*
Questo giorno imperioso, senza fine… questa
notte, crespo che si càmola, volo di farfalla, soffio
di fantasma… E i sogni a tormentarla… (con
improvviso scatto si rizza, si mette seduto sul letto)
Porfirio, ascolta, ascolta il sogno che questa notte
m’ha buttato nel terrore. Ancor ne tremo e bagno
di sudore… Ero in cima alla torre, sulla terrazza
dell’Osservatorio dove l’Abate astronomo m’indicava
Cerere e altre stelle intorno… Quand’ecco
all’improvviso distaccasi la Luna, rotola sul
profilo del Grifone, Gibilrossa, Bellolampo, scivola
sui merli delle torri, le curve delle cupole,
le guglie, le banderuole in cima ai campanili, e
s’appressa crescendo a dismisura, fino che viene
ad adagiarsi nel giardino sopra i bastioni, tra le
palme e le voliere, grande come il rosone d’una
chiesa, e vomita scintille dal suo corpo. In quel
modo si spegne a poco a poco, annerando, mentre
pigolano gli uccelli e passiscon sfrigolando
i gelsomini, le pomelie, le aiuole d’erbe, di fiori
senza nome. Allora, guardando il cielo, vedo,
dove lei s’era divelta, un’orma, una nicchia, un
vano nero che m’attrae e dona nel contempo le
vertigini… Ancora ne risento… Porfirio, non ho
abènto. Questo tormento che non conosce alba
né tramonto, questa inedia di stagno, questa
noia greve, quest’ansia ferma, questa melanconia
amaricante…
E scivola a poco a poco, il Viceré, di nuovo dentro
il letto, fino a sparire sotto i lenzuoli.
Porfirio allora, con sibili, con schiocchi delle labbra,
lo conforta. E quindi, accompagnandosi con
una chitarriglia, così gli canta.
*
Azzurro, giallo, rosso.
Mi regalò mio padre
tre cristalli,
mia madre tre nastri
variopinti.
Mi dissero partendo:
Muoviti, figlio,
agita il ventre,
danza a campo raso,
nella luce piena.
È fredda l’ombra,
immobile serpente,
lunga la notte
dentro la foresta.
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I contadini di Vincenzo Consolo
Il prossimo 20 aprile ricorre il 67° anniversario della vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali siciliane del 20 aprile 1947, quando comunisti e socialisti, assieme ad altre forze laiche e cattoliche raggiunsero la maggioranza relativa nelle prime elezioni regionali svoltesi in Sicilia. Fu la prima e l’unica volta che la sinistra nel suo insieme si candidò a dirigere la politica regionale, ottenendo il successo desiderato. Ma allora il pane si chiamava pane e le parole non avevano perduto il loro significato. I fatti sono ormai noti. La strage di Portella della Ginestra e quelle che seguirono ci hanno consegnato un’Italia che è sotto gli occhi di tutti. Ci piace ricordare con Vincenzo Consolo una delle pagine più gloriose di quell’epoca: quella dell’occupazione delle terre.
Nuvole nere vagavano nel cielo, dense come sbuffi di comignolo, da levante correvano a ponente, e nel loro squarciarsi e dilatarsi, rivelavano occhi azzurri e cristallini, lunghi raggi del sole che sorgeva, stecche incandescenti d’un ventaglio, giù dal fondo del Corso, dal quartiere Màzzaro, dal Borgo, d’in sul triangolo del timpano della chièsa gialla di Santa Lucia.
Il largo del mercato era affollato, d’asini muli giumente leardi, luccicanti di specchietti, sgargianti di fettucce nappe piume, scroscianti di campanelle e di cianciane. E cristiani erano a cavallo, a terra, aste di bandiere nelle mani, trùsce e colini pieni di mangiare, ridenti nelle facce azzurre rasate quel mattino. Aspettavano, gli occhi puntati sulla porta della Casa, l’uscita dei capi dirigenti.
Dai balconi dei palazzi prospicienti lo spiazzo, detto in altro modo l’Arenazzo (luogo di sosta de’ carrettieri venuti da Butèra, Riesi o Terranova, sfregatoio di bestie a zampe in aria, riposo dentro il fondaco, tanfo di corno arso per la ferratura nella forgia, cardi bolliti e bicchier dì vino dentro la potìa), dai balconi del palazzo Àccardi e del palazzo Alberti, dalla farmacia Colajanni, financo dalla canonica di San Rocco, guardavano a questo assembramento di villani, a questo cominciamento di processione, a questa festa nuova, fuori d’ogni usanza e d’ogni calendario.
E nel vocìo sommésso, nel mormorio di saluti e di discorsi, nello stridere del ferro di zoccoli e di chiodi, nel tintinnìo di campanelle, nel fumo di trinciati e toscanelli, trillarono i banjo, i mandolini infiocchettati de’ barbieri che, lustri più di tutti nelle facce, nelle lune e nei capelli, con le loro dita magre dall’unghie coltivate attaccarono a suonare l’Internazionale. E subito Bandiera rossa, l’Inno di Garibaldi e di Mameli. Staccarono dalle corde le stecche a cuore di celluloide quando s’aprì la porta della Casa del Popolo uscirono La Marca, Cardamòne, Siciliano, Pirrone e altri ancora, che traversarono tutto lo spiazzo, si portarono in testa, verso l’imbocco della via Bivona, e salirono in groppa alle bestie. Guardinghi, ché non tutti avevan confidenza con gli animali, questi giovani mazzarinesi usciti dalla guerra, ch’avevan studiato, ma studiato, contro i libri di carta e di parole della scuola, sopr’altri libri, e di più con passione sopra il libro del paese, in cui avevan letto chiaramente la lunga offesa, la storica angheria, la prepotenza dei baroni. Eredi ma diversi d’altri precedenti. Come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco Colajanni, il farmacista, ateo inveterato, che sul letto di morte, la figlia terziària e le monache assistenti esulcerate, volle da leggere il suo Decamerone. O come il medico Giunta, ché andando sul Corso per le visite, alzando gli occhi ai balconi dei palazzi, sputava e imprecava; «Ah porci, ah baroni!».
Questi giovani ch’avevan determinato il successo del Blocco del Popolo alle elezioni, e che ostentatamente, dopo la vittoria, uno accanto all’altro, ostruendo la strada, andavano avanti e indietro lungo il Corso per dispetto agli avversari. «Una sventagliata di mitra, ecco quel che ci vorrebbe! Guardateli!… Proprio ora che sono a tiro tutti quanti… Ta-ta-tatà e, in un attimo, ci si potrebbe liberare di questi scalzacani» vociava don Turiddu Bàrtoli da sopra il suo balcone coi campieri schierati alle sue spalle. In testa, angelo custode, mignatta e protettore, don Peppino, Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione, compare dello Scebba, altro capo di Butèra.
Quando tutti furono assettati sopra le cavalcature, il trombettiere della cooperativa “L’Agricoltore” suonò il motivo della sveglia, come da soldato. Il La Marca, da sopra il suo cavallo, si girò verso la folla, alzò il braccio e urlò:
“Avanti!”
(brano del racconto Ratumemi, in Le pietre di Pantalica)
Vincenzo Consolo
L’ Introduzione di Cesare Segre al Meridiano di Vincenzo Consolo.
Voglio subito enunciare un giudizio complessivo: Consolo è stato il maggiore scrittore italiano della sua generazione. La sua scomparsa, due anni fa esatti, ha turbato tutto il quadro della narrativa nel nostro paese, rimasto senza un punto di riferimento alto e, per me, indubitabile. Il romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, ma scritto intorno al 1969) fu una rivelazione. L’ignoto di una splendida tavoletta di Antonello da Messina nel museo Mandralisca di Cefalù divenne, con il suo sorriso, una specie di doppio di Vincenzo Consolo. Ma accanto alla vera immagine di Consolo sono spesso apparse altre due immagini: quella di Leonardo Sciascia e quella di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il primo, pur diversissimo nello stile, fu il maestro di Consolo per l’atteggiamento di fronte ai problemi e alle contraddizioni sempre più laceranti della Sicilia. Il secondo ne fu l’antitesi: tanto è lontano il suo Gattopardo dal Sorriso dell’ignoto marinaio, anche se entrambi hanno come oggetto lo stesso momento storico della Sicilia, percorsa da moti risorgimentali, liberata (o occupata) dai Mille a nome dell’Italia da unire, bersaglio infine di jacqueries contadine confuse, dai contemporanei, con scoppi di banditismo. È comunque da questo confronto – si disse che Il sorriso era l’anti-Gattopardo – che si può partire per qualunque discorso su Consolo.
Ma sarà intanto utile esporre lo schema del romanzo, e di quelli che seguirono. I primi due capitoli del Sorriso ci portano in mezzo agli aristocratici e ai borghesi illuminati, fra i quali si stanno diffondendo le idee liberali e mazziniane. Essi odiano i monarchi borbonici e sono pronti ad affrontare, se occorre, l’esilio e la morte, come accadrà dopo la fallita rivolta di Cefalù del 1857. Gli altri capitoli, dal III al IX, sono ambientati pochi anni dopo, quando la Sicilia si prepara a passare sotto il governo dei piemontesi. Questi capitoli sono tutti dedicati ai prodromi, agli sviluppi e alla tragica conclusione della rivolta popolare di Alcàra Li Fusi, scoppiata alla vigilia dello sbarco di Garibaldi. Dietro Alcàra sta forse, per Consolo, il ricordo di Bronte e della spietata repressione di Nino Bixio, descritta da Verga nel racconto Libertà. Il barone Mandralisca, possessore del ritratto di Antonello, segue la rivolta con istintiva comprensione, ma quando essa degenera, la vede con crescente orrore, e confessa la sua incapacità di comprendere e di giudicare. La narrazione d’autore si alterna a documenti ufficiali, brani di storici locali (come Francesco Guardione) o nazionali (come la Noterelle di uno dei Mille di Giulio Cesare Abba), che separano tra loro le varie parti d’invenzione.
Consolo aveva già pubblicato un romanzo, La ferita dell’aprile (1963), che al momento sfuggì all’attenzione dei critici e dei lettori. Si tratta di un Bildungsroman autobiografico, un unicum nella carriera dello scrittore (che, per parte sua, lo definiva un “poemetto narrativo”). Il romanzo narra la vita nella Sicilia del dopoguerra, fino all’occupazione dei latifondi e alla repressione ad opera dei governi democristiani.
Provando a completare il quadro dei romanzi di Consolo, siamo ben consapevoli di metterci in una posizione contraddittoria, dato che Consolo stesso ha più volte dichiarato che nel romanzo storico non credeva. Diciamo allora che, bypassando il problema, prendiamo in esame i suoi libri che esibiscono dei personaggi e una narrazione continuata.
Venne dunque Retablo (1987), con immagini di Fabrizio Clerici; il grande pittore, trasformato in personaggio settecentesco, appare nella seconda parte del romanzo, da milanese appassionato di antichità siciliane. È lui, che pure arde di un amore infelice per Teresa Blasco, la futura nonna siciliana di Manzoni, a tentar di risolvere i problemi del fraticello innamorato della prima parte della narrazione; ma intanto Consolo rende omaggio al mitico illuminismo milanese, visto dal traguardo della contemporaneità: per esempio, dalla rivolta, che divenne poco dopo anche giudiziaria, contro il mostro della corruzione.
Si avvicina certo a un vero romanzo Nottetempo, casa per casa (1992). Il tema centrale potrebbe essere sintetizzato come “l’irrazionale e la storia”, e fornirebbe argomenti alla negazione di principio del romanzo che Consolo ha fatto propria. Qui abbiamo, in singoli flash a luce radente, la ricostruzione dell’affermarsi del fascismo, negli anni Venti del secolo scorso, tra Cefalù e Palermo. Invece di raccontare questa vicenda, col rischio di ricadere nelle fauci dell’aborrito romanzo storico, Consolo evoca l’irruzione nell’isola di forme più o meno deliranti dell’irrazionale, dalla licantropia del padre di Petro, il protagonista, alle psicosi della sorella, alle esibizioni di un personaggio storico come l’inglese Aleister Crowley, inventore e officiante di riti satanici in cui alla promiscuità sessuale e alla droga si mescolano tutte le invenzioni più stravaganti di religioni e leggende esoteriche. Nel suo ricetto di satiri e donne assatanate avviene il congiungimento con un’altra irrazionalità, più titolata, quella dei dannunziani, numerosi nella Sicilia di allora. Sullo sfondo, le vecchie, indolenti abitudini insulari, le nuove mode francesi e inglesi, le corse automobilistiche. Componenti materiche di una storia negata alla Storia.
La contrapposizione, intellettuale quando non metafisica, luce-tenebre diventa anche definitoria per la stessa Sicilia, la cui bellezza luminosa, potenziata nei mosaici medievali, si contrappone a un’oscurità che prorompe da fonti quasi insondabili. Si noti che Petro è anche lui affetto da una forma di follia: divoratore di libri, parla con i personaggi della finzione nel silenzio delle sue letture. E, in una splendida sequenza di adynata, dirà di aver intinto la penna “nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana” sino a che non si sentirà capace di raccontare la Sicilia come la sta vedendo. L’impossibilità di fare storia è accompagnata, per il Petro di Nottetempo, da un più fiducioso sforzo di raccontare. È allora che l’oscurità dominatrice lo costringe a fuggire dalla Sicilia: per finire, comunque, in un più forte disincanto.
Ma è più tardi Gioacchino Martinez, il protagonista de Lo spasimo di Palermo (1998) abbozzato in modo da risultare molto simile a Consolo stesso, a farci quasi toccare con mano, una ad una, tutte le disillusioni di un siciliano che, fuggito disdegnoso dalla sua isola, trova in Lombardia situazioni che generano in lui analoghi sentimenti di rifiuto e di condanna. Nemmeno al figlio Martinez ha saputo dare gl’insegnamenti giusti: il giovane si è affiliato al terrorismo, vive esule a Parigi e gli nega persino il nome di padre. Non c’è dunque per Gioacchino, come per suo figlio, un avvenire cui guardare con fiducia, e a lui, come alla moglie tanto cara, non rimane che la tragedia. La tragedia, del resto, s’ingrossa nelle ultime pagine: la mafia spadroneggia, uccide, fa terribili attentati. Il protagonista guarda con ammirazione ai magistrati antimafia, di cui però, al momento, può solo registrare la sanguinosa sconfitta. E sogna, fantasticando di un vendicatore che, alla maniera di Judex, l’eroe cinematografico della sua infanzia, riuscirà a portare la giustizia nell’isola martoriata.
Tutti i romanzi appena ricordati, se ordinati in base alla cronologia dei fatti descritti o allusi, compongono, per momenti decisivi, una storia della Sicilia degli ultimi duecentocinquant’anni. Ma da questa mia grossolana rassegna tassonomico-cronologica resta fuori uno dei lavori più mirabili di Consolo, Lunaria (1985). In esso c’è un abbandono pieno all’invenzione. Invenzione tematica e invenzione formale. Il libro non è certo un romanzo, ma appartiene piuttosto a un “genere che non esiste”, a un conato di teatralità divertita fra entremés alla spagnola e teatrino delle marionette. Si sa che molta dell’elaborazione di Consolo è “letteratura sulla letteratura”. Ebbene, in Lunaria la falsariga è costituita da un racconto di Lucio Piccolo, L’esequie della luna (1967), con cui Consolo si pone felicemente in gara, non dimenticando naturalmente Leopardi. Voglio evocare un aneddoto sintomatico. Quando Consolo mi mise tra le mani il meraviglioso libretto, e io mostrai di riconoscerne alcune fonti, invece di chiudersi nell’enigma mi procurò la fotocopia dei testi cui più si era ispirato, lieto che io ripercorressi i suoi itinerari. Mai come in questo caso la letteratura cresce su se stessa, e se ne vanta. Il lettore deve partecipare, come in un gioco, all’invenzione dello scrittore.
Il mio percorso sembrerebbe aver trascurato i moltissimi scritti di Consolo di carattere saggistico o polemico. Ma in fondo no, se pensiamo che molti o moltissimi dei suoi saggi (raccolti in volumi come L’olivo e l’olivastro, del 1994, Le pietre di Pantalica, del 1988, Di qua dal faro, del 1999) possono essere visti, per tornare a un’etichetta un tempo di gran moda, come i correlativi oggettivi dei suoi romanzi. Perché al centro dei saggi c’è sempre la Sicilia, le sue contraddizioni e i suoi mali visti con disperata frustrante insistenza, con passione e con sarcasmo da un siciliano che fugge e ritorna incessantemente: solo che qui lo stile, non gravato dalla necessità di reggere qualche complesso intreccio fizionale, può piegarsi a un’evocazione quasi impassibile delle bellezze naturali e delle ricchezze archeologiche e artistiche dell’isola, devastate forse irrimediabilmente.
A questo punto possiamo tornare utilmente all’iniziale confronto con il Gattopardo. Anzitutto, il libro di Tomasi di Lampedusa è un romanzo portato avanti da un narratore onnisciente, come nella grande tradizione del genere. Il libro di Consolo, per contro, è consapevole delle tesi sulla morte del romanzo, cui sarebbe possibile soltanto sostituire un antiromanzo o un romanzo-saggio. Il pensiero di Consolo, però, non è tanto preso dalla riflessione teorica sul romanzo, quanto piuttosto dalle ragioni di un particolare sottogenere, quello del romanzo storico. Una riflessione che, si sa, portò il nostro maggior romanziere, Manzoni, a rinnegare I promessi sposi, dichiarandone l’assurdità teorica. Ma Consolo non era impressionato, come Manzoni, dall’impossibilità di intrecciare una narrazione fantastica con i fatti storici assodati, ma proprio dall’artificialità della storia stessa, cioè di qualunque costruzione verbale che pretenda di ordinare i fatti storici secondo una logica e puntando a una spiegazione complessiva. Nel periodo in cui Consolo ha scritto le sue opere fondative (in sostanza il ventennio successivo alla contestazione del ’68), le obiezioni alla storia come logica immanente della realtà erano vivissime; e non sono ancora finite, anzi continuano a mettere in crisi gli stessi specialisti.
Scrivendo, di fatto, dei romanzi storici, Consolo non cerca di attenuare le ragioni che stanno contro la storia. La sua soluzione è astuta: le narrazioni complessive degli eventi storici sono demandate dallo scrittore o ai documenti, che della storia costituiscono i materiali, o a cronisti e storici dell’epoca rappresentata; mentre conduce lui stesso la narrazione per quegli episodi che ha inventato e inserito nella narrazione, forte della licenza cui ogni scrittore ha diritto. Ma nella “sua” storia c’è un veleno, che Consolo non esibisce ma tiene certo presente: gli autori di cui riporta brani sono tutt’altro che attendibili; spesso anche soltanto per il loro stile retorico e imbonitorio. L’impossibilità della storia s’identifica con l’impossibilità di una buona storia. Citare gli storici – questi storici – è dunque un atto di sottile ironia.
Il secondo punto di distacco da Tomasi di Lampedusa, ancora più significativo, sta nello stile: plurilingue Consolo quanto è monolingue Tomasi, espressionista l’uno quanto è elegantemente classico l’altro. Occorre ricordare subito che gli scrittori meridionali, in Italia, sono raramente espressionisti. L’unico esempio di rilievo è forse, nel secondo Ottocento, il napoletano Vittorio Imbriani, certo non ignaro della Scapigliatura lombardo-piemontese. Ma Consolo, fattosi milanese ancora dai tempi dell’università, e rimasto anche in seguito milanese di residenza, pur nella forte nostalgia per la Sicilia, ha assimilato da quella cultura l’ammirazione per Gadda. Quando parla di “esplosione polifonica del ‘barocco’ Gadda” sembra quasi voler descrivere la propria, di scrittura.
Il terzo punto è quello del “messaggio”, come si diceva una volta. Nel Gattopardo, il senso, o la morale, della storia è demandato quasi esclusivamente alle estrinsecazioni esplicite del suo personaggio più riflessivo, il principe di Salina. Consolo, pur lasciando spesso trasparire il proprio pensiero, ne affida le articolazioni al dialogo, spesso serrato, tra i protagonisti. Per esempio, nel Sorriso, a Enrico di Mandralisca e a Giovanni Interdonato. Il primo rappresenta le posizioni dell’aristocrazia e della borghesia illuminate che parteciparono alle iniziative dei mazziniani e dei carbonari; il secondo – tra i due, il vero cervello politico e l’uomo che, verrebbe da dire, si sporca le mani –, rispecchia le idee dei democratici radicali. Mandralisca è protagonista dei capitoli I e IV, è mente giudicante del VI, è testimone narratore nei capitoli VII e VIII, è raccoglitore della documentazione del IX. La contrapposizione tra i due personaggi si precisa nel capitolo VI, grazie a una lettera che Mandralisca, secondo l’invenzione di Consolo, avrebbe spedito a Interdonato, quando questi si preparava, come giudice d’appello, al processo sui fatti di Alcàra Li Fusi, nel quale i colpevoli non ancora giustiziati furono da lui assolti per amnistia. Mandralisca spiega la propria rinuncia a un’azione politica con le riflessioni sulla rivolta di cui erano recentissimi i segni e ardevano ancora le passioni. Si mantiene fedele agli ideali di libertà, uguaglianza, democrazia discesi dalla Rivoluzione francese, ma ha anche l’impressione che essi siano formulati con il linguaggio delle classi dominanti, pur illuminate, e insomma del potere. Un linguaggio e una scrittura che sono anche quelli delle leggi e della storia ufficiale, inappropriate e inintelligenti rispetto ai bisogni, alle pulsioni, agli orizzonti mentali delle genti che sono sempre state oggetti, vittime, e che spesso non possiedono nemmeno una lingua adeguata per esprimere qualcosa che vada al di là dei bisogni materiali, e delle reazioni dell’istinto.
Si capisce che la posizione di Consolo è più vicina a quella di Mandralisca che a quella di Interdonato. Ma ciò che più interessa, come già anticipavo, è che Consolo non impone il suo punto di vista; lo fa solo trasparire. Mi pare di poter allora concludere che Consolo tenta un difficile equilibrismo: fare storia senza fiducia nella storia, prendere posizione pur rispettando le posizioni diverse. È come tenersi vicino un advocatus diaboli che sottoponga a critica il proprio lavoro di scrittore. Una vicinanza che lo aiutò. La posizione dialettica permette infatti a Consolo di esprimere un amore infinito per la sua Sicilia, e nello stesso tempo di condannarne le colpe antiche e, soprattutto, quelle recenti. E gli permette anche di assecondare una sorta di movimento pendolare tra l’ebbrezza stilistica e il rigore argomentativo che sono i due costituenti fondamentali delle sue narrazioni.
Nella fase della scrittura, le riflessioni sul romanzo storico, le esigenze di un impegno attuale in una Sicilia di cui Consolo conosce tutte le difficoltà e le contraddizioni, la ricerca di un linguaggio capace di comprendere in sé tutta la realtà dell’isola si richiamano, si connettono ma talora anche si ostacolano fra loro. Più che cercar di scoprire, in ciascuna delle opere, come si sviluppa una costruzione perfettamente calibrata, frutto di una razionalità priva di residui, meglio è allora abbandonarsi alla voce del narratore e riconoscere punto per punto quale sia stato, in quel preciso luogo, l’animus ispiratore. L’immagine del carcere a forma di chiocciola, spaventoso e sublime, in cui vengono rinchiusi, in attesa di giudizio, i colpevoli dell’eccidio di Alcàra Li Fusi non ancora passati per le armi potrebbe perfettamente essere presa a metafora della costruzione, formale e verbale, non solo del Sorriso dell’ignoro marinaio (come ho già avuto modo di scrivere, e come del resto insinua lo stesso Consolo) ma di tutti i suoi romanzi, vortice inarrestabile che trasporta, fonde e confonde avvenimenti, personaggi e voci della Sicilia. Si senta Consolo:
Subito un murmure di onde, continuo e cavallante, una voce di mare veniva dal profondo, eco di eco che moltiplicandosi nel cammino tortuoso e ascendente per la bocca si sperdea sulla terra e per l’aere della corte, come la voce creduta prigioniera nelle chiocciole (p. 118).
Ma una costruzione così complessa, apparentemente così poco razionale, nasce da motivazioni molto limpide, che vengono poi a coagularsi in finalità ben precise.
In primo luogo, rendere viva e presente la storia dolorosa che ha portato la Sicilia, nel passato terra di grandi fulgori, all’attuale decadenza, in cui l’isola appare soprattutto preda di un’organizzazione criminale e sfruttatrice. La riflessione storiografica del secondo dopoguerra, da cui Consolo era stato molto colpito, ha approfondito in lui il concetto che la storia è fatta dalle classi dirigenti, e complessivamente da coloro che sono stati, in forme diverse, i vincitori dei principali scontri sociali: lo scrittore ha ben presente quella corrente della storiografia che, dopo l’impresa dei Mille, considera il governo dei Savoia in Sicilia più affine al governo borbonico che a quello che ci si illudeva sarebbe stato installato dal Piemonte liberale. Insomma, rivendicazioni sociali e contestazioni politiche possono in buona parte coincidere.
Ma, se si esclude una soluzione paternalistica, come si può sperare che dal fondo dell’abiezione un popolo sempre represso sappia maturare la propria riscossa? La risposta offerta da Consolo, una risposta largamente simbolica, è stata quella del ricorso alla viva testimonianza, dell’innesto nel tessuto narrativo delle voci stesse del passato: le voci generano una conoscenza che può diventare la base ideale di questa riscossa. L’esempio più famoso è quello del IX capitolo del Sorriso dell’ignoto marinaio, che riporta imprecazioni e maledizioni, ma anche richieste di perdono, aneliti di libertà, e persino tentativi di canto dei prigionieri semianalfabeti del carcere di Alcàra Li Fusi, traendoli dai graffiti lasciati dai prigionieri dell’Inquisizione nelle celle dello Steri di Palermo, non a caso valorizzati da Leonardo Sciascia. Ma mi piace anche ricordare un altro innesto particolarmente ricco di carica allusiva: le prime battute della partitura del settecentesco Stabat mater di Emanuele d’Astorga, preludio all’evocazione, nelle pagine finali dello Spasimo di Palermo, dell’attentato al giudice Borsellino, ucciso mentre stava salendo a casa della madre.
Una volta rinunciato alla storia, come conservare tutti i tesori di storicità della Sicilia? Qui Consolo trova una soluzione originalissima, che passa attraverso un ricorso molto particolare all’espressionismo. È come se lo scrittore siciliano fruisse di un sistema linguistico che, sotto la superficie di un italiano colto, tiene a propria disposizione un immenso magazzino di residui, i quali vengono alla superficie per associazioni mentali e si strutturano in costruzioni complesse. L’autonomia di queste costruzioni, spesso (ma non sempre) sorrette da un espediente retorico come la cosiddetta “enumerazione caotica”, è, come mostrerò tra poco, di tipo musicale, e valorizza tutte le possibilità di suggestione delle parole e dei suoni alludenti a una o un’altra epoca, a uno o un altro ambiente: ho appena ricordato le note dello Stabat mater del ragusano d’Astorga richiamate in forma di preludio al momento di evocare la tragica morte di Borsellino.
L’espressionismo di Consolo si fonda sull’interferenza di registri e di strati idiomatici: e se l’apparenza è quella di un fulgore, di uno splendore barocco, è proprio sul piano, più profondo, della costruzione che si rifugia la “vera” storia, una volta sconfessata la storia degli storiografi. Consolo mostra infatti che tutta la vicenda della Sicilia può essere riportare alla luce tramite la lingua che i siciliani, secondo i momenti, hanno usato: da quella dei greci delle colonie, e poi dei romani, a quella dei poeti di corte sotto Federico II, sino a quella degli scrittori d’oggi. In questa storia il dialetto siciliano, unica lingua delle classi subalterne, ha una grande forza di suggestione, così come ce l’ha un raro relitto linguistico, il dialetto galloitalico di San Fratello (località vicinissima alla Sant’Agata di Consolo), di cui il Sorriso dell’ignoto marinaio offre battute significative. E le melodie e i canti popolari, in questa prospettiva, hanno giustamente ampio spazio. Ecco allora che il plurilinguismo di Consolo apre finestre verso i momenti significativi della storia siciliana. I lettori intravvedono, dietro le parole o le note, gli ambienti e i sentimenti. Non a caso, lo scrittore si autodefiniva “archeologo della lingua”.
E qui si impone un’osservazione ultima, che mi pare però decisiva. L’amalgama linguistico presente nei punti più rilevanti delle evocazioni cambia secondo l’ambiente e i toni. È come un sovrapporsi di vecchie pergamene e di lapidi, di volumi polverosi e di canti vetusti, di litanie e di scongiuri; un sovrapporsi che ha come proprio collante il ritmo. Sì, perché in Consolo è fortissima l’attrazione di una prosa ritmica, che spesso nasconde lunghe tirades di versi. Ciò che tiene insieme questo plurilinguismo non è dunque un fatto concettuale, ma musicale, nel senso più ampio del termine: la prosa di Consolo, che gioca spesso col plurilinguismo ospitando frammenti in altre lingue, compresi il latino classico e il mediolatino, si caratterizza infatti per il suo sottofondo prosodico. Si può persino sostenere – e qualcuno, come Alessandro Finzi, lo ha sostenuto –, che quanto Consolo scrive è senz’altro una prosa ritmica, con i suoi nessi e le sue pause, una prosa ritmica che sembra quasi sollecitare una lettura ad alta voce.
Basti come esempio questo brano, il cui contenuto tragico sembra quasi lenito dall’armonia metrica che lo pervade. La divisione in endecasillabi qui offerta è, naturalmente, mia e non dell’autore:
Madri, sorelle e spose in fitto gruppo
nero di scialli e mantelline, apparso
per incanto prope alla catasta,
ondeggia con le teste e con le spalle
sulla cadenza della melopèa.
Il primo assòlo è quello d’una donna
che invoca a voce stridula, di testa,
il figlioletto con la gola aperta (p. 108).
È insomma un ritmo di tipo musicale, sotterraneo e implicito, a unificare i materiali volutamente eterogenei che compongono i (non) romanzi di Consolo. Ed è questo ritmo musicale che aiuta a rendere vive, per il lettore delle sue opere – ma forse sarebbe meglio dire per il lettore-ascoltatore delle sue opere – le vicende narrate, antiche o meno antiche: quasi colonna sonora di un viaggio nella storia che è anche, o soprattutto, giudizio sul tempo presente.
Cesare Segre
Milano, gennaio 2014
Via Crucis con uno scritto di Vincenzo Consolo
“La mia isola è Las Vegas”, raccolta di racconti di Vincenzo Consolo
recensione di Rosario Tomarchio
- “La mia isola è Las Vegas” è una raccolta di racconti cinquantadue in tutto di Vincenzo Consolo pubblicato da Mondadori.
Qui Consolo ci racconta la sua storia di emigrato al nord, a Milano in particolare e la sua Sicilia da giovane, ci racconta anche le sue prime avventure giornalistiche e di scrittore di romanzi.
Nei cinquantadue racconti che compongono il libro, in particolare in quelli in cui descrive i luoghi della sua gioventù ci guida per mano, mentre descrive i paesaggi, i personaggi e ci lascia affascinanti con le storie che racconta e senza dimenticare un pizzico di critica politica. Molto interessante sotto il profilo storico si presenta il racconto “E poi arrivò Bixio, l’angelo della morte”. Qui l’autore ripercorre le vicende storiche che riguardano Bronte dal 1979 al 19861.
“Non un libro, ma una breve esposizione noi abbiamo voluto fare di questa storia, cucendo assieme notizie attinte da diversi libri. E forse sono proprio le cuciture, unico nostro lavoro, che alla fine risultano mal riuscite”.
Nel racconto La mia isola è Las Vegas che da anche il titolo alla raccolta immagina la sua terra di origine, la Sicilia come uno stato appartenente agli Stati Uniti con sale da gioco e con tutto quello che si può trovare a Las Vegas.
Nell’ultimo racconto dal titolo “La meraviglia del cielo e della terra” ci strappa una lacrimuccia con la storia di un semplice pastore Benedetto detto Bitto.
“Mi sono sposato e ho due figli. Ma qui ripenso sempre con nostalgia al mio bosco della Miraglia, ripenso a quel cielo notturno che mio padre Delfio, che ormai pace all’anima sua sarà morto, m’insegno a leggere. Bosco e cielo che non posso qui far leggere ai miei figli”.
Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933 ed è scomparso a Milano nel gennaio del 2012. Romanziere di fama internazionale ha esordito nel 1963 con la Ferita dell’aprile, edito da Mondatori, ma si è pienamente rivelato nel 1976 con Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato da Einaudi. Nella sua lunga carriera ha ricevuto i più prestigiosi riconoscimenti letterari, tra cui il premio Pirandello nel 1985, il premio Grinzane Cavour nel 1988 e il premio Strega nel 1992.
Vincenzo Consolo è stato una delle voci più originali ed autorevoli della cultura italiana negli ultimi decenni. Le sue narrazioni, che rifiutano la forma standard del romanzo e la lingua vuota del nostro tempo, sono lette e ammirate e studiate in Europa e nel mondo.
Oubliette Magazine
9 maggio 2013
Oltre il silenzio di Antonio Di Grado
Oltre il silenzio
Non è facile parlare di Consolo. Perché a lui giustamente ripugnava il bla-bla letterario, e anzi si faceva sempre più netto, di libro in libro, il suo rifiuto della letteratura e del romanzo tradizionali, orientati a uno scioglimento salvifico e a una fittizia ricomposizione dei conflitti. E altrettanto fastidio esprimeva per certa critica parassitaria e devitalizzata, per le «prose piane» e le «storie tonde» dei «professori», ironicamente evocate fin dalle prime pagine dello Spasimo di Palermo, inutili e dannose almeno quanto gli scrittori-intrattenitori che quella critica blandisce e che di quella critica hanno bisogno per «ingrassare» la loro «musa acquietante», fatta di «trame» che sono «panie catturanti», cioè colpevoli inganni, e di parole che appartengono a «gerghi scaduti o lingue invase, smemorate».
Nell’impervia sfida di Consolo contro quei linguaggi culmina un’altra sfida, una scommessa purtroppo perduta, quella della grande tradizione letteraria siciliana, che da Verga e De Roberto a Pirandello, da Brancati e Vittorini a Sciascia si sforzò d’innalzare un argine di stile e di moralità, d’intelligenza critica, contro l’omologazione, contro la perdita delle radici e del senso, e a preservare una diversità che, se non è più storica e antropologica, se non è più nei costumi e nella lingua d’una terra frattanto omologata e imbarbarita, resti tale almeno sul piano conoscitivo, intellettuale, della lettura critica del reale, della demistificazione della storia redatta dai vincitori e della lingua mendace del potere.
La scomparsa dello scrittore m’ha portato indietro nel tempo, fino all’ormai lontano 1989, quando proposi al Teatro Stabile di Catania di commissionare ai tre grandi scrittori siciliani allora viventi – Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo – tre atti unici da riunire in un Trittico, che fu messo in scena nel novembre di quell’anno. Sciascia ormai stava male, molto male. Accolse l’invito ma mi pregò di provvedere io alla riduzione drammaturgica d’un suo racconto, Arrivano i nostri, un delizioso divertissement sul trasformismo d’un pugno di notabili siciliani, debitamente reazionari, ma raggiunti nel loro circolo dalla falsa notizia dell’invasione dell’Italia da parte dell’Armata Rossa. Una farsa amara, che concludeva il Trittico – dopo la mesta elegia di Bufalino e l’altisonante tragedia di Consolo – con un sorriso: lo stesso che strappai a Sciascia raccontandogli, all’indomani della prima, del successo e delle risate riscossi dal suo (e mio) Quando non arrivarono i nostri. L’ultimo sorriso, forse: si spense pochi giorni dopo, il 20 novembre. All’alba di quel giorno, fu proprio Consolo a darmi la notizia, per telefono, con voce rotta.
Pure Bufalino si prestò al cimento teatrale, con la sua sovrana sprezzatura da gentiluomo garbato e blasé. Trascrisse lui stesso in forma teatrale un suo racconto, La panchina. In mezzo, tra l’atto unico di Bufalino e quello di Sciascia e mio, un testo nuovo, scritto per l’occasione da Consolo: Catarsi, un testo di alta e impervia poesia, memore addirittura dei tragici greci, di Hölderlin e di Pasolini; un testo che definirei di non ritorno, perciò cruciale nella sua produzione, ché nell’altezza stessa del suo linguaggio certificava l’impossibilità del linguaggio stesso di redimere il mondo dalla comunicazione omologata e asservita al Potere. E perciò drammaticamente prefigurava le successive difficoltà creative di Consolo, dovute non già a impotenza o inaridimento ma a una lacerante consapevolezza della impossibilità della parola di riscattarci dall’insensatezza e dalla menzogna.
Consolo fu il più entusiasta dei tre, il più vicino e partecipe. Non so quanto il pubblico, che si commosse con Bufalino e si divertì con Sciascia, riuscì a capirlo. Ma questa è un’altra storia. Ora conta tornare a quel testo estremo e programmatico, perché rappresentò una cesura nella produzione dello scrittore così com’era un testo-frontiera tra il teatro e il canto, tra la parola e il silenzio, tra la resistenza e la resa, un testo la cui ardua poesia era tutt’uno con la rinunzia di Empedocle al compromesso col potere e con la sua lingua falsa e strumentale, e perciò era tutt’uno col silenzio dell’autoannullamento, della morte.
Il silenzio: forse i grandi scrittori siciliani, coi loro sconsolati ritorni e coi loro travagli espressivi talora paralizzanti (ultimo, per l’appunto, Consolo) provengono dal travaglio della parola poetica di Verga e dal suo struggente spegnersi nel silenzio e nell’amarezza. Anche il silenzio può essere letto come un testo; e tanto più le forme di comunicazione che lo evocano ma senza inabissarvisi, senza rinunziare cioè a quell’estrema mossa della speranza che è la parola che si pone e resta sospesa sulla soglia, che nel momento di spegnersi pronuncia l’indicibile. E la rinunzia al romanzo, quella di Consolo più che quella apparentemente analoga del protagonista del suo ultimo romanzo, che aveva davvero e in toto rinunziato alla scrittura, può dunque essere annoverata e letta all’interno di un’alta tradizione di prosa non romanzesca, che evita cioè la falsa conciliazione del romanzo sette-ottocentesco, eurocentrico, realistico e borghese senza rinunziare a interpretare e giudicare, anzi incrementando per ciò stesso il suo potenziale evocativo e analitico, critico.
Dopo il cimento teatrale di Catarsi e le successive prove saggistiche e narrative, e prima della drammatica impasse degli ultimi anni, questa poetica trovò definitiva e radicale conferma proprio nello Spasimo di Palermo, che chiudeva, col Sorriso e Nottetempo, il trittico nel quale la storia o meglio l’antistoria siciliana delle sconfitte della ragione e della perpetuazione del dominio viene dissezionata e squadernata nelle forme sempre più ellittiche e problematiche, e coscienziali, cioè votate allo scavo interiore, all’interrogazione febbrile, alla vertigine espressiva, di una narrazione polifonica e polisemica, magmatica e metamorfica, insieme ebbra e raziocinante, tramata da brusche cesure e fluidi trapassi.
A me pare che l’ambizione di Consolo sia stata quella di far confluire le due vie maestre, parallele e tuttavia talvolta intersecate, della grande narrativa isolana: quella lirico-evocativa, monodica, e mitizzante, che dalla casa del nespolo portava fino a Vittorini e poi a D’Arrigo, e che lui stesso palesemente proseguiva, e quella, apparentemente a lui più estranea, di tipo analitico e raziocinante: la linea, cioè, De Roberto-Borgese-Brancati-Sciascia, della quale egli adottava la vocazione sperimentale alla contaminazione e al saggismo, accentuandone la vocazione al plurilinguismo. E aspirava a combinarle, quelle due vie, in quell’unicum riassuntivo, ma originale e diverso, che è la sua prosa poetico-critica, insieme analitica ed evocativa, consacrata alle due muse solo apparentemente antitetiche della nostalgia e dell’indignazione, della memoria e del furore civile, delle oltranze espressive e concettuali.
Antonio Di Grado
nella foto: Antonio Di Grado, Vincenzo Consolo e Mariella Lo Giudice
Lucio Zinna intervista Vincenzo Consolo a RAI-Sicilia :1988
Nel 1988 Lucio Zinna curò per la RAI-Sicilia – negli studi di Palermo, allora in Via Cerda – un programma radiofonico in tredici puntate dal titolo “Incontri”/Letteratura, quale autore dei testi e conduttore in studio. Si trattava di uno dei programmi culturali allestiti dalla regista Maria Cefalù, parecchi dei quali si avvalsero della collaborazione del poeta siciliano, nel periodo tra il 1981 e il 1988: ricordiamo (oltre ai testi di alcuni documentari televisivi) i programmi radiofonici: “Poesia oggi” e “Sicilia letteraria” (1981-1982, in collaborazione con Giovanni Cappuzzo), “Sei storie dal reale” (1983), “Questi maledetti poeti” (1984), “Tra il reale e l’immaginario”(1986), “C’era una volta /sei favole di Luigi Capuana” (1988) e altri.
Il ciclo “Incontri”/Letteratura era basato su interviste in studio o telefoniche a personaggi del mondo letterario siciliano e non (fra questi gli scrittori Gesualdo Bufalino, Giovanni Gigliozzi, Andrea Vitello, autore di un’insuperabile biografia di Tomasi di Lampedusa, lo storico Orazio Cancila), con lettura, da parte di attori, di brani tratti da opere alle quali si faceva riferimento. In una di queste trasmissioni, andata in onda il 21 novembre 1988, Zinna intervistò in studio lo scrittore Vincenzo Consolo, di cui era appena uscito il libro di racconti “Le pietre di Pantalica”. Un brano dell’opera fu letto da Gabriella Guarnera. Regia di Maria Cefalù, con la realizzazione tecnica di Saro Cordaro e Nicola D’Addelfio.
Trascriviamo il testo della conversazione da registrazione su nastro magnetofonico.
Buon pomeriggio da Lucio Zinna. Il nostro ospite di oggi, per il ciclo di “Incontri/Letteratura”, è lo scrittore Vincenzo Consolo, del quale è apparso in questi giorni – edito da Mondadori – “Le pietre di Pantalica”. Ci intratterremo con l’autore subito dopo il nostro consueto profilo.
Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933. Conseguita la maturità a Barcellona Pozzo di Gotto, studia legge alla Cattolica di Milano dove si laurea. Torna in Sicilia per dedicarsi all’insegnamento, frequentando nel contempo scrittori come Leonardo Sciascia e il poeta Lucio Piccolo. Nel 1968 si trasferisce a Milano, dove vive tuttora, con frequenti catabasi nella sua terra.
La sua prima opera, “La ferita dell’aprile”, è un romanzo lirico e meta-dialettale apparso nel 1963. Una metafora del transito dall’adolescenza speranzosa alla deludente maturità. L’ambientazione è quella della Sicilia dell’immediato dopoguerra. Del 1976 è “Il Sorriso dell’ignoto marinaio”, edito da Einaudi. Una ricerca archetipica della psicologia dei siciliani, esemplata su un famoso quadro di Antonello da Messina. Il romanzo, ambientato in epoca garibaldina, narra di un esule siciliano, l’Interdonato, che rientra nell’isola sotto mentite spoglie nel 1852, per condurvi la sua lotta antiborbonica. Narra anche di un aristocratico cefaludese, Piraino di Mandralisca. Il sorriso ironico del primo esprime la consapevolezza che ogni spinta rivoluzionaria finisca per frangersi nell’isola contro il pessimismo storico della sua gente. Del secondo è evidenziato invece l’evolversi da un mondo di puri interessi scientifici a quello della dura realtà degli oppressi, con i quali viene casualmente a contatto, fino al suo impegno politico a favore degli oppressi medesimi, specie in occasione di rivolte popolari provocate da irrisolti problemi sociali dopo la spedizione dei Mille.
Del 1985 è “Lunaria”, edizione Einaudi. Una fiaba teatrale in cui il persistente passato barocco di una Palermo settecentesca fa da contraltare al degrado del presente. Due anni dopo appare, presso Sellerio, “Retablo”, esemplare illustrazione di una Sicilia multiforme, proteica, aristocratica e plebea, feudale e rivoluzionaria, classica e illuminista, popolana. Anch’esso ambientato nel ‘700, come ‘Lunaria’, il romanzo si incentra sulla figura di due personaggi: il pittore milanese Fabrizio Clerici (diciamo che Fabrizio Clerici è vivente, ma è collocato, a ritroso, nella vicenda) e il siciliano Isidoro: un monaco smonacato. Sono ambedue innamorati: il primo di una nobildonna, il secondo di una popolana e mantenuta. Consolo pone a confronto due mondi diversi: la Lombardia ricca ed estetizzante e la Sicilia ansiosa di riscatto sociale. Il punto d’incontro è all’interno degli individui, nella spirale dei sentimenti.
“Le pietre di Pantalica” è una coordinata raccolta di racconti nello scenario di una Sicilia variegata nelle sue tinte, ma costantemente dolente per le lunghe offese storiche subite, per le angherie da sempre esercitate sulla povera gente dai proprietari di turno, i quali sono ora baroni ora mafiosi, ciascuno con il loro stile e la loro immagine. Ogni guerra finisce per lasciare immutata la situazione sociale, quasi sulla falsariga di un latifondo solo di recente scomparso, ma riemergente in altre forme, fino a farsi degrado a un passo dall’identità etnica. Un’affascinante e ironica girandola di paesi, di città, di campagne, di personaggi in cui si svolgono le vicende di ieri e di oggi.
La scrittura di Consolo si fonda su una singolare commistione di moduli narrativi, realistici e sperimentali, una scrittura lessicalmente ricca, fluente, che coinvolge il lettore nell’operazione di decodifica del testo. Più comunicative sono queste Pietre di Pantalica, in cui pur si innestano termini dialettali e termini culti, nonché forme verbali elegantemente arcaiche.
Vincenzo Consolo è qui in studio e noi cogliamo la gradita occasione di rivolgergli alcune domande.
Lei è siciliano e vive a Milano. Ci sono scrittori siciliani che hanno dovuto cercare il successo fuori dall’Isola (Vittorini, Quasimodo), altri che hanno dovuto fare la spola tra Sicilia e continente (Sciascia, Cattafi), altri ancora, per singolari circostanze, non si sono mossi dai loro luoghi: Piccolo, Bufalino. Quale è stata la sua iniziale avventura letteraria?
La mia iniziale avventura letteraria credo che abbia avuto degli intenti contrari a quelli che di solito sono avvenuti nella storia, cioè il cammino dal Sud verso il Nord, e la Sicilia in questo senso, come lei ha detto, ha una lunga storia, da Verga a Capuana a De Roberto fino a Vittorini a tanti altri. C’erano, dalla Sicilia, due modi di partire verso la Milano, verso la Lombardia dell’organizzazione sociale e dell’organizzazione culturale, e verso la Roma dove c’era il potere politico, e dove i climi erano molto italiani e molto somiglianti a quelli della capitale siciliana, Palermo. Questi due modi di partire erano anche due modi di concepire la letteratura. Qui è molto lungo indagare le ragioni dell’emigrazione verso Roma o verso Milano. Comunque io, come lei ha ricordato, ho fatto i miei studi universitari a Milano negli anni ’50, negli anni in cui in Italia, dopo il disastro, l’azzeramento della guerra, si ricominciava a ricostruire, come si dice. I miei compagni di Università, allora più o meno più anziani di me forse di qualche anno, e comunque frequentanti lo stesso ambiente, respiranti lo stesso clima di studi e lo stesso clima culturale, si chiamavano De Mita, Misasi, Bianco, si frequentavano gli stessi luoghi. In questa piazza straordinaria che era la piazza Sant’Ambrogio, l’antica piazza del Giusti, della basilica di Giuseppe Giusti, lì, in questa piazza, si incrociavano i vari destini che erano, allora, i destini dell’Italia. C’era lo studente universitario che veniva da questo sud povero, c’era anche l’emigrato che arrivava in questa piazza, perché lì c’era il centro di emigrazione. Questi emigrati venivano prelevati direttamente dalla stazione e portati in questo centro di emigrazione di piazza Sant’Ambrogio e poi spediti in Belgio, in Francia, nelle varie miniere delle varie fabbriche; poi c’era il poliziotto che si arruolava proprio per bisogno perché lì, in questa stessa piazza, c’era una caserma della celere, quindi in queste trattorie letterarie, dove si andava a mangiare poteva capitare di imbattersi nel compaesano. Ecco, io sono andato a Milano perché ho obbedito a una sorta di mitologia letteraria, perché era stata la città di Verga, perché a Milano c’era Vittorini. Poi, dopo finiti gli studi, sono tornato in Sicilia per fare lo scrittore, perché mi interessava naturalmente il mio ambiente storico, il mio ambiente sociale. Sono stato fino al ’68 ma poi ho visto che quest’isola si desertificava, il mondo che mi interessava non c’era più e anch’io ho fatto le valige e sono tornato a Milano perché era l’unica città possibile per me, perché a Milano mi sembrava che allora – proprio ancora sulla spinta della mitologia vittoriniana dell’industria a misura d’uomo, delle sperimentazioni che allora si facevano di industria e letteratura –, mi sembrava, appunto, che a Milano ricominciasse una nuova storia, volevo conoscere questo mondo industriale. Anche questa è stata una mitologia, il crollo di questa mitologia. Intanto io avevo pubblicato il mio primo romanzo e a Milano sono stato proprio per questo sradicamento e per questo reinnesto in un’altra cultura, tredici anni in silenzio, fino a che, dopo avere osservato questo mondo, ho capito che io non potevo scrivere di Milano perché mi mancava la memoria di una società industriale. Però ho potuto esprimere, spero, questo mondo di allora, questo momento storico a cavallo degli anni ’60 e ’70 attraverso la mia memoria, che era la memoria della Sicilia, però in modo metaforico. Scrivendo di questo mondo importantissimo in Sicilia, cioè degli anni attorno il 1860 con l’unità d’Italia, nodo storico in cui ci siamo imbattuti quasi tutti gli scrittori siciliani – da Verga a Pirandello a De Roberto a Lampedusa allo stesso Sciascia –, nodo storico che quasi tutti abbiamo affrontato, perché partendo da lì ci siamo potuti rendere conto di certi mali che sono sociali, di cui soffre la nostra isola… Ho voluto metaforicamente esprimere non solo il mondo siciliano ma il momento storico nazionale, i temi che allora si agitavano erano quelli degli intellettuali di fronte alla storia, quello delle masse popolari esclusi dalla storia che non avevano la parola e temi di questo genere.
Parte per vivere altrove, si porta la Sicilia dentro. Se la porta appresso questa Sicilia?
Si, è il nostro mondo. Io ho sempre detto che esistono due modi di essere scrittore: lo scrittore di superficie e lo scrittore di profondità. Naturalmente questo non implica una valutazione qualitativa, sono modi di essere. Io credo che uno scrittore siciliano non può essere che uno scrittore di profondità, cioè la nostra è una cultura talmente composita, ricca, stratificata, come del resto la nostra storia, che non si può prescindere dal riportare nella scrittura tutto questo mondo che ci ha preceduto. Io ho sempre detto, e ripeto, che noi non siamo figli della natura ma siamo figli della storia; noi nasciamo incisi da dei segni culturali e in Sicilia i segni culturali sono molto importanti, sono molto profondi e sono difficili da eliminare.
Ne ‘Le pietre di Pantalica’ figurano, quali personaggi, alcuni nostri scrittori e poeti, alcuni viventi quali Buttitta e Sciascia, altri scomparsi quali Lucio Piccolo e Antonino Uccello. Cosa è filtrato nella sua opera delle frequentazioni e consonanze con tali personalità?
Mah, sono persone a me care. Io le ho volute raffigurare qui proprio come le persone più rappresentative di un mondo che è quello contadino, di una civiltà che è quella contadina. Sono le persone che più hanno rappresentato questa civiltà e questo mondo che per me ormai è scomparso, e quindi persone anche oggettivamente importanti dal punto di vista poetico.
In prolepsi al racconto “Le Chesterfield” lei cita la seguente considerazione di Sciascia: « […] tutti i miei libri in effetti ne fanno uno, un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione […]». Così Sciascia. È così anche per lei?
Sciascia parla della sconfitta della ragione in senso sociale, nel senso della organizzazione sociale. La sconfitta della ragione lui la rappresenta attraverso tutta la sua letteratura, con la violenza dell’Inquisizione, la violenza fatta all’uomo, l’impostura e tanti altri mali che ci hanno afflitto, parla appunto di sconfitta della ragione dal punto di vista sociale, qui io l’ho voluto riportare alla sua radice letterale, cioè la dialettica fra ragione e follia. Per me che constato i fatti, in un certo senso, mi porterebbero a dire di si, di essere d’accordo con Sciascia. Però io penso e voglio sperare che la storia mi smentisca continuamente. Io credo nella Storia, credo che la storia abbia un andamento flessuoso, dei momenti in cui la linea raggiunge livelli molto bassi, in cui ci sono delle grandi aperture, in cui si aprono dei nuovi orizzonti e si possono nutrire delle grandi speranze. Tutto questo può essere deciso da persone assolutamente pessimiste, ma io, non credendo ad altro, io credo nelle forze progressiste della storia.
Sempre ne “Le Pietre di Pantalica” lei parla di una Palermo-Beirut, una città mattatoio, una città nella quale, sempre sulla scia di tristi avvenimenti, che purtroppo conosciamo bene, gravano ricorrenti e cupi bagliori. Quanto è da addebitare di tale situazione ai palermitani stessi? Intravede qualche segno di ripresa, di risalita?
Queste pagine su Palermo così violente, così assolutamente pessimistiche, non sono altro che la registrazione di una realtà in un determinato momento che era l’estate del 1982. È una invettiva abbastanza violenta che io faccio
ma anche lirica in certi momenti…
anche lirica per certi aspetti si, però questa invettiva così risentita così forte nel tempo non denuncia che un amore mio nei confronti di Palermo, un amore tradito. C’è nei miei libri, sin dal romanzo “Il sorriso dell’ignoto marinaio” … io ho sempre detto che avrei ambientato una parte del libro a Cefalù, l’ho chiamato “la porta verso il mondo palermitano”, che per me è il mondo più bello, più affascinante, più ricco storicamente. Poi è venuto “Lunaria”, anche quello ambientato a Palermo, lo stesso “Retablo” è ambientato a Palermo. È una città che io amo perché è la città più impregnata di storia, più ricca di segni culturali e storici e quindi in questa invettiva c’è una sorte di tradimento di delusione per questo amore mal corrisposto.
[Gabriella Guarnera legge un brano, riguardante Palermo, dal racconto eponimo “Le pietre di Pantalica”]
Chi ha tradito Palermo?
Palermo, si lo sappiamo, è quella che è. C’è anche in questa città, malgrado tutto, malgrado la mafia, adesso voglio dire il quadro non è tutto nero, ci sono dei bagliori bianchi, ci sono dei bagliori di luce e questo si vede in tante cose che avvengono a Palermo nonostante tutto.
Le rivolgo una domanda che lei rivolge a se stesso nella prefazione al libro di Mario Lombardo, “Giudice popolare al Maxi Processo” (Edizione ILA PALMA): ”Come è possibile che qui in quest’isola di tanta cultura, tanta civiltà, ci possano essere mafiosi criminali autori di efferati delitti, di stragi?”. Ecco la domanda che io vorrei rivolgerle è questa. C’è una risposta a questo interrogativo?
Sinceramente io non riesco a rispondere. Quando leggo, sento, assisto a delle atrocità che avvengono in quest’isola civilissima, io ogni volta mi chiedo con raccapriccio, con smarrimento come è possibile che in questa terra così umana, in questa terra che ha prodotto tanta cultura, tanta arte, come è possibile che si arrivi a tali abissi di barbarie. Ecco, io ogni volta non trovo risposta a tutto questo
…è lo sgomento di tutti
si è proprio così, sono domande che smarriscono.
Passiamo a un aspetto più squisitamente letterario. La sua ideale misura narrativa pare consista nel romanzo breve o nel racconto. Si considera uno degli scrittori così detti minimalisti o ritiene queste solo delle vuote formule letterarie o’ da letterati’?
Mah, io non credo a queste formule che ci vengono imposte dall’estero. Non credo ai ‘minimalismi’ di sorta. Nessun minimalismo di sorta. Io credo che la letteratura tratti di fatti minori, minimi, che non c’è bisogno di connotarli con questo termine che è mutuato dall’arte: il Minimalismo. La letteratura è sempre minimalista, perché parla dell’uomo nella vita quotidiana, dell’uomo…
… si scava all’interno della coscienza…
della coscienza nei fatti quotidiani, io credo poi che questo non è più tempo delle grandi narrazioni…
…di stampo ottocentesco…
… di stampo ottocentesco, perché lo spazio letterario è relegato sempre più altrove. Bisogna scandagliare e sapere dov’è questo spazio letterario e io credo che la letteratura oggi, proprio perché questo spazio letterario è invaso da altri tipi di narrazioni quali sono quelli dei media, della radio, della televisione, dei giornali, cose che nell’Ottocento non c’erano. Nell’Ottocento i romanzi-fiume avevano altre esigenze, di informare, anche di supplire a delle scienze, le cosiddette ‘scienze umane’,che allora non esistevano. I romanzi di Balzac informavano, dovevano contenere anche delle cognizioni di ordine sociologico, che oggi assolutamente il romanzo non dà e quindi la letteratura oggi, il romanzo oggi, si interiorizza e diventa sempre più sintetico, sempre più profondo.
Ha appreso qualcosa dagli sperimentalismi, dal neoformalismo degli anni ’60 e ’70 o li ha preceduti di stretta misura, considerato che la “La ferita dell’aprile” è datata 1963, che è un anno ormai ben definito nella nostra storia letteraria?
Io non ho mai amato gli avanguardismi. Io credo di essere figlio della cultura siciliana che è stata sempre sperimentale, da Verga in poi, almeno l’operazione linguistica di Verga: una operazione grandissima e altamente sperimentale. L’avanguardia è una operazione di azzeramento e di cancellazione di tutto quanto ci ha preceduto. Io invece credo nella sperimentazione tenendo presente tutto quanto ci ha preceduto, tenendo presente la storia. Io non ho potuto scrivere – ma come me tanti altri scrittori – non avendo consapevolezza di questa grande letteratura siciliana che ci ha preceduto.
Dialoghi Mediterranei, n.1, aprile 2013
Il sorriso dell’ignoto marinaio e L’ipotesto di libertà.
GUIDO BALDI
Università di Torino
II saggio si propone di esaminare i punti di contatto tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e la novella Libertà (evidentemente presa da Consolo come punto di riferimento), e al tempo stesso le divergenze nell’impostazione del racconto, che risalgono ai diversi orientamenti ideologici dei due scrittori nei confronti della materia, una rivolta contadina. Se in Verga si registra un atteggiamento fermamente negativo verso la sommossa e le sue atrocità, temperato solo dalla pietà per i contadini diseredati, in Consolo invece si nota la volontà di comprenderne le ragioni. Non solo, se in Libertà la rappresentazione appare scarsamente problematica, a causa dell’atteggiamento dell’Autore che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un unica direzione, Consolo conferisce problematicità al racconto grazie all’uso dei punti di vista e delle voci, giocati abilmente a contrasto.
- GLI ANTECEDENTI DELLA SOMMOSSA
Alla base del romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), si colloca una rivolta contadina, quella scoppiata il 17 maggio 1860 in un piccolo paese sui monti Nebrodi, Alcara Li Fusi, provocata come in Libertà,(1) dalle speranze e dalle illusioni nate all’arrivo dei garibaldini in Sicilia. Ma rispetto a Libertà si registra una differenza sorprendente: la sommossa non viene rappresentata. Il romanzo ruota intorno a un vuoto, a una clamorosa ellissi narrativa, che non può non sconcertare il lettore, deludendo le sue attese, specie se si accosta al testo avendo nella memoria quello famoso di Verga. Eppure tutto il congegno narrativo del romanzo, nella sua prima parte, prima di arrivare al momento decisivo, fa supporre che la rappresentazione della rivolta debba essere il culmine del racconto, il suo punto di convergenza centrale, la sua Spannung. Al capitolo terzo, il folle eremita che vive in una grotta sulla montagna incontra nello spiazzo della forgia a Santa Marecùma un gruppo di fabbri e pastori, “omazzi rinomati per potenza di polso e selvaggiume», (2)dai nomi “grottescamente eloquenti di briganti più che di uomini, simili agli antichi epiteti che si davano ai diavoli”
(1) I rimandi alla novella verghiana nel romanzo sono numerosi, pertanto essa, per usare la terminologia genettiana, ne viene a costituire l’ipotesto (GERARD GENETTA. Palinsesti La Letteratura al secondo grado, trad. it.Torino, Einaudi, 1997).
(2) Tutte le citazioni sono tratte dalla seconda edizione del romanzo, Milano, Mondadori, 1997, che reca un’importante Nota dell’autore, vent’anni dopo.
(come nota finemente Giovanni Tesio nel suo commento), (1) «Caco Scippateste Car-cagnintra Casta Mita Inferno Mistêrio e Milinciana», intenti a oliare fucili arrugginiti, a fondere piombo, a riempir cartucce, a ritagliare proiettili, a molare falci, accette, forconi, zappe, coltelli, forbicioni. La scena è interamente colta attraverso il punto di vista dell’eremita, che, se a tutta prima crede di essere capitato all’inferno, pur nella sua esaltazione ha l’intuito pronto e capisce che vi è qualcosa di strano e sospetto in quell’armeggiare. Le stesse risposte dei presenti all’ eremita sono ammiccanti e allusive: alla sua domanda se intendono scannare maiali, rispondono: «- Porci di tutti i tempi, frate Nunzio – Ce n’è tanti – Tanti – Stigliole salsicce soppressata coste gelatina lardo, ah, l’abbondanza di quest’anno”; poi all’altra domanda se l’indomani pensano di fare festa a San Nicola, affermano: «Saltiamo questa volta, frate Nunzio. Non vedete quanto travaglio? […) Faremo festa per il giovedì che viene – Festa – Festazza […J – Scendete dall’eremo, frate Nunzio, e vedrete -». Il clima infernale che avvolge la scena potrebbe far supporre, nell’Autore, l’intento di usare immagini fortemente connotate e subliminalmente suggestive per mettere in risalto il carattere demoniaco della rivolta e così condizionare la reazione emotiva e il giudizio del lettore in una precisa direzione (come avviene in Libertà con la «strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie», che sta innanzi ai rivoltosi ubriachi di sangue); in realtà non si ha nulla del genere: al contrario, usare il punto di vista di un folle delirante, al quale va tutta la responsabilità dell’immagine, ottiene un effetto straniante, per cui l’adunanza dei futuri rivoltosi che preparano le loro armi assume un carattere di fervore gioioso, e la deformazione espressionistica della rappresentazione fa sentire la forza latente e la rabbia repressa che cova in quei diseredati in vista della prossima rivolta. Cosi le immagini gastronomiche da loro usate non hanno il valore delle allusioni verghiane alla ferocia cannibalica della folla affamata, anch’esse cariche di un pesante giudizio sull’ atrocità delle stragi dissimulato nella trama segreta del racconto, ma possiedono qualcosa di pantagruelicamente allegro. Infine le allusioni alla rivolta come festa non hanno nulla a che vedere con il «carnevale furibondo di luglio» di Libertà, ma fanno pensare a uno scatenamento liberatorio di quella forza e di quella rabbia.
Arrivato sulla piazza del paese, l’eremita vede che la caverna piena di gente rovescia per la porta aperta uno sfavillio di luce, «come antro di fornace» (un rimando interno alla forgia di prima), insieme a voci e urla. Da un gruppo che siede sul sedile di pietra, composto dal lampionaio, dall’usciere comunale, dall’inserviente del Casino dei galantuomini e dal sagrestano, il frate apprende il motivo di quella baldoria:
– Un tizio chiamato Garibardo
– Chi e ‘sto cristiano?
- Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re Dioguardi. Sbarca in Sicilia e avviene un quarantotto…
– Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge avanzi di galera
– Questi vanno dicendo che gli da giustizia e terre…
Segno rapido di croce, mani giunte, capo chino e masticare un sordo paternostro
A differenza di Verga, che avvia la narrazione della sommossa in medias res, saltando tutti gli antefatti e partendo con il racconto dei primi atti compiuti dai rivoltosi, il romanzo di Consolo indugia sugli antefatti, sul come il diffondersi delle notizie sullo sbarco
- VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Teso, Torino, Einaudi 1995, p 63, nota 19
di Garibaldi ecciti gli animi dei diseredati e persino, come si è visto, sulla preparazione delle armi per i futuri eccidi. L’impostazione sembra voler insinuare nel lettore l’attesa di ciò che dovrà accadere, la convinzione che la rivolta sarà allo stesso modo diffusamente rappresentata, quasi a rendere poi più sconcertante la delusione delle aspettative. Nel passo citato le notizie dell’arrivo dei garibaldini e delle reazioni da essi provocate sono date attraverso il punto di vista degli uomini d’ordine, che stanno dalla parte dei signori e guardano con esecrazione e paura gli avvenimenti. In Libertà il punto di vista conservatore sul processo risorgimentale è riportato solo mediante un rapido accenno, l’uso spregiativo del verbo «sciorinarono» riferito al tricolore, qui invece quel modo malevolo di interpretare l’impresa dei Mille è proposto con ampiezza, evidentemente per mettere in piena luce una gretta chiusura dinanzi a ogni avvisaglia di cambiamento sociale che dall’alto si irradia verso il basso, contagiando anche i satelliti della classe padronale, come questi modesti paesani che stanno a chiacchierare in piazza.
Quello che nella novella verghiana era un rapido moto di disappunto dell’Autore dinanzi alla sordità dei «galantuomini» ai valori patriottici, qui si fa aperta polemica, ma più contro la chiusura sociale dei conservatori che quella politica. È chiaro da che parte sta lo scrittore.
Ancora al capitolo quinto si ha un’ampia narrazione di un momento preparatorio della sommossa, il raduno dei rivoltosi sempre nella conca di Santa Marecúma, la sera precedente il giorno fissato. Giungono tre uomini a cavallo, due «civili» e un capo dei braccianti, che sono i capi della rivolta e tengono i loro discorsi alla folla. Grazie ad essi si delineano non solo le motivazioni dell’insurrezione, ma anche le correnti per cosi dire ‘ideologiche’ che l’attraversano. Mentre in Libertà non emergono figure di capi e i contadini sono presentati come una massa spinta da impulsi ciechi e del tutto spontanei, una collettività indifferenziata in cui vi è una perfetta unità di intenti nella pura esplosione di rabbia selvaggia e di irrazionale furia distruttiva (tanto che viene escluso dal racconto il dato storico dell’avvocato Lombardo, l’ideologo e l’organizzatore del moto), qui Consolo ha cura di presentare le varie tendenze che, almeno nei capi, si profilano tra la collettività rurale. Don Ignazio Cozzo, borghese e sommariamente “alletterato”, cioè almeno capace di leggere e scrivere, rappresenta la tendenza a conciliare le spinte più radicali e le posizioni più moderate: il fine ultimo è una conciliazione delle istanze di giustizia sociale, rivolte contro l’oppressione della classe dei proprietari, con il riconoscimento delle autorità istituzionali, monarchia e Chiesa. Con tutto questo, l’oratore sa toccare le corde più sensibili dell’uditorio, facendo leva sui suoi impulsi più violenti, e invita a non farsi fermare da «pietà o codardia», perché grande è la «rabbia«, dopo anni di «sopportazione”, ordinando a ciascuno, al segnale stabilito, «Viva l’Italia!«, di scagliarsi «sopra il civile che si troverà davanti«. Poi, sempre come spia del relativo moderatismo di questa tendenza, l’oratore da appuntamento a tutti, a mezzanotte, per un solenne giuramento sopra il Vangelo, davanti a un ministro di Dio, il parroco del Rosario.
A contrastare questa linea insorge l’altro oratore, non un borghese ma il capo dei braccianti, Turi Malandro, che rappresenta le tendenze più estremistiche del movimento. Innanzitutto rifiuta il grido di «Viva l’Italia!« come segnale della sommossa, proponendo invece «Giustizial»: all’impostazione istituzionale, patriottica, contrappone quella sociale, eversiva dei rapporti di proprietà, perché giustizia in quel contesto significa sostanzialmente redistribuzione della terra. Una linea dura e spietata prospetta anche per l’azione: avverte che sarà facile lo «scanna scanna pressati dalla rabbia», il difficile verrà dopo, quando «il sangue, le grida, le lacrime, misericordia, promesse e implorazioni potranno invigliacchire i fegati più grossi. Non bisogna dunque cedere alla pietà: «Se uno, uno solo si lascia brancare da pena o da paura, tutta la rivoluzione la manda a farsi fottere». Se in Libertà la ferocia senza pietà dei rivoltosi era solo effetto di rabbia spontanea e di odio accumulato contro gli oppressori, qui la violenza non appare cieca, ma preordinata, teorizzata, ideologizzata, Non si ha una massa irrazionale, ma una forza organizzata, indirizzata verso obiettivi precisi, consapevole dei propri strumenti di lotta. In entrambi i casi gli atteggiamenti ideologici degli Autori verso la massa popolare, le posizioni conservatrici di Verga e quelle di sinistra di Consolo, non condizionano solo le tecniche narrative della sua rappresentazione, ma determinano la fisionomia stessa dell’oggetto rappresentato.
Il borghese don Ignazio sa muoversi con destrezza in questo dibattito con il suo contraddittore più estremista: accetta la parola d’ordine «Giustizia!», declassandola però a puro segnale convenzionale, al pari dell’altra, «Viva l’Italia!», Si allinea sulle posizioni anticlericali del capo bracciante, proclamando: «Siamo contro il Borbone e i servi suoi, ma anche contro la chiesa che protegge le angherie e i tiranni», ma distingue tra i preti «amici e soci degli usurpatorio e preti liberali come il parroco del Rosario. Insinua poi ragioni di opportunità, in quanto il prete è parente di un capitano che segue Garibaldi, e i rivoltosi non possono fare a meno della protezione dei garibaldini, che sono in grado di legittimare il loro operato agli occhi del mondo.
Ultimo preannuncio della sommossa è alla fine del capitolo l’incontro del gruppo di braccianti e pastori nel paese con un «civile», il professor Ignazio, figlio del notaio don Bartolo, il più odiato dei notabili, che alloro passaggio getta loro provocatoriamente in
Faccia i suoi scherni («Ah, che puzzo di merda si sente questa sera.»), ai quali fa eco, ripetendo le stesse parole, il figlio quindicenne. Tutti impugnano i falcetti, le zappe e le cesoie, pronti alla reazione violenta, ma uno di essi, più padrone di sé, riesce a conte nerne l’impeto, invitandoli a portare pazienza sino all’indomani. E il gruppo prosegue con i denti serrati, soffiando forte dal naso «per furia compressa e bile che riversa», È l’ultima immagine della rabbia che sta per esplodere.
2. L’ELLISSI NARRATIVA
A questo punto, dopo così ampi indugi preparatori, il lettore si sente legittimato ad aspettarsi subito dopo il racconto dettagliato della sommossa, Invece non trova nulla del genere: il capitolo successivo è costituito da una lunga lettera del barone di Mandralisca, già protagonista del primo, secondo e quarto capitolo, che per le sue ricerche di naturalista si è trovato sul luogo degli eventi e mesi dopo, a ottobre, scrive all’amico Giovanni Interdonato, procuratore dell’Alta Corte di Messina che dovrà giudicare gli insorti scampati alla fucilazione sommaria, come preambolo a una memoria che intende compilare sui fatti di Alcara. E evidente allora che il principale problema interpretativo proposto dal Sorriso dell’ignoto marinaio è capire le ragioni di questa clamoroSa ellissi narrativa e la sua funzione strutturale nell’economia dell’opera.
La lettera del barone è il centro ideale del romanzo, e in essa si possono rinvenire le ragioni dell’ellissi, del fatto che lo scrittore rinunci sorprendentemente alla rappresentazione della rivolta popolare, II Mandralisca vorrebbe narrare i fatti come li avrebbe narrati uno di quei rivoltosi, e non uno come don Ignazio Cozzo, «che già apparteneva alla classe de’ civili», ma uno «zappatore analfabeta». In questo proposito dell’aristocratico intellettuale si può intravedere un’allusione alla tecnica abituale delle narrazioni verghiane incentrate sulle «basse sfere», che consiste proprio nell’adottare una voce narrante al livello stesso del personaggi popolari (tecnica peraltro solo parzialmente applicata in un testo come Libertà, par dedicato a una sommossa contadina, poiché per buona parte il narratone terno al piano del narrato è portavoce dei «galantuomini»).
Ma il barone, che qui diviene il narratore in prima persona (con un passaggio al racconto omodiegetico, mentre i capitoli precedenti erano affidati a un narratore eterodiegetico), scarta decisamente questa possibilità: «Per quanto l’intenzione e il cuore siano disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo, Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta». Qui chiaramente il barone è alter ego e portavoce dell’Autore stesso: se ne può dedurre facilmente che Consolo rinuncia a narrare la sommossa perché è convinto che una simile operazione, condotta da lui, intellettuale borghese, viziato nella sua visione dalla sua posizione di classe, dalle «storture» che le sono connaturate, sarebbe un «impostura», non sarebbe in grado di riprodurre le ragioni che hanno determinato l’evento, anzi ne tradirebbe inevitabilmente il senso, risolvendosi in una mistificazione. Il barone rintuzza poi l’obiezione che ci sono le istruttorie, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze: «Chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere»; e anche se esistesse uno strumento meccanico capace di registrare quelle voci, come il dagherrotipo fissa le immagini, «siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta: poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi», e non solo sul piano linguistico: «Oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere e del sentire e risentire di tutta questa gente?»
Il discorso del barone passa poi a toccare un altro punto di centrale rilevanza, strettamente legato al precedente: l’impossibilità per i privilegiati, anche per quelli «illuminati», di condividere i valori fondamentali, soprattutto quelli politici e culturali, con le classi subalterne. Essi ritengono come unico possibile il loro codice, il loro modo di essere e di parlare che hanno «eletto a imperio a tutti quanti «Il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia e quello d’un’utopia sublime e lontanissima…». Per questo la classe dominante parla di rivoluzione, libertà, eguaglianza, democrazia, e riempie di quelle parole libri, giornali, costituzioni, leggi, perché quei valori li ha già conquistati, li possiede. Ma le classi subalterne sono estranee a quei valori, non possono parteciparli: «E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro?». Quei valori non possono essere semplicemente calati dall’alto: le classi subalterne devono da sole conquistarseli, e allora «li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocotorza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose»; e allora «la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, non voi, Interdonato, o uno scriba assoldato. tutti per forza di nascita, per rango o disposizione pronti a vergar su le carte fregi. svolazzi, aeree spirali, labirinti…* Quindi, per il barone, il riscatto dei subalterni varrà a riscattare gli stessi privilegiati, ridando verginità e sostanza autentica a valori che rischiano di ridursi, nelle loro mani, a meri flatus vocis inconsistenti o a vacue ornamentazioni retoriche. Se gli intellettuali non possono non mistificare la storia degli oppressi con la loro scrittura, la scrittura autentica di tale storia non potrà essere che degli oppressi stessi, quando avranno conquistato gli strumenti concettuali attraverso l’istruzione e l’emancipazione dalla loro subalternità.
Risulta evidente, da tutte queste riflessioni del barone di Mandralisca, e dietro di lui dello scrittore, la distanza ideologica che, sul tema comune della rappresentazione di una rivolta contadina, separa il romanzo di Consolo da Libertà. Verga, dal suo punto di vista di conservatore deluso e pessimista, registra con la sua gelida oggettività, che tradisce una desolata amarezza, l’estraneità dei contadini ai valori risorgimentali, il loro ridurre l’ideale di libertà alla semplice redistribuzione della proprietà della terra. Consolo invece, da una prospettiva storica che, grazie alla conoscenza dell’ampio dibattito intervenuto nel frattempo, ha ben chiari i limiti del Risorgimento, specie nei suoi riflessi sul Mezzogiorno, e soprattutto considerando la rivolta contadina da tutt’altra angolatura, quella dell’intellettuale di sinistra, arriva a comprendere le motivazioni profonde di quella estraneità e a giustificarla storicamente e socialmente. Non solo, ma in chiave di materialismo storico attribuisce agli aspetti materiali, cioè proprio alla terra, un peso determinante rispetto agli ideali astratti. Il barone nel 1856 aveva partecipato ai moti patriottici di Cefalù, ed ora rievoca le figure degli eroi e dei martiri che allora avevano dato la vita per la causa: «Io mi dicea allora, prima de’ fatti orrendi e sanguinosi ch’appena sotto comincerò a narrare, quei d’Alcara intendo, finito che ho avuto questo preambolo, io mi dicea: è tutto giusto, è santo. Giusta la morte di Spinuzza, Bentivegna, Pisacane… Eroi, martiri d’un ideale, d’una fede nobile e ardente». Però ora, sotto l’impressione sconvolgente della sommossa di Alcara, è assalito da dubbi: «Oggi mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale? Un’astrattezza, una distrazione, una vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento.. Una lumaca.” La lumaca, l’oggetto dei suoi studi eruditi e futili, è assunta dal barone come immagine del vuoto sterile di una cultura di classe c, nella sua forma a spirale(1) che si chiude su se stessa, «di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine». Per cui alla lumaca contrappone ciò che è solido e concreto, la terra: «Perché, a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna: e questo riporta il suo pensiero alla rivolta dei contadini: «Ah la terra! È ben per essa che insorsero quei d’Alcàra, come pure d’altri paesi, Biancavilla, Bronte, giammai per lumache», cioè per ideali astratti e retorici.
Inoltre, mentre il pessimismo induce Verga a essere profondamente scettico su una diversa organizzazione della società, e quindi a convincersi che un’eventuale redistribuzione della terra porterà comunque allo scatenarsi della lotta per la vita e a nuovi sopraffattori, scaturiti dalla massa popolare stessa, che si sostituiranno agli antichi, Consolo per bocca del suo aristocratico illuminato prospetta come una conquista determinante l’accesso dei contadini alla terra, nella prospettiva di una distruzione della proprietà privata, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», distruzione che il barone vagheggia rifacendosi alle idee di Mario Pagano e di Pisacane, citato testualmente: «Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza che la Natura ha pronunciato per bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa». Se Libertà ha alla base la negazione di ogni possibilità di progresso, dalle
- Sull’importanza della figura della spirale nel romanzo si veda CESARE SEGRE, La costruzione a chioccola del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo, in IDem, Intrecci di voci La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino. Einaudi, 1991, pp 71-86. Per una complessa interpretazione in chiave antropologica, si rimanda a Giuseppe Traina, Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo, 2001, pp. 60 sgg
parole del barone risalta una ferma fiducia nel progresso, in senso sociale, come riscatto delle masse oppresse ad opera delle masse stesse, capaci di distruggere il sistema iniquo della proprietà privata avviando a una totale rigenerazione del mondo: «Per distruggere questa i contadini d’Alcàra si son mossi, e per una causa vera, concreta, corporale: la terra: punto profondo, onfalo, tomba e rigenerazione, morte e vita, inverno e primavera, Ade e Demetra e Kore, che vien portando i doni in braccio, le spighe in fascio, il dolce melograno…. E, in questo proiettarsi in un futuro ritenuto possibile, la cui immagine lo esalta, la sua prosa diviene lirica, enfatica, infarcita di rimandi classici e mitologici, tradendo la sua natura di letterato: la scelta stilistica dello scrittore, che mima lo stile del personaggio stesso, vale a denunciare, mediante un processo di distanziamento e di straniamento, quanto di cultura aristocratica ed elitaria permanga nel nobile, nonostante la sua apertura ideologica, quindi a sottrarlo a ogni rigidezza esemplare e apologetica, a presentarlo in una luce critica (ma su questo dovremo ritornare).
Per la presa di coscienza dell’impossibilità di narrare i fatti di Alcara, «se non si vuol tradire, creare l’impostura», al barone «è caduta la penna dalla mano»: rinuncia pertanto all’idea di stendere quella memoria sullo svolgimento della sommossa che intendeva sottoporre all’amico Interdonato, procuratore dell’Alta Corte. Si limita a invitarlo ad agire «non più per l’Ideale, si bene per una causa vera, concreta», «decidere della vita di uomini ch’ agiron si con violenza, chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze daltri, secolari, martiri soprusi angherie inganni. ». Ed in effetti il procuratore, rispondendo alla sollecitazione dell’amico, manda liberi i rivoltosi per amnistia, con un’ardita interpretazione di una legge del governo dittatoriale che assolveva da delitti commessi contro il regno borbonico. Evidentemente è significativa questa soluzione adottata da Consolo, se paragonata a quella di Libertà: Verga insiste sul processo in cui i rivoltosi, giudicati da giudici ostili per pregiudizio di classe, subiscono pesanti condanne, nel romanzo di Consolo invece essi (a parte quelli fucilati subito da una commissione speciale, come quelli fatti giustiziare da Bixio nella novella) non subiscono pene. In entrambi i casi viene rispettata la realtà storica: ma è importante che Consolo abbia scelto un fatto conclusosi con una soluzione positiva, grazie all’apertura illuminata di chi rappresenta la giustizia, mentre Verga abbia optato per un fatto risoltosi negativamente. Lo scrittore di sinistra punta cioè su un episodio che consente un’apertura verso il futuro la speranza in un ordine diverso in cui la giustizia non sia solo vendetta di classe, mentre Verga sceglie un episodio storico che conferma il suo pessimismo negatore di ogni prospettiva verso il futuro (e che lascia solo un margine alla pietà per le vittime di una giustizia ingiusta).
Se rinuncia a narrare l’evento in sé, il Mandralisca ritiene agevole e lecito parlare solo «de’ fatti seguiti alla rivolta», «in cui i protagonisti, già liberi di fare e di disfare per più di trenta giorni, eseguir gli espropri e i giustiziamenti che hanno fatto gridar di raccapriccio, ritornano a subire l’infamia nostra, di cose e di parole», cioè le fucilazioni sommarie e poi il processo a Messina. Per cui, come il romanzo rappresenta la preparazione della sommossa, così si sofferma sul quadro spaventoso del paese devastato da essa: le tombe del convento dei cappuccini scoperchiate, con i cadaveri sparsi all’aria aperta. la fontana con le carogne a galla nella vasca, «macelleria di quarti, ventri, polmoni e di corami sparsi sui pantani e rigagnoli dintorno, non sai di vaccina, becchi, porci, cani o cristiani», poi nella piazza del paese «orridi morti addimorati» che «rovesciansi dall’uscio del Casino e vi s’ammucchiano davanti, sulle lastre, uomini fanciulli e anziani. Pesti, dilacerati, nello sporco di licori secchi, fezze, sughi, chiazze, brandelli, e nel lezzo di fermenti grassi, d’acidumi, lieviti guasti, ova corrotte e pecorini sfatti. Sciami e ronzi di mosche, stercorarie e tafani.. Su questo turpe ammasso si avventano cornacchie, corvi, cani sciolti, maiali a branchi, «briachi di lordura», un «vulturume» «piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo», «si posa sopra i morti putrefatti» affondando il rostro e strappando «da ventre o torace, un tocco», poi «s’ erge, e vola via con frullio selvaggio», mentre passa una carretta guidata da garibaldini, che costringono gli astanti i caricarvi i morti per portarli al cimitero. Consolo insiste su particolari orrorosi e ripugnanti ben più di quanto non faccia Verga, ma mentre in Libertà lo scrittore soffermandosi sulle atrocità punta a suscitare nel lettore reazioni emotive di sdegno e raccapriccio con tecniche di suggestione sotterranea, qui più che l’orrore in sé è in primo piano chi lo osserva, cioè il barone, con il suo atteggiamento dinanzi allo spettacolo: vale a dire che i brani descrittivi, come crediamo risulti chiaramente dalle citazioni, sono in primo luogo esercizi di bravura stilistica intesi a mimare il particolare idioletto dell’aristocratico intellettuale. L’orrore insomma è allontanato di un grado, sempre per presentare il personaggio filtro del racconto in una prospettiva critica, per equilibrarne l’eccessiva positività ed evitarne un ritratto apologetico, mostrando attraverso il linguaggio i limiti storici della sua cultura.
Alla prospettiva del barone, aperta a comprendere con acuta intelligenza politica e sociale le ragioni della rivolta, è contrapposta subito dopo la prospettiva contraria di chi conduce la repressione. Viene cioè riportato il discorso che il colonnello garibaldino, che già con l’inganno aveva indotto i rivoltosi a deporre le armi per arrestarli, rivolge alla popolazione del paese raccolta in chiesa, dopo il Te Deum di ringraziamento per la fine dei disordini. Nelle sue parole i prigionieri incatenati «non sono omini ma furie bestiali, iene ch’approfittaron del nome sacro del nostro condottiero Garibaldi, del Re Vittorio e dell’Italia per compiere stragi, saccheggi e ruberie. lo dichiaro qui, d’avanti a Dio, que’ ribaldi rei di lesa umanità. E vi do la mia parola di colonnello che pagheranno le lor tremende colpe que’ scelerati borboniani che lordaron di sangue il nostro Tricolore. […] L’Italia Una e Libera non tollera nel suo seno il ribaldume». La registrazione di queste parole, con tutto il loro livore forcaiolo, che arriva alla mistificazione di bollare come «borboniani» i rivoltosi, ha il compito di denunciare come i garibaldini non fossero solo i paladini dell’ideale, e tanto meno i portatori di una palingenesi sociale, come si erano illusi i contadini, ma semplicemente venissero a imporre un ordine solo esteriormente nuovo, che in realtà riproduceva in forme diverse l’oppressione di classe precedente. Un’opposizione così forte tra la prospettiva illuminata dell’intellettuale e quella reazionaria del militare portavoce degli interessi del nuovo ordine non può essere priva di significato: occorrerà quindi riflettere sul gioco di punti di vista congegnato dallo scrittore e cercar di capire la sua funzione nella struttura del testo. Però prima è necessario mettere in luce una più ampia opposizione che l’Autore costruisce per chiudere il romanzo, e che presenta caratteristiche analoghe, suscitando gli stessi problemi interpretativi.
3. LA SOMMOSSA ATTRAVERSO LE VOCI DEI PROTAGONISTI
Se il barone rinuncia a descrivere la rivolta per l’impossibilità di narrare come narrerebbero i contadini senza determinare un tradimento mistificatorio, alle voci dei rivoltosi viene egualmente dato spazio nel romanzo. Il Mandralisca infatti, recatosi nel castello dove erano stati rinchiusi i prigionieri, trascrive le scritte da essi tracciate col carbone sui muri del sotterraneo. È come il primo passo verso la realizzazione dell’auspicio formulato dal barone, che i subalterni dovranno scrivere da sé la propria storia.
In tal modo, attraverso le voci dirette dei protagonisti, emergono momenti fondamentali della sommossa e viene in qualche modo colmato il vuoto dell’ellissi che ne aveva cancellato la narrazione
Dalle scritte affiorano, in forme elementari e sintetiche ma cariche di una forma dirompente, le ragioni della rivolta, l’odio per i possidenti, la rabbia per i soprusi e le ruberie ai danni dei diseredati, al tempo stesso, per rapidi ed essenziali scorci, si profilano gli episodi più atroci, che sono affini a quelli descritti da Verga, ma invece di essere affidati a un narratore non neutrale, che indulge su determinati particolari per condizionare sottilmente il giudizio del lettore, sono lasciati, senza filtri, alle parole secche degli autori stessi delle efferatezze, al momento di scrivere ancora pienamente sotto l’impulso dell’odio che allora li aveva mossi. Unica eccezione è la seconda scritta, che solo all’inizio inveisce contro proprietari, pezzi grossi del consiglio comunale, parroci e «civili» che si sono appropriati delle terre del Comune escludendo chi ne aveva diritto, sia «galantuomini» sia «poveri villani»: chi scrive è un «galantuomo» egli stesso che, pieno di rabbia per essere stato estromesso dalla spartizione, ha capeggiato la rivolta, ma ora confessa di essersi pentito del processo devastante a cui aveva dato origine («Aizzai gli alcaresi a ribellarsi / ah male per noi / nessuno fu più buono / di fermare la furia / dei lupi scatenati), per cui chiede perdono a tutti. L’immagine dei «lupi» scatenati sembra proprio un intenzionale rimando, da parte dello scrittore, al lupo «che capita affamato nella mandra» di Libertà: ma certamente un suono diverso ha la stessa immagine usata da un narratore portavoce delle classi alte vittime della rivolta, delegato a esprimere l’esecrazione, il disprezzo e la paura che esse nutrono per la furia popolare, oppure impiegata da chi è stato dentro la sommossa e ora prende coscienza delle atrocità commesse, provandone orrore.
La scritta successiva evoca l’uccisione del nipote del notaio, al presente, come se chi scrive rivivesse in quel momento l’atto compiuto e ancora ne godesse: «Puzza di merda a noi / la sera di scesa nel paese / stano turuzzo / nipote del notaro / strascino fora / serro colle cosce / sforbicio il gargarozzo / notaro saria stato pure lui». Anche qui si inserisce un’evidente allusione a Libertà: la conclusione della scritta ripete quasi testualmente l’affermazione nella novella verghiana proferita da uno della folla dinanzi al figlio del notaio abbattuto con un colpo di scure dal taglialegna: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!». Ma proprio il collegamento esplicito fa risaltare la distanza fra le due impostazioni del racconto. In Verga la registrazione della frase vale a gettare una luce sinistra sul cinismo disumano dei rivoltosi, qui invece la stessa frase riflette solo la comprensibile indignazione dell’oppresso contro gli oppressori e il suo bisogno di giustizia.
Inoltre in Libertà il ragazzo trucidato è biondo come l’oro, notazione che mira a conferire alla vittima qualcosa di puro e angelico, e quindi a potenziare il patetismo del racconto e a suscitare raccapriccio per la barbara uccisione dell’innocente; nel romanzo di Consolo invece questo ragazzo, nell’episodio a cui la scritta fa inizialmente riferimento, appare come una figura laida, ripugnante sia moralmente sia fisicamente: la sera prima della rivolta aveva schernito provocatoriamente, a imitazione del padre, pastori e fabbri al loro passaggio in piazza, sostenendo di sentire puzzo di merda, rivelando cosi l’odioso disprezzo della sua classe di privilegiati per i poveracci, per di più era descritto «grasso come ‘na femmina, babbaleo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio», ed era definito spregiativamente «garrusello», cioè effeminato. È evidente la volontà di rovesciare l’impostazione verghiana. Già nell’episodio della vigilia la figura appariva ignobile perché presentata attraverso la prospettiva dei villani insultati e la loro reazione furibonda, come rivelava il linguaggio adottato, che mimava quello dei villani stessi; poi nella scritta la descrizione dello sgozzamento viene subito dopo la rievocazione degli insulti, a far sentire come l’atto atroce sia scaturito dalla rabbia ancora viva e cocente per l’affronto subito da parte del rappresentante degli oppressori: per cui nella rievocazione dell’eccidio non si innesca alcuna reazione emotiva di commozione e sdegno per l’innocente trucidato, in quanto la vittima non è innocente per nulla, anzi, si ricava l’impressione che la feroce vendetta sia in qualche modo giusta.
Le altre scritte ricalcano sostanzialmente lo stesso schema, evocazione delle angherie ed efferata punizione. Un’ulteriore eco di Libertà è il giovane Lanza che cade senza un lamento, con gli occhi sbarrati «che dicono perché», e rimanda al don Antonio di Verga che cade con la faccia insanguinata chiedendo «Perché Perché mi ammazzate?.
L’ultima scritta, riportata inizialmente nel dialetto alcarese, afferma che «u populu
“ncazzatu ri Laccara» e degli altri paesi siciliani ribellatisi «nun lassa supra a facci ri ‘sta terra/manc’ ‘a simenza ri/ surci e cappedda», e termina nell’antico dialetto di Sanfratello, di origine lombarda: «mart a tucc i ricch / u pauvr sclama / au faun di tant abiss / terra pan / l’originau è daa / la fam sanza fin / di / libirtâá». La parola conclusiva, «libirtãà, sembra ancora un rimando al testo verghiano, ma se là risultava usurpata dai contadini che la intendevano solo come appropriazione delle terre, qui la libertà è decisamente identificata con la terra che dà pane, in coerenza con il discorso fatto in precedenza dal barone, inteso a rivendicare la base materiale che assicura contenuto reale a autentico ai valori ideali.
Il romanzo però non termina qui: dopo la riproduzione delle scritte, vi sono ancora tre appendici di documenti, di cui uno assume un’importante funzione strutturale. si tratta di un libello, a firma di tal Luigi Scandurra, pubblicato a Palermo nel 1860, che contiene una violenta requisitoria contro la decisione del procuratore di mettere in libertà gli accusati. Qui i fatti di Alcara sono presentati in una ben diversa luce rispetto alle parole del barone di Mandralisca e alle scritte sui muri del carcere: i rivoltosi sono definiti «una mano di ribaldi», «un orda di malvaggi [sic], spinti dal veleno di private inimicizie, e dal desio di rapina» che «assassinò quanti notabili capitò [sic] nelle sue mani. saccheggiando e rubando le loro sostanze e le pubbliche casse,
Come si vede la sommossa, dopo essere stata rievocata dall’interno, con le parole dei protagonisti stessi, viene presentata da un punto di vista opposto, quello degli uomini d’ordine, ferocemente ostili al moto popolare, di cui forniscono un quadro deformante, riducendone le cause a motivazioni ignobili di interessi personali e descrivendo gli oppressori come persone di specchiata virtù e come innocenti agnelli sacrificali. Però non si direbbe che la registrazione dei due opposti punti di vista, come già al capitolo settimo la contrapposizione tra la prospettiva del barone e quella del colonnello garibaldino, risponda a intenti di equidistanza e neutralità, come avviene in Libertà, dove a tal fine si alternano il punto di vista dei «galantuomini» e quello dei rivoltosi. La posizione dello scrittore si offre molto netta. Non vi è dubbio, come testimonia tutta l’impostazione del romanzo, che egli voglia presentare in una luce positiva il barone e abbia un atteggiamento estremamente aperto e disponibile verso la rivolta e le sue ragioni, nonostante ne sottolinei chiaramente i limiti politici e le atrocità, e che per converso la riproduzione del libello e dei discorsi dell’ufficiale assuma una forte valenza critica: i conservatori, attraverso la pura registrazione delle loro parole, della loro bolsa retorica, del loro lessico pomposo e approssimativo, delle loro sgrammaticature, denunciano tutto il loro livore forcaiolo e il loro squallore intellettuale e morale. Ma mentre Verga a dispetto dei propositi di obiettività punta su immagini e particolari di forte valore connotativo ed emotivo, che,
suggestionino nel profondo il lettore condizionandone il giudizio, Consolo al contrario, proprio con il gioco dei punti di vista, mira a suscitarne non l’emotività ma la riflessione razionale e la valutazione critica, quindi riesce a preservare la problematicità della rappresentazione.
L’analisi e del romanzo di Consolo a confronto della novella di Verga conferma quanto era facile aspettarsi, conoscendo le rispettive posizioni ideologiche dei due scrittori: cioè che la trattazione della sommossa contadina è condotta con tecniche di rappresentazione e assume una peculiare coloritura in rispondenza a tali posizioni. I rischi insiti nel pessimismo fatalistico di Verga, di ascendenza conservatrice, non sono stati interamente evitati in Libertà, come prova la scarsa problematicità della rappresentazione, dovuta all’atteggiamento autoritario del narratore, che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un’unica direzione (prima esecrazione per sommossa e poi pietà per gli autori delle efferatezze divenuti vittime). Ma rischi simmetrici ed equivalenti erano impliciti nell’ideologia di Consolo: l’impostazione “da sinistra’ poteva dare adito egualmente a rappresentazioni rigidamente univoche e a procedimenti manipolatori, oppure a soluzioni predicatorie, parenetiche, pedagogiche, propagandistiche, come testimonia certa narrativa sociale dell’Ottocento oppure del neorealismo novecentesco.
Ci sembra di poter concludere che tali rischi sono stati da Consolo evitati:(1) a ciò ha contribuito proprio la scelta dell’ellissi narrativa, la rinuncia a una descrizione diretta della sommossa, che sarebbe stata piena di insidie difficili da evitare; vi ha inoltre cooperato il gioco dei punti di vista, tra la prospettiva alta dell’aristocratico, aperto alle istanze popolari però ben consapevole dei rischi di una scrittura che scaturisse dalla cultura dei privilegiati, la voce diretta dei subalterni affidata alla riproduzione testuale delle scritte sui muri del carcere, ed ancora la voce dei conservatori rappresentata dalle tirate reazionarie del principe Maniforti contro la disonestà e le ruberie dei villani, dal discorso del colonnello garibaldino e dal libello contro la scarcerazione degli imputati.
(1) Su questo la critica é in genere concorde. Per Romano Luperini «attraverso il linguaggio, Consolo riesce a scrivere un romanzo politico senza invadenza alcuna di ideologia» (Romano Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, pag.868), tesi ripresa dal critico più di recente: «Lo sforzo polifonico di Consolo […] nasceva da un intento realistico di conoscenza e di giudizio (Toma, Rinnovamento e restaurazione del codice narrativo nell’ultimo trentennio: prelievi testuali da Malerba, Consolo, Volponi, in I tempi del rinnovamento, Atti del Convegno Internazionale Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, ( a cura di Serge Vanvolsem. Franco Musarra, Bart Van den Bossche, Roma, Bulzoni, 1995, p. 544), Per Massimo Onofri, in Consolo cultura e politica, letteratura e ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a se stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria. Il critico richiama poi il rifiuto, da parte del protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano, dei versi di Rapisardi, il quale ricapitola in sé ‘tutti i tratti di una poesia civile e politica per cosi dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione»: Consolo invece è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. […] Ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si gioca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti, «attraverso un’oltranza di stile»; la sua «è una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza» (Massimo Onofri, Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in ldem. Il sospetto della realtà, Saggi e paesaggi italiani novecenteschi,
Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, pp. 195-197)
CRONACHE SICILIANE DI VINCENZO CONSOLO
CRONACHE SICILIANE DI VINCENZO CONSOLO
Tanti anni fa Vincenzo Consolo raccontò di quando, da giovane, correva alla stazione del suo paese natale, Sant’Agata di Militello, «ad aspettare il “mio” giornale, il giornale dell’altra Sicilia, quella vera e storica della cultura e della speranza: “L’Ora”. Dalla sua cronaca apprendevo ora con gioia, ora con raccapriccio, delle occupazioni delle terre, delle uccisioni dei sindacalisti, della mafia, di Danilo Dolci, di Li Causi».Il grande scrittore siciliano è morto il 21 gennaio dell’anno scorso a Milano, lontano dalla sua isola amata e disamata. L’editore Sellerio, per l’occasione, ha pubblicato in volume gli articoli che Consolo scrisse sull’«Ora» in diversi periodi della vita: Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, con una prefazione di Salvatore Silvano Nigro (pp. 243, 13). Negli anni, Consolo collaborò a diversi giornali, «Tempo illustrato», «Il Messaggero», il «Corriere della Sera», «L’Unità», «il manifesto», ma per lui «L’Ora» fu sempre la voce di casa, il foglio più consonante, «il mio giornale», appunto. E sarebbe stato forse questo il titolo da dare alla raccolta uscita adesso, di grande interesse per la biografia dello scrittore.È una lezione di umiltà per Consolo il giornalismo. Non aveva, nei suoi confronti, la puzza sotto il naso di tanti letterati che disprezzano e insieme ambiscono a scrivere sui giornali. «Altro che dorata e comoda distanza, altro che metafora della scrittura letteraria! Com’è difficile il mestiere di giornalista e di giornalista in una città come Palermo, e in un giornale come “L’Ora”» scrisse.Il linguaggio, nei suoi romanzi, è essenziale. Ma nei suoi articoli dimentica del tutto il suo espressionismo barocco, usa soltanto l’italiano limpido e chiaro. Collaborò all’«Ora» dal 1964 e seguitò a scrivere su quel giornale della sinistra fin quando chiuse i battenti. Nel 1975 ? stava per finire, inquieto, il suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio ? lavorò per sei mesi nella redazione del quotidiano. Seguì allora a Trapani, nel Collegio dei gesuiti diventato Tribunale, il processo Vinci, l’uomo accusato di aver ucciso a Marsala tre bambine gettandole in un pozzo, condannato all’ergastolo per quegli orribili delitti. Scrisse la cronaca quotidiana del processo, testimone illuministico delle doppie verità, dei misteri, delle menzogne, delle isterie popolari, tra la tragedia greca e la manzoniana Storia della colonna infame. Protagonista è sempre il dubbio, i suoi resoconti sono minuziosi, a Consolo non sfugge nulla, attento alle figure e ai comportamenti dei giudici e all’enigmatico silenzio dell’imputato. Sa rendere partecipe il lettore del clima di follia che in quell’estate africana divise la città. Conobbe non superficialmente Giangiacomo Ciaccio Montalto, l’umanissimo e colto pubblico ministero del processo, che il 25 gennaio 1983 sarà ucciso dalla mafia. A lui Consolo dedicherà sul «Messaggero» pagine doloranti e bellissime.Gli articoli sul processo Vinci ? cento pagine ? letti adesso sembrano un libro nel libro. Consolo scrisse sull’«Ora» di molti temi. Il rapimento Corleo, parente dei ricchissimi cugini Salvo, gli esattori di Salemi, una cupa storia di mafia, ma usando il lato comico del suo primo libro, La ferita dell’aprile, raccontò anche storie gogoliane di vita siciliana andando a vedere gli uffici di Palermo, lo Stato civile, l’Inps, le Imposte dirette, con i loro grotteschi capiufficio, gli ispettori, gli impiegati.Lontano dalla Sicilia, invece i suoi articoli sembrano le lettere a casa di un eterno emigrato. Che cosa succede al Nord? Anche questo: un contadino salernitano viene licenziato da un’azienda di Codogno perché sa parlare soltanto nel suo dialetto.Scrisse affettuosamente di Franco Trincale, il cantastorie siciliano, e di Gaetano Manusé, il bancarellaio dalla faccia araba che vendeva libri dietro l’abside della chiesa di San Fedele, a Milano, ebbe clienti illustri, Montale, Toscanini, Luigi Einaudi, la Callas e tra le mani una Vita di Alfieri postillata da Stendhal.Il 12 giugno dell’anno scorso, sul «Corriere», Cesare Segre, recensendo La mia isola è Las Vegas, il libro di racconti uscito postumo, scrisse tra l’altro che «al dolore della perdita si mescola la consapevolezza, anche, dei mutamenti che questa perdita ha implicato per il quadro attuale della narrativa italiana. Si sa che Consolo era tra le figure di maggiore spicco del romanzo di fine Novecento».Si sa ora che era anche un ottimo giornalista.RIPRODUZIONE RISERVATA
Stajano Corrado
La memoria di Vincenzo Consolo
di Giulia Stucchi
Oggi ricorre il primo anniversario della morte di Vincenzo Consolo, spentosi a Milano lo scorso 21 gennaio.
Lo scrittore, di origine siciliana (era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933), viveva stabilmente nel capoluogo lombardo dal 1968. Per quanto la sua opera letteraria sia ormai conosciuta dalla maggior parte degli “addetti ai lavori”, ancora scarsa è la critica che lo riguarda e pochi i lettori comuni che gli si avvicinano, complice la fama di “scrittore difficile” che lo accompagna. Eppure il fascino dei testi consoliani, per quanto sia certo da attribuire anche alla loro complessità, la travalica, e ci regala veri e propri squarci di poesia, in una continua tensione, mai risolta, fra la ricerca del fatto artistico come portatore di un potere universalizzante, e il tentativo di afferrare il reale in tutta la sua infinita varietà. Un tentativo, quest’ultimo, che nasce dalla convinzione dell’autore che esista un compito etico a cui l’intellettuale è chiamato: si tratta cioè della cosiddetta “poetica dell’impegno”. Lo scrittore, allora, deve intervenire sulla società, guardare ad essa in modo critico e consapevole, per metterne a nudo i mali, le contraddizioni e combattere, per dirla con le parole di Consolo, «l’afasia del potere».
Del resto l’intero percorso letterario del nostro autore è giocato su questa tensione, resa ancor più problematica dalle continue domande, tipicamente novecentesche, riguardanti la necessità, il valore e persino la possibilità stessa di scrivere. Per chiarire meglio ciò di cui sto parlando pensiamo, per esempio, all’alternarsi di opere come Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi, 1976),Nottetempo, casa per casa (Mondadori, 1992) e Lo Spasimo di Palermo(Mondadori, 1998) da un lato, e, dall’altro, di testi quali Lunaria (Einaudi, 1985) o Retablo (Sellerio, 1987).
I primi tre libri sono ambientati su uno sfondo storico ben preciso e danno vita ad un’ideale trilogia romanzesca all’interno della quale vengono passati in rassegna alcuni momenti cruciali per la storia del nostro Paese: troviamo così il periodo risorgimentale e unitario nel Sorriso, la nascita del fascismo inNottetempo, casa per casa, le fasi finali della dittatura mussoliniana, con il terrorismo politico degli anni Settanta e le stragi di mafia sul finire del secolo scorso, nello Spasimo. Grazie a questo escamotage Consolo intende recuperareil valore memoriale della Storia, capace di offrirci, sia per la sua lontananza, che per la sua funzione di lente interpretativa, uno sguardo distaccato e consapevole, in grado di leggere e capire anche il presente. Ma la Storia si carica qui anche di un valore simbolico che la fa aggiungere alle tante metafore su cui si fonda la poetica di questo autore: gli avvenimenti, infatti, si succedono e si succederanno ciclicamente fino a che l’uomo non imparerà a dar vita a una società giusta, equa, all’interno della quale il divario fra i ceti popolari e quelli più abbienti si assottigli fino a scomparire. La Storia, allora, non serve solo per capire il presente, ma anche per rappresentarlo, poiché ciò che è stato è, o sarà.
Anche quando gli avvenimenti trattati da Consolo sembrano non avere apparentemente un aggancio diretto con il presente, infatti, essi non perdono la loro capacità di farvi riferimento e di fornire uno sguardo critico sulla contemporaneità. Si pensi per esempio al Sorriso e a come le insurrezioni contadine che prendono piede nel Meridione alla notizia dell’arrivo delle truppe garibaldine forniscano l’occasione per parlare, seppur indirettamente, delle rivendicazioni del movimento contadino degli anni Sessanta del Novecento (vivo presente al momento della stesura del libro), rivendicazioni riguardanti tanto la richiesta di una riforma agraria, quanto la questione meridionale. Il parallelo tra i due episodi è tanto più forte dal momento che, in entrambi i casi, le rivolte vennero represse nel sangue dallo Stato e i problemi rimasero così irrisolti. Lo stesso discorso, del resto, può essere fatto per il periodo fascista in rapporto all’oggi: in una realtà in cui il potere è in grado di gestire i mass media e l’informazione, qualsiasi voce di dissenso è destinata ad essere soppressa, nascosta, fatta tacere. La democrazia lascia così il posto ad una nuova forma di dittatura, che, per quanto non dichiarata e meno violenta, non per questo risulta essere meno assoluta.
Ma torniamo a noi, e vediamo invece due testi come Retablo e Lunaria, la cui ambientazione risulta essere ben diversa, calati come sono in un Settecento piuttosto astratto (specie per quanto riguarda il secondo), la collocazione temporale serve allora solo per caratterizzare gli ambienti e per allontanare il racconto dall’esperienza quotidiana del lettore. Queste due opere, non a caso, sono state redatte durante gli anni Ottanta, anni in cui il rifiuto della figura dell’intellettuale impegnato da parte della società spinge Consolo a rivedere il proprio modo di scrivere, fino a metterne addirittura in discussione il senso. L’autore si rifugia allora in una narrazione che recupera la forma fiabesca e al cui interno il passato diventa solo un modo come un altro per affacciarsi su di una realtà altra, che faccia riflettere, sì, ma che con la sua lontananza e astrattezza sia in grado di regalare anchequell’effetto di straniamento e oblio di sé che è proprio anche dell’arte:
io mi chiedei se non sia mai sempre tutto questo l’essenza d’ogni arte (oltre ad essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto), un’apparenza, una rappresentazione o inganno […]; l’essenza dico, e il suo fine trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii. (Retablo, pp. 66-67)
Questa citazione è tratta da Retablo e ci propone il pensiero del protagonista, il pittore milanese Fabrizio Clerici, che, intrapreso un viaggio in Sicilia con l’intento di raggiungere l’atarassia e l’equilibrio interiore, si ritrova invece a dover fare i conti con una realtà “altra”, certo, ma pur sempre una realtà. Ciò lo spinge a riflettere sul valore del viaggio inteso come allontanamento dal proprio mondo, e quindi anche sul significato dell’arte e di un passato mitico come quello dell’antica civiltà greca che ha abitato l’isola.
Per dare un quadro completo, per quanto breve e sommario, delle opere di Vincenzo Consolo non si può però non accennare anche al valore, giocato sempre sul confine fra realtà e trasfigurazione simbolica, della Sicilia. Di quest’ultima, che è sempre presente nei testi dell’autore, Consolo ci fornisce un ritratto dai molteplici volti, soffermandosi ora sugli aspetti più concreti dell’isola, ora su quelli più propriamente metaforici. La Sicilia, allora, è sì un luogo reale, ma è anche un simbolo: grembo materno, fonte di regressione, di ritorno alle proprie radici e di recupero della propria identità, essa è però anche il punto da cui bisogna necessariamente partire per giungere ad una possibile rinascita, che può avvenire soltanto con la conoscenza di sé e con la consapevolezza che da tale conoscenza deriva.
Alla medesima esigenza di recupero della memoria, una memoria, quindi, declinabile tanto da un punto di vista storico, quanto personale e artistico, concorrono anche le frequenti citazioni e i richiami a opere letterarie (e non) presenti nei testi di Consolo, nonché l’uso sperimentale ed espressionistico che egli fa della lingua italiana. Di quest’ultima l’autore recupera infatti le infinite varianti, siano esse imputabili al tempo, allo spazio, all’estrazione sociale del parlante o ai gerghi tecnici, nell’intento di riscoprire il reale valore delle parole, la loro forza significante e la loro funzione identitaria. Consolo conferma così il proprio sperimentalismo di fondo, pur attraverso un costante confronto con la tradizione, nell’intento di superarla e di rendere la scrittura uno strumento critico capace d’incidere sul mondo di oggi.