“Noi fummo i leoni e i gattopardi, dopo di noi verranno le iene e gli sciacalli.” Dice il principe di Salina a Chevalley, l’inviato del nuovo governo italiano, che gli offriva il laticlavio, la nomina a senatore. Ma il principe di Salina ignorava o voleva ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermi a passare il tempo tra feste e balli. Vogliamo dire che la mafia dei gabellati, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni. Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, ignorava questo?
In quell’Ottocento post-unitario al governo italiano arrivavano sempre più spesso notizie di assassini, di stragi in Sicilia, nelle campagne e nei paesini dei feudi. Nel 1975 si promosse la prima inchiesta parlamentare sulla mafia in Sicilia. Ma i risultati furono quasi nulli perché tutti gli interrogati negavano l’esistenza di quella organizzazione criminale. Nel 1876 viene pubblicata l’inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino, un piemontese e un toscano, nella quale si parlava della specificità siciliana della malavita organizzata, della mafia. Insorsero allora le anime belle di intellettuali, che sentirono quell’inchiesta come una offesa alla Sicilia. Luigi Capuana scrisse un pamplet per contestare l’inchiesta dei due studiosi, servendosi della definizione che della mafia dava il grande etnologo Giuseppe Pitrè per il quale la parola maffia era sinonimo di bellezza, di eleganza. Bellezza ed eleganza che opprimeva, sfruttava, uccideva. Per la prima volta, nel 1863, si rappresenta il legame tra mafia e potere politico nella commedia di Rizzotto e Mosca, I Mafiusi di La Vicaria, in cui il personaggio dell’Incognito che visita nel carcere di Palermo i mafiosi è nella realtà Francesco Crispi.
Quando arriva anche in Sicilia il messaggio del Socialismo, iniziano i primi scioperi dei contadini, degli zolfatari. E inizia la repressione delle forze dell’ordine. I carabinieri sparano contro i dimostranti, imprigionano. Avviene nel 1893 la strage di Caltavuturo. Andrea Barbato, capo dei Fasci Siciliani, viene imprigionato. Ingrao, nonno di Pietro Ingrao, è costretto a scappare e a rifugiarsi nel Lazio. Con l’avvento del fascismo e l’andata in Sicilia del prefetto Mori, il prefetto di ferro, la mafia si occulta, si immerge. “Calati Juncu ca passa la china”, piegati giunco ché passa la piena, dice il motto mafioso. La verità è che i due poteri mafiosi, fascismo e mafia, non potevano coesistere. Il giunco, la mafia, si rialza, si fa più potente che mai con lo sbarco degli americani nel 1943 in Sicilia. Renato Candida, nel libro L’esercito della lupara, ci racconta che Lucky Luciano, scarcerato in America, viene portato in Sicilia e fatto incontrare con don Calogero Vizzini, il potente capo mafia di Villalba.
Fatto è che i primi sindaci nei paesi dell’interno della Sicilia, nominati dagli americani, sono quasi sempre mafiosi. E sono loro che reprimono le prime lotte contadine del secondo dopoguerra, sono loro che comandano ai picciotti di assassinare capilega, sindacalisti, contadini. Nel 1947, sappiamo, avvenne la strage di Portella della Ginestra.
Fu la mafia, sappiamo, a sparare per mano della banda di Salvatore Giuliano, e insieme furono i fascisti del comandante di Salò Giulio Valerio Borghese, a sparare contro i contadini che festeggiavano il primo maggio, nella spianata di Portella, intorno alla pietra di Barbato. È da partigiano nel Piemonte Pompeo Colaianni prende il nome di Barbato, e del partigiano Barbato ci dice Beppe Fenoglio nel Partigiano Jhonny. Le due mafie – fascismo e mafia – si ritrovano a Portella concordi nell’uccidere, nel massacrare i proletari.
Nel secondo dopoguerra è una sequela terribile di assassini di capilega, di sindacalisti, contadini. Ricordiamo fra tutti i nomi di Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale (dell’indomita forza e dignità della madre di Salvatore, Francesca Serio, ci racconta Carlo Levi in Le parole sono pietre).
Il nome di Placido Rizzotto richiama subito quello di Pio La Torre, perché è lui, il giovane militante comunista, che a Corleone prende il posto di dirigente della Confederterra. Erano gli anni quelli, del movimento contadino, degli scioperi e delle occupazioni delle terre incolte per l’attuazione della riforma agraria, l’assegnazione ai contadini di “fazzoletti” di terra nei feudi dei Gattopardi. È La Torre che vogliamo qui oggi commemorare nel 25° anniversario della sua morte, del suo assassinio. Era nato nel I92l in una contrada alla periferia di Palermo, Rocca Tagliata. Figlio di contadini, era riuscito a laurearsi in scienze politiche. Nel 1947 diviene dirigente prima della Confederterra, poi della CGIL e quindi delle PCI. Nel 1950 è arrestato e tenuto in carcere per un anno e mezza, arrestato di aver organizzato l’occupazione da parte dei braccianti e dei contadini senza terra del feudo di Santa Maria del Bosco, nei pressi di Bisacquino. Nel 1962 diviene segretario regionale della CGIL e quindi segretario regionale del partito. Fa parte anche del comitato centrale del PCI. Nel 1969 è chiamato a Roma per incarichi nella commissione agraria e in quella meridionale. Entrerà quindi nella segreteria nazionale della PCI su proposta di Enrico Berlinguer.
Nel 1981, mentre è deputato a Montecitorio, torna in Sicilia e assume la carica di segretario regionale del partito. Toma perché sente che sono tre grandi problemi che bisogna affrontare e cercare di risolvere in Sicilia: la crisi economica, la criminalità mafiosa, la minaccia della pace nel Mediterraneo per l’installazione della base missilistica americana nell’aeroporto di Comiso. Ci sono manifestazioni davanti a quell’aeroporto, vi si accampano giovani pacifisti giunti la da ogni parte di Europa, giovani che vengono puntualmente caricati e malmenati dalla polizia. Pio La Torre raccoglie un milione di firme in calce a una petizione al governo il cui presidente era allora Giovanni Spadolini. Con il suo ritorno in Sicilia, Pio La Torre mette in allarme molte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione, della speculazione edilizia, del bellicismo. L’aeroporto di Comiso oltre a dover contenere i missili atomici delle rampe fisse avrebbe anche contenuto quelle mobili, che si sarebbero mosse per tutta la Sicilia. L’impegno suo nell’affrontare tutti questi problemi, mafia, destabilizzazione, pericolo atomico, fa maturare nel potere criminale la decisione di eliminarlo. Una terribile stagione quella dell’inizio degli anni ’80 in cui la mafia uccide presidenti di regione, ufficiali dei carabinieri, commissari di polizia, magistrati, giornalisti. La mattina del 30 aprile 1982 Pio La Torre esce di casa e sale sulla macchina guidata dall’autista Rosario Di Salvo. Dopo pochi metri di strada, in via Generale Turba, tre motociclisti si affiancano alla macchina e sparano, sparano, massacrando i due uomini, La Torre e Di Salvo. Gli esecutori del massacro, si saprà poi, sono Salvatore Cucuzza, Pino Greco e Giuseppe Lucchese. Ma non si sa ancora oggi chi sono stati i mandanti. Giorgio Frasca Polara scrive: “in un dischetto del computer di Giovanni Falcone, dopo la sua morte, sarà trovata una traccia: un collegamento del nome di Pio La Torre con Gladio (l’organizzazione clandestina anti-comunista) e il SISMI, cioè il servizio segreto militare (interessato alla campagna su Comiso?)”
Abbiamo
iniziato con il Gattopardo, questo grande romanzo, ma con una concezione deterministica,
meccanicistica della storia, speculare alla concezione fatalistica di Giovanni
Verga. Abbiamo iniziato con le parole del principe di Salina per concludere ora
che i veri nobili non sono i leoni e i gattopardi, ma tutti quelli che hanno
lottato in Sicilia per la democrazia, per il rispetto dei diritti e della
dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i Giovanni Falcone e i Paolo
Borsellino, tutti coloro insomma che hanno lottato e sacrificato la loro vita
per la libertà, la giustizia, il rispetto dei diritti di tutti. E Pio La Torre,
sono tutti gli altri martiri, gli altri eroi,
I’ onore di Sicilia
e di tutto
questo nostro Paese. Onore a loro!
Vincenzo Consolo
Milano 21 aprile 2007
Letto a Firenze il 21 aprile 2007
congresso PD
pubblicato il 22 aprile 2007
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