CRONACHE SICILIANE DI VINCENZO CONSOLO

images (1)CRONACHE SICILIANE DI VINCENZO CONSOLO

Tanti anni fa Vincenzo Consolo raccontò di quando, da giovane, correva alla stazione del suo paese natale, Sant’Agata di Militello, «ad aspettare il “mio” giornale, il giornale dell’altra Sicilia, quella vera e storica della cultura e della speranza: “L’Ora”. Dalla sua cronaca apprendevo ora con gioia, ora con raccapriccio, delle occupazioni delle terre, delle uccisioni dei sindacalisti, della mafia, di Danilo Dolci, di Li Causi».Il grande scrittore siciliano è morto il 21 gennaio dell’anno scorso a Milano, lontano dalla sua isola amata e disamata. L’editore Sellerio, per l’occasione, ha pubblicato in volume gli articoli che Consolo scrisse sull’«Ora» in diversi periodi della vita: Esercizi di cronaca, a cura di Salvatore Grassia, con una prefazione di Salvatore Silvano Nigro (pp. 243, 13). Negli anni, Consolo collaborò a diversi giornali, «Tempo illustrato», «Il Messaggero», il «Corriere della Sera», «L’Unità», «il manifesto», ma per lui «L’Ora» fu sempre la voce di casa, il foglio più consonante, «il mio giornale», appunto. E sarebbe stato forse questo il titolo da dare alla raccolta uscita adesso, di grande interesse per la biografia dello scrittore.È una lezione di umiltà per Consolo il giornalismo. Non aveva, nei suoi confronti, la puzza sotto il naso di tanti letterati che disprezzano e insieme ambiscono a scrivere sui giornali. «Altro che dorata e comoda distanza, altro che metafora della scrittura letteraria! Com’è difficile il mestiere di giornalista e di giornalista in una città come Palermo, e in un giornale come “L’Ora”» scrisse.Il linguaggio, nei suoi romanzi, è essenziale. Ma nei suoi articoli dimentica del tutto il suo espressionismo barocco, usa soltanto l’italiano limpido e chiaro. Collaborò all’«Ora» dal 1964 e seguitò a scrivere su quel giornale della sinistra fin quando chiuse i battenti. Nel 1975 ? stava per finire, inquieto, il suo capolavoro, Il sorriso dell’ignoto marinaio ? lavorò per sei mesi nella redazione del quotidiano. Seguì allora a Trapani, nel Collegio dei gesuiti diventato Tribunale, il processo Vinci, l’uomo accusato di aver ucciso a Marsala tre bambine gettandole in un pozzo, condannato all’ergastolo per quegli orribili delitti. Scrisse la cronaca quotidiana del processo, testimone illuministico delle doppie verità, dei misteri, delle menzogne, delle isterie popolari, tra la tragedia greca e la manzoniana Storia della colonna infame. Protagonista è sempre il dubbio, i suoi resoconti sono minuziosi, a Consolo non sfugge nulla, attento alle figure e ai comportamenti dei giudici e all’enigmatico silenzio dell’imputato. Sa rendere partecipe il lettore del clima di follia che in quell’estate africana divise la città. Conobbe non superficialmente Giangiacomo Ciaccio Montalto, l’umanissimo e colto pubblico ministero del processo, che il 25 gennaio 1983 sarà ucciso dalla mafia. A lui Consolo dedicherà sul «Messaggero» pagine doloranti e bellissime.Gli articoli sul processo Vinci ? cento pagine ? letti adesso sembrano un libro nel libro. Consolo scrisse sull’«Ora» di molti temi. Il rapimento Corleo, parente dei ricchissimi cugini Salvo, gli esattori di Salemi, una cupa storia di mafia, ma usando il lato comico del suo primo libro, La ferita dell’aprile, raccontò anche storie gogoliane di vita siciliana andando a vedere gli uffici di Palermo, lo Stato civile, l’Inps, le Imposte dirette, con i loro grotteschi capiufficio, gli ispettori, gli impiegati.Lontano dalla Sicilia, invece i suoi articoli sembrano le lettere a casa di un eterno emigrato. Che cosa succede al Nord? Anche questo: un contadino salernitano viene licenziato da un’azienda di Codogno perché sa parlare soltanto nel suo dialetto.Scrisse affettuosamente di Franco Trincale, il cantastorie siciliano, e di Gaetano Manusé, il bancarellaio dalla faccia araba che vendeva libri dietro l’abside della chiesa di San Fedele, a Milano, ebbe clienti illustri, Montale, Toscanini, Luigi Einaudi, la Callas e tra le mani una Vita di Alfieri postillata da Stendhal.Il 12 giugno dell’anno scorso, sul «Corriere», Cesare Segre, recensendo La mia isola è Las Vegas, il libro di racconti uscito postumo, scrisse tra l’altro che «al dolore della perdita si mescola la consapevolezza, anche, dei mutamenti che questa perdita ha implicato per il quadro attuale della narrativa italiana. Si sa che Consolo era tra le figure di maggiore spicco del romanzo di fine Novecento».Si sa ora che era anche un ottimo giornalista.RIPRODUZIONE RISERVATA

Stajano Corrado

” Bella la verità ” ( l’impossibile amore di Isidoro e Rosalia )” tratto dal romanzo “Retablo”

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“Bella la verità!”

Rosalba Bentivoglio e Carlo Guarrera
Rosalba Bentivoglio e Carlo Guarrera

Giovedì 20 dicembre, alle 21, al Teatro Ma, in via Vela n. 6 a Catania, Carlo Guarrera presenta “Bella la verità! (l’impossibile amore di Isidoro e Rosalia)” tratto dal romanzo “Retablo” di Vincenzo Consolo La performance è un reading di Carlo Guarrera relativo ad alcune parti del romanzo di Vincenzo Consolo, “Retablo”, con musiche e canto di Rosalba Bentivoglio. Si alternano momenti di lettura e musica evocativi dell’antica cultura siciliana. Carlo Guarrera, ideazione e voce; Rosalba Bentivoglio, musica e canto.

Lampedusa

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Lampedusa, Lepidusa, isola pietrosa, aspra, dove, ci racconta l’Ariosto nel suo grande poema Orlando Furioso, si conclude la guerra tra cristiani e infedeli con lo scontro dei “tre contro tre”. Ma altri scontri, sappiamo, avvengono oggi in Lampedusa, di poveri migranti che li affrontano, migranti che non sono morti come migliaia d’altri, inghiottiti dalle acque del Canale di Sicilia. Migranti approdati fortunosamente a Lampedusa contro i quali si scontra il nostro feroce egoismo di italiani, di europei ben pasciuti, sazi. Egoismo quando non è xenofobia, razzismo. Ma siamo stati noi per primi, noi meridionali, noi siciliani ad attraversare il Canale di Sicilia e ad approdare nel Maghreb, in Tunisia. Nel 1900 vi erano in Tunisia più di centomila immigrati italiani e lì si sono impegnati, facendo i pescatori, i contadini, o gli operai nelle miniere di Sfax. La storia del mondo è storia di emigrazione da un paese all’altro, da un continente all’altro. Più di venti milioni di italiani sono emigrati  nei vari paesi del mondo negli anni passati. Ma, rimanendo nel Mediterraneo, vogliamo qui riportare quel che ha scritto Fernand Braudel in Civiltà ed imperi nel Mediterrano nell’età di Filippo II: “Su tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ ”.
Sant’Agata di Militello, 10 maggio 2011
Vincenzo Consolo

Il Mediterraneo tra illusione e realtà.

IL MEDITERRANEO TRA ILLUSIONE E REALTÁ, INTEGRAZIONE

           E CONFLITTO NELLA STORIA E IN LETTERATURA

Letto al convegno “ La Salute Mentale nelle terre di mezzo” organizzato da  Psichiatria Democratica 12-13.3.2009, Caltagirone

In una notte di giugno dell’ 827, una piccola flotta di Musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egiziani, Siriani, Libici, Maghrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furàt, partita dalla fortezza di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte sorprendenti incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica lasciato nell’isola dai Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta la Sicilia, dall’occidente fino all’oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia un emirato dipendente dal califfato di Bagdad. In Sicilia, dopo le depredazioni e le spoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della Chiesa, dei monasteri, i Musulmani trovano una terra povera , desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i Musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre Valli, rette dal Valì: Val di Mazara, Val Dèmone e Val di Noto; rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove tecniche agricole, a nuovi sistemi di irrigazione, di ricerca e di convogliamento delle acque, all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il sommacco e il cotone…);  rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della tonnara; rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande durante la dominazione musulmana è lo spirito di tolleranza, la convivenza tra popoli di cultura, di razza, di religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Di questa società arabo-normanna ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr, Ibn Hawqal, il geografo Idrisi. E sul periodo musulmano non si può che rimandare alla Storia dei Musulmani di Sicilia, (1) scritta da un grande siciliano  dell’ 800, Michele Amari. Storia scritta, dice  Elio Vittorini, “con la seduzione del cuore” (2). E come non poteva non scrivere con quella “seduzione”, nato e cresciuto nella Palermo che ancora conservava nel suo tempo non poche vestigia, non poche tradizioni, non poca cultura araba ? Tante altre opere ha scritto poi Michele Amari sulla cultura musulmana. Per lui, nel suo esempio e per suo merito, si sono poi tradotti in Italia scrittori,

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memorialisti, poeti arabi classici.  Per lui e dopo di lui è venuta a formarsi in Italia la gloriosa scuola di arabisti o orientalisti che ha avuto eminenti figure come Levi Della Vida, Caetani, Nallino, Schiapparelli, Rizzitano, fino al grande

Francesco Gabrieli, traduttore de Le mille e una notte (3).

Vogliamo ripartire da quel porticciolo siciliano che si chiama Mazara, in cu

sbarcò la flotta musulmana di Asad Ibn al-Furàt, per dire di altri sbarchi, di siciliani  nel Maghreb e di maghrebini, e non solo, in Sicilia.

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Finisce la terribile e annosa guerra corsara fra le due sponde del Mediterraneo, guerra di corsari musulmani e di corsari cristiani, finisce con la conquista di Algeri  nel  1830 da parte dei Francesi. Ma si apre anche da quella data, nel Maghreb, la piaga del colonialismo. E comincia, in quella prima metà dell’ 800, l’emigrazione italiana nel Maghreb. É prima un’emigrazione intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli : “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”(4). Dopo i falliti moti di Genova del 1834, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Giuseppe Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 1849 ancora si fa esule a Tunisi.

A Tunisi si era stabilita da tempo una nutrita colonia italiana di imprenditori, commercianti, banchieri ebrei provenienti dalla Toscana, da Livorno soprattutto, primo loro rifugio dopo la cacciata del 1492 dalla Spagna. Conviveva, la nostra comunità, insieme alla ricca borghesia europea, un misto di venti nazioni, ch s’era stanziata a Tunisi. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Trapani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno sulle coste maghrebine.

Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di Monastir, di Mahdia,  nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Anche sotto il protettorato francese, ratificato con il Trattato del Bardo del 1881, l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna. Gli emigrati già

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inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti.  Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità

italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade

nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte” .

La fine degli anni Sessanta del 1900 segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra. A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto in Sicilia,  a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia. A Mazara, una comunità di 5.000 tunisini riempie i vuoti, nella pesca, nell’edilizia, nell’agricoltura, che l’emigrazione italiana, soprattutto meridionale, aveva lasciato. Questa prima emigrazione maghrebina nel nostro Paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la quarta guerra punica, la “guerra” del pesce, il contrasto vale a dire fra gli armatori siciliani, che con i loro pescherecci sconfinavano  nelle acque territoriali nord-africane, contrasto con le autorità tunisine e libiche. In questi conflitti, quelli che ne pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi imbarcati sui pescherecci siciliani. Sull’emigrazione maghrebina in Sicilia dal 1968 in poi,  il sociologo di Mazara Antonino Cusumano ha pubblicato un libro dal titolo Il ritorno infelice.(5)

È passato quasi mezzo secolo dall’inizio di questo fenomeno migratorio in Italia. Da allora e fino ad oggi le cronache  ci dicono delle tragedie quotidiane che si consumano nel Canale di Sicilia. Ci dicono di una immane risacca che lascia su scogli e spiagge corpi senza vita. Ci dicono di tanti naufragi. E ci vengono allora  in mente i versi di Morte per acqua di T.S. Eliot :

                  Phlebas il Fenicio, da quindici giorni morto,

                  dimenticò il grido dei gabbiani, e il profondo gonfiarsi del mare

                  e il profitto e la perdita.

                                                                                Una corrente sottomarina

spolpò le sue ossa in sussurri. (6)

Le cronache ci dicono di disperati che cercano di raggiungere l’isola di Lampedusa. Disperati che partono soprattutto dalla Libia, ma anche dalla Tunisia e dal Marocco. Accordi ricattatori sono stati stipulati dal governo italiano con il dittatore Gheddafi, ma i mercanti di vite umane continuano sempre a spedire per Lampedusa barche cariche di uomini, donne, bambini, provenienti dal maghreb e dall’Africa subsahariana. I famosi CPT, Centri di

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Permanenza Temporanea, a Lampedusa e in altri luoghi non sono che veri e propri lager. Il governo italiano intanto non fa altro che promulgare leggi xenofobe, razzistiche, di vero spirito fascistico. Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe, scontri

con le forze dell’ordine, scioperi della fame, gesti di autolesionismo e di tentati suicidi, di gravi episodi di razzismo e di norme italiane altrettanto razzistiche si

rimane esterefatti. Ci ritornano allora le parole  di  Braudel riferite  a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi contrazionari”.(7)

Volendo infine entrare nel tema di questo convegno La salute mentale nelle terre di mezzo, vogliamo qui annotare  che sono soprattutto le donne a soffrire  le violenze, i disagi della vita, del costume, della storia e citiamo qui  degli autori classici che in letteratura hanno rappresentato questo dramma. L’Ofelia dell’Amleto di William Shakespeare innanzi tutto; la suor Maria di Storia di una capinera di Giovanni Verga; la Demente di Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello; Le libere donne di Magliano di Mario Tobino; la donna reclusa in una stanza in Voci di Marrakech di Elias Canetti.

                                                                  (Vincenzo Consolo)

Note:

  • Storia dei Musulmani di Sicilia di Michele Amari – CT Romeo Prampolini 1933
  • I Musulmani in Sicilia di Michele Amari a cura di Elio Vittorini -pag. 6

          Bompiani 1942

     3) Le mille e una notte – Einaudi 1948

     4) Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 – pag. 890 Rizzoli 1967

     5) Il ritorno infelice di Antonino Cusumano –   Sellerio 1976

     6) Poesie di T.S. Eliot -pag. 79 – Ugo Guanda 195

     7) Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II di Fernand

         Braudel -– vol.I pag. 921-922 – Einaudi 1976

Breve bibliografia sull’emigrazione:

Pantanella di Mohsen Melliti – Edizioni del Lavoro 1992

                                                           5

Le non persone di Alessandro del Lago – Feltrinelli 1999

Clandestino nel Mediterraneo di Fawzi Mellah Editore Asterios Trieste 2001

Mi chiamo Alì…(Identità e integrazione: inchiesta sull’emigrazione in Italia) di

                                                          Massimiliano Melilli – Editori Riuniti 2003                                                    

Migranti (verso una terra chiamata Italia ) di Claudio Camarca – Rizzoli 2003

I fantasmi di Portopalo di Giovanni Maria Bellu – Mondadori 2004

Bilal (Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi)di Fabrizio Gatti

                                                                                                         Rizzoli 2007

A Sud di Lampedusa ( Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti) di Stefano

                                                                                Liberti – Minimum Fax 2008

Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio di Amara Lakhous –

                                                                                             Editore e/o  2006

Milano, 10.3.2009

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Foto di alcuni relatori del convegno
Vincenzo Consolo con l’amico Emilio Lupo – Segretario nazionale di Psichiatria Democratica

  

Un ritratto di Elio Vittorini a cento anni dalla nascita di Vincenzo Consolo

Vittorini
da Siracusa
alle città del mondo

(“Il Manifesto”, quotidiano comunista,

24 luglio 2008)

Jole, sorella di Elio Vittorini: e viene subito in mente la più famosa sorella della letteratura italiana, Maria, la Mariù di Zuanì, di Giovanni Pascoli. Ma Jole Vittorini è quanto di più lontano si possa immaginare da quel precedente. Il suo libro, Mio fratello Elio non è una imbarazzante agiografia, ma una breve memoria remota, un piccolo quadro di vita familiare, d’una famigliola siciliana dei primi anni del Novecento in cui i genitori, i figli, i nonni, gli zii risultano avvolti in una tenera luce, la jonica luce di Siracusa, in cui il primogenito Elio, luminoso per nome, risulta il più ricco d’inventiva, il più assetato d’avventura. Sembra, il racconto di Jole Vittorini, ubbidire innanzitutto al pudore, alla discrezione in cui sempre avvolgeva l’autore di Conversazione in Sicilia la sua famiglia, la sua vita privata, in cui era avvolta la madre Lucia, luminosa per nome anche lei.

Scrive Jole: «Mia madre era gelosa dei suoi sentimenti; e non permetteva che altri frugassero nella sua vita sentimentale. Un po’ come Elio». È quella madre che, scoperta un giorno la figlia intenta a leggere le lettere che il marito le aveva inviato, le strappa, una per una. (Questa ritrosa e orgogliosa Lucia ricorda Clementina, la protagonista del racconto di Giuseppe Antonio Borgese La Siracusana). «Non avrà più di sedici anni, ma gli si sente addosso l’odore della gonna di mamma. Oh, altre donne ha per il capo» pensa del ragazzo che è con lei nello scompartimento del treno la procace e vitale canzonettista Montalbano del racconto Piccolo amore di Piccola borghesia. Questo è il racconto di Jole. Salvatore Vittorini, diplomato maestro, decide d’imbarcarsi su un bastimento. La sua carriera di marinaio si interrompe però al primo viaggio dopo una tempesta nel canale di Sicilia e un fortunoso approdo nel porto di Pozzallo. Il mare lo regala alle ferrovie. È il 1906. L’anno dopo il giovanotto sposa la bella Lucia Sgandurra, figlia di un barbiere appassionato lettore di libri (De Amicis, a Siracusa, di cui scrive splendidamente in Ricordi di un viaggio in Sicilia, capita nella bottega dello Sgandurra e dirà di non aver mai incontrato un barbiere così colto).

Epiche avventure tra case di fango

I due sposini Salvatore e Lucia raggiungono Sant’Agata di Militello, un paese di pescatori e di contadini sulla costa tirrenica. È la prima stazione di tante altre, il primo di altri paesini, di luoghi sperduti in cui dimoreranno i coniugi Vittorini con i quattro figli che con gli anni verranno. «Si stava in piccole stazioncine ferroviarie con reti metalliche alle finestre e il deserto intorno. Era un deserto ovunque di malaria; e ovunque di latifondo incolto; in qualche luogo con un allevamento di pecore a un tiro di schioppo, in qualche altro luogo con una miniera di zolfo nelle vicinanze» (Elio Vittorini, Pesci rossi, 1949, n. 3 della rivista bollettino editoriale di Bompiani in Diario in pubblico).

È la smarrente solitudine, l’angosciante desolazione del povero, nudo paesaggio del racconto La signora della stazione ancora di Piccola borghesia, o di Conversazione in Sicilia. È la solitudine più toccante della bambina Jole, unica femmina e ultimo rampollo di una nidiata di maschi: Elio, Ugo, Aldo, che per i campi s’inventavano epiche avventure, si costruivano mondi favolosi. «La mia unica distrazione erano gli arrivi e le partenze dei treni. Li guardavo dalle finestre, dietro le grate metalliche che dovevano proteggerci dalla zanzara anofele», scrive Jole. Ma pure, tra le case di fango davanti alla stazione, la piccola scopriva persone, vicende, destini umani: donna Luigia, i sei figli e il marito cantoniere avventizio e cacciatore di conigli e di istrici; Mariannina, moglie dello zolfataro Gueli e sorella di Salomone, fattosi bandito per un delitto d’onore, che nella solitudine della montagna legge la Divina Commedia.

Nel ’24 il ferroviere Vittorini viene trasferito finalmente nella sua Siracusa, in Ortigia, bianca come il miele ibleo e azzurra come il Ciane o la fonte Aretusa. La famiglia va ad abitare nella casa dei nonni materni, nella via Mastrarua, nella Siracusa teatro del Garofano rosso e di Piccola borghesia. E a Siracusa, proveniente da Licata, si trasferisce pure la famiglia del ferroviere Quasimodo. Elio s’innamora subito di Rosina, la sorella del poeta Salvatore. I due ragazzi, per l’opposizione delle rispettive famiglie, compiono la famosa fuga d’amore, la fuitina, e passano la loro prima notte sotto le stelle, sui gradini del Teatro Greco: si può immaginare una prima notte d’amore più «siracusana» di questa? Dice De Amicis, trovandosi nel silenzio di quel teatro: «Sentii le grida dei ventiquattromila spettatori del teatro greco, plaudenti alla rappresentazione dei Persiani». Non sappiamo cosa sentirono i due giovani Elio e Rosa in quella solitudine notturna del teatro greco.

Dopo il matrimonio riparatore, i due si trasferiscono a Gorizia, dove Elio lavora come assistente alla costruzione di un ponte. Il successivo trasferimento sarà a Firenze. Ma dopo, conclusa questa breve, epifanica storia, comincia l’altra storia di Elio Vittorini. Ma il narratore Vittorini, il suo accento favoloso, lirico, il suo tono civile, la sua tensione all’ottimismo, al movimento, l’intellettuale Vittorini libero e orgoglioso, attivo e generoso, non si può capire senza la sua famiglia, la sua Siracusa, il mondo libertario dei ferrovieri, senza le stazioncine sperdute nel vasto teatro dell’infelicità sociale della Sicilia. «Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori: non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto». Questo celebre attacco è di Conversazione in Sicilia. E aveva, quell’attacco, il ritmo di un rintocco di campana, lento e triste, che dava suoni, voce, nell’atrocità del regime fascista e della guerra in corso, nel ricordo dell’atroce guerra civile di Spagna, al dolore inesprimibile d’ognuno. Concepito in un momento buio e tragico della storia, Conversazione è per l’autore un necessario viaggio alla terra dell’infanzia, della memoria, delle madri, per ritrovare, tornando, energia e speranza, il linguaggio oppositivo e propositivo della ideologia. Ed è insieme, come quello di Odisseo e di Enea, un nòstos e un viaggio oltre i limiti del reale, una discesa agli inferi, nel regno delle ombre, dei morti per raggiungere, con la conversazione, la più intima, assoluta comunicazione, per dare e avere conforto, dare e avere ragione della morte a causa della guerra. L’eroe Silvestro, attraversato lo Stretto-Acheronte sul battello-traghetto, approda in una Sicilia invernale, livida, in una patria di piccoli siciliani disperati, umiliati dalla miseria e dalla malattia, ma in una patria anche di fieri e indomiti «gran lombardi», di uomini che parlano di «nuovi doveri», di personaggi una volta attivi e ora chiusi nella non speranza, che annegano il furore nell’oblio del vino. Guida nella discesa memoriale e catartica, nei gironi della naturalità e della carnalità è la madre Concezione, possente e sapiente, una madre che non trattiene il figlio bloccandolo a una patologica, infinita adolescenza, come succede al Giovanni Percolla del Don Giovanni in Sicilia di Brancati, ma è una madre, quella di Vittorini, che spinge il figlio a ritornare al suo lavoro di linotipista, di compositore di parole, ai suoi doveri di uomo, di scrittore, di intellettuale.

Fallimenti e speranze perdute

«La parola utopia rappresenta nell’uso comune lo stadio ultimo della umana follia o della umana speranza» scrive Lewis Mumford, autore di una Storia dell’utopia. E aggiunge «che quasi tutte le utopie criticano implicitamente le civiltà in cui nascono e sono implicitamente un tentativo di scoprire le possibilità che le istituzioni originano o seppelliscono sotto la crosta delle vecchie usanze e abitudini». Ed è dall’utopia, parola coniata da Tommaso Moro, dall’utopia, come «stadio ultimo dell’umana speranza», che bisogna partire per leggere Le città del mondo di Vittorini. La concezione utopica credo che sia la matrice del libro. E dobbiamo dunque partire da Platone e, giù giù, passare per Bacone e Campanella, il monaco calabrese che, con la sua Città del sole, aveva inventato la comunità ideale, in cui gli uomini «sono ricchi perché non hanno bisogno di nulla; sono poveri perché non posseggono nulla; di conseguenza non sono schiavi delle loro circostanze, ma sono le circostanze che li seguono». Partire da Platone, dicevo, e arrivare agli illuministi lombardi, ai Verri, al Beccaria, al Cattaneo; arrivare a Melville, De Foe; arrivare forse fino ad Adorno, Horkheimer, Marcuse. E se nei filosofi antichi l’utopia sorge da un connubbio di religione e di ragione, nei filosofi moderni l’utopia o le «città del mondo» sono le città dell’uomo, le città a misura d’uomo, dove l’uomo può essere felice. Ne Le città del mondo ancora una volta il siracusano Vittorini ritorna alla Sicilia. Ma vediamo per quali occasioni nasce questo romanzo. Nel 1950 compie un viaggio in Sicilia, insieme al fotografo Luigi Crocenzi e a un gruppo di amici, per preparare un’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia (nel ’49 era uscito Le donne di Messina). Nel ’50 erano successe molte cose. Vittorini, dopo la famosa polemica con Togliatti, era uscito dal partito comunista. Aveva anche visto, lo scrittore, il fallimento di una certa politica meridionalista e perso la speranza di una soluzione a questo annoso problema. E aveva visto forse fin d’allora che il mondo contadino meridionale era ormai «perduto alla storia».

Il viaggio in Sicilia del ’50 fu molto stimolante. Da una parte, incominciò a maturare in lui l’idea utopica, utopia come superamento di condizioni statiche inaccettabili (e l’idea già in qualche modo era espressa ne Le donne di Messina, nella costruzione di una nuova comunità democratica) e dall’altra, si andava definendo in lui l’idea di illuminismo-razionalismo lombardo, della Lombardia o della Milano, ripetiamo, dei Verri e del Beccaria, illuminismo contrapposto alla irrazionalità, alla staticità, al verghiano fatalismo. Contrapposizione che diventerà poi quella tra mondo neo-industriale e mondo contadino. Tema che teorizzerà e svilupperà ne Le due tensioni e nei fascicoli della rivista Il menabò, a cominciare dal famoso numero quattro dove si parla di «industria e letteratura». Questa idea, questa utopia vittoriniana, sorta forse per la scoperta del petrolio in Sicilia e per l’impresa di Mattei, ma sorta anche per la frequentazione di quell’industria a misura d’uomo che era rappresentata dalla Ivrea di Adriano Olivetti. Questa generosa idea, questa utopia, sappiamo, s’infrange poi, contro gli scogli della storia, della mala storia, la mala storia che creerà gli inferni ambientali e antropologici di Priolo, di Melilli, di Gela.

Il castello di Lombardia

Dietro la sua idea utopica, aveva scritto Vittorini Le città del mondo, opera che, a causa della delusione storica vuole distruggere. Le città del mondo, fortunatamente salvato da Ginetta Varisco, seconda moglie di Vittorini, è l’ultima opera prima del silenzio narrativo e, come scrive Pampaloni, il romanzo può «essere letto in positivo e in negativo». Poeticamente (e affettivamente) esprime le sue idee, la sua utopia già in Conversazione in Sicilia con il tema, lì allora accennato, del Gran Lombardo che «doveva essere di Nicosia o Aidone; parlava il dialetto ancora oggi quasi lombardo di quei posti lombardi del Val Demone: Nicosia o Aidone». Ne Le città del mondo sviluppa pienamente il tema con la contrapposizione città-lombarde belle, altre città brutte. Dice Rosario, il pastorello che arriva a Scicli col padre: «…e la gente è contenta nelle città che sono belle… e si capisce che sia contenta. Ha belle strade e belle piazze in cui passeggiare, ha magnifici abbeveratoi per abbeverarvi le bestie, ha belle case per tornarvi la sera, e ha tutto il resto che ha ed è bella gente. Tu lo dici ogni volta che entriamo a Nicosia. Ma che bella gente ! Lo stesso ogni volta che entriamo ad Enna. Ma che bella gente!». Diciamo qui per inciso che per fortuna l’ideale Lombardia siciliana di Vittorini non era, non corrispondeva all’attuale atroce fascistica razzistica Lumbardia di Bossi e della Lega Nord, Nicosia e Aidone non hanno nulla da spartire con Pontida, Pontedilegno o Casalpusterlengo.

Ma torniamo a Enna, la città che nomina il pastorello Rosario. È la città, Enna, dove c’è il castello di Lombardia, alto, con le sue alte torri. La città, così alta che è tutta un castello di Lombardia ha un monumento in una delle sue piazze. È il monumento al socialista Napoleone Colajanni, di Leonardo Ximenes, e questo monumento Vittorini fa fotografare a Crocenzi, nell’edizione illustrata di Conversazione, facendolo riprendere da più parti. Vittorini identifica Colajanni con il Gran Lombardo. Ne Le città del mondo, Colajanni compare proprio come statua assieme a quella del re Ruggero, di Garibaldi, della regina Giovanna. Il protagonista storico del movimento contadino, dei Fasci Siciliani, così lombardo, cioè così ricco di volontà di superare il momento storico è il suo eroe positivo. Vitalità, movimento, atteggiamento attivo, questo ama Vittorini (e arriva per questo sino alla bestemmia letteraria per il suo contrapporsi al fatalismo di Verga: «il nostro schifosissimo Verga, il più reazionario tra gli scrittori moderni» scrive ne Le due tensioni). Ed è per questo che Le città del mondo è il libro più antinaturalistico della letteratura meridionale.

Qui tutto brucia nella metafora. I personaggi sono in figura di funzione, hanno perso la consistenza realistica; parlano in modo metaforico, declamatorio, parlano ritualmente e profeticamente. «Ciò che interessa l’autore non è una mimesi della realtà (…), ma una utilizzazione della realtà che possa rendere immediatamente, subito, e costituire subito, per le forze storiche, un’arma, uno strumento di trasformazione, o insomma una chiamata a trasformare…» scrive ancora Vittorini in Le due tensioni. E quindi i personaggi del romanzo sono in continuo movimento sul palcoscenico della Sicilia, il movimento fisico e psicologico, in ribellione e in tensione di felicità e di dolore.

Ma che cosa narra infine questo romanzo, uscito postumo, ricordiamolo, nel 1969? Così riporta la nota in chiusura del curatore Vito Camerano, riprendendola dalla rivista «Galleria d’arte e lettere» del ’53: «Con questo romanzo che ha per titolo provvisorio Le città del mondo e che forse finirà per intitolarsi I diritti dell’uomo, Vittorini ritorna alla sua Sicilia, ma a una Sicilia diversa da quella di Conversazione, una Sicilia in cui i paesi e le città, per il continuo spostarsi dei personaggi, che sono pastori e contadini, venditori ambulanti e camionisti, prostitute, zolfatari e campieri, paesi e città sono come vie, piazze, angoli di una medesima città, e, nello stesso tempo, è come se questa Sicilia racchiudesse entro i suoi confini l’universo, poiché tutto ciò che è nel libro viene citato come estraneo all’Isola, è ancora come se fosse Sicilia. Così i Pirenei, così Gerusalemme e Samarcanda e Tucuman e Ur dei Caldei. E un episodio della Bibbia è anche un fatto accaduto in Sicilia, proprio come un parlamento di siciliani radunatisi in un vallone, diciamo delle Madonie o dei Monti Erei, per far festa o cospirare. Una Sicilia che potrebbe essere quella dei Borboni come quella di sempre, la Sicilia fertile e desolata, isola felice e terra di fame». La trama di questo romanzo è quanto mai aperta e libera. C’è la Sicilia, immensa e areosa, biblica e da Mille e una notte, di Ariosto e di Cervantes. Vittorini, in una di quelle classificazioni che vogliono esemplificare, aveva diviso i romanzi in arteriosi e venosi. Ecco, questo suo libro postumo è certo il più arterioso, il più ricco di ossigeno, di flusso vitale. È ricco di luce, di cristallina luce siracusana, del «dolce color d’oriental zaffiro».

Conversazioni-in-Siciliaelio-vittorini

Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano

VINCENZO CONSOLO

“Al Señor Antonio Veneziani. Señor mio: dichiaro alla Signoria Vostra, come cristiano, che sono tante le fantasticherie che mi affaticano, che non mi hanno permesso di portare a compimento come volevo questi versi che Le invio, in segno del desiderio che ho di servirla, già che questo mi ha indotto a far vedere così presto i difetti del mio ingegno, fiducioso che l’alto ingegno della Signoria vostra accoglierà le mie scuse e mi animerà affinché in tempi più tranquilli non tralasci di celebrare come potrò il cielo che così tristemente la trattiene su questa terra, dalla quale ci liberi Dio, e la porti in quella dove vive la vostra Celia.
Ad Algeri, il 6 Novembre del 1579 Della Signoria Vostra vero amico e servitore. Miguel de Cervantes”. Questa lettera e le ottave a Antonio Veneziano, che essa accompagna, furono scoperte nel 1914, nella Biblioteca Nazionale di Palermo, dal professore Eugenio Mele. Lettera e versi entrarono quindi nelle Obras completas di Cervantes, a cura di Rodolfo Schevill e Adolfo Bonilla (Madrid, 1914-31). Questi alcuni versi delle Ottave a Antonio Veneziano: “Il cielo, che contempla il vostro ingegno, ha voluto impiegarvi in queste cose, e segue i vostri passi perché aspira a innalzarvi, per Celia, sino al cielo: (…)
Mi sorprende veder che quel divino ciel di Celia nasconde un vero inferno, e che la forza della sua potenza vi abbia costretto a piangere e a pensare”. Chi era Antonio Veneziano a cui Cervantes indirizza quella lettera, piena di formale deferenza ma venata d’ironia, e le Ottave? el 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il 3º centenario della sua morte. Scrive il bibliotecario della Società Giuseppe Lodi: “Di Antonio Veneziano, l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI, ricorreva nell’Agosto del 1893 il terzo centenario della morte, avvenuta per lo scoppio di una polveriera, mentr’egli era detenuto entro il forte di Castellamare. La ricorrenza di questo avvenimento non potea lasciarsi passare inosservata da una Società, come la nostra, la quale (…) non trascura, all’occorrenza di tener desti con solenni commemorazioni l’amore e la riverenza per quanti hanno onorato con il loro ingegno e le loro opere questa non infima parte d’Italia, questa nostra prediletta Sicilia”. C’era spesso nei membri di quelle Società o Accademie un po’ di ampollosità, un po’ di retorica. Retorica non vi è invece in uno scienziato, un demopsicologo o etnologo: Giuseppe Pitré. Scrive nel fascicolo: “io imposi a me stesso l’assoluto silenzio sulla sua vita. Me lo imposi, non per manco di ammirazione per l’illustre poeta, ma per la ferma convinzione ch’ebbi sempre, ed ora più che mai ho, delle inesattezze e, lo dico senza reticenze, dei grossi errori che sono stati scritti su di lui”. Grossi errori, come afferma il Pitré, nati dalla leggenda popolare in cui il Veneziano era stato avvolto, a cui venivano attribuite vicende, spesso fantastiche o surreali, e rime che erano spesso di malaccorti epigoni. Un altro scritto del fascicolo è del monrealese canonico Gaetano Millunzi. Che stende la prima documentata biografi a del Veneziano. Il poeta nasce nel 1543 da una ricca famiglia di origine veneziana, come denuncia il cognome, ma che è ben assestata, già dal Quattrocento, in quel di Monreale, all’ombra della gran cattedrale dei re normanni. Il padre, Antonio, mastro notaro della Curia e pretore, ebbe ben tre mogli, un figlio dalla prima moglie, uno dalla seconda, e ben sette dalla terza, di nome Allegranza Azolina. Antonello, detto Antonio dopo la morte del padre, era il terzo di quest’ultima nidiata. Ancora nella prima adolescenza fu mandato a Palermo per studiare nel collegio dei Gesuiti, quindi a Messina e infine a Roma. È un periodo, questo del Veneziano, di severi studi: di filosofia e teologia, di lingua e letteratura italiana, latina, greca, ebraica. Nel Collegio Romano ha come professore Francesco Toleto, il quale, oltre a insegnare la filosofi a tomista, inizia gli allievi agli studi di giurisprudenza. Studi che saranno utili al Veneziano quando, lasciata la Compagnia di Gesù, ritorna a Monreale e inizia tutta una serie di cause civili contro fratelli e parenti per la divisione della roba, dell’eredità paterna; e cause penali perché accusato non solo dell’omicidio di un tal Polizzi, ma anche del rapimento di Franceschella Porretta, serva della terziaria domenicana suor Eufrigenia Diana. Per questo rapimento la madre lo disereda perché “figlio disubbidiente”, come scrive nel testamento. “Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano”. Scrive del Veneziano Leonardo Sciascia1. E pensa Sciascia, che questo carattere, questo maledettismo del poeta siano stati una reazione alle costrizioni dell’educazione gesuitica. E, malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive, il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire anonime
affisse sui muri. Sospettato quale autore di una di queste satire, un cartello, “appizzato alla cantonera di don Pietro Pizzinga allo piano delli Bologni”, contro il viceré conte di Albadeliste, definito uomo “fatale”, vale a dire jettatore, fi nisce nel carcere di Castellamare. Nell’educazione presso i Gesuiti, nell’accusa di omicidio, nella cultura e nelle composizioni poetiche per gli archi di trionfo, nel 1 Sciascia, L. (1967): “Introduzione a Antonio Veneziano”, Ottave, Einaudi: Milano. continuo assillo per le difficoltà economiche, nei disordini della famiglia paterna, nella varie incarcerazioni infine, non possiamo non vedere una curiosa specularità tra la vita di Cervantes e quella di Antonio Veneziano. Specularità che poi diviene immedesimazione nella comune condizione di schiavi nei bagni di Algeri. Il 1574 è l’anno in cui il Veneziano fa donazione di tutti i suoi beni ad Eufemia de Calogero, figlia di sua sorella Vincenza, la quale Eufemia è obbligata per contratto e rimanere nubile e a non farsi monaca. Questa donazione ha fatto sorgere il sospetto che ad Eufemia, la nipote, fossero indirizzate canzoni d’amore della Celia, che fosse insomma, quella di Veneziano, una passione disdicevole, vergognosa. Canta:

“Donna d’auti biddizzi fatta ‘n Celu,

mandata pri ricchezza e gloria in terra,

cu l’occhi toi lu diu di l’aureu telu

fa quasi all’universu ingiuria e guerra;

si sa quanta npi tia m’ardu e querelu,

tempra, si poi, st’arduri chi m’atterra,

ch’in tanta estrema dogghia, affannu e jelu

non dura lungamente omo di terra”.

Il 25 aprile 1578, Veneziano s’imbarca a Palermo sulla galea Sant’Angelo, al seguito di don Carlo d’Aragona, imbarcato a sua volta sulla galea detta Capitana. Al largo di Capri, vengono assalite, le due navi, da galee corsare. La Capitana riesce a fuggire, la Sant’Angelo viene bloccata dai corsari. “Gagliardamente si combatte con mortalità d’entrambe le parti, ma arrivate dopo l’altre da fianchi, dandoli un terribile assalto di saette, e d’archibugiate, furono astretti li difensori a buttare l’armi, a rendersi vivi”. Scrive il monaco cassinese Giovanni Tornamira. Antonio Veneziano viene dunque preso, insieme ad altri, chierici e frati soprattutto, e portato schiavo in Algeri. “Cervantes si trovava schiavo in Algeri da tre anni. Può darsi avesse già conosciuto il Veneziano durante il suo soggiorno a Palermo, nel 1574; certo è che ad Algeri si trovarono (o si ritrovarono) e che tra loro nacque una qualche dimestichezza e un rapporto di reciproca estimazione letteraria, se non di amicizia”. Scrive ancora Sciascia. Ne La nenia così lamenta il Veneziano: “…

l’alma in Sicilia,
già temp’è cattiva,
in manu de la diva,
cinta di forti amurusa catina,
… e lu corpu in Algeri,
fattu di genti barbara suggettu
chì, di lu gran rispettu
di stà partenza e di gran pinseri
acerbamente offi su
era lu cori esanimatu estisu”.

“Ai primi di settembre (1575) Cervantes, soldato aventajado (scelto), s’imbarca a Napoli sulla galera El Sol. Comandata da don Gaspar Pedro de Villena, questa era una delle quattro navi costituenti la piccola fl otta agli ordini di don Sancho de Leiva, che si disponevano a fare rotta per Barcellona (…) Assieme a Miguel, salgono a bordo, oltre al fratello Rodrigo e a qualche loro amico, diverse personalità di rilievo. (…) In capo a qualche giorno la tempesta disperde le galere. Tre di esse riusciranno infi ne ad arrivare in porto; ma l’ultima, El Sol, sarà sorpresa dai corsari barbareschi, e i suoi passeggeri condotti come prigionieri ad Algeri”. Così racconta Jean Canavaggio2 in Cervantes. In questo assalto dei corsari avrà provato, il futuro autore del Don Chisciotte, le stesse ansie, le stesse paure dell’archibugiere Miguel de Cervantes imbarcato sulla Marquesa in quel 7 ottobre del 1571; ma avrà dimostrato lo stesso coraggio, coraggio che allora, nella battaglia di Lepanto, gli costò la perdita della mano sinistra. Sulla mano perduta, così risponderà al falso Avellaneda, l’autore della seconda parte apocrifa del Don Chisciotte, il quale l’accusa d’essere vecchio e monco e quindi incapace di scrivere la seconda parte del suo romanzo: “Ciò di cui non ho potuto fare a meno di dolermi è che mi si accusi d’esser vecchio e monco, come se fosse stato in mio po-
2 CANAVAGGIO, J. (1986): Cervantes, biographie, Mazarine: Paris.

tere fermare il tempo perché non passasse per me, o come se l’esser monco, mi fosse stato cagionato in qualche bettola e non nella più illustre battaglia che abbiano visto i secoli passati e i presenti…”. È il rinnegato albanese Arnaut Mami che porta schiavo in Algeri Cervantes e i suoi compagni. Miguel ha solo ventotto anni quando è portato in catene ai bagni. Ci dice, Cervantes, di questa sua cattività durata cinque anni, nel racconto del Prigioniero nella prima parte del Don Chisciotte, nelle commedie La vita ad Algeri e I bagni di Algeri. Ma una notizia della prigionia di Cervantes ce la dà l’inquisitore di Sicilia, e quindi arcivescovo di Palermo e presidente del Regno di Sicilia, Diego de Haedo, autore della Topographia e Historia general de Argel (Valladolid, 1612). L’Haedo, raccogliendo notizie dagli schiavi cristiani riscattati, ci racconta tutto su Algeri, sui corsari, sui cristiani là prigionieri. Nel Dialogo secundo, il prigioniero capitan Geronimo Ramirez racconta al dottor Sosa del fallito tentativo di fuga da Algeri di Cervantes per il tradimento di un rinnegato di Melilla soprannominato El Dorador, dice che i turchi presero tutti i cristiani che stavano per fuggire, “y particolarmente a Miguel Cervantes, un hidalgo principal de Halcalà Henares, que fuera el autor deste negozio y era portanto mas culpado…”. Avrebbe dovuto essere punito, il nostro don Miguel, ma, ci racconta ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Hassan Agà (il Saavedra) non lo bastonò mai, e neanche gli rivolse mai parole offensive; noi temevamo che sarebbe stato impalato ad ognuno dei suoi tentativi di fuga, cosa di cui lui stesso ebbe paura più di una volta”. E ci racconta ancora Diego de Haedo di Cervantes schiavo di Dali Mami, detto El Cojo, lo zoppo, quindi di Ramadan Pascià e infine del terribile Hassan Agà, un rinnegato veneziano che divenne re di Algeri. Nell’aprile del 1578, quando Antonio Veneziano finisce nel bagno di Algeri, Cervantes è appena uscito dal quarto fallimento di evasione dalla prigione per la delazione del prete rinnegato Juan Blasco. Si conoscono là i due, Cervantes e Veneziano, o si riconoscono dopo il loro primo incontro a Palermo? I due, in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni.

“Non rescatar, non fugir

Don Juan no venir

acà morir…”.

Cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutti e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda, “… il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello stesso colore”. Antonio Veneziano giunge in Algeri infiammato d’amore, pazzo d’amore: per la nipote Eufemia o per una bella e irraggiungibile signora? Signora che sarebbe stata, secondo gli studiosi Caterina e Giuseppe Sulli (Antonio Veneziano, Palermo, 1982), Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, il comandante della fl otta veneziana nella battaglia di Lepanto, allora viceré di Sicilia, al cui figlio, Ascanio, Cervantes, dedica La Galatea. Ad avanzare l’ipotesi della passione del Veneziano verso la viceregina c’è una ottava del poeta che così termina:

“Pirchi’ mi tratti comu li ‘nnimici?

Rimedia cu lu meghiu modu c’hai,

Filici, fi licissima, Filici”.

Là, nel bagno di Algeri, il Veneziano avrebbe scritto La Celia. E là, nel bagno, sembra che Cervantes abbia scritto Vita ad Algeri e incominciato la stesura de La Galatea. Inimmaginabili sono gli incroci della storia, nonché della poesia. Nel 1650, un gruppo di nobili siciliani congiurava contro il viceré don Giovanni d’Austria, vagheggiando di porre sul trono di un regno indipendente di Sicilia don Giuseppe Branciforti, conte di Mazarino e principe di Butera. La congiura falliva per la delazione del prete Simone Rao e per la confessione dello stesso Branciforti. Sei dei congiurati furono giustiziati. Il Branciforti lasciava quindi Palermo e si ritirava a Bagheria, tra la fenicia Sòlunto e la greca Imera, si faceva là costruire una villa e si chiudeva in quella sua dimora che era fortezza, castello, tomba non di libri e di salme come l’Escorial, ma di orgoglio umiliato e di rimorso. Sull’arco d’ingresso della villa faceva incidere un emistichio del Tasso, O corte a Dio, e oltre, sopra un altro arco, questi versi in spagnolo:

“Ya la esperanza es perdida

Y un solo bien me consuela

Que el tiempo que pasa y buela

Lleverà presto la vida”.

E sono i versi questi che recita Teolinda nel Libro primo de La Galatea di Cervantes. Ma ritorniamo al bagno di Algeri, ai due poeti là rinchiusi, Cervantes e Veneziano. Il monrealese, preso com’è dal “vendaval erótico”, come lo defi nisce Américo Castro, dalla bufera d’amore per la nipote Eufemia o per Felice Orsini, scrive là La Celia, e Cervantes (anche lui forse in quel momento nella bufera d’amore, se nel personaggio di Lauso de La Galatea dobbiamo riconoscere lo stesso autore), e Cervantes scrive là le Ottave per Antonio Veneziano. Veneziano viene riscattato nel 1579, e il cronista Ortolani così scrive:

“Fu fatta festa in Palermu pillu ricattu e ritornu di lu celebri

poeta Veneziano”.

Morirà poi, il povero poeta, il 19 agosto 1593, come sappiamo, per l’incendio (doloso, sembra) e lo scoppio della polveriera nel carcere di Castellamare. E morirà, in quello scoppio, anche Egisto Giuffredi, l’autore di Avvertimenti cristiani. Cervantes, riscattato, lasciava Algeri il 24 ottobre 1580. Dice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”. E sarà, quella di Cervantes, una vita libera, ma, come quella di prima della prigionia in Algeri, una vita molto tribolata. Nulla però gli impedirà di concepire (nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio -1592) e di scrivere quindi le avventure dell’ingegnoso hidalgo, di don Alonso Quijana, ribattezzatosi Don Chisciotte della Mancia, e del suo fi do scudiero Sancio Panza. Don Chisciotte, il primo grande romanzo della storia letteraria, uno dei grandi capolavori dell’umanità. Nel 2005 ricorreva il quarto centenario della prima pubblicazione del romanzo. E, nell’aprile di quell’anno, ad Alcalà de Henares, nella casa natale-museo di Cervantes, si inaugurava la mostra delle prime edizioni del Quijote, in cui compariva l’edizione del 1610, stampata a Milano “por el Heredero de Pedromartir Locarni y Juan Bautista Bidello”, e dedicata dal Cervantes, questa edizione, non più al conte di Bejar, ma “All’Ill.mo Señor el Sig. Conde Vitaliano Vizconde”. Abbiamo voluto sin qui raccontare della prigionia in Algeri di due poeti, Cervantes e Veneziano. Ma abbiamo anche voluto signifi care, soprattutto attraverso Cervantes, la terribile vita che si svolgeva allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo, in questo spazio dove si svolge il grande poema omerico e dove sono nate le prime grandi civiltà della storia umana. Terribile vita allora, nel ‘500, tra le sponde del Mediterraneo. E terribile di nuovo oggi, dopo cinque secoli, per le tragedie quasi quotidiane che tra queste sponde si consumano. Tragedie di poveri infelici che fuggono da luoghi di guerra, di malattia e di fame e che cercano salvezza in questo nostro mondo di opulenza e di alienazione. Infelici che spesso trovano la morte per acqua, come l’eliotiano Phlebas il Fenicio, naufragano presso le sponde di Sicilia e di Spagna. E con dolore dunque possiamo ripetere le parole di Fernand Braudel, riferite all’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari

03/11/2005 – La prigione dei destini incrociati: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano nei bagni di Algeri
Instituto Cervantes Napoli

14/04/2008 Universitat de Valencia. Spagna.La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO



Antonio Veneziano e Miguel de Cervantes



Parliamo di Vincenzo Consolo

di Natale Tedesco

Laudatio per Vincenzo Consolo di Natale Tedesco in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia moderna (Palermo, Steri 20 giugno 2007)

“Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura” di Natale Tedesco.
Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore. Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo, La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di Pantalica. Fascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagement. Di quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si giuoca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

Palermo 20 GIUGNO 2007
Lo specchio di carta
Osservatorio italiano sul romanzo contemporaneo

nella foto Sergio Spadaro e Vincenzo Consolo

Per Pio La Torre



“Noi fummo i leoni e i gattopardi, dopo di noi verranno le iene e gli sciacalli.” Dice il principe di Salina a Chevalley, l’inviato del nuovo governo italiano, che gli offriva il laticlavio, la nomina a senatore. Ma il principe di Salina ignorava o voleva ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermi a passare il tempo tra feste e balli. Vogliamo dire che la mafia dei gabellati, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni. Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, ignorava questo?
In quell’Ottocento post-unitario al governo italiano arrivavano sempre più spesso notizie di assassini, di stragi in Sicilia, nelle campagne e nei paesini dei feudi. Nel 1975 si promosse la prima inchiesta parlamentare sulla mafia in Sicilia. Ma i risultati furono quasi nulli perché tutti gli interrogati negavano l’esistenza di quella organizzazione criminale. Nel 1876 viene pubblicata l’inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino, un piemontese e un toscano, nella quale si parlava della specificità  siciliana della malavita organizzata, della mafia. Insorsero allora le anime belle di intellettuali, che sentirono quell’inchiesta come una offesa alla Sicilia. Luigi Capuana scrisse un pamplet per contestare l’inchiesta dei due studiosi, servendosi della definizione che della mafia dava il grande etnologo Giuseppe Pitrè per il quale la parola maffia era sinonimo di bellezza, di eleganza. Bellezza ed eleganza che opprimeva, sfruttava, uccideva. Per la prima volta, nel 1863, si rappresenta il legame tra mafia e potere politico nella commedia di Rizzotto e Mosca, I Mafiusi di La Vicaria, in cui il personaggio dell’Incognito che visita nel carcere di Palermo i mafiosi è nella realtà Francesco Crispi.
Quando arriva anche in Sicilia il messaggio del Socialismo, iniziano i primi scioperi dei contadini, degli zolfatari. E inizia la repressione delle forze dell’ordine. I carabinieri sparano contro i dimostranti, imprigionano. Avviene nel 1893 la strage di Caltavuturo. Andrea Barbato, capo dei Fasci Siciliani, viene imprigionato. Ingrao, nonno di Pietro Ingrao, è costretto a scappare e a rifugiarsi nel Lazio. Con l’avvento del fascismo e l’andata in Sicilia del prefetto Mori, il prefetto di ferro, la mafia si occulta, si immerge. “Calati Juncu ca passa la china”, piegati giunco ché passa la piena, dice il motto mafioso. La verità è che i due poteri mafiosi, fascismo e mafia, non potevano coesistere. Il giunco, la mafia, si rialza, si fa più potente che mai con lo sbarco degli americani nel 1943 in Sicilia. Renato Candida, nel libro L’esercito della lupara, ci racconta che Lucky Luciano, scarcerato in America, viene portato in Sicilia e fatto incontrare con don Calogero Vizzini, il potente capo mafia di Villalba.
Fatto è che i primi sindaci nei paesi dell’interno della Sicilia, nominati dagli americani, sono quasi sempre mafiosi. E sono loro che reprimono le prime lotte contadine del secondo dopoguerra, sono loro che comandano ai picciotti di assassinare capilega, sindacalisti, contadini. Nel 1947, sappiamo, avvenne la strage di Portella della Ginestra.

Fu la mafia, sappiamo, a sparare per mano della banda di Salvatore Giuliano, e insieme furono i fascisti del comandante di Salò Giulio Valerio Borghese, a sparare contro i contadini che festeggiavano il primo maggio, nella spianata di Portella, intorno alla pietra di Barbato. È da partigiano nel Piemonte Pompeo Colaianni prende il nome di Barbato, e del partigiano Barbato ci dice Beppe Fenoglio nel Partigiano Jhonny. Le due mafie – fascismo e mafia – si ritrovano a Portella concordi nell’uccidere, nel massacrare i proletari.
Nel secondo dopoguerra è una sequela terribile di assassini di capilega, di sindacalisti, contadini. Ricordiamo fra tutti i nomi di Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale (dell’indomita forza e dignità della madre di Salvatore, Francesca Serio, ci racconta Carlo Levi in Le parole sono pietre).
 Il nome di Placido Rizzotto richiama subito quello di Pio La Torre, perché è lui, il giovane militante comunista, che a Corleone prende il posto di dirigente della Confederterra. Erano gli anni quelli, del movimento contadino, degli scioperi e delle occupazioni delle terre incolte per l’attuazione della riforma agraria, l’assegnazione ai contadini di “fazzoletti” di terra nei feudi dei Gattopardi. È La Torre che vogliamo qui oggi commemorare nel 25° anniversario della sua morte, del suo assassinio. Era nato nel I92l in una contrada alla periferia di Palermo, Rocca Tagliata. Figlio di contadini, era riuscito a laurearsi in scienze politiche. Nel 1947 diviene dirigente prima della Confederterra, poi della CGIL e quindi delle PCI. Nel 1950 è arrestato e tenuto in carcere per un anno e mezza, arrestato di aver organizzato l’occupazione da parte dei braccianti e dei contadini senza terra del feudo di Santa Maria del Bosco, nei pressi di Bisacquino. Nel 1962 diviene segretario regionale della CGIL e quindi segretario regionale del partito. Fa parte anche del comitato centrale del PCI. Nel 1969 è chiamato a Roma per incarichi nella commissione agraria e in quella meridionale. Entrerà quindi nella segreteria nazionale della PCI su proposta di Enrico Berlinguer.

Nel 1981, mentre è deputato a Montecitorio, torna in Sicilia e assume la carica di segretario regionale del partito. Toma perché sente che sono tre grandi problemi che bisogna affrontare e cercare di risolvere in Sicilia: la crisi economica, la criminalità mafiosa, la minaccia della pace nel Mediterraneo per l’installazione della base missilistica americana nell’aeroporto di Comiso. Ci sono manifestazioni davanti a quell’aeroporto, vi si accampano giovani pacifisti giunti la da ogni parte di Europa, giovani che vengono puntualmente caricati e malmenati dalla polizia. Pio La Torre raccoglie un milione di firme in calce a una petizione al governo il cui presidente era allora Giovanni Spadolini. Con il suo ritorno in Sicilia, Pio La Torre mette in allarme molte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione, della speculazione edilizia, del bellicismo. L’aeroporto di Comiso oltre a dover contenere i missili atomici delle rampe fisse avrebbe anche contenuto quelle mobili, che si sarebbero mosse per tutta la Sicilia. L’impegno suo nell’affrontare tutti questi problemi, mafia, destabilizzazione, pericolo atomico, fa maturare nel potere criminale la decisione di eliminarlo. Una terribile stagione quella dell’inizio degli anni ’80 in cui la mafia uccide presidenti di regione, ufficiali dei carabinieri, commissari di polizia, magistrati, giornalisti. La mattina del 30 aprile 1982 Pio La Torre esce di casa e sale sulla macchina guidata dall’autista Rosario Di Salvo. Dopo pochi metri di strada, in via Generale Turba, tre motociclisti si affiancano alla macchina e sparano, sparano, massacrando i due uomini, La Torre e Di Salvo. Gli esecutori del massacro, si saprà poi, sono Salvatore Cucuzza, Pino Greco e Giuseppe Lucchese. Ma non si sa ancora oggi chi sono stati i mandanti. Giorgio Frasca Polara scrive: “in un dischetto del computer di Giovanni Falcone, dopo la sua morte, sarà trovata una traccia: un collegamento del nome di Pio La Torre con Gladio (l’organizzazione clandestina anti-comunista) e il SISMI, cioè il servizio segreto militare (interessato alla campagna su Comiso?)”

Abbiamo iniziato con il Gattopardo, questo grande romanzo, ma con una concezione deterministica, meccanicistica della storia, speculare alla concezione fatalistica di Giovanni Verga. Abbiamo iniziato con le parole del principe di Salina per concludere ora che i veri nobili non sono i leoni e i gattopardi, ma tutti quelli che hanno lottato in Sicilia per la democrazia, per il rispetto dei diritti e della dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i Giovanni Falcone e i Paolo Borsellino, tutti coloro insomma che hanno lottato e sacrificato la loro vita per la libertà, la giustizia, il rispetto dei diritti di tutti. E Pio La Torre, sono tutti gli altri martiri, gli altri eroi,
 I’ onore di Sicilia

e di tutto questo nostro Paese. Onore a loro!

Vincenzo Consolo
Milano 21 aprile 2007
Letto a Firenze il 21 aprile 2007
congresso PD
pubblicato il 22 aprile 2007
Sull’Unità.


SICILIA IN FESTA – FOTO DI GIUSEPPE LEONE

SICILIA IN FESTA – FOTO DI GIUSEPPE LEONE
 Pubblicato in “Feste per un anno”Eidos-Fondazione Buttitta 2007 pag. 11-12


 “La mitologia […] questo ha potuto con sicurezza affermare: che i fenomeni del cielo e della terra nel loro periodico ripetersi e rinnovarsi han dato luogo a molte pratiche e usanze come a molti miti e leggende.” Scrive Giuseppe Pitrè nel volume Spettacoli e feste (1) della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane. E Sebastiano Aglianò, in Questa Sicilia, scrive a sua volta:”InSiciliailcarattere sacro dei misteri greci, la prostrazione islamica al Dio onnipotente hanno confuso i loro germi con quelli più vivi del cristianesimo” (2) Fenomeni dunque del cielo e della terra hanno creato i più antichi miti, e quelli della Grecia, i più significativi per noi. Hanno creato il mito primitivo e pregnante della terra, del buio e della luce, dell’inverno e della primavera. Il mito primigenio, vogliamo dire, di Demetra e di Persefone. “Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare,/ e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo rapi.. così l’Inno di Omero a Demetra(3). E in questa madre dolente che ricerca la figlia rapita si è voluto vedere, nelle feste pasquali, l’Addolorata alla ricerca del Figlio. Lampante ancora ci sembra lo scivolamento pagano nella liturgia cristiana, nella festa di San Giovanni, il 24 giugno, nel solstizio d’estate. Festa che si fa in vari paesi, ma singolare è quella di Alcara Li Fusi, un paesino dei Nebrodi. Al mattino si svolge la processione con la statua del Santo. Alla sera, in ogni contrada del paese, si apparecchiano gli altarini del muzzuni, una brocca senza manici dentro cui si son fatti germogliare orzo e frumento. Intorno all’altarino, uomini e donne intonano canti d’amore. Dello stesso senso della festa di San Giovanni, della netta separazione del rito pagano dal rito cristiano, ci sembra il rito rappresentato da Pirandello ne La sagra del Signore della Nave. Ma torniamo alla Settimana Santa, ai riti del passaggio dalla morte alla resurrezione, alla vita. Già nell’alto medioevo, nel mondo cristiano, avveniva nelle chiese la recita del Mistero, la Sacra Rappresentazione per celebrare la Settimana Santa. E in Sicilia? La Sicilia, che al tempo dei greci aveva avuto i grandi teatri di Taormina, di Segesta, di Siracusa, dove Eschilo fece rappresentare per la prima volta le Etnee, con i Bizantini, gli Arabi e i Normanni non ebbe più rappresentazioni teatrali. Bisogna arrivare al 1563, quando, col viceré Medinaceli, fu rappresentato a Palermo, nella chiesa di Santa Maria della Pinta, l’atto, detto appunto della Pinta, scritto da Merlin Cocai, pseudonimo di Teofilo Folengo. L’atto della Pinta fu l’inizio di una serie di sacre rappresentazioni, di recite di opere teatrali nelle chiese, nei monasteri e finanche nei cimiteri delle varie città di opere teatrali nelle chiese, nei monasteri e finanche nei cimiteri delle varie – città e paesi di Sicilia. Erano storie di martirii di santi, ma erano soprattutto, durante la Settimana Santa, rappresentazioni del Mortorio, della Passione di Cristo; erano opere come il Cristo morto di Ortensio Scammacca, Funerale di Giesù di Giuseppe Riccio, Cristo condannato e Cristo al Calvario di padre Benedetto da Militello, Il riscatto di Adamo nella morte di Gesù Cristo di Filippo Orioles. A Trapani, come a Prizzi e in altri centri, la sacra rappresentazione cominciava la Domenica delle Palme, con la benedizione dei rami delle palme, tra musiche e scampanate. Dopo, nei giorni della Settimana Santa, la rappresentazione diveniva sempre più drammatica, come avveniva a Palermo lungo il Cassaro, con la Danza Macabra o Trionfo della Morte. Il culmine si raggiungeva, negli ultimi tre giorni della Settimana Santa, con la recita della Passione di Cristo, che prendeva a Erice il nome di Casazza. Nome, Casazza, dicono gli storici di volta in volta, venuto in Sicilia dalla Lombardia, dalla Toscana o dalla Spagna, ma che significa sempre la grande casa in cui avveniva la sacra rappresentazione. C’erano, in queste rappresentazioni, quelli che dovevano recitare l’ ingrata parte degli uccisori di Cristo, dei Giudei, come avveniva e avviene ancora, a San Fratello e a Geraci Siculo. Per i sanfratellani però l’interpretazione della parte dei Giudei forse ingrata non è. Nei loro sgargianti costumi diavoleschi, con trombe e catene in mano, quei contadini, pastori, boscaioli carbonai, sembra che interpretino fino in fondo, con convinzione, la loro parte di “cattivi”. Scrive Nino Buttitta: “Nel giovedì e nel venerdì precedenti la Pasqua le strade di San Fratello sembrano ripercorse dall’agitazione e dal tripudio dei giorni di carnevale. Salti, corse, sgambetti, saggi di equilibrismo [..], canti, rumori di catene, squilli di tromba, clamorosamente annunciano la presenza dei Giudei”(4). E ancora due altri etnologi, rispettivamente di San Fratello e di Mistretta, Rubino e Cocchiara, ci parlano di questi Giudei. Feste, feste in Sicilia: feste calendariali, feste religiose. “Che cosa è una festa religiosa in Sicilia? ” si chiede Leonardo Sciascia (5). E così risponde usando una grammatica freudiana e insieme pirandelliana: “E’ una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo” (6). Una solitudine troppo rumorosa verrebbe da dire con Bohumil Hrabal. Ru-more, chiasso, movimento, luce, colore che ritroviamo nel Carnevale, nel Natale, nella Pasqua e nelle feste patronali dei vari paesi di Sicilia, fissati nelle straordinarie fotografie di questa mostra di Giuseppe Leone. Giuseppe Leone, con Sellerio, Scianna, Minnella e altri, appartiene alla grande scuola dei fotografi siciliani, scuola che è speculare, azzardiamo dire a quella letteraria. Speculari, le due scuole, perché leggono interpretano, “rappresentano”, ciascuna a suo modo, la ricca realtà siciliana. Cento e più foto sono in questa mostra di Leone. In cui sono fissate le immagini delle feste, religiose e no, di tanti paesi di Sicilia, dal Natale di San Michele di Ganzeria e Barrafranca, al Carnevale di Chiaramonte Gulfi, di cui ci ha lasciato memoria Serafino Amabile Guastella; e ancora, la Settimana Santa, dalla Domenica delle Palme di Leonforte e di Gangi, al Giovedì e Venerdì Santo di Trapani e di Enna, ai Diavoli di Prizzi, e le feste patronali, dalle tre sante patrone di Palermo, Catania e Siracusa, Rosalia, Agata e Lucia,alla festa di San Giuseppe a Santa Croce di Camerina,di San Silvestro a Troina, Sant’ Alfio, con la corsa dei “nudi”, a Lentini e Trecastagne, a quella di San Paolo a Palazzolo Acreide… Sono immagini, queste di Leone, della profonda storia, della ricca cultura siciliana. Immagini che rimarranno, in questo nostro tempo di cancellazione d’ogni memoria, d’ogni tradizione, di omologazione culturale, come gli “annali” della nostri storia. Milano, 18.2.07 Vincenzo Consolo (1) Giuseppe Pitrè “Spettacoli e feste” pag. XI – Luigi Pedone Lauriel Palermo 1881 (2) Sebastiano Aglianò “Questa Sicilia” A.Mondadori editore 1950 (3) Inni Omerici a cura di Filippo Cassola -pag. 39 – Fondazione Lorenzo Valla – A. Mondadori editore 1981 (4) Nino Buttitta in “Feste religiose in Sicilia” di Leonardo Sciascia – foto di Fernando Scianna – Leonardo da Vinci Editrice – Bari 1965 – pagina senza numerazione (5) Leonardo Sciascia in “Feste religiose in Sicilia” idem come sopra pag.30 (6) Idem come sopra

Vincenzo Consolo – Sant’Agata di Militello – 2007

La Pasqua di Giuseppe Leone – Monterosso Almo
Il Maestro Giuseppe Leone
Vincenzo Consolo e Giuseppe Leone – bosco della Miraglia

Antonello da Messina


Vincenzo Consolo


Antonello d’Antonio, figlio di Giovanni, maczonus, mastro
scalpellino, e di Garita. Nato a Messina nel 1430 circa e ivi morto
nel 1479. Pittore. Ebbe un fratello, Giordano, pittore, da cui nacquero
Salvo e Antonio, pittori; una sorella, Orlanda, e un’altra sorella,
di cui non si conosce il nome, sposata a Giovanni de Saliba,
intagliatore, da cui nacquero Pietro e Antonio de Saliba, pittori.
Antonello d’Antonio sposò Giovanna Cuminella ed ebbe tre figli,
Jacobello, pittore, Catarinella e Fimia.
Visse dunque solo quarantanove anni questo grande pittore
di nome Antonello, e, poco prima di morire di mal di punta, di
polmonite, dettò il 14 febbraio 1479, al notaro Mangiante, il testamento,
in cui, fra l’altro, disponeva che il suo corpo, in abito
di frate minore osservante, fosse seppellito nella chiesa di Santa
Maria del Gesù, nella contrada chiamata Ritiro. “Ego magister
Antonellus de Antonej pictor, licet infirmus jacens in lecto sanus
tamen dey gracia mente… iubeo (dispongo) quod cadaver meum
seppeliatur in conventu sancte Marie de Jesu cum habitu dicti
conventus…”. E non possiamo qui non pensare al testamento
di un altro grande siciliano, di Luigi Pirandello, che suonò, allora,
nelle sue laiche disposizioni, come sarcasmo o sberleffo nei
confronti di quel Fascismo a cui aveva aderito nel 1924: “Morto,
non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori
sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei
poveri…”.
Ma torniamo al nostro Antonello. Fra scalpellini, intagliatori e
pittori, era, quella dei d’Antonio e parenti, una famiglia di artigiani
e artisti. Ma Messina doveva essere in quella seconda metà
del Quattrocento, una città piena d’artisti, locali, come Antonino
Giuffrè, che primeggiava nella pittura prima di Antonello, o venuti
da fuori. Dalla Toscana, per esempio. Ché Messina era città
fiorente, commerciava con l’Italia e l’Europa, esportava sete e
zuccheri nelle Fiandre, e il suo sicuro porto era tappa d’obbligo
nelle rotte per l’Africa e l’Oriente. Una città fortemente strutturata,
una dimora “storica”, d’alto livello e di sorte progressiva. E
certamente doveva essere meta di artigiani e artisti che lì volontariamente
approdavano o vi venivano espressamente chiamati.
E proprio parlando di Antonello d’Antonio, lo storico messinese
Caio Domenico Gallo (Annali della città di Messina, ivi 1758)
fu il primo ad affermare che “il di lui genitore era di Pistoja”. E
lo storico Gioacchino Di Marzo (Di Antonello da Messina e dei
suoi congiunti, Palermo, 1903), che cercò prove per far luce nella
leggendaria e oscura vita di Antonello (“[…] mi venne fatto d’imbattermi
in un filone, che condusse alla scoperta di una preziosa
miniera di documenti riguardanti Antonello in quell’Archivio Provinciale
di Stato […]”) il Di Marzo dicevamo, che così ancora scrive:
“L’asserzione del Gallo, che il sommo Antonello sia stato figlio
di un di Pistoia, non poté andare a sangue ai messinesi cultori di
patrie memorie, fervidi sempre di vivo patriottismo, vedendo così
sfuggirsi il vanto ch’egli abbia avuto origine da messinese casato
e da pittori messinesi ab antico”. Che fecero dunque questi cultori
di patrie memorie o questi campanilisti? Tolsero dei quadri
ad Antonello e li attribuirono ai suoi fantomatici antenati, falsificando
date, affermando che già nel 1173 e nel 1276 c’erano stati
un Antonellus Messanensis e un Antonello o Antonio d’Antonio
che rispettivamente avevano lasciato un polittico nel monastero
di San Gregorio e un quadro di San Placido nella cattedrale, pretendendo
così che la pittura si fosse sviluppata in Messina prima
che altrove, meglio che in Toscana…
Il primo di questi fantasiosi storici fu Giovanni Natoli Ruffo,
che si celava sotto lo pseudonimo di Minacciato, cui seguì il prete
Gaetano Grano che fornì le sue “invenzioni” al prussiano Filippo
Hackert per il libro Memorie dei pittori messinesi (Napoli, 1792),
e infine Giuseppe Grosso Cacopardo col suo libro Memorie dei
pittori messinesi e degli esteri, che in Messina fiorirono, dal secolo
XII sino al secolo XIX, ornate di ritratti (Messina, 1821).
Strana sorte ebbe questo nostro Antonello, ché la sua pur breve
vita, già piena di vuoti, di squarci oscuri e irricostruibili, è
stata campo d’arbitrarii ricami, romanzi, fantasie. E cominciò a
romanzare su Antonello Giorgio Vasari (Vite dei più eccellenti
architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue infino a’ tempi nostri,
1550-1568), il Vasari, di cui forse il nodo più vero è quell’annotazione
d’ordine caratteriale: “persona molto dedita a’ piaceri e
tutta venerea”, per cui Leonardo Sciascia ironicamente ricollega
l’indole di Antonello agli erotomani personaggi brancatiani.
La breve vita di Antonello viene, per così dire, slabbrata ai
margini, alla nascita e alla morte, falsificata, dilatata: negli antenati
e nei discendenti, con l’attribuzione di quadri suoi ai primi e
quadri dei secondi a lui. Ma sorte più brutta ebbero le sue opere,
specie quelle dipinte in Sicilia, a Messina e in vari paesi, di cui
molte andarono distrutte o irrimediabilmente danneggiate o presero
la fuga nelle parti più disparate del mondo. E l’annotazione
meno fantasiosa che fa nella Introduzione alle Memorie dei pittori
messinesi… il Grosso Cacopardo è quella della perdita subita
da Messina di una infinità di opere d’arte per guerre, invasioni,
epidemie, ruberie, terremoti. Dei quali ultimi egli ricorda “l’orribile
flagello de’ tremuoti del 1783, che rovesciando le chiese, ed
i palagi distrussero in gran parte le migliori opere di scultura e
di pennello”. Non avrebbe mai immaginato, il Grosso Cacopardo,
che un altro e più terribile futuro flagello, il terremoto del
28 dicembre 1908, nonché distruggere le opere d’arte, avrebbe
distrutto ogni possibile ricordo, ogni memoria di Messina. Due
testimoni d’eccezione ci dicono del primo e del secondo terremoto:
Wolfgang Goethe e David Herbert Lawrence. Scrive Goethe
nel suo Viaggio in Italia, visitando Messina, tre anni dopo il
terremoto del 1783: “Una città di baracche… In tali condizioni si
vive a Messina già da tre anni. Una simile vita di baracca, di capanna
e perfin di tende influisce decisamente anche sul carattere
degli abitanti. L’orrore riportato dal disastro immane e la paura
che possa ripetersi li spingono a godere con spensierata allegria
i piaceri del momento”.
E Lawrence, nel suo Mare e Sardegna, così scrive dopo il terremoto
del 1908: “Gli abitanti di Messina sembrano rimasti al punto
in cui erano quasi vent’anni fa, dopo il terremoto: gente che ha
avuto una scossa terribile e che non crede più veramente nelle
istituzioni della vita, nella civiltà, nei fini”.
E alle osservazioni di quei due grandi qui mi permetto di aggiungere
una mia digressione su Messina: “Città di luce e d’acqua,
aerea e ondosa, riflessione e inganno, Fata Morgana e sogno,
ricordo e nostalgia. Messina più volte annichilita. Esistono miti e
leggende, Cariddi e Colapesce. Ma forse vi fu una città con questo
nome perché disegni e piante (di Leida e Parigi, di Merian e
Juvarra) riportano la falce a semicerchio di un porto con dentro
velieri che si dondolano, e mura, colli scanditi da torrenti e coronati
da forti, e case e palazzi, chiese, orti… Ma forse, dicono quei
disegni, di un’altra Messina d’Oriente. Perché nel luogo dove si
dice sia Messina, rimane qualche pietra, meno di quelle d’Ilio o
di Micene. Rimane un prato, in direzione delle contrade Paradiso
e Contemplazione, dove sono sparsi marmi, calcinati e rugginosi
come ossa di Golgota o di campo d’impiccati. E sono angeli mutili,
fastigi, blocchi, capitelli, stemmi… Tracce, prove d’una solida
storia, d’una civiltà fiorita, d’uno stile umano cancellato… Deve
dunque essere successo qualche cosa, furia di natura o saccheggio
d’orde barbare. Ma a Messina, dicono le storie, nacque un
pittore grande di nome Antonio d’Antonio. E deve essere così se
ne parlano le storie. Egli stesso poi per affermare l’esistenza di
questa sua città, usava quasi sempre firmare su cartellino dipinto
e appuntato in basso, a inganno d’occhio, “Antonellus messaneus
me pinxit”. E dipingeva anche la città, con la falce del porto, i
colli di San Rizzo, le Eolie all’orizzonte, e le mura, il forte di Rocca
Guelfonia, i torrenti Boccetta, Portalegni, Zaera, e la chiesa di
San Francesco, il monastero del Salvatore, il Duomo, le case, gli
orti…”.
Gli orti… E la luce, la luce del cielo e del mare dello Stretto,
dietro finestre d’Annunciazioni, sullo sfondo di Crocifissioni e
di Pietà. E i volti. Volti a cuore d’oliva, astratti, ermetici, lontani;
carnosi, acuti e ironici; attoniti e sprofondati in inconsolabili
dolori; e corpi, corpi ignudi, distesi o contorti, piagati o torniti
come colonne. Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici
non si spiegano se non con una preziosa, spessa sedimentazione
di memoria. Ma di memoria illuminata dal confronto con altre
realtà, dopo aver messo giusta distanza tra sé e tanto bagaglio,
giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore
e geometria.
E’apprendista a Napoli, alla scuola del Colantonio, in quella
Napoli cosmopolita di Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, dove
s’incontra con la pittura dei fiamminghi, dei provenzali, dei catalani,
di Van Eyck e di Petrus Christus, di Van der Weyden, di Jacomar
Baço, di altri. E soggiorna poi a Venezia, “alla grand’aria”,
come dice Verga, in quella città, dove s’incontra con altra pittura,
altra luce e altri colori, altra “prospettiva”; incontra la pittura di
Piero della Francesca, Giovanni Bellini… Ed il ritorno poi in Sicilia,
nell’ultimo scorcio della sua vita, dove dipinge pale d’altare, e
gonfaloni, ritratti, a Messina, a Palazzolo Acreide, a Caltagirone,
a Noto, a Randazzo e, noi crediamo, a Lipari. Ma molte, molte
delle opere di Antonello in Sicilia si sono perse, per incuria, vendita,
distruzione. Su Antonello era calato l’oblìo. Vasari, sì, aveva
tracciato una biografia fantasiosa e, dietro di lui altri, come quei
correttori di date che avevano attribuito i suoi quadri a fantomatici
antenati.
Fu per primo Giovambattista Cavalcaselle, un critico e storico
dell’arte, a riscoprire Antonello da Messina, a far comprendere la
distanza fra l’Antonello delle fonti e l’Antonello dei dipinti. Era
esule a Londra, il Cavalcaselle, fuoruscito per ragioni politiche.
Aveva partecipato alla rivoluzione di Venezia del 1848, e quindi,
nelle file mazziniane e garibaldine, alla difesa della Repubblica
Romana contro l’assalto dei francesi. Rischioso e temerario dunque
il suo ritorno in Italia, il suo viaggio clandestino che parte
dal Nord e arriva fino al Sud, alla Sicilia. “Come Antonello, con il
suo complesso iter, aveva abbattuto barriere regionali e nazionali,
così per riscoprirlo era necessario fare un’operazione culturale affine:
essa è svolta proprio dai molteplici interessi del Cavalcaselle”,
scrive la giovane studiosa Chiara Savettieri nel suo Antonello
da Messina: un percorso critico.
Cavalcaselle giunge a Palermo nel marzo del 1860 (l’11 aprile
di quello stesso anno Garibaldi sbarcherà con i suoi Mille a
Marsala) e, dopo le tappe intermedie, fatte a dorso di mulo, di
Termini Imerese, Cefalù, Milazzo, Castrogiovanni, Catania, giungerà
a Messina, da dove scrive al suo amico inglese Joseph Crowe,
assieme al quale firmerà il libro Una nuova storia della pittura in
Italia dal II al XVI secolo: “Caro mio, credo sia pura invenzione
del Gallo tutte le opere date al Avo, al Zio, al padre d’Antonello,
ed abbia di suo capriccio inventato una famiglia di pittori, mentre
quanto rimane delle opere attribuite a quei pittori sono di chi ha
tenuto dietro Antonello e non di chi lo ha preceduto”.
Cavalcaselle legge e autentica i quadri di Antonello, quindi,
due studiosi, il palermitano Gioacchino di Marzo e il messinese
Gaetano La Corte Cailler, rinvengono nell’Archivio Provinciale di
Stato di Messina documenti riguardanti Antonello, dai contratti di
committenze fino al suo testamento.
Pubblicheranno, i due, quei documenti, nei loro rispettivi libri
(Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti – Antonello da
Messina. Studi e ricerche con documenti inediti) pubblicheranno
nel 1903, salvando così quei preziosi documenti dal disastro del
terremoto di Messina del 1908.
Dopo Cavalcaselle, Di Marzo e La Corte Cailler, gli studiosi
finalmente riscoprono e studiano Antonello. E sono Bernard Berenson,
Adolfo e Lionello Venturi, Roberto Longhi, Stefano Bòttari,
Jan Lauts, Cesare Brandi, Giuseppe Fiocco, Giorgio Vigni,
Fernanda Wittengs, Federico Zeri, Rodolfo Pallucchini, Fiorella
Sricchi Santoro, Leonardo Sciascia, Gabriele Mandel e tanti, tanti
altri, fino a Mauro Lucco, che ha curato nel 2006 la straordinaria
mostra di Antonello alle Scuderie del Quirinale, in Roma, fino
alla giovane studiosa Chiara Savetteri, che mi ha fatto scoprire,
leggendo il suo libro Antonello da Messina (Palermo, 1998)
l’incontro, a Cefalù, nel 1860, tra Cavalcaselle ed Enrico Pirajno
di Mandralisca, il possessore del Ritratto d’ignoto, detto popolarmente
dell’ignoto marinaio, di Antonello. E scriverà quindi il
Cavalcaselle a Mandralisca: “[…] il solo Antonello da me veduto
fino ad ora in Sicilia è il ritratto ch’ella possiede”. Dicevo che la
Savettieri mi ha fatto scoprire, nel 1996, l’incontro tra il barone
Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, e il Cavalcaselle.
Scopro -di questo incontro che sarebbe stato sicuramente un altro
capitolo del mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino,
1976)- di cui è protagonista Enrico Pirajno di Mandralisca
e il cui tema portante è appunto il Ritratto d’ignoto di Antonello,
che io chiamo dell’Ignoto marinaio. Il marinaio mi serviva nella
trama del romanzo, ma è per primo l’Anderson che dà questo
titolo al ritratto ch’egli fotografa nel 1908, raccogliendo la tradizione
popolare.
Il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti». L’avevo mandato
prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna
Banti, perché il tema che faceva da leitmotiv era il ritratto di
Antonello. Longhi, in occasione della mostra del ’53 a Messina
di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico
siciliano. Nessuno mi rispose. Mel ’69 venne a Milano Longhi per
presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi.
Lo avvicinai «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto
a Paragone…». Mi guardò con severità, mi rispose: «Sì, sì mi
ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa
storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve
finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione
popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto
marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri
pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione,
e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare
Antonello. Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il
quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il
racconto a Enzo Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Mi scriveva da Genova, in data 13 novembre 1997 il professor
Paolo Mangiante, discendente di quel notaro Mangiante che
nel 1479 stese il testamento di Antonello. Scriveva: “Accludo anche
alcune schede del catalogo della Mostra su Antonello da
Messina che credo possano rivestire un certo interesse per lei,
riguardano rogiti di un mio antenato notaro ad Antonello per il
suo testamento e per commissioni di opere pittoriche. Particolare
interesse potrebbe rivestire il rogito del notaro Paglierino a certo
Giovanni Rizo di Lipari per un gonfalone, perché si potrebbe
ipotizzare che il suddetto Rizo sia il personaggio effigiato dallo
stesso Antonello e da lei identificato come l’Ignoto marinaio. Del
resto, a conciliare le sue tesi con le affermazioni longhiane sta
la constatazione, dimostrabile storicamente, che un personaggio
notabile di Lipari, nobile o no, non poteva non avere interessi
marinari, e in base a quelli armare galere e guidare lui stesso le
sue navi come facevano tanti aristocratici genovesi dell’epoca,
nobili sì talora, ma marinai e pirati sempre”.
Il movimento di Cavalcaselle, ho sopra detto, è da Londra al
Nord d’Italia, fino in Sicilia, sino a Cefalù; il mio, è di una dimensione
geografica molto, molto più piccola (da un luogo a un
altro di Sicilia) e di una dimensione culturale tutt’affatto diversa.
E qui ora voglio dire del mio incontro con Antonello, con il mio
Ritratto d’ignoto.
In una Finisterre, alla periferia e alla confluenza di province,
in un luogo dove i segni della storia s’erano fatti labili, sfuggenti,
dove la natura, placata -immemore di quei ricorrenti terremoti
dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano, dell’Etna- la
natura qui s’era fatta benigna, materna. In un villaggio ai piedi
dei verdi Nèbrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle
Eolie celesti e trasparenti, sono nato e cresciuto.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione,
malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi
accenti di parole, gesti, in tanta sospensione o iato di natura e
di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il
bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti
per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E
poiché, sappiamo, nulla è sciolto da causa o legami, nulla è isola,
né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva
necessità di uscire da quella stasi ammaliante, da quel confine,
potevo muovere verso Oriente, verso il luogo del disastro, il cuore
del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi
antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura,
l’esistenza. Ma per paura di assoluti ed infiniti, di stupefazioni e
gorgoneschi impietrimenti, verghiani fatalismi, scelsi di viaggiare
verso Occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più
incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena,
verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i suq e le giudecche, le
tombe di porfido di Ruggeri e di Guglielmi, la reggia mosaicata
di Federico di Soave, il divano dei poeti, il trono vicereale di
corone aragonesi e castigliane, all’incrocio di culture e di favelle
più diverse. Ma verso anche le piaghe della storia: il latifondo e
la conseguente mafia rurale.
Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la
sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni
Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così
a Cefalù. E trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel
modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal
mare alla terra, dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura:
Enrico Pirajno di Mandralisca. Recupera, il Mandralisca, in una
spezieria di Lipari, il Ritratto d’ignoto di Antonello dipinto sul
portello di uno stipo.
Il viaggio del Ritratto, sul tracciato d’un simbolico triangolo,
avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me allora
di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di arte e di
cultura sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città
fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina
nel XV secolo, cacciata per la catastrofe naturale che per molte
volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, cacciata in
quel cuore della natura qual è un’isola, qual è la vulcanica Lipari,
un’opera d’arte, quella di Antonello, che viene quindi salvata
e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di
Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di
vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi tra Scilla e
Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Quel Ritratto d’uomo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e
nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto,
sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal
dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”, quel Ritratto
era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della
ragione. Mandralisca destinerà per testamento la sua casa della
strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue
e vasi antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e
museo pubblico.
Fu questo piccolo, provinciale museo Mandralisca il mio primo
museo. Varcai il suo ingresso al primo piano, non ricordo più
quando, tanto lontano è nel tempo, varcai quella soglia e mi trovai
di fronte a quel Ritratto, posto su un cavalletto, accanto a una
finestra. Mi trovai di fronte a quel volto luminoso, a quel vivido
cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana,
enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare?
“Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un
fondo scuro, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione,
balzava avanti il viso luminoso […] L’uomo era in quella giusta
età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza,
s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente
nell’uso ininterrotto. […] Tutta l’espressione di quel volto era fissata,
per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia,
velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti
coprono la pietà”.
Ragione, ironia: equilibrio difficile e precario. Anelito e chimera
in quell’Isola mia, in Sicilia, dov’è stata da sempre una caduta
dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene
sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio,
locura, pirandelliano smarrimento dell’io, sonno, sogno,
ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del
Sordo.
Ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o
dice del degradato Paese che è l’Italia, dice di questo nostro tremendo
mondo di oggi?


Milano, 20 ottobre 2006