La poesia e la storia Vincenzo Consolo

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Vincenzo Consolo
La poesia e la storia

E’ stato recentemente osservato che nelle mie ultime opere,
e in Nottetempo, casa per casa (la continuazione del Sorriso dell’ignoto marinaio)
in particolare, la poesia ha un peso nuovo. Non so se ci sia una concessione al lirismo; c’è, sì, una maggiore diffidenza verso la scansione prosastica, che vuol dire una maggiore ritrazione rispetto alla comunicazione.
Nottetempo, casa per casa è, in confronto al Sorriso, più compatto, più chiuso in una gabbia ritmica, in una sua densità segnica. Ho voluto scrivere una tragedia – niente è più tragico della follia – con scene-capitoli, con intermezzi del coro, che sono frequenti digressioni
lirico-espressive  in cui il narrante s’affaccia e commenta o fa eco in un tono più alto, più acceso. Perché questo compattare, perché l’eliminazione della scena del messaggero, dell’anghelos, del personaggio-autore che si rivolge agli spettatori-lettori e narra in termini non espressivi ma assolutamente comunicativi il fatto che è avvenuto altrove,  in un altro tempo?  Perché  è caduta la fiducia nella comunicazione, nella possibilità, ora, in questo nostro presente, della funzione sociale, politica della scrittura. Non rimane che la ritrazione, non rimane che l’urlo o il pianto,o l’unica forza oppositiva,la più alta delle arti secondo Holderlin.
In questi ultimi decenni si è avuta in campo politico-sociale, economico, industriale e quindi anche in campo letterario una vera rottura con il passato. Il romanzo sta avendo un doppio destino. Da una parte, sta de-generando (nel senso che sta mutando di genere), sta diventando, rispetto a quello che conoscevamo come romanzo, qualche cosa d’altro che non so ancora definire. A questa de-generazione si possono ascrivere romanzi-fiume di estrema comunicazione e fruizione, come si dice, scritti nella nuova lingua tecnologico-aziendale o mass-mediale e quindi di immediata traducibilità: le masse sono uguali in tutto il mondo e parlano tutte la stessa lingua. Sono romanzi d’intrattenimento, didascalici, ludici e di gratificazione mondana. Dall’altra parte, avviene una sorta di revanscismo letterario, di recuperi di vecchie estetiche che erano state sepolte: neo-rondismo, nuove prose d’arte, psicologismi, esistenzialismi … Sì stampano tanti romanzi oggi, e più se ne stampano più il romanzo si allontana dalla letteratura. Un modo per riportarlo dentro il campo letterario sia penso quello di verticalizzarlo, caricarlo di segni, spostarlo verso la zona della poesia , a costo di farlo frequentare da ‘ felici pochi’. Pensare a un romanzo letterario che sia largamente e immediatamente letto è  assolutamente illusorio e utopico. Non so dire di che cosa dovrebbe occuparsi la letteratura. L amia non si occupa di assoluti, di Dio o di dèi, di esistenza, di miti, di utopie o di mondi fantastici. Si occupa di relativi: dell’uomo, qui ora, nella sua dimensione privata e nella sua collocazione pubblica, civile storica.
Certo, una letteratura, un romanzo siffatto dà l’immagine di una storia immobile, perché è critico, oppositivo, e non può lamentare e denunciare le ‘normalità’. Queste, se mai sono esistite, forse è meglio chiamarle differenze, gli storici hanno il compito di registrare. Ho sempre detto che anche in una ipotetica società perfetta, il romanzo (diciamo storico), non la poesia, ha sempre il dovere di restare all’opposizione, proprio perché la congiunzione dell’individuale e del generale, è un’aspirazione, un’infinita approssimazione. Leopardianamente penso che la vita sia infelicità e dolore, che l’unico mezzo per ‘aggiustare’ la vita sia la ‘confederazione’ tra gli uomini, l’unico luogo quello civile, politico.
Il romanzo storico è tale quanto utilizza la storia per propri fini, per fare cioè di una storia, metafora.
Ho scritto un racconto dal titolo Un giorno come gli altri (pubblicato in Racconti italiani del ‘900, nei meridiani di Mondadori), in cui immagino o sogno di trovarmi nella città di Ebla, l’antica città dove l’archeologo Matthiae ha rinvenuto un intero archivio di stato su tavolette d’argilla, in compagnia di Giovanni Pettinato, lo scopritore della lingua eblaita. Il glottologo ricompone alcune tavolette sparse per terra, legge i segni cuneiformi sopra incisi, e mi dice: “ E’ un racconto, un bellissimo racconto scritto da un re narratore … Solo un re può narrare in modo perfetto, egli non ha bisogno di memoria e tanto meno di metafora; egli vive, comanda, scrive e narra contemporaneamente …”.
Noi non siamo, ahimè, re, neanche vicerè, non siamo Clinton né Aghelli, abbiamo dunque, scrivendo romanzi storici, il dovere dell’opposizione e della critica la potere.
Alcuni miei racconti, come quelli pubblicati si “ Linea d’Ombra “, sono scritti i una prosa quasi referenziale. Sono spesso ambientati a Milano, nl presente, e quindi non smuovono la mia memoria, non m’impegnano sul piano della ricerca linguistica. La loro valenza letteraria, se mai ce l’hanno, bisogna cercarla al di là dello stile, in altre implicazioni. Ad un altro tipo di scrittura sono stato obbligato, ad esempio, nella sezione di Le pietre di Pantalica intitolata Eventi. Racconto lì appunto l’estate del 1982 in Sicilia, partendo da Siracusa, passando per Comiso e arrivando a Palermo. Nella Palermo della peste e dei massacri, del centinaio di morti dall’inizio dell’anno, dell’assassinio di Pio La torre e dei coniugi Dalla Chiesa. Racconto in prima persona, con una immediatezza da reportage giornalistico. Fu tale allora per me l’urgenza di dire, dire della Sicilia di quel momento, che abbandonai il romanzo storico, lo stile i tempi lunghi della metafora. L’urgenza, l’impellenza provocata dall’atrocità del fenomeno della mafìa e del potere politico portò Sciascia, ad esempio, dopo il Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore, a fare la grande svolta verso il romanzo poliziesco, il giallo politico. Costruendo storie che erano una parodia della realtà, ma di una penetrazione e di una restituzione della verità che riuscivano a anticipare lo svolgimento  della realtà stessa,  ad essere profetiche. La stessa cosa fece Pasolini, fuori dalla finzione letteraria, della parodia, con i suoi interventi sui giornali, con la forza del suo j’accuse, delle sue provocazioni e delle sue requisitorie, dei suoi Scritti corsari. Non li rimpiangeremo mai abbastanza questi due scrittori civili italiani.
Nel mio pendolarismo tra Sicilia  e Milano c’è, prima di tutto, la mia vicenda umana, Mi sono trovato, fin dal mio muovere i primi passi, nella piccola geografia siciliana,  alla confluenza di due mondi, tra due poli, e sono stato costretto al pendolarismo nel tentativo di trovare una mia identità. I poli poi, per ragioni di vita e per scelta ideologica, si sono allontanati, sono diventati Palermo e Milano. E questi due poli mi hanno fatto essere, oltre che laconico, scrittore scisso, dalla doppia anima, dal doppio accento. Ma forse no, forse allo storicismo del vecchio mondo palermitano ho sostituito lo storicismo  dell’attuale mondo milanese. Voglio dire che continuo a scrivere della Sicilia, ma con la consapevolezza, spero della storia di oggi, del mondo post-industriale, come lo colgo e leggo a Milano. Anche Verga – si parva … – da Milano cominciò a scrivere della sua Sicilia, a Milano tornò con la memoria alla Sicilia, a quel mondi, “ solido e intatto della sua infanzia , come dice Sapegno. Girando le spalle a quella città in piena rivoluzione industriale e sociale che non capiva e che lo ‘ spaesava ‘, alla Milano in cui rimase per diciotto anni, ma girando contemporaneamente le spalle alla Sicilia di allora,  quella della corruzione della mafia che avevamo messo in luce Sonnino e Franchetti, dei contadini e degli zolfatari che in nome del socialismo cominciavano a chiedere giustizia. Scrisse insomma Verga i suoi capolavori su una Sicilia fuori dalla storia, mitica, del mito negativo della ‘ ineluttabilità ‘ del male, su una Sicilia solida e intatta appunto, cristallizzata.
Fuga da Milano significa ritorno e aggregazione all’altro polo da cui avevo a suo tempo preso le distanze, significa ritorno reale e letterario?
Non so, credo di no. Non si torna più nei luoghi da cui si è partiti, perché quelli non sono più luoghi che noi abbiamo lasciato. Non si è più di nessun luogo. E, d’altra parte, credo che oggi non si possa più fuggire da nessun luogo, penso che siamo prigionieri, a Milano, a Roma, a Palermo, della stessa realtà, afflitti tutti dallo stesso male. So solo che ora, alla mia età, essendone stato privato per tanti anni, sento il bisogna di rivedere  le albe, i tramonti, di stare in un luogo dove il paesaggio fisico e quello umano non mi offendano. Non so se esiste questo luogo, lo devo cercare. E forse sarò vittima di un’altra utopia. Mi sono sempre sforzato di essere laico, di sfuggire, nella vita, nell’opera, ai miti. La letteratura per me è il romanzo storico-metaforico. E poiché la storia è ideologia, come insegna Edward Carr, credo nel romanzo ideologico – anche quelli che scrivono di Dio o si miti fanno ideologia, coscientemente o no -, cioè nel romanzo critico. La mia ideologia o se volete la mia utopia consiste nell’oppormi al potere, qualsiasi potere, nel combattere con l’arma  della scrittura, che è come fionda di David, o meglio come lancia di Don Chisciotte, le ingiustizie, le sopraffazioni, le violenze, i mali e gli orrori del nostro tempo.

pubblicato ne “ Gli spazi della diversità “ vol. II 1995

Enzo Sellerio: Fotografia e/o racconto. Vincenzo Consolo.

Viaggi dal mare alla terra.

Viaggi dal mare alla terra

Vincenzo Consolo

« Nasceva Errigo Piraino dei Baroni di Mandralisca il dì 3 dicembre 1809 da Michelangelo e Carmela Cipolla, e fu educato in Palermo nel R. Convitto Carolino d’onde usciva all’età di 16 anni appena compiti, fornito di quella superficiale istruzione che era propria dei tempi, e del luogo in cui era stato recluso. Fatto sposo dopo un anno con Maria Francesca Parisi, non solo abbandonò il mondo e le sue futili illusioni, ma essendo veramente persuaso, che l’uomo fu creato per lavorare e produrre, e che vive nel proprio merito, ed avendolo natura dotato di una non comune intelligenza, e di una operosità senza pari, si diede con tutta lena allo studio delle scienze naturali ed archeologiche che formarono la passione più spinta della sua vita, e per le quali si sobbarcò a spese e fatiche non comuni; e divenne infatti in pochi anni naturalista ed archeologo valentissimo, come le memorie da Lui scritte, le raccolte da Lui eseguite, ne fanno pienissima fede. »

In queste esigue righe, nelle sue scarne notizie, nelle sue poche date (al 1809 della nascita e al 1825 del matrimonio bisogna solo aggiungere il 1848 della nomina a rappresentante di Cefalù al General Parlamento di Sicilia, il 1861 dell’elezione a deputato al Primo Parlamento del Regno d’Italia, il 1864 della morte) è compendiata la vita del Mandralisca. Righe che abbiamo tratto dall’ « Elogio funebre – di Enrico Piraino – barone di Mandralisca – detto – dal Prof. Gaetano La Loggia», stampato a Palermo nella tipografia di Francesco Lao.

Ora, dentro queste righe guardando, come col microscopio la particella di un organismo o, in modo più sereno, col telescopio la luna, scorgiamo e conosciamo – per segni certi e anche per congetture l’intensa, ricchissima vita, l’affascinante personalità di un uomo della prima metà dell’Ottocento, in Sicilia, in uno straordinario paese di nome Cefalù.

L’estensore e declamatore dell’Elogio intanto, il professor Gaetano La Loggia, cospiratore dei moti del ’48 e del ’60, fu ministro del governo provvisorio di Garibaldi e quindi senatore del Nuovo Regno d’Italia; valentissimo medico, stese un umanitario «Catechismo e Istruzioni popolari sul colera. »

Col Mandralisca certo il La Loggia avrà stabilito una profonda e duratura amicizia in quel «reclusorio » che era il Regio convitto Carolino. Dove convenivano i rampolli delle più cospicue famiglie di Palermo e della Sicilia, i quali, giovani com’erano e quindi ricchi di slanci e armati di risentimento per l’oppressione che il potere esercitava, concepivano azioni affrancatrici, nutrivano comuni ideali di riscatto, stabilivano tra loro connivenze, duraturi legami, patti di solidarietà. Erano luoghi insomma, i convitti o collegi di quell’epoca, se non di vera istruzione (“superficiale” la qualifica il La Loggia ), di cultura e coltura cospirativa, scuola di educazione sentimentale e politica. Per i giovani.

Per le fanciulle invece i convitti o educandati erano spesso strutture di perenne segregazione, di condanna di innocenti: le storie di mal monacate sono state materia di famosi romanzi, ma sono stati anche reali drammi, consegnati a struggenti confessioni ( si legga per esempio «I misteri dei chiostri napoletani » di Enrichetta Caracciolo Forino).

Nasce dunque, Enrico, nel cinquecentesco palazzo Piraino ( perastro: sullo stemma al colmo dell’arco dell’imponente portale, proprio quest’umile e selvatico albero dispiega i suoi rami, a cui anela, con una zampa puntellata al suo tronco, un rampante leone) che s’affaccia sulla piazza del Duomo (Chiaru Signuruzzo), a fare da quinta, assieme al palazzo Maria, al Vescovato e al Seminario, al palazzo Martino, al convento di Santa Caterina, alla quadrata piazza, a fare da accolito alla maestà del Duomo, che al centro, in cima all’alta scalinata, domina palazzi e piazza, domina il paese. E Duomo e piazza e paese sono poi dominati, sono anzi protetti da quel gran promontorio, da quella rocca, dalla Rocca, la Kefa o Kefalé che accoglieva in sé l’antico borgo, che ha dato il nome, sonoro e musicale, a Cefalù.

Privati educatori, preti pedagoghi saranno stati i primi maestri del Piraino fanciullo, fino a che non venne mandato a Palermo al « Carolino». Da qui esce a soli sedici anni per sposare subito una cugina di Lipari, Maria Francesca Parisi. Sarà stato, questo del Mandralisca, uno di quei matrimoni combinati dalle famiglie subito alla nascita dei loro eredi, e da famiglie spesso tra loro imparentate, matrimoni che erano il suggello formale di reali accordi economici, dei modi di rimettere insieme patrimoni. Ma in questi matrimoni, come un fiore raro e prezioso in un arido terreno, poteva anche nascere l’amore. Che crediamo sia nato fra i due sposi adolescenti Enrico e Maria Francesca. Per i quali, subito fiorita, la vita era costretta in un codice di rigidi doveri, obblighi, regole, discipline, com’era per tutti il quel paludato Ottocento e soprattutto per persone della loro classe. E’ dunque, supponiamo, per superare questo impasse, per uscir da questa prigione che l’intelligente Mandralisca (al contrario di tanti suoi coetanei e di tanti nobili come lui, di Cefalù e d’altrove, che s’immeschiniscono e spengono nella noia della quotidianità, nell’agio e nello sperpero, nell’ossessione dell’accumulo e della conservazione della roba) si abbandona alle avventure dello spirito,  alla passione della ricerca, alla febbre degli ideali: si consegna allo studio e alle esplorazioni naturalistiche e archeologiche, si nutre di ideali risorgimentali.
Dopo il matrimonio, assieme alla consorte, comincia a far la spola, Enrico, tra Cefalù e Lipari, riallacciando o rinsaldando così i legami fra le due città, che per le vie del mare, per ragioni di pesca o di commerci avranno sicuramente avuto origini remote (le vicende minime, ignote, i rapporti sconosciuti, le microstorie tra l’isola maggiore e le minori, tra paesi e città di coste opposte, nel piccolo teatro del basso Tirreno o nel più vasto teatro del Mediterraneo, sono quelle che più aiutano a capire l’essenza di un’epoca, di una civiltà).

Fa la spola, il Mandralisca, tra il cuore della «storica» Cefalù, tra il centro, il Chiaru Signoruzzo, e quindi la Strada Badia o Strada del Monte, dove poi eleggerà la sua dimora, e il cuore della «naturale», mitica, preistorica e antica Lipari, il quartiere più antico di quella città detto Supra ‘a Terra, a ridosso di Marina Corta, dov’era il palazzo dei baroni Parisi.

Cefalù e Lipari sono dunque i due poli fra cui si muove il Mandralisca fino ai suoi ultimi giorni. Poli per me – e qui mi permetto di introdurmi, forte del solo titolo d’aver scritto un romanzo storica, Il sorriso dell’ignoto marinaio, il cui ispiratore e protagonista è questo gran personaggio del Mandralisca – poli carichi di significati, di simboli, di metafore, entro cui si racchiude il cammino della vita del Mandralisca. Cerco di spiegare.

Cefalù, così rocciosa e solida, così affollata nel suo tessuto urbano di segni storici, così emblematicamente intrisa di auree arabe e normanne – è da qui che nasce la vera storia nostra, la storia che si chiama siciliana – Cefalù mi è sempre sembrata la porta, il preludio, la soglia luminosa del gran mondo palermitano (finanche la sua Rocca sembra il pròdromo del Monte Pellegrino), della Sicilia occidentale, del mondo maschile della regione e della storia.

Lipari, così vulcanica e marina, così mitica e arcaica mi è sembrato il luogo femminile della natura, dell’esistenza, dell’istinto, della discesa nell’oscurità del tempo, della risalita verso la fantasia creatrice.

C’è dunque in Mandralisca questo continuo movimento da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia (movimento, passaggio sintetizzato nel simbolo della chiocciola, che ho cercato di riprodurre nel mio romanzo). In questi viaggi, il Mandralisca trasporta «antichità », statuette, lucerne, vasi , monete recuperate nei suoi scavi in quell’onfalo profondo della storia e del tempo che è la contrada Diana di Lipari. Recupera, salva dalla minaccia della natura, riporta alla terra quel «Ritratto d’ignoto» di Antonello, già sfregiato dal gesto irrazionale d’una donna (ma segno, lo sfregio, di volontà di superamento della ragione verso la creazione di un nuovo assetto politico e sociale), che sarà il gioiello più splendido della sua raccolta, del suo futuro museo.

Ma tanti altri significati, tanti altri valori, tanti altri insegnamenti mi ha regalato, ci regala la figura del Mandralisca, questo personaggio più generoso del gattopardo principe di Salina, più preoccupato delle sorti comuni, generali, soprattutto delle sorti di quelli socialmente più fragili, indifesi. E questa sua nobile preoccupazione non è un’invenzione letteraria, ma la si può realmente leggere nel suo testamento. «Voglio dell’annua rendita di tutti i miei beni…si fondasse e mantenesse nella mia patria Cefalù un liceo… », così dispone. E legati assegna al Collegio di Maria «con l’obbligo di mantenere una Scuola Lancasteriana per le fanciulle», all’Ospedale degli infermi… E nel testamento dispone ancora della Biblioteca e del Museo installati nella sua dimora.

Nel libretto dell’Elogio, stilato da La Loggia, vi è anche un bel ritratto litografico del Mandralisca, disegnato da un tal Tambuscio. Vi appare, il Nostro, come un maturo signore dal viso scarno di studioso con baffi e pizzo, dalla fronte ampia, dallo sguardo severo, acuto, penetrante. A chi somiglia questo Mandralisca? Somiglia forse all’ «ignoto» di Antonello? Somiglia certo al barone Pisani, a Michele Amari, a Napoleone Colajanni… Agli uomini vale a dire di più alto sentire, di più nobili e generosi slanci a cui la Sicilia abbia dato i natali.

Uomini di cui, in questo nostro tempo di meschine chiusure, di feroci egoismi, di stravolgimenti morali, si sta rischiando di perdere la memoria, l’insegnamento.

Milano, aprile 1991.
Vincenzo Consolo, Viaggi dal mare alla terra, in Aa. VV., Museo Mandralisca, Palermo, Edizioni Novecento, Palermo 1991

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La figura e l’opera

Gli scrittori si dividono in scrittori con la testa e scrittori senza testa (naturalmente ci sono anche gli scrittori con mezzatesta). Al di là dello scherzo voglio dire che ci sono due modi di essere scrittore: scrittore di tipo logico-razionale, di pensiero e scrittore di tipo irrazionale-intuitivo, di sentimento. Più semplicemente la distinzione è questa: scrittore tout-court e narratore.

È una distinzione, questa, che rimbalzando da un’intervista rilasciata nel 1982 (su “L’Ora”) ad una pagina narrativa, ci aiuta a segnalare una delle componenti che alimenta e connota il fare inventivo di Vincenzo Consolo.

Con lo scrivere si può forse cambiare il mondo, con il narrare non si può, perchè il narrare è rappresentare il mondo, cioè ricrearne un altro sulla carta. Grande peccato, che merita una pena come quella dantesca degli indovini, dei maghi, degli stregoni […] Però il narratore dalla testa stravolta e procedente a ritroso da quel mago che è, può fare dei salti mortali, volare e cadere più avanti dello scrittore, anticiparlo […] Questo salto mortale si chiama metafora […] ma la metafora si sa si esprime attraverso il racconto.

Il dilemma che muove la riflessione del narratore santagatese (e che ritroviamo al centro del racconto Un giorno come gli altri) relativo alla distinzione tra lo scrivere e il narrare, è certo da ancorare ad un pronunciamento politico e ideologico che ha indotto l’autore del Sorriso dell’ignoto marinaio, al pari di scrittori come Moravia o Pasolini o Sciascia, a considerare l’esercizio scrittorio uno strumento capace di incidere sul reale in senso conoscitivo e trasformativo. Di qui la scelta di una scrittura, il cui progetto è quello di fondere, nella propria articolazione, la complessità delle cose e le vibrazioni affettive e razionali.

Il ponte ideale di cui si avvale Consolo per collegare il mondo esterno alla sensibilità dei protagonisti, il passato al presente, è un elemento di antico retaggio culturale e per di più denso di valenze poetiche: la memoria. È questa che concede al narratore la possibilità di entrare negli spazi del narrabile, consentendo la metamorfosi dell’accaduto e del vissuto in figure dotate di forza metaforica.
E costruzioni metaforiche, dense di tensione intellettiva e di fascino poetico, sono i suoi romanzi a cominciare dai titoli: La ferita dell’aprile, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Lunaria, Retablo, Le pietre di Pantalica. Metafore narrative attorno a cui ruotano, come cardini ideali dell’invenzione consoliana, oggettività e finzione, poesia e coscienza critica. Consolo ci appare quindi impegnato, da un lato, a spiegare il senso della propria adesione alla realtà e alla storia, dando rilievo a tensioni conoscitive o di denunzia, e dall’altro intento a marcare la autonomia dell’immaginazione e dello scatto simbolico, che rechino al proprio interno la carica utopica del narratore.
Scrittore in parte dimidiato, forse, ma autenticamente siciliano nel declinare l’antica dialettica isolana di ragione e mito, di esistenza e storia, elabora una prosa con la quale tenta di rappresentare gli aspetti problematici del reale e delle idee. Peraltro le spinte contrastanti della produzione consoliana sono, in parte, da riportare ad un’area geocultu-rale e storica che si presenta ab origine striata di chiaroscuri. Egli infatti è nato e cresciuto in una zona, Sant’Agata di Militello, che, per sua definizione si configura come «incerta, ibrida, di confluenza tra la provincia di Messina e di Palermo». Terra di confini fra ambiti naturali e storici, – la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale -, ove si fronteggia-no, ma spesso si intersecano in maniera viva e feconda di sviluppi, tradizioni differenti. «Zona di esistenza, di eventologia quotidiana» – ha scritto il nostro autore -, ma anche di tendenza al mito quella orientale, mentre zona implicata ed innervata nella storia quella occidentale, connotata per di più da frementi dubbi sul valore stesso della inchiesta razionale, come Pirandello e Sciascia ci hanno insegnato.
L’insularità di Consolo è da vedere nella particolare disposizione ad ibridare componenti diverse senza chiuderle in percorsi definitori, ad utilizzarle, anzi, come chiavi di una personale sperimentazione stilistica e tematica, entro un dettato narrativo composito.
Dai suoi romanzi emerge il profilo di un intellettuale al bivio fra saggistica e letteratura, dello scrittore meridionale sradicato ma attento ai problemi della propria terra, deluso dalla realtà ma non rinunciatario, pronto, anzi, ad intervenire dialetticamente; «di un isolano, insomma, che unisce» – come ha scritto Tedesco per Bruno Caruso – «un continuo sognare all’assiduo meditare».
Parafrasando quanto Consolo ha scritto a proposito di un poeta da lui molto amato, Lucio Piccolo, possiamo affermare che anche egli, come il poeta orlandino di adozione, è portatore di «due anime in petto»: una greca-messinese’ e una ‘spagnola-palermitana’. L’una pervasa di un gusto per la natura dagli aspetti solari e luminosi, pronta agli scatti e alle fughe della fantasia, l’altra attenta alla realtà degli uomini e alle vicende storiche, ma incline al barocco delle forme espressive, all’ombra e al mistero che si celano dietro ogni forma o evento razionalmente indagati.
Che poi l’immagine delle «due anime in petto» si avvicini a quella vittoriniana delle «due tensioni» ci rende avvertiti del modello intorno a cui gravita la formazione del nostro autore. Modello, quello di Vittorini, che in Consolo sorreggeva, all’altezza degli anni Cinquanta, anche una privata tensione alla fuga dall’isola natia, e motivava la scelta di una scrittura che, pur orientata sulla propria terra, passasse attraverso il filtro della distanza memoriale.
Consolo riproponeva l’antica diaspora degli scrittori siciliani che si allontanano dalla propria isola per insoddisfazioni e scontenti, e per il bisogno di inserirsi più concretamente nei canali di produzione. E in tal senso la Lombardia, con le sue tradizioni di impegno civile di tipo illuminista, gli si presentava come la terra ideale in cui placare le proprie urgenze umane e culturali, e riflettere sui modi e i temi che avrebbero connotato la sua attività.

A ridosso della prosa di Consolo scorgiamo quindi la lezione del realismo lirico-fantastico di Vittorini, nonchè di Pavese e Calvino, le cui opere, non condizionate da rigida osservanza ai dettami del neorealismo, nutrivano nel giovane scrittore una radicata esigenza di libertà inventiva. Ma nel laboratorio dello scrittore santagatese sentiamo che molto ha significato il modello di prosa di quegli scrittori di ‘cose’ che da Verga a De Roberto, da Pirandello a Sciascia, avevano privilegiato uno scavo lucido e disincantato del reale. Senonchè proprio la scelta di una narrazione che declinasse realismo ed immaginazione, storia e pensiero, imponeva al nostro autore la ricerca di una strada personale, pur nella accettazione dei grandi modelli che ne avevano pilotato la formazione. E il timbro personale si coglie, sin dal primo romanzo, nella vigile attenzione che Consolo mostra per l’aspetto linguistico in cui si può sedimentare un atteggiamento ideologico contestativo, ed anche una carica immaginativa che modifichi i moduli espressivi già realizzati. Così, se pure nella Ferita dell’aprile vi è un tono epico-lirico d’ascendenza vittoriniana, ed un’attenzione alla realtà popolare che rinvia al Verga, è già in quelle pagine una scelta di realismo pluridirezionale e metaforico che mostra l’originalità del giovane scrittore.
La metafora narrativa, così cara all’autore, diviene non solo la spia della sua forza inventiva, ma anche il supporto poetico di una scrittura che – per dirla con Calvino – abbia «una presa attiva nella storia», e mantenga alta « la coscienza acuta del negativo», cioè lo scarto critico del pensiero sugli avvenimenti. Strumento privilegiato con cui operare una vigile ed elegante trasfigurazione della realtà effettuale.
Il primo romanzo di Consolo viene pubblicato nel 1963, in anni di profonde trasformazioni sociali e culturali. Lo scrittore ha certo un orecchio sensibilissimo alle sperimentazioni compiute in quel periodo sul terreno del linguaggio e dello stile, ma non rinuncia alla lezione narrativa otto-novecentesca, con la quale anzi intende misurare le proprie energie creative. Costruisce un romanzo d’ambientazione popolare col quale evitare da un lato le secche di certo neorealismo populista postbellico, e dall’altro le fughe evasive dalla realtà. Il romanzo passa però sotto silenzio, forse perchè appare anacronistico, in anni di avanguardistica scomposizione della trama romanzesca, quel suo richiamo evidente alla tradizione, e non ci si accorge che l’operazione di Consolo era proprio quella d’innestare sul tessuto realista una personale elaborazione di stile. Sul piano tematico, con La ferita dell’aprile egli intende raccontare l’incidenza della Storia in una realtà minore e marginale, senza tralasciare quel carico di vissuto e di particolari umani che spesso si ignorano; trasformandoli anzi in «occasioni poetiche». Una proposta letteraria che si avvicinava in modo significativo agli intenti di un altro artista siciliano, Bruno Caruso, il quale, nello stesso arco di tempo, poneva al centro della propria invenzione «una realtà minore […] riproposta da una sensibilità e da un’intelligenza che mentre si accorge di poterne ancora fare esperienza giornaliera, subito la decanta e la filtra come da fondo oscuro di lontane e ora affioranti memorie. La validità di questa proposta […] era nell’ancora accertabile verità di questi aspetti dell’esistenza, sentiti tuttavia quali occasioni poetiche» (Tedesco). E per restituire alla storia il misterioso e l’ignorato che è nell’uomo e nella collettività, Consolo sceglie fin dal primo romanzo la dimensione della memoria e l’idea del viaggio. Poli interscambiabili, a ben guardare, di una scrittura che viaggia nel passato storico per isolarne travagli umani e sociali da depositare poi sulla pagina. E questa si dispone come archivio memoriale di un mondo, quello popolare (con i suoi tipi e le sue tradizioni), che non esiste più, e che non si conoscerebbe se non ci fosse un aedo delle microstorie o dell’antistoria pronto ad assumere su di sè il compito di narrare quanto è andato disperso. Ma memoria anche di modelli letterari, rinascimentali o settecenteschi, di viaggi fantastici e filosofici, (basti pensare a Lunaria e Retablo), che sarà sempre attiva nell’universo inventivo di Consolo.
E il viaggio, metafora pregnante del rapporto che uno scrittore siciliano intrattiene con la propria terra, si compie ora nei terreni dell’autobiografismo, ora nelle terre del pubblico, del quotidiano e del favoloso, mescidati secondo percentuali e proporzioni differenti da un romanzo all’altro. Figura insistita della prosa consoliana, è il luogo in cui si aggregano funzioni narrative e referenti simbolici. E libro di memorie che si dipanano in un viaggio a ritroso è La ferita dell’aprile, il romanzo che segna l’esordio letterario dello scrittore santagatese.
I ricordi del protagonista si presentano come piccoli intarsi entro un quadro, il cui sfondo è la realtà storica del secondo dopoguerra in Sicilia, con i problemi antichi di miseria ed arretratezza, e i recenti contrasti sociali dovuti al nuovo assetto politico.
Consolo in queste pagine, intreccia il registro del realismo, rispettoso delle leggi della verosimiglianza e della trama narrativa, con quello del fantastico ove le leggi della causalità e razionalità vengono trasgredite a favore della libertà simbolica. Ne scaturisce una prosa originale che fa slittare l’andamento mimetico della narrazione verso un dettato figurativo:

Randisi è un paese nero, le case di lava senza intonaco, le chiese pure, nera l’Etna tranne la cima con la neve. Girammo e girammo, vicoli ferri gonfi dei balconi, donne incinte, le mille reti, le sorbe, fichi d’India sulla pala come dita risipolate sulla mano, ghirlanda di frutta per gli archi dei balconi e le finestre come nei quadri scuri delle Madonne nelle chiese vecchie.

Il motivo del viaggio, in questo primo lavoro, si svolge sul doppio versante del riportarsi all’indietro dell’ionarrante al tempo della propria adolescenza, e di un attraversamento di diversi piani linguistici alla ricerca di uno stile che sia conquista di una propria misura espressiva.
Non a caso uno dei tratti che connota la fisionomia interiore del giovane protagonista della Ferita dell’aprile, è proprio l’adolescenziale incertezza espressiva di chi, sradicato dal paese d’origine a causa della morte del padre, è costretto ad immettersi in un altro tessuto sociale, in una diversa area linguistica.

Don Sergio me lo chiese, un giorno che dicevo la lezione. Di’ un po’ non sarai mica settentrionale? E le risate di que’ stronzi mi fecero affocare.
Glielo dissero che ero uno zanglé, che avevo una lingua speciale. Don Sergio volle sapere e fece la scoperta che poteva essere colonia francese, che zanglé storpiava lesanglè, non inglesi, ma normanni. Ma non sono neanche uno zanglé, un civile di casino, facce smorte e pertiche di faggio, zarabuino, se ci tiene tanto.

Tema, questo, che tornerà in uno dei racconti delle Pietre di Pantalica, I linguaggi del bosco, a siglare la permanenza feconda di un sentimento forse autenticamente sofferto, cioè il disagio per una diversità linguistica. Ma si può anche pensare che proprio siffatta coscienza abbia acuito la sensibilità dello scrittore, maturando in lui quella profonda attenzione al linguaggio, destinata, come è noto, nelle sue varietà idiomatiche e colte, a diventare la peculiare cifra stilistica di Consolo.
La ferita dell’aprile è la storia di un adolescente che lungo un itinerario di sentimenti ed entusiasmi, gioie e dolori, approda alla conoscenza della solitudine e della conflittualità dell’esistenza. Lo snodarsi dei ricordi non solo scandisce l’educazione del protagonista, ma evidenzia nel contempo un variegato contesto socio-storico. Il modello stilistico verghiano, di una coralità che esprime se stessa tramite l’idioma dialettale, viene sì rimesso in circuito dallo scrittore santagatese, ma entro un tessuto narrativo che è ormai quello novecentesco della memoria autobiografica, in cui si fondono, con agilità e freschezza, verosimiglianza e punto di vista del soggetto narrante. L’aderenza alle forme espressive proprie del paese in cui è ambientata la storia non produce effetti di completa mimesi linguistica e sociale, giacché sono presenti scatti fantasiosi, di imprevedibile esplosione, che svelano la propensione all’ironico e al poetico della prosa consoliana.

Don Sergio principiò con le cocuzze: allora quant’erano? Il pegno, la penitenza, tre pater ave e gloria stasera appena a letto, che è confessionale? a chi riesce a contare i miei bottoni gli do le caramelle. E Tano cominciava dal primo sotto il collo premendo con il dito, ma poi, sul più bel-lo, don Sergio scuoteva e il numero saltava: addio, si ricomincia […].Il Mùstica forse non sentì, tirò avanti come un condottiero, di quelli delle storie d’Omero. Sul lato che il sole tramontava, lontano entrò nel mare assieme al suo cavallo, si fecero il bagno, la spuma che saltava, bianca e risplendente per il sole. […] — Salta giù, subito! Pazzo, pazzo sei, allo istituto ne parliamo. Fila, vatti a vestire, ti viene una bronchite.Le risate, le mutande bagnate appiccicate, gli si leggeva sano, per giunta che Filippo non scherzava.

Lo sguardo memoriale del narratore e quello reale dell’adolescente che osserva e filtra la realtà degli adulti (con i suoi problemi e contrasti), conferiscono alla narrazione un timbro favoloso e insieme vivido. Peraltro, sul piano narrativo, è proprio il filtro della memoria del giovane protagonista che agglutina una realtà che altrimenti resterebbe frantumata in segmenti bozzettistici. L’autore tenta di far vivere i frammenti di una collettività marginale quale può essere quella di un paese del sud senza che alcuno dei personaggi, tranne il narrante, sia posto come centro strutturante della narrazione.
E questa, spesso, segue moduli para-tattici: i più idonei a cogliere il fluire della vita, delle microstorie nel loro farsi, nonchè i pensieri del giovane protagonista che quella realtà trapunta con i filamenti sottili di una sensibilità in crescita. Il dettato narrativo, ora disteso ora concitato, segue ritmi di un’epicità raccolta e schiva. Ma se «l’epica moderna non conosce più dei – come ha scritto Calvino – l’uomo è solo e ha di fronte la natura e la storia», con le quali istituire un rapporto di interrogazione. Ragione per cui non sono più le grandi azioni umane la forza motrice della narrativa, ma i segmenti di realtà che coinvolgono la memoria e la partecipazione critica del narratore: i bisbigli e i piccoli discorsi dei ragazzi orfani, che trascorrono quasi l’intera giornata nell’istituto che li ospita; gli squarci di vita di paese ove, a personaggi di arcaica staticità e misteriosa fascinazione, come la «vecchia che taglia con un coltello» La tempesta di mare che avanza, si affiancano personaggi vividi e ben delineati, come alcuni compagni di collegio del protagonista, o il padre di Mari Campisi tornato dall’America, che si fanno emblemi di un presente incalzante.
E poi ancora sensazioni, desideri, luoghi e giorni che sembrano uguali e cambiano invece nel trepido affiorare di una diversa dimensione interiore. Da un lato particolari oggettivi: poveri cortili, un rumoroso e sporco salatoio ove lavorano le donne, la vita dei ragazzi nell’istituto religioso e l’aspra realtà dei pescatori; dall’altro lo spettacolo di una natura che si trasforma in visione, in momenti incantati, in sogni incerti di un futuro gravido di incognite.
Romanzo di formazione si può considerare La ferita dell’aprile, in quanto in esso ritorna un itinerario di crescita e maturazione; ma anche romanzo dibattito con il quale l’autore mette a punto una sua interpretazione del neorealismo degli anni Cinquanta, giocando una personale scommessa tra natura e storia, fra destino personale e problematica sociale, fra realtà e progettazione culturale.
Consolo come Vittorini torna ad una Sicilia antica e quasi arcaica, posta sul limite estremo della scomparsa e vi cerca le tracce della propria identità umana e culturale in un viaggio immaginario, le cui tappe sono i movimenti continui della vita, e l’approdo è la coscienza di tali trasformazioni. Raccontare la Sicilia è per lo scrittore un modo di ricostruire l’antica dimora dei padri e tornare alle radici di un linguaggio col quale riappropriarsi della propria terra. Con la consapevolezza che è la scelta della lontananza, temporale o geografica, quella che gli consente la narrazione. Dimensione con la quale si è fuori dalle urgenze polemiche che rendono aspre, per alcuni intellettuali siciliani, le ragioni del consistere. E che tuttavia accende di bagliori affettivi luoghi e tempi che divengono generatori inesauribili di poesia.
Ed ecco lo scrittore raccontare, in prima persona, ne La ferita dell’aprile, di un tempo favoloso, l’adolescenza, segnato dal libero fantasticare prima dell’intrusione della realtà con il suo carico di amarezze e responsabilità, fissate emblematicamente nella morte del padre. La Sicilia, nei romanzi di Consolo, si dispone come luogo di separatezza storica e nel contempo come metafora di problemi sociali che investono tutta l’Italia, come dimora arcaica difficilmente sondabile e come «zona di realtà narrabile».
Tutto ciò si compone in una prosa che fonde di continuo mimesi del reale ed addensamenti di immagini, icasticità ed esplosione visionaria, secondo modalità di stile che contengono già la maniera del narratore maturo. Ma nei primi degli anni Sessanta – quando compone La ferita dell’aprile – Consolo non poteva certo trascurare la lezione linguistica di narratori come Gadda e Pasolini. Dai romanzi del primo assimilava la forza, anche provocatoria, di combinare giochi linguistici e mescolanze di stili. E dalle scelte stilistiche ed ideologiche di Pasolini traeva l’esempio per costruire un linguaggio capace di trasformare l’idioma popolare dei suoi personaggi in una lingua poetica ma dotata anche di umori polemici. La continua intersezione, nelle pagine di Consolo, di lingua e dialetto, di forme culte e popolari, l’accentuazione barocca dell’immagine, spostano il modulo narrativo neorealista verso soluzioni di pastiche che collocano lo scrittore sul versante di una tradizione sperimentale. Un altro motivo presente nel primo romanzo (e poi nei successivi) è quello di un autobiografismo riflessivo che induce lo scrittore a mescolare la propria voce autoriale con quella del narrante. Quando, infatti, nel romanzo il diaframma narrativo allenta la sua tensione, irrompono le considerazioni, irrompono le considerazioni del protagonista sull’amarezza della solitudine e sul distacco da quella vita varia e brulicante, che, pirandellianamente, viene narrata ma non vissuta.
In tal senso, e riferendoci al suo titolo, possiamo parlare di un tema definibile come ‘la ferita’ dell’artista, ovvero la coscienza di un incolmabile iato esistente tra la vita e l’arte, tra la scrittura e la complessità del reale. «Uno che pensa, uno che rifletta e vuol capire questo mare grande e pauroso, viene preso per il culo e fatto fesso. E questa storia che mi intestardo a scrivere, questo fermarmi a pensare, a ricordare, non è segno di babbio, a cangio di saltare i muri che mi restano davanti?».
La ‘ferita’ dell’artista, topos della grande letteratura novecentesca, sta nell’impossibilità dello scrittore, che pure ne ha un desiderio struggente, di partecipare all’umanità che egli stesso mette in scena nelle sue opere. Si è segnati da questa ferita che apre un abisso di solitudine, nostalgia e ironia; si è colpiti da una vera e propria fascinazione verso i gesti semplici che accompagnano la vita di ogni giorno.
All’artista non rimane che guardare da lontano – come affermerà in Retablo don Gennaro, maestro di canto: «Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta con invidia, con nostalgia struggente allunghiamo la mano per toccare la vita che si scorre per davanti».
La scrittura può allora configurarsi come un farmaco col quale tentare di guarire le personali ferite, o proporsi come strumento di conoscenza. Ma il contrappunto dialettico tra la infinita nostalgia della vita e la necessità artistica della solitudine è anche la sua forza, come ha evidenziato la migliore lezione dell’arte novecentesca (Mann). Letteratura e vita sono i termini di un dibattito antico e sempre vivo, ma sono anche un grumo pulsante di energie ed ambiguità da cui di volta in volta scaturisce l’immaginario del narratore.

Flora Di Legami, La Figura e L’opera – 1990

La conversazione interrotta

Vincenzo Consolo

   Subito una citazione, un’epigrafe da porre idealmente sul frontespizio di questo numero di Nuove Effemeridi dedicato a Leonardo Sciascia. È un azzardo la mia scelta, perché lo scrittore, di sconfinata cultura e d’inarrivabile gusto, era fra l’altro maestro delle epigrafi, delle citazioni, dei rimandi, delle concatenazioni, degli infiniti echi letterari. Ma la mia epigrafe si giustifica per il fatto di essere di Borges, uno degli scrittori più amati da Sciascia. È una lirica, tratta da Fervore di Buenos Aires, intitolata Rimorso per qualsiasi morte:

    “Libero dalla memoria e dalla speranza,

illimitato, astratto, quasi futuro,

il morto non è morto: è la morte.
Come il Dio dei mistici,

del Quale si devono negare tutti i predicati,

il morto ubiquamente estraneo

non è che la perdizione e l’assenza del mondo.

Tutto gli derubiamo,

non gli lasciamo né colore né una sillaba…”

   Rimorso per qualsiasi morte, rimpianto per qualsiasi persona che non è più fra noi, con noi. Ma maggior rimorso e rimpianto, è innegabile, quando quella persona era per tutti illuminazione e insegnamento, coscienza ed esempio, probità e sapienza, fantasia e impegno… Così com’era Leonardo Sciascia, come dovrebbero essere i veri grandi scrittori. I quali non compaiono numerosi sulla scena della storia, e ancor più rari diventano in questa nostra epoca in cui tutto congiura per far allontanare dal mondo intelligenza e conoscenza, memoria e poesia.

   L’antologia di scritti di Nuove Effemeridi, stesi al momento emozionale della scomparsa dello scrittore, non è che un segno minimo – minimo perché immediato – di ciò che quest’uomo per noi, per la nostra sfera socio-culturale ha significato. Il tempo, il grande Tempo (“Che non consumi tu / tempo vorace” scrivevano come epigrafe gli incisori di paesaggi con rovine), il tempo confermerà, ahinoi, verità e grandezza alla sua opera, a quel prezioso e generoso patrimonio che ci ha lasciato. Come ha dato, il tempo, l’orrore, lo sgomento moderno della vita e della storia, verità e grandezza all’opera di Kafka; come ha dato, il tempo, la crisi, lo smarrimento dell’identità individuale e sociale, la perdita d’ogni certezza culturale e ideologica della nostra epoca, sempre più verità e grandezza all’opera di Pirandello.

   Difficile parlare delle tantissime voci che affollano questa antologia. Voci italiane di amici, di estimatori, di consonanti o di dissonanti con e dallo scrittore; e voci francesi, spagnole, tedesche, inglesi. Tuttavia non possiamo esimerci dal fare qualche osservazione, qualche commento brevissimo su alcune affermazioni contenute in questa preziosa documentazione. Non siamo d’accordo con l’analisi di Moravia, su quel procedere che egli vede in Sciascia, contrariamente al naturale processo illuminista o razionalista, dalla chiarezza verso l’oscurità. Per noi è sbagliato enunciare questa analisi senza aggiungere che il quai des brumes, il porto delle caligini, l’approdo nell’oscurità e nel mistero non è di Sciascia ma del mondo, della storia, del potere che muove la storia, e lo scrittore non fa che rappresentarlo, che denunciarlo, così come Gadda rappresentava il barocchismo del mondo.

   Vogliamo sottolineare la limpidezza d’animo e di mente, l’onestà personale e intellettuale che traspare dallo scritto di Emanuele Macaluso. E ancora la fideistica, inscalfibile convinzione di un critico letterario, peraltro fine, come Lorenzo Mondo, contro ogni prova provata, ogni confessione e testimonianza giudiziaria dei protagonisti, contro quanto sùbito intuito e sostenuto da Sciascia nel suo libro, che le lettere scritte da Moro nella prigione delle Brigate Rosse non erano di testa e di mano dello statista poi assassinato. Meglio non sottolineare invece, nel brano di Enzo Forcella dal titolo Due facce della medaglia, pubblicato da Repubblica, il tipico coraggio che viene a certe persone, riproponendo una polemica ormai sopita, nel momento in cui il sostenitore della tesi opposta viene a mancare ed è quindi nell’impossibilità di controbattere. La polemica è quella nota su Moro, sulla sorte di Moro. E se ne esce il giornalista, con una frase di involontaria, cinica ironia. Dice con la sicumera che gli viene dall’alto del potere del giornale per cui scrive: “Ma sul contrasto tra ‘intransigenti’ e ‘trattativisti’, avrebbe dovuto rendersi conto (Sciascia, naturalmente), proprio in nome della sua concezione laica e problematica della vita, che si trattava di una decisione politica e come tale opinabile”.  Concezione problematica della vita dice: e il problema era lì, proprio lì la vita di un uomo, di Aldo Moro, il problema era quello di salvare quella vita, contro le strategie della politica, contro la decisione del potere.

    Ma torniamo all’intelligenza, di quella della testa e di quella del cuore. Allora non possiamo non ricordare i lucidi brani dei francesi, di Fusco, di Fernandez, di Bianciotti e di Schifano, che sentono lo scrittore loro confratello di intelletto e di formazione, di metodo e di stile. Come confratello di fantasia e di passione, familiare per natura e per cultura lo sentono gli Spagnoli: Arias, Conte, Cruz, Gàandara, Savater, Barràl.

    E infine non possiamo non ricordare i bellissimi brani degli amici, di quelli che da vicino, giorno dopo giorno, hanno imparato a conoscere quest’uomo e questo scrittore e ad amarlo. Non possiamo non ricordare il racconto straordinario dell’incontro, a Castellina in Chianti, di Sciascia, la sua famiglia e Fabrizio Clerici, della scoperta, da parte dello scrittore, nella chiesa accanto alla casa del pittore, del quadro della tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti, che sarà certo l’esca che incendierà il racconto Todo Modo e che farà da copertina al libro.

    Non possiamo dimenticare il tono commosso e commovente delle parole di Elvira Sellerio, che con Enzo Sellerio e con Sciascia e per Sciascia, ha creato qui a Palermo, in Sicilia, uno dei fatti più straordinari e più memorabili di questi anni: la casa editrice Sellerio. Altro non so dire, mi è difficile dire. Posso solo ora aggiungere, a queste pagine, qualche mia pagina, scritta nel linguaggio che mi è più congeniale, più agevole: quello memoriale, narrativo.

Viaggio a Caltanissetta

    Era l’ottobre del ’43 quando feci il mio primo viaggio in Sicilia. Dico viaggio in Sicilia come se mi fossi mosso da un’altra terra, da una qualche regione al di là dello Stretto, o al di là del Faro, come si diceva una volta. E in effetti era, la zona da cui partivo, il Val Demone, la Sicilia ai piedi della barriera appenninica dei Nebrodi e delle Madonie, la Sicilia tirrenica, tutt’affatto diversa dall’altra, sconosciuta, che si svolgeva al di là dei monti: la Sicilia delle grandi terre, dei grandi altipiani, della nudità e della scabrosità, delle solitarie masserie, dei paesi fittamente aggrumati sulle alture, dei cieli bassi, infiniti.

    Su un camion sgangherato, io e mio padre, percorremmo strade dissestate dalla guerra (l’occupazione degli Alleati s’era conclusa a Messina verso la metà dell’agosto appena scorso), strade che si interrompevano sopra i torrenti e le fiumare dove i ponti, quasi tutti i ponti, erano stati fatti saltare (bisognava proseguire per alvei pietrosi, fangosi, polverosi o sopra fragili ponti di legno), strade con ancora ai margini carcasse di carri armati, di camion, di cannoni, d’altri ordigni: i segni della guerra erano ancora là, in quei simulacri squarciati e affumicati dei giorni bui e tremendi della storia.    La nostra meta era l’interno dell’Isola, alla ricerca di frumento, di fave, di lenticchie (le famose lenticchie di Villalba) che da noi, terra di limoni e di olive, mancavano del tutto. Per quelle terre assolate e desolate, s’incontrava ogni tanto un contadino che con un cenno della mano ci invitava a fermarci per offrire, a noi viandanti, grappoli d’uva. Era ancora, quella, l’antica e nobile Sicilia contadina che neanche lo strazio della guerra era riuscita a cancellare.

    Lasciato il bosco della Miraglia, per Troina, Nicosia e Leonforte, dopo Vallelunga, Villalba e Mussomeli, arrivammo, un tardo pomeriggio, a Caltanissetta.

    Nella piazza Garibaldi, affollata di gente (forse la stessa piazza dove, nell’alba silenziosa, alla partenza della corriera, si diffondeva la voce “implorante e ironica” del venditore di panelle di Il giorno della civetta), nella piazza un uomo vendeva un giornale.  “La forbice, La forbice!” strillava l’uomo. Nella mia sapienza morfologica di diligente scolaro di terza elementare, stigmatizzai dentro di me il dialettismo di quel nome di giornale al singolare, non intuendone la sua valenza metaforica: Forbice come discussione critica, come fronda sui e ai fatti pubblici, i fatti nati nello spazio breve di quella piazza, tra la Cattedrale e il municipio, e che riguardavano tutta la comunità. Una conversazione pubblica e democratica subito ripresa dopo l’interdizione del periodo fascista e l’interruzione della guerra.

    Il mio secondo viaggio a Caltanissetta avvenne alla fine di luglio del ’64 quando giunsi in treno dal mio paese in questa città, con dentro ancora vivo il ricordo del primo viaggio di venti anni prima, per incontrare Leonardo Sciascia.

    Nell’isolamento e nella solitudine del paese, nel vuoto storico d’una

zona fortemente segnata dalla natura ma non dalla cultura, era grande la necessità – al di là delle letture – di frequentazioni e di conversazioni, di confronti e di verifiche, di consigli e di apprendimento.

    Nell’imprevedibile gioco del caso, avevo avuto la ventura, e la fortuna, dentro l’immobile vastità dello spazio e dentro l’infinito scorrere del tempo, nella esigua geometria di quest’Isola e nel tempo breve d’una vita umana, di trovarmi ad essere conterraneo e contemporaneo di due grandi uomini, di un poeta e di uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

    A causa della vicinanza, frequentai per molto tempo il poeta di Capo d’Orlando. Ma, al di là della fascinazione e del rapimento della poesia (e quella di Piccolo era particolarmente rapinosa; e il poeta, il personaggio, straordinariamente affascinante e trascinante) sentivo il bisogno, per difesa e forse anche per vocazione della prosa, d’una scrittura scandita dalla logica, d’una narrazione sorto dalla realtà e dalla storia. La prosa che avevo letto sulle pagine che giungevano dal cuore della Sicilia, dalla piazza dove un giorno lontano avevo udito un uomo strillare un giornale intitolato La Forbice, da questa città, fra tutte in Sicilia crediamo la più carica e la più consapevole di e della storia, della storia intendiamo come superamento, attraverso lo scontro dialettico, delle carenze, degli squilibri di una comunità civile; la prosa, i racconti che avevo letto nei libri – allora ancora pochi -, nuovi, straordinari, straordinariamente ricchi di futuro, di Leonardo Sciascia.

    Per conoscere questo grande scrittore e – scoprii dopo – questo grande uomo, feci il mio secondo viaggio a Caltanissetta. E dietro invito dello stesso scrittore, scaturito dalle fragili credenziali del mio racconto, pubblicato nel ’63, a lui inviato e in cui, nella dedica, professavo il mio debito ai suoi libri, al suo insegnamento, alla alta, civile sua conversazione in Sicilia.  

Una conversazione in Sicilia

    C’è un testo importante nella storia della letteratura italiana contemporanea, un testo che ha formato e a cui si è conformata una generazione di scrittori: Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini.

   Perché “conversazione”? Certo, conversazione tra Silvestro e la madre Concezione, tra Silvestro e il fratello morto, tra Silvestro e il panniere, l’arrotino e tutti i personaggi che il protagonista incontra nel suo viaggio nella terra dell’infanzia, nella sua discesa agli “inferi”; “conversazione” anche, crediamo, come memoria di domenicali piazze siciliane ferventi di brulichio e brusio, al pari di alberi che, in certe ore della giornata, sono invasi da nugoli di uccelli (la piazza del bel paese di Nicosia e la piazza di Caltanissetta, affollata di uomini in tabarro e coppola, che Vittorini farà fotografare a Luigi Crocenzi per l’edizione illustrata del 1953 del suo romanzo); ma “conversazione” ancora come riferimento culturale: alle sacre conversazioni di tanta pittura italiana, e soprattutto, pensiamo, alla conversazione “dentro” la Flagellazione di Piero della Francesca, su cui ha indagato Carlo Ginzburg. Il quale scrive: “La scena della flagellazione di Cristo è immediatamente riconoscibile, ma si svolge in secondo piano e lateralmente. Una grande distanza, resa da Piero con maestria prospettica straordinaria, separa il Cristo da tre misteriosi personaggi in primo piano”. I tre personaggi, che regalano in secondo piano la scena sacra, conversano, e sembra, la loro, una conversazione filosofica.

Ora, al di là della identificazione dei tre personaggi e del significato da dare a tutta la scena, ci sembra importante questo spostamento di piano dal sacro al profano, dal divino all’umano, dal dramma alla speculazione.

    Nella Conversazione di Vittorini c’è anche, attraverso il dispiegamento dei dialoghi, che tendono, come dice Calvino, “a realizzare una comunicazione assoluta, una convivenza umana ideale”, c’è anche questa intenzione, questo tentativo di uscire dal divino e approdare all’umano, uscire cioè dal mito e approdare alla realtà, dalla natura alla storia, dal passato al presente, dalla memoria alla contingenza, dalla immobilità all’azione: infine, dal simbolismo alla metafora. Non ci interessa qui stabilire fino a che punto Vittorini ci sia riuscito, fino a che punto la “conversazione” releghi in secondo piano il mito senza fratture prospettiche, senza volontaristici scarti, fino a che punto sia piuttosto la sua un’uscita dal mito per approdare all’utopia (che si mostrerà poi in tutta evidenza ne Le città del mondo); utopia che, oltre ad essere un progetto chiuso, conservativo, come ci avverte Lewis Mumford, è ancora mito, mito del futuro speculare a quello del passato, destinato anch’esso a infrangersi contro gli scogli della storia.

    Vittorini aveva scritto Conversazione anche, crediamo, contro la concezione deterministica, antistorica verghiana, contro il 2mito2 letterario di Verga (non è stato Sklovskij a dire che la storia della letteratura è una successione di uccisioni di padri?).

    A piazze siciliane, accennavamo sopra. Quelle praticate da Vittorini e dai vittoriniani, le piazze dei paesi della parte orientale dell’Isola, del Messinese, del Catanese, del Siracusano o del Ragusano, sono quasi sempre piazze “belle”, ricostruite, dopo un qualche disastro della natura – eruzione di vulcano o terremoto -, secondo un progetto e con un’aspirazione alla bellezza e all’armonia (le piazze barocche) o sono “spiazzi” di sperduti villaggi contadini o di masserie, luoghi privi di segni storici, assolutamente “naturali”.  Le “conversazioni” allora, in quelle piazze e in quegli spiazzi, si scostano man mano dalla comunicazione e tendono verso l’espressione, si formalizzano, si stilizzano, abbandonano man mano il rigore logico della prosa e si spostano verso i fraseggi del canto, i ritmi della poesia.  Le piazze dell’Occidente siciliano, e soprattutto quelle della zona delle zolfare, del Nisseno e dell’Agrigentino, al contrario, sono piazze “brutte”, nate senza un progetto architettonico, ma spontaneamente da una necessità, dove gli edifici, non più in arenaria dorata come a Noto, a Scicli o a Siracusa, sono in grigiastra pietra gessosa.  In queste piazze di paesi agrigentini dello zolfo, come Grotte o Racalmuto, dove alla vecchia cultura contadina s’era sostituita la nuova cultura operaia dei minatori, la “conversazione” nasce da una necessità sociale, si svolge nel modo più secco e disadorno, più diretto e chiaro, più logico e dialettico.  Ci è capitato di affermarlo più volte e con noi il critico Claude Ambroise: se non si può capire uno scrittore come Pirandello senza la realtà della zolfara, tanto meno si può capire uno scrittore come Leonardo Sciascia (ché lui ha mosso questo nostro discorso partito da lontano), questo scrittore letteratissimo e antiletterario, antimitico e antilirico, loico e laico, civile e “politico”, questo grande scrittore da poco scomparso.

    Tutta l’opera di Sciascia è una necessaria, essenziale, lucida e serrata – anche se man mano sempre più disperata – conversazione in Sicilia.  Una conversazione, questa volta sì, che tende “a realizzare una comunicazione assoluta”, una convivenza sociale, piuttosto che ideale, vale a dire utopica, più giusta, vale a dire più umana: una convivenza dove nessuno, individuo, Stato, o potere d’ogni tipo, politico, giudiziario, religioso o finanziario deve infrangere le regole della convivenza sociale, deve offendere il cittadino, l’uomo.  Una conversazione che ha le sue radici nel profondo della miniera, che dal profondo emergendo, come Ciàula che scopre la luna, nonché trovare conforto nella “chiarità d’argento”, trova forza nella luce diurna della ragione: luce solare, cruda, che, come in un quadro di Picasso, scandisce i piani e rivela la natura cubica della realtà.

    Con Sciascia, la società ideale e utopica è posta “in secondo piano e lateralmente”; la conversazione, per consapevolezza storica e per pratica della realtà distanziata “con maestria prospettica straordinaria” dagli assoluti, si svolge intorno al relativo e al contingente.

   È stato detto più volte, e lo dice lo stesso Sciascia, che tutta la sua “poetica” – e usiamo la parola nel senso etimologico, nel senso cioè del fare – è contenuta nel primo libro: Le parrocchie di Regalpetra. E in effetti lì si trovano tutti i temi che Sciascia svilupperà negli altri suoi libri. E vogliamo osservare qui che è raro trovare in un autore, sin dagli esordi, una così sicura scelta di campo, di campo letterario, e ad essa rimanere fedele; trovare un tono, un linguaggio, una scrittura così impostata sin dall’inizio, così certa e inconfondibile. Per quest’ultima, Sciascia stesso scrive: ”non ho mai avuto problemi di espressione, di forma, se non subordinati all’esigenza di ordinare razionalmente il conosciuto più che il conoscibile e di documentare e raccontare con buona tecnica (per cui, ad esempio, mi importa più di seguire l’evoluzione del romanzo poliziesco che il corso delle teorie estetiche)”. Per quanto riguarda i temi, scrive ancora: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di colore che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati”.  Un unico libro sulla Sicilia, dunque: partendo, come nell’esordio, sempre da Regalpetra, da Racalmuto. Da Racalmuto snodando quel filo ad alta tensione che attraversa la Sicilia, l’Italia, tutto il contesto socio-culturale in cui si trova immerso il destinatario della sua narrazione o del suo ragionamento. Dove si trova il suo interlocutore.

    Ora, c’è un luogo in Regalpetra, un luogo privilegiato da cui si osserva la realtà sociale, in cui di essa realtà si conversa: il Circolo della Concordia. Concordia come sanzione della ricomposizione di una discordia: nel 1866 il circolo era stato bruciato dalla popolazione che vedeva nei civili, nei nobili degli antagonisti, dei dispensatori di ingiustizie. Un circolo quindi non come luogo di scontro emozionale ed irrazionale, come oggetto di violenza, ma come luogo di conversazione, di scontro dialettico, come immagine, come rappresentazione e teatro della democrazia parlamentare: il migliore dei sistemi possibili di convivenza civile. Nel circolo lo scrittore sta ad osservare e ad ascoltare, nel circolo e del circolo conversa lucidamente, criticamente, ironicamente; del circolo registra le vicende, le involuzioni e le evoluzioni, i periodi di apertura democratica e di chiusura.

    Il patto concordatario su cui si fonda il circolo, lo stato democratico, viene violato quando, chi ha la responsabilità della sua gestione (individui, organi o gruppi di potere), agisce contro lo Statuto: da cui i temi sciasciani del potere politico e del potere giudiziario degenerati, il tema di organizzazioni criminali come la mafia che minano lo statuto. E da qui, quando alla degenerazione segue l’omicidio (il massimo dell’infrazione sociale perché viola il primo e sommo principio del patto sociale: il rispetto della vita umana), da qui l’interesse di Sciascia per il romanzo poliziesco, la narrazione di più alto valore civile.  Perché l’indagine poliziesca non è che il tentativo di ricucire i fili dello strappo, operato nel tessuto sociale, attraverso l’individuazione e la condanna del colpevole. Ma così non vanno le cose in Sicilia, in Italia, dove l’omicidio non è che l’ultima manifestazione di una serie di delitti che il potere politico degenerato mette in atto attraverso quel suo braccio armato che è la mafia.  L’individuazione dell’assassino o degli assassini comporta l’individuazione dei mandanti, comporta l’indagine del potere su se stesso (come in quel romanzo giallo di Fernand Crommelynck che si chiama Monsieur Larose est-il l’assasin?), la messa sotto accusa di se stesso e la sua condanna. Nei gialli di Sciascia dunque gli assassini non sono quasi mai individuati e mai puniti perché vi si tratta di delitti politici, perché i suoi sono gialli politici.

   Tra il ’61 e il ’74 Sciascia pubblica quattro romanzi gialli: Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo Modo. Attraverso essi si può vedere la storia dell’Italia di quegli anni, il processo di degenerazione del potere politico e degli organi dello stato parallelamente all’evolversi e all’ingigantirsi di quel fenomeno, di quel cancro della società civile che è la mafia, che sul corpo dello stato sembra aver operato la sua metastasi.

    Dei quattro, il libro di più alta tensione politica e letteraria ci sembra Todo Modo (“Todo modo è destinato a entrare nella storia letteraria del Novecento come uno dei migliori libri di Sciascia”, scriverà Pasolini).  In quel libro lo scrittore va al cuore del potere politico in Italia, al cuore del potere di un partito; alla matrice metafisica a cui il partito si ispira e da cui deriva il suo potere; e nel momento critico in cui i più alti rappresentanti di quel potere manifestano la loro fede nella metafisica attraverso gli esercizi spirituali. Ma tutto il romanzo, come nella realtà, è rovesciato: la metafisica del bene diventa la metafisica del male; il Diavolo prende il posto di Dio; gli esercizi spirituali diventano esercizi criminali.

    Il testo è ricchissimo di intertestualità, di riferimenti, di significati espliciti e impliciti. Il personaggio narrante, un pittore, è “nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani – al punto (dice) che tra le pagine lo scrittore e la vita che avevo vissuto fin oltre la giovinezza non c’era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti)”. Parte dunque da Agrigento, da Racalmuto la narrazione. E da qui il protagonista, uomo solo – ripercorrendo à rebours tutta una catena di casualità e riapprodando all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza, appunto con la frase o tema musicale di Giacomo De Benedetti nella mente – compie un suo atto di libertà e parte.

    Ma occorre qui citare il passo che Giacomo De Benedetti scrive riguardo al mondo pirandelliano e da cui Sciascia muove per iniziare la sua narrazione: “A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di casualità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe riassumere l’universo pirandelliano come un diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo”. Parte dunque, dicevamo, il protagonista di Todo Modo, e dopo tre giorni di vagabondaggio in macchina, arriva all’eremo di Zater. Qui la possibilità musicale è fermata dal frastuono di un concerto di pallottole, tonde e levigate come quelle parole per tre volte iterate da Sant’Ignazio nella Primera anotaciòn dei suoi Esercizi Spirituali: “Todo modo, todo modo, todo modo […] para buscar y hallar la voluntad divina…”: esercizi, metodo, iniziazione, portano verso il cammino della noche oscura, la teologia mistica, la contemplazione. Vogliamo qui subito soffermarci sulla frase à rebours. A rebours ci richiama alla mente il titolo del famoso romanzo di Huysmans, il padre della letteratura decadente francese, autore anche di Làbas, dove “esplora le provincie più tenebrose e remote del satanismo”, come dice Praz. Non siamo, come si vede, nel cattolicesimo di Manzoni o di Pascal, ma in quello decadente e decaduto (anche a livello stilistico o linguistico) che porta all’oscurità, alla disgregazione, all’annientamento; porta sulla zattera della Medusa; perché, dice don Gaetano, il deuteragonista, “il naufragio c’è già stato” e il secolo, il mondo, per i cattolici, “è l’orlo dell’abisso: dentro e fuori di noi. L’abisso che invoca l’abisso”.

    Mai, come in questo libro, la struttura gialla del racconto si è attagliata

All’argomento, dialetticamente, come costruzione razionale contro la disgregazione della ragione, l’indagine contro lo sgomento, la memoria contro l’oblio, la cultura contro l’ignoranza, il logos, la parola contro l’inesprimibile, il silenzio. Ma è questo, al contempo, il giallo più misterioso di Sciascia, dove cioè non è più possibile l’individuazione dell’assassino perché la ragione indagativa si arresta davanti al muro della metafisica: metafisica religiosa e metafisica del potere. Allora siamo, qui si, sulla zattera della Medusa dove può esplodere il cannibalismo, ma siamo anche nell’ambito letterario, l’unico dove ancora si può “immaginare e fare”, dove l’autore o l’io narrante, in un gesto di libertà e di liberazione, come quello del gidiano Lafcadio, può assurgere ad angelo sterminatore, angelo giustiziere.

    In Todo modo, come in altri libri di Sciascia, ci sono come delle anticipazioni (profezie sono state chiamate) di fatti che nella realtà puntualmente accadranno, sono accaduti. Todo modo dunque anticipa fatti e genera necessariamente altri due libri: Candido (1977) e L’affaire Moro (1978).

    Per quanto riguarda Candido, c’è in Todo modo come l’autocitazione, se pure antifrasticamente, di un libro a venire. Dice il narratore: “E forse si possono oggi scrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro non si fa […] Tutti. Tranne Candide”. I fatti, i fatti italiani, costringeranno invece il nostro scrittore a riscrivere anche Candide: Candidoovvero un sogno fatto in Sicilia. Quei fatti che lo costringeranno a scrivere anche, dolorosamente, pietosamente, di quel morto ammazzato sulla zattera della Medusa che è stato Aldo Moro.

    L’affaire Moro, la militanza politica e l’impegno civile al Parlamento italiano di Sciascia, che si conclude con la sua stesura della relazione di minoranza della commissione parlamentare sul “Caso Moro”, sembrano segnare una svolta nell’itinerario letterario di Sciascia. Lo scrittore sembra

rinunziare alla narrazione, al racconto cosiddetto “puro”. Rinunziare alle sue celebri e magistrali narrazioni “gialle” o poliziesche che leggevano, interpretavano o divinavano la realtà politica e civile contingente e futura. Il mondo, il mondo civile sembra dire lo scrittore, si è fatto così tenebroso, così orrendamente e indecifrabilmente antisociale e criminale che non è più possibile, stando nella piazza, al circolo, alla luce del sole, alcuna narrazione che possa rappresentarlo e interpretarlo. A meno che, con mortale rischio morale, non si voglia scendere nei giardini sotterranei, nei bui meandri del potere di misteriose e criminose sette di balzachiani Devorants.

    I cultori della romanzeria, i fanatici della letterarietà rimproverano allo scrittore la sua ritrazione, la sua rinunzia al romanzo sull’attualità, imputando questa ritrazione, piuttosto che a nobile inquietudine, a crisi morale, a una banale stanchezza artistica o espressiva. Invece, dal ’78 in poi, l’attività letteraria di Sciascia, al di fuori e contro la cosiddetta narrazione pura, è quanto mai fervida e ricca di frutti. Il suo ritorno alla narrazione di tipo storico, come Dalle parti degli infedeli o Il teatro della memoria, La strega e il capitano o Una sentenza memorabile, 1912+1 o Porte aperte, il suo ritorno alla saggistica con Nero su Nero, Cruciverba, Stendhal e la Sicilia o Alfabeto pirandelliano; la sua ricognizione memorabile come Kermesse o Occhio di capra segnano le punte più alte dell’intelligenza, della sapienza e, perché no?, della poesia, l’aspra poesia di Leonardo Sciascia.

    Nel decennio tra il 1979 e il 1989, mentre lo scrittore si rifugiava nelle sue narrazioni storiche, nei suoi saggi e nelle sue memorie, sembrava che il cancro, contemporaneamente, continuasse a divorare parallelamente l’uomo. Il cancro dell’uomo si faceva metafora del cancro della società e viceversa.

    Parlavamo sopra di solitudine e di disperazione dello scrittore (ma che ha sempre sperato nella forza della ragione, nella funzione della scrittura), solitudine e disperazione che sono evidenti (è la parola giusta) negli ultimi suoi due racconti: finale e struggente passo d’addio; estremo, sottile e tragico ritorno al racconto: Il cavaliere e la morte e Una storia semplice.

    Evidenti attraverso due citazioni iconografiche: rispettivamente di Dürer e di Klinger. Amava le incisioni, Sciascia, le gravures (e i due termini, l’italiano e il francese, certamente per lui si caricavano di altro significato), e amava soprattutto le acqueforti e le puntesecche (ancora altri termini significativi) che, con il loro segno nero, si potevano accostare alla scrittura; una scrittura che, passando dal negativo della lastra inchiostrata al positivo del foglio bianco, portava in sé una componente di imprevisto, poteva acquistare altro senso al di là delle intenzioni, e della mano, dell’artista. Era per lui, l’incisione, l’affascinante scrittura iconica più simile alla scrittura segnica, l’acquaforte più simile allo scrivere: allo scrivere che è “imprevedibile quanto il vivere”.

    Una famosa incisione del Dürer fa da leitmotiv a Il cavaliere e la morte. “Si era ormai abituato ad averla di fronte, nelle tante ore d’ufficio. Il cavaliere, la morte e il diavolo. Dietro, sul cartone di protezione, c’erano i titoli, vergati a matita, in tedesco e in francese: Ritter, Tod und Teufel; Le chevalier, la mort ed le diable. E misteriosamente: Christ? Savonarole? Il collezionista o il mercante che si era interrogato su quei nomi pensava forse che l’uno o l’altro Dürer avesse voluto simboleggiare nel cavaliere?”.  Queste considerazioni sull’incisione di Dürer sono del protagonista del racconto, Vice (questore), condannato a morire da una inesorabile malattia, ma ucciso prima dal potere politico-mafioso.  Quel cavaliere del Dürer (inciso dall’artista tedesco insieme al San Gerolamo nello studio e alla Melanconia I tra il 1513 e 1514: le tre incisioni maestre sono state chiamate) ha suscitato pagine di riflessioni, suggestive interpretazioni al grande critico Panofsky, ha dato modo all’italianista Lea Ritter Santini (Le immagini incrociate) di rimandare a tanti scrittori, filosofi che con quell’immagine si sono incontrati: Nietzsche, Mann, Hofmannsthal, D’Annunzio…

    Per noi quel cavaliere del Dürer, insidiato dalla Morte e dal Diavolo, che solido dentro la sua armatura, sicuro in groppa al suo robusto cavallo procede solitario verso la turrita città in cima alla lontana collina, la città ideale o d’utopia che mai raggiungerà, rimanda a un altro cavaliere, al Cavaliere disarcionato di Max Klinger: l’uomo è a terra, schiacciato dal corpo del suo cavallo, inerme anche per la spada (la penna) che gli è caduta di mano, solo e moribondo in mezzo alla foresta, un nugolo di neri corvi che gli volteggiano sopra, pronti a ghermirlo. L’inquietante Max Klinger (un Klinger che ha letto Poe e che è stato letto da Hitchcock), Sciascia cita nel suo ultimo racconto il congedo, Una storia semplice : “L’interruttore. Il guanto. Il brigadiere nulla sapeva, né l’avrebbe apprezzata, di una famosa serie di incisioni di Max Klinger appunto, intitolata Un guanto, ma nella sua mente il guanto del commissario trascorreva, trasvolava, si impennava come allora nella fantasia di Max Klinger”.

    Non un guanto ma, come per traslitterazione, neri uccelli volteggiavano sopra quel cavaliere disarcionato che sta per morire, che muore. I neri uccelli del potere, fra cui, il più sinistro e il più famelico o divorante, un goyesco “buitre carnivoro”.

    Sorvolando sopra quei corvi e quell’avvoltoio, anche se non siamo dotati di ali, consideriamo qui la caduta del cavaliere lungo il cammino verso la città “relegata in secondo piano”, verso la città ideale.  Consideriamo la sua grande, civile, generosa conversazione intrattenuta con noi, per noi, e ora interrotta. Ma nel suo silenzio, come nel silenzio di tutti i veri scrittori e veri poeti che ci hanno lasciati, se non vogliamo essere sopraffatti e storditi dal chiasso del mondo, cerchiamo di risentire le sue parole. Cerchiamo di non dimenticarle. Parole limpide, di luce, che ci giungono dalla periferia dell’Europa, dal cuore di un’isola sperduta e perduta; parole sorte tra uomini neri, che odorano di zolfo.

“Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro, pietà ed amore

trovavano antiche parole”.

     Così Sciascia in una lirica della sua giovinezza.

Questo testo è stato letto il 5 aprile allo Steri di Palermo in occasione della presentazione del n. 9 di “Nuove Effemeridi”, interamente dedicato alla figura e all’opera di Leonardo Sciascia.


Le pietre di Pantalica Introduzione di Gianni Turchetta

phpVincenzo Consolo

Le pietre di Pantalica

Introduzione di  Gianni Turchetta

Inventare una lingua

Se si adotta la parola “scrittura” in un senso forte, intendendola

cioè non soltanto come produzione di opere letterarie, ma come

possesso eccezionalmente sicuro della lingua e come stile fortemente

individuato, riconoscibile ad apertura di pagina, ebbene

in tal caso Vincenzo Consolo è uno dei pochissimi “scrittori”

operanti oggi in Italia. Come spesso accade, egli è però

meno conosciuto di molti autori mediocri, e solo negli ultimi

anni ha cominciato a trovare un pubblico abbastanza ampio. Indubbiamente

questo dipende in misura non piccola dalla complessità

e difficoltà della sua lingua, ma anche dalla serietà e riservatezza

del personaggio, schivo e poco incline a tuffarsi nei

bassi fondali delle iniziative pubblicitarie, e soprattutto, cosa

molto più importante, non disposto a scrivere forsennatamente,

e a pubblicare un libro all’anno o più pur di restare sempre al

centro dell’attenzione e tenersi a galla nella memoria della gente.

In circa venticinque anni di carriera letteraria, infatti, Consolo

ha pubblicato solo cinque libri, tanto piccoli (non arrivano

mai alle duecento pagine) quanto densi, e lungamente pensati.

Nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello (provincia di Messina),

Consolo, come quasi tutti i più importanti scrittori siciliani

moderni, da Verga e Capuana a Pirandello e Vittorini, scrive

costantemente della sua terra d’origine, ma vivendone lontano.

Dopo aver compiuto infatti gli studi universitari a Milano

ed essere temporaneamente rientrato nell’isola, egli vive dal 1°

gennaio 1968 (una data che sembra un presagio) a Milano, dove

 

fino a pochi anni fa ha lavorato per una grande azienda, prima

di dedicarsi esclusivamente alla letteratura.

Questa condizione di distanza materiale e vicinanza sentimentale

sembra derivare insieme da un rapporto di odio e amore

con la Sicilia, e da una doppia esigenza artistica e conoscitiva.

Da un lato infatti la lontananza consente una messa a fuoco

migliore della realtà siciliana, che può essere vista più chiaramente

anche perché messa in relazione con quanto accade nel

“continente”. Da un altro lato però, con paradosso apparente,

la Sicilia della giovinezza o di un passato ancora più remoto, allontanata

e ricostruita sul filo della memoria personale o storica,

diventa un luogo forse idealizzato dalla nostalgia, ma proprio

per questo capace di funzionare come termine di confronto

per misurare la violenza del tempo e la profondità di trasformazioni

che distruggono un mondo ingiusto ma pure carico di valori

positivi, per sostituirlo con un mondo non meno ingiusto e

per sovrapprezzo impoverito sul piano umano.

In questa prospettiva la Sicilia diventa, proprio come era accaduto

a Verga e Pirandello, o, su un livello meno alto, a Tomasi

di Lampedusa, sia il luogo simbolico di una condizione universale

e atemporale, sia l’oggetto di una rappresentazione ben

individuata, costruita attraverso uno studio attento delle testimonianze

storiche, come ci mostrano i lavori saggistici di Consolo

e lo stesso uso di documenti veri all’interno delle opere letterarie.

La tragedia del vivere viene così rappresentata su due

livelli diversi, inestricabilmente intrecciati. Anzitutto c’è la riflessione

esistenziale e metafisica sul destino eterno dell’uomo,

sulla sua sofferenza e sul dominio invincibile della corrosione e

della morte. Così Vito Parlagreco, il protagonista di Filosofiana,

uno dei racconti più complessi de Le pietre di Pantalica, si domanda:

“Ma che siamo noi, che siamo? (…) Formicole che s’ammazzan

di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo.

In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si

chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno,

due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra

sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della

vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena

o figura”. Si noti che questa meditazione avviene mentre Vito

sta “masticando pane e pecorino con il pepe”, così da controbilanciare

il tono alto con un riferimento basso, comico: una situazione

tipica della scrittura consoliana. La percezione atemporale

del male di vivere è al centro, in cui è leopardiano non

solo lo spunto narrativo (la caduta della luna, come nel frammento

“Odi, Melisso”) ma anche lo sgomento cosmico di fronte

all’incommensurabilità dell’universo che ci circonda: “Ma se

malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine,

panico, terrore. Contro i quali costruimmo gli scenari, i teatri finiti

e familiari, gli inganni, le illusioni, le barriere dell’angoscia”.

A differenza però di tanti cantori di una negatività piagnucolosa,

infantilmente indiscriminata e, a pensarci bene, consolatoria,

Consolo ci costringe continuamente a ricordare che la

sofferenza è sì di tutti, ma non si distribuisce affatto in parti

eguali, anzi è perfettamente rispettosa delle differenze di classe.

Ecco così che arriviamo all’altro livello della rappresentazione

della tragedia del mondo, e alla violenza non più della

natura ma dell’uomo contro l’uomo. Memore dei Viceré di De

Roberto oltre che del Gattopardo, Consolo sottolinea la recita

eterna del potere, “quella di sempre, che sempre ripetono baroni,

proprietari e alletterati con ognuno che viene qua a comandare,

per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere

i villani”. D’altra parte anche in questo egli sa distinguere bene

fra il ripetersi in ogni società di una divisione fra dominati e

dominatori, e le articolazioni diverse assunte dalla violenza e

dal potere a seconda dei tempi e dei luoghi. Si potrebbe anzi

seguire l’evoluzione della narrativa consoliana sottolineando

via via l’oscillazione fra eventi storicamente individuati e vicende

inventate, sempre storicamente credibili ma impiegate

soprattutto per il loro peso simbolico. Così Il sorriso dell’ignoto

marinaio, “romanzo storico che è la negazione del romanzo,

come narrazione filata di una ‘storia’” (Segre), pur essendo

carico di significati metaforici, incentrati sull’inquietante

presenza del Ritratto di ignoto di Antonello da Messina, mette

a fuoco un preciso periodo storico, la fine cioè del regime borbonico

e la cruenta ribellione contadina di Alcára Li Fusi del

  1. Al contrario in Retablo, pur trovandosi anche personaggi

realmente esistiti e una verosimile ricostruzione di un Set-

tecento insieme sontuoso e miserabile, l’interesse prevalente si

sposta verso il valore simbolico di un mondo in cui la violenza

convive con una disperata vitalità e con la persistenza di passioni

autentiche, che si oppongono polemicamente allo squallore

senza nerbo e alla disgregazione dell’oggi. Ne Le pietre di

Pantalica, invece, di nuovo ciò che conta è la realtà del passato

recente e dell’oggi, rappresentata in modo puntuale, e talvolta

mescolando al racconto moduli saggistici. Direttamente legata

a questo più diretto impegno nella contemporaneità è anche

la scelta di un linguaggio relativamente diverso dai vertiginosi

intarsi di Retablo e di Lunaria, un linguaggio che non viene

meno alle tendenze consuete del plurilinguismo di Consolo,

ma le traduce in un tessuto discorsivo un poco più disteso.

La legge fondamentale della lingua consoliana sembra essere

la tensione verso la differenziazione, verso la conquista di

un’identità originale e riconoscibile quasi in ogni giuntura sintattica.

Una tensione che dipende anche da quanto Harold Bloom

ha definito “l’angoscia dell’influenza”, la paura cioè di non

riuscire ad avere un’identità nell’affollato mondo delle lettere:

“Ma tutto questo, ahimè, di già cantò il Poeta, un poeta di qua,

che tutto ha saccheggiato: fiumi (…) laghi stagni erbe frasche, e

uccelli, stazionari e di passaggio, merli gazze aironi gru. E allora,

accidenti!, non c’è più augello insetto goccia d’acqua che sia

ormai nullius o almeno appropriabile”.

Soprattutto però Consolo vuole creare un forte scarto fra la

sua lingua e la povertà espressiva e conoscitiva della lingua appiattita

dell’uso quotidiano. Per far questo egli si allontana sistematicamente

dal lessico dell’italiano comune e quasi cancella

il tono medio, ricorrendo a una pluralità di lessici (soprattutto

l’italiano antico e il dialetto siciliano) e a una pluralità di registri

e di toni, in una gamma amplissima che va dal tragico al

domestico-familiare, e dal lirico al triviale-volgare. Il brano che

segue ci mostra per esempio un massiccio impiego di strumenti

tipici del linguaggio lirico, come la disposizione parallelistica

di frasi con la stessa struttura sintattica, la formazione di strutture

ritmiche semiregolari e talora di veri e propri versi, le figure

etimologiche, le ripetizioni di suoni (allitterazioni) spesso

con valore fonosimbolico, fino alle rime (e alle quasi-rime e

false rime): “Che fu? Che fu? Che fu? Fu furia furente, furore

che scorre e ricorre, follia che monta scema che trascorre, farandola

frenetica, girandola che vortica, si sgrana nel suo cuore, si

spiuma nell’ali di faville, si dissolve in scie in pluvia spenta di

lapilli. Fu fu fu, fumo vaniscente umbra vapore tremolante di

brina sopra erbe spine gemme. Vai, vah. Una valanga di pietre

ti seppellirà. Sul tumulo d’ortiche e pomi di Sodoma s’erge la

croce con un solo braccio, la forca da cui pende il lercio canovaccio.

Chiedi pietà ai corvi, perdono ai cirnechi vagabondi, ascolta,

non tremare, l’ululato. Ma tu lo sai, lo sai, sopravvivono soltanto

la volpe e l’avvoltoio”.

È importante insistere sul contrasto alto-basso, tragico-comico,

perché è il meccanismo che consente di combattere e mettere

in scacco l’atonìa del tono medio o dimesso, ma senza sbracare

nel sublime, come accade regolarmente agli scrittori meno

padroni delle dinamiche dello stile. Questo contrasto ha fatto

a ragione pensare non solo allo sperimentalismo linguistico di

altri autori siciliani come Pizzuto e D’Arrigo, ma anche e proprio

al grande maestro di tutti, cioè a Gadda. E, per quanto riguarda

l’oggi, se Bufalino, un altro siciliano, persegue essenzialmente

una raffinata strategia linguistica di allontanamento

dal presente in direzione alta, per certi versi Consolo potrebbe

piuttosto essere avvicinato a un gaddiano purosangue (anche

perché milanese) come Tadini, altro nostro narratore non conosciuto

come meriterebbe. Come succede ai veri scrittori espressionistici

anche Consolo punta spesso, proprio per volontà di

provocazione, sulla rappresentazione della carnalità umana, di

cui magari accentua proprio gli aspetti più crudamente materiali,

e talvolta brutali o macabri, stomaco e viscere inclusi. Ma

è opportuno ricordare che la compresenza contraddittoria di comico

e tragico coincide anche esattamente con quel “sentimento

del contrario” che è la chiave di volta dell’umorismo pirandelliano.

Un modo di percezione che non a caso Consolo ritrova

nell’amico Sciascia: “Gli capitava spesso, a lui cultore della razionalità,

del pensiero chiaro e ordinato, amante dell’ironia e

del piacere dell’intelligenza, d’imbattersi in persone che lo incuriosivano

per la loro originalità, per la loro comica eccentricità,

che gli facevano pregustare spasso, gioco lieve e ameno, e che si

scoprivano invece, come denudandosi all’improvviso, la malata

pelle della pazzia. E gli si rivoltava tutto in amaro, in penoso.”.

La pluralità di lingue e di toni implica poi anche, altra caratteristica

fondamentale, pluralità di prospettive. Se in Retablo, vistosamente,

ognuna delle tre parti ha un narratore diverso, che

appunto vede (deforma, interpreta) la realtà dal suo punto di

vista, obbligando a sua volta il lettore a cambiare via via prospettiva,

più in generale Consolo sceglie continuamente di raccontare

secondo la prospettiva soggettiva, parziale di qualcuno

che è all’interno della storia. Lo stesso tessuto verbale fatto

di molte lingue sta proprio a significare il tentativo di dar voce

a molte prospettive diverse, alla visione del mondo di chi parla

o parlava quel determinato linguaggio. Si comincia così a intravedere

il significato politico di certe scelte di stile: come il suo

amico etnologo Antonino Uccello raccoglieva gli oggetti della

tradizione siciliana per farli sopravvivere, almeno nel ricordo,

alla sparizione delle culture che ne facevano uso, così lo scrittore

Consolo cerca di far sopravvivere le parole morte o morenti o

marginalizzate, e con esse le visioni del mondo di uomini e culture

altrimenti condannati al silenzio. Come egli stesso ha dichiarato

in una bella intervista curata da Marino Sinibaldi: “Fin

dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. (…)

Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale

alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione

nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato,

è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati

(…). Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che

le parole esprimono, per salvare una certa storia”.

Fra le rovine

Una lingua che costantemente si sforza di sottolineare la pluralità

delle prospettive rivela però anche una sostanziale sfiducia

nella forza conoscitiva del proprio punto di vista, o almeno nella

possibilità di riuscire a produrre una rappresentazione unitaria

del reale. Così, con un’ambivalenza tipica della letteratura

moderna, la titanica ambizione di far parlare nella propria tutte

le lingue dimenticate coincide esattamente con il dubbio di non

essere capaci di capire nulla: “È sempre sogno l’impresa del narrare,

uno staccarsi dalla vera vita e vivere in un’altra. Sogno o

forse anche una follia, perché della follia è proprio la vita che si

stacca e che procede accanto, come ombra, fantàsima, illusione,

all’altra che noi diciamo la reale”. E questo è anche uno dei motivi

per cui Consolo non può e non vuole praticare la narrazione

filata, e racconta per frammenti anche quando costruisce un romanzo,

come era accaduto già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, e

come accade di nuovo nella prima parte delle Pietre di Pantalica.

Si capisce così come l’insistenza sul tema delle rovine, intese

come scavi archeologici, sia un modo di parlare delle condizioni

di possibilità della scrittura letteraria, sempre obbligata

a ricostruire faticosamente una totalità a partire da pochi e

frammentari segni, “qualche scritta sopra d’una lastra, qualche

scena o figura”, con la consapevolezza di essere condannata

a un’approssimazione insoddisfacente. D’altra parte, proprio

perché costretta a essere archeologia, la letteratura finisce

per testimoniare direttamente la violenza del tempo, la continua

trasformazione di quanto era “oro fino, monete risplendenti

al par del sole” in “merda del diavolo”, e di quanto era vivo

in putrefazione e disfacimento: “il suo sguardo cadde sulla lepre

che Tanu aveva abbandonato sopra il muro: un nugolo di

mosche le mangiava gli occhi e la ferita, una schiera di formiche

le entrava nella bocca”. Di nuovo però marciume e degrado

non sono solo metafisici, ma storici, cioè fisici, morali e politici,

come mostra fin troppo bene la disastrosa condizione della Sicilia,

dallo sfascio del bellissimo centro storico di Siracusa all’orrore

senza fine della violenza mafiosa. Palermo per esempio ormai

“è un macello, le strade sono carnezzerie con pozzanghere,

rivoli di sangue coperti da giornali e lenzuola. I morti ammazzati,

legati mani e piedi come capretti, strozzati, decapitati, evirati,

chiusi dentro neri sacchi di plastica, dentro i bagagliai delle

auto, dall’inizio di quest’anno, sono più di settanta”, e pochi

giorni dopo “più di cento”.

È evidente che il dubbio su se stesso e la lucida constatazione

delle difficoltà dell’artista di oggi ad afferrare il reale convivono

con un imperativo morale urgente, non discutibile, con la necessità

cioè di denunciare lo scempio in atto in Sicilia e nell’Italia tutta.
Pantalica allora, grandiosa necropoli rupestre formata

da circa 5.000 grotte scavate fra il XIII e l’ VIII secolo a.C., vale sì

come esempio di luogo da conservare intatto per la sua suggestione

naturale e artistica, ma anche, più profondamente, come

simbolo di una sacralità perduta, di una autenticità umana che

sembra in via di estinzione. E le rovine di Pantalica, segno di

una religiosa pietas, si oppongono polemicamente alle squallide,

insensate rovine fabbricate dalla nostra storia recente.

Questa storia ha inizio con la fine della seconda guerra mondiale,

e la prima sezione del libro, Teatro, raccoglie i frammenti

di un possibile romanzo sulla Sicilia all’epoca dello sbarco

degli americani nel 1943. La liberazione e il dopoguerra avevano

alimentato una grande “speranza di riscatto” (come ben

mostrano, nella loro tensione utopica, i viaggi siciliani dei libri

di Vittorini), cui ha fatto seguito però una feroce disillusione.

Non per caso in Teatro, soprattutto nella serie “Ratumemi”, dedicata

a un episodio di occupazione di terre, si ritrovano molti

problemi che erano già al centro del Sorriso dell’ignoto marinaio:

anzitutto la continuità del potere economico-sociale al di là dei

cambiamenti formali di governo, e l’estraneità della gente siciliana

allo stato italiano.

Il titolo della prima sezione sottolinea però anche un altro

aspetto della concezione del mondo consoliana, l’idea cioè che

la vita umana sia sorretta da un gioco illusionistico, e assomigli

a una rappresentazione teatrale, se non a una mascherata. È una

concezione barocca, che, per i legami profondi fra la cultura siciliana

e quella spagnola, si ritrova in molti scrittori dell’isola.

Questa idea del mondo come rappresentazione è così profonda

da determinare nello stesso indice del libro uno schema che

ricorda molto da vicino l’inizio di un’opera teatrale: Teatro, Persone,

Eventi, come a dire Scena, Personaggi (e infatti la dicitura

“Persone” introduce i personaggi di Lunaria), Fatti.

Di Teatro si è appena detto. La sezione Persone invece raccoglie

una serie di ritratti di intellettuali: Sciascia, Buttitta, Antonino

Uccello, Lucio Piccolo. A questi si aggiunge, ne “I linguaggi

del bosco”, una rilettura di una fase dell’infanzia di Consolo

stesso attraverso due fotografie del 1938. Si ripropone così in

modo particolarmente esplicito un altro motivo caro allo scrittore,
dal Sorriso a Retablo, quello cioè dell’intreccio fra l’arte della

parola e quella dell’immagine: “Con l’aiuto di una lente, cerco

di leggere e descrivere queste due foto. (…) Voglio solo fare

una lettura oggettiva, letterale, come di reperti archeologici o

di frammenti epigrafici, da cui partire per la ricostruzione, attraverso

la memoria, d’una certa realtà, d’una certa storia”. Qui

si mostra ancora una volta in azione la metafora della scrittura

come archeologia, e si vede anche come la stessa sistematica

sovrapposizione di letteratura e arti figurative sia un modo di

interrogarsi sulla natura delle relazioni fra arte e verità. Semmai

anzi in questo caso il gioco d’incastro fra parola e immagine

avrà in palio una posta più alta che in passato, perché collegato

alla constatazione che con lo sviluppo neocapitalistico del

secondo dopoguerra, “incomincia a terminare l’era della parola

e a prendere l’avvio quella dell’immagine. Ma saranno poi,

a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali e impassibili,

fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per

le creature umane sofferenti”.

Con Eventi lo scrittore si arrischia a un contatto ancora più

ravvicinato e bruciante con la cronaca. Per esempio il “Memoriale

di Basilio Archita” è una riscrittura, a pochi giorni dai fatti,

dell’atroce episodio dei clandestini africani buttati in pasto

ai pescecani da un mercantile greco. Usando la prima persona

grammaticale Consolo si mette nei panni di un immaginario

marittimo italiano coinvolto nel delitto e riesce brillantemente,

ricostruendo un gioco di suspence e anticipazioni narrative,

a eludere i pericoli di una riscrittura a botta calda, senza i tempi

di metabolizzazione solitamente necessari per la letteratura.

Né si deve trascurare lo sforzo di fingere un linguaggio poverissimo,

carico degli stereotipi del parlato di questi anni, e agli

antipodi dunque dello stile consueto dell’autore.

Curiosamente però nel personaggio di Basilio, in teoria infinitamente

distante dalla personalità di chi lo ha inventato, c’è

anche un autoritratto, e nemmeno tanto nascosto: “Io non sono

buono a parlare, mi trovo meglio a scrivere”. In effetti Consolo

(come Antonello da Messina?) dissemina e cela nelle sue opere

autoritratti. Viene da pensare che anche la bambina compagna

di giochi dell’autore nell’unico racconto direttamente auto-

biografico, Amalia, che rivela a Vincenzo “il bosco più intricato

e segreto” e che conosce infinite lingue, sia, oltre che un personaggio

reale, anche un alter ego del narratore. Amalia infatti

“Nominava” le cose “in una lingua di sua invenzione, una lingua

unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e

con la quale per la prima volta comunicava”. Forse il desiderio

più profondo di uno scrittore come Consolo, che costruisce

la sua scrittura con le vive rovine dei linguaggi dimenticati pur

di non ricorrere alle logore parole dell’abitudine e della quotidianità,

è proprio quello di ritrovare, al termine del suo percorso,

questa lingua del tutto inventata, originaria, capace di restituire

non più soltanto “favole” o “sogni”, ma la realtà stessa, in

tutta la sua intatta energia, miracolosamente sottratta al tempo

e alla morte.

Gianni Turchetta
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Un gioiello finemente cesellato


Fabrizia Ramondino


Ci sono romanzi, scriveva Walter Benjamin, che somigliano a una catasta di legna da ardere; e mentre la legna arde, si consuma. con quello dei protagonisti del romanzo, anche il nostro destino … Retablo è invece un gioiello, finissimanente cesellato, come quelli di Dalì, che sapeva rendere con un rubino un cuore palpitante di vita, simile a un frutto di mare, a prendere il quale nel fondo dell’acqua si trovano nel contempo attrazione e ribrezzo. Ovvero, come suggerisce il titolo, è un retablo, parola spagnola che indica pale d’alare o successioni d’immagini dipinte meravigliose. Nel nostro caso se ratta di un trittico, le cui tavolette evocano la quête dei cavalieri erranti, l’orazione, la peregrinazione, la verità trovata. Spesso gli artisti dediti alle arti figurative si sono rammaricati di non riuscire a raffigurare il tempo; Consolo, con un procedimento à rebours, ha voluto imitare i pittori.
Se si ricorre al paragone del gioiello, esso raffigura la Trinacria. Pietre preziose e semipreziose, minerali rari e vili, smeraldi e corallo, marmo e alabastro, argento e oro, salgemma e piombo, sono stati impiegati a profusione dall’artefice per raffigurare la Sicilia di due secoli fa: i cibi semplici o elaborati al limite del disgusto, gli zibibbi e i grappoli di pasta di mandorle, inganno per l’assetato, teatro della gola per il sazio, le plebi lacere e lazzare, gli ozi crudeli dei ricchi, l’operosità degli artigiani, i pastorali ospitali, ancora oranti dinanzi alla statua della Grande Madre, i briganti feroci e umani, pronti a fraternizzare con i corsari, i frati lussuriosi, i nudi e neri operai delle saline, i contadini dediti alla fatica di dissodare il campo – e pietre maledette sono cocci di urne funerarie fenicie, membra di statue greche -, l’innestatore di aranci, innamorato della sua arte e dei frutti che produce, lo sfarzo delle chiese barocche, la solitudine estatica dei templi sul mare, la bellezza delle donne, la carnalità e la purezza, la bontà e la ferocia… Un’ode alla Sicilia, e nell’ode più odi: all’arancia e al corallo, a Rosalia la santa e alle Rosalie profane, al latte e al cacio di capra, all’amata e all’amato… e sempre odi al cielo e odi al mare.
Se il libro somiglia a un retablo, fra le molte meravigliose storie raffigurate, una è la principale: l’antagonismo fra Dioniso e Apollo – così intende Consolo la loro relazione -, fra vita ed ebbrezza mortale. La tavoletta centrale del trittico è dedicata al cavaliere milanese Fabrizio Clerici, pittore, che, respinto dalla donna amata, Teresa Blasco, invaghita di Cesare Beccaria, viaggia in Sicilia per dimenticarla e descrivere il nuovo paese all’amata lontana. Antidoto contro il mal d’amore è quindi il viaggio. Ma ancora di più lo è l’arte, di cui il viaggio è in realtà metafora. Il cavaliere non è tuttavia un esteta, il più gramo fra gli uomini ha per lui un valore incomparabilmente maggiore di una splendida statua greca. Il primo portello è dedicato a Isidoro, frate che vende bolle d’indulgenza; per amore di Rosalia fugge il convento, finisce fra i facchini del porto, finché viene preso a servizio dal cavaliere milanese che accompagna nelle sue peregrinazioni. Qui Isidoro narra la sua passione, i suoi tormenti, la sua finale pazzia d’amore. Il secondo portello, corrispondente al primo per brevità e intensità narrativa, è dedicato alla vera Rosalia, dopo i tanti abbagli, le tante Rosalie, sante, statue, ragazze, che figurano nel racconto. Qui ella tesse le lodi di Isidoro, l’unico amato. Ma ha visto donne infelici nel vico nero dove è nata, fugge perciò l’amato povero, diventa la mantenuta di un duca decrepito, che le fa studiare il canto. E annuncia che partirà presto, ingaggiata per cantare Cimarosa. Ha fatto sue le parole del castrato, suo maestro: «Siamo castrati, figlia mia, siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore.
 Il tempo, il nostro tempo, che Consolo ha provato a esorcizzare, ‘insinua nel romanzo con abile gioco di baro, con ammiccamenti,
chiamate, rimandi. L’espediente più innocente è l’avere scelto come protagonista Fabrizio Clerici, pittore contemporaneo, come tutti san-no, e non del secolo dei lumi, presente nel libro anche con cinque disegni – e il virtuosismo tecnico del pittore ben corrisponde a quello dello scrittore. Immediato è anche il parallelo tra l’ottimismo del secolo dei Lumi e la fede, ancora cieca, nel progresso tecnico e sociale, del nostro. Ma solo dai molti ingannevoli ammiccamenti si comprende la nuova e diversa forma che ha assunto oggi la separazione tra i sessi, e si legge un’antica, e attuale, misoginia. Infine, e al modo del paradosso, il Novecento irrompe proprio nel raffinato pastiche stilistico che sembra imitare una lingua antica. Infatti i vocaboli arcaici, dialettali, inusitati, i lacerati aulici, le allitterazioni, le amplicazioni; le anastrofi, le apostrofi, le assonanze; le deprecazioni e le invocazioni; la frequente scansione metrica delle frasi e l’imitazione dei cantastorie siciliani: sono tutti stilemi in parte ripescati dal passato, ma soprattutto scaturiti dalla maggiore libertà, almeno linguistica, conquistata nel nostro secolo, e di cui proprio in terra lombarda, dove vive Consolo, si è fatto Ottimo uso.

Il Mattino, 3 novembre 1987
pubblicato anche nella rassegna trimestrale di cultura “Nuove Effemeridi”
Edizioni Guida 1995

Oratorio

ROSALIA. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’ è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’ opalina, e l’ aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza di mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore. Lia che m’ ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liama di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’ inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ ossa, limaccia che m’ invischiò nelle sue spire, lingua che m’ attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’ alma mia, liquame nero, pece dov’ affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, torciglio senza inizio e senza fine, rosario d’ estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei? T’ ho cercata per vanelle e per cortigli, dal Capo al Borgo, dai Colli a la Marina, per piazze per chiese per mercati, son salito fino al Monte, sono entrato nella Grotta: lo sai, uguale alla Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’ urna, piansi a singulti, a scossoni della càscia, e pellegrini intorno, “meschino, meschino…”, a confortare. Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’ orlo della tunica dorata, quella mano che s’ adagia molle e sfiora il culmo pieno, la seta, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo… Rosalia, diavola, magàra, cassariota, dove t’ ha portata, dove, a chi t’ ha venduta quella ceraola, quella vecchia bagascia di tua madre? Ahi, non ho abènto, e majormente ora ch’ uscii di Vicarìa. Mi liberò quel gentiluomo di Milano, il cavaliere Clerici, pagando per mio conto il malefatto, il furto che commisi nel convento, il danno e il riscatto e tutto. Quel don Fabrizio che sbarcò in Palermo, con la fortuna mia, per viaggiare l’ Isola, scoprire l’ anticaglie e disegnar su pergamene con chine e acque tinte templi e colonne e statue di citate ultrapassate. Ma dico dall’ avvio. La causa di tutto, il motore primo, già si sa, fu Rosalia. Ero fraticello sereno al convento della Gància, fraticello di questua, e giravo per contrade e campagne per limosinare e vendere le bolle dei Luoghi Santi, stampe che davan privilegi, indulgenze, ed erano al contempo preservativi di mali passi, assalti di ladroni, naufragi, infortun d’ ogni risma nel corso dei viaggi. Tornavo nel convento con le bisacce gonfie e le saccocce pesanti d’ oboli e degli incassi cospicui delle bolle. Tornavo nel convento entrando sempre per porta Termini, per la Magione, Longarini, Castrofilippo, strada Merlo. Scansando a bella posta il Càssaro Morto e la Platea Marittima. Scansando per la popolaglia e per la vuccirìa che notte e giorno v’ albergava in quella piazza: vagabondi ruffiani spettatori dell’ opra dei pupi e delle vastasate giocatori di vantaggio parassiti donne di fora ladri di sacchetta camorristi. E tra le bancarelle e i casotti, davanti agli androni dei palazzi, alle porte di cappelle e orator, una folla d’ accattoni, finti storpi o affetti da morbi repugnanti, che andavan lamentando: “La divina Pruvvidenza… Facìti la carità…”: Dio ne scansi! Dio che non mi scansò dalle nasse o rizzelle che un bel dì si misero a calarmi una coppia di donne, madre e figlia, ch’ io d’ un subito, fraticello mondo, credei di casa, oneste e timorate. Mentre andavo, al vespero, per la strada Aragona, col mio passo spedito, sudato per il cammino lungo e per il peso grave delle bisacce, le campane della Magione sonarono l’ Avemaria. M’ impuntai e dissi l’ orazione. Quando, alla croce, mi sentii chiamare: “Frate monaco, frate monaco, pigliate”. E vidi calare da una finestra un panaro con dentro ‘ na pagnottella e un pugno di cerase. “Pe’ l’ anima purgante del mio sposo”. Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento. E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’ un fuoco di smeraldo. Mai m’ ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei. ; e a ogni sera, a quell’ ora, eran là, sempre alla finestra. Le scorgevo già all’ imbocco della strada, e il cuore si dava a martellare. E ‘ na volta eran l’ova, ‘ n’ altra la cassatella, ‘ n’ altra la cedrata, sempre per l’ anima purgante. E io, sempre: “Pace e bene, pace e bene”, e intimorito correvo giù al convento. Tutta la massacanaglia poi in quel budello, vecchi, femmine, carusi davanti ai catòi, sui balconi, alle finestre, tutti a guardare la scena, a ridere come davanti a ‘ na passata di Japicu o di Nòfriu. Eppure ogni giorno non vedevo l’ ora che si facesse sera, di tornare in citate, e non pensavo mai di cambiare strada. Chè Rosalia, lei, a poco a poco aprì la mantellina, mostrò il corpetto, ciocche arricciate del colore del rame, le boccole agli orecchi trasparenti; e sorrideva, con le fossette, mostrando a malapena i denti di cagnola. Finchè una sera non le trovai per strada, davanti all’ altarino dell’ Immacolata, con le lampe e i fiori, assorte nel pregare. “Oh, frate monaco…” fece la madre. “Frate Isidoro” dissi, con umilitate. “Che bello nome!” disse lei, Rosalia, ch’ avea smesso il lutto ed era in mantellina bianca damascata, e mi fece sentire brutto, sgraziato, nel mio albàgio logoro, sudato, col mio barbone nero, carico come uno scecco sardignolo, così davanti a lei, fresca e odorosa, bella di sette bellezze, latina come un fuso. Breve, la sera appresso conobbi il paradiso. E nel contempo cominciò l’ inferno, l’ inferno pel rimorso del peccato e per la ruberia del guadagno a danno del convento. Depositavo ogni sera grani, scudi, ducati nella mani di quella tinta madre, la quale m’ illudeva che, giunti a un numero bastevole di onze, smesso il saio, avrei impalmato la figlia sua dorata Rosaliuzza. Ma non avevo fatto i conti col padre guardiano, che cominciò a nasarmi, a puntarmi addosso i suoi occhi come due bocche di trombone, a mattutino, a vespero, in coro, in chiesa, in refettorio. E una notte m’ apparve co’ ‘ na lumera in mano, come angelo del giudizio universale, dentro la mia cella. “Le onze, le onze delle bolle!” tuonò. Saltai dal pagliericcio, mi prostrai ginocchioni: “Me le rubarono, me le rubarono, signor padre guardiano!” “Rubarono?! Ma le bolle, quelle, son proprio contro i ladri!” “Forse eran false, padre, prive di benedizione…” “Taci, blasfemo, disgraziato… Sei in peccato! Ma io ti mando oggi stesso in un convento di stretta osservanza, a Gibilmanna!” “A Gibilmanna no, no…” implorai. “Obbedienza!” tuonò, e disparì, lasciandomi prostrato nel bujo e nel terrore. Scappai la notte stessa dal convento, corsi diritto dalle donne. Che m’ accolsero fredde, contrariate, e la matrazza a dire: “E mo, mastr’ Isidoro, con quella miseria, quelle quattr’ onze, dove volete portare Rosalia? La figlia mia ch’ è giglio, regina, che figlia pare del principe di Butera o Resuttana…” “Lavorerò, lavorerò, farò qualsiasi cosa…” Si smorfiarono come a dire che col lavoro onesto mai avrei potuto giugnere ad avere quello che meritava Rosalia. La mattina, appena l’ alba, rasato della barba, berretta a milza e braghe di fustagno, fui al porto della Cala. E i facchini tutti mi guatarono e mi tennero subito in sospetto, così nuovo e lustro, così foresto. Foresto e imminchionito, in quella pampillonia, in quel bailamme della Cala: omini muli scecchi carri birocci carretti carriole carichi di sacchi barili barilotti càscie gistre panari di zolfi carboni còiri tele sete cere merce d’ ogni tipo che caricavano e scaricavano dai velieri. Fra merda e fango e fumi di fritture di panelle, mèuse, arrosti di stigliole, e voci, urla, bestemmie, Dio sia lodato!, e sciarre di pugni e sfide di coltelli. Ero nell’ inferno. E per giorni, impaurito, cacciai mosche, e le notti dormii in dentro il fondaco coi facchini. Finchè, a poco a poco, non divenni come loro. Finchè non mi capitò quell’ accianza d’ oro, quel miracolo che mi fece San Francesco, del cavaliere Clerici che sbarca alla Cala dal pacchetto Aurora. Alto, nobile, con un mantello colore della perla, occhialini in sul naso che mandavan bagliori per il sole, scarpini con fibbie lucide d’ argento, e pieno di bauli, di ceste, di saccocce. Ero là impalato sullo scaricatoio a contemplare a bocca aperta, con gli altri attorno che facevan ressa, quando quel signore guarda e poi indica me con la punta del suo bastoncino. M’ appresso incitrullito e quegli m’ ordina: “Prego, far venire qui carrozza a nolo”. Corro e ritorno con ‘ na carrozza tirata da due cavalli magri, piagati, con un cocchiere a cassetta vecchio centenario che parea dormiente, svanito. Carico svelto la roba, aiuto a far salire il cavaliere e monto dietro. “Prego”, dice il cavaliere “alla locanda di madama di Montaigne”. Il cocchiere schioccò pigro la zotta e i cavalli mossero, con le loro mosche sulle piaghe, coi loro finimenti logori, col suono sordo delle lor cianciàne. Alla locanda, scaricati i bagagli, licenziata la carrozza, il cavaliere mi chiese s’ ero pratico di strade, di viaggi, se tenevo coraggio, se potevo accompagnarlo per il Vallo di Mazara, assentarmi da Palermo per un mese e passa, chè mi avrebbe ben ricompensato. Non credetti alle mie orecchie, dissi: “Eccellenza sì, Eccellenza sì, come Vostra Eccellenza mi comanda”. Sorrise, e m’ ordinò allora di trovarmi all’ indomani alla locanda. Tornato dal viaggio, da luoghi antichi col nome di Segesta, Erice, Lilibeo, Cusa, Selinunte, davanti a’ quali il cavaliere Clerici, rapito, disegnava e tinteggiava, empiva fogli a non finire, lasciato don Fabrizio alla locanda, il mio primo pensiero – pensiero che non mi lascin mai un momento, notte e giorno, per tutto il tempo del viaggio – fu d’ andare a riabbracciare Rosalia. Col presente ch’ accattai a Trapani, pegno d’ amore e impegno per le nozze: gorgiera di corallo, color delle sue labbra, e uguali due pendenti come gocce di zibibbo. Tòc, tòc, tòc, e s’ affaccia un brutto boja, ‘ na faccia consolante de la Vicarìa. “Chi fu, chi vulite?” “La gna Cristina Insàlico, vedova Guarnaccia…”. “Mai, vi sbagliaste” “Ma come? E la figliola sua, Rosalia…” “Ohu! Vi dissi: mai sentite ‘ ste femmine che dite. Quest’ è casa onorata. Ite, vah, girate in largo” e fece un par d’ occhiacci. Tutti poi là nella strada a dire no, che non sapevano, sconoscevano, mai viste o sentite codeste cristiane. Mi parvi preso da’ turchi, da’ corsari, rapito in un sogno angustiante. Girai per vichi, per strade, per piazze, del Borgo, della Kalsa. Ricorsi infine alla locanda, a sfogarmi col buono don Fabrizio, che già sapeva, per le volte che la contai nel viaggio, la storia mia, la passione ardente per quella Rosalia. Non c’ era. Mi dissero i valletti ch’ era andato in San Lorenzo. Corsi a quell’ oratorio nella strada Immacolata, proprio dietro la chiesa del convento mio. Entrai: mi parve d’ entrare in paradiso. ;-4TORNO torno alle pareti, in cielo, sull’ altare, eran stucchi finemente modellati, fasce, riquadri, statue, cornici, d’ un color bianchissimo di latte, e qua e là incastri d’ oro zecchino stralucente, festoni, cartigli, fiori e fogliame, cornucopie, fiamme, conchiglie, croci, raggiere, pennacchi, nappe, cordoncini… Eran nicchie con scene della vita dei Santi Lorenzo e Francesco, e angioli gioiosi, infanti ignudi e tondi, che caracollavan su per nuvole, cortine a cascate, a volute, a torciglioni. Ma più grandi e più evidenti eran statue di donne che venivano innanti sopra mensolette, dame vaghissime, nobili signore, in positure di grazia o imperiose. Ero abbagliato, anche per un raggio di sole che, da una finestra, colpendo la gran ninfa di cristallo, venia ad investirmi sulla faccia. Fu allora che mi sentii chiamare: “Isidoro, Isidoro…”. Portai la mano a schermo sulla fronte e vidi presso l’ altare don Fabrizio in compagnia d’ un gentilomo. M’ appressai. “Quest’ è Isidoro”, disse don Fabrizio “il bravissimo giovine che m’ accompagnò per il viaggio”. E a me: “L’ eccellentissimo cavalier Serpotta, artefice di questa maraviglia” indicando con gesto largo tutta la cappella. Gli baciai la mano, e quel signore sorridea bonario, in gran parrucca bianca, giamberga, trine, bastone, spadino, cascata di catene e mostre d’ oro sopra il panciotto. “Don Fabrizio…” dissi implorante. Aspetta, Isidoro, finiamo di contemplare questo magnifico Caravaggio”. Mi ritrassi rispettoso e andai in giro in giro a rimirare ancora le plastiche divine. Davanti a una di quelle dame astanti, una fanciulla bellissima, una dia, m’ arrestai. VERITAS portava scritto sotto il piedistallo. Era scalza e ignude avea le gambe, su fino alle cosce piene, dove una tunichetta trasparente saliva e s’ aggruppava maliziosa al centro del suo ventre, e su velava un seno e l’ altro denudava, al pari delle spalle, delle braccia… Il viso era vago, beato, sorridente… Mi sentii strozzare il gargarozzo, confondere la testa, mancare i sentimenti. Aprii disperato le ganasce e lanciai un urlo bestiale. “Rosaliaaa…” urlai, e caddi a terra tramortito. Accorsero i due gentilomini, mi scossero, chiamarono. Rinvenni e balzai all’ impiedi, come un ossesso, un luponario. “Dov’ è, dov’ è, dov’ è quella bagascia traditora, quell’ infame?!” e indicavo la Verità al cavalier Serpotta. “E che ne saccio?” rispose quell’ artista “Venne un giorno da me per una posa, portata da un nobile signore…” “Ah, ah, ah!…” e escii fora dell’ oratorio, urlai senza posa sulla strada, pazzo, forsennato. Tutta la gente del vicolo si raccolse intorno, altra ne venne dal quartiere. Giunsero i frati del convento, il padre guardiano in testa. Sopraggiunsero infine i tre gendarmi. Il resto già sapete.

VINCENZO CONSOLO
La Repubblica edizione del 3 agosto 1984
retablorid