre bruciano nel corpo del suo racconto: «In una lettera, Calvino scriveva a Sciascia: io sento che tu raffreni la matrice barocca che c’è dentro la tua scrittura… Forse Sciascia aveva paura di sconfinare. Sono convinto che qualsiasi scrittore periferico sia spinto verso l’uso di un linguaggio eccentrico. Sciascia diceva che era un cultore del pensiero e che non sapeva pensare in dialetto. In me c’è questo bisogno, forse perché sono nato alla confluenza tra due mondi antitetici: la Sicilia orientale, contrassegnata dalla presenza della natura, dell’Etna, dei terremoti e quindi portata al lirismo; e la Sicilia occidentale, più razionalistica, attratta dallo storicismo. Ecco, io vorrei essere un illuminista ma la mia scrittura mi porta irresistibilmente verso il barocco. Vivo in continua oscillazione tra questi due poli». L’olivo e l’olivastro. Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 3 settembre 1994 ** Consolo (Mondadori, pagine 149,) Gibellina: un sudario di calce di Vincenzo Consolo
Da «L’olivo e l’olivastro»
Nel nudo, nel crudo terreno, nella desolata vaghezza,nella memoria dissolta, nell’estraneità,nell’assenza, sorge l’arroganza, l’offesa, il teatro dimarmo, di cemento, di bronzo, sorge alto sopra l’asfaltoil fiore stridente, la stella texana, la porta perla fiera del vuoto, per la città metafisica. Di larghestrade, di rampe, di scale, di spalti, portici, logge,vaste piazze, anfiteatri deserti, folgorati dal sole, tagliatidall’ombra, di cubi, sfere, coni, cilindri, giardinidi pietra, ghirigori di ferro, porte di marmo, cancelli,cerchi, ellissi, frecce, rombi, triangoli, sibillinialfabeti, il sarcasmo della reliquia innestata delframmento, l’arco il portale il timpano infranto.L’ombra alle spalle e il rimbombo sopra le lastre,fra le astratte sculture imponenti, le architetture dellacittà costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansiaperenne (…).Ora tu, eroe sconfuto, vieni fuori dauna casa del nuovo paese, cammini sullastrada deserta, li guardi intorno smarrito,lo t’incontro, ti chiedo.«Sono nato a Gibellina, di anni ventitré…», rispondi. «Che dico?… Mi chiamoNicola, sono nato a Gibellina, holavorato nelle cave di Meirengen. vicinoBasilea. Ho là moglie, figli che non voglionopiù tornare in questo paese». «Tiriconosco, Nicola, e son passati tanti anni,sei incanutito… T’ho incontrato alla stazione diMilano…».«Anch’io ti riconosco, e sei vecchio, hai una facciadiversa… Vorrei rivedere l’altro paese». Andiamoper quella campagna brulla, di radi alberi, di rocce,di stoppie, di palme solitarie. Arriviamo al colle, airuderi spianati e coperti da un’immensa colata dicemento, da una coltre bianca, da un sudario dicalce.Non so dov’era la mia casa, dov’era il castello,la piazza, la chiesa…», lamenta Nicola. L’emigrazione, i terremoti, lo sfascio del paesaggiola violenza, la corruzione delle coscienze:«La mia letteratura? La trovo tra Verga e Vittorini»
Il testo dell’intervista che pubblichiamo appartiene ad un tempo quasi remoto, a una fase della carriera letteraria di Vincenzo Consolo, allora appena sessantenne, in cui la fama ottenuta con Il sorriso dell’ignoto marinaio e con i successivi romanzi lo consacra come uno dei maggiori scrittori italiani della fine del secolo. Il 25 giugno 1994 andai per la prima volta a Milano a incontrarlo e registrai più di due ore di conversazione.
Trascritto minuziosamente dalla diligente studentessa di allora, il testo è rifiutato una prima volta alla pubblicazione o, per meglio dire, è accettato con tanti e tali tagli da indurmi a una giustificata rinuncia. Si perde poi nei meandri di una valanga informatica che travolge il supporto su cui era stato registrato. Per un’incredibile coincidenza, sarà poi ritrovato, su fogli di carta ingiallita, usciti da una preistorica stampante a nove aghi, nel fondo di un cassetto da cui nessuno avrebbe mai potuto stanarlo se non la curiosa allegria di un bambino. In breve, questa la ragione dell’ingiustificabile ritardo di stampa.
Nella revisione del testo ho privilegiato una struttura senza domande, che riordina con la dovuta fedeltà il lungo discorso di Vincenzo Consolo, le argomentazioni e i riferimenti. La continuità del discorso prevale sulla discontinuità della conversazione e permette, a mio parere, di cogliere più estesamente le idee enunciate, come se si trattasse più di una lezione che di un dialogo. Come si vedrà, molti dei temi qui in nuce sono poi stati ripresi e sviluppati altrove, sia nelle numerose interviste, sia negli articoli sia nei saggi2. Il discorso si sviluppa dunque intorno ad alcuni blocchi tematici, fitti di rimandi interni, che danno al testo coesione e coerenza. Particolare attenzione è data al nucleo della sperimentazione, all’idea manzoniana della scrittura come «metafora», al rapporto con Pirandello e con Verga.
Mi auguro, nel chiudere queste pagine, di avere dato la giusta luce alle parole dell’autore, sciogliendo, almeno in parte, un debito di riconoscenza che a lui mi lega, proprio da quel lontano 1994.
Antonio Pizzuto non era un autore d’avanguardia, o almeno non militava nell’ultima avanguardia italiana, che – sappiamo tutti – è il Gruppo 63. Ma non è per caso che Pizzuto sperimentava per conto suo ed era arrivato a determinati esiti ed era stato scelto, eletto, come nume tutelare degli avanguardisti del Gruppo 63. E dunque io, mentre cominciavo a scrivere, prendevo le distanze, sia dagli avanguardisti del Gruppo 63, sia da Pizzuto(Cherchi 1987), perché la mia sperimentazione è su un altro crinale, in un altro alveo, ed è la sperimentazione di tipo storicistico di tutti gli scrittori – senza andare lontano nel tempo, parlando del romanzo moderno – a partire da Verga sino a Gadda, passando attraverso Pasolini.
6E che cosa significa questo? Significa che lo sperimentatore è colui che lavora sul codice linguistico dato e cerca di rompere questo codice linguistico che, come tutti i codici, diventa rigido nei confronti di quella che Pirandello chiama la Vita. Il compito dello scrittore è di rompere il codice per immettere la Vita, poiché il codice è una Forma. Bisogna rompere tutte le forme per immettere la realtà.
La realtà di Verga, qual era? La realtà di Verga non era mai stata italiana, era una realtà di una periferia geografica, qual era la Sicilia, e di una periferia umana, qual era il grado più basso della condizione umana, quella dei pescatori di Aci Trezza. Ora, per Verga, far parlare questi personaggi in lingua toscana sarebbe stata una contraddizione. Questa è stata la grande rivoluzione linguistica, la grande sperimentazione di Verga. Bisognerebbe fare tutta la storia di Verga, di com’è arrivato a questa sua conversione, a questa caduta da cavallo sulla via di Damasco. Verga è un caso classico di conversione letteraria. Partì imboccando una strada, che è la strada – come sappiamo – del romanzo mondano; esce dalla Sicilia, va a Firenze prima, scrive dei romanzi di successo anche molto conosciuti, ma il romanzo che gli servì da biglietto da visita è stato La storia di una capinera, che era un tema molto alla moda, di derivazione diderotiana e manzoniana, cioè quello della malmonacata. Quindi, quando da Firenze si sposta a Milano, si presenta con questo biglietto da visita molto mondano, viene accolto nei salotti, e pensa di continuare a scrivere i romanzi che aveva letto fino a quel punto, ma si trova in una città che è in un momento storico particolare. Ricordiamoci che era il 1872. Milano era in preda alla prima rivoluzione industriale, la città era in pieno subbuglio, nascevano nuovi quartieri, quartieri operai, nuove industrie, si apriva la Pirelli. Il fatto è che, di fronte a questo sommovimento del panorama sociale, del panorama politico – perché avvenivano allora, con la crescita del capitale, i primi scontri sociali, c’erano i primi scioperi, le prime organizzazioni operaie – Verga rimase spiazzato, perché capì che la letteratura che aveva praticato sino a quel momento non rappresentava il contesto storico in cui lui si muoveva. E quindi, come scrive Sapegno, ritornò alla Sicilia della sua infanzia, al mondo intatto e fermo della sua infanzia, che era una sorta di Sicilia immota, la Sicilia del mito, la Sicilia del ricordo. E incominciò qui la sua svolta, la sua grande sperimentazione linguistica, avendo come parametro naturalmente la lingua di Manzoni. Ecco io credo, come credono in tanti, che lui abbia scritto contro Manzoni, contro il toscano di Manzoni.
Ricordiamoci che il toscano di Manzoni era un toscano rivoluzionario, nel momento in cui Manzoni lo scriveva, perché doveva dare una lingua agli italiani; quello di Manzoni era un intento di tipo ideologico, di tipo politico, di unificare questo paese linguisticamente. Quando passa il momento manzoniano, in cui l’unità è avvenuta, in cui la nazione rischiava di diventare nazionalismo, si lasciano fuori dall’indagine letteraria strati popolari e zone di questo paese che la letteratura non aveva riflettuto fino a quel momento, se non a livello dialettale. Verga si incarica quindi di portare in letteratura questi personaggi, che sono i vinti, quelli che lui, nella sua concezione immobile del fato, aveva immaginato come vinti. Parte dal primo gradino della società: concepisce un grande affresco e la rivoluzione linguistica. Da Verga in poi, comincia il filone moderno della letteratura italiana e della sperimentazione linguistica, ma nell’alveo della tradizione.
Quando c’è l’avvento del fascismo – e questo bisogna tenerlo presente perché la letteratura non si muove nel vuoto, si muove nella storia – avviene una sorta di imposizione del codice linguistico nazionale, per cui si scriveva in toscano e il romanzo di tipo sperimentale incominciò a diventare sospetto. Si formarono delle correnti letterarie che vanno sotto il nome di Ronda o di Voce, che immaginavano una sorta di lingua pura, di lingua metallica, assolutamente formale. Il romanzo cadde in disuso e venne di moda il frammento, ci fu il periodo del frammentismo, dell’elzeviro, che era la bella prosa.
Non bisogna poi dimenticare le due esperienze che precedono il fascismo e sono parallele ma speculari: da una parte, questa specie di orgia linguistica e lussureggiante che era stata la lingua dannunziana e che aveva pervaso tutta la borghesia e la piccola borghesia italiana, per cui, quando si scriveva, bisognava scrivere secondo i moduli dannunziani. Dall’altra parte, c’era stata l’esperienza devastante, azzerante dei futuristi, dei marinettiani. Si tratta di due fenomeni speculari: voglio dire che tutti e due, sia Marinetti che D’Annunzio, non facevano altro che riflettere la lingua del potere e al potere interessava azzerare i codici della lingua per poter costruire una lingua del potere stesso.
3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.
Io penso veramente che le avanguardie non siano altro che la faccia speculare del codice linguistico del potere; quando poi finiscono, decadono, adottano la lingua del potere, la lingua della conformazione. Mentre la sperimentazione è più inquieta, perché opera nella tradizione e cerca di immettere le voci della verità, non delle voci artificiali, di gruppi di letterati. Finito il fascismo, crollata questa doppia lingua, Pasolini fa un’analisi molto dettagliata e molto bella nel 1964, quando scrive il suo famoso saggio sulla nascita della lingua italiana e fa una disamina di quel che era la lingua italiana fino a quel punto3.
Caduto il fascismo, naturalmente si sente l’esigenza di tornare alle vecchie sperimentazioni, con immissioni, con sperimentazioni linguistiche, e si ha il grande fenomeno di Gadda. Non si può immaginare niente di più lontano di uno scrittore come Gadda da Verga. Verga è casto, parco, asciutto: la sua lingua non era dialettale, ma era – come dice Pasolini – una lingua toscana irradiata di dialettalità; aveva abbassato il codice linguistico toscano a livello della sintassi e della paratassi dialettale siciliana, mettendo in campo tutti i modi di dire, i proverbi. Verga aborriva il dialetto, perché sapeva bene che il dialetto era un’altra cosa. Aveva avuto una polemica con Capuana sull’uso del dialetto in letteratura, e non solo con Capuana, ma anche con un altro scrittore siciliano che si chiama Alessio Di Giovanni, che gli aveva proposto di tradurre in siciliano IMalavoglia. Verga si era assolutamente opposto, perché sapeva qual era la sua rivoluzione linguistica. Parlando appunto di Gadda, sono due scrittori molto lontani: quanto uno è monocorde, così parco, così pietroso, tanto l’altro è polifonico, ricco, barocco. Gadda, in un’intervista uscita in un libro recente (questa intervista credo sia uscita al momento della pubblicazione del Pasticciaccio brutto de via Merulana), a chi gli faceva i nomi di Zola, di Queneau, di altri scrittori francesi, di una sperimentazione esterna all’Italia, ha risposto di considerarsi figlio di Verga. Si riconosceva appunto in questo filone della sperimentazione linguistica italiana a partire da Verga, solo che gli strumenti usati da Gadda erano diversi da quelli usati da Verga. In Gadda c’è la polifonicità dei dialetti: recupera tutti i dialetti italiani (questo grande calderone) per rappresentare il paese, mentre Verga usava un registro monocorde dell’irradiazione.
Pasolini, insieme a Gadda, è stato l’autore che nei romanzi ha sperimentato anche linguisticamente attraverso la tecnica della digressione; i personaggi partivano dall’italiano, poi man mano scivolavano verso il dialetto. Io mi riconosco in questo filone, considero come mio padre tutelare Verga, non credo negli azzeramenti, non credo nelle avanguardie, perché credo che la letteratura sia una continua sperimentazione, sperimentazione non solo linguistica, ma anche sperimentazione sulle strutture narrative, sulla struttura stessa del romanzo. Per quanto mi riguarda, io non ho usato né la digressione pasoliniana o gaddiana né l’irradiazione di tipo verghiano. Io ho usato quello che chiamerei l’innesto: innesto di parole, di fonemi, di lessici, che sono stati espunti dal codice linguistico nazionale, che mi ritrovo nella memoria, nel mio bagaglio regionale, nella storia linguistica siciliana. Parole di lingue che le varie dominazioni hanno lasciato in Sicilia, le varie civiltà se non vogliamo chiamarle dominazioni. E quindi io cerco di immettere questi vocaboli, che non sono italiani ma che hanno una loro dignità filologica, che vengono da altre lingue. Sono vocaboli che di volta in volta possono venire dal latino o dal greco, dall’arabo o dal francese, dallo spagnolo e che sono il segno della ricchezza storica, civile e linguistica della regione di cui io parlo. I miei personaggi, e anche lo stesso io narrante nei miei romanzi, recuperano questi vocaboli che sono stati cacciati via, che sono stati sepolti.
Io ho spesso paragonato il mio lavoro di ricerca linguistica al lavoro dell’archeologo: cerco di scavare per tentare di disseppellire questi resti, questi reperti linguistici, e di metterli alla luce, di metterli in circolo. Poi, naturalmente, obbedisco ad altri criteri: sono i criteri della sonorità, del polisenso che può avere un vocabolo di più sensi piuttosto che un unico senso. Ubbidisco a tante esigenze in questa mia sperimentazione. In questo mi sento lontano da Pizzuto, perché io sono sempre spinto da un intento storicistico nella mia ricerca, cerco di essere sempre aggrappato alla storia e la mia sperimentazione non è solamente in senso formale. Mi preoccupo sempre che ci sia un equilibrio tra il contenuto e la forma, tra quello che voglio dire e il modo in cui lo dico. In Pizzuto invece c’era lo scivolamento solo in un senso formale, e la sua scrittura diventava come una musica atonale, una scrittura astratta, dove la linea narrativa non si svolgeva più, le parole diventavano puro suono senza il significato, era puro significante. In quello mi sento molto lontano da Pizzuto e capisco perché gli avanguardisti avessero scelto Pizzuto come loro nume tutelare, proprio perché era la pura sperimentazione formale.
La lezione pirandelliana l’ho appresa attraverso Sciascia. Credo che il mio nome si possa accostare a Pirandello in questo: che c’è in me l’ansia… Voglio dire che c’è in me il desiderio, il bisogno, la volontà di uscire dall’immobilismo verghiano; perché io credo che in Sicilia ci siano due modi per essere scrittori: appartenere al filone verghiano o appartenere al filone pirandelliano. Voglio dire che ci si può immettere nella zona del mito, ci si può immettere nella zona dei temi dell’assoluto dell’esistenza e chiudersi in questa sorta di concezione fatalistica della vita, dell’esistenza della condanna del fato nel modo in cui l’aveva concepito Verga, di una vita circolare senza assolutamente nessuna via di uscita. Io credo che la modernità di Pirandello consista nell’aver cercato di rompere questo cerchio e di riportare il discorso letterario non sulla circolarità, ma sulla linearità. E Pirandello l’ha fatto attraverso la dialettica, l’ha fatto attraverso la parola, quindi ha rotto quella chiusura del proverbio, del modo di dire ereditato dai padri, dalla tradizione, così come l’aveva concepito Verga, questo parlare come se fosse un salmodiare di Sacre Scritture, della Bibbia o del Corano; erano delle formule quasi sacre che si ripetevano. Pirandello ha cercato di far uscire l’uomo dalla sua condizione di condanna attraverso la ribellione, la rottura di questo codice linguistico e quindi la dialettica, l’interrogarsi sul perché di questa condanna, il chiedere conto a qualcuno del perché di questa condanna. Ne viene fuori un mondo ancora più straziante in Pirandello: è quello che Giovanni Macchia chiama «la stanza della tortura» (Macchia 1981), è un continuo torturarsi. C’è questa grande rivoluzione pirandelliana nel teatro e nella sua prosa – a parte i romanzi di tipo storico – di uscire dal cerchio verghiano e di rompere la fatalità della tragedia greca, di portarla sul piano della commedia moderna attraverso l’umorismo, attraverso l’ironia, attraverso l’articolazione della parola e del discorso, quindi attraverso la comunicazione. Ora, questo è un modo illuministico, un modo moderno di concepire la condizione dell’uomo e io ho cercato, per il mio destino di centralità – sono nato nella Sicilia centrale e mi sono trovato in bilico tra questi due mondi, il mondo orientale di Verga, che è invaso dalla natura, che protende verso il lirismo e verso il mito, e il mondo occidentale, che è il mondo più dialettico, il mondo più storicistico, più della ragione, a cui appartiene Pirandello, a cui appartiene Sciascia – io ho cercato di conciliare questi due opposti e quindi la mia scrittura forse consiste in questa continua oscillazione tra il mito e la storia, tra il lirismo e la dialettica. Io, sotto questo bisogno dell’espressività o dell’espressionismo, come l’ha chiamato Segre, credo che si scorga il martellare della ragione, della dialettica, dello storicismo. In questo io mi sento anche erede di Pirandello. Per esempio Vittorini, che apparteneva alla Sicilia orientale – veniva da Siracusa – e quindi era fortemente invaso anche lui dalla natura, aveva una propensione al lirismo, che non poteva spegnere; anche lui aveva sentito il bisogno di uscire dall’immobilità, aveva concepito i suoi racconti, i suoi romanzi come viaggi, come movimento; però l’aveva fatto soltanto esteriormente, perché poi anche Vittorini, alla fine, risulta un grande formalista. Tuttavia c’era questa esigenza del movimento, del fare, del togliersi dall’immobilità della rassegnazione, del dolore. Mentre in Pirandello tutto questo dolore diventa essenza, diventa parola, in Vittorini è soltanto nella vicenda raccontata il movimento, ma formalmente, stilisticamente, rimane chiuso anche lui dentro la forma.
Pirandello per forza doveva poi alla fine salire sul palcoscenico, perché la sua scrittura è teatrale, è una scrittura dialettica, dialogica, fortemente teatrale; quindi ha sentito il bisogno del teatro e di rompere le pareti del teatro, di creare la quarta dimensione.
La «vastasata» era il teatro popolare, molto scurrile, per i facchini, perché «vastaso» viene da «bastizo», che in greco significa «portare addosso» e quindi da noi esiste questa parola «vastaso» che è detta in doppio senso: sia come professione («u vastasu» è colui che porta, il facchino), ma anche nel senso metaforico della parola, che vuol dire sporcaccione, colui che usa il linguaggio scurrile. C’era quindi una forma di teatro siciliano, soprattutto palermitano, che si chiamava la «vastasata», che era un po’ come le atellanae, come il teatro romano più scurrile. Cocchiara(1926) si è occupato di questa forma di teatro, che usa un linguaggio molto sboccato, molto diretto, un teatro di tipo carnascialesco, che poi usciva dagli argini del carnevale e diventava un teatro per tutto l’anno, perché quella licenziosità si ammetteva soltanto nel periodo del carnevale, ma poi ha finito per essere recitato tutto l’anno.
Essere dentro o fuori dalla miniera di zolfo significa che i parenti di Pirandello erano proprietari di zolfare e Sciascia era nipote di uno zolfataro. La differenza sta in questo. Pirandello stesso ha fatto il guardiano per un breve periodo, quando voleva smettere di studiare, in una zolfara. Suo padre era un proprietario e commerciante di zolfo e forse il nucleo del dolore pirandelliano viene da questa personalità del padre, che era molto forte, e da questo mondo tremendo e anche terribile dei commercianti di zolfo, dei proprietari. Sono tutti e due scrittori di tipo logico-dialettico, ma l’uno verso la zona dell’esistenza (Pirandello), l’altro verso la zona civile, politica, perché anche tutta la letteratura di Sciascia è una letteratura dialettica, quella dell’indagine, del delitto ecc.
È questa la grandezza di Pirandello. Dove avviene questa tortura? Nel chiuso di una stanza, in un interno borghese, mentre la dialettica di Sciascia avviene nella piazza del paese di Racalmuto, dove si discute dell’amministrazione comunale, del circolo dei civili, perché l’uno era figlio di zolfataro, l’altro era figlio di proprietari dello zolfo. È questa la differenza per cui io dico «dentro» o «fuori» della miniera. Erano tutti e due sulfurei, sia Pirandello che Sciascia. La presenza dello zolfo è stata molto importante in questi due scrittori, credo che abbia veramente segnato le loro personalità. Io ho scritto un saggio sulla letteratura dello zolfo, uscito in un libro che si chiama ‘Nfernu vero, delle Edizioni del Lavoro (Grimaldi 1985). È una di quelle cose che dovrò ripubblicare. È una disamina di quella che è stata la letteratura scaturita nella zona delle zolfare in Sicilia.
Il mio romanzo su cui i critici si sono più soffermati, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nella scrittura è la parodia di una scrittura, non è la scrittura dell’autore: è la parodia di un erudito dell’Ottocento, che è il barone di Mandralisca, che poi cade in crisi. È, dicevo io, una scrittura in negativo perché, nel momento in cui questa scrittura si dichiara, nello stesso tempo si nega, perché è parodistica, perché è abrasiva, l’intento è abrasivo. E quindi, a un certo punto, c’è la rottura di questo linguaggio ottocentesco, dell’erudizione ottocentesca, con le scritte dei condannati a morte, c’è questo stacco linguistico, questa frattura. Il libro è molto complesso, perché bisognerebbe parlare anche della struttura oltre che del linguaggio. Questi giochi sono però sempre in bilico, perché è una scrittura in negativo che a momenti, nei momenti di commozione, si rovescia in scrittura in positivo, nella rievocazione degli orrori; quando il barone descrive la strage di cui è stato testimone, c’è molta pietà e allora la parodia si smette, diventa adesione, non è più parodia.
Anche Retablo è il massimo della parodia, è una parodia settecentesca di Fabrizio Clerici, che è un uomo del nostro tempo. Ma sotto questa parodia vengono fuori dei momenti di grande sarcasmo nei confronti di una certa Sicilia retorica, che è quella di Alcamo. Poi c’è naturalmente la commozione di fronte a una certa bellezza della Sicilia. Questo è un libro che nasce dalla polemica: è l’allontanamento di un intellettuale, di un artista, da Milano, da una Milano fortemente ideologica che in quel momento – era la Milano degli Illuministi – ed era la polemica di chi scriveva, contro il cristallizzarsi solamente dell’ideologia, che riflette solo il dato politico dell’uomo e non il momento globale umano. E questo personaggio, innamorato di Teresa Blasco (dentro ci sono molti segni, molte metafore), che poi è la nonna di Manzoni, il padre della letteratura italiana moderna, ha questo senso: che l’ideologia con la poesia (che è rappresentata da Teresa Blasco) genera uno scrittore come Manzoni. E quindi Fabrizio Clerici che si allontana dalla città ideologica, dalla città illuministica, va alla ricerca della poesia e la cerca nel luogo in cui è nata la sua donna e quindi prova commozione di fronte alla bellezza, ma vede anche gli orrori, vede quello che deve vedere la letteratura, che nessuna ideologia, nessuna storiografia riesce a vedere. Soltanto l’arte riesce a vedere gli orrori e le bellezze dell’esistenza, della vita, quindi ecco le scene di Alcamo, la commozione di fronte alle antichità, che a volte sono anche ironizzate; ad esempio, quando c’è la statua dell’efebo di Mozia che cade in mare, c’è l’ironia del feticismo delle antichità, ci sono tutti questi segni. È anche quello un libro molto parodistico, che vuole liberare determinate metafore moderne; poi c’è un’invettiva contro Milano da parte di Fabrizio Clerici, che era un’invettiva di uno – di chi scrive – che aveva amato questa città, che se ne era disamorato perché vedeva questa città deteriorarsi, diventare quello che sappiamo. C’è un momento in cui lui dice «arrasso, arrasso», in cui c’è l’enumerazione di una Milano che era la Milano del momento in cui io scrivevo e in cui tutti i personaggi che lui cita nella sua invettiva sono riconoscibili; quando parla del politico ladro, del prete trafficone, del poeta decadente, del gazzettiere: c’è tutta la Milano degli anni Ottanta, la Milano di Craxi.
La dialettica Milano-Sicilia era molto più ridotta prima, era la dialettica – fin dal mio primo libro – tra la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale. Io sono sempre stato dilaniato tra due polarità. Poco fa, facevo l’esempio di Verga e Pirandello; questo bisogno di conciliare gli opposti l’ho sempre sentito, allontanandomi dalla Sicilia. Retablo è proprio molto emblematico in questo senso, di questa polarità più ampia Milano-Sicilia. Dovrebbe essere il mondo della politica, della ragione, del vivere civile con il mondo del mito, della poesia, del lirismo, con tutto quel che significa, in un certo senso anche la Sicilia, il mondo verghiano; perché Pirandello aveva preso, anche se stava ad Agrigento, le distanze dalla Sicilia, per poterne parlare in modo logico, in modo razionale, dialettico.
In Retablo c’è anche l’idea dello scrittore come «castrato» della vita. È la ripresa della frase di Pirandello «la vita o la si scrive o la si vive». È l’idea della condizione dell’artista, di questa nostalgia struggente di una vita da cui ci si apparta continuamente, e quindi c’è il tendere la mano, sempre per cercare di afferrare la vita che, intanto, mentre tu ti apparti per tentare di rappresentarla, scorre per conto proprio.
4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni pater (…)
L’idea su cui si fonda Retablo è quella della lontananza che consente la scrittura, l’idea della distanza memoriale. Poi lo scrittore si riattualizza compiendo quel salto mortale che è la metafora, perché l’artista – lo scrittore soprattutto – ha sempre bisogno di volgere la testa indietro per attingere alla memoria, a quel patrimonio che si porta dietro e che non è l’attualità4. Questa necessità di volgere la testa indietro per attingere alla memoria è la distanza memoriale. Io non concepisco letteratura senza memoria. Non capisco tutta la querelle stupida che c’è stata negli anni scorsi tra i giornalisti, che sono i nuovi scrittori perché parlano dell’attualità, e degli scrittori che sono inattuali. C’è un grande discorso da fare su questo momento che stiamo vivendo, su questo secolo in cui c’è stata l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa e quindi la messa in crisi dello scrittore. E lo scrittore, per difendere lo spazio letterario, deve sempre di più ricorrere alla memoria, perché non è possibile per uno scrittore raccontare in termini assolutamente di comunicazione l’attualità, raccontarla in modo così diretto come fanno i giornali ogni mattina o come fa la televisione. Perciò molto spesso si confonde il giornalismo con la letteratura e molti aspirano a far omologare, a far diventare la letteratura giornalismo.
Quando è uscito il mio ultimo libro, Nottetempo, casa per casa, c’è stato un famoso giornalista, il quale ha una rubrica su L’Espresso, che ha osservato con molto candore:
Ma questo Consolo, quando scrive degli articoli sui giornali è chiarissimo, molto logico, e quando scrive i romanzi usa dei vocaboli come questi…
e indicava tutta una sfilza di vocaboli che a lui sembravano strani, molto ricercati. Si chiedeva il perché di questa dicotomia, di questa disparità, e metteva il dito – come si dice – nella piaga, cioè non capiva la differenza tra quella scrittura che Barthes chiama «scrittura d’intervento», la scrittura giornalistica, e la scrittura letteraria. Non vedeva la necessità dell’altra scrittura perché lui, da giornalista, vorrebbe che la letteratura fosse come il giornalismo.
Tutto ormai deve diventare giornalismo e anche questi grandi giornalisti, come Bocca o come Pansa, dicevano qualche anno fa: «Siamo noi i nuovi narratori, i nuovi Balzac». Il loro è un linguaggio passivo, d’accatto, sono dei gerghi che poi si scimmiottano, si ripetono. Ci sono delle formulette che inconsciamente, naturalmente si trasmettono l’uno con l’altro e ripetono passivamente perché loro non hanno un problema di linguaggio, quindi hanno bisogno di usare un linguaggio che è già consumato, per essere il più comunicativi possibile. E stiamo parlando di parole, non consideriamo quello che è il mondo delle immagini…
Nel Sorriso dell’ignoto marinaio la figuratività è portata proprio come una cifra, c’è l’iconografia dell’ignoto marinaio. In Retablo la topologia figurativa è fondata poeticamente sull’assenza di un referente concreto. In tutto il libro c’è un’interruzione continua quando Isidoro deve parlare di Rosalia, c’è sempre un’interruzione, perché poi c’è il disvelamento alla fine. Rosalia rimane il vagheggiamento, l’eterno femminino, rimane anche l’ambiguità dell’altro, perché la parola veritas è una parola naturalmente ironica, perché la verità è quella effigiata dallo scultore Serpotta, la verità nuda, prorompente; ma questa fanciulla, che è molto ambigua – non si capisce se abbia amato Isidoro o se l’abbia ingannato, preso in giro, giocato –, è poi l’inganno dell’amore, l’inganno della poesia, che però sono degli inganni assolutamente necessari all’uomo, senza i quali non potremmo vivere. La citazione iniziale di Jacopo da Lentini evidenzia già tutto il tracciato del libro. L’uso di una certa topologia figurativa, del riferimento a una tradizione «alta» della poesia, è continuamente ribaltato, rovesciato, a fini parodici.
In Retablo, già la parola «retablo» è iconica, è una composizione pittorica e nello stesso tempo è anche spettacolo teatrale. In Cervantes, il retablo diventa lo spettacolo teatrale; infatti c’è l’illusione del «retablo de las maravillas», il nome è preso da Cervantes. Nella tradizione pittorica siciliana che ci hanno portato gli spagnoli, c’è la parola «retablo», una composizione pittorica in più riquadri, dove si racconta una storia. Ma c’è anche questo teatrino delle illusioni che è la letteratura. E quindi Rosalia è l’interprete principale di questo teatrino. Il primo capitolo e l’ultimo, che sono i pannelli laterali del retablo, seguono lo schema del contrasto, del contrasto d’amore, con le due voci – prima Isidoro, poi lei, Rosalia, che risponde, come in Rosa fresca aulentissima.
Altro dato importante è il colorismo. La pesca del corallo è una cosa molto mediterranea, soprattutto Trapani era uno dei centri della pesca del corallo, dove c’era un grande artigianato e quindi c’è l’amore di tutta questa memoria, ma anche di questa materia marina; è una concrezione marina il corallo, che ricorda molto la grazia femminile, con questo rosa acceso che dà luminosità al volto delle donne, più degli smeraldi che sono molto freddi, freddi come le stelle; è una pietra più carnale.
Il corallo che viene usato per la descrizione di Rosalia, come il verde che viene usato per Teresa Blasco, alla fine si fondono. Rosalia amata da Isidoro, Rosalia amata da Vito Sammataro, Teresa Blasco, alla fine diventano un’unica immagine, un solo profilo. C’è un momento in cui Fabrizio Clerici disegna il profilo di una donna e ognuno vede la propria Rosalia: è l’idea propria di tanta poesia italiana, almeno fino al Cinquecento, e di tanta lirica a sfondo teologico, l’idea della rappresentazione dell’assenza, dell’irrealizzazione.
Nei miei libri c’è una sorta di critica alla religione come potere, anche alla condizione clericale come condizione innaturale, perché i miei preti e i miei frati molto spesso impazziscono, perdono i freni. Anche nelle Pietre di Pantàlica c’è un altro frate pazzo (oltre a frate Nunzio, frate Isidoro, fra’ Giacinto), Frate Agrippino, che si fustiga. C’è questa innaturalità della costrizione del potere della religione sull’uomo, però c’è anche il recupero di una religiosità più autentica, più armonica con la vita, con il mondo, che è quella del pastore di Segesta; quello è un luogo pregreco, dove poi sono arrivati i Greci, dove c’erano gli Elimi e quindi c’erano dei templi di dee catactonie, sotterranee, dove si facevano dei sacrifici con gli elementi naturali, con il latte, con il miele. Poi c’è stata una sorta di sincretismo con l’arrivo dei Greci, del recupero di queste forme epocali, arcaiche. E quindi c’era il bisogno di una religione che fosse più consona con la natura, meno di frattura con la natura, di una religione che non fosse un apparato di potere, che non fosse costrizione. C’è questo, non il gusto di essere dissacratore. Il racconto dei frati nel convento della Gancia è una sorta di parodia boccaccesca, un po’ grottesca, un po’ atroce. Anche don Gregorio Nanfara, in Filosofiana, è un esempio di impostura. Don Gregorio era l’impostore locale, che era stato in seminario, sapeva un po’ di latino e imbrogliava la povera gente come Vito Parlagreco, perché quest’ultimo era uno che cercava il tesoro dentro questa tomba, mentre il furbo don Gregorio sapeva che il tesoro erano i vasi, di cui si appropria e che poi avrebbe rivenduto. È sempre l’idea del più acculturato che frega il più ignorante, con tutte le sue formule latine, con i suoi libri, vivendo di questa mistificazione, di questa impostura; quindi è la denuncia della religione come impostura, come acquisizione di determinate formule per ingannare.
Nel Sorriso dell’ignoto marinaio c’è poi l’idea manzoniana della scrittura come potere, come impostura. La scrittura come strumento del potere, nel Sorriso è questo. Manzoni fa dire a un popolano la stessa cosa; infatti Renzo è stato fregato dal latino di don Abbondio e da Azzeccagarbugli.
Cherchi G., 1987, «Mille e una notte», L’Unità, 11 novembre.
Cocchiara G., 1926, Le vastasate, Palermo, Sandron.
Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.
Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani».
Grimaldi A., 1985, Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, saggio introduttivo di Vincenzo Consolo, Roma, Edizioni del Lavoro.
Macchia G., 1981, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori.
Pasolini P. P., 1964, «Nuove questioni linguistiche», Rinascita, 26 dicembre.
NOTES
2 Si rimanda, a questo proposito, all’importante lavoro che Gianni Turchetta ha svolto per il «Meridiano» dedicato a Consolo: cfr. Consolo 2015.
3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.
4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. […] La lezione di Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile».
Ho sentito il bisogno di
incontrare Vincenzo Consolo dopo aver letto uno a poca distanza dall’altro, due
dei suoi romanzi, Il sorriso dell’ignoto
marinaio del 1976 e Nottetempo casa
per casa del 1992. Lo spazio di tempo che ho lasciato tra i due libri mi è
servito per gustare appieno il piacere e l’emozione per la scoperta de Il
sorriso, nel timore forse che un secondo libro avrebbe potuto smorzare il
grande entusiasmo che mi era nato.
“Perché li hai letti uno di seguito
all’altro? – mi chiede Consolo – Io li considero un dittico, potrei metterli
accanto, questi due libri, perché oltre a svolgersi nello stesso luogo
(Cefalù), sono complementari proprio perché partono da una concezione
diametralmente opposta: nell’uno c’è il racconto di un’utopia politica, nell’altro c’è il racconto del crollo di
questa utopia, di una sconfitta. Sono due momenti storici diversi: il primo è
il 1860, quando si erano accese le speranze per le classi emarginate; il
secondo è attorno agli anni Venti, quando c’è l’arrivo del fascismo.”
Non so neppur io perché abbia letto proprio
quei due libri e in quell’ordine. Lo considero un segno benevolo del destino
mentre mi guardo attorno, seduta nel suo studio milanese:
Non avevo voluto sapere nulla di lui, tranne
quel poco che avevo letto sui giornali durante l’infuocata campagna elettorale
della primavera passata per le amministrative a Milano, quando era intervenuto,
provocatoriamente contro la Lega.
Dolcevita di lana e golf (vestito allo
stesso modo, avevo incontrato un altro siciliano, qualche anno fa, in una
fredda giornata d’inverno, Giuseppe Migneco), si scusa: “Perdoni se qui fa
caldo, ma noi teniamo il riscaldamento un poco alto”.
Allora penso subito al calore della sua
terra, al sole, mentre fuori piove e Milano, è immersa nell’intenso, intimo
grigio dell’autunno lombardo. (Questa grande città deve avere esercitato un
fascino profondo, seppure non facile, su tanti grandi siciliani, da Verga a
Vittorini, da Quasimodo a Guttuso e Migneco…)
Le pareti della stanza sono coperte da
semplici scaffali di legno chiaro pieni di libri; un poco ovunque, attorno,
segni del suo gusto, della sua storia: dall’antica incisione della pianta di
Messina alla raccolta di letteratura francese (è figlio della ragione
illuministica, Vincenzo Consolo, rinato però alla speranza nella visione
marxiana della storia, oggi naufragata); dalla maschera di morte di Giacomo
Leopardi (dietro lo scrittoio, un poco di lato) ai tanti libri, librini e
libroni sulla Sicilia; dai preziosi volumi di letteratura italiana della
Ricciardi e dei classici Mondadori e Bompiani all’ antica piastrella di
maiolica e al grande piatto con limoni, di Migneco. Il lampadario, in legno
dorato, è di gusto barocco; ceramiche dalle forme e dalla patina antica (in Nottetempo descriverà accuratamente
l’arte del costruire una giara, come segno di conoscenza e di rispetto della
cultura dei vinti, dai potenti, della storia…)
si accompagnano a stampe di gusto simbolista ( ce n’è una di Max Klinger,
autore già amato da Sciascia, che lo cita in Una storia semplice); due piccoli divani, bianco e verde-mare,
completano il mio ricordo della stanza. (Mi perdoni professore ho cercato di
conoscerla anche attraverso le sue cose). Tutto è come calato in una precisa
misura, dove chiara è la predilezione per la semplicità; non ci sono
esagerazioni. La stessa compostezza è in lui, gentile davvero, il volto sereno
ed espressivo, animato da passioni certo vive che non devono però amare gesti
plateali, radicate come sono nel profondo, nell’antico.
Tra novembre e dicembre due sono stati
gli incontri: il primo fatto di un lungo colloquio un po’ su tutta la sua
vicenda letteraria; il secondo, divenuto necessario per chiarire e precisare un
paio di punti rimasti in ombra. Ascoltarlo è stato un piacere: la voce calda e
profonda, il parlare piano e semplice, attento sempre all’interlocutore.
Il titolo di questo articolo è,
naturalmente, un omaggio al grande libro di Vittorini Conversazioni in Sicilia e ad una terra anche da noi conosciuta e
tanto amata.
Dove è nato, professore? A Cefalù?
C.: Sono nato in un paese vicino a
Cefalù, a Sant’Agata di Militello, sulla costa tirrenica. Per ragioni di ordine
letterario, diciamo, nella mia immaginazione mi sono spostato più verso il
mondo occidentale, perché il mondo occidentale siciliano è quello più
strutturato dal punto di vista storico, mentre il mondo orientale (Messina e
tutta la costa ionica) è un mondo meno strutturato da questo punto di vista,
perché lì la storia è stata cancellata dai disastri umani, è più invasa dalla
natura (il terremoto di Messina e la presenza di un fenomeno come quello
dell’Etna). Questo ha fatto si – almeno io, nella mia immaginazione, l’ho
potuto constatare – che ci siano in Sicilia due letterature, diametralmente
diverse e opposte: quella della Sicilia orientale e quella della Sicilia
occidentale. Quella orientale è contrassegnata da una sorta di propensione al
canto, al lirismo e soprattutto alla forma. Il caso eclatante è quello di
Verga. Uno scrittore come Verga non poteva che nascere sulle falde dell’Etna,
con la presenza di questo fenomeno naturale che toglie ogni speranza. Un
discorso storicistico da quella parte è difficile che nasca.
Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni,
come De Roberto, però lì sono nati i poeti. Quasimodo è nato da quella parte.
Vittorini stesso, che era impegnato sul piano della storia, quando scriveva era
estremamente lirico. D’Arrigo, per
esempio, è un altro caso di lirismo, come lo stesso Bufalino, con impegno
formale più accentuato.
Dalla parte occidentale, invece, gli
scrittori sono più logici.
All’inizio, quando mi sono
trovato a scrivere, ho avuto lo svantaggio di vivere alla confluenza di questi
due mondi; ero al centro. E poi ho capito che avrei potuto trovare la mia
identità cercando di far unire questi due mondi: partire da un presupposto storicistico,
razionale e poi spostarmi verso la zona poetica, verso la zona lirica e
formale.
Lei ha compiuto studi classici, immagino. In Sicilia?
C.: Sì, sono cresciuto in Sicilia, ma sono venuto
a Milano per fare gli studi universitari. E poi, quando ho capito che volevo
fare lo scrittore, me ne sono tornato in Sicilia. Ma L’idea che avevo di fare
lo scrittore era di tipo sociologico, perché allora le letture erano proprio di
tipo meridionalistico. Scrittori per me centrali erano il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli…
Quando è arrivato a Milano?
C.: Era il 1952, una Milano molto diversa da quella che
avrei ritrovato più tardi.
Una città però molto viva, allora.
C.:
Sì, erano gli anni della ricostruzione. Io sono venuto per frequentare
l’Università Cattolica; avevo trovato alloggio nel collegio universitario.
Avrei voluto iscrivermi a lettere, ma per l’opposizione della mia famiglia ho
scelto legge come via di compromesso.
In quegli anni, in quell’ateneo, c’erano
tante persone che poi sarebbero diventate classe dirigente italiana: c’erano i
De Mita, i fratelli De Mita; c’erano Riccardo Misasi e Gerardo Bianco; c’era
Fanfani che insegnava ad Andreatta; e molti altri ancora!
Io approdai lì casualmente, seguendo
l’esempio di un mio compaesano. Il convitto costava poco, garantendomi una
stanza e una mensa, ma non è che avessi una particolare convinzione di tipo
ideologico o religioso; la mia era una famiglia laica.
L’Università Cattolica era allora
frequentata sia dai rampolli della borghesia milanese e lombarda di tipo
cattolico, per i quali era una scelta, sia da una gran massa di meridionali (e
tra questi i nomi che ho citato), gente modesta per lo più, mandata lì dai
parroci e dai vescovi della provincia italiana, molto spesso con un certificato
di povertà, grazie al quale studiavano gratuitamente.
Mentre vivevo lì, ho visto una cosa che mi
ha colpito molto. Nella piazza Sant’Ambrogio c’erano allora due realtà
importanti: una era l’Università, il luogo degli studenti; l’altra era il
Centro Orientamento Emigrati, così si chiamava. Era ospitato in un vecchio
convento, una sorta di casermone, dove adesso c’è la Celere e anche un posto di
Polizia. In quegli anni, quando andavo nella piazza, vedevo masse di
meridionali che, prelevate alla stazione su appositi tram, venivano scaricate
lì.
Portate in questo Centro
Orientamento venivano poi sottoposte a visite mediche e avviate in seguito nei
vari luoghi di emigrazione. Da Milano partivano per andare in Francia, in
Belgio, in Svizzera, nell’Europa centrale, insomma; quelli che andavano in
Germania. Venivano raccolti a Verona.
A noi studenti poteva capitare di
incontrare dei compaesani che emigravano oppure dei compaesani vestiti da
poliziotti, che per bisogno si arruolavano nella cosiddetta polizia di Scelba. Io ho incontrato un compaesano che giocava
con me all’oratorio, si chiamava Giacomino, era vestito da poliziotto, col
manganello. Io non so se quelli che sono
diventati poi uomini politici abbiano visto, abbiano osservato la realtà che io
osservavo.
Allora sarei potuto rimanere a Milano,
perché in quegli anni il lavoro si trovava.
Erano gli anni in cui a Milano c’era anche Marotta, e
c’erano naturalmente Vittorini e Quasimodo…
C.:Io ero venuto proprio sulla scia di questa mitologia
milanese della letteratura siciliana. Amavo molto la letteratura e
inconsciamente ero venuto anche per quello, sapevo della presenza loro e di
altri artisti.
Li conosceva già?
C.:No, assolutamente. L’unica persona che avrei desiderato
conoscere in quegli anni era Vittorini, però ero talmente timido che non osavo…
Al finire degli studi, poi, me ne sono
tornato in Sicilia, per scrivere.
Per vivere mi misi ad insegnare, in scuole
agrarie, in paesi di montagna, sui Nebrodi, alla confluenza con le Madonie, con
paesi a 1000 metri di altezza. Andavo ad insegnare a San Fratello, a Caronia;
erano luoghi quanto mai lontani. Insegnavo diritto, che allora si chiamava
Educazione Civica e Cultura generale (significava italiano, storia e diritto).
Però poi mi accorsi che quella scuola era una finzione perché i ragazzi erano
destinati all’emigrazione; l’agricoltura stava chiudendo e quindi… I loro padri
erano già emigrati.
Lei parla degli anni a cavallo tra il 1950 ed il ’60.
I contadini venivano spesso trattati ancora come servi della gleba. Da
ragazzina io ho vissuto non pochi mesi, proprio allora, in Sicilia e ricordo
bene quella realtà.
C.: Era una realtà tremenda. Non era ancora stata fatta
la riforma agraria (che fu poi una beffa, che non approdò a niente perché le
terre migliori se le appropriarono gli amministratori e ai contadini diedero le
pietraie, in luoghi irraggiungibili). C’era allora il processo di
industrializzazione del paese, quindi questa gente era costretta ad emigrare.
Comunque io avevo preso questa decisione
di raccontare il mondo contadino nel momento in cui questo spariva. Nel ’63,
però, quando mi misi a scrivere, misi da parte le intenzioni che avevo, che
erano fortemente politiche e sociologiche; l’istinto mi portò a scrivere in un
altro modo, che è quello proprio della forma prettamente letteraria, con una
connotazione stilistica molto, molto accentuata. Sentivo quest’impegno della
storia, ma amavo e seguivo molto la letteratura.
Nel primo libro parlavo degli anni di me
adolescente: ho voluto raccontare il dopoguerra in Sicilia, la caduta del
fascismo, l’arrivo degli americani, la ricostituzione dei partiti, le prime
elezioni del ’47 e poi la strage di Portella delle Ginestre e quindi le elezioni
del ’48, con questa sorta di pietra tombale che cadde su questo paese. Voleva
essere una storia emblematica di quello che era successo, raccontando delle
ennesime speranze che s’erano accese in Sicilia nel secondo dopoguerra e del
come queste speranze finirono quando arrivò quel grande partito, che è durato cinquant’anni
da noi…
E il libro narrava proprio questo, ma
visto con gli occhi di un adolescente, quindi con un linguaggio molto
trasgressivo. Io mi rifiutavo di scriverlo in italiano e allora mi sono
costruito, come cifra stilistica di estrema opposizione, un dialetto. Mi sono
immaginato di un paese vicino al mio, che si chiama San Fratello ed è un’antica colonia lombarda,
un’isola linguistica. È una cifra che mi ha accompagnato anche per altri libri,
anche nel Sorriso, in Lunaria e, in modo più accentuato, nelle
Pietre di Pantalica e questo per
dire, appunto, di una estremità linguistica da cui io sempre parto per
approdare poi alla lingua, al toscano.
Istintivamente, allora mi collocai proprio
come un ragazzo che veniva da quel paese dove si parla un antico gallico, che
era la lingua che si parlava nella pianura padana (la diversità linguistica
nell’estrema diversità siciliana quindi).
Fu una forma istintiva di trasgressione, di opposizione al codice
linguistico dei grandi, che era quello paterno. C’era già, in quel primo libro,
questa sorta di impasto linguistico.
Che è già la ricerca di quel «nuovo significato delle
parole»? Lei ha scritto, in un passo bellissimo del Sorriso, a proposito di tutti quelli «che mai hanno raggiunto i
diritti più sacri ed elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la
pace, la gioia e l’istruzione»: «…tempo verrà in cui da soli conquisteranno
que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro e
giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti
dalle cose».
C.: Sì, e queste parole nuove sono parole
antiche, nel senso che sono parole seppellite dal codice imperante, dal codice
della comunicazione, che io cerco di disseppellire, di «rimettere» in circolo…
Non è solo un gioco formale, è un gioco anche di contenuti, perché la
letteratura è scrittura. C’è stato in me questo rifiuto di adottare il solito
codice comunicativo, per praticare un codice fortemente espressivo; si tratta
di un bisogno «oppositivo» per così dire: poiché i contenuti vogliono essere
così, la forma deve corrispondere ai contenuti.
Poi ho lasciato la Sicilia, nel ’68,
perché lì non c’era più niente da fare, perché, appunto i giochi erano stati
fatti. Quando sono andato via avevo 35 anni, non c’era più spazio per uno che
non poteva vivere di rendita, isolato e che aveva bisogno di lavorare;
l’alternativa per un giovane intellettuale come me era o aggregarsi al potere,
e al potere mafioso, o fare le valigie e andarsene.
Quindi sono andato via.
Negli anni vissuti in Sicilia, le uniche
due persone che ho frequentato sono stati due archetipi, due persone
emblematiche della mia formazione. Uno
era Lucio Piccolo, un poeta; era cugino di Lampedusa questo grande poeta,
purtroppo poco conosciuto. Era un poeta straordinario; ha avuto il torto di
morire presto. Lui è apparso sulla scena letteraria prima di Lampedusa; lo scoprì
Montale, poi fu pubblicato nello «Specchio» di Mondadori, però non riuscì a
completare il suo ciclo poetico perché morì abbastanza giovane, schiacciato
dall’esplosione del fenomeno Gattopardo. Lui veramente, quando lo nominavano come il
cugino di Lampedusa, si dispiaceva. Una volta ebbe a dire: «È Lampedusa che è
mio cugino» rimettendo le cose nel giusto senso.
L’altra persona che ho frequentato è stato
Sciascia, che ho conosciuto dopo aver pubblicato il mio primo libro. Glielo
mandai, e lui poi mi invitò ad andarlo a trovare (allora stava a
Caltanissetta); poi siamo diventati amici.
Quando l’uno era il poeta puro, un barone,
con questa poesia terribilmente ermetica, difficile ma affascinantissima, di
tipo spagnolo, una poesia molto accesa, tanto l’altro era invece logico,
limpido, cristallino, storicistico, di impegno civile.
Per me sono stati veramente come due
maestri, due poli.
E nel ’68, anche su consiglio di Sciascia,
presi le valigie e ritornai a Milano.
Non a Roma?
C.: No. Perché io credo che dalla Sicilia ci sono
due modi per uscire: uno è romano e l’altro milanese. C’è una corrente milanese
che è fatta soprattutto di scrittori che hanno vagheggiato una sorta di utopia
politica, perché Milano era l’antitesi della Sicilia, era la città dove c’era
la trasparenza amministrativa prima di tutto, e poi dove si era realizzata in
qualche modo, una certa equità sociale. Quindi approdavamo a Milano come al
luogo antitetico alla Sicilia.
A Roma invece approdavano degli scrittori
a cui interessava il discorso del potere, e quindi Brancati e Pirandello. Un Pirandello che, con quella sua scrittura,
aveva illustrato, aveva raccontato quello che era la crisi della piccola
borghesia italiana, di una borghesia fascista, non poteva che andare a Roma. A
Milano sarebbe stato fuori posto.
E poi Sciascia, naturalmente, con il suo
discorso sul potere, sul «palazzo». È quello che fece Pasolini e, in un certo
senso, anche Moravia.
Torniamo un momento alla letteratura siciliana. Abbiamo
parlato di Verga, di Vittorini, dei poeti della costa orientale, ma non degli
autori della parte occidentale.
C.: Per la parte occidentale, a fronte dei Verga,
dei Brancati o Quasimodo, o Vittorini o dello stesso Bufalino, il primo nome
che viene in mente è il Pirandello dei romanzi storici, soprattutto di un
romanzo, I vecchi e i giovani. In
Pirandello, come dice anche Gramsci, tutte le novelle sono prese da storie
locali, da racconti che lui sentiva fare nel mondo girgentano, agrigentino. Ma
forse, dopo l’uscita de I Viceré di
De Roberto, che è questo grande affresco storico – perché erano i temi
dell’epoca, erano i temi storicistici della grande letteratura francese – anche
lui si è cimentato nel grande affresco storico con I vecchi e i giovani. E questo romanzo, che può essere manchevole
in qualche parte, è però un grande tentativo di restituire una realtà storica
siciliana (come nessuno fino ad allora aveva tentato), soprattutto di una
Sicilia occidentale, la Sicilia delle solfare. Lui parte da che cosa è successo
dopo l’Unità d’Italia in Sicilia proprio in quella zona. Il centro del racconto
sono i moti socialisti del 1893, con tutte le rivolte contadine, con
l’occupazione delle miniere e quindi con lo scontro tra operai delle solfare e i
proprietari delle medesime.
È la rappresentazione amara, da parte di
Pirandello, di quello che era il malinteso «sicilianismo» da cui poi vengono
tutti i mali siciliani della mafia, del potere politico mafioso e via
discorrendo.
Prima che andasse a Roma, l’ha scritto.
C.: Prima che
andasse a Roma, prima che facesse la grande svolta di proiettarsi cioè sul
piano della crisi dell’identità, di tutte le scoperte che vanno sotto il nome
di pirandellismo, del dramma dell’essere e dell’apparire, di proiettarsi dal
piano dello storicismo, della contingenza al piano dei valori dell’esistenza,
dell’inquietudine dell’esistenza. D’altra parte Pirandello ha operato in
antagonismo, per così dire, allo stesso Verga. Verga ha immaginato un mondo
immobile, dominato dal fato, dove l’uomo inutilmente si agitava perché tanto il
suo destino sarebbe stato segnato per il solo fatto di esistere, quindi era
impossibile, in questa esistenza, ogni possibilità di riscatto. E tutta la tematica verghiana è la tematica
dell’immobilità e del fato, che blocca l’uomo nella sua vicenda umana.
Pirandello ha cercato, ha tentato di
ribellarsi a questa legge dell’immobilità e del fato, a questa legge quasi
metafisica verghiana, operando, attraverso la dialettica, quello che era un
contrasto verbale con l’entità destino.
E, quindi, attraverso il sofisma, la dialettica ha cercato di smuovere
questa condanna del fato sull’uomo. Però, naturalmente, il mondo di Pirandello
diventa forse ancora più atroce e più tragico; è quello che Giovanni Macchi
chiama «la camera della tortura» : i personaggi non fanno altro che
tormentarsi, che torturarsi, con queste verità sfaccettate, una verità contro
l’altra: con queste identità che si perdono e continuamente si inseguono, in
una ricerca continua dell’ identità.
È poi anche, se si vuole
guardare, un modo d’essere del siciliano, questa ricerca d’identità, perché noi
siamo dilaniati continuamente da questa perdita di identità continua dovuta
anche alla nostra storia.
Noi siamo tante culture messe insieme,
siamo questo crogiuolo di culture, per cui da noi il rischio è un continuo
vacillare dell’ identità e dell’io; questo io è l’Uno, nessuno, centomila del Pirandello che si moltiplica
all’infinito, come vivere sulle sabbie mobili, senza una consistenza. E in questa incertezza sta il nostro dramma,
ma sta forse anche quella che è la grandezza (adesso uso un termine retorico):
in questa dialettica, in questa ricerca continua dell’identità sta forse il
nostro essere più umani e quindi più comprensivi, quando si prende coscienza di
tutto questo.
Pirandello attinge proprio al modo
d’essere siciliano, al mondo siciliano per costruire quella che era la sua
filosofia, la sua concezione. Nel Mattia
Pascal, per esempio (che è il libro dove è messo subito in luce questo
dramma, dell’identità), quando parla di Mattia (e parla di se stesso) dice di
questa «maturezza» (lui usa il termine «maturezza») a cui è arrivato da piccolo
a furia di ammaccature.
L’io siciliano è ammaccato, e quindi
arriva a questa maturità molto prima e con più dolore degli altri, forse. Il
rischio però è di non maturare assolutamente e di perdere la ragione; il
crinale su cui si cammina pericolosamente è quello di annientarsi, di perdere
la ragione, oppure di avere un consapevole dolore di questa maturità a cui si
arriva con le ammaccature.
Quelli che precipitano da questo crinale
sono quelli che più straziano, in questo lasciarsi andare in questa specie di
vortice e di perdita della ragione… Mantenere la ragione, in Sicilia, è
estremamente difficile ed è una fatica continua.
Ma, per tornare al romanzo storicistico,
oltre Pirandello c’è stato Lampedusa e poi Sciascia. Sciascia è lo scrittore
storicista per eccellenza, di uno storicismo critico, oppositivo. Tutta la
letteratura della parte occidentale dell’isola è segnata da questo impegno con
la storia.
Sciascia ha fatto di più. Ha rinunciato a
quelli che erano i grandi temi illuministici e manzoniani (il grande tema del
Manzoni era la giustizia) che inizialmente aveva scelti ( e che poi sono
cristiani), quindi il tema della verità e della menzogna, dell’impostura, il
tema della pena di morte, della tortura, del rispetto della dignità dell’uomo.
Quando vede, in Sicilia, quello che era il
grande rischio della nostra società, la mafia, abbandona questi grandi temi e
affronta il tema della mafia, che era un tema contingente ma che lui fa
diventare un tema assolutamente metaforico e quasi assoluto. E quindi scrive
tutta questa serie di gialli politici, dove rovescia quella che era la tecnica
del giallo, cioè si parte dalla verità e si arriva al mistero: il mistero è il
rispecchiamento del mistero, del potere mafioso, che è sempre misterioso. Oggi
stiamo constatando, attraverso i giudici, quali erano questi misteri; ancora
non li conosciamo tutti, ma Sciascia ci ha fatto intuire qual era l’enigma del
potere mafioso.
Quando ha conosciuto Sciascia?
C.: Dal punto di vista biografico, avevo
conosciuto Sciascia sin dal primo libro che aveva pubblicato: Le parrocchie di Regalpetra. Allora le
mie letture erano di indirizzo sociologico. Siamo nel ’56, credo. Quando sono
tornato in Sicilia dopo essere stato a Milano, non osavo importunarlo. Sapevo che c’era questo scrittore, che a me è
sembrato subito uno scrittore importante in questa Sicilia desertica. E quando
io pubblicai il mio primo romanzo (La
ferita dell’aprile) nel ’63, ho avuto subito l’avventura di mandarglielo
con una lettera dove gli dichiaravo il mio debito nei suoi confronti: perché
era lui che mi indicava la strada che avrei dovuto seguire, oltre a Lucio
Piccolo, di avere cioè di fronte questi due mondi, lo storicismo e la poesia, e
di farli finalmente unire, di fare da trait-d’union fra questi due mondi,
quello che era il substrato storicistico da una parte e la poesia piccoliana
dall’altra parte. E lui mi rispose con una bella lettera, invitandomi ad
andarlo a trovare a Caltanissetta, e poi siamo diventati amici. Questa amicizia durò quanto lui è vissuto; è
stato un continuo dialogo.
Parlavate di letteratura? Anche di impegno civile?
C.: C’era uno
strano pudore; non parlavamo delle nostre cose, solo molto raramente, ma si
parlava dei fatti politici, dei libri degli altri, soprattutto dei fatti che
accadevano in Italia. E poi così, nelle pieghe del discorso, si lasciava cadere
il titolo di un libro che si era letto…
Un suo rammarico era che io scrivevo poco.
Voleva che scrivessi di più.
Adesso lei sente su di sé l’impegno che è stato di
Sciascia?
C.:
Sento il dovere di continuare su questa linea con lo stesso impegno, per
essere degno di questa tradizione, anche perché vedo che da ogni partesi cerca
di distruggere la letteratura siciliana.
Il mio diventa quindi un impegno con la
letteratura e spero di mantenerlo perché nel mondo d’oggi si ha questa volontà
di abbassare tutti i valori, di distruggere quelle che sono le verità con le
imposture. E queste cose non sono sopportabili…
Lei aveva citato prima Pasolini. Mi chiedevo se anche
questo non sia stato uno scrittore di riferimento nel suo percorso letterario e
civile.
C.:Lui
era fondamentalmente poeta; l’impegno sociale lo estrinsecava attraverso una
scrittura di intervento, sui giornali. Scritti
corsari, Lettere luterane, Empirismo eretico: era questo suo bisogno di
intervenire direttamente, al di là del romanzo e della poesia.
Mentre lei ha sempre sentito la necessità della
letteratura come mediazione?
C.: Non sempre. Anch’io… I tempi letterari, i
tempi della metafora sono dei tempi lunghi e la storia diventa qualche volta
più impellente e quindi si sente il bisogno, veramente, di intervenire, per cui
anch’io – certo non con quella forza e con quella assiduità con cui lo fece
Pasolini, e con l’autorità con cui lo fece Pasolini – ho sempre scritto sui
giornali.
Lei appare come un signore pacato, ma la passione con
cui scrive denuncia una…
C.: No, non lo
sono. Per esempio, quando sono arrivato nel ’68 a Milano, io subivo una sorta
di spaesamento e di blocco anche creativo. Ero venuto a Milano perché
desideravo raccontare questa grande trasformazione italiana, parlare di queste
masse di meridionali che arrivavano nel nord industriale, in una città come
Milano e che poi, da contadini che erano, si sarebbero trasformati in operai.
Lei era venuto come insegnante?
C.: No. Avevo
fatto un concorso in una azienda; il primo di gennaio del ’68 (ho viaggiato in
treno la notte di San Silvestro) ho dovuto presentarmi al posto di lavoro.
Quindi ha fatto una scelta anche in questo campo.
C.: Sì. Allora
c’era una rivista letteraria, diretta da Vittorini e Calvino
(“Il Menabò”), che dibatteva
proprio questi temi: del rapporto tra industria e letteratura, di questo nuovo
mondo, della rivoluzione industriale italiana (questa grande trasformazione
sociale), soprattutto nel processo di inurbamento. E poi c’era un’altra
rivista, che si chiamava «Questo e altro», che sollecitava appunto a lasciare
le vecchie professioni, cosiddette liberali, degli scrittori (insegnamento e
altro) e ad entrare nell’industria. Io feci questa scelta: Feci un concorso, lo
vinsi e mi presentai a questo posto di lavoro.
Vittorini, per esempio, invitava a studiare i
nuovi linguaggi che si sarebbero formati qui, nell’area industriale,
dall’incrocio dei dialetti coi dialetti
del nord: Questi linguaggi lui li chiamava le «koiné», le nuove «koiné». Queste
non si sono formate, ma si è formata una «superkoiné», che poi sarebbe
l’italiano che ha analizzato Pasolini, nel ’64 mi pare, che era la lingua dei
media e che si sarebbe sovrapposta…
Insomma l’Italia è un paese
veramente singolare nel contesto europeo, perché nessuno ha avuto così
rapidamente e radicalmente le vicende italiane.
È un paese terremotato; era un vecchio paese ancora agricolo e
contadino, ha avuto questa rivoluzione. E poi questo grande spostamento di
masse di meridionali dentro queste città che sono esplose, con tutto quello che
è successo e di cui, forse, paghiamo le conseguenze. È stata la dannazione di
Pasolini, questo…
Quando si fanno questi discorsi, sembra
che uno abbia nostalgia del vecchio mondo contadino. Quello che rimproveravano
a Pasolini era: «Ma come?».
No, nostalgia del mondo contadino credo
non ce l’abbia nessuno, perché il mondo contadino era un mondo di sofferenza,
di ignoranza, era un mondo un po’ anche di conservazione; non era un mondo
progressivo, insomma, perché i contadini erano portati ad una sorta di
atteggiamento passivo, di rassegnazione. Quello che portava la novità e il
senso di presa di coscienza di classe era il mondo operaio, perché i temi
politici che si dibattevano erano del mondo operaio.
Perché c’era aggregazione, mentre il contadino era un
isolato.
C.: Sì, erano
isolati. Soprattutto, poi nel latifondo siciliano, questi contadini erano
angariati, vessati. Quindi la rivoluzione culturale che è avvenuta in Sicilia
si è realizzata nel mondo sotterraneo, proprio perché quella era l’unica forma
di operaismo siciliano, quando da contadini si trasformarono in minatori nelle
solfare. Lì c’è stata una sorta di rivoluzione culturale, che sfociò nei «fasci
siciliani», nelle rivolte del 1893 in Sicilia.
Io non ho nostalgia del mondo contadino
(questo l’ho anche raccontato nelle Pietre
di Pantalica); volevamo però uno sviluppo diverso da quello che abbiamo
avuto, con più rispetto nei confronti dell’uomo.
Qui, invece, i valori umani
sono stati distrutti, per non parlare di tanti altri valori. È quello che Pasolini
chiamava «sviluppo senza progresso», lo chiamava semplicemente «sviluppo» e non
«progresso»; molto spesso è stato un regresso. In Sicilia questo l’abbiamo
sofferto sulla pelle, con l’industrializzazione attraverso le raffinerie di
petrolio. Queste hanno distrutto città, Gela, Siracusa, Priolo…, che erano
innanzi tutto ecologicamente sane, belle, luoghi arcaici, antichi.
In mezzo alle raffinerie di Priolo ci sono
ancora i resti di Thàpsos Megàra Iblea, dove sono sbarcati i Greci (nel 739
a.C.). Io sono andato a rivederli,
ancora questa estate, in mezzo a tralicci, a ciminiere. Erano patrimoni
culturali che appartenevano a tutti e che sono andati distrutti.
Città come Gela e Licata sono diventate degli inferni, delle cose tremende; hanno subito questa trasformazione e sono diventate degli orrori. Non c’è idea di che cosa è un paese come Gela! È una cosa che toglie il fiato… Hanno portato le raffinerie ma non hanno risolto i problemi: la gente ha continuato a emigrare; hanno assorbito poca manodopera, i tecnici venivano dal Nord. I petrolieri venivano lì, rastrellavano soldi dalla Regione, dalla Cassa del Mezzogiorno, dall’Erario e poi, dopo aver fatto i loro affari, regalavano gli impianti allo Stato. Il signor Moratti, tanto per non fare nomi, ha fatto questo a Milazzo, una città ora distrutta e sconvolta dal punto di vista paesaggistico, ed ecologico, a causa delle raffinerie. La Sicilia, il meridione sono diventati luoghi spopolati, in cui sono arrivati i profittatori, luoghi di rapina e di sfruttamento.
Poi, quando ci si chiede dei mali
meridionali, di tutte le cose tremende che sono successe, si deve sapere che le
responsabilità sono di ordine storico, di ordine politico.
Non si deve pensare, come fanno certi
signori di certe Leghe, come fa il signor Miglio, che sia un fatto genetico,
quasi noi, nel sangue, avessimo il gene della delinquenza, della mafia, della
‘ndrangheta. Ci sono responsabilità ben precise.
Nel dopoguerra c’era un sovraccarico di
manodopera sulle terre e, quindi, bisognava «alleggerire»; le leggi del mercato
sono le leggi del mercato. Però tutto poteva avvenire in un modo più
rispettoso, più organico, non in questo modo selvaggio.
Al potere politico interessava soltanto
fare di queste zone del Meridione delle riserve di clientelismo politico, dei
feudi dove racimolare voti. Le masse meridionali erano quelle che dovevano dare
il voto democristiano (perché nel Nord, operaistico, erano forti le sinistre),
con tutte le trame di malcostume e di corruzione che adesso stanno emergendo.
Ancora poco nel Sud, mi pare.
C.: Perché ci sono
state delle cose più gravi nel Sud, ci sono stati i cadaveri, le strade piene
di cadaveri e, quindi, si è prima pensato a quello. Io spero che si passi al
secondo sipario, il sipario del malaffare.
Io spero che vengano
coinvolti un poco tutti davvero, dai magistrati agli imprenditori, alla stampa,
perché non è possibile pensare che solo i politici siano i grandi colpevoli.
C.: C’è ora nella
gente, anche in quella che era passiva, che in un certo senso aveva avuto anche
vantaggi (spero che non sia retorico quello che dico, io l’ho constatato), c’è
un bisogno di riscatto, di riconquistare la dignità perduta. Io l’ho visto a
Palermo, quest’estate. Credo che le prossime elezioni siano estremamente
importanti.
Questo è un momento molto, molto delicato,
per tutto il paese, ma per la Sicilia e il Meridione soprattutto.
Delicato, ma, lei dice, di speranza.
C.: Di speranza, sì. È un momento di passaggio,
dove si può tornare indietro, ma… Credo che ci sia nella gente un bisogno di
togliersi questa vergogna e quest’ipoteca del malaffare, della mafia, del
delitto. Questa è stata veramente una perdita d’onore e c’è un bisogno, nella
gente, di riconquistare quest’onore perduto, un onore sociale, non privato, e
c’è volontà di togliersi dalla soggezione del potere politico da cui era
ricattata. Questo si vedeva bene alle elezioni: ogni volta che c’erano
referendum, per esempio, il risultato era di un tipo, quando si tornava alle
elezioni politiche il risultato era un altro.
Anche noi, al Nord, abbiamo perduta una intiera classe
di amministratori e, per tradizione, avevamo gente che davvero amministrava.
C.: Sì. È saltato
anche questo, c’è stato un processo di degenerazione.
Poi, al Nord, è venuta fuori anche la
Lega, per un bisogno di pulizia, per cui adesso ci sono questi revanscismi, del
resto molto semplici, schematici e pedagogici. Come sempre capita nei momenti
in cui crollano i regimi, vengono fuori forme scomposte.
Io queste forme, queste rivendicazioni
locali, le ho viste da ragazzo, in Sicilia, nel ’47, con il Movimento
Indipendentista Siciliano. E capivo, anche se ero molto giovane allora, che
cosa significava: significava ancora una regressione, un passo indietro.
Quando, dopo tutti i disastri
democristiani e socialisti, in questo campo di macerie, si presenta qui al Nord
un movimento che si chiama Lega Nord (e già la denominazione stessa mi sembra
che escluda una parte del contesto italiano) mi sono preoccupato. Io non sono
un politico, sono uno scrittore,: la spia, allarmante l’ho avuta quando si sono
visti i primi segni, nelle traduzioni – diciamo così – sulle strade delle
scritte in italiano in dialetto lombardo. Questo mi ha messo subito in allarme
perché so, proprio da scrittore che usa il linguaggio, so che cosa significano
questi ritorni verso le forme dialettali. Sono modi di regressione e anche di
aggressione e di esclusione, messi in atto, per di più, in un contesto come
quello lombardo che, proprio per la sua storia e per la sua economia, ha
cancellato il dialetto. Questo
rifugiarsi di nuovo nel dialetto per escludere la lingua politica (uso
«politica» nel senso etimologico, lingua cioè della comunicazione) ha voluto
dire passare da una afasia e una impraticabilità del linguaggio proprio del
potere (perché il potere usa sempre una lingua impraticabile, non volendosi far
capire, una lingua di tipo aziendale e tecnologico, che Pasolini ha studiato)
al vecchio dialetto che non esiste più, quindi alla chiusura e alla
incomunicabilità totali.
(Il dialetto si può scandagliare in
letteratura, per tornare alle radici e approdare poi alla comunicazione, ma il
linguaggio politico deve essere sempre quello della comunicazione).
Ora, queste considerazioni, secondo me,
sono importanti, significano molto. Vogliono dire che dietro non c’è ideologia.
L’ideologia liberale o socialista sono delle ideologie! Che poi ci siano stati dei mascalzoni, che le
hanno degenerate, questo è un altro discorso.
Queste forme regressive sono le «vandee»
di cui ha parlato Benedetto Croce, e anche Vittorini, a proposito dei Vespri
Siciliani. Vespro Siciliano che, sulla
scorta del melodramma verdiano, è stato sempre visto come un fatto progressivo
e che invece è un fatto assolutamente regressivo, perché la Sicilia abbandonava
i legami con la Francia e si rifugiava in una conservazione di tipo spagnolo.
Il problema degli intellettuali in Italia è un triste
problema, mi pare.
C.: È un triste
problema, si. C’è sempre questa nostra viltà. L’intellettuale, in questo paese,
è stato sempre considerato un ornamento del potere, ragion per cui
l’intellettuale «disorganico» viene subito additato, messo ai margini. È sempre
successo. Da Dante in poi, quelli che non si sono voluti piegare al potere e
che hanno adempiuto a quella che è la funzione dell’intellettuale, essere
coscienza critica, sono stati esclusi. Non può essere il cantore alla mensa del
principe, altrimenti diventa un cortigiano e l’intellettuale che non vuole
essere cortigiano viene naturalmente bandito: questa è la sua sorte.
È successo sempre, fino a Pasolini, a
Sciascia e altri.
Tanti altri no.
C.: Durante il
fascismo, i professori che non hanno prestato giuramento sono stati sei in
tutta Italia. Tra questi, lo dico con orgoglio, c’era Giuseppe Antonio Borgese,
che stava qui a Milano, un siciliano, un grande scrittore: se n’è dovuto andare
in America. Non so quanti fossero allora i professori universitari ma soltanto
in sei non hanno prestato giuramento al fascismo.
Lei ricordava gli anni intorno al ’68: la sua
posizione è sempre stata isolata o ha partecipato direttamente a quegli
avvenimenti?
C.: No, guardi,
quando sono arrivato qui mi sono trovato talmente spaesato che non ho avuto
legami con i movimenti politici e neppure con quelli intellettuali. Era un
mondo che osservavo per la prima volta, perché mi portavo dietro un’altra
memoria, la memoria del mondo contadino. Mi mancava la memoria del mondo
industriale, mi mancava quel linguaggio soprattutto. E quindi sopperivo a questa afasia letteraria
facendo attività giornalistica. Scrivevo su «L’Ora» di Palermo e poi su «Il
tempo illustrato», un settimanale molto vivace, molto bello e devo dire anche
molto libero, dove ci scrivevano in quegli anni Pasolini, Giorgio Bocca, Padre
Turoldo. Ho pubblicato parecchie inchieste su quel giornale.
Poi ho capito che per tornare a scrivere e
raccontare Milano sarei dovuto tornare di nuovo in Sicilia, non fisicamente ma
almeno con la memoria, ritornare al mio linguaggio, alla mia matrice culturale.
E per questo, ho scelto il romanzo storico; lo sentii proprio come una
necessità, questo di riandare indietro con il tempo per poter raccontare il
presente.
Il suo gusto di reinventare la parola, il linguaggio?
C.: A parte Gadda,
Pasolini, Mastronardi e altri di allora, io avevo un grande sperimentatore che
mi era più congeniale: Verga, il primo che ha compiuto la rivoluzione
linguistica attuata abbassando a livello dialettale quello che era il codice
toscano.
La sua conversione è avvenuta proprio a
Milano. Anche lui, se questo mi è permesso, quando arrivò a Milano nel 1872
venendo da Firenze (fino a quel punto aveva scritto dei libri, i cosiddetti
romanzi «mondani»), trovò questa città in preda alla prima rivoluzione
industriale; era una città che stava subendo uno sconvolgimento: nuove stazioni
ferroviarie, nuovi cantieri. C’era poi anche il movimento operaio e c’erano i
primi conflitti.
A Lodi si faceva un giornale
che si chiamava «La plebe»; c’erano i primi scioperi, quindi, da una parte,
c’era la rivoluzione industriale, e dall’altra la presa di coscienza delle
masse popolari. Il tutto culminò con la esposizione universale dell’81, con il
Ballo Excelsior. E lui abitava proprio vicino a questa esposizione.
Verga subì una sorta di spaesamento e da
questo venne la sua conversione. Tornò con la memoria alla Sicilia. Ma quella
di Verga era una Sicilia della sua infanzia; Sapegno dice «ferma e
intatta». Era una Sicilia un poco
cristallizzata, mitizzata nella sua memoria, seppure di un mito negativo,
quella della irredimibilità del destino umano.
Per esempio, quando uscì la prima inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino del 1876, dove si cominciò a parlare di mafia e della malavita siciliana, dei rapporti fra il potere politico e la mafia, Verga si ribellò.Diceva che era una diffamazione della Sicilia, non lo voleva ammettere…Come poi non ammise i movimenti dei solfatari e dei contadini siciliani del ’93.
Verga, nella vita, era considerato un reazionario e ciò è dovuto a questa sua idea di una Sicilia mitica, quella, ripeto, della sua infanzia. Però questo gli permise di scrivere dei capolavori. La sua rivoluzione avvenne prima con i. racconti, con le Novelle rusticane e poi con quel poema straordinario che è I Malavoglia.
La follia ha un ruolo preciso nei suoi romanzi. Nel Sorriso, per esempio…
C.: Ci sono due
forme di follia, per la verità: il libro si apre con un gesto di follia,
compiuto nell’antefatto dalla ragazza Atena (che non è una folle, è
un’intellettuale), fidanzata con Giovanni Interdonato, che è questo capo
risorgimentale rivoluzionario. Lei sfregia il quadro di Antonello da Messina
proprio per una sorta di impazienza, perché era animata dal desiderio di uscire
fuori della ragione dall’alto, attraverso la fantasia creatrice, che può essere
anche una fantasia politica (lei aveva immaginato un nuovo ceto sociale).
E quindi l’assunto dal quale io sono
partito è che dalla ragione – che è rappresentata da questo quadro, da questo
sorriso ironico – si può uscire dall’alto, attraverso appunto la fantasia
creatrice, l’arte, attraverso questi furori che sono furori positivi.
Oppure per la disgregazione della ragione,
dal basso, Il monaco – un monaco allucinato – è proprio l’altra faccia di
questo gesto di insania della ragazza. Poi lei non compare più come
personaggio, però è quella che muove tutta l’azione, è una specie di
Annunciazione.
L’ambizione mia è stata di dare una
struttura originale al libro; non ho voluto scrivere il romanzo storico di tipo
ottocentesco, sapienzale, con l’autore che dall’alto dirige le fila della vicenda. Il mio romanzo parte dall’assunto
dell’inattendibilità della storia, della responsabilità di chi scrive la
storia, di chi ha il potere della struttura, anche di chi scrive letteratura
insomma; e quindi ho voluto far vedere due aspetti della struttura e cioè
quello storiografico e quello letterario.
Si è anche tolto da una cronaca di denuncia, quale può
aver fatto Vassalli con la sua ricostruzione del Seicento.
C.: Sì. Vorrei
dire che non è che io scelga gli argomenti di carattere storico casualmente.
Non è che mi interessino tanto i personaggi collocati nella storia, mi
interessano le epoche storiche, che siano anche metaforiche. C’è la lezione del
Manzoni, insomma. Ci sono dei momenti storici che somigliano ai nostri; si
scandaglia il passato per poter capire questo nostro presente. È quello che ci
ha insegnato il Manzoni.
Altrimenti diventano storie romanzate e
allora si possono prendere infinite storie.
Basterebbe prendere spunti d’archivio, lei dice. In
questo non si differenzia da Sciascia, che ha fatto invece un recupero davvero
d’archivio, di lettura documentale?
C.: Ma i romanzi
storici di Sciascia erano estremamente metaforici; scaturivano proprio dalla
lezione manzoniana. Il suo Consiglio
d’Egitto e Morte dell’inquisitore erano nati soprattutto dalla lettura
della Colonna Infame: niente di più
attuale, di più eternamente attuale, purtroppo, dell’impostura, delle menzogne,
della violenza. L’assillo del Manzoni era la giustizia e ha scelto il Seicento
perché era un secolo estremamente ingiusto. E ha preso questa distanza storica
per poter raccontare l’Ottocento.
Dopo di che lei prende l’Ottocento per poter
raccontare…
C.: A me interessavano altre cose oltre la giustizia,
altri tipi di ingiustizia; oltre ai principi generali della dignità dell’uomo,
della libertà, mi interessavano anche la sorte delle classi emarginate, di
tutti quelli che non hanno il potere della scrittura.
Quello di Manzoni e di Sciascia è
chiaramente un assunto più di tipo illuministico; il mio, se vuole, è un
assunto di tipo marxiano: questa forse è la differenza: Io faccio un discorso
anche di classe.
E di speranza nella storia.
C.: Di speranza
nella storia e di ammettere che nella storia ci sia giustizia per tutti gli
strati, soprattutto per quelli socialmente più deboli. Questa è la mia utopia,
l’utopia da cui parto io.
E che scrive, mi pare benissimo, nel capitolo
introduttivo alla relazione sui fatti…
C.: Sì. Il libro
parla della crisi di un intellettuale, che era chiuso nella sua scienza, nella
sua torre d’avorio: era un privilegiato, questo barone Mandralisca! Quando poi
sbatte il naso contro la storia, siccome è un uomo di coscienza, non un cinico,
entra in crisi. La sua soluzione è quella di donare tutti i suoi beni al Popolo
di Cefalù. Può sembrare retorica demagogica, però il personaggio era un
personaggio ottocentesco, quello che poteva fare lui, era questo.
C’è un po’ di autobiografia in questo?
C.: Io sono
tutt’altro che un barone. Tuttavia negli anni Settanta, quando ho scritto quel
libro, uno dei temi che si dibattevano era proprio il ruolo dell’intellettuale
di fronte alla storia. Rappresentando un intellettuale ho inteso rappresentare
anche me stesso nel momento in cui scrivo e cosa significhi questo mio scrivere
un romanzo storico.
Nottetempo, casa per casa è
ambientato invece negli anni Venti.
C.: Questo libro
l’ho concepito veramente non solo come un poema, ma anche come una sorta di
tragedia. Ogni capitolo è come una scena di una rappresentazione tragica.
Dentro poi ho aperto delle pause con delle digressioni, dove l’autore viene in
prima persona (è la funzione del coro) a commentare i fatti che accadono man
mano, con un tono un po’ più alto, più lirico.
Certo ci sono anche dei capitoli di
sarcasmo, di ironia, di comicità… Ci sono dei personaggi negativi che cerco di
connotare anche beffardamente, come il dannunziano barone Cicio. Però il tema è
la follia: la follia privata, esistenziale, e la follia della storia, questa
perdita di razionalità. Mentre quella privata è una follia tragica, pietosa,
quella della storia è una follia colpevole, perché stiamo insieme e abbiamo il
dovere della razionalità. Io sono convintissimo (leopardianamente, diciamo, io
non ho fedi di sorta, non credo ai mondi al di là di questa vita) che la vita,
che l’esistenza sia dolorosa, anche se è una cosa meravigliosa, però è dolore,
e che questo dolore si possa correggere soltanto «con la confederazione degli
uomini tra loro» diceva Leopardi, si possa correggere con il contesto storico,
con lo stare civilmente assieme.
Se, però, questo non avviene, allora
abbiamo infelicità sui due fronti: abbiamo l’infelicità dell’esistenza e
l’infelicità della storia, come succede al protagonista di questo libro, a
Marano. Ci sono tanti significati,
insomma. Il nome Marano viene da «marrano».
«Marrani» in Sicilia, come in
Spagna del resto, erano quelli di origine ebraica, che avevano dovuto abdicare
alla propria identità religiosa e culturale e convertirsi al cristianesimo per
non essere cacciati via. Quindi c’era, da parte di questa famiglia, la memoria
di perdita di identità, di marginalità, di persecuzione. Poi questa famigliola
di contadini era diventata una famigliola di piccoli proprietari terrieri
grazie a questo suo protettore eccentrico che la fa cambiare di classe. Questo
cambiamento comporta da parte dei componenti l’abbandono della loro cultura e
il dover adottare leggi di classe che non erano le loro. E quindi il sacrificio
da parte della sorella, che non può sposare il pastorello di cui è innamorata e
rinunzia alla vita, impazzisce, per l’impazzimento dovuto proprio a questo
cambio di classe, a questa negazione all’amore.
E il senso, e qui è metaforico, il senso è
che noi tutti abbiamo perso il contatto con quella che è la nostra identità di
classe, di cultura. Oggi abbiamo perso tutti i legami con la nostra classe e
siamo diventati «massa».
E, quindi, in questa civiltà di massa abbiamo
perso quella che è la nostra cultura e la nostra identità e soffriamo di questa
forma di follia, di alienazione.
Questo voleva essere, non so se ci sono
riuscito…
Il ragazzo Marano è un piccolo
intellettuale di paese, che, di fronte a questo carico di dolore famigliare,
aveva creduto di poterlo distribuire nella società e per questo si era
impegnato politicamente. Anche lui viene deluso, poveretto, e quindi trova
anche la follia fuori casa. Poi fa questo gesto estremo, di mettere la finta bomba
ed è costretto a scappare, ad andare via.
L’unica cosa che gli rimane è quella di scrivere tutto quello che aveva
sofferto, che aveva visto.
Dopo il crollo dei regimi dell’Est la sua speranza
marxiana nella storia è ancora in vita?
C.: C’è stato il
crollo delle ideologie, il crollo di tante utopie, di tante speranze che ci
eravamo costruiti in questi anni. Ci è crollato tutto, e io vivo in questa
grande angoscia, di vedere questi orizzonti che si sono fatti bui.
Non c’è ancora un lume di speranza.
Le uniche cose che vedo, di
questo lume che la fanciulla tiene in mano, sono certe forme di solidarietà
spontanea, come il volontariato dei giovani…
E anche certi ecologisti, che cercano di salvare questo nostro patrimonio,
che è l’unico che abbiamo, di rendere vivibile questo nostro pianeta.
Queste sono cose che veramente mi lasciano
sperare molto, però il ceto politico…
A cura di Lia De Pra Cavalleri Dalla rivista “Verifiche” gennaio febbraio 1994
Qui arriviamo a uno dei punti focali della sua ultima produzione: sempre più diventa preponderante il ruolo svolto dalla poesia nella struttura del romanzo. Naturalmente, non si tratta in sé di una novità assoluta; è una cosa che appartiene a tutto il Novecento, ma nelle sue ultime opere questo elemento acquista un peso nuovo. Se è vero – come lei dice – che Nottetempo, casa per casa è la continuazione del Sorriso dell’ignoto marinaio, io vedo nell’opera più recente un notevole stacco sia di poetica, sia di epoca storica. È vero che il modello che sta dietro al Sorriso dell’ignoto marinaio, come si è detto prima, è Manzoni; ma rispetto a Manzoni c’è una rottura, anche dal punto di vista epistemologico, notevole. L’altra questione fondamentale è la rottura col populismo, da una parte, e con il continuum storicistico dall’altra. Lei ha detto testualmente, in una recente intervista, che «la prosa non è più in grado di narrare la nostra realtà»; addirittura, ha detto che i veri grandi scrittori di prosa della nostra epoca sono i giudici che inquisiscono i politici e così via. Sembra insomma che l’ultimo serbatoio di conoscenza per lo scrittore possa essere solo La poesia. Non crede che in questo ci sia il rischio di ricadere nel lirismo? Nella sua stessa prosa si vede il segno dei tempi, il segno che qualcosa è cambiato dal 68, dall’epoca della politica, dell’opposizione; che siamo ormai in un epoca limita per rimanere all’opposizione, come credo lei voglia fare, ci si deve «rifugiare» nella poesia. Quando, per esempio, nel gruppo della neo-avanguardia, per dirne una, la poesia era l’obiettivo polemico principale.
Non so se c’è concessione al lirismo nel mio ultimo romanzo. C’è, sì, una maggior diffidenza verso la scansione prosastica, che vuol dire una maggiore ritrazione rispetto alla comunicazione. In confronto al Sorriso, questo libro è più compatto, più chiuso in una sua gabbia ritmica, in una sua densità segnica. Ho voluto scrivere una tragedia – niente è più tragico della follia – con scene-capitoli, con intermezzi del coro, che sono le frequenti digressioni lirico-espressive in cui il narrante s’affaccia e commenta o fa eco in un tono più alto, più acceso. Perché questo compattare, perché l’eliminazione dalla scena del messaggero, dell’anghelos, del personaggio-autore che si rivolge agli spettatori-lettori e narra in termini non espressivi ma assolutamente comunicativi il fatto che è avvenuto altrove, in un altro tempo? Perché è caduta la fiducia nella comunicazione, nella possibilità, ora, in questo nostro presente, della funzione sociale, politica della scrittura. Non rimane che la ritrazione, non rimane che l’urlo o il pianto, o l’unica forza oppositiva, alla dura e sorda notte, la forza della poesia, della tragedia, la prima, la più alta delle arti secondo Hölderlin.
Esimi studiosi, soprattutto nel campo letterario, parlano a proposito del post-moderno addirittura di rottura epocale: fra il 1950 e il 1960 il costume delle popolazioni nel mondo, i modi di vita, i rapporti tra le persone sono profondamente mutati per effetto della terza rivoluzione industriale. Lei crede invece che sia una sostanziale continuità?
No, credo che ci sia più rottura che continuità, in campo politico-sociale, economico, industriale e quindi in campo letterario. Il romanzo sta avendo un doppio destino. Da una parte, sta degenerando (nel senso che sta mutando di genere), sta diventando, rispetto a quello che conoscevamo come romanzo, qualche cosa d’altro che non so ancora definire. A questa degenerazione si possono ascrivere romanzi-fiume di estrema comunicazione e fruizione, come si dice, scritti nella nuova lingua tecnologico-aziendale o mass-mediale e quindi di immediata traducibilità: le masse sono uguali in tutto il mondo e parlano tutte la stessa lingua. Sono romanzi d’intrattenimento, didascalici, ludici e di gratificazione mondana. Dall’altra parte, avviene una sorta di revanchismo letterario, di recuperi di vecchie estetiche che erano state sepolte: neo-rondismi, neo-formalismi, nuove prose d’arte, psicologi-smi, esistenzialismi… Si stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario penso sia quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia, a costo di farlo frequentare da «felici pochi». Pensare a un romanzo letterario che sia largamente e immediatamente letto è assolutamente illusorio o utopico.
A proposito di Retablo, di cui non abbiamo ancora parlato, si può dire che lei nell’87 già prefigurasse un po’ la situazione dei nostri giorni. Anche in quel caso un intellettuale si allontanava da Milano…
Un intellettuale, un artista anzi, Fabrizio Clerici, si allontanava da Milano e andava in Sicilia, alla ricerca della matrice culturale e umana della donna di cui era perdutamente innamorato, Teresa Blasco, che nella realtà, nella storia, è stata la madre di Giulia Beccaria. Teresa Blasco al pittore Clerici preferirà insomma Cesare Beccaria. La metafora del racconto è ancora una volta nel rischio di tener separate ideologia e poesia. Clerici si allontana da una Milano illuminista, dalla città dei Verri, e del Beccaria, del Lambertenghi, da un luogo fortemente ideologizzato in cui crede che non ci sia spazio per la poesia (ma la poesia la porta in grembo Teresa Blasco, che tramite la figlia genererà Manzoni), si allontana per andare in una Sicilia mitica, dei templi greci, dell’Arcadia, delle ninfe e dei satiri, e sbatte invece il naso contro una realtà di miserie, violenze, piaghe, orrori, ma anche di bellezze e ricchezze umane.
In Retablo il livello metaforico è molto elevato: Milano è una città pseudo-settecentesca, ma in effetti è molto novecentesca. In essa già si consumava una specie di rito che in questi giorni per lei è stato oggetto di critiche, quando ha adombrato l’idea di abbandonare questa città.
Siamo tornati al punto di partenza, alla prima domanda, alla mia dichiarazione di lasciare Milano in caso di vittoria della Lega Nord. Avevo iniziato col dire che sono stato vittima di mitologie. Ecco, a Milano mi s’era infranto il mito della civiltà industriale, urbana, della città del Politecnico, del luogo cioè dove in qualche modo esisteva la probità e la trasparenza amministrativa e una certa equità sociale s’era realizzata. Lasciamo gli anni bui e tragici degli autunni caldi, della strategia della tensione, gli anni di piombo, gli anni manzoniani di rivolte, assalti ai forni, di peste, di follia e di desolazione, e arriviamo alla Milano pacificata e trionfante degli anni ottanta, alla Milano craxiana: un orrore! Non può immaginarlo chi non ha vissuto quegli anni a Milano. C’era un clima spensierato, cinico, di ottuso scialo: un carnevale o un paese di cuccagna alla Breughel. Si era passati dalla tragedia alla volgarità. Voglio qui leggervi un passo di Retablo. Si tratta di un’invettiva di Clerici rivolta alla sua città, affidata a una lettera per Teresa Blasco. I personaggi che egli cita sono riconoscibilissimi, uno per uno. Devo avvertire che la parola arasso significa lontano. «O gran pochezza, o inanità dell’uomo, o sua fralezza e nullità assoluta! O sua ferocia e ferina costumanza! O secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involu-to! Arrasso, arrasso, mia nobile signora, arrasso dalla Milano attiva, mercatora, dalla stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, 1l ciarlatan, 1l falso artista, el teatrant vacant e pien de vanitaa, il governante ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola. Arrasso dalla mia terra e dal mio tempo, via via, lontan!». Ecco, nell’87 scrivevo questo. C’era disamore e furore nei confronti di una città che era diventata inospitale. Inospitale come la Tauride di Euripide. In quel deserto, in quel campo di macerie succeduto allo scialo, sono spuntati i leghisti. Non il movimento politico in sé m’interessa, ma il clima culturale e morale da cui i leghisti sono sbucati, un clima, una couche che mi allarma. Una regressione, ripeto, esprime la Lega, una Vandea. Mi aveva allarmato, fin dal loro primo apparire, il ripiegamento linguistico, la ritrazione nel dialetto, il revanchismo e l’aggressività: no, non mi sembra che siano portatori di idee, di un progetto politico, ma di velleitari e pericolosi risentimenti. La mia dichiarazione ha voluto essere un’opposizione, solitaria e donchisciottesca quanto si vuole, alla loro intolleranza, al loro chiasso assordante. Opposizione soprattutto a quegli intellettuali – gli stessi di sempre – che dal carrozzone democristiano e socialista s’erano affrettati a salire sul carro o carroccio leghista, agli altri che, zitti e prudenti, stavano ad aspettare lo svolgersi degli eventi.
Tornando al rapporto tra letteratura e storia e alla metafora, non si può non rimanere colpiti dalle considerazioni che lei faceva a proposito dei sensi di colpa di Ulisse e dell’umanità di questo secondo dopo guerra. E anche dalla considerazione che faceva sulla necessità del romanzo storico. Ci si può chiedere però di cosa si deve occupare e si occupa di fatto la letteratura, e di cosa per necessità di statuto deve continuare ad occuparsi la storiografia. Perché se non c’è letteratura, se non c’è romanzo senza metafora si mette a rischio l’efficacia della storiografia e del romanzo storico; se la metafora è sempre metafora di una condizione umana necessariamente alienata, come io credo che sia la condizione umana, la storia che ne risulta è una storia immobile: il rischio, insomma, è che non si colgano più le differenze, non si colgano più le trasformazioni di questa alienazione, e lo dico alla luce delle sue parole di oggi, ma sono le stesse impressioni che ho avuto leggendo Le pietre di Pantalica. Il racconto delle occupazioni delle terre nel secondo dopoguerra e il racconto delle manifestazioni pacifiste a Comiso danno la stessa emozione, che è poi quella dell’impossibilità di coniugare l’individuale e il generale, il percorso soggettivo e l’oggettivo, l’individuo che si scontra sempre e comunque con qualcosa di troppo grande: è certo una riflessione sulla condizione umana, ma le contraddizioni di oggi sono ben più gravi di quelle di ieri, il pericolo dell’incubo atomico è ben peggiore del problema dell’occupazione delle terre nel dopoguerra, e così si perdono le dif-ferenze. Mentre prima di questa conversazione pensavo che anche per lei il compito dello storico e del romanzo storico – che ha in più lo stile – fosse proprio quello di cogliere l’essenza di queste trasformazioni, invece adesso ho l’impressione che colga l’essenza delle permanenze. Gli storici, e anche i migliori tra essi, hanno speso anni a raccontare anche la parte «normale», non solo drammatica, del Mezzogiorno; ma forse è in questo che si differenziano storia e letteratura. Ma allora, mi chiedo, il romanzo storico in che cosa è «storico», se suo compito è quello di raccontare la permanenza delle sofferenze umane?
Tante domande in una. E difficili anche. Tento di rispondere. La letteratura non so di cosa deve occuparsi. La mia, intanto, non si occupa di assoluti, di Dio o di dei, di esistenza, di miti, di utopie o di mondi fantastici. Si occupa di relativi: dell’uomo, qui e ora, nella sua dimensione privata e nella sua collocazione pubblica, civile, storica. Certo, una letteratura, un romanzo siffatto dà l’immagine di una storia immobile, perché è critico, oppositivo, e non può lamentare e denunziare le «normalità». Queste, se mai sono esistite, forse è meglio chiamarle differenze, gli storici hanno il compito di registrare. Ho sempre detto anche in una ipotetica società perfetta, il romanzo (diciamo storico), non la poesia, ha sempre il dovere di stare all’opposizione, proprio perché quella coniugazione che lei dice, dell’individuale e del generale, è un’aspirazione, un’infinita approssimazione. Leopardianamente penso che la vita sia infelicità e dolore, che l’unico mezzo per «aggiustare» la vita sia la «confederazione» tra gli uomini, l’unico luogo quello civile, politico. Il romanzo storico è tale in quanto utilizza la storia per i propri fini, per fare cioè di una storia, metafora. Ho scritto un racconto dal titolo Un giorno come gli altri (pubblicato in Racconti italiani del ‘900, nei Meridiani di Mondadori), in cui immagino o sogno di trovarmi nella città di Ebla, l’antica città dove l’archeologo Matthiae ha rinvenuto un intero archivio di stato su tavolette d’argilla, in compagnia di Giovanni Pettinato, lo scopritore della lingua eblaita. Il glottologo ricompone alcune tavolette sparse a terra, legge i segni cuneiformi sopra incisi, e mi dice: «È un racconto, un bellissimo racconto scritto da un re narratore… Solo un re può narrare in modo perfetto, egli non ha bisogno di memoria e tanto meno di metafora: egli vive, comanda, scrive e narra con-temporaneamente…». Noi non siamo, ahimè, re, neanche viceré, non siamo Clinton né Agnelli, abbiamo dunque, scrivendo romanzi storici, il dovere dell’opposizione e della critica al potere. Alcuni racconti, come quelli pubblicati su «Linea d’ombra», sono quasi a livello cronachistico… Sono racconti scritti in una prosa quasi referenziale. Sono spesso ambientati a Milano, nel presente, e quindi non smuovono la mia memoria, non m’impegnano sul piano della ricerca linguistica. La loro valenza letteraria, se mai ce l’hanno, bisogna cercarla al di là dello stile, in altre implicazioni. Ad un altro tipo di scrittura sono stato obbligato, ad esempio, nella sezione di Le pietre di Pantalica intitolata Eventi. Racconto lì appunto l’estate del 1982 in Sicilia, partendo da Siracusa, passando per Comiso e arrivando a Palermo. Nella Palermo della peste e dei massacri, del centinaio di morti dall’inizio dell’anno, dell’assassinio di Pio La Torre e dei coniugi Dalla Chiesa. Racconto in prima persona, con una immediatezza da reportage giornalistico. Fu tale allora per me l’urgenza di dire, dire della Sicilia di quel momento, che abbandonai il romanzo storico, lo stile, i tempi lunghi della metafora. L’urgenza, l’impellenza provocata dall’atrocità del fenomeno della mafia e del potere politico portò Sciascia, ad esempio, dopo il Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore, a fare la grande svolta verso il romanzo poliziesco, il giallo politico. Costruendo storie che erano una parodia della realtà, ma di una tale penetrazione e di una tale restituzione della verità che riuscivano ad anticipare lo svolgimento della realtà stessa, ad essere profetiche. La stessa cosa fece Pasolini, fuori dalla finzione letteraria, della parodia, con i suoi interventi sui giornali, con la forza dei suoi jaccuse, delle sue provocazioni e delle sue requisitorie, dei suoi Scritti corsari. Non li rimpiangeremo mai abbastanza questi due scrittori civili italiani.
C’è qualcosa di letterario, di intellettuale in questo suo pendolarismo tra la Sicilia e Milano? La seconda domanda si collega alla prima: alla fuga corrisponde un altro polo di aggregazione che evidentemente non è solo fisico ma di fazione letteraria e se vogliamo anche metaforica?
C’è, prima di tutto, la mia vicenda umana, la mia storia di vita, che poi forse diventa vicenda intellettuale e letteraria. Dicevo che mi sono trovato, fin dal mio muovere i primi passi, nella piccola geografia siciliana, alla confluenza dei due mondi, tra due poli, e sono stato costretto al pendolarismo nel tentativo di trovare una mia identità. I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo dell’attuale mondo milanese. Voglio dire che continuo sempre a scrivere della Sicilia, ma con la consapevolezza, spero, della storia di oggi, del nostro mondo postindustriale, come lo colgo e leggo a Milano. Anche Verga – si parva… – da Milano cominciò a scrivere della sua Sicilia, a Milano tornò con la memoria alla Sicilia, a quel mondo «solido e intatto della sua infanzia», come dice Sapegno. Girando le spalle a quella città in piena rivoluzione industriale e sociale che non capiva e che lo «spaesava», alla Milano in cui rimase per diciotto anni, ma girando contemporaneamente le spalle alla Sicilia di allora, quella della corruzione e della mafia che avevano messo in luce Sonnino e Franchetti, dei contadini e degli zolfatari che in nome del socialismo cominciavano a chiedere giustizia. Scrisse insomma Verga i suoi capolavori su una Sicilia fuori dalla storia, mitica, del mito negativo della «ineluttabilità» del male, su una Sicilia solida e intatta appunto, cristallizzata. Fuga da Milano significa ritorno e aggregazione all’altro polo da cui avevo a suo tempo preso le distanze, significa ritorno reale e letterario? No so, credo di no. Non si ritorna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più i luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo prigionieri, a Milano, a Roma, à Palermo, della tessa realtà, afflitti tutti dallo stesso male. La mia dichiarazione di lasciare Milano aveva un valore linguistico, era un gesto simbolico di protesta. E ha irritato o inquietato tanta gente. Un vecchio critico milanese, un uomo compromesso col potere democristiano, è arrivato a insultarmi. Non voglio apparire megalomane, ma temo di esser diventato inviso a certi gruppi di potere culturale milanese, a certi cronisti di grandi testate giornalistiche. Ho ricevuto però anche tantissimi messaggi di consenso, di solidarietà. «Il Giornale» di Montanelli, all’indomani delle elezioni, così scriveva in un corsivo improntato al rispetto e alla civiltà: «Un’ombra ha turbato ieri le coscienze di non pochi milanesi, la decisione dello scrittore Vincenzo Consolo, siciliano di nascita e milanese d’adozione, di lasciare il capoluogo lombardo in seguito alla vittoria della Lega…». «L’indipendente» invece, in un ignobile corsivo, mi invitava a fare le valigie e ad andarmene. Me ne andrò sì, quando vorrò io, ma non so dove. So solo che ora, alla mia età, essendone Stato privato per tanti anni, sento il bisogno di rivedere le albe, i tramonti, di stare in un luogo dove il paesaggio fisico e quello umano non mi offendano. No so se esiste questo luogo, lo devo cercare. E forse sarò vittima di un’altra utopia.
Un’ultima domanda: si può ancora parlare di una componente mitico-utopica dell’attività dello scrittore, del letterato?
Mi sono sempre sforzato di essere laico, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me, ripeto ancora, è 1l romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico – anche quelli che scrivono di Dio o di miti fanno ideologia, coscientemente o no -, cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma della scrittura, che è come la fionda di David, o meglio come la lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.
Vincenzo Consolo Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993
Spesso la ricezione di un’opera d’arte passa attraverso dei filtri letterari, e nel caso del ritratto di Antonello da Messina un filtro importante è stato, per la nostra generazione, senz’altro il suo libro. Tra l’altro, l’impressione che si ha nel vedere l’ignoto del quadro è che le somigli molto. Quale è stato il suo rapporto con il ritratto di Antonello, quando lo ha visto per la prima volta? E come ha immaginato le sue vicissitudini: si tratta di una fantasia che risale all’infanzia, all’adolescenza, o ha più a che fare con un’esperienza di maturità?
Ho visto quel quadro in anni lontani, non riesco a ricordare quando. Da ragazzino, certo. Lo vidi poggiato su un cavalletto, senza cornice, vicino a una finestra, illuminato dalla luce solare. Mi sembrò un quadro grande, e invece è di piccole dimensioni, 30×25 (adesso sembra più piccolo, ed è diventato quasi invisibile per ragioni di sicurezza è stato relegato in un angolo, distante da chi guarda, imprigionato dietro un vetro che fa da specchio e schiacciato da una mostruosa cornice aggettante). Il personaggio effigiato mi appari familiare e insieme lontano, enigmatico. Era uno che «somigliava» a tante persone che avevo conosciuto o che mi vedevo intorno. Quegli occhi, quel sorriso ironico, quella forza realistica, concreta dell’aspetto
(Cesare Brandi dice che ha la consistenza di un cristallo), rappresentava certo l’archetipo dell’uomo siciliano, con tutte le componenti etniche e culturali dietro, giunto, dopo la tempesta della giovinezza o la precarietà sociale, alla sicurezza della maturità, della cultura e del censo.
Quando cominciai a scrivere il romanzo, il quadro si caricò di vari significati, fra cui questo.
Il viaggio del Ritratto d’ignoto, nel simbolico tracciato di un triangolo avente per vertici Messina, Lipari a Cefalù voleva dire: un’altissima espressione di cultura e di arte sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata per il terremoto abbattutosi sulla città dello Stretto distruggendola, cacciata in quel cuore della natura qual è un’isola vulcanica come Lipari, scoperta da un uomo sapiente e appassionato come il barone di Mandralisca, viene infine salvata e riportata nella sicurezza di Cefalù, preambolo, porta del gran mondo palermitano. E non questo, tra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, passaggi perigliosi tra gli scogli di Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà? Tornava nel libro l’essermi trovato alla confluenza di due mondi siciliani, all’ incrocio della natura e della storia. E ho voluto rappresentare questo movimento, questo arrivare dal mare e approdare alla terra, dall’esistenza alla storia (c’è più volte nel romanzo l’arrivo in porto di un veliero).
Il movimento poi, verticalmente, dal basso verso l’alto, è simboleggiato dal carcere a forma di chiocciola, di spirale, dalle scritte che i carcerati hanno lasciato col carbone sulle pareti: in una progressiva e ascendente presa di coscienza sociale e politica.
Ha un altro significato ancora quel ritratto, che molto bene ha colto Sciascia. «Questo libro è la storia di un parricidio» ha detto, riferendosi allo sfregio che il ritratto ha sulle labbra (mi pare che sia Sklovskij a dire che la storia della letteratura è una storia di parricidi). Lo sfregio è fatto da un personaggio, Catena Carnevale, che appare in limine, nell’Antefatto, ma che muove tutto il racconto, tutta l’azione. La ragazza, un’intellettuale, figlia dello speziale di Lipari, sfregia l’uomo del ritratto al quale perfettamente somiglia il fidanzato, Giovanni Interdonato, fuoruscito, clandestino per ragioni politiche, indignata perché la «rivoluzione» tarda a venire. All’uomo del ritratto somigliano anche il vescovo, il capo della polizia, lo stesso barone Mandrali-sca.. Non somigliano invece i cavatori di pomice o i contadini rivoltosi di Alcara. Il gioco delle somiglianze, circolare e chiuso, col ritratto vuol dire che dalla ragione si può uscire dall’ alto con il disordine e il furore della fantasia creatrice. La faccia contrapposta di Catena è quella dell’eremita allucinato, simbolo dell’uscita dal basso per disgregazione della ragione, per annientamento.
L’aspetto saliente del libro, da un punto di vista meno formale, è che per la prima volta viene scritto un romanzo storico il cui tema centrale è proprio la messa in questione della storia, la ricerca di una nuova scrittura della storia. E tutto ciò viene ottenuto mediante un montaggio fra i capitoli di invenzione, che pure parlano di personaggi storici, e i documenti posti in appendice, straniati dal contesto per creare un mutuo dialogo fra queste varie visioni del mon-do. Il che è anche un modo di dire che non esiste una storia, ma che le storie possono essere tante.
Anche la storiografia non ha più ormai da parecchio tempo la presunzione di descrivere fatti oggettivi, ma cerca di far interagire diverse prospettive nel tentativo di darne una ricostruzione attendibile. Eppure, nel libro, c’è una sorta di sfiducia nella possibilità di avvicinarsi al verosimile, se non al vero, anche attraverso questo metodo: alla fine si ricorre alla «tan-gente» utopica, all’affermazione della speranza che i protagonisti della storia, soprattutto quelli dei cet! subalterni, trovino da soli le parole per raccontarsi. C’è, perciò, una contraddizione tra il tentativo di altissima mediazione intellettuale e il ricorso alla speranza in una immediatezza espressiva, che appare come una caduta un po’ demagogica…
Quello non è il pensiero dell’autore, ma del Mandralisca, dell’intellettuale che cerca di scaricarsi la coscienza, di alleviare i sensi di colpa donando il suo patrimonio al popolo di Cefalù, nella speranza che le nuove generazioni «possano scrivere da sé la storia». Certo, questa soluzione è ingenua, se non demagogica. A parte il fatto che gli acculturati quasi sempre fatalmente, passano dall’altra parte… Ma lasciamo andare questi discorsi pericolosi. Il punto è la responsabilità di chi ha il potere della scrittura (parliamo ancora dell’arcaica scrittura. Pensiamo alla pericolosità di chi ha oggi in mano il potere dei media, di giornali e della televisione). Dire che quelli che non hanno questo potere sono le vittime,sono quelli che più soffrono l’ingiustizia, può sembrare populista. Sì, questo è il rischio, ma io l’ho affrontato mettendo in scena nel romanzo mille dubbi.
Piazza Armerina il 5 giugno 1966
Il libro è scritto nella prima parte in forma parodistica, mimetica, sarcastica se si vuole, quindi in negativo: faccio il verso a un erudito dell’Ottocento recluso nella sua mania antiquaria, che scrive i suoi saggi scientifici, che si occupa di malacologia, una materia quanto mai curiosa, eccentrica. L’erudito cozza suo malgrado contro la storia e entra in crisi: si trova davanti a un massacro, ed essendo un uomo di coscienza, non cinico, perora la causa dei rivoltosi che stanno per essere condannati a morte, scrive lettere al presidente del tribunale, Giovanni Interdonato. Questo è un espediente per un cambio di persona o di voce. L’altro scarto o frattura totale arriva alla fine, con le scritte sul muro del carcere. Naturalmente, nel primo cambio di voce, la scrittura non è più parodistica, cambia segno, si fa positiva, di adesione dell’autore alla voce del personaggio (è il gioco ambiguo della letteratura). La struttura del romanzo è spezzata. Non ho voluto scrivere il romanzo storico di matrice ottocentesca, compiuto, rotondo, sapienziale o pedagogico, d’intrattenimento o di consolazione (avrei contraddetto i presupposti da cui ero partito). Ho fatto così vedere l’ordito che sta sotto l’invenzione letteraria, ho esibito, fra un episodio e un altro, dei documenti storici. Ho tolto insomma i colori all’affresco (e quello storico, per la distanza temporale, come dice Leopardi, è quanto mai seducente).
Finora abbiamo girato attorno ad un nome, tra quelli che è possibile intravedere dietro la sua scrittura, e che non è siciliano, ma milanese, e cioè Manzoni. Qual è il suo rapporto, se c’è, con Manzoni! Perché le parole che lei ha usato sono quasi una filigrana manzoniana: il palinsesto, l’erudito, l’ironia e insieme il rapporto-scontro tra la realtà dello scritto e quella della storia, e poi la storia intesa come problema, come dramma. Siamo d’accordo sul suo rapporto con i siciliani, e anche forse con Gadda e Pasolini, ma Manzoni come lo sente?
Si sa, Manzoni è il nome fondamentale sacramentale forse dovrei dire, della letteratura italiana moderna, del romanzo storico. E noi scrittori siciliani, «inclini» alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. Nell’adolescenza avevo letto altri autori, D’Azeglio, Guerrazzi, Grossi, il siciliano Luigi Natoli, i cui romanzi, privi di metafora, e di tante altre cose, erano solo delle ponderose e soporifere storie romanzate. La lezione del Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile. Dopo il Sorriso, ho continuato a scrivere romanzi storici (ne sento sempre più la necessità). L’ultimo, Nottetempo, casa per casa, è ambientato negli anni venti, che mi sembrano terribilmente somiglianti a questi che stiamo vivendo, anni di crisi ideologica e politica, di neo-metafisiche, di chiusure particolaristiche, di scontri etnici, di teocrazie, integralismi… Il sorriso e Nottetempo formano un dittico. Ho sottolineato questo legame fra loro non solo con il luogo dell’azione, Cefalù, ma anche con altri segni. Gli incipit dei due racconti cominciano con la congiunzione «e»; il primo si apre con un’aurora, col sorgere del sole; il secondo con un notturno, col sorgere della luna. Nel primo ho voluto insomma raccontare la nascita di un utopia politica, della speranza di un nuovo asseto sociale; nel secondo, il crollo di quella speranza, la follia degli uomini e la follia della storia, il dolore e la fuga. Il protagonista, Pietro Marano, fugge dalla Sicilia, dal caos, dal fascismo che arriva (fugge da Milano, da Palermo), da un tempo atroce e allarmante. Ho studiato gli anni venti, soprattutto in Sicilia, su libri, riviste, su un giornale che si stampava a Cefalù, «L’idea». Mi sono imbattuto, in quel paese, in personaggi veri, storici, interessanti, fra cui il mago satanista inglese Aleister Crowley, e li ho fatti muovere insieme a personaggi di invenzione, come sempre avviene nei romanzi storici. Del resto Manzoni nel suo famoso saggio sul romanzo storico chiarisce bene il concetto: sono i personaggi della storia che vanno insieme, camminano insieme ai personaggi di invenzione letteraria, e corrispondono e somigliano gli uni agli altri. Tutti devono avere la luce del loro tempo, e insieme devono riflettere il nostro.
Tornando al Sorriso dell’ignoto marinaio, questo ragionare da letterati sulla storia ha una precisa contestualizzazione, nel senso che avviene all’inizio degli anni settanta quando trova altri momenti di espressione letteraria, per esempio nel romanzo alla Morante. Naturalmente la storia di cui lei parla è qualcosa di più della storiografia, della storia quale disciplina, è una specie di controaltare denso e composito di quello che è il portato delle forme razionali della cultura, è la storia come rappresentazione complessiva che gli intellettuali danno di un mondo e dei suoi poteri. Qui forse c’è qualche punto di vicinanza con la Morante, nonostante le differenze che vi separano, e sarebbe interessante sentire da lei quale era il clima degli anni settanta rispetto a questo tema.
Ho trovato allora interessanti le teorie messe in campo dal Gruppo 47 tedesco, quello di Enzensberger, di Kluge, di altri. I tedeschi venivano da un’esperienza tremenda, quella del nazismo e dei campi di sterminio, e in Germania era in atto una sorta di rimozione di quella grande colpa che li schiacciava, che non li faceva vivere. Il Gruppo 47 voleva ostinatamente ricordare quello che era successo attraverso la storiografia, additare le colpe, parlarne, invece di seppellire tutto, nel tentativo di provocare una sorta di catarsi collettiva. Ci sono ad esempio due libri di Alexander Kluge, Descrizione di una battaglia e Biografie, di un realismo freddo, lucido, di puntigliosa scientifica documentazione che lasciano Senza fiato. Di quella logicità spietata che spesso hanno i tedeschi. Quegli scrittori per me (non ridano i germanisti) si possono dividere in pasticceri (Günther Grass, ad esempio, altri espressionisti) e in analisti. Kluge, Schmidt, Johnson, Enzensberger appartengono a questa seconda categoria. Quello della Morante non è un romanzo storico-metaforico, piuttosto è una rivisitazione della storia narrata attraverso una sotto-storia, quella dei vinti, degli umili. I capitoli si aprono con la storiografia ufficiale e quindi, in opposizione, l’autrice racconta la storia ignota degli innocenti, degli emarginati, delle vittime. La storia è mossa dalla pietà, dall’amore per gli umili, gli indifesi, per quelli che hanno pagato più di tutti per il fascismo e per la guerra. Ricordate il vecchio Brecht? «…Roma la grande / è piena d’archi di trionfo. Su chi / trionfarono i Cesari?… / Ogni dieci anni un grand’uomo. / Chi ne pagò le spese?…». Per me c’era l’esigenza della metafora, l’esigenza cioè di rappresentare gli anni settanta attraverso lo schema storico. Credo sempre più alla necessità e alla validità di quella scelta, della scelta cioè del romanzo storico, che vuol dire critico, vuol dire ideologico, per le ragioni cui sopra ho accennato, che sono interne alla letteratura, di ordine diciamo estetico, ma anche, soprattutto, per ragioni di ordine etico. Il più grande romanzo della civiltà occidentale, l’Odissea, è diviso in due parti: la Telemachia e l’Odisssea vera e propria. La prima è narrata in terza persona è quello il romanzo d’iniziazione, di formazione); la seconda parte è narrata in prima persona.
Il passaggio dalla terza alla prima persona, dal racconto oggettivo al soggettivo, avviene nella terra dei Feaci, quando il re Alcinoo invita l’ignoto naufrago a dire chi è e da dove viene. «Io sono il figlio di Laerte, Ulisse, / tra gli uomini famoso per le astuzie; / la mia gloria va fino al cielo. / Abito nella chiara Itaca…» risponde l’eroe (cito nella bella traduzione di Giovanna Bemporad). E comincia quindi un lungo flash back, un racconto quasi onirico, fantastico, che si svolge in mare, dal momento che le navi hanno doppiato il capo Malea, un racconto di mostri, giganti, sirene, maghe, maliarde, di oblii, metamorfosi, tempeste, perdite, follia e morte. Sembra, quello di Ulisse, un racconto di tipo psicoanalitico, in cui il narratore fa riemergere dalla profondità del mare o della sua coscienza tutti i mostri che si portava dentro, i mostri generati dai suoi rimorsi. Ulisse infatti era il più colpevole degli eroi greci, perché il più astuto e il più consapevole, il più umano (Agamennone pagherà con la morte e con la maledizione nella sua stirpe la grande colpa iniziale). Ulisse aveva inventato la macchina sleale, il cavallo di legno che aveva determinato La sconfitta dei Troiani, aveva seminato morte e distruzione. Ulisse dunque si porta dentro questa grande colpa e compie un viaggio di dolore e di espiazione. Finito il racconto in prima persona, soggettivo, riprende quello in terza persona. Ulisse raggiungerà, con la nave dei Feaci, Itaca, dove, per ritrovare l’armonia perduta, riprendere il suo posto familiare e sociale, dovrà combattere i nemici reali, i Proci. Ecco, credo che nel nostro tempo, i mostri individuali, del nostro subconscio, sono emersi dagli abissi, si sono oggettivizzati, sono diventati mostri reali. Dopo Hiroshima e Auschwitz, dopo Stalin e Sarajevo, dopo tutti gli orrori di oggi, quei mostri profetizzati da Kafka o da Musil, da Eliot, da Joyce o da Pirandello, sono diventati mostri della storia. Questi mostri credo che la letteratura, il romanzo abbia oggi l’obbligo di affrontare. Altrimenti è alienazione, fuga, colpevole assenza, se non complicità.
Anche per questo, per questa sostanza metaforica, si è parlato, a proposito della sua prosa, di un carattere teatrale, che del resto appartiene molto anche alla tradizione siciliana. Retablo, il romanzo successivo al Sorriso dell’ignoto marinaio, è la dimostrazione lampante di questa dimensione teatrale della sua scrittura, della composizione per quadri, di una propensione a scomporre l’unità della scena.
Più che a quella teatrale, credo che appartenga alla tradizione della narrazione orale. La narrazione epica dell’antica Grecia era orale. Ma anche nella tradizione araba, passata poi in Sicilia, la narrazione era orale. Nei romanzi di Tahar Ben Jelloun, in Creatura di sabbia, Notte fatale e nell’ultimo, A occhi bassi, ci sono sempre personaggi che in traduzione vengono chiamati cantastorie ma che in effetti sono contastorie, narratori orali che narravano nelle piazze (ancora ci sono nella piazza Jama el Fna di Marrakesh), come in Sicilia, fino a pochi anni fa quelli che narravano dei Paladini di Francia. I poemi narrativi credo che siano nati così, dall’oralità, avevano bisogno di un ritmo, proprio per un fatto mnemonico. Nella tradizione araba c’è uno stile che si chiama makamet, che consiste in una sorta di prosa ritmica, nata per ragioni pedagogiche. Nella mia scrittura c’è uno slittare della prosa verso un ritmo poetico. Sento la necessità di far questo perché credo che la lingua della narrativa ha bisogno di «risacralizzarsi» (non solo, certo, attraverso l’espediente esterno del ritmo), di ritrovare dignità. La lingua oggi è talmente privata di identità, talmente appiattita, quotidianamente incenerita dai media, che è terribilmente difficile trovare una lingua per narrare. D’altra parte in Italia non c’è una grande tradizione di lingua narrativa. La nostra vera tradizione è quella dei poemi narrativi, popolari o aulici come l’Orlando furioso o la Gerusalemme liberata Gli scrittori italiani hanno dovuto sempre andare all’estero per poter scrivere in prosa, da Manzoni a Calvino, a Sciascia, mutuare cioè la loro dalla prosa francese o adottare una sorta di koiné funzionale di tipo transnazionale come Pirandello o Moravia. Penso che quando uno scrittore ha scoperto qualcosa di nuovo, di importante e ha urgenza di comunicarlo, allora la lingua diventa strumento del messaggio. Pirandello ha fatto questo, Svevo… Altrimenti, per rimanere nel campo letterario, si ha l’obbligo dello stile.
Volevo chiederle qualcosa proprio a proposito della lingua. Leggendo i suoi romanzi, ho sempre avuto la sensazione che si trattasse di un lingua quasi completamente inventata. Mi dicevo: adesso vado a vedere sul Devoto-Oli se esiste questa parola e sono quasi certa di non trovarla. Devo dire che non ho mai tentato questa ricerca, però mi piaceva molto quest’idea… e immagino anche che sia difficile per lei rispondere alla domanda che sto per farle perché è difficile razionalizzare il processo attraverso il quale nasce questa creazione, questa invenzione della lin-gua. Lei ha parlato di memoria storica, cioè della necessità per chi scrive, soprattutto per chi scrive romanzi storici, di fare una ricerca storica sull’ambien-te, il contesto, la situazione, i personaggi di cui si tratta; ha parlato anche di una memoria personale, di una lingua che evidentemente deriva da una formazione personale, familiare. Credo che per quanto la riguarda ci sia di mezzo anche il dialetto, il dialetto siciliano: ecco, l’alchimia di tutto questo come succede, come nasce?
No, le parole non si trovano nel Devoto-Oli né nel Fanfani o nel Tommaseo. Non sono però parole inventate, ma reperite, ritrovate. Le trovo nella mia memoria, nel mio patrimonio linguistico, ma sono frutto anche di mie ricerche, di miei scavi storico-lessicali. Sin dal primo libro sono partito da una estremità linguistica, mi sono collocato, come narrante, in un’isola linguistica, in una colonia lombarda di Sicilia, San Fratello, dove si parla un antico dialetto, il gallo-italico. È quella particolarità storico-linguistica avvertita da Sciascia.
Questa cifra linguistica estrema mi ha accompagnato poi negli altri libri, nel Sorriso, in Lunaria… C’è un racconto ne Le pietre di Pantalica intitolato I linguaggi del bosco, in cui metto a fuoco proprio la mia «ideologia» linguistica. Quelle parole, irreperibili nei vocabolari italiani, hanno però una loro storia, una loro dignità filologica: la loro etimologia la si può trovare nel greco, nell’arabo, nel francese, nello spagnolo… Quei materiali lessicali li utilizzo per una mia organizzazione di suoni oltre che di significati. Faccio qualche esempio. Nel Sorriso, di avvoltoi che si librano sopra cadaveri, dopo una strage, dico che stavano «arraggiati in cielo a volteggiare». Arraggiati voleva significare a forma di raggiera e insieme arrabbiati, famelici. In Nottetempo la sorella del protagonista, Lucia, ha un attacco di follia durante una gita a Bàida, un villaggio sopra Palermo. Bàida in arabo significa bianca, di bianco era vestita a sua volta la ragazza, cioè del colore-simbolo della follia. Superata la barriera sonora, quella sorta di ron ron ruffiano, credo che il lettore potrebbe essere stimolato a scoprire questi significati nascosti.
Vincenzo Consolo Fuga dall’Etna Donzelli Editore, Roma 1993
Ermetici suoni, versi bestiali o ululare del vento fra picchi, gole o accordi d’arpa eolia, cembalo, siringa o il silenzio come il tuo di pietra, creatura mia, solo questo è degno, la tua cruda assenza, la tua afasia, la tua divina inerzia. Là, per il cammino impervio e fatale, per il sentiero opposto, purgato d’ogni colpa, pena, tenterò di sfiorare il tuo mistero. lo che sarò erba, fronda, uccello… Io che sarò cenere. Il silenzio o solo la parola vergine del folle o del poeta. “ tôn dè méson théso kat’aghénneta stoicheia il fuoco e l’acqua e la terra e l’immenso culmine dell’aria, che mai non hanno inizio né hanno termine alcuno, e l’astio rovinoso, da parte, e la concordia conciliatrice. Di qui tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono: gli uomini e le fiere e i pesci e i virgulti; perché quanto esisteva prima, anche sussiste sempre; né mai per causa di uno solo d’entrambi, il tempo infinito resterà deserto. allá, theoi… ek d’osion stomáton kataren och eúsate peghén” Dico queste parole d’una lingua morta, di corpo incenerito, priva delle scorie putride dello scambio, dell’utile come la lingua alta, irraggiungibile, come la lingua altra, oscura, della Pizia o la Sibilla che dall’antro libera al vento mugghii, foglie, come la formula introversa, transustanziante, dell’unto attore, del sacrificante. Voglio opporre così, da questo treppiede del vulcano, in quest’ultimo momento, all’ermetismo osceno e violento, all’afasia del potere immondo, il sacro ermetismo d’una lingua scritta. Come s’oppose a me, vile Agamennone, il fiore più bello nato alla mia casa, la dolce Ifigenia ch’io, snaturato!, volli sacrificare alla lotta, all’ intrigo, alla vittoria mia per il comando. S’oppose, col suo volo d’angelo a capofitto, col terribile silenzio, la ritrazione in un’oscura lontananza, con l’apparente morte, la paraplegia inumana. Lo voglio dire qua, a parole chiare e nette, lo voglio dire alle pietre e al fuoco, al vento e a questa nuova alba nel cielo, all’aurora che urge appresso: mia figlia Delia così di me s’è giustamente vendicata. Vendicata? O non piuttosto ha voluto lasciare, con il suo precipitare nell’assenza, vuoto alla mia espansiva tracotanza, alla mia cieca, corposa violenza? Perché, o noi crudeli, è così: chi muore per suo volere o d’altri è la sacrificale vittima, l’agnello bianco sopra la dura pietra, sotto la lama della nostra sopravvivenza. Così ogni tempo, ogni società ha ucciso il suo poeta: Vladimir tra i ghiacci e il fuoco d’un colpo di pistola; Federico tra gli ulivi e i cardi (splendeva, contro il nero dei fucili, dei colbacchi la sua camicia bianca, splendeva nella notte lo sciame nella lampada di lucciole); Pier Paolo tra l’immondizia e il fango d’un Getsemani, d’un desolato campo. Così le creature che in esilio vanno sulla luna, che hanno rotto ogni legame col nostro linguaggio marcio e insensato. Aaaaaah! Aaaaaaah! Pesano le nostre colpe sulle spalle come una plumbea Terra! […] Nell’età ferita e luminosa, fremente di lievito e di zagara, venni la prima volta a questo monte. Venni con la brigata d’allegria e di chiasso dei compagni, con il sorriso dolce di Pantea. Scendeva per la vallata il fiume rovinoso della lava, solenne piena di panico e d’incanto (torceva in un lamento, inceneriva la betulla, il cerro, il faggio, rovinava il muro a secco, la cisterna, la pergola, la casa tenera di rosa, giallo sopra quel mare nero. Torceva pel terrore il collo e scalpitava il mulo, il cane si perdeva nei guaiti legato sotto il carro dei fuggenti). Mi feci appresso a consolarla, smarrita e tremula com’era avanti allo spettacolo tremendo. E avanti al fuoco, avvampando, dissi del mio marasma, del mio fuoco. Lei, dolce, si volse a consolarmi. Tutta una vita, Pantea amorosa, s’assume in un unico momento. La mia, in quell’antico, dolcissimo e solenne, di verità assoluta dentro la verità della natura Raccolsi e le offrii un verde tralcio di ginestra ch’ella conservò come segno e pegno d’un sacro giuramento. Pose quel ramo poi nella scatola di legno, bianco come avorio, scolpito da un pastore d’Eraclea, che regalò, viatico e amuleto, a nostra figlia, a Delia, nel giorno primo che diventò fanciulla E ancora sul vulcano, davanti a te, Demetra sigillata dentro il manto, madre e donna offesa, incenerito e privo di poesia, sono questa volta in cerca d’un castigo, d’una quiete. Dell’ultima verità, e indicibile. […] Alla luce viola dell’estremo raggio, alla luce spenta, voglio dire addio alle arpe senza suono, alle creature senza accento: al fiore straziato, più che morto, al nardo, al gelsomino delicato reciso dalla mia, dalla furia del mondo; alla madre tutta amore, alla madre tutta dolore. Io pago la mia follia, la mia fuga da voi, dal sacro accordo, dall’armonia. Quel tralcio di ginestra, fiore del deserto, che il deserto consola della vita, chiamatelo asfodelo, fiore della morte, chiamatelo loto, fiore dell’oblio. Dimenticatemi. Dimenticate l’Empedocle feroce, l’Empedocle sacrilego. L’odio di me, di questo tempo odioso mi separa da voi, da voi già separate. Io vado, Pantea, vado figlia mia, nella notte d’assenza come la tua, vado dove finisce questo monte, dove finisce questa terra, vado dove comincia il fuoco ch’ogni male assolve, purifica ogni colpa. E questo il solo, il degno modo, mie perse figlie, di trovarvi. Di ritornare nel giardino vago, nella casa vostra di pietra e onore, alla serena mensa degli affetti. Addio.
Questi brani sono tratti dall’opera teatrale Catarsi, pubblicata dall’editore Sanfilippo di Catania e rappresentata nel 1989. La voce è quella di Empedocle.
foto Giovanni Giovannetti
Elogio della poesia Intervista con Vincenzo Consolo
Lei, in un’altra occasione, mi disse di provare una sorta di soggezione verso la poesia. Eppure la sua scrittura narrativa sembra costantemente alimentarsene.
Difatti è così. Io intendevo soggezione nel senso di scrivere in versi. Anzi, io leggo più poesia che prosa. Una volta la distinzione tra poesia e prosa non esisteva. I poemi narrativi, ad esempio, erano romanzo e poesia insieme. Il genere romanzo è nato con la nascita della borghesia, con la laicizzazione del mondo. Il romanzo è, intendiamoci, un grande genere letterario. Basti pensare ai romanzi del Settecento e dell’Ottocento. Però, oggi più di ieri, credo che il narratore abbia bisogno di tornare alla poesia. In questo senso: questa scrittura laica che è la prosa si è enormemente impoverita e devitalizzata. I mezzi di comunicazione di massa ci spossessano sempre di più della lingua e, con la lingua, anche dei sentimenti. Ecco perché lo scrittore non può più praticare lo stesso tino di prosa di una volta. Deve farsi più guardingo, deve cercare di reagire. Credo che l’accento della prosa debba spostarsi sempre più verso la poesia, in senso esterno e formale e in senso intimo, di contenuto. Penso che per salvare il romanzo, questo genere lemerario che sta morendo, lo scrittore debba nutrirsi di poesia. I poeti sono la nostra salvezza, la nostra risorsa. La scrittura è sempre un fatto di linguaggio e nessuno più dei poeti ce ne indica la funzione.
La sua è una scrittura precisa, prosciugata… Si tratta di una sorta di concentrazione che è tipica della poesia.
La concentrazione viene dal ritmo che io impongo, perché concepisco più di nella forma laica, distesa. Credo che sia giusto risacralizzare la scrittura, eliminando quel laicismo che oggi corrisponde esattamente a impoverimento e banalità. Detto altrimenti: c’è bisogno di dare alla parola una dignità più alta. Questa ce la può dare soltanto la contaminazione con la poesia.
Lei ha scritto Lunaria, un’opera dedicata a Lucio Piccolo, ai poeti lunari, ai poeti. Qui c’è l’ombra della poesia..
Ha detto bene: l’ombra della poesia… E, in qualche caso, c’è la forma se non la sostanza poetica. Il libretto mi pare significativo di questa crisi che sentivo della narrativa. Allora l’ho concepito in forma poetica e dialogica, approdando al teatro poetico. Il libro vuole essere polemico. La caduta della luna rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo. C’è il tentativo di far rinascere questa luna caduta in luoghi che bisogna scovare. La contrada senza nome, l’ho chiamata. Un luogo insondato, sconosciuto.
Qual è il rischio maggiore che corre la narrativa?
È il rischio della mercificazione. Avverto, in questi nostri anni, con la morte di una generazione di narra-tori, un mutamento grave: si vuol fare apparire come letteratura qualcosa che letteratura non è. Che, al massimo, somiglia alla letteratura. È un segno che lascia presagire un futuro terribile per la narrativa. Prima esisteva il livello commerciale, di consumo, della narrativa e quello letterario. Oggi si cerca di operare una mistificazione, facendo convergere i due livelli. La poesia, in questo senso, non è mercificabile, perché è irriducibile Si diceva prima che Lunaria è dedicata a Lucio Piccolo. C’è un capitolo, bellissimo, de Le pietre di Pantalica, in cui si ricorda, in termini indimenticabili, questo poeta.
Lei è d’accordo se dico che Piccolo è il poeta più importante che la Sicilia ci abbia dato in questo secolo?
Sono d’accordo. A rileggere insieme, ad esempio, Piccolo e Salvatore Quasimodo, credo che il vantaggio, se così possiamo dire, vada tutto per il primo. Piccolo ha avuto un solo torto: ha scritto poco. È morto relativamente giovane, ha esordito tardi, è stato molto critico verso le cose che scriveva. Se ne avesse avuto il tempo, egli ci avrebbe dato cose ancor più straordinarie. Per me, quest’uomo è stato importante. Mi ha insegnato a capire che cos’è la letteratura, la poesia. lo ho sempre ricordato che sono stati impor-tanti, mentre stavo in Sicilia, in questo luogo che sembra un deserto (ma dove, come in ogni deserto, ci sono le oasi), Piccolo e Leonardo Sciascia. Piccolo mi seduceva nei confronti della poesia, Sciascia nei confronti della prosa e della ragione. Io ho sempre cercato di oscillare tra questi due poli: quello orientale, barocco, e quello occidentale, illuminista.
Come mai Piccolo fa così fatica a essere accettato e studiato? E un poeta poco letto, la sua opera non è stata più ristampata da molti anni.
È vero. C’è stata, dal momento della sua scomparsa, una specie di cancellazione di questo grande poeta. Lo dico a disdoro della critica italiana. Quando Montale scoprì Piccolo e se ne occupò, da parte di molti si credette a una beffa del futuro Nobel a danno degli altri poeti. Poi, quando lo lessero e si accorsero che si trattava di un poeta vero e grande, non gli perdonarono, lui periferico (Piccolo abitava in una frazione di un minuscolo centro siciliano, il massimo della solitudine e dell’isolamento), di essere stato scelto da Montale. Anche critici eminenti e rispettabili, penso a Gianfranco Contini, fecero di tutto per cancellarlo. La società letteraria italiana (che io ormai preferisco chiamare azienda) penalizza chi considera periferico.
L’immagine vincente, allora, resta ancora quella di Quasimodo?
Certo. Quasimodo era più facile, più ‘esotico, nel senso che dava al mondo un’immagine della Sicilia che il mondo già credeva di conoscere. Ad esempio, quella grecità di maniera che gli svedesi amavano e concepivano. Che è del tutto falsa, finta. La grecità in Sicilia non esisteva più neanche ai tempi di Quasimodo. Esisteva, piuttosto, la violenza dei baroni. Più che di grecità, allora, bisognerebbe parlare di infamie storiche di tipo spagnolesco. I fanciulli lasciamoli ai nobili tedeschi. Detto questo, naturalmente, bisogna aggiungere che Ouasimodo ha scritto alcune belle poesie.
Per restare in un ambito siciliano, mi piacerebbe conoscere il suo parere su Bartolo Cattafi.
Non ho amato molto Cattafi. Aveva qualcosa di turgido, di urgente, di incontrollato, di non castigato che mi disturbava. Mi disturbava anche la sua concezione della, vita, il nichilismo, il superomismo. Come persona era piacevolissima, benché ricalcasse troppo certi schemi da signore di campagna. Era una persona gentile.
Quali sono i poeti che ha amato e che ama di più?
Dante, innanzitutto, il Dante più petroso, più linguistico. Leopardi, la sua parola incandescente, nuda, terribile. Leopardi si è scarnificato fino in fondo nella propria scrittura. Poi amo Pascoli perché ci ha fatto scoprire la grandezza della poesia umile e quotidiana. Non era mai generico nel nominare l’oggetto, l’animale, la pianta. È stato un grande sperimentatore, sapientissimo. E poi Pasolini, Montale, Amelia Rosselli, Zanzotto. Proprio nel suo petel, nei suoi balbettii, si posa la splendida oscurità della poesia. E non voglio dimenticare Giorgio Caproni e Mario Luzi.
Che tipo di rapporto pensa di aver avuto con la neoavanguardia?
lo andai a Palermo a seguire il celebre incontro del Gruppo 63. Per curiosità, innanzitutto. Allora, abitavo ancora in Sicilia. Andai, dunque, ma me ne ritrassi immediatamente. Quella sorta di azzeramento che loro tendevano a operare mi ripugnava un poco. I pensavo di praticare la letteratura dentro la tradizione letteraria. Amavo la sperimentazione di Gadda e di Pasolini. Per me, poi, il più grande sperimentatore del romanzo italiano è stato Giovanni Verga. Spesso le parole che ci giungono sono come svuotate, prive di senso, consumate. Come bisogna reagire? Noi riceviamo materiali che molto spesso subiamo passivamente. L’atteggiamento passivo nei confronti delle parole significa anche passività morale. Non ci chiediamo mai da dove ci vengano le parole e perché ci giungano in quel modo e in quel contesto. Il compito dello scrittore è di aprire queste parole e di vedere che cosa c’è dentro e quali sono le incrostazioni esterne. Gadda le faceva esplodere, ci metteva dentro la dinamite. La poesia, in questo senso, lo ripeto, ci potrà essere di grande aiuto.
a cura di Enzo Di Mauro
Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, nel 1933. Ha pubblicato: La ferita dell’aprile (Mondadori 1963 – Einaudi 1977), Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi 1976 Mondadori 1987), Lunaria (Einaudi 1985), Retablo (Sellerio 1987), Le pietre di Pantalica (Mondadori 1988).
Non sono in tanti a sapere che Vincenzo Consolo vive ormai da anni a Milano. Infatti la sua è una presenza schiva, orgogliosamente appartata, con poche concessioni alla vita sociale e praticamente nessuna a quella mondana ( a Milano si trova a suo agio solo in zona Buenos Aires, dove trova ancora un’umanità capace di rallegrarlo). Ama invitare gli amici a casa: lì la conversazione non conosce pause, l’ospitalità è qualcosa di naturale, i pranzi sono a base di cibi squisitamente piccanti (è lui a sovraintendere ai sughi, tutto il resto è opera della moglie Caterina, che è anche la sua collaboratrice più preziosa).
Uomo dall’eloquio sobrio e incisivo, che si colora di insofferenza non appena si nomina qualcuno che ha potere o successo, Consolo ha il dono di riconoscere subito i suoi simili e con loro appaga il suo bisogno frustrato di fraternità. Depone allora ogni scontrosità e dà libero sfogo alla sua vera natura, che è solare, ariosa e disinteressata.
Quando scrive ha un suo rituale fisso?
Mi piacerebbe rispondere che indosso una particolare vestaglia, come Balzac o D’Annunzio, o il trae de luz, che recito preghiere, come il torero prima di affrontare la lotta contro la bestialità, ma devo rispondere che il mio rituale è il caffè: caffè e caffè, dolcificato col miele.
Quante stesure fa prima di arrivare a quella definitiva?
Scrive a mano o, a tratti, a macchina?
Una sola stesura, ma lavoro molto su una frase, un periodo, una pagina. E scrivo a mano, trasferendo subito i brani o lacerti che mi sembrano definitivi sul foglio della mia vecchia Olivetti studio 44.
Le è capitato di dover fare ricognizioni in qualche luogo per mettere a fuoco un particolare narrativo?
Sì, quasi sempre. Conservo ancora un quaderno dove ho disegnato varie mappe di Cefalù percorrendo innumerevoli volte il centro storico di quella cittadina quartiere per quartiere, vicolo per vicolo. Qualche volta sono ricorso agli appunti fotografici. La fotografia può aiutare la scrittura, può anzi sollecitarla. Ho visto una volta, per esempio, tutte le foto fatte da Crocenzi per l’edizione illustrata di Conversazione di Sicilia di Vittorini, e mi sono accorto che in quelle foto si vedevano immagini del futuro libro di Vittorini, Le città del mondo, uscito poi postumo.
Scrive sempre nella stessa stanza e sullo stesso tavolo?
Ci può descrivere il tavolo su cui lavora?
Scrivo sempre sul tavolo da pranzo. E’ in legno, con belle gambe tornite e il piano coperto da un panno verde, sul quale non saltellano dadi, scivolano tarocchi o corrono biglie, ma sono sparsi fogli, libri, vocabolari, macchina da scrivere, lampade, penne, matite, gomme, cancellini… Roba che ogni volta, quando è l’ora di pranzo, bisogna raccogliere e sistemare altrove.
I suoi libri si possono leggere come le parti di un grande affresco, anche storico, sulla Sicilia. Non ha mai pensato di ambientare altrove un suo romanzo?
Sino ad ora no. Ma ho scritto qualche racconto su Milano, scriverò su Milano, la città dove vivo da vent’anni; forse, si parva… eccetera, scriverò un mio Per le vie; ma, sono sicuro, in diversa forma, con un diverso linguaggio da quello a cui mi costringe la Sicilia.
C’è stato il giudizio di un critico che le è stato utile, anche nel senso che ne ha tenuto conto in un lavoro successivo?
No,no. La critica ti illumina su quello che hai già fatto, non su quello che farai, che è, dovrebbe essere, sempre un’avventura nell’oscurità e nell’imprevedibile. E’ mitico questo che dico?
Forse, ma mi va benissimo. C’è un momento in cui avverte di più l’aspetto di fatica dello scrivere, che spesso provoca quasi un’emorragia delle forze psichiche?
All’inizio e alla fine di ogni libro. Quando si è dentro si prova, io provo, felicità. L’ingresso è faticoso, l’uscita è deludente, come nel rite de sortie delle favole. E’ romantico questo che dico?
Direi proprio di no. Sente il bisogno di interrompersi di tanto in tanto, uscendo a passeggiare, facendo telefonate, distraendosi con la lettura…?
Credo che non si possano dedicare molte ore di seguito alla scrittura. IO, poi, trovo tutte le scuse per interrompermi, per cercare distrazioni, consolazioni. Il caffè, per esempio, è una gran consolazione. O c’è altro? In compenso, o per fortuna, ci sono occasioni in cui non ti accorgi del tempo, in cui sei totalmente assorbito dalla scrittura.
Lei sembra prediligere nella narrazione delle sue storie tempi lontani dal presente, eppure ricchi di analogie col presente. Perché questa scelta di parlare in modo indiretto dell’Italia attuale?
E’ una questione di testa piantata sul busto all’incontrario: così sono gli scrittori, meglio, i narratori, con la testa rivolta all’indietro. Oppure ce l’hanno rivolta a destra, e scrivono Robinson Crusoe, o a sinistra, e scrivono La cognizione del dolore.
Sa generalmente in anticipo come si svilupperà la trama del suo racconto o viene scoprendola mentre scrive?
Non mi ha mai interessato la trama più di tanto, quella che adesso chiamano il plot. M’ interessa il fatto che devo raccontare, la struttura del racconto e il modo, il linguaggio in cui devo raccontare.
Lei appartiene al folto albero genealogico degli scrittori che sono nati in Sicilia e che l’hanno rappresentata. Quali aspetti inediti pensa di aver aggiunto con i suoi libri?
Non so dirlo, so che prima di scrivere un libro pensi di illuminare chissà quali zone oscure della realtà, di fare chissà quali rivelazioni. Dopo, ti sembra tutto scontato, risaputo.
Quand’è che si è scoperto scrittore?
Sui 15, 16 anni. Il mio racconto era di stampo verghiano, ma aveva però un bel titolo: Triangolo e luna. Ricordo solo il titolo perché il racconto negli anni l’ho distrutto. Poi ho continuato a scrivere racconti, ma sempre solo per me, non facendoli vedere a nessuno. Solo nel 1960 ho fatto leggere il dattiloscritto La ferita dell’aprile al poeta Basilio Reale, che allora era lettore alla Mondadori. Dopo due anni dalla Mondadori mi hanno telegrafato che il libro era stato accettato e sarebbe uscito.
Ha mai scritto poesie?
Mai, assolutamente mai.
Nei suoi libri l’io narrante, che ricorre spesso, è come se fosse il portavoce di una comunità: non è cioè una voce individuale, senza retroterra. E’ così?
Sì. E’ un io, il mio, che non crede nell’Io. Quest’ultimo, anzi, a me personalmente, un po’ sembra impudico e un po’ sembra ridicolo. Se non fosse così, non scriverei in prosa. La prosa per me è la scrittura della società.
Lo scrittore Vincenzo Consolo parla dei suoi studi a Barcellona in provincia di Messina. Lì conobbe un famoso anarchico, Nino Pino Bellotta che gli insegnò tante cose, gli fece capire cos’era lo sfruttamento. Una volta finiti gli studi liceali, decise di fare l’università a Milano perché c’erano Vittorini, Quasimodo, che c’era stato Verga. Milano era il luogo della classe operaia, della rivoluzione industriale. Alla Cattolica si iscrisse a giurisprudenza e non a lettere, perché i suoi consideravano l’insegnamento un affare da donne. Molti dei suoi compagni di università diventarorno poi classe dirigenti. Da ragazzi incontravano nelle latterie compaesani celerini e compaesani che partecipavano alle lotte operaie. Di qui la definizione di piazza dei destini incrociati.
*Colloquio tenutosi il 5 dicembre 1988 nella Biblioteca Salita dei Frati di Lugano, in una serata organizzata dall’Associazione dei Siciliani nel Ticino e da «Bloc Notes». a cura di Paolo Di Stefano
Giunto a Milano nel 68, all’età di trentacinque anni, Vincenzo Consolo non è emigrante per necessità, ma per scelta. Questa scelta da quali ragioni è stata determinata?
«Devo dire che questa emigrazione a Milano, del 1968, era la mia seconda emigrazione. Emigrazione, naturalmente, tra virgolette, perché era un’emigrazione da privilegiato. Io avevo la possibilità di studiare e quando si trattò di fare gli studi universitari, decisi di compierli a Milano. Studiai diritto all’Università cattolica. Credo che in tutti i siciliani ci sia l’ansia di uscire dall’isola e di vedere il mondo, perché -almeno da parte delle persone che non sono strettamente necessitate- c’è come un bisogno di conoscere il «continente». Io avevo scelto Milano perché sin da allora offriva sollecitazioni letterarie: era la città dove era stato Verga, era soprattutto la città dove viveva Elio Vittorini. Speravo, quindi, andando a studiare a Milano, di conoscere Vittorini. L’incontro in realtà non avvenne a causa della mia timidezza. Mi ricordo che odiavo un mio compagno di università che era diventato amico di Vittorini e poteva liberamente accedere a casa sua e pranzare con lui. Ma voglio ricordare un episodio significativo per quegli anni. Piazza Sant’Ambrogio, dove si trova l’Università cattolica, era allora, parafrasando Calvino, la piazza dei destini incrociati: in quella piazza c’era, oltre alla basilica e all’Università, una caserma della celere -allora il ministro degli Interni era Scelba-, e un centro ricavato da un grande monastero, per l’orientamento degli emigrati. Negli anni Cinquanta c’erano grandi masse di meridionali che arrivavano alla stazione centrale, venivano convogliati su tram speciali e portati in Piazza Sant’Ambrogio, dove erano sottoposti a visita medica ed equipaggiati di casco e tuta, per essere poi mandati all’estero, in Francia, in Svizzera, ma soprattutto nelle miniere di carbone del Belgio. Allora, a studentelli piccolo-borghesi come me, o come Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi o altre persone che oggi appartengono alla classe dirigente italiana, poteva capitare di incrociare il compaesano contadino che emigrava, oppure il compaesano poliziotto. I destini dell’Italia si determinavano in quegli anni della ricostruzione. Finiti gli studi, capii che volevo fare lo scrittore. Pur avendo la possibilità di lavorare a Milano, decisi di tornare in Sicilia: per quelli della mia generazione, che non hanno fatto in tempo a fare la guerra, essere scrittori significava scrivere di problemi sociali, avendo letto la grande letteratura meridionalista del dopoguerra, da Conversazione in Sicilia alla saggistica, da Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre a D’Orso, a Gramsci. Decisi allora di tornare in Sicilia, per insegnare, per fare lo scrittore e testimoniare di quella realtà contadina.»
Perché, allora, il ritorno a Milano, una città con la quale, come tu stesso hai detto più volte, non hai avuto un rapporto facile?
«Tornai a Milano quando il mondo in cui avevo creduto e che pensavo di testimoniare era scomparso davanti ai miei occhi e davanti agli occhi di tutti. Si erano verificati grandi movimenti di masse dal Sud verso Nord, che coincisero con la fine della civiltà contadina. Il grande esodo verso l’industria settentrionale mi spinse a fare le valigie per assistere a quella grande trasformazione. Mi sembrava che in Sicilia la storia fosse finita, che si fosse chiuso un capitolo e che al Nord se ne aprisse un altro. In quegli anni c’erano alcune riviste molto attente a quelle trasformazioni, sia dal punto di vista sociale che linguistico: ad esempio, il «Menabò» sollecitava a studiare le commistioni che nascevano dall’incontro dei meridionali con le aree urbane, stimolava l’attenzione verso le nuove koiné che si sarebbero formate. Nel 1968, di fronte al rivolgimento culturale che si stava verifican-do, mi trovai spaesato e spiazzato, perché, provenendo dal mondo contadino, non capivo il linguaggio e la realtà di quella Milano. In molti anni di osservazione e di riflessione capii che non avrei mai potuto narrare di una realtà che non mi apparteneva e di cui non avevo memoria. Quindi l’unico modo per rappresentare quel mondo che non conoscevo era metaforico, rivolgendomi al mio bagaglio di memoria, alla mia storia e alla mia cultura. Cosi, dopo un silenzio di tredici anni, motivato dal momento di spaesamento e di osservazione, viene fuori il secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinato.»
Farei un passo indietro, per ricordare due figure determinanti per la tua cultura, entrambe siciliane, ma rappresentanti di due diverse Sicilie. Che cosa hanno significato per te Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia?
«Devo premettere che io parlo di microcosmi, ma credo che quel che dico possa applicarsi anche a realtà più ampie. Io ho sempre immaginato la la letteratura siciliana -che ha una sua precisa fisionomia, fortemente connotata storicamente e linguisticamente- come divisa in due parti: quella occidentale e quella orientale. Credo che ci sia una linea ideale che divide da una parte, a Ovest, narratori interessati al mondo storico e sociale -perché li son più forti i segni della storia-, dall’altra, a Est, scrittori più portati verso una visione esistenziale e verso una sorta di lirismo -perché il mondo orientale è più compromesso con la natura, una natura spesso violenta qual è, ad esempio, quella delle eruzioni vulcaniche o dei terremoti, con un continuo azzeramento della storia e la necessità di ricominciare sempre daccapo. Penso che questa distinzione sia valida non solo per gli scrittori ma anche per gli altri artisti. Io mi sono trovato a nascere e a vivere al centro di questi due mondi, in una specie di zona di confluenza, in un terreno franco dove c’erano segni labili della storia e segni labili della natura. Per me questi due poli erano rappresentati da Leonardo Sciascia e da Lucio Piccolo. Sciascia lo conobbi quando pubblicai il primo libro, La ferita dell’aprile; mi scrisse invitandomi ad andare a trovarlo. Andare a Caltanisetta fu per me come andare a New York, perché era un mondo completamente diverso rispetto a quello in cui abitavo: per noi che viviamo nella fascia settentrionale della Sicilia è molto più semplice prendere un treno verso il Nord, che esplorare quello che ci sta alle spalle, oltre quella barriera di Appennini rappresentata dai Nebrodi e dalle Madonie. Quindi conoscevo attraverso la letteratura il feudo e le zolfare, ma andando a trovare Sciascia mi accorsi che era una gente e una cultura diverse dalla mia. D’altra parte ho avuto in fortuna di stare vicino a un poeta come Lucio Piccolo, un cugino di Lampedusa, coltissimo, barone, che scriveva poesie altissime. Mi sono trovato, insomma, tra due bastioni, a combattere contro l’uno o contro l’altro.»
Nel 63 esce La ferita dell’aprile: la sintesi, che hai sempre cercato, tra questi due poli di cui parlavi, è già, almeno in parte, realizzata con il primo romanzo?
«Credo di sì. Sin dal primo libro mi sono scoperto una forte tentazione al canto. La ferita è concepita come una ballata, come un poema narrativo, come un romanzo fortemente ritmato. Ma tutto questo e corretto da tante malizie di tipo retorico, come l’ironia, le sprezzature, molte rotture interne e falsetti che ho messo in campo proprio in contrasto con questa propensione alla lirica. Oltretutto i temi trattati non erano per nulla assoluti o esistenziali o idilliaci. Erano argomenti drammatici: ho voluto raccontare con un linguaggio adolescenziale la storia dell’ennesima adolescenza della Sicilia del dopoguerra: la caduta del fascismo, la ricostituzione del partiti, la possibilità di avere una nuova storia sociale, il fallimento di tutto questo e il ritorno all’impostura eterna. È una falsa autobiografia, tanto che io lo considero un romanzo storico.»
Gli anni Settanta per te non sono anni di partecipazione. Eppure, nel ’76 esce Il sorriso dell’ignoto marinaio, da cui però emergono i segni del tempo. Qual è il rapporto tra storia e attualità?
«Questo libro l’ho potuto scrivere solo perché mi ero trasferito a Milano, dove ho potuto osservare la realtà operaia e industriale, e solo perché avevo visto i conflitti sociali, che in quel momento erano molto acuti. Volendo parlare di questo, mi sono rivolto alla storia siciliana e ho descritto un passaggio storico importante come il 1860, una data che tutta la tradizione narrativa siciliana ha trattato. In effetti gli scrittori siciliani si sono sempre chiesti i motivi della propria storia: per questo il tema del 1860 è stato trattato da Verga, da Pirandello, da De Roberto, da Lampedusa, da Sciascia. È quasi un passaggio obbligato. Io l’ho affrontato volendo trattare un argomento che mi stava molto a cuore: che cos’è la storia, da chi è scritta, qual è il dovere e l’atteggiamento dello scrittore e dell’intellettuale di fronte alla storia, in determinati momenti acuti. E giusto e morale, quando fuori le masse sono impegnate in lotte molto accese, che lo scrittore rimanga chiuso nella propria stanza a scrivere di se stesso o di squisitezze? Il protagonista di questo libro, il barone Mandralisca, è investito da questi interrogativi nel momento in cui in Sicilia avvenivano le rivolte popolari. Allora ho voluto raccontare l’atteggiamento di questo studioso, amante di oggetti d’arte, collezionista di quadri e studioso di malacologia, che si trova ad essere testimone di fatti atroci e di massacri.»
La presenza del documento originale, intercalato al racconto, può essere interpretato come il segno di un’insufficienza della narrazione?
«Direi che è un senso di colpa dell’arte nei confronti della storia e della vita. Io sento molto il privilegio della scrittura e il piacere della narrazione, ma anche un bisogno di verità nei confronti della grande menzogna che è la letteratura. Per questo, nella struttura del Sorriso, ho immaginato, insieme all’invenzione, l’inserimento di documenti, per mostrare la verità e la sublime impostura della letteratura legate in un tessuto unitario che desse un quadro complessivo. Raccontare in modo rotondo una storia come quella mi sembrava ingiusto. Ho voluto far veder e il disegno accanto al dipinto finito.»
Un aspetto fondamentale per comprendere la scrittura di Consolo è il linguaggio adottato. Che atteggiamento assume lo scrittore di fronte a questo argomento? A cosa si deve la scelta di quella «plurivocità» di cui ha parlato Cesare Segre?
«Il discorso sul linguaggio è molto complesso. Per quanto mi riguarda credo che ogni scrittore, se appartiene ad aree linguistiche periferiche dove Litaliano è una lingua che si acquisisce -come è stato nel mio caso-, debba inventarsi una lingua, non possedendo quella nazionale. A questo si aggiungono esigenze di tipo estetico-letterario. Da quando cominciai a scrivere io capii che non dovevo scrivere in italiano, proprio perché gli argomenti che volevo affrontare cozzavano con una lingua che parlava d’altro. Quindi volevo adottare una lingua che si opponesse a quella centrale, una lingua, se vogliamo, di contropotere. Questo, ovviamente, non è stato un problema solo mio, ma appartiene alla storia letteraria siciliana e non solo siciliana. Manzoni, quando decide di scrivere i Promessi sposi, un romanzo prettamente lombardo, in lingua toscana, lo fa per ragioni politiche, contro il potere austriaco. L’operazione linguistica del Verga è di segno opposto: rifiuta il toscano e sceglie una lingua altra per fare scoprire una realtà periferica che l’unità italiana ignorava: per questo Verga, prima di scrivere, studiò le tradizioni popolari, si documentò su inchieste parlamentari e no, fu molto colpito dal sondaggio di Sonnino e Franchetti sulle condizioni dell’agricoltura in Sicilia, soprattutto il capitolo finale in cui si parlava del lavoro infantile nelle miniere di zolfo, che fu una rivelazione per tutta l’Italia. Verga, per questo, scrisse in una lingua, come disse Pasolini, irradiata di elementi dialettali. Lo stesso Pasolini, provenendo dal Friuli, dovette affrontare lo stesso problema; non a caso le prime sue opere furono in dialetto e quando si trasferì a Roma scrisse in una lingua particolare, realizzando un processo retorico contrario a quello di Verga che abbassava a livello dialettale la lingua nazionale. Viceversa Pasolini, attraverso la digressione, partiva dalla lingua italiana per inserirvi elementi dialettali. Ci sono due modi per evitare di scrivere in italiano: un processo di irradiazione e un processo di innesto.»
Quando in Italia si parla di espressionismo linguistico nel Novecento si pensa a Gadda. In che termini si pone la tua ricerca linguistica rispetto all’esperienza gaddiana?
«Direi che ha agito non più di tanto, non credo che mi abbia influenzato, anche se, naturalmente, ho letto Gadda con interesse. Credo che l’unico aspetto che ci accomuna è il fatto che sia in Lombardia sia in Sicilia 111
è presente l’elemento spagnolo. Forse certo barocchismo proviene da questo retaggio culturale. Una volta hanno chiesto a Gadda le ragioni del suo barocco: rispose che barocco è il mondo e lui non faceva che rappresentarlo. La stessa tradizione siciliana è barocca, è composita, per nulla lineare e razionale. Brancati, commemorando Giuseppe Antonio Borgese, gli rimproverava di non aver praticato il barocco sino in fondo. Parlando del barocco siciliano, Brancati disse che è una linea retta che uscendo da un ghirigoro rientra subito in un altro ghirigoro. Questo significa che esiste la consapevolezza nel voler rappresentare una realtà e una tradizione che è in sé barocca.» Alla ribellione contro la lingua e contro la storia, si aggiunge in Consolo una opposizione rispetto ai generi letterari acquisiti. Il sorriso dell’ignoto marinaio, come è stato detto, è un romanzo che distrugge il romanzo.
«Sì. Io ho sentito in un certo senso la colpa di scrivere. Per questo ho cercato di negarmi sempre a qualsiasi tipo di inquadramento. Il sorriso ha una struttura così rotta, franta, è un assemblaggio di elementi talmente di- versi, che pensavo che il lettore potesse sentirsi frustato ad ogni pagina. Soprattutto per certo linguaggio presente nelle parti narrative, un linguaggio in negativo, cioè talmente mimetico e ironizzato che vuole negarsi nel momento in cui nasce. Cercavo di fare la parodia del linguaggio erudito dell’Ottocento. Inoltre il documento storico, diversi livelli linguistici e alla fine le scritte a carbone, che sono quanto di più sintetico, duro e incisivo si possa immaginare. Era un modo di sottrarsi al romanzo storico leggibile di fila, e quindi il tentativo di richiedere al lettore volenteroso di partecipare alla ricreazione del romanzo.»
Una costante dei libri di Consolo è la presenza, in diverse forme dell’immagine, del documento iconografico: Il sorriso parte da un quadro di Antonello, Lunaria contiene addirittura un corpus di riproduzioni ico-nografiche, Retablo ha per protagonista un pittore contemporaneo calato in ambiente settecentesco. Che significato ha questo rapporto con l’immagine?
«Forse la consapevolezza dell’insufficienza della parola e un bisogno di icasticità e di visualità. Nel Sorriso il Leitmotiv del quadro di Antonello si presenta in termini opposti: in un primo momento come presenza positiva, poi in senso rovesciato. In Retablo già il titolo appartiene alla categoria pittorica: «retablo» significa polittico, cioè insieme di storie raccontate in più scomparti. È un termine che si estende anche al teatro; in Cervantes «retablo» significa proprio teatrino. Io ho preso lo spunto da questa suprema ironia cervantina che richiama il senso dell’arte come impostura. Inoltre il protagonista è un pittore: il segno del falso storico che ho voluto rappresentare è proprio nel fatto che un pittore vivente assume vesti settecentesche.»
Fabrizio Clerici ha raccontato, in un’intervista, il pretesto che ha dato spunto al libro: un viaggio in Sicilia realmente accaduto…
«Una volta ci siamo trovati a Palermo per un fastoso matrimonio della nobiltà cittadina, a cui indegnamente ero stato chiamato a fare da testimone. Dopo la cerimonia abbiamo fatto un viaggio, con Clerici e altri, percorrendo l’itinerario classico di tutti i viaggiatori stranieri dal Settecento in poi. Da Palermo si approdava a Segesta, testimone della grecità, a Selinunte, poi ad Agrigento, spingendosi a volte fino a Siracusa, per fare il giro completo dell’isola. Fu quel giro a suggerirmi un libro che raccontasse di un viaggiatore lombardo in Sicilia. Ho scelto Clerici, che è di origine lombarda ed è un pittore tra il surreale e il metafisico. Inoltre in anni lontani aveva dipinto un quadro dal titolo «Confessione palermitana», dove comparivano le damine settecentesche di uno scultore che lavorava gli stucchi, il Serpotta, accanto alle quali aveva riprodotto gli scheletri delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Tutti questi elementi mi hanno spinto a inserire la figura di Clerici come protagonista del libro. Del resto Clerici e un personaggio già visitato dalla letteratura, essendo apparso in un libro di Savinio su Milano, Ascolta il tuo cuore città, in cui l’autore individua in Clerici un personaggio stendhaliano.»
In Retablo si raggiunge una sorta di sintesi tra l’elemento illuministico, rappresentato da Clerici, e la coralità siciliana barocca.
«Direi di si. La storia racconta di un personaggio, Clerici, innamora-to, non corrisposto, di Teresa Blasco, una fanciulla bellissima, secondo le testimonianze storiche rimaste, figlia di un militare spagnolo e di una siciliana. Nella realtà Teresa sposa Cesare Beccaria. Quindi, nella mia immaginazione, questa vicenda rappresenta l’incontro tra la ragione illuminista e la poesia della ragazza. Dall’incontro emerge la figura di Manzoni, di cui Teresa è la nonna, avendo generato, con Cesare, Giulia Beccaria. Il senso era questo: l’unione tra logica e irrazionalità. Clerici si allontana dalla cultura illuminista per pene d’amore; incontra in Sicilia un ex-frate, Isidoro, in preda anch’egli al delirio d’amore. Allora intraprendono insieme, come don Chisciotte e Sancio Panza, un viaggio per la Sicilia. L’intento di Clerici è di prendere le distanze dalla donna, immettendosi, lui dice, in una dimensione di «stasi metafisica», senza però riuscirci. Ma soprattutto è travolto dalla vita, quindi si crea questa tensione tra la ragione e la poesia.»
Torniamo indietro: in Lunaria (1985) come si combinano i richiami a Lucio Piccolo e a Leopardi?
«In effetti la dedica è molto importante: «A Lucio Piccolo primo ispiratore, con ‘L’esequie della Luna’. Ai poeti lunari. Ai poeti.» Lucio Piccolo, l’ho già detto, era un bravissimo e purissimo poeta scoperto da Montale, che aveva esordito nel 56, prima del Lampedusa. Le cronache letterarie si occuparono subito di questo signore eccentrico, barone, che esordiva già in età matura. Poi, però, fu commessa una sorta di ingiustizia nei suoi confronti. Quando esplose il fenomeno del Gattopardo, scritto dal cugino, se ne senti quasi come schiacciato, perché ogni volta che si parlava di lui veniva citato come il cugino di Lampedusa. Questo lo amareggiò molto e una volta, come racconta Sciascia, disse che era Lampedusa il suo cugino e non viceversa. In effetti la critica italiana non gli ha mai reso omaggio, mentre all’estero è molto tradotto. In anni lontani aveva intrattenuto corrispondenze con poeti stranieri importanti, come Yeast e Ezra Pound. Era un uomo di una cultura sterminata, aveva vissuto sempre appartato ed era molto autocritico. Il mio libro, Lunaria, è stato scritto in omaggio a lui, perché aveva scritto un’operetta in prosa che era una sorta di canovaccio da cui voleva ricavare un balletto. Infatti aveva mandato quel canovaccio a Ilde-brando Pizzetti che poi non ne fece nulla. Il tema di queste Esequie della Luna è la caduta della luna, è un tema leopardiano. In una poesia, Spavento notturno, Leopardi dice di un sogno in cui, appunto, la luna era precipitata. Io riprendo questo argomento facendone un’opera teatrale. In realtà ero molto disgustato per certa romanzeria di consumo che si faceva in quegli anni e che purtroppo continua a farsi. Allora ho voluto spingermi oltre Il sorriso dell’ignoto marinaio, proponendo un’opera in cui venisse eliminata tutta quella parte che è la radice del romanzo, la parte diegetica, riducendo all’osso la descrizione con brevi didascalie. La mia preoccupazione era che l’opera fosse più vicina alla poesia, con un rovesciamento di ruoli, per cui le parti scritte in versi sono più prosastiche, mentre le didascalie in prosa sono più ritmate e rimate. Ancora una volta era quindi un libro scritto in polemica rispetto all’industria culturale.»
A proposito dell’ultimo libro, Le pietre di Pantalica, alcuni critici hanno avvertito una sorta di sentimento nostalgico che lo pervade. Tu accetti questa osservazione?
«Non credo che ci sia nostalgia. Il libro è strutturato in tre parti, «Teatro», «Persone», «Eventi». Non so dove si possa avvertire questa nostalgia. Non credo certo nella terza parte, che è la più diaristica, la più violenta: si fonda sui miei ritorni in Sicilia di questi anni, sulla constatazione di un degrado, di un processo di imbarbarimento e di atrocità. Nella prima parte ho voluto raccontare gli ultimi bagliori dell’epopea contadina, a partire dall’arrivo degli Americani sino agli anni Cinquanta, il tentativo fallito di avere una riforma agraria e una maggiore giustizia sociale. Il mondo contadino non era assolutamente un mondo felice, per cui non credo se ne possa nutrire nostalgia. Tuttavia cerco di dimostrare che c’erano alcuni valori che si sono perduti: un senso immediato della realtà, senza schermi, e un’alta considerazione della vita umana. Credo che nel processo di imbarbarimento d’oggi sia avvenuto innanzitutto un distacco dalla realtà, per cui non se ne ha più la percezione. Tutta la storia della civiltà, secondo me, è contrassegnata da un oscillare continuo di accostamento e allontanamento dalla realtà. Nei momenti di distanziamento si verifica quella che noi chiamiamo alienazione, che ci costringe a guardare delle false realtà: momenti storici come quello che stiamo vivendo mi fanno pensare al ritorno dentro la caverna platonica, dove ci sono gli uomini che guardano le loro ombre sulle pareti della caverna credendo che quella sia la realtà, mentre la realtà è alle loro spalle. L’altro tema è la perdita del valore della vita umana, che oggi, osservandola dalla Sicilia, mi pare svilita in tutti i sensi. Allora ho parlato delle violenze siciliane, della mafia, in un anno preciso in cui sono successe atrocità incredibili. Era l’estate del 1982, dove un delitto si susseguiva all’altro. In luglio c’era la festa della patrona, santa Rosalia: io ho assistito alla processione, a cui era presente anche il prefetto Dalla Chiesa, incontro Camilla Cederna, che doveva intervistare lui e sua moglie. Quando sono tornato a Palermo, in settembre, il prefetto e la moglie erano stati uccisi. Si è trattato di un anno terribile, in cui sono state uccise più di cento persone. Ho voluto raccontare il degrado di questa città, ma anche di Siracusa, che è un luogo che appartiene a tutti, una città di grande valore civile e culturale, circondata da una enorme fascia di industrie dove interi paesi sono stati evacuati perché nascevano bambini deformi.» Come sono stati strutturati, nell’insieme, i diversi testi, in gran parte concepiti come estravaganti?
«La prima parte, «Teatro», è un nucleo narrativo unitario che avevo concepito come romanzo storico e dopo abbandonai perché non mi interessava più come genere. Quindi ho utilizzato solo una parte di questo roman-zo, che ho sforbiciato, perché mi importava allontanare nel tempo quella civiltà, senza rappresentarla ravvicinata. Poi ho raccolto altre cose che avevo scritto, ma era un periodo in cui guardavo e pensavo con quegli stessi occhi. Quindi ho messo in scena delle persone di quel mondo, come Lucio Piccolo o l’etnologo Antonino Uccello, che rappresenta il personaggio portante di tutto il libro, poi Leonardo Sciascia e Buttitta. A questo ho aggiunto il diario che ho tenuto durante i ritorni in Sicilia. Mi sembra che, più che racconti, il libro, per gli slittamenti che esistono tra una sezione e l’altra, per i rimandi, abbia un’unità e una struttura molto aperta ma anche coerente. Il sigillo del libro è dato dall’ultimo racconto, un racconto-verità, desunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, che si intitola «Memoriale di Basilio Archita». È un racconto che si svolge in pieno oceano su una nave greca, dove vengono scoperti dei clandestini kenioti che vengono gettati a mare in pasto agli squali, per decisione del capitano e degli ufficiali di bordo. Sono stato molto colpito da questo fatto e ho voluto riprodurlo immaginando che a bordo ci fosse un mozzo di origine siciliana, Basilio Archita, che, dopo essere sbarcato al Pireo, raccontasse questo delitto terribile, come testimone. Ho voluto dire che questo processo di imbarbarimento non è solo in Sicilia, ma sta all’origine della nostra civiltà che, come tutti sappiamo, ci viene dalla Grecia.»
All’inizio del racconto dedicato a Sciascia hai posto come epigrafe una sua frase che dice: «Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione.» Questa affermazione è valida anche per te?
«Sì, certo. Sciascia, però, quando parla della sconfitta della ragione pensa soprattutto all’aspetto storico e sociale: parla dell’inquisizione, dei fallimenti politici, delle offese all’uomo. Io porto la sua affermazione alle estreme conseguenze e penso alla disgregazione della ragione come follia. Una componente che è stata poco sondata dalla narrativa siciliana è proprio la follia del siciliano. Per questo ho paragonato la realtà siciliana a una tempesta alla quale è estremamente difficile sopravvivere. Quando ci si salva si approda, secondo me, a una sorta di maturazione anticipata. Ho paragonata la maturazione di cui parla Pirandello nel Fu Mattia Pascal («Così l’anima mia venne a maturazione ancora acerba…») a quei frutti che si producono artificiosamente fuori stagione in Sicilia e che si chiamano verdelli. Si portano le piante di limone, nell’agosto inoltrato, sull’orlo della morte, privandole dell’acqua, le foglie rischiano l’essiccazione e sono sul punto di cadere. Quando l’albero è «patuto», come si dice, viene immessa l’acqua nel mezzo degli agrumeti e l’albero fiorisce di colpo, mette la zagara e immediatamente cresce il frutto, un frutto fuori tempo, profumatissimo e gustosissimo che si chiama verdello. Per il siciliano è la stessa cosa: arriva all’orlo della morte e, se riesce a sopravvivere, acquista una saggezza prematura, una disperata intelligenza e una dolorosa consapevolezza.»
Pensi che oggi persistano, nell’ambito della letteratura prodotta in Sicilia, alcune caratteristiche tipiche che si possono definire siciliane a tutti gli effetti?
«Fino alla mia generazione è esistita. Adesso c’è una sorta di uniformazione. Io, negli anni settanta, ho fatto per anni il lettore per Einaudi e mi sono accorto che c’è stato un momento di passaggio da una scrittura a un’altra. Avevo chiesto a Einaudi di occuparmi soprattutto di letteratura meridionale. C’erano scrittori che in quel periodo erano portatori di realtà sociali ben precise, poi, passando a generazioni più giovani, notavo che i dattiloscritti che arrivavano da Palermo erano sempre più uguali agli altri. Come è avvenuta l’uniformazione linguistica, è venuta l’uniformazione dei temi. Cadeva l’interesse verso il mondo esterno, si tendeva sempre più a parlare dei propri problemi. Inoltre da una scrittura di conquista, una scrittura-scrittura, si passava a una specie di trascrizione di un parlato uguale per il Meridione come per il Nord. Le piccole culture si stanno distruggendo, ma è un processo di omologazione che avviene dappertutto, in Occidente attraverso la forza dell’economia e all’Est per forza di carri armati. Mi sono trovato una volta a Palermo a un convegno internazionale di scrittori. C’erano due scrittori emblematici del cosiddetto socialismo reale, Evtusenko e Kundera. Naturalmente non si amavano e lo mostrarono subito. Ma il primo a provocare fu Evtusenko: disse che gli astronauti sovietici gli avevano detto che dallo spazio le piccole patrie non si vedevano, si vedevano solo le grandi terre, i grandi continenti, alludendo al fatto che la Cecoslovacchia dall’alto non esisteva. Kundera rispose che è probabile che dallo spazio non si vedano le piccole patrie, ma dagli oblò dei carri armati si vedono benissimo. È questo il tema doloroso di Kundera, la sparizione della patria boema.»
Domande del pubblico.
Lei ha citato molti nomi di autori siciliani, ma non ha parlato di Gesualdo Bufalino. Che opinione ha di questo scrittore?
«Lo conosco benissimo, ma lo considero uno scrittore che non appartiene in modo totale alla tradizione siciliana. E un autore, secondo me, che si rifà un po’ a certa scrittura degli anni Trenta, di tipo centrale, rondista, i cui esponenti maggiori, per intenderci, erano Emilio Cecchi e Cardarelli, prosatori d’arte. In lui non vedo sperimentazione, la sua è una scrittura che appartiene, sia pure in modo magistrale, al codice nazionale, non c’è una parola che non sia nel vocabolario italiano, anche se si tratta di una scrittura di livello molto alto ed elegante. Quando cita una parola in dialetto la mette tra virgolette o in corsivo e le sue tematiche assolute non appartengono alla tradizione letteraria siciliana. Per questi motivi Bufalino potrebbe anche essere nato a Roma.»
Che rapporto c’è per lei tra la Sicilia come piccola patria e il suo tentativo di recupero della ricchezza culturale e linguistica della sua terra?
«Ci sono due modi di guardare alle piccole patrie. Un modo regressivo, per cui ci si chiude dentro al grembo materno senza crescere al mondo dell’agorà e della discussione: quindi il compiacimento della chiusura. Per me le radici, le storie e la cultura locale servono come metafora, come metro per misurare il resto del mondo. Faccio un esempio emblematico per essere più chiaro. C’era un poeta siciliano della fine dell’Ottocento, Alessio Di Giovanni, figlio di un notaio, che una sera rimase ammaliato dal canto in siciliano di un carrettiere, uno di quei canti che somigliano molto alle nenie arabe. Da allora si mise a studiare il mondo siciliano dialettale, scrivendo anche romanzi e poesie in siciliano. Quando uscirono I Malavoglia, rimproverò all’autore di avere scritto quel libro in italiano e si propose a Verga come traduttore in siciliano del romanzo. Naturalmente Verga si oppose. Quello di Alessio Di Giovanni era un modo compiaciuto di guardare al sicilianismo, e in questi casi non è difficile arrivare a chiusure assolute e a forme politiche molto dubbie: non per nulla questo Di Giovanni confluì nel movimento provenzale di Mistral che era molto di destra. Per me non è compiacimento del localismo, ma è misura del mondo data dalla propria cultura e dalle proprie radici.»
Il suo secondo libro è uscito a tredici anni dal primo. Pietre di Pantalica è apparso un anno dopo Retablo. I suoi tempi di lavoro sono cambiati o sia mettendo a frutto quanto ha fatto in passato?
«Prima avevo molti più dubbi, Forse, adesso, tante preoccupazioni sono cadute. Ma sento anche l’urgenza di dire alcune cose che prima non sentivo la necessità di comunicare. Nell’ultimo libro ho voluto ribadire lo
stesso discorso di Retablo con un linguaggio diverso, in termini molto più chiari. L’ho messo assieme, lavorando molto, proprio per riproporre quel discorso della scrittura con altre parole. Ma anche per mostrare che, al di là del barocchismo, in Retablo c’erano argomenti di fondo che mi stavano a cuore. Il tema di fondo, quindi, rimane uguale: cioè certa cultura e certa civiltà che nel mondo d’oggi si stanno perdendo.»
Che sentimenti nutre rispetto alla società letteraria d’oggi: non sente di compromettersi anche lei nell’industria culturale?
«Finora ho potuto rimanere appartato, rinunciando ad aderire alla società letteraria, negandomi. Dal primo al secondo libro sono passati tredici anni. Il sorriso è stato quel che si dice, in termini molto volgari, un successo editoriale, i critici ne hanno parlato moltissimo. Sull’onda di quel libro avrei potuto scrivere tanti altri romanzi uguali o simili, ma mi sono ritirato, fino a pagare con l’oblio questo mio silenzio. Nell’85 ho pubblicato un libretto che era la negazione del romanzo e del suo consumo. Adesso sento la necessità di scrivere di più. Oggi non è più cosi facile starsene appartati, anch’io subisco quelle che sono le dittature dell’industria e dei mezzi di comunicazione. Anch’io vado per librerie a fare presentazioni, anch’io mi nono assoggettato, con malagrazia e con molte remore, alle leggi della pubblicità e del consumo. Comunque ho cercato almeno di non perdere dignità e classe, di non arrivare a certi spettacoli degradanti. Oggi la letteratura, come la politica o la religione, è spettacolo. Le sorti nostre si decidono sulla base di spettacoli televisivi come quelli delle elezioni americane.»
Come può un siciliano vivere a Milano?
«Le posso rispondere con un’altra domanda: come può un siciliano oggi vivere a Palermo? È terribilmente difficile. Quando vado a Palermo e incontro Sciascia, il quale mi dice del suo dolore e della sua pena di stare in una città e in una terra come quella, mi accorgo di quanto sia atroce vivere li. Ma oggi è altrettanto terribile vivere a Roma e forse in tutta Italia. Ma credo che per i siciliani, quando potevano scegliere, come me nel 68, c’erano due modi di uscire dal loro paese: c’era una corrente che li portava a Roma e una corrente che li spingeva a Milano. Questo non era casuale, dipendeva da due modi di concepire il mondo: non per nulla Brancati approdò a Roma, mentre Vittorini scelse Milano. Milano era l’opposto della Sicilia, era la città della organizzazione sociale, mentre noi venivamo da una terra di disgregazione e di disordine atavico. Quando, nel 68, ho scelto Milano, l’ho fatto pensando che a Milano ci fosse un progetto sociale e culturale.
Oggi questa speranza è fallita e mi costa moltissimo rimanere a Milano. Ho detto, fra virgolette, che Milano è oggi la città più volgare d’Italia perché da Milano parte il messaggio pubblicitario, lì si organizza il messaggio che riduce il resto d’Italia in grandi masse di consumatori di oggetti inutili. Ma è volgare anche perché ci sono le case editrici, le case di moda, regno della futilità, i giornali, le televisioni. Eppure, se mi trovo a immaginare una città in cui mi piacerebbe abitare, non so pensare ad altre città se non a Milano. Quando ci si sradica a trentacinque anni, come è capitato a me, si finisce per non appartenere più a nessuna terra. Io vado spesso in Sicilia, ma quando arrivo mi arrabbio e non vedo l’ora di tornare a Milano; quando sono a Milano mi arrabbio con Milano e cerco di tornare in Sicilia.»
Lei crede che la letteratura debba avere soprattutto un compito sociale?
«Credo che lo scrittore abbia il dovere di essere estremamente critico anche in una ideale società perfetta. C’è un modo di dire dei tedeschi, riferito a scrittori come Böll o Enzesberger: si dice che sono scrittori che hanno sporcato il nido, perché parlano male del loro paese. Ma io credo che sia questo lo scopo della letteratura, sporcare il nido. I politici non lo fanno certo, sporcano eventualmente le coscienze. Ma soprattutto penso che sia questa la funzione del romanziere, perché il romanzo è uno strano ibrido, una unione di discorso logico e di discorso poetico. Ora, io dico che i poeti, i fanciulli e i re non hanno questo dovere proprio perché mancano dell’aspetto logico, che implica il contesto di cui facciamo parte. Nel momento in cui parliamo degli altri, facciamo un discorso critico e oppositivo. Perciò questo non è possibile ai bambini, né ai poeti, i quali non sono chiamati a fare i conti con il discorso logico. Ma neppure chi ha il potere possiede questa facoltà logica, perché non può andare contro i propri interessi. Per me il romanziere che non esercita la critica è uno scrittore di corte e perciò non esercita l’opposizione, perché ambisce ad essere abbracciato dal rе.»
Sciascia definì con ironia il secondo romanzo di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio “un parricidio”, volendo indicare che si era allontanato dalla sua lezione linguistica. Consolo aveva scelto una lingua espressiva sperimentale in senso espressionistico. In quegli anni esplodeva il Gruppo 63: il libro era già stato scritto e comunque non rientrava nei loro canoni.