“Ora non può narrare. Quanto preme e travaglia arresta il tempo, il labbro, spinge contro il muro alto, nel cerchio breve, scioglie il lamento, il pianto. Solo può dire intanto che un giorno se ne partì con bagaglio di rimorsi e pene. Partì da una valle d’assenza e di silenzio, mute di randagi, nugoli di corvi su tufi e calcinacci…” Comincia cosi il libro di Vincenzo Consolo L’oliva e l’olivastro: un ritorno alla Sicilia, senza farne la solita ricerca del tempo perduto da intellettuale trasferitosi al Nord.
Consolo, con una lingua colta poetica e a volte gridata, cerca invece di capire l’origine dei mali che affliggono l’Isola (e, per naturale vicinanza, anche la Penisola: lo Stretto di Messina è ben poca cosa). Passando acrobaticamente dalla prima alla seconda e alla terza persona, l’autore ci accompagna in un viaggio che tocca le principali località della Sicilia, e anche quelle meno note con affascinanti contaminazioni tra passato e presente, tra storia, mito e la realtà più degradata. Incontriamo Ulisse naufrago alle prese con il ciclope e con i rimorsi per le guerre e le distruzioni vissute: ci immettiamo nei fantasmi degli emigranti greci che fondarono città accanto ai villaggi siculi, e incontriamo i siciliani delle grandezze e delle miserie. In bellissime pagine: Giovanni Verga e suoi personaggi: ‘Ntoni, Mena, Maruzza, i vinti tra i quali lo scrittore sembra volersi esiliare, forse offeso perché alla sua grandezza gli sembra preferiscono la grancassa di D’Annunzio. Ci vuole l’intervento di Pirandello perché Verga si decida ad apparire in pubblico. Non mancano le presenze di Vittorini e di Sciascia, insieme a quelle di Maupassant o del poeta bavarese Auguszt von Platen: figli o figli naturali o adottivi dell’Isola.
L’oliva e l’olivastro stanno a significare le due anime della Sicilia, nate dal medesimo tronco, ma poi separate: la poesia degli uomini e la bestialità di altri uomini. Ma non è solo di suggestioni letterarie che si nutrono le pagine di Consolo. Quando ci si imbatte nei moderni templi innalzati dagli uomini dell’olivastro l’invettiva si fa feroce, precisa, sofferta. “Dire di Gela nel modo più vero e forte, dire di questo estremo disumano, quest’olivastro, questo frutto amaro, questo feto osceno del potere e del progresso, dire del suo male infinite volte detto, dirlo fuor di racconto, di metafora, è impresa ardua o vana…”. L’autore è consapevole che può fare ben poco contro queste e altre brutture, ma la fiducia negli uomini dell’olivo sembra prevalere, e il viaggio continua senza dimenticare la Valle del Belice, Gibellina, Mazara (“arricchita e violenta, dove cominciò l’emigrazione in Italia dei poveri del Terzo mondo…”) e la stessa Palermo, sola sfiorata perchè da sola esigerebbe un intero libro… Vincenzo Consolo si muove nella sua terra e tra la sua gente come un amante tradito, a volte pieno di odio, a volte trascinato dall’amore che, comunque, resta il sentimento più forte. In certi brani narrativi, autobiografici o ispirati a fatti della cronaca o della storia, ritroviamo il Consolo romanziere amato dal pubblico. Ma anche l’insieme di questo libro dalla originale struttura di viaggio della memoria e dell’indignazione, rappresenta una lettura intelligente e insolita: tra l’altro consente di rivisitare la storia della Sicilia dalle civiltà millenarie del passato remoto fino a don Luigi Sturzo e ai moderni eroi sacrificati alla mafia. Tra gli altri incontriamo a Siracusa, il Caravaggio intento a dipingere una Santa Lucia giudicata poi troppo realista, e per questo inaccettabile. Oggi il potere accetta dagli artisti ogni verità, ogni denuncia, anche perchè convinto che le parole della poesia non siano un’arma pericolosa. Ma forse sbaglia.
(Italia Oggi, 5 novembre 1994)
Ho sentito il bisogno di
incontrare Vincenzo Consolo dopo aver letto uno a poca distanza dall’altro, due
dei suoi romanzi, Il sorriso dell’ignoto
marinaio del 1976 e Nottetempo casa
per casa del 1992. Lo spazio di tempo che ho lasciato tra i due libri mi è
servito per gustare appieno il piacere e l’emozione per la scoperta de Il
sorriso, nel timore forse che un secondo libro avrebbe potuto smorzare il
grande entusiasmo che mi era nato.
“Perché li hai letti uno di seguito
all’altro? – mi chiede Consolo – Io li considero un dittico, potrei metterli
accanto, questi due libri, perché oltre a svolgersi nello stesso luogo
(Cefalù), sono complementari proprio perché partono da una concezione
diametralmente opposta: nell’uno c’è il racconto di un’utopia politica, nell’altro c’è il racconto del crollo di
questa utopia, di una sconfitta. Sono due momenti storici diversi: il primo è
il 1860, quando si erano accese le speranze per le classi emarginate; il
secondo è attorno agli anni Venti, quando c’è l’arrivo del fascismo.”
Non so neppur io perché abbia letto proprio
quei due libri e in quell’ordine. Lo considero un segno benevolo del destino
mentre mi guardo attorno, seduta nel suo studio milanese:
Non avevo voluto sapere nulla di lui, tranne
quel poco che avevo letto sui giornali durante l’infuocata campagna elettorale
della primavera passata per le amministrative a Milano, quando era intervenuto,
provocatoriamente contro la Lega.
Dolcevita di lana e golf (vestito allo
stesso modo, avevo incontrato un altro siciliano, qualche anno fa, in una
fredda giornata d’inverno, Giuseppe Migneco), si scusa: “Perdoni se qui fa
caldo, ma noi teniamo il riscaldamento un poco alto”.
Allora penso subito al calore della sua
terra, al sole, mentre fuori piove e Milano, è immersa nell’intenso, intimo
grigio dell’autunno lombardo. (Questa grande città deve avere esercitato un
fascino profondo, seppure non facile, su tanti grandi siciliani, da Verga a
Vittorini, da Quasimodo a Guttuso e Migneco…)
Le pareti della stanza sono coperte da
semplici scaffali di legno chiaro pieni di libri; un poco ovunque, attorno,
segni del suo gusto, della sua storia: dall’antica incisione della pianta di
Messina alla raccolta di letteratura francese (è figlio della ragione
illuministica, Vincenzo Consolo, rinato però alla speranza nella visione
marxiana della storia, oggi naufragata); dalla maschera di morte di Giacomo
Leopardi (dietro lo scrittoio, un poco di lato) ai tanti libri, librini e
libroni sulla Sicilia; dai preziosi volumi di letteratura italiana della
Ricciardi e dei classici Mondadori e Bompiani all’ antica piastrella di
maiolica e al grande piatto con limoni, di Migneco. Il lampadario, in legno
dorato, è di gusto barocco; ceramiche dalle forme e dalla patina antica (in Nottetempo descriverà accuratamente
l’arte del costruire una giara, come segno di conoscenza e di rispetto della
cultura dei vinti, dai potenti, della storia…)
si accompagnano a stampe di gusto simbolista ( ce n’è una di Max Klinger,
autore già amato da Sciascia, che lo cita in Una storia semplice); due piccoli divani, bianco e verde-mare,
completano il mio ricordo della stanza. (Mi perdoni professore ho cercato di
conoscerla anche attraverso le sue cose). Tutto è come calato in una precisa
misura, dove chiara è la predilezione per la semplicità; non ci sono
esagerazioni. La stessa compostezza è in lui, gentile davvero, il volto sereno
ed espressivo, animato da passioni certo vive che non devono però amare gesti
plateali, radicate come sono nel profondo, nell’antico.
Tra novembre e dicembre due sono stati
gli incontri: il primo fatto di un lungo colloquio un po’ su tutta la sua
vicenda letteraria; il secondo, divenuto necessario per chiarire e precisare un
paio di punti rimasti in ombra. Ascoltarlo è stato un piacere: la voce calda e
profonda, il parlare piano e semplice, attento sempre all’interlocutore.
Il titolo di questo articolo è,
naturalmente, un omaggio al grande libro di Vittorini Conversazioni in Sicilia e ad una terra anche da noi conosciuta e
tanto amata.
Dove è nato, professore? A Cefalù?
C.: Sono nato in un paese vicino a
Cefalù, a Sant’Agata di Militello, sulla costa tirrenica. Per ragioni di ordine
letterario, diciamo, nella mia immaginazione mi sono spostato più verso il
mondo occidentale, perché il mondo occidentale siciliano è quello più
strutturato dal punto di vista storico, mentre il mondo orientale (Messina e
tutta la costa ionica) è un mondo meno strutturato da questo punto di vista,
perché lì la storia è stata cancellata dai disastri umani, è più invasa dalla
natura (il terremoto di Messina e la presenza di un fenomeno come quello
dell’Etna). Questo ha fatto si – almeno io, nella mia immaginazione, l’ho
potuto constatare – che ci siano in Sicilia due letterature, diametralmente
diverse e opposte: quella della Sicilia orientale e quella della Sicilia
occidentale. Quella orientale è contrassegnata da una sorta di propensione al
canto, al lirismo e soprattutto alla forma. Il caso eclatante è quello di
Verga. Uno scrittore come Verga non poteva che nascere sulle falde dell’Etna,
con la presenza di questo fenomeno naturale che toglie ogni speranza. Un
discorso storicistico da quella parte è difficile che nasca.
Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni,
come De Roberto, però lì sono nati i poeti. Quasimodo è nato da quella parte.
Vittorini stesso, che era impegnato sul piano della storia, quando scriveva era
estremamente lirico. D’Arrigo, per
esempio, è un altro caso di lirismo, come lo stesso Bufalino, con impegno
formale più accentuato.
Dalla parte occidentale, invece, gli
scrittori sono più logici.
All’inizio, quando mi sono
trovato a scrivere, ho avuto lo svantaggio di vivere alla confluenza di questi
due mondi; ero al centro. E poi ho capito che avrei potuto trovare la mia
identità cercando di far unire questi due mondi: partire da un presupposto storicistico,
razionale e poi spostarmi verso la zona poetica, verso la zona lirica e
formale.
Lei ha compiuto studi classici, immagino. In Sicilia?
C.: Sì, sono cresciuto in Sicilia, ma sono venuto
a Milano per fare gli studi universitari. E poi, quando ho capito che volevo
fare lo scrittore, me ne sono tornato in Sicilia. Ma L’idea che avevo di fare
lo scrittore era di tipo sociologico, perché allora le letture erano proprio di
tipo meridionalistico. Scrittori per me centrali erano il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli…
Quando è arrivato a Milano?
C.: Era il 1952, una Milano molto diversa da quella che
avrei ritrovato più tardi.
Una città però molto viva, allora.
C.:
Sì, erano gli anni della ricostruzione. Io sono venuto per frequentare
l’Università Cattolica; avevo trovato alloggio nel collegio universitario.
Avrei voluto iscrivermi a lettere, ma per l’opposizione della mia famiglia ho
scelto legge come via di compromesso.
In quegli anni, in quell’ateneo, c’erano
tante persone che poi sarebbero diventate classe dirigente italiana: c’erano i
De Mita, i fratelli De Mita; c’erano Riccardo Misasi e Gerardo Bianco; c’era
Fanfani che insegnava ad Andreatta; e molti altri ancora!
Io approdai lì casualmente, seguendo
l’esempio di un mio compaesano. Il convitto costava poco, garantendomi una
stanza e una mensa, ma non è che avessi una particolare convinzione di tipo
ideologico o religioso; la mia era una famiglia laica.
L’Università Cattolica era allora
frequentata sia dai rampolli della borghesia milanese e lombarda di tipo
cattolico, per i quali era una scelta, sia da una gran massa di meridionali (e
tra questi i nomi che ho citato), gente modesta per lo più, mandata lì dai
parroci e dai vescovi della provincia italiana, molto spesso con un certificato
di povertà, grazie al quale studiavano gratuitamente.
Mentre vivevo lì, ho visto una cosa che mi
ha colpito molto. Nella piazza Sant’Ambrogio c’erano allora due realtà
importanti: una era l’Università, il luogo degli studenti; l’altra era il
Centro Orientamento Emigrati, così si chiamava. Era ospitato in un vecchio
convento, una sorta di casermone, dove adesso c’è la Celere e anche un posto di
Polizia. In quegli anni, quando andavo nella piazza, vedevo masse di
meridionali che, prelevate alla stazione su appositi tram, venivano scaricate
lì.
Portate in questo Centro
Orientamento venivano poi sottoposte a visite mediche e avviate in seguito nei
vari luoghi di emigrazione. Da Milano partivano per andare in Francia, in
Belgio, in Svizzera, nell’Europa centrale, insomma; quelli che andavano in
Germania. Venivano raccolti a Verona.
A noi studenti poteva capitare di
incontrare dei compaesani che emigravano oppure dei compaesani vestiti da
poliziotti, che per bisogno si arruolavano nella cosiddetta polizia di Scelba. Io ho incontrato un compaesano che giocava
con me all’oratorio, si chiamava Giacomino, era vestito da poliziotto, col
manganello. Io non so se quelli che sono
diventati poi uomini politici abbiano visto, abbiano osservato la realtà che io
osservavo.
Allora sarei potuto rimanere a Milano,
perché in quegli anni il lavoro si trovava.
Erano gli anni in cui a Milano c’era anche Marotta, e
c’erano naturalmente Vittorini e Quasimodo…
C.:Io ero venuto proprio sulla scia di questa mitologia
milanese della letteratura siciliana. Amavo molto la letteratura e
inconsciamente ero venuto anche per quello, sapevo della presenza loro e di
altri artisti.
Li conosceva già?
C.:No, assolutamente. L’unica persona che avrei desiderato
conoscere in quegli anni era Vittorini, però ero talmente timido che non osavo…
Al finire degli studi, poi, me ne sono
tornato in Sicilia, per scrivere.
Per vivere mi misi ad insegnare, in scuole
agrarie, in paesi di montagna, sui Nebrodi, alla confluenza con le Madonie, con
paesi a 1000 metri di altezza. Andavo ad insegnare a San Fratello, a Caronia;
erano luoghi quanto mai lontani. Insegnavo diritto, che allora si chiamava
Educazione Civica e Cultura generale (significava italiano, storia e diritto).
Però poi mi accorsi che quella scuola era una finzione perché i ragazzi erano
destinati all’emigrazione; l’agricoltura stava chiudendo e quindi… I loro padri
erano già emigrati.
Lei parla degli anni a cavallo tra il 1950 ed il ’60.
I contadini venivano spesso trattati ancora come servi della gleba. Da
ragazzina io ho vissuto non pochi mesi, proprio allora, in Sicilia e ricordo
bene quella realtà.
C.: Era una realtà tremenda. Non era ancora stata fatta
la riforma agraria (che fu poi una beffa, che non approdò a niente perché le
terre migliori se le appropriarono gli amministratori e ai contadini diedero le
pietraie, in luoghi irraggiungibili). C’era allora il processo di
industrializzazione del paese, quindi questa gente era costretta ad emigrare.
Comunque io avevo preso questa decisione
di raccontare il mondo contadino nel momento in cui questo spariva. Nel ’63,
però, quando mi misi a scrivere, misi da parte le intenzioni che avevo, che
erano fortemente politiche e sociologiche; l’istinto mi portò a scrivere in un
altro modo, che è quello proprio della forma prettamente letteraria, con una
connotazione stilistica molto, molto accentuata. Sentivo quest’impegno della
storia, ma amavo e seguivo molto la letteratura.
Nel primo libro parlavo degli anni di me
adolescente: ho voluto raccontare il dopoguerra in Sicilia, la caduta del
fascismo, l’arrivo degli americani, la ricostituzione dei partiti, le prime
elezioni del ’47 e poi la strage di Portella delle Ginestre e quindi le elezioni
del ’48, con questa sorta di pietra tombale che cadde su questo paese. Voleva
essere una storia emblematica di quello che era successo, raccontando delle
ennesime speranze che s’erano accese in Sicilia nel secondo dopoguerra e del
come queste speranze finirono quando arrivò quel grande partito, che è durato cinquant’anni
da noi…
E il libro narrava proprio questo, ma
visto con gli occhi di un adolescente, quindi con un linguaggio molto
trasgressivo. Io mi rifiutavo di scriverlo in italiano e allora mi sono
costruito, come cifra stilistica di estrema opposizione, un dialetto. Mi sono
immaginato di un paese vicino al mio, che si chiama San Fratello ed è un’antica colonia lombarda,
un’isola linguistica. È una cifra che mi ha accompagnato anche per altri libri,
anche nel Sorriso, in Lunaria e, in modo più accentuato, nelle
Pietre di Pantalica e questo per
dire, appunto, di una estremità linguistica da cui io sempre parto per
approdare poi alla lingua, al toscano.
Istintivamente, allora mi collocai proprio
come un ragazzo che veniva da quel paese dove si parla un antico gallico, che
era la lingua che si parlava nella pianura padana (la diversità linguistica
nell’estrema diversità siciliana quindi).
Fu una forma istintiva di trasgressione, di opposizione al codice
linguistico dei grandi, che era quello paterno. C’era già, in quel primo libro,
questa sorta di impasto linguistico.
Che è già la ricerca di quel «nuovo significato delle
parole»? Lei ha scritto, in un passo bellissimo del Sorriso, a proposito di tutti quelli «che mai hanno raggiunto i
diritti più sacri ed elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la
pace, la gioia e l’istruzione»: «…tempo verrà in cui da soli conquisteranno
que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro e
giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti
dalle cose».
C.: Sì, e queste parole nuove sono parole
antiche, nel senso che sono parole seppellite dal codice imperante, dal codice
della comunicazione, che io cerco di disseppellire, di «rimettere» in circolo…
Non è solo un gioco formale, è un gioco anche di contenuti, perché la
letteratura è scrittura. C’è stato in me questo rifiuto di adottare il solito
codice comunicativo, per praticare un codice fortemente espressivo; si tratta
di un bisogno «oppositivo» per così dire: poiché i contenuti vogliono essere
così, la forma deve corrispondere ai contenuti.
Poi ho lasciato la Sicilia, nel ’68,
perché lì non c’era più niente da fare, perché, appunto i giochi erano stati
fatti. Quando sono andato via avevo 35 anni, non c’era più spazio per uno che
non poteva vivere di rendita, isolato e che aveva bisogno di lavorare;
l’alternativa per un giovane intellettuale come me era o aggregarsi al potere,
e al potere mafioso, o fare le valigie e andarsene.
Quindi sono andato via.
Negli anni vissuti in Sicilia, le uniche
due persone che ho frequentato sono stati due archetipi, due persone
emblematiche della mia formazione. Uno
era Lucio Piccolo, un poeta; era cugino di Lampedusa questo grande poeta,
purtroppo poco conosciuto. Era un poeta straordinario; ha avuto il torto di
morire presto. Lui è apparso sulla scena letteraria prima di Lampedusa; lo scoprì
Montale, poi fu pubblicato nello «Specchio» di Mondadori, però non riuscì a
completare il suo ciclo poetico perché morì abbastanza giovane, schiacciato
dall’esplosione del fenomeno Gattopardo. Lui veramente, quando lo nominavano come il
cugino di Lampedusa, si dispiaceva. Una volta ebbe a dire: «È Lampedusa che è
mio cugino» rimettendo le cose nel giusto senso.
L’altra persona che ho frequentato è stato
Sciascia, che ho conosciuto dopo aver pubblicato il mio primo libro. Glielo
mandai, e lui poi mi invitò ad andarlo a trovare (allora stava a
Caltanissetta); poi siamo diventati amici.
Quando l’uno era il poeta puro, un barone,
con questa poesia terribilmente ermetica, difficile ma affascinantissima, di
tipo spagnolo, una poesia molto accesa, tanto l’altro era invece logico,
limpido, cristallino, storicistico, di impegno civile.
Per me sono stati veramente come due
maestri, due poli.
E nel ’68, anche su consiglio di Sciascia,
presi le valigie e ritornai a Milano.
Non a Roma?
C.: No. Perché io credo che dalla Sicilia ci sono
due modi per uscire: uno è romano e l’altro milanese. C’è una corrente milanese
che è fatta soprattutto di scrittori che hanno vagheggiato una sorta di utopia
politica, perché Milano era l’antitesi della Sicilia, era la città dove c’era
la trasparenza amministrativa prima di tutto, e poi dove si era realizzata in
qualche modo, una certa equità sociale. Quindi approdavamo a Milano come al
luogo antitetico alla Sicilia.
A Roma invece approdavano degli scrittori
a cui interessava il discorso del potere, e quindi Brancati e Pirandello. Un Pirandello che, con quella sua scrittura,
aveva illustrato, aveva raccontato quello che era la crisi della piccola
borghesia italiana, di una borghesia fascista, non poteva che andare a Roma. A
Milano sarebbe stato fuori posto.
E poi Sciascia, naturalmente, con il suo
discorso sul potere, sul «palazzo». È quello che fece Pasolini e, in un certo
senso, anche Moravia.
Torniamo un momento alla letteratura siciliana. Abbiamo
parlato di Verga, di Vittorini, dei poeti della costa orientale, ma non degli
autori della parte occidentale.
C.: Per la parte occidentale, a fronte dei Verga,
dei Brancati o Quasimodo, o Vittorini o dello stesso Bufalino, il primo nome
che viene in mente è il Pirandello dei romanzi storici, soprattutto di un
romanzo, I vecchi e i giovani. In
Pirandello, come dice anche Gramsci, tutte le novelle sono prese da storie
locali, da racconti che lui sentiva fare nel mondo girgentano, agrigentino. Ma
forse, dopo l’uscita de I Viceré di
De Roberto, che è questo grande affresco storico – perché erano i temi
dell’epoca, erano i temi storicistici della grande letteratura francese – anche
lui si è cimentato nel grande affresco storico con I vecchi e i giovani. E questo romanzo, che può essere manchevole
in qualche parte, è però un grande tentativo di restituire una realtà storica
siciliana (come nessuno fino ad allora aveva tentato), soprattutto di una
Sicilia occidentale, la Sicilia delle solfare. Lui parte da che cosa è successo
dopo l’Unità d’Italia in Sicilia proprio in quella zona. Il centro del racconto
sono i moti socialisti del 1893, con tutte le rivolte contadine, con
l’occupazione delle miniere e quindi con lo scontro tra operai delle solfare e i
proprietari delle medesime.
È la rappresentazione amara, da parte di
Pirandello, di quello che era il malinteso «sicilianismo» da cui poi vengono
tutti i mali siciliani della mafia, del potere politico mafioso e via
discorrendo.
Prima che andasse a Roma, l’ha scritto.
C.: Prima che
andasse a Roma, prima che facesse la grande svolta di proiettarsi cioè sul
piano della crisi dell’identità, di tutte le scoperte che vanno sotto il nome
di pirandellismo, del dramma dell’essere e dell’apparire, di proiettarsi dal
piano dello storicismo, della contingenza al piano dei valori dell’esistenza,
dell’inquietudine dell’esistenza. D’altra parte Pirandello ha operato in
antagonismo, per così dire, allo stesso Verga. Verga ha immaginato un mondo
immobile, dominato dal fato, dove l’uomo inutilmente si agitava perché tanto il
suo destino sarebbe stato segnato per il solo fatto di esistere, quindi era
impossibile, in questa esistenza, ogni possibilità di riscatto. E tutta la tematica verghiana è la tematica
dell’immobilità e del fato, che blocca l’uomo nella sua vicenda umana.
Pirandello ha cercato, ha tentato di
ribellarsi a questa legge dell’immobilità e del fato, a questa legge quasi
metafisica verghiana, operando, attraverso la dialettica, quello che era un
contrasto verbale con l’entità destino.
E, quindi, attraverso il sofisma, la dialettica ha cercato di smuovere
questa condanna del fato sull’uomo. Però, naturalmente, il mondo di Pirandello
diventa forse ancora più atroce e più tragico; è quello che Giovanni Macchi
chiama «la camera della tortura» : i personaggi non fanno altro che
tormentarsi, che torturarsi, con queste verità sfaccettate, una verità contro
l’altra: con queste identità che si perdono e continuamente si inseguono, in
una ricerca continua dell’ identità.
È poi anche, se si vuole
guardare, un modo d’essere del siciliano, questa ricerca d’identità, perché noi
siamo dilaniati continuamente da questa perdita di identità continua dovuta
anche alla nostra storia.
Noi siamo tante culture messe insieme,
siamo questo crogiuolo di culture, per cui da noi il rischio è un continuo
vacillare dell’ identità e dell’io; questo io è l’Uno, nessuno, centomila del Pirandello che si moltiplica
all’infinito, come vivere sulle sabbie mobili, senza una consistenza. E in questa incertezza sta il nostro dramma,
ma sta forse anche quella che è la grandezza (adesso uso un termine retorico):
in questa dialettica, in questa ricerca continua dell’identità sta forse il
nostro essere più umani e quindi più comprensivi, quando si prende coscienza di
tutto questo.
Pirandello attinge proprio al modo
d’essere siciliano, al mondo siciliano per costruire quella che era la sua
filosofia, la sua concezione. Nel Mattia
Pascal, per esempio (che è il libro dove è messo subito in luce questo
dramma, dell’identità), quando parla di Mattia (e parla di se stesso) dice di
questa «maturezza» (lui usa il termine «maturezza») a cui è arrivato da piccolo
a furia di ammaccature.
L’io siciliano è ammaccato, e quindi
arriva a questa maturità molto prima e con più dolore degli altri, forse. Il
rischio però è di non maturare assolutamente e di perdere la ragione; il
crinale su cui si cammina pericolosamente è quello di annientarsi, di perdere
la ragione, oppure di avere un consapevole dolore di questa maturità a cui si
arriva con le ammaccature.
Quelli che precipitano da questo crinale
sono quelli che più straziano, in questo lasciarsi andare in questa specie di
vortice e di perdita della ragione… Mantenere la ragione, in Sicilia, è
estremamente difficile ed è una fatica continua.
Ma, per tornare al romanzo storicistico,
oltre Pirandello c’è stato Lampedusa e poi Sciascia. Sciascia è lo scrittore
storicista per eccellenza, di uno storicismo critico, oppositivo. Tutta la
letteratura della parte occidentale dell’isola è segnata da questo impegno con
la storia.
Sciascia ha fatto di più. Ha rinunciato a
quelli che erano i grandi temi illuministici e manzoniani (il grande tema del
Manzoni era la giustizia) che inizialmente aveva scelti ( e che poi sono
cristiani), quindi il tema della verità e della menzogna, dell’impostura, il
tema della pena di morte, della tortura, del rispetto della dignità dell’uomo.
Quando vede, in Sicilia, quello che era il
grande rischio della nostra società, la mafia, abbandona questi grandi temi e
affronta il tema della mafia, che era un tema contingente ma che lui fa
diventare un tema assolutamente metaforico e quasi assoluto. E quindi scrive
tutta questa serie di gialli politici, dove rovescia quella che era la tecnica
del giallo, cioè si parte dalla verità e si arriva al mistero: il mistero è il
rispecchiamento del mistero, del potere mafioso, che è sempre misterioso. Oggi
stiamo constatando, attraverso i giudici, quali erano questi misteri; ancora
non li conosciamo tutti, ma Sciascia ci ha fatto intuire qual era l’enigma del
potere mafioso.
Quando ha conosciuto Sciascia?
C.: Dal punto di vista biografico, avevo
conosciuto Sciascia sin dal primo libro che aveva pubblicato: Le parrocchie di Regalpetra. Allora le
mie letture erano di indirizzo sociologico. Siamo nel ’56, credo. Quando sono
tornato in Sicilia dopo essere stato a Milano, non osavo importunarlo. Sapevo che c’era questo scrittore, che a me è
sembrato subito uno scrittore importante in questa Sicilia desertica. E quando
io pubblicai il mio primo romanzo (La
ferita dell’aprile) nel ’63, ho avuto subito l’avventura di mandarglielo
con una lettera dove gli dichiaravo il mio debito nei suoi confronti: perché
era lui che mi indicava la strada che avrei dovuto seguire, oltre a Lucio
Piccolo, di avere cioè di fronte questi due mondi, lo storicismo e la poesia, e
di farli finalmente unire, di fare da trait-d’union fra questi due mondi,
quello che era il substrato storicistico da una parte e la poesia piccoliana
dall’altra parte. E lui mi rispose con una bella lettera, invitandomi ad
andarlo a trovare a Caltanissetta, e poi siamo diventati amici. Questa amicizia durò quanto lui è vissuto; è
stato un continuo dialogo.
Parlavate di letteratura? Anche di impegno civile?
C.: C’era uno
strano pudore; non parlavamo delle nostre cose, solo molto raramente, ma si
parlava dei fatti politici, dei libri degli altri, soprattutto dei fatti che
accadevano in Italia. E poi così, nelle pieghe del discorso, si lasciava cadere
il titolo di un libro che si era letto…
Un suo rammarico era che io scrivevo poco.
Voleva che scrivessi di più.
Adesso lei sente su di sé l’impegno che è stato di
Sciascia?
C.:
Sento il dovere di continuare su questa linea con lo stesso impegno, per
essere degno di questa tradizione, anche perché vedo che da ogni partesi cerca
di distruggere la letteratura siciliana.
Il mio diventa quindi un impegno con la
letteratura e spero di mantenerlo perché nel mondo d’oggi si ha questa volontà
di abbassare tutti i valori, di distruggere quelle che sono le verità con le
imposture. E queste cose non sono sopportabili…
Lei aveva citato prima Pasolini. Mi chiedevo se anche
questo non sia stato uno scrittore di riferimento nel suo percorso letterario e
civile.
C.:Lui
era fondamentalmente poeta; l’impegno sociale lo estrinsecava attraverso una
scrittura di intervento, sui giornali. Scritti
corsari, Lettere luterane, Empirismo eretico: era questo suo bisogno di
intervenire direttamente, al di là del romanzo e della poesia.
Mentre lei ha sempre sentito la necessità della
letteratura come mediazione?
C.: Non sempre. Anch’io… I tempi letterari, i
tempi della metafora sono dei tempi lunghi e la storia diventa qualche volta
più impellente e quindi si sente il bisogno, veramente, di intervenire, per cui
anch’io – certo non con quella forza e con quella assiduità con cui lo fece
Pasolini, e con l’autorità con cui lo fece Pasolini – ho sempre scritto sui
giornali.
Lei appare come un signore pacato, ma la passione con
cui scrive denuncia una…
C.: No, non lo
sono. Per esempio, quando sono arrivato nel ’68 a Milano, io subivo una sorta
di spaesamento e di blocco anche creativo. Ero venuto a Milano perché
desideravo raccontare questa grande trasformazione italiana, parlare di queste
masse di meridionali che arrivavano nel nord industriale, in una città come
Milano e che poi, da contadini che erano, si sarebbero trasformati in operai.
Lei era venuto come insegnante?
C.: No. Avevo
fatto un concorso in una azienda; il primo di gennaio del ’68 (ho viaggiato in
treno la notte di San Silvestro) ho dovuto presentarmi al posto di lavoro.
Quindi ha fatto una scelta anche in questo campo.
C.: Sì. Allora
c’era una rivista letteraria, diretta da Vittorini e Calvino
(“Il Menabò”), che dibatteva
proprio questi temi: del rapporto tra industria e letteratura, di questo nuovo
mondo, della rivoluzione industriale italiana (questa grande trasformazione
sociale), soprattutto nel processo di inurbamento. E poi c’era un’altra
rivista, che si chiamava «Questo e altro», che sollecitava appunto a lasciare
le vecchie professioni, cosiddette liberali, degli scrittori (insegnamento e
altro) e ad entrare nell’industria. Io feci questa scelta: Feci un concorso, lo
vinsi e mi presentai a questo posto di lavoro.
Vittorini, per esempio, invitava a studiare i
nuovi linguaggi che si sarebbero formati qui, nell’area industriale,
dall’incrocio dei dialetti coi dialetti
del nord: Questi linguaggi lui li chiamava le «koiné», le nuove «koiné». Queste
non si sono formate, ma si è formata una «superkoiné», che poi sarebbe
l’italiano che ha analizzato Pasolini, nel ’64 mi pare, che era la lingua dei
media e che si sarebbe sovrapposta…
Insomma l’Italia è un paese
veramente singolare nel contesto europeo, perché nessuno ha avuto così
rapidamente e radicalmente le vicende italiane.
È un paese terremotato; era un vecchio paese ancora agricolo e
contadino, ha avuto questa rivoluzione. E poi questo grande spostamento di
masse di meridionali dentro queste città che sono esplose, con tutto quello che
è successo e di cui, forse, paghiamo le conseguenze. È stata la dannazione di
Pasolini, questo…
Quando si fanno questi discorsi, sembra
che uno abbia nostalgia del vecchio mondo contadino. Quello che rimproveravano
a Pasolini era: «Ma come?».
No, nostalgia del mondo contadino credo
non ce l’abbia nessuno, perché il mondo contadino era un mondo di sofferenza,
di ignoranza, era un mondo un po’ anche di conservazione; non era un mondo
progressivo, insomma, perché i contadini erano portati ad una sorta di
atteggiamento passivo, di rassegnazione. Quello che portava la novità e il
senso di presa di coscienza di classe era il mondo operaio, perché i temi
politici che si dibattevano erano del mondo operaio.
Perché c’era aggregazione, mentre il contadino era un
isolato.
C.: Sì, erano
isolati. Soprattutto, poi nel latifondo siciliano, questi contadini erano
angariati, vessati. Quindi la rivoluzione culturale che è avvenuta in Sicilia
si è realizzata nel mondo sotterraneo, proprio perché quella era l’unica forma
di operaismo siciliano, quando da contadini si trasformarono in minatori nelle
solfare. Lì c’è stata una sorta di rivoluzione culturale, che sfociò nei «fasci
siciliani», nelle rivolte del 1893 in Sicilia.
Io non ho nostalgia del mondo contadino
(questo l’ho anche raccontato nelle Pietre
di Pantalica); volevamo però uno sviluppo diverso da quello che abbiamo
avuto, con più rispetto nei confronti dell’uomo.
Qui, invece, i valori umani
sono stati distrutti, per non parlare di tanti altri valori. È quello che Pasolini
chiamava «sviluppo senza progresso», lo chiamava semplicemente «sviluppo» e non
«progresso»; molto spesso è stato un regresso. In Sicilia questo l’abbiamo
sofferto sulla pelle, con l’industrializzazione attraverso le raffinerie di
petrolio. Queste hanno distrutto città, Gela, Siracusa, Priolo…, che erano
innanzi tutto ecologicamente sane, belle, luoghi arcaici, antichi.
In mezzo alle raffinerie di Priolo ci sono
ancora i resti di Thàpsos Megàra Iblea, dove sono sbarcati i Greci (nel 739
a.C.). Io sono andato a rivederli,
ancora questa estate, in mezzo a tralicci, a ciminiere. Erano patrimoni
culturali che appartenevano a tutti e che sono andati distrutti.
Città come Gela e Licata sono diventate degli inferni, delle cose tremende; hanno subito questa trasformazione e sono diventate degli orrori. Non c’è idea di che cosa è un paese come Gela! È una cosa che toglie il fiato… Hanno portato le raffinerie ma non hanno risolto i problemi: la gente ha continuato a emigrare; hanno assorbito poca manodopera, i tecnici venivano dal Nord. I petrolieri venivano lì, rastrellavano soldi dalla Regione, dalla Cassa del Mezzogiorno, dall’Erario e poi, dopo aver fatto i loro affari, regalavano gli impianti allo Stato. Il signor Moratti, tanto per non fare nomi, ha fatto questo a Milazzo, una città ora distrutta e sconvolta dal punto di vista paesaggistico, ed ecologico, a causa delle raffinerie. La Sicilia, il meridione sono diventati luoghi spopolati, in cui sono arrivati i profittatori, luoghi di rapina e di sfruttamento.
Poi, quando ci si chiede dei mali
meridionali, di tutte le cose tremende che sono successe, si deve sapere che le
responsabilità sono di ordine storico, di ordine politico.
Non si deve pensare, come fanno certi
signori di certe Leghe, come fa il signor Miglio, che sia un fatto genetico,
quasi noi, nel sangue, avessimo il gene della delinquenza, della mafia, della
‘ndrangheta. Ci sono responsabilità ben precise.
Nel dopoguerra c’era un sovraccarico di
manodopera sulle terre e, quindi, bisognava «alleggerire»; le leggi del mercato
sono le leggi del mercato. Però tutto poteva avvenire in un modo più
rispettoso, più organico, non in questo modo selvaggio.
Al potere politico interessava soltanto
fare di queste zone del Meridione delle riserve di clientelismo politico, dei
feudi dove racimolare voti. Le masse meridionali erano quelle che dovevano dare
il voto democristiano (perché nel Nord, operaistico, erano forti le sinistre),
con tutte le trame di malcostume e di corruzione che adesso stanno emergendo.
Ancora poco nel Sud, mi pare.
C.: Perché ci sono
state delle cose più gravi nel Sud, ci sono stati i cadaveri, le strade piene
di cadaveri e, quindi, si è prima pensato a quello. Io spero che si passi al
secondo sipario, il sipario del malaffare.
Io spero che vengano
coinvolti un poco tutti davvero, dai magistrati agli imprenditori, alla stampa,
perché non è possibile pensare che solo i politici siano i grandi colpevoli.
C.: C’è ora nella
gente, anche in quella che era passiva, che in un certo senso aveva avuto anche
vantaggi (spero che non sia retorico quello che dico, io l’ho constatato), c’è
un bisogno di riscatto, di riconquistare la dignità perduta. Io l’ho visto a
Palermo, quest’estate. Credo che le prossime elezioni siano estremamente
importanti.
Questo è un momento molto, molto delicato,
per tutto il paese, ma per la Sicilia e il Meridione soprattutto.
Delicato, ma, lei dice, di speranza.
C.: Di speranza, sì. È un momento di passaggio,
dove si può tornare indietro, ma… Credo che ci sia nella gente un bisogno di
togliersi questa vergogna e quest’ipoteca del malaffare, della mafia, del
delitto. Questa è stata veramente una perdita d’onore e c’è un bisogno, nella
gente, di riconquistare quest’onore perduto, un onore sociale, non privato, e
c’è volontà di togliersi dalla soggezione del potere politico da cui era
ricattata. Questo si vedeva bene alle elezioni: ogni volta che c’erano
referendum, per esempio, il risultato era di un tipo, quando si tornava alle
elezioni politiche il risultato era un altro.
Anche noi, al Nord, abbiamo perduta una intiera classe
di amministratori e, per tradizione, avevamo gente che davvero amministrava.
C.: Sì. È saltato
anche questo, c’è stato un processo di degenerazione.
Poi, al Nord, è venuta fuori anche la
Lega, per un bisogno di pulizia, per cui adesso ci sono questi revanscismi, del
resto molto semplici, schematici e pedagogici. Come sempre capita nei momenti
in cui crollano i regimi, vengono fuori forme scomposte.
Io queste forme, queste rivendicazioni
locali, le ho viste da ragazzo, in Sicilia, nel ’47, con il Movimento
Indipendentista Siciliano. E capivo, anche se ero molto giovane allora, che
cosa significava: significava ancora una regressione, un passo indietro.
Quando, dopo tutti i disastri
democristiani e socialisti, in questo campo di macerie, si presenta qui al Nord
un movimento che si chiama Lega Nord (e già la denominazione stessa mi sembra
che escluda una parte del contesto italiano) mi sono preoccupato. Io non sono
un politico, sono uno scrittore,: la spia, allarmante l’ho avuta quando si sono
visti i primi segni, nelle traduzioni – diciamo così – sulle strade delle
scritte in italiano in dialetto lombardo. Questo mi ha messo subito in allarme
perché so, proprio da scrittore che usa il linguaggio, so che cosa significano
questi ritorni verso le forme dialettali. Sono modi di regressione e anche di
aggressione e di esclusione, messi in atto, per di più, in un contesto come
quello lombardo che, proprio per la sua storia e per la sua economia, ha
cancellato il dialetto. Questo
rifugiarsi di nuovo nel dialetto per escludere la lingua politica (uso
«politica» nel senso etimologico, lingua cioè della comunicazione) ha voluto
dire passare da una afasia e una impraticabilità del linguaggio proprio del
potere (perché il potere usa sempre una lingua impraticabile, non volendosi far
capire, una lingua di tipo aziendale e tecnologico, che Pasolini ha studiato)
al vecchio dialetto che non esiste più, quindi alla chiusura e alla
incomunicabilità totali.
(Il dialetto si può scandagliare in
letteratura, per tornare alle radici e approdare poi alla comunicazione, ma il
linguaggio politico deve essere sempre quello della comunicazione).
Ora, queste considerazioni, secondo me,
sono importanti, significano molto. Vogliono dire che dietro non c’è ideologia.
L’ideologia liberale o socialista sono delle ideologie! Che poi ci siano stati dei mascalzoni, che le
hanno degenerate, questo è un altro discorso.
Queste forme regressive sono le «vandee»
di cui ha parlato Benedetto Croce, e anche Vittorini, a proposito dei Vespri
Siciliani. Vespro Siciliano che, sulla
scorta del melodramma verdiano, è stato sempre visto come un fatto progressivo
e che invece è un fatto assolutamente regressivo, perché la Sicilia abbandonava
i legami con la Francia e si rifugiava in una conservazione di tipo spagnolo.
Il problema degli intellettuali in Italia è un triste
problema, mi pare.
C.: È un triste
problema, si. C’è sempre questa nostra viltà. L’intellettuale, in questo paese,
è stato sempre considerato un ornamento del potere, ragion per cui
l’intellettuale «disorganico» viene subito additato, messo ai margini. È sempre
successo. Da Dante in poi, quelli che non si sono voluti piegare al potere e
che hanno adempiuto a quella che è la funzione dell’intellettuale, essere
coscienza critica, sono stati esclusi. Non può essere il cantore alla mensa del
principe, altrimenti diventa un cortigiano e l’intellettuale che non vuole
essere cortigiano viene naturalmente bandito: questa è la sua sorte.
È successo sempre, fino a Pasolini, a
Sciascia e altri.
Tanti altri no.
C.: Durante il
fascismo, i professori che non hanno prestato giuramento sono stati sei in
tutta Italia. Tra questi, lo dico con orgoglio, c’era Giuseppe Antonio Borgese,
che stava qui a Milano, un siciliano, un grande scrittore: se n’è dovuto andare
in America. Non so quanti fossero allora i professori universitari ma soltanto
in sei non hanno prestato giuramento al fascismo.
Lei ricordava gli anni intorno al ’68: la sua
posizione è sempre stata isolata o ha partecipato direttamente a quegli
avvenimenti?
C.: No, guardi,
quando sono arrivato qui mi sono trovato talmente spaesato che non ho avuto
legami con i movimenti politici e neppure con quelli intellettuali. Era un
mondo che osservavo per la prima volta, perché mi portavo dietro un’altra
memoria, la memoria del mondo contadino. Mi mancava la memoria del mondo
industriale, mi mancava quel linguaggio soprattutto. E quindi sopperivo a questa afasia letteraria
facendo attività giornalistica. Scrivevo su «L’Ora» di Palermo e poi su «Il
tempo illustrato», un settimanale molto vivace, molto bello e devo dire anche
molto libero, dove ci scrivevano in quegli anni Pasolini, Giorgio Bocca, Padre
Turoldo. Ho pubblicato parecchie inchieste su quel giornale.
Poi ho capito che per tornare a scrivere e
raccontare Milano sarei dovuto tornare di nuovo in Sicilia, non fisicamente ma
almeno con la memoria, ritornare al mio linguaggio, alla mia matrice culturale.
E per questo, ho scelto il romanzo storico; lo sentii proprio come una
necessità, questo di riandare indietro con il tempo per poter raccontare il
presente.
Il suo gusto di reinventare la parola, il linguaggio?
C.: A parte Gadda,
Pasolini, Mastronardi e altri di allora, io avevo un grande sperimentatore che
mi era più congeniale: Verga, il primo che ha compiuto la rivoluzione
linguistica attuata abbassando a livello dialettale quello che era il codice
toscano.
La sua conversione è avvenuta proprio a
Milano. Anche lui, se questo mi è permesso, quando arrivò a Milano nel 1872
venendo da Firenze (fino a quel punto aveva scritto dei libri, i cosiddetti
romanzi «mondani»), trovò questa città in preda alla prima rivoluzione
industriale; era una città che stava subendo uno sconvolgimento: nuove stazioni
ferroviarie, nuovi cantieri. C’era poi anche il movimento operaio e c’erano i
primi conflitti.
A Lodi si faceva un giornale
che si chiamava «La plebe»; c’erano i primi scioperi, quindi, da una parte,
c’era la rivoluzione industriale, e dall’altra la presa di coscienza delle
masse popolari. Il tutto culminò con la esposizione universale dell’81, con il
Ballo Excelsior. E lui abitava proprio vicino a questa esposizione.
Verga subì una sorta di spaesamento e da
questo venne la sua conversione. Tornò con la memoria alla Sicilia. Ma quella
di Verga era una Sicilia della sua infanzia; Sapegno dice «ferma e
intatta». Era una Sicilia un poco
cristallizzata, mitizzata nella sua memoria, seppure di un mito negativo,
quella della irredimibilità del destino umano.
Per esempio, quando uscì la prima inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino del 1876, dove si cominciò a parlare di mafia e della malavita siciliana, dei rapporti fra il potere politico e la mafia, Verga si ribellò.Diceva che era una diffamazione della Sicilia, non lo voleva ammettere…Come poi non ammise i movimenti dei solfatari e dei contadini siciliani del ’93.
Verga, nella vita, era considerato un reazionario e ciò è dovuto a questa sua idea di una Sicilia mitica, quella, ripeto, della sua infanzia. Però questo gli permise di scrivere dei capolavori. La sua rivoluzione avvenne prima con i. racconti, con le Novelle rusticane e poi con quel poema straordinario che è I Malavoglia.
La follia ha un ruolo preciso nei suoi romanzi. Nel Sorriso, per esempio…
C.: Ci sono due
forme di follia, per la verità: il libro si apre con un gesto di follia,
compiuto nell’antefatto dalla ragazza Atena (che non è una folle, è
un’intellettuale), fidanzata con Giovanni Interdonato, che è questo capo
risorgimentale rivoluzionario. Lei sfregia il quadro di Antonello da Messina
proprio per una sorta di impazienza, perché era animata dal desiderio di uscire
fuori della ragione dall’alto, attraverso la fantasia creatrice, che può essere
anche una fantasia politica (lei aveva immaginato un nuovo ceto sociale).
E quindi l’assunto dal quale io sono
partito è che dalla ragione – che è rappresentata da questo quadro, da questo
sorriso ironico – si può uscire dall’alto, attraverso appunto la fantasia
creatrice, l’arte, attraverso questi furori che sono furori positivi.
Oppure per la disgregazione della ragione,
dal basso, Il monaco – un monaco allucinato – è proprio l’altra faccia di
questo gesto di insania della ragazza. Poi lei non compare più come
personaggio, però è quella che muove tutta l’azione, è una specie di
Annunciazione.
L’ambizione mia è stata di dare una
struttura originale al libro; non ho voluto scrivere il romanzo storico di tipo
ottocentesco, sapienzale, con l’autore che dall’alto dirige le fila della vicenda. Il mio romanzo parte dall’assunto
dell’inattendibilità della storia, della responsabilità di chi scrive la
storia, di chi ha il potere della struttura, anche di chi scrive letteratura
insomma; e quindi ho voluto far vedere due aspetti della struttura e cioè
quello storiografico e quello letterario.
Si è anche tolto da una cronaca di denuncia, quale può
aver fatto Vassalli con la sua ricostruzione del Seicento.
C.: Sì. Vorrei
dire che non è che io scelga gli argomenti di carattere storico casualmente.
Non è che mi interessino tanto i personaggi collocati nella storia, mi
interessano le epoche storiche, che siano anche metaforiche. C’è la lezione del
Manzoni, insomma. Ci sono dei momenti storici che somigliano ai nostri; si
scandaglia il passato per poter capire questo nostro presente. È quello che ci
ha insegnato il Manzoni.
Altrimenti diventano storie romanzate e
allora si possono prendere infinite storie.
Basterebbe prendere spunti d’archivio, lei dice. In
questo non si differenzia da Sciascia, che ha fatto invece un recupero davvero
d’archivio, di lettura documentale?
C.: Ma i romanzi
storici di Sciascia erano estremamente metaforici; scaturivano proprio dalla
lezione manzoniana. Il suo Consiglio
d’Egitto e Morte dell’inquisitore erano nati soprattutto dalla lettura
della Colonna Infame: niente di più
attuale, di più eternamente attuale, purtroppo, dell’impostura, delle menzogne,
della violenza. L’assillo del Manzoni era la giustizia e ha scelto il Seicento
perché era un secolo estremamente ingiusto. E ha preso questa distanza storica
per poter raccontare l’Ottocento.
Dopo di che lei prende l’Ottocento per poter
raccontare…
C.: A me interessavano altre cose oltre la giustizia,
altri tipi di ingiustizia; oltre ai principi generali della dignità dell’uomo,
della libertà, mi interessavano anche la sorte delle classi emarginate, di
tutti quelli che non hanno il potere della scrittura.
Quello di Manzoni e di Sciascia è
chiaramente un assunto più di tipo illuministico; il mio, se vuole, è un
assunto di tipo marxiano: questa forse è la differenza: Io faccio un discorso
anche di classe.
E di speranza nella storia.
C.: Di speranza
nella storia e di ammettere che nella storia ci sia giustizia per tutti gli
strati, soprattutto per quelli socialmente più deboli. Questa è la mia utopia,
l’utopia da cui parto io.
E che scrive, mi pare benissimo, nel capitolo
introduttivo alla relazione sui fatti…
C.: Sì. Il libro
parla della crisi di un intellettuale, che era chiuso nella sua scienza, nella
sua torre d’avorio: era un privilegiato, questo barone Mandralisca! Quando poi
sbatte il naso contro la storia, siccome è un uomo di coscienza, non un cinico,
entra in crisi. La sua soluzione è quella di donare tutti i suoi beni al Popolo
di Cefalù. Può sembrare retorica demagogica, però il personaggio era un
personaggio ottocentesco, quello che poteva fare lui, era questo.
C’è un po’ di autobiografia in questo?
C.: Io sono
tutt’altro che un barone. Tuttavia negli anni Settanta, quando ho scritto quel
libro, uno dei temi che si dibattevano era proprio il ruolo dell’intellettuale
di fronte alla storia. Rappresentando un intellettuale ho inteso rappresentare
anche me stesso nel momento in cui scrivo e cosa significhi questo mio scrivere
un romanzo storico.
Nottetempo, casa per casa è
ambientato invece negli anni Venti.
C.: Questo libro
l’ho concepito veramente non solo come un poema, ma anche come una sorta di
tragedia. Ogni capitolo è come una scena di una rappresentazione tragica.
Dentro poi ho aperto delle pause con delle digressioni, dove l’autore viene in
prima persona (è la funzione del coro) a commentare i fatti che accadono man
mano, con un tono un po’ più alto, più lirico.
Certo ci sono anche dei capitoli di
sarcasmo, di ironia, di comicità… Ci sono dei personaggi negativi che cerco di
connotare anche beffardamente, come il dannunziano barone Cicio. Però il tema è
la follia: la follia privata, esistenziale, e la follia della storia, questa
perdita di razionalità. Mentre quella privata è una follia tragica, pietosa,
quella della storia è una follia colpevole, perché stiamo insieme e abbiamo il
dovere della razionalità. Io sono convintissimo (leopardianamente, diciamo, io
non ho fedi di sorta, non credo ai mondi al di là di questa vita) che la vita,
che l’esistenza sia dolorosa, anche se è una cosa meravigliosa, però è dolore,
e che questo dolore si possa correggere soltanto «con la confederazione degli
uomini tra loro» diceva Leopardi, si possa correggere con il contesto storico,
con lo stare civilmente assieme.
Se, però, questo non avviene, allora
abbiamo infelicità sui due fronti: abbiamo l’infelicità dell’esistenza e
l’infelicità della storia, come succede al protagonista di questo libro, a
Marano. Ci sono tanti significati,
insomma. Il nome Marano viene da «marrano».
«Marrani» in Sicilia, come in
Spagna del resto, erano quelli di origine ebraica, che avevano dovuto abdicare
alla propria identità religiosa e culturale e convertirsi al cristianesimo per
non essere cacciati via. Quindi c’era, da parte di questa famiglia, la memoria
di perdita di identità, di marginalità, di persecuzione. Poi questa famigliola
di contadini era diventata una famigliola di piccoli proprietari terrieri
grazie a questo suo protettore eccentrico che la fa cambiare di classe. Questo
cambiamento comporta da parte dei componenti l’abbandono della loro cultura e
il dover adottare leggi di classe che non erano le loro. E quindi il sacrificio
da parte della sorella, che non può sposare il pastorello di cui è innamorata e
rinunzia alla vita, impazzisce, per l’impazzimento dovuto proprio a questo
cambio di classe, a questa negazione all’amore.
E il senso, e qui è metaforico, il senso è
che noi tutti abbiamo perso il contatto con quella che è la nostra identità di
classe, di cultura. Oggi abbiamo perso tutti i legami con la nostra classe e
siamo diventati «massa».
E, quindi, in questa civiltà di massa abbiamo
perso quella che è la nostra cultura e la nostra identità e soffriamo di questa
forma di follia, di alienazione.
Questo voleva essere, non so se ci sono
riuscito…
Il ragazzo Marano è un piccolo
intellettuale di paese, che, di fronte a questo carico di dolore famigliare,
aveva creduto di poterlo distribuire nella società e per questo si era
impegnato politicamente. Anche lui viene deluso, poveretto, e quindi trova
anche la follia fuori casa. Poi fa questo gesto estremo, di mettere la finta bomba
ed è costretto a scappare, ad andare via.
L’unica cosa che gli rimane è quella di scrivere tutto quello che aveva
sofferto, che aveva visto.
Dopo il crollo dei regimi dell’Est la sua speranza
marxiana nella storia è ancora in vita?
C.: C’è stato il
crollo delle ideologie, il crollo di tante utopie, di tante speranze che ci
eravamo costruiti in questi anni. Ci è crollato tutto, e io vivo in questa
grande angoscia, di vedere questi orizzonti che si sono fatti bui.
Non c’è ancora un lume di speranza.
Le uniche cose che vedo, di
questo lume che la fanciulla tiene in mano, sono certe forme di solidarietà
spontanea, come il volontariato dei giovani…
E anche certi ecologisti, che cercano di salvare questo nostro patrimonio,
che è l’unico che abbiamo, di rendere vivibile questo nostro pianeta.
Queste sono cose che veramente mi lasciano
sperare molto, però il ceto politico…
A cura di Lia De Pra Cavalleri Dalla rivista “Verifiche” gennaio febbraio 1994
Sono nato a Gibellina, di anni ventitré. Imparai il meccanico a Salemi, non mi ricordo niente, sentii un gran boato e il tetto che s’aprì, ho visto il cielo per un attimo, le stelle.La zappa l’ho lasciata a chi gli pare, con la meccanica si può espatriare. Stava Gibellina sopra la timpa tutt’attorno al castello e alla chiesa, a San Nicola. Al castello ci andai per la scuola:c’erano dammusi, catoi murati, passi e sospiri, voci di spirti, d’anime legate. Anche qui, in questi sotterranei alla stazione, i treni fanno un rintrono come il terremoto. Ho lasciato nelle baracche la madre e la sorella. Gli altri sono rimasti sotto terra. Le bambine, gonfie, occhi invetrati, erano pupe, bambole di fiera. La sorella più non parla, sì e no con la testa è il massimo che dice. I passaporti a vista, sotto la tenda: via, senza tante storie. Con me ci sono paesani, una incinta si lamentò tutta la notte. Altri non so di dove sono, ma qualcuno mi sembra conoscente. Molti ci vengono a guardare. Siamo profughi,sì, terremotati, con le borse, i sacchi, le coperte. Ci aiuteranno,sì, però l’affronto resta. Dicono che ci daranno alloggio e un lavoro. Io, per me, voglio emigrare in Svizzera. C’è la nebbia qua, che mangia case, gente, come là mangiava pàmpini, racemi.
da L’olivo e l’olivastro