Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

20 GIUGNO 2007
TOPOGRAFIE LETTERARIE

di Natale Tedesco

Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore.Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo,La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di PantalicaFascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagementDi quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si gioca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

20 giugno 2007

I MURI D’EUROPA

(letto a Università di Chergy Pontoise 7-8 dicembre 06)

Addio città
un tempo fortunata, tu di belle
rocche superbe; se del tutto Pallade
non ti avesse annientata, certo ancora
oggi ti leveresti alta da terra.

(Euripide: Le Troiane)1

Presto, padre mio, dunque: sali sulle mie spalle,
io voglio portarti, né questa sarà fatica per me.
Comunque vadan le cose, insieme un solo pericolo,
una sola salvezza avrem l’uno e l’altro.Il piccolo
Iulio mi venga dietro, discosta segua i miei passi la sposa

(Virgilio: Eneide)2

Questi versi di Euripide e di Virgilio vogliamo dedicare ai fuggiaschi di ogni luogo, agli scampati di ogni guerra, di ogni disastro, a ogni uomo costretto a lasciare la propria città, il proprio paese e a emigrare altrove. Sono dedicati, i versi, agli infelici che oggi approdano, quando non annegano in mare, sulle coste dell’Europa mediterranea, approdano, attraverso lo stretto di Gibilterra, a Punta Camarinal, Tarifa, Algeciras; approdano, attraverso il canale di Sicilia, nell’isola di Lampedusa, di Pantelleria, sulla costa di Mazara del Vallo, Porto Empedocle, Pozzallo…

La storia del mondo è storia di emigrazione di popoli – per necessità, per costrizione – da una regione a un’altra. Nel nostro Mediterraneo, nella Grecia peninsulare, gli Achei lì emigrati nel XIV secolo a.C. danno origine alla civiltà micenea che soppianta la civiltà cretese, che a sua volta viene offuscata dalla migrazione dorica nel Peloponneso. Con questi greci cominciò, nel XII secolo a. C. la grande espansione colonizzatrice nelle coste del Mediterraneo – in Cirenaica, nell’Italia meridionale (Magna Grecia), in Sicilia, Francia, Spagna. La colonizzazione greca in Sicilia, dove vi erano già i Siculi, i Sicani e gli Elimi, avvenne con organizzate spedizioni di emigranti, di fratrie, comunità di varie città – Megara, Corinto, Messane… – che sotto il comando di un ecista, un capo, tentavano l’avventura in quel Nuovo Mondo che era per loro il Mediterraneo occidentale. In Sicilia fondarono grandi città come Siracusa, Gela, Selinunte, Agrigento, convissero con le popolazioni già esistenti, assunsero spesso i loro miti e riti, stabilirono pacifici rapporti, per molto tempo, con la fenicia Mozia e con l’elima Erice.
Ma non vogliamo qui certo fare –non sapremmo farla – la storia dell’emigrazione nell’antichità. Vogliamo soltanto dire che l’emigrazione è fra i segni più forti – oltre quelli delle guerre, delle invasioni – della storia.
Segno forte l’emigrazione, della storia italiana moderna.
“Dall’Unità d’Italia (1860) non meno di 26 milioni di italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro Paese. E’ un fenomeno che, per vastità, costanza e caratteristiche, non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo”. Questo scrive Enriquez Spagnoletti, in un numero speciale dedicato all’emigrazione, nella rivista Il Ponte (Novembre, Dicembre 1974), rivista fondata da Piero Calamandrei.3
Sull’emigrazione nel Nuovo Mondo esiste, sappiamo, una vasta letteratura storico-sociologica, documentaria, ma anche una letteratura letteraria. Il racconto Dagli Appennini alle Ande, del libro Cuore4 di Edmondo De Amicis, è il più famoso. Ed anche, dello stesso autore, Sull’Oceano5. Meno famoso è invece il poemetto Italy6 di Giovanni Pascoli; Sacro all’Italia raminga ne è l’epigrafe.

A Caprona, una sera di febbraio,
gente veniva, ed era già per l’erta,
veniva su da Cincinnati, Ohio.


Vi si narra, nel poemetto, di una famigliola toscana, della Garfagnana, che ritorna dall’America per la malattia della piccola Molly. Nella poesia compare –ed è la prima volta nella letteratura italiana – il plurilinguismo: il garfagnino dei nomi, lo slang della coppia e l’inglese della bambina.
Non era allora solo nelle Americhe l’emigrazione, essa avveniva anche, e soprattutto dal Meridione d’Italia, dalla Sicilia, nel Magreb, in Tunisia particolarmente. Questa emigrazione comincia nei primi anni dell’Ottocento, ed è di fuoriusciti politici. Liberali, giacobini e carbonari, perseguitati dalla polizia borbonica, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli  in  questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”7. In Tunisia si fa esule anche Garibaldi.
La grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento per la crisi economica che colpì le regioni meridionali. Si stabilirono, questi emigranti sfuggiti alla miseria, alla Goletta, a  Biserta, Susa, Monastir,Mahdia nelle campagne di Kelibia di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri chiamati “Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. Si aprirono allora scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale, fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria per giungere nel 1881 al trattato del Bardo e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilivano  il protettorato francese sulla Tunisia. La Francia cominciò così la politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti, la cittadinanza francese. Frequentando le scuole gratuite francesi, il figlio di poveri emigranti siciliani, Mario Scalesi, divenne francofono e scrisse in francese Les poèmes d’un maudit8, fu così il primo poeta francofono del Magreb.
Anche sotto il Protettorato l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane  nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna (vediamo come la storia dell’emigrazione, nelle sue dinamiche, negli effetti, si ripete). Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vice presidente della Camera dei deputati. Visita le regioni dove vivono le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori : “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il  convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi alla vostra sorte”.
La fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nell’Italia dell’industrializzazione, del cosiddetto miracolo economico, della crisi del mondo agricolo e insieme della  nuova emigrazione di braccianti dal Sud verso il Nord industriale, del Paese e dell’Europa, quella fine degli anni Sessanta segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale dei Sicilia. Segna l’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra.
Di siberie, di campi di lavoro, di mondi concentrazionari, di oppressione di popoli a causa di regimi totalitari o coloniali sono stati i tempi da poco trascorsi. Tempi vale a dire in cui l’umanità, per tre quarti, è stata prigioniera, incatenata all’infelicità. E le siberie hanno fatto sì che il restante quarto dell’umanità, al di qua di mura o fili spinati, vivesse felicemente, nello scialo dell’opulenza e dei consumi si alienasse. Ma dissoltesi idolatrie e utopie, crollati i colonialismi, abbattute le mura, recisi i fili spinati, sono arrivati i tempi delle fughe, degli esodi, da paesi di mala sorte e mala storia, verso vagheggiati approdi di salvezza, di speranza. Ed è il presente – un presente cominciato già da parecchi anni – un atroce tempo di espatri, di fughe drammatiche, di pressioni alle frontiere del dorato nostro “primo” mondo, di movimento di masse di diseredati, di offesi, di oltraggiati.
Da ogni Est e da ogni Sud del  mondo, da afriche dal cuore sempre più di tenebra, da sudameriche di crudeltà pinochettiane si muovono oggi i popoli dei battelli, dei gommoni, delle navi-carrette, dei containers, delle autocisterne, carovane di scampati a guerre, pulizie etniche, genocidi, fame, malattie. Fugge tutta questa umanità dolente ed è preda ancora dei criminali del traffico di vite umane, sparisce spesso nei fondali dei mari, nelle sabbie infuocate dei deserti, come detriti di una immane risacca finisce sopra scogli, spiagge desolate o anche fra i vacanzieri stesi al sole per abbronzarsi.
Non vogliamo andare lontano, non vogliamo dire del muro di acciaio eretto al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, ma dire di qua,  del confine d’acqua che separa l’Europa da ogni Sud del mondo, dire del Mediterraneo e della bella Italia, del suo Adriatico e del suo Canale di Sicilia.
Tante e tante volte le carrette di mare provenienti dall’Albania, dalla Tunisia o dalla Libia, carrette stracariche di disperati, si sono trasformate i bare di ferro nei fondali del mare, bare di centinaia di uomini, di donne, di bambini, a cui, come all’eliotiano
Phlebas il Fenicio, “una corrente sottomarina / spolpò l’ossa in dolci sussurri”. E finiscono anche i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani…E si potrebbe continuare con le cronache di tragedie quotidiane, di una tragedia epocale che riguarda i migranti, le non-persone che cercano di entrare nella vecchia Italia, nella vecchia Europa della moneta unica, delle banche e degli affari. Vecchia soprattutto l’Italia per una popolazione di vecchi. “Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma” ha detto icasticamente il poeta Andrea Zanzotto. E la frase-metafora vuole dire di quanto ciechi noi siamo a voler continuare a sguazzare nel nostro mare di catarro e a voler scansare quel mare di vitalità che è arricchimento: fisiologico, economico, culturale, umano…Scansare o eludere quell’incontro o incrocio di etnie, di lingue, di religioni, di memorie, di culture, incrocio che è stato da sempre il segno del cammino della civiltà. Respingiamo l’emigrazione dal terzo o quarto mondo erigendo confini d’acciaio con leggi e decreti, come la vergognosa legge italiana sull’emigrazione che porta il nome dei deputati di estrema destra Bossi e Fini, insorgendo con nuovi e nefasti nazionalismi, con stupidi e volgari localismi, con la xenofobia e il razzismo, con la cieca criminalizzazione del diseredato, del diverso, del clandestino.
A partire dal 1968, sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle coste italiane. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.
In una notte di giugno dell’827 d.C., una piccola flotta di Musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egiziani, Siriani, Libici, Magrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furàt, partita dalla fortezza di Susa, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara. Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta l’isola, da occidente fino a oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. I Musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le espoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della Chiesa, dei monasteri, i Musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i Musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. Rifiorisce l’agricoltura, la pesca, l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana è lo spirito di tolleranza, la convivenza tra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Il grande storico dell’ 800 Michele Amari ci ha lasciato La storia dei Musulmani di Sicilia, scritta, dice Vittorini, “con la seduzione del cuore”9.
Il ritorno infelice10 è il titolo del saggio del sociologo Antonino Cusumano, in cui tratta dell’emigrazione magrebina in Sicilia, a partire dal 1968, come sopra dicevamo. Sono passati quarant’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.
Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di detenzione nei cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea, che sono dei veri e propri lager, di fronte a ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari”11.

Vincenzo Consolo


1   Euripide: Le Troiane, Prologo, “Il Teatro greco”, Sansoni Editore, Firenze 1980.
2   Virgilio: Eneide, Libro II, vv. 707-711, trad. Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1967.
3   Il Ponte , XXX 11-12, p. 12-19, Novembre/Dicembre 1974, La Nuova Italia Editrice, Firenze
4   Edmondo De Amicis, Cuore, Fabbri Editore, 1999. Il racconto “Dagli Appennini alle Ande”, p. 230-265.
5   Edmondo De Amicis, Sull’Oceano, Herodote Edizioni, Genoa-Ivrea 1983.
6   Giovanni Pascoli, Italy, Opere, “La Letteratura Italiana”, vol. 61, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1980, p. 361.
7   Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, Libro VI, Rizzoli Editore, Milano 1967, p. 830.
8   Mario Scalesi, Les poèmes d’un Maudit, Le liriche di un maledetto, ISSPE Editore, Palermo 1997.
9   Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, prefazione di Elio Vittorini, Editore Bompiani, Milano 1942, p. 6.
10 Antonino Cusumano, Il ritorno infelice, Sellerio Editore, Palermo 1976.
11 Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. II, Einaudi, Torino 1982, p. 921-922.

Antonello da Messina


Vincenzo Consolo


Antonello d’Antonio, figlio di Giovanni, maczonus, mastro
scalpellino, e di Garita. Nato a Messina nel 1430 circa e ivi morto
nel 1479. Pittore. Ebbe un fratello, Giordano, pittore, da cui nacquero
Salvo e Antonio, pittori; una sorella, Orlanda, e un’altra sorella,
di cui non si conosce il nome, sposata a Giovanni de Saliba,
intagliatore, da cui nacquero Pietro e Antonio de Saliba, pittori.
Antonello d’Antonio sposò Giovanna Cuminella ed ebbe tre figli,
Jacobello, pittore, Catarinella e Fimia.
Visse dunque solo quarantanove anni questo grande pittore
di nome Antonello, e, poco prima di morire di mal di punta, di
polmonite, dettò il 14 febbraio 1479, al notaro Mangiante, il testamento,
in cui, fra l’altro, disponeva che il suo corpo, in abito
di frate minore osservante, fosse seppellito nella chiesa di Santa
Maria del Gesù, nella contrada chiamata Ritiro. “Ego magister
Antonellus de Antonej pictor, licet infirmus jacens in lecto sanus
tamen dey gracia mente… iubeo (dispongo) quod cadaver meum
seppeliatur in conventu sancte Marie de Jesu cum habitu dicti
conventus…”. E non possiamo qui non pensare al testamento
di un altro grande siciliano, di Luigi Pirandello, che suonò, allora,
nelle sue laiche disposizioni, come sarcasmo o sberleffo nei
confronti di quel Fascismo a cui aveva aderito nel 1924: “Morto,
non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori
sul letto e nessun cero acceso. Carro d’infima classe, quello dei
poveri…”.
Ma torniamo al nostro Antonello. Fra scalpellini, intagliatori e
pittori, era, quella dei d’Antonio e parenti, una famiglia di artigiani
e artisti. Ma Messina doveva essere in quella seconda metà
del Quattrocento, una città piena d’artisti, locali, come Antonino
Giuffrè, che primeggiava nella pittura prima di Antonello, o venuti
da fuori. Dalla Toscana, per esempio. Ché Messina era città
fiorente, commerciava con l’Italia e l’Europa, esportava sete e
zuccheri nelle Fiandre, e il suo sicuro porto era tappa d’obbligo
nelle rotte per l’Africa e l’Oriente. Una città fortemente strutturata,
una dimora “storica”, d’alto livello e di sorte progressiva. E
certamente doveva essere meta di artigiani e artisti che lì volontariamente
approdavano o vi venivano espressamente chiamati.
E proprio parlando di Antonello d’Antonio, lo storico messinese
Caio Domenico Gallo (Annali della città di Messina, ivi 1758)
fu il primo ad affermare che “il di lui genitore era di Pistoja”. E
lo storico Gioacchino Di Marzo (Di Antonello da Messina e dei
suoi congiunti, Palermo, 1903), che cercò prove per far luce nella
leggendaria e oscura vita di Antonello (“[…] mi venne fatto d’imbattermi
in un filone, che condusse alla scoperta di una preziosa
miniera di documenti riguardanti Antonello in quell’Archivio Provinciale
di Stato […]”) il Di Marzo dicevamo, che così ancora scrive:
“L’asserzione del Gallo, che il sommo Antonello sia stato figlio
di un di Pistoia, non poté andare a sangue ai messinesi cultori di
patrie memorie, fervidi sempre di vivo patriottismo, vedendo così
sfuggirsi il vanto ch’egli abbia avuto origine da messinese casato
e da pittori messinesi ab antico”. Che fecero dunque questi cultori
di patrie memorie o questi campanilisti? Tolsero dei quadri
ad Antonello e li attribuirono ai suoi fantomatici antenati, falsificando
date, affermando che già nel 1173 e nel 1276 c’erano stati
un Antonellus Messanensis e un Antonello o Antonio d’Antonio
che rispettivamente avevano lasciato un polittico nel monastero
di San Gregorio e un quadro di San Placido nella cattedrale, pretendendo
così che la pittura si fosse sviluppata in Messina prima
che altrove, meglio che in Toscana…
Il primo di questi fantasiosi storici fu Giovanni Natoli Ruffo,
che si celava sotto lo pseudonimo di Minacciato, cui seguì il prete
Gaetano Grano che fornì le sue “invenzioni” al prussiano Filippo
Hackert per il libro Memorie dei pittori messinesi (Napoli, 1792),
e infine Giuseppe Grosso Cacopardo col suo libro Memorie dei
pittori messinesi e degli esteri, che in Messina fiorirono, dal secolo
XII sino al secolo XIX, ornate di ritratti (Messina, 1821).
Strana sorte ebbe questo nostro Antonello, ché la sua pur breve
vita, già piena di vuoti, di squarci oscuri e irricostruibili, è
stata campo d’arbitrarii ricami, romanzi, fantasie. E cominciò a
romanzare su Antonello Giorgio Vasari (Vite dei più eccellenti
architetti, pittori e scultori italiani da Cimabue infino a’ tempi nostri,
1550-1568), il Vasari, di cui forse il nodo più vero è quell’annotazione
d’ordine caratteriale: “persona molto dedita a’ piaceri e
tutta venerea”, per cui Leonardo Sciascia ironicamente ricollega
l’indole di Antonello agli erotomani personaggi brancatiani.
La breve vita di Antonello viene, per così dire, slabbrata ai
margini, alla nascita e alla morte, falsificata, dilatata: negli antenati
e nei discendenti, con l’attribuzione di quadri suoi ai primi e
quadri dei secondi a lui. Ma sorte più brutta ebbero le sue opere,
specie quelle dipinte in Sicilia, a Messina e in vari paesi, di cui
molte andarono distrutte o irrimediabilmente danneggiate o presero
la fuga nelle parti più disparate del mondo. E l’annotazione
meno fantasiosa che fa nella Introduzione alle Memorie dei pittori
messinesi… il Grosso Cacopardo è quella della perdita subita
da Messina di una infinità di opere d’arte per guerre, invasioni,
epidemie, ruberie, terremoti. Dei quali ultimi egli ricorda “l’orribile
flagello de’ tremuoti del 1783, che rovesciando le chiese, ed
i palagi distrussero in gran parte le migliori opere di scultura e
di pennello”. Non avrebbe mai immaginato, il Grosso Cacopardo,
che un altro e più terribile futuro flagello, il terremoto del
28 dicembre 1908, nonché distruggere le opere d’arte, avrebbe
distrutto ogni possibile ricordo, ogni memoria di Messina. Due
testimoni d’eccezione ci dicono del primo e del secondo terremoto:
Wolfgang Goethe e David Herbert Lawrence. Scrive Goethe
nel suo Viaggio in Italia, visitando Messina, tre anni dopo il
terremoto del 1783: “Una città di baracche… In tali condizioni si
vive a Messina già da tre anni. Una simile vita di baracca, di capanna
e perfin di tende influisce decisamente anche sul carattere
degli abitanti. L’orrore riportato dal disastro immane e la paura
che possa ripetersi li spingono a godere con spensierata allegria
i piaceri del momento”.
E Lawrence, nel suo Mare e Sardegna, così scrive dopo il terremoto
del 1908: “Gli abitanti di Messina sembrano rimasti al punto
in cui erano quasi vent’anni fa, dopo il terremoto: gente che ha
avuto una scossa terribile e che non crede più veramente nelle
istituzioni della vita, nella civiltà, nei fini”.
E alle osservazioni di quei due grandi qui mi permetto di aggiungere
una mia digressione su Messina: “Città di luce e d’acqua,
aerea e ondosa, riflessione e inganno, Fata Morgana e sogno,
ricordo e nostalgia. Messina più volte annichilita. Esistono miti e
leggende, Cariddi e Colapesce. Ma forse vi fu una città con questo
nome perché disegni e piante (di Leida e Parigi, di Merian e
Juvarra) riportano la falce a semicerchio di un porto con dentro
velieri che si dondolano, e mura, colli scanditi da torrenti e coronati
da forti, e case e palazzi, chiese, orti… Ma forse, dicono quei
disegni, di un’altra Messina d’Oriente. Perché nel luogo dove si
dice sia Messina, rimane qualche pietra, meno di quelle d’Ilio o
di Micene. Rimane un prato, in direzione delle contrade Paradiso
e Contemplazione, dove sono sparsi marmi, calcinati e rugginosi
come ossa di Golgota o di campo d’impiccati. E sono angeli mutili,
fastigi, blocchi, capitelli, stemmi… Tracce, prove d’una solida
storia, d’una civiltà fiorita, d’uno stile umano cancellato… Deve
dunque essere successo qualche cosa, furia di natura o saccheggio
d’orde barbare. Ma a Messina, dicono le storie, nacque un
pittore grande di nome Antonio d’Antonio. E deve essere così se
ne parlano le storie. Egli stesso poi per affermare l’esistenza di
questa sua città, usava quasi sempre firmare su cartellino dipinto
e appuntato in basso, a inganno d’occhio, “Antonellus messaneus
me pinxit”. E dipingeva anche la città, con la falce del porto, i
colli di San Rizzo, le Eolie all’orizzonte, e le mura, il forte di Rocca
Guelfonia, i torrenti Boccetta, Portalegni, Zaera, e la chiesa di
San Francesco, il monastero del Salvatore, il Duomo, le case, gli
orti…”.
Gli orti… E la luce, la luce del cielo e del mare dello Stretto,
dietro finestre d’Annunciazioni, sullo sfondo di Crocifissioni e
di Pietà. E i volti. Volti a cuore d’oliva, astratti, ermetici, lontani;
carnosi, acuti e ironici; attoniti e sprofondati in inconsolabili
dolori; e corpi, corpi ignudi, distesi o contorti, piagati o torniti
come colonne. Tanta grandezza, tanta profondità e tali vertici
non si spiegano se non con una preziosa, spessa sedimentazione
di memoria. Ma di memoria illuminata dal confronto con altre
realtà, dopo aver messo giusta distanza tra sé e tanto bagaglio,
giusto equilibrio tra caos e ordine, sentimento e ragione, colore
e geometria.
E’apprendista a Napoli, alla scuola del Colantonio, in quella
Napoli cosmopolita di Renato d’Angiò e Alfonso d’Aragona, dove
s’incontra con la pittura dei fiamminghi, dei provenzali, dei catalani,
di Van Eyck e di Petrus Christus, di Van der Weyden, di Jacomar
Baço, di altri. E soggiorna poi a Venezia, “alla grand’aria”,
come dice Verga, in quella città, dove s’incontra con altra pittura,
altra luce e altri colori, altra “prospettiva”; incontra la pittura di
Piero della Francesca, Giovanni Bellini… Ed il ritorno poi in Sicilia,
nell’ultimo scorcio della sua vita, dove dipinge pale d’altare, e
gonfaloni, ritratti, a Messina, a Palazzolo Acreide, a Caltagirone,
a Noto, a Randazzo e, noi crediamo, a Lipari. Ma molte, molte
delle opere di Antonello in Sicilia si sono perse, per incuria, vendita,
distruzione. Su Antonello era calato l’oblìo. Vasari, sì, aveva
tracciato una biografia fantasiosa e, dietro di lui altri, come quei
correttori di date che avevano attribuito i suoi quadri a fantomatici
antenati.
Fu per primo Giovambattista Cavalcaselle, un critico e storico
dell’arte, a riscoprire Antonello da Messina, a far comprendere la
distanza fra l’Antonello delle fonti e l’Antonello dei dipinti. Era
esule a Londra, il Cavalcaselle, fuoruscito per ragioni politiche.
Aveva partecipato alla rivoluzione di Venezia del 1848, e quindi,
nelle file mazziniane e garibaldine, alla difesa della Repubblica
Romana contro l’assalto dei francesi. Rischioso e temerario dunque
il suo ritorno in Italia, il suo viaggio clandestino che parte
dal Nord e arriva fino al Sud, alla Sicilia. “Come Antonello, con il
suo complesso iter, aveva abbattuto barriere regionali e nazionali,
così per riscoprirlo era necessario fare un’operazione culturale affine:
essa è svolta proprio dai molteplici interessi del Cavalcaselle”,
scrive la giovane studiosa Chiara Savettieri nel suo Antonello
da Messina: un percorso critico.
Cavalcaselle giunge a Palermo nel marzo del 1860 (l’11 aprile
di quello stesso anno Garibaldi sbarcherà con i suoi Mille a
Marsala) e, dopo le tappe intermedie, fatte a dorso di mulo, di
Termini Imerese, Cefalù, Milazzo, Castrogiovanni, Catania, giungerà
a Messina, da dove scrive al suo amico inglese Joseph Crowe,
assieme al quale firmerà il libro Una nuova storia della pittura in
Italia dal II al XVI secolo: “Caro mio, credo sia pura invenzione
del Gallo tutte le opere date al Avo, al Zio, al padre d’Antonello,
ed abbia di suo capriccio inventato una famiglia di pittori, mentre
quanto rimane delle opere attribuite a quei pittori sono di chi ha
tenuto dietro Antonello e non di chi lo ha preceduto”.
Cavalcaselle legge e autentica i quadri di Antonello, quindi,
due studiosi, il palermitano Gioacchino di Marzo e il messinese
Gaetano La Corte Cailler, rinvengono nell’Archivio Provinciale di
Stato di Messina documenti riguardanti Antonello, dai contratti di
committenze fino al suo testamento.
Pubblicheranno, i due, quei documenti, nei loro rispettivi libri
(Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti – Antonello da
Messina. Studi e ricerche con documenti inediti) pubblicheranno
nel 1903, salvando così quei preziosi documenti dal disastro del
terremoto di Messina del 1908.
Dopo Cavalcaselle, Di Marzo e La Corte Cailler, gli studiosi
finalmente riscoprono e studiano Antonello. E sono Bernard Berenson,
Adolfo e Lionello Venturi, Roberto Longhi, Stefano Bòttari,
Jan Lauts, Cesare Brandi, Giuseppe Fiocco, Giorgio Vigni,
Fernanda Wittengs, Federico Zeri, Rodolfo Pallucchini, Fiorella
Sricchi Santoro, Leonardo Sciascia, Gabriele Mandel e tanti, tanti
altri, fino a Mauro Lucco, che ha curato nel 2006 la straordinaria
mostra di Antonello alle Scuderie del Quirinale, in Roma, fino
alla giovane studiosa Chiara Savetteri, che mi ha fatto scoprire,
leggendo il suo libro Antonello da Messina (Palermo, 1998)
l’incontro, a Cefalù, nel 1860, tra Cavalcaselle ed Enrico Pirajno
di Mandralisca, il possessore del Ritratto d’ignoto, detto popolarmente
dell’ignoto marinaio, di Antonello. E scriverà quindi il
Cavalcaselle a Mandralisca: “[…] il solo Antonello da me veduto
fino ad ora in Sicilia è il ritratto ch’ella possiede”. Dicevo che la
Savettieri mi ha fatto scoprire, nel 1996, l’incontro tra il barone
Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, e il Cavalcaselle.
Scopro -di questo incontro che sarebbe stato sicuramente un altro
capitolo del mio romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino,
1976)- di cui è protagonista Enrico Pirajno di Mandralisca
e il cui tema portante è appunto il Ritratto d’ignoto di Antonello,
che io chiamo dell’Ignoto marinaio. Il marinaio mi serviva nella
trama del romanzo, ma è per primo l’Anderson che dà questo
titolo al ritratto ch’egli fotografa nel 1908, raccogliendo la tradizione
popolare.
Il primo capitolo apparve su «Nuovi Argomenti». L’avevo mandato
prima a «Paragone», la rivista di Roberto Longhi e Anna
Banti, perché il tema che faceva da leitmotiv era il ritratto di
Antonello. Longhi, in occasione della mostra del ’53 a Messina
di Antonello aveva scritto un bellissimo saggio dal titolo Trittico
siciliano. Nessuno mi rispose. Mel ’69 venne a Milano Longhi per
presentare la ristampa del suo Me pinxit e quesiti caravaggeschi.
Lo avvicinai «Mi chiamo Consolo» gli dissi «ho mandato un racconto
a Paragone…». Mi guardò con severità, mi rispose: «Sì, sì mi
ricordo benissimo. Non discuto il valore letterario, però questa
storia del ritratto di Antonello che rappresenta un marinaio deve
finire!». Longhi, nel suo saggio, polemizzava con la tradizione
popolare che chiamava il ritratto del museo di Cefalù «dell’ignoto
marinaio», sostenendo, giustamente, che Antonello, come gli altri
pittori allora, non faceva quadri di genere, ma su commissione,
e si faceva ben pagare. Un marinaio mai avrebbe potuto pagare
Antonello. Quello effigiato lì era un ricco, un signore.
Lo sapevo, naturalmente, ma avevo voluto fargli «leggere» il
quadro non in chiave scientifica, ma letteraria. Mandai quindi il
racconto a Enzo Siciliano, che lo pubblicò su «Nuovi Argomenti».
Mi scriveva da Genova, in data 13 novembre 1997 il professor
Paolo Mangiante, discendente di quel notaro Mangiante che
nel 1479 stese il testamento di Antonello. Scriveva: “Accludo anche
alcune schede del catalogo della Mostra su Antonello da
Messina che credo possano rivestire un certo interesse per lei,
riguardano rogiti di un mio antenato notaro ad Antonello per il
suo testamento e per commissioni di opere pittoriche. Particolare
interesse potrebbe rivestire il rogito del notaro Paglierino a certo
Giovanni Rizo di Lipari per un gonfalone, perché si potrebbe
ipotizzare che il suddetto Rizo sia il personaggio effigiato dallo
stesso Antonello e da lei identificato come l’Ignoto marinaio. Del
resto, a conciliare le sue tesi con le affermazioni longhiane sta
la constatazione, dimostrabile storicamente, che un personaggio
notabile di Lipari, nobile o no, non poteva non avere interessi
marinari, e in base a quelli armare galere e guidare lui stesso le
sue navi come facevano tanti aristocratici genovesi dell’epoca,
nobili sì talora, ma marinai e pirati sempre”.
Il movimento di Cavalcaselle, ho sopra detto, è da Londra al
Nord d’Italia, fino in Sicilia, sino a Cefalù; il mio, è di una dimensione
geografica molto, molto più piccola (da un luogo a un
altro di Sicilia) e di una dimensione culturale tutt’affatto diversa.
E qui ora voglio dire del mio incontro con Antonello, con il mio
Ritratto d’ignoto.
In una Finisterre, alla periferia e alla confluenza di province,
in un luogo dove i segni della storia s’erano fatti labili, sfuggenti,
dove la natura, placata -immemore di quei ricorrenti terremoti
dello Stretto, immemore delle eruzioni del vulcano, dell’Etna- la
natura qui s’era fatta benigna, materna. In un villaggio ai piedi
dei verdi Nèbrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle
Eolie celesti e trasparenti, sono nato e cresciuto.
In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione,
malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi
accenti di parole, gesti, in tanta sospensione o iato di natura e
di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, perdersi, perdere il
bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti
per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E
poiché, sappiamo, nulla è sciolto da causa o legami, nulla è isola,
né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva
necessità di uscire da quella stasi ammaliante, da quel confine,
potevo muovere verso Oriente, verso il luogo del disastro, il cuore
del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi
antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura,
l’esistenza. Ma per paura di assoluti ed infiniti, di stupefazioni e
gorgoneschi impietrimenti, verghiani fatalismi, scelsi di viaggiare
verso Occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più
incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena,
verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i suq e le giudecche, le
tombe di porfido di Ruggeri e di Guglielmi, la reggia mosaicata
di Federico di Soave, il divano dei poeti, il trono vicereale di
corone aragonesi e castigliane, all’incrocio di culture e di favelle
più diverse. Ma verso anche le piaghe della storia: il latifondo e
la conseguente mafia rurale.
Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la
sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni
Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così
a Cefalù. E trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel
modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal
mare alla terra, dall’esistenza alla storia, dalla natura alla cultura:
Enrico Pirajno di Mandralisca. Recupera, il Mandralisca, in una
spezieria di Lipari, il Ritratto d’ignoto di Antonello dipinto sul
portello di uno stipo.
Il viaggio del Ritratto, sul tracciato d’un simbolico triangolo,
avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me allora
di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di arte e di
cultura sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città
fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina
nel XV secolo, cacciata per la catastrofe naturale che per molte
volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, cacciata in
quel cuore della natura qual è un’isola, qual è la vulcanica Lipari,
un’opera d’arte, quella di Antonello, che viene quindi salvata
e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di
Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di
vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi perigliosi tra Scilla e
Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà?
Quel Ritratto d’uomo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e
nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto,
sa del presente e intuisce del futuro, di uno che si difende dal
dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà”, quel Ritratto
era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della
ragione. Mandralisca destinerà per testamento la sua casa della
strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue
e vasi antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e
museo pubblico.
Fu questo piccolo, provinciale museo Mandralisca il mio primo
museo. Varcai il suo ingresso al primo piano, non ricordo più
quando, tanto lontano è nel tempo, varcai quella soglia e mi trovai
di fronte a quel Ritratto, posto su un cavalletto, accanto a una
finestra. Mi trovai di fronte a quel volto luminoso, a quel vivido
cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana,
enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare?
“Apparve la figura di un uomo a mezzo busto. Da un
fondo scuro, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione,
balzava avanti il viso luminoso […] L’uomo era in quella giusta
età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della giovinezza,
s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente
nell’uso ininterrotto. […] Tutta l’espressione di quel volto era fissata,
per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia,
velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti
coprono la pietà”.
Ragione, ironia: equilibrio difficile e precario. Anelito e chimera
in quell’Isola mia, in Sicilia, dov’è stata da sempre una caduta
dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene
sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio,
locura, pirandelliano smarrimento dell’io, sonno, sogno,
ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del
Sordo.
Ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o
dice del degradato Paese che è l’Italia, dice di questo nostro tremendo
mondo di oggi?


Milano, 20 ottobre 2006

Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vincenzo Consolo

download (2)Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vicenzo Consolo

Tatiana Bisanti

 

La scrittura della seduzione

La seduzione della scrittura

1
È solo a partire dal XVI secolo che il verbo sedurre ha acquisito l’accezione oggi comunemente più diffusa, quella di “convincere al rapporto sessuale”, entrata nell’italiano per influenza del francese séduire. Il verbo deriva dal prefisso se- “via, a parte” e ducere “condurre”, e significa dunque in origine “condurre via, condurre in disparte”, ovvero lontano da un percorso diritto e già segnato, dalla retta via (cf. Battaglia, 1961). E proprio il sedurre in tutti i sensi, anche in quello etimologico, è senza dubbio una delle chiavi di lettura più efficaci del romanzo Retablo (1987) di Vincenzo Consolo, un’opera sulla seduzione, ma anche e soprattutto un’opera di seduzione. La seduzione è, in altre parole, l’asse su cui ruota tutta la narrazione, sia dal punto di vista della materia narrata che da quello delle strutture narrative, ossia essa è al tempo stesso oggetto di rappresentazione e operazione in corso. Se da un lato, infatti, il sedurre è tematizzato nel racconto, dall’altro esso costituisce anche il principio strutturale dell’opera: la metafora della seduzione raffigura emblematicamente il processo in cui l’autore coinvolge il lettore, conducendolo su più strade, su diversi percorsi narrativi che si dipartono l’uno dall’altro e si intrecciano a vicenda.

La scrittura della seduzione

2
Come suggerisce il titolo, Retablo ha la struttura di un’ancona a vari scomparti: il romanzo si divide – come un trittico – in tre parti (Oratorio, Peregrinazione e Veritas), tre percorsi narrativi che raccontano la stessa storia da tre prospettive differenti. Il filone narrativo principale, il denominatore comune che unisce le tre parti del racconto, è una storia di seduzione, la storia dell’amore del frate Isidoro per Rosalia, che viene narrata da tre punti di vista. Nella prima parte, Oratorio, la storia è raccontata dalla prospettiva di Isidoro, narratore in prima persona. In Peregrinazione, la parte centrale, l’io narrante è quello di Fabrizio Clerici, pittore milanese che Isidoro accompagna nel corso del suo viaggio in Sicilia. La storia di Isidoro si intreccia allora con quella di Clerici, anch’egli amante infelice, in fuga da un amore non corrisposto per la milanese Teresa Blasco, storicamente la nonna di Manzoni, che andrà poi in sposa a Cesare Beccaria. Il capitolo finale, Veritas, è invece una lettera indirizzata ad Isidoro in cui Rosalia racconta la storia dal proprio punto di vista. E come in un retablo sotto gli elementi del polittico c’è una predella, così anche nel romanzo di Consolo al filone narrativo principale si accompagna un altro percorso narrativo, ovvero la storia di un’altra Rosalia, sedotta dal corrotto fra’ Giacinto.

1  Per le successive citazioni da quest’opera si indicherà d’ora in poi solo il numero di pagina.

3
Retablo è innanzitutto, come dice Traina (2001: 27), “un romanzo sull’amore deluso”, un tema che affiora sempre assai pudicamente negli altri libri di Consolo, mentre qui si fa motore e ragione di tutta l’azione, di tutto il viaggio. Tre sono dunque le storie d’amore principali (ma ad esse si potrebbero aggiungere altri intrecci secondari) su cui si dipana il filo del racconto. La seconda sezione del libro, quella centrale e di gran lunga la più estesa, è il diario di viaggio che Clerici scrive per Teresa Blasco, la donna amata da cui cerca di allontanarsi compiendo la sua “peregrinazione” attraverso la Sicilia. È solo attraverso il “collaudato contravveleno della distanza”, infatti, che Clerici riesce a ritrovare quell’“aura irreale o trasognata” che gli consente di dedicarsi alla scrittura e alla pittura (Consolo, 1987: 87)1. Quello di Clerici è, per così dire, un caso di seduzione mancata: in fuga da un amore infelice, alla fine del suo viaggio apprenderà che l’amata sta per unirsi in matrimonio con Cesare Beccaria. Nel descrivere un momento di particolare abbandono nel corso del viaggio, la sosta presso i Bagni Segestani, Clerici chiama a raccolta i più celebri miti di seduzione della tradizione letteraria: in particolare quello di Ulisse indotto ad accettare i doni della maga Circe o deciso a resistere al canto seduttore delle sirene, oppure la boccacciana novella di Biancofiore (pp. 61-62). La scena del bagno è il momento di seduzione più alto descritto da Clerici, ma è significativo che si tratti di una scena giocata sul puro piano dell’immaginazione: come Ulisse con le sirene, Clerici si fa sedurre solo in parte dal canto delle fanciulle che gli giunge attraverso la parete che separa il bagno degli uomini da quello delle donne. Non è un caso che il pittore non arrivi ad oltrepassare questa parete che divide i due mondi: in quanto artista egli può vivere il momento della seduzione solo a livello immaginario, e sempre mediato attraverso il filtro della letteratura. In questo momento di abbandono sensuale quelli che affiorano alla mente di Clerici sono episodi attinti esclusivamente all’immaginario letterario, quasi a frapporre una distanza rassicurante fra sé e il mondo, ad attutire attraverso lo schermo della finzione la forza dirompente della realtà in tutta la sua concretezza.

4
Un altro episodio del romanzo è emblematico di come la seduzione dell’arte assolva talvolta ad una funzione di compensazione nei confronti di una seduzione mancata nella vita: in quanto castrato, il maestro di canto don Gennaro non potrà mai sedurre l’adorata Rosalia, e sublima la propria mutilazione attraverso l’arte:

C’est la vie: chi canta non vive e chi vive non canta! […] siamo castrati tutti quanti vogliamo rappresentare questo mondo: il musico, il poeta, il cantore, il pintore… Stiamo ai margini, ai bordi della strada, guardiamo, esprimiamo, e talvolta, con invidia, con nostalgia struggente, allunghiamo la mano per toccare la vita che ci scorre per davanti. (p. 158)

5
Ma la classica contraddizione decadentista fra arte e vita viene subito contraddetta, relativizzata e deformata da una lente ironica: con un brusco abbassamento di registro Rosalia interpreta questo allungare la mano alla lettera, e lo riconduce ad un piano ben più concreto e corporeo:

Ha ragione, ha ragione don Gennaro! Così fanno, allungano le mani, questi artisti. Così il vecchio abate Meli, che alla Flora, sbucando avanti a me all’improvviso da un cespuglio, tocca, sospira e va, declamando poesie.

Così il cavalier Serpotta, lo scoltore plastico, quando il marchese mi portò da lui per farmi fare le pose per le statue della Veritas: al posto dello stucco, plasmava me, con insistente mano. (p. 158)

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Un’analoga concretezza si ritrova nella storia della seduzione di una giovane di nome Rosalia da parte di fra’ Giacinto. Questa narrazione è inserita, come si è detto, a mo’ di predella a metà del romanzo e si sovrappone al racconto di Clerici grazie ad un felice espediente meta-narrativo: Clerici scrive infatti il proprio diario di viaggio sul retro di fogli già scritti, che recano sul davanti il racconto della storia di Rosalia (una delle tante Rosalie di Retablo, la cui identità o eventuale parentela con la Rosalia di Isidoro resta peraltro imprecisata). Approfittando dell’ingenuità della giovane, Giacinto si serve della religione come travestimento per le proprie voglie e i propri desideri più licenziosi. La descrizione di questo episodio è pervasa di forte sensualità e arricchita di particolari concreti.

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Ma la vicenda amorosa centrale su cui si basa tutto il romanzo è la storia di seduzione di cui sono protagonisti Isidoro e la giovane Rosalia: sedotto prima dal cibo offertogli da Rosalia e dalla madre, poi dalle bellezze della giovane, Isidoro si innamora follemente, tanto da essere indotto a derubare il convento per portare soldi alle due donne. Scoperto l’imbroglio, Isidoro è costretto a fuggire e ad allontanarsi dall’amata. Sarà preso a servizio da Clerici, che riconosce in lui la vittima di “uno di quegli amori furenti che non trovano giammai appiglio o risonanza nel cuore del bersaglio al quale disperatamente son puntati. Ma forse questo è mai sempre il destino di qualsivoglia amore” (p. 34). L’amore, secondo Clerici, “è inseguimento vano, è inganno e abbaglio, fuga notturna in circolo e infinita, anelito mai sempre inappagato” (p. 34). La seduzione di Isidoro, nella descrizione che lui stesso ne fa, all’inizio non si discosta molto dai topoi tradizionalmente associati al processo dell’innamoramento. Il fuoco d’amore si accende attraverso gli occhi e gli sguardi, che, conformemente alla tradizione, sono detti “lampi” (p. 18): anche la scelta lessicale rimanda dunque alla lirica medievale. Ed è proprio sui topoi di questa tradizione (sguardi schivi, donna angelicata) che è costruita tutta la scena iniziale della seduzione:

E gli occhi tenea bassi per vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia fuggivan lampi d’un fuoco di smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei. (p. 18)

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Ma è una tradizione che si rivela subito inadeguata a rendere conto della concretezza dei fatti, e che pertanto viene subito straniata attraverso l’introduzione di particolari ben più materiali e corporei:

Ché Rosalia, lei, a poco a poco aprì la mantellina, mostrò il corpetto, ciocche arricciate del color del rame, le boccole agli orecchi trasparenti; e sorrideva, con le fossette, mostrando a malapena i denti di cagnola. (pp. 18-19)

2  Questo passo sembra far eco alla reticenza e allusività di Francesca nel dantesco: “Quel giorno pi (…)

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Il narratore non si dilunga sui particolari; ed è reticente sul seguito, descritto in modo riassuntivo e lapidario: “Breve, la sera appresso conobbi il paradiso. E nel contempo cominciò l’inferno, l’inferno pel rimorso del peccato e per la ruberia del guadagno a danno del convento” (p. 19)2. In parte analoghi, ma più concreti, carnali e sensuali, i toni con cui Rosalia descrive gli stessi eventi dal proprio punto di vista: “mai prima di quella notte io provai il paradiso, né mai per l’innante proverò. […] E dopo quella notte, non volli più lavarmi, sciogliere l’essenza, disperdere l’odore tuo sparso nel mio corpo” (p. 156). Isidoro dal canto suo paragona la figura dell’amata a quella della statua di Santa Rosalia, protettrice di Palermo. La sua passione per la giovane si confonde con il culto e l’adorazione della Santa:
uguale a la Santuzza, sei marmore finissimo, lucore alabastrino, ambra e perla scaramazza, màndola e vaniglia, pasta martorana fatta carne. Mi buttai ginocchioni avanti all’urna, piansi a singulti, a scossoni della cascia, e pellegrini intorno, «meschino, meschino…», a confortare. Ignoravano il mio piangere blasfemo, il mio sacrilego impulso a sfondare la lastra di cristallo per toccarti, sentire quel piede nudo dentro il sandalo che sbuca dall’orlo della tunica dorata, quella mano che s’adagia molle e sfiora il culmo pieno, le rose carnacine di quel seno… E il collo tondo e il mento e le labbruzze schiuse e gli occhi rivoltati in verso il Cielo… (p. 16)

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E proprio il mito di Santa Rosalia, con la sua caratteristica fusione di misticismo e carnalità, sottolinea magistralmente questa sintomatica unione di amore divino e profano: nella descrizione del rapimento di Isidoro venerazione della santa, godimento estetico, desiderio erotico ed esperienza estatica diventano tutt’uno. L’annichilamento di Isidoro è totale nel momento in cui riconosce le fattezze dell’amata Rosalia nell’immagine allegorica della Veritas scolpita dal cavalier Serpotta:

Davanti a una di quelle dame astanti, una fanciulla bellissima, una dìa, m’arrestai. veritas portava scritto sotto il piedistallo. Era scalza e ignude avea le gambe, su fino alle cosce piene, dove una tunichetta trasparente saliva e s’aggruppava maliziosa al centro del suo ventre, e su velava un seno e l’altro denudava, al pari delle spalle, delle braccia… Il viso era vago, beato, sorridente… Mi sentii strozzare il gargarozzo, confondere la testa, mancare i sentimenti. Aprii disperato le ganasce e lanciai un urlo bestiale. – Rosaliaaa!… – urlai, e caddi a terra tramortito. (p. 24)

3  “In Consolo il linguaggio letterario cerca di rivaleggiare con la pittura” (Geerts, 2000: 308); “I (…)

4  Si veda ad esempio il contributo già citato di Geerts (2000) sui sapori della cucina consoliana e (…)

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Questa la descrizione dello stesso fatto dal punto di vista di Clerici: “davanti a la Verità, divenne matto: crollato in terra, si contorse, schiumò, lacerossi gli abiti, la faccia, quindi nel vico si diede a piangere, a urlare come un forsennato” (p. 149). Lo stato di sopraffazione che colpisce Isidoro di fronte all’immagine di Rosalia rimanda ai sintomi della sindrome di Stendhal. C’è, infatti, un legame inscindibile fra esperienza estetica ed estasi amorosa. È attraverso il procedimento dell’ekphrasis, familiare alla tradizione letteraria medievale, che si realizza nella scrittura di Consolo quel legame fra seduzione amorosa e seduzione artistica. Come hanno rilevato molti critici, in Consolo scrittura e arti figurative sono strettamente collegate fra loro3. La seduzione della scrittura consoliana agisce soprattutto sull’aspetto visivo, gioca con l’immagine, lo stimolo ottico. È un fenomeno che si ritrova già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, dove la storia si sviluppa proprio a partire da un quadro, il Ritratto di ignoto di Antonello da Messina. L’affastellarsi delle sollecitazioni visive è una delle componenti fondamentali di quello che è stato definito il neo-barocco di Consolo. Non occorre insistere sul legame fra scrittura e pittura in Retablo. Esso è annunciato già programmaticamente nel titolo, e sottolineato inoltre dalla scelta dei personaggi: quello fittizio di Fabrizio Clerici è, non a caso, pittore, e rimanda direttamente all’omonimo personaggio reale (1913-1993), il pittore amico di Consolo e autore dei cinque disegni che accompagnano la versione a stampa del romanzo. Del resto non è solo sulla stimolazione visiva che gioca il barocco consoliano: il discorso letterario di Retablo fa leva su un vero e proprio coinvolgimento dei sensi (oltre alla vista, come si è già detto, anche l’udito, l’olfatto e soprattutto il gusto)4. Si tratta, pertanto, di una scrittura che può essere senz’altro definita “ seduttiva ”, in quanto mette in gioco le tecniche e i meccanismi tipici della seduzione.

La seduzione della scrittura

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La seduzione in Retablo non è dunque solo rappresentazione e tematizzazione del desiderio e delle sue modalità di manifestazione, ma soprattutto tecnica narrativa in atto, procedimento attraverso cui il testo conquista il suo destinatario. Il romanzo, infatti, irretisce il lettore nelle trame molteplici della narrazione, lo sorprende e lo avvince con la sfaccettatura e la pluralizzazione delle voci e delle prospettive, lo affascina con la sua lingua musicale, con un enunciato che, prima di appellarsi al significato, gioca innanzitutto sull’esplorazione delle potenzialità sonore, sfruttate al massimo attraverso il ritmo incalzante delle enumerazioni e un uso altissimo e intenso dell’allitterazione.

5 È lo stesso Consolo a sottolinearlo: “ho scelto il nome Rosalia per S. Rosalia, ma anche per scompo (…)

6 Si veda in particolare l’incipit del romanzo, a cui Consolo si è sicuramente ispirato (cf. in propo (…)

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Si è già visto come la stessa storia di amore e seduzione, quella di Isidoro e Rosalia, sia raccontata da tre persone e pertanto a partire da tre prospettive diverse: ognuno narra la propria verità, il romanzo è costruito su una serie di percorsi indecidibili, tutti altrettanto validi. L’intrecciarsi e il sovrapporsi dei vari racconti conferisce al romanzo una struttura paradigmatica, associativa, verticale. È interessante notare come la pluralizzazione dei punti di vista e delle verità possibili avvenga proprio a partire dalle varie figure di donne sedotte o seduttrici, che sembrano confluire in un volto solo: quando infatti Clerici si accinge a disegnare un profilo di donna che nelle sue intenzioni dovrebbe ritrarre l’amata Teresa Blasco, don Vito vi riconosce la Rosalia per amor della quale aveva ucciso il seduttore fra’ Giacinto, mentre Isidoro è convinto che si tratti della propria Rosalia (p. 87). Il fulcro su cui convergono tutti questi percorsi sono dunque le fattezze, ma soprattutto il nome di Rosalia, personaggio dall’identità fluttuante e incerta. Questo nome viene a definire personaggi di volta in volta diversi e non identificabili l’uno con l’altro, diventando quindi una sorta di nome comune, nome di genere atto a definire una categoria di validità pressoché universale. Rosalia è il nome dell’amata di Isidoro, è la Rosalia del manoscritto, è la donna amata dal cavalier Serpotta e modello della statua raffigurante la Veritas; ma Rosalia è anche la santa venerata a Palermo e oggetto di culto da parte di innumerevoli devoti. Su Rosalia convergono tutti i percorsi di desiderio dei vari personaggi e dello stesso lettore. Tutto ciò è evidente fin dall’incipit, un sapiente esercizio di bravura stilistica tutto costruito sulla scomposizione del nome in Rosa e Lia e sulle suggestioni ed associazioni che ne scaturiscono5. Si penserà in proposito alle innumerevoli valenze attribuite da Petrarca al nome dell’amata Laura, mentre, sul versante moderno, il modello indiscusso è senza dubbio il Nabokov di Lolita, non a caso uno scrittore di seduzione per eccellenza6. Nell’incipit di Retablo il gioco fonico e associativo che prende il via dal nome dell’amata è un brillante esempio delle capacità di seduzione della lingua consoliana:

Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha roso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.

Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei? (pp. 15-16)

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Tutto il passo è giocato sull’enumerazione e sull’accumulazione delle associazioni evocate dal nome Rosalia, associazioni che rimandano soprattutto a percezioni sensoriali. È proprio da questo insistito richiamo ai sensi che risulta evidente come il lettore si trovi qui coinvolto in un raffinatissimo gioco di seduzione. Si è già parlato dell’estrema forza visiva e dell’icasticità della scrittura consoliana. Ad essa si aggiungono qui sensazioni uditive create soprattutto dalle sonorità allitteranti del testo e da un andamento ritmico più vicino alla poesia che alla prosa. Si veda ad esempio la prima frase, in cui vengono elencati gli effetti della rosa sull’io narrante: i cinque elementi che la compongono possono essere letti come versi (i primi quattro saranno senari) a rima alternata (ababa, se si considera confuso e roso come rima siciliana). Non manca il richiamo alle percezioni tattili (la spina della rosa che punge, e più avanti l’impulso a toccare la statua della santa), ma soprattutto a quelle olfattive e gustative. Sarà soprattutto la prima parte del nome, la rosa, ad evocare odori inebrianti, segno di un processo di seduzione in corso, di un desiderio risvegliato e ancora insoddisfatto. Le immagini suscitate dalla seconda parte del nome, Lia, rimandano invece piuttosto alle sensazioni del palato, ad un piacere che, nel momento in cui viene gustato, si rivela subito veleno, seduzione letale che culmina in un “bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume”. Si noti come le associazioni che prendono il sopravvento alla fine del passo insistano proprio sulla mancanza di luce e sulla cecità, a sottolineare il fatto che alla perdita dell’amata corrisponde la fine delle percezioni dei sensi.

7  Cf. De Martino (1992: 48). Si vedano anche i diretti rimandi lessicali: “Ahi, non ho abènto” (p. 1 (…)

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Alle associazioni sensoriali risvegliate dal nome Rosalia si aggiungono quelle culturali e letterarie: da un lato l’effigie della santa venerata a Palermo, rappresentata nell’iconografia popolare con il capo cinto da una corona di rose bianche, dall’altro tutte le suggestioni letterarie legate all’immagine della rosa. La seduzione della scrittura nei confronti del lettore si avvale allora di tutta una serie di trame intertestuali che attraversano il testo e si sviluppano proprio a partire dal motivo della rosa: è lo stesso Consolo a mettere in risalto le affinità tra il discorso di Isidoro e Rosalia e il contrasto di Cielo d’Alcamo Rosa fresca aulentissima7. Il primo e l’ultimo quadro sono costruiti sul modello del contrasto. L’esempio di seduzione offerto dalla tradizione sarà in questo caso ironico. Ma non è da escludere nemmeno una suggestione derivante dal Roman de la Rose, storia allegorica di seduzione e conquista amorosa in cui l’amata è rappresentata, appunto, da una rosa (ma la metafora risale del resto già alla tradizione latina). Un altro intertesto di importanza centrale sono I promessi sposi manzoniani: non a caso l’amata di Clerici è Teresa Blasco, nonna di Manzoni; e come per quest’ultimo il Seicento era l’occasione per parlare dell’Ottocento, così per Consolo il Settecento è il filtro attraverso cui raccontare l’epoca attuale, come dimostra del resto l’anacronismo nella scelta del personaggio di Fabrizio Clerici, in realtà, come si è già detto, pittore contemporaneo.

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La stratificazione dei piani temporali viene ad aggiungersi alla sovrapposizione dei piani narrativi di cui si parlava prima. Quest’ultima trova la sua realizzazione più evidente nell’espediente dei fogli già scritti da Rosalia sul cui retro Clerici annota i suoi appunti di viaggio. Dice in proposito il narratore:

Sembra un destino, quest’incidenza, o incrocio di due scritti, sembra che qualsivoglia nuovo scritto, che non abbia una sua tremenda forza di verità, d’inaudito, sia la controfaccia o l’eco d’altri scritti. Come l’amore l’eco d’altri amori da altri accesi e ormai inceneriti. (p. 89)

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In tal modo Clerici istituisce un parallelo diretto fra scrittura e vicende amorose. E prosegue paragonando l’intersezione delle scritture a un retablo:

E il mio diario dunque ha proceduto […] come la tavola in alto d’un retablo che poggia su una predella o base già dipinta, sopra la memoria vera, vale a dire, e originale, scritta da una fanciulla di nome Rosalia. Che temo sia la Rosalia amata da don Vito Sammataro, per la quale uccise, e si convertì in brigante. O pure, che ne sappiamo?, la Rosalia di Isidoro. O solamente la Rosalia d’ognuno che si danna e soffre, e perde per amore. (p. 89)

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La metafora del retablo equivale qui a quella postmoderna del palinsesto. L’espediente dei fogli già scritti e riscritti sul retro, che la veste tipografica del romanzo riproduce fedelmente, raffigura in modo concreto e visibile quell’intertestualità di cui si parlava prima e che costituisce uno dei tratti salienti di Retablo. Il lettore può scegliere liberamente quale delle due storie leggere. L’interpretazione è aperta e l’intrecciarsi dei piani narrativi ha come effetto, da un lato, la pluralizzazione dei punti di vista, dall’altro però anche l’universalizzazione del destino individuale. La verità, sebbene inafferrabile, è al tempo stesso universalmente valida: tutti sono accomunati da uno stesso destino, vittime di uno stesso gioco di seduzione. La moltiplicazione dei piani narrativi è, in ultima analisi, solo apparente, perché tutti i percorsi convergono alla fine verso un destino universale che coinvolge tutti, lettore incluso.

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L’immagine del retablo compare più volte nel romanzo, secondo la tecnica postmoderna della mise en abyme. La spiccata autoreferenzialità e autoriflessività letteraria di certi passi è finalizzata ad un processo autocritico che si rivolge contro l’arte e le sue capacità di seduzione, contro la sua natura finzionale e fasulla che trae in inganno lo spettatore ingenuo. Tuttavia si tratta di un inganno che si rivela anche benefico, in quanto seduce, ovvero allontana l’ingannato dalla triste realtà, offrendogli consolazione e oblio:

L’invenzione di far veder nel quadro ciò che si vole, dietro ricatto d’essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d’una colpa, non mi sembrò originar da loro. E mi sovvenni allora ch’era la trama comica de l’entremés del celebre Cervantes, intitolato appunto El retablo de las maravillas, giunto di Spagna in questa terra sicola e dai due fanfàni trasferito dalla finzione del teatro nella realitate della vita per guadagnar vantaggi e rinomanza. Io mi chiedei allor, al di là dell’imbroglio di Crisèmalo e Chinigò, nel vedere quei rozzi villici rapiti veramente e trasportati in altri mondi e vani, su alte sfere e acute fantasie, sopra piani di luce e trasparenze, col solo appiglio d’un quadro informe e incomprensibile e la parola più mielosa e scaltra, io mi chiedei se non sia mai sempre tutto questo l’essenza d’ogni arte (oltre ad essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto), un’apparenza, una rappresentazione o inganno, come quello degli òmini che guardano le ombre sulla parete della caverna scura, secondo l’insegnamento di Platone, e credono sian quelle la vita vera, il reale intero, come l’inganno per la follia dolce de l’ingegnoso hidalgo de la Mancha don Chisciotte, che combatté contra i molini a vento presi per giganti, o per furore tragico d’Aiace che fe’ carneficina delle greggi credendola d’Atridi, o come l’illusione che crea ad ogni uom comune e savio l’ambiguo velo dell’antica Maya, velo benefico, al postutto e pietoso, che vela la pura realtà insopportabile, e insieme per allusione la rivela; l’essenza dico, e il suo fine il trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii. Ch’ora accattavano i villani a poco prezzo, ponendo nel cappello piumato di Chinigò il loro obolo. (pp. 55-56)

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Il retablo è dunque una metafora dell’arte, della sua inadeguatezza a rappresentare il reale in maniera univoca e attendibile e al tempo stesso del suo grande fascino e potere di seduzione. In un’intervista l’autore ribadisce che “l’idea del retablo è mutuata da Cervantes, il padre del romanzo moderno. In effetti l’arte non rappresenta mai la verità; ma semmai rappresenta la verità ideologica di chi scrive” (De Martino, 1992: 40). Quella di Cervantes è, dice Consolo, “un’autocritica dell’arte come illusione… un’ironia su se stessi. L’arte come menzogna. Il Don Chisciotte è il più grande romanzo ironico, un’ironia sui poemi cavallereschi” (De Martino, 1992: 48). E altrettanto ironico è il titolo dell’ultimo capitolo di Retablo, Veritas, che è anche il nome della statua allegorica modellata sulle fattezze di Rosalia. La verità che Rosalia rivela alla fine nella lettera in cui confessa il proprio amore per Isidoro non è che una delle possibili varianti della stessa storia di seduzione. Sarà da leggere in chiave ironica la ripetizione della formula “Bella, la verità”, che ricorre con cadenza quasi ossessiva nel discorso di Rosalia. Emblematico è anche il passo, citato sopra, dove la statua raffigurante la Veritas viene descritta dalla prospettiva di Isidoro (p. 24): la verità non è altro che una figura di donna seducente e ingannatrice. La seduzione sensuale operata dalla statua rimanda a quella intellettuale esercitata dal concetto di verità: esattamente come la seduzione dei sensi, la seduzione intellettuale della verità si rivela illusoria e fasulla, e viene subito dopo relativizzata attraverso il racconto della stessa storia a partire da altri punti di vista.

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Retablo è, in ultima analisi, un romanzo sulla seduzione avvenuta e bruscamente finita (quella di Isidoro e Rosalia), sulla seduzione mancata (quella di Teresa Blasco da parte di Clerici), sulla seduzione dai risvolti tragici (quella di Rosalia da parte di fra’ Giacinto, brutalmente ucciso dall’innamorato Don Vito), o sulla seduzione spostata, deviata (la seduzione dell’arte che compensa quella irrealizzabile della carne fra don Gennaro e Rosalia). Ma soprattutto – e in questo consiste la particolarità del romanzo – la seduzione rappresentata va di pari passo con la seduzione in atto esercitata dalla scrittura, che trascina il lettore coinvolgendolo su molteplici piani di lettura. La conseguente relativizzazione della verità artistica fa parte di un processo autocritico che si rivolge non solo contro la “valanga di libri e di libresse privi d’anima, costrutto, lepóre e ragione ch’oggidì invadon biblioteche, botteghe di librai, si spargono pel mondo” (p. 30), ma contro l’arte tutta in generale, e perfino, in particolare, contro lo stesso Retablo consoliano. Così come il retablo ovvero il quadro teatrale seduce e inganna i “rozzi villici rapiti” (p. 55) che lo contemplano, altrettanto fa il romanzo Retablo in quanto prodotto artistico: la mise en abyme è allora al tempo stesso da un lato uno specchio autoriflessivo e autocritico che riflette la finzione artistica, dall’altro uno specchio che rifrange la realtà e la riproduce in modo sfaccettato e molteplice, rivelandone in tal modo l’irrimediabile inafferrabilità.

Battaglia S., Grande dizionario della lingua italiana, Torino, UTET, 1961.

Consolo V., Retablo, Palermo, Sellerio, 1987.

De Martino M., Intervista a Vincenzo Consolo, in L’opera di Vincenzo Consolo. (Dissertazione inedita presentata presso la University of Alberta), 1992, pp. 35-49.

Geerts W., L’euforia a tavola. Su Vincenzo Consolo, in Soavi sapori della cultura italiana, Atti del XIII Congresso dell’A.I.P.I., Verona/Soave, 27-29 agosto 1998, B. Van den Bossche (ed.), Firenze, Cesati, 2000, pp. 307-316.

Nabokov V., Lolita, Novels 1955-1962, New York, The Library of America, 1996.

Scuderi A., Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna, Il Lunario, 1997.

Segre C. e Ossola C. (eds), Antologia della poesia italiana. Duecento, Torino, Einaudi, 1997.

Traina G., Vincenzo Consolo, Fiesole (Firenze), Cadmo, 2001.

Notes

1  Per le successive citazioni da quest’opera si indicherà d’ora in poi solo il numero di pagina.

2  Questo passo sembra far eco alla reticenza e allusività di Francesca nel dantesco: “Quel giorno più non vi leggemmo avante” (Inferno, V, 138).

3  “In Consolo il linguaggio letterario cerca di rivaleggiare con la pittura” (Geerts, 2000: 308); “In Retablo c’è l’esplicitazione dell’esigenza della citazione iconografica: il «retablo» appartiene alla pittura ma è anche «teatro», come nell’intermezzo di Cervantes” (Traina, 2001: 130).

4  Si veda ad esempio il contributo già citato di Geerts (2000) sui sapori della cucina consoliana e i numerosi passi del romanzo dedicati ai piaceri culinari (fra l’altro, pp. 45, 51, 56-57).

5 È lo stesso Consolo a sottolinearlo: “ho scelto il nome Rosalia per S. Rosalia, ma anche per scomposizione rosa e lia” (De Martino, 1992: 48).

6 Si veda in particolare l’incipit del romanzo, a cui Consolo si è sicuramente ispirato (cf. in proposito Scuderi, 1997: 105):

Lolita, light of my life, fire of my loins. My sin, my soul. Lo-lee-ta : the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta.

She was Lo, plain Lo, in the morning, standing four feet ten in one sock. She was Lola in slacks. She was Dolly at school. She was Dolores on the dotted line. But in my arms she was always Lolita. (Nabokov, 1996: 7).

7  Cf. De Martino (1992: 48). Si vedano anche i diretti rimandi lessicali: “Ahi, non ho abènto” (p. 16) richiama il “per te non ajo abento notte e dia” di Cielo d’Alcamo (Segre e Ossola, 1997: 93). L’interesse per Cielo d’Alcamo è documentato inoltre nel romanzo stesso dall’episodio metaletterario dell’incontro di Clerici con l’“Accademia de’ Ciulli Ardenti” di Alcamo, dove si discute sull’opportunità di “far crescere la cima sicola da ràdica toscana o puramente far sbocciare in aura toscana la semente sicola” (p. 46).

Tatiana Bisanti, « Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vicenzo Consolo », Cahiers d’études italiennes, 5 | 2006, 57-68.

Référence électronique

Tatiana Bisanti, « Seduzione amorosa e seduzione artistica in Retablo di Vicenzo Consolo », Cahiers d’études italiennes [En ligne], 5 | 2006, mis en ligne le 15 mars 2008, consulté le 27 mai 2016. URL : http://cei.revues.org/813

Tatiana Bisanti

Universität des Saarlandes – Saarbrücken

Du même auteur

Fra differenza e identità microcosmo e ibridismo in alcuni romanzi di Luigi Meneghello [Texte intégral]

Paru dans Cahiers d’études italiennes, 7 | 2008

littérature contemporaine italienne » (Université Stendhal – Grenoble

 

Nicolò Messina, Lunaria dietro le quinte

NICOLÒ MESSINA

UNIVERSITAT DE GIRONA

Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta […]

VINCENZO CONSOLO, Le pietre di Pantalica1 È manifesto il debito di Lunaria con L’esequie della luna di Lucio Piccolo2. Nella Nota che funge da Postfazione al libro,Consolo lo ammette, anzi lo dichiara apertamente e svela anche il processo che da quell’opera l’avrebbe portato al suo cuntu:“Di quella prosa di Lucio Piccolo, de L’esequie della luna s’era innamorato un giovane palermitano, Roberto Andò, voleva farne un’opera teatrale e si rivolse a me per lavorare a quel progetto3. Con lui discussi allora impostazione scenica, soluzioni teatrali,consultai libri e mi trovai poi inevitabilmente di fronte alla scrittura, solitaria avventura, alla creazione cioè di un pianetino 1 CONSOLO, V. (1988: 141): Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori (d’ora in poi Pantalica).2 PICCOLO, L.: «L’esequie della luna», Nuovi Argomenti, N. S. 7-8 (1967): 152-169; nunc:L’esequie della luna e alcune prose inedite, ed. G.[IOVANNA] MUSOLINO, «Acquario», Milano:All’insegna del pesce d’oro, 1996. Si cita dalla princeps, purtroppo infestata di refusi(d’ora in poi Esequie).3 Il progettò si arenò, ma nel 1991 a Gibellina, nella rassegna delle Orestiadi, andò in scena L’esequie della luna, Narrazione fantastica di R. ANDÒ da L. PICCOLO, Musica di F.[RANCESCO] PENNISI. L’opera poetica di Piccolo ha ispirato anche altri allestimenti teatrali,tra cui: Il raggio verde… o dell’esequie della luna, di Ninni BRUSCHETTA (con Pino Censi);Cerchio di melodie per Lucio Piccolo, di e con Pino CENSI, prodotto dal Centro Culturale Mobilità delle Arti e rappresentato al Teatro Comunale di Marsala il 14 ottobre 2004 e al Teatro Quadro di Città Giardino (Siracusa) il 15 e il 16 dello stesso mese.180 indipendente che, come quello di Piccolo, ruotasse attorno a Leopardi”4. Il processo scrittorio fu cosí di contaminatio ed amplificatio di varie fonti: non solo Piccolo e la fonte comune a Piccolo e Consolo, il Leopardi dell’Odi, Melisso: io vo’ contarti un sogno5 e di tanti altri indimenticabili Idilli lunari, ma anche, indietro nel tempo, e con una citazione letterale, l’Ariosto della luna meta del “protoastronauta” Astolfo6.Il sempre puntuale Cesare Segre –in un saggio di Intrecci di voci– registra con precisione i non pochi passi in cui Lunaria riecheggia L’esequie. Perciò stesso, per il dettaglio, basterà rimandare a questo studio, sia per trovarci la collatio delle due opere,sia per derivarne un regesto delle consonanze7. Di piú; da par suo, efficacemente, Segre tiene anche ad indicare dove e come Consolo va oltre: il sogno, si direbbe, non solo sognato, ma per giunta rappresentato del Vicerè, quale persona, cioè latinamente ‘maschera’, attore. Si scorge, insomma, nel cuntu l’ombra di Calderón de la Barca, ma in buona compagnia, viene da aggiungere,di Pirandello: un La vida es sueño che approda a Sei personaggi o piuttosto all’apparente delirio di un Enrico IV8.Milano: Mondadori (1996: 134). Si cita da ambedue le edizioni: il primo rimando sarà a Lunaria1, il secondo (tra parentesi) a Lunaria2.5 Registrato con i titoli Il sogno (1819) e Spavento notturno (1826); in ultimo, finito acefalo tra i Frammenti (XXXV, 1835 e infine XXXVII, 1845). Del cadere degli astri Leopardi si era occupato anche nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (capp. IV e X).6 ARIOSTO, L.: Orlando furioso, XXXIV, 73, 3-8 in Lunaria, pp. 47-48 (67). Per la presenza lunare nella letteratura, non solo italiana, ben a proposito TRAINA, G. (2001: 73), Vincenzo Consolo, «Scritture in corso», Fiesole (Firenze): Cadmo, rimanda alla documentata recensione di H.[ÉCTOR] BIANCIOTTI, «Vincenzo Consolo de la Sicile à la Lune», Le Monde (22 aprile 1988), ora in versione tradotta in Nuove Effemeridi, VIII, 29 (1995: 107-109).7 SEGRE, C. (1991: 87-102): «Teatro e racconto su frammenti di luna», in Id., Intrecci di voci.La polifonia nella letteratura del Novecento, «Einaudi Paperbacks 214», Torino: Einaudi.Il saggio è, insieme a quello proemiale, l’unico inedito tra i dieci che compongono la raccolta e sembra perciò scritto ex professo per Intrecci.8 Pirandello s’intravede d’altronde in almeno due passi dietro una parafrasi o citato direttamente.Da un lato, cfr. Lunaria, p. 48 (68): «Hai guardato nello squarcio, anche tu hai visto dietro le scene del teatro?» e PIRANDELLO, L. (1973: 467) Il fu Mattia Pascal, cap.XII (Tutti i romanzi, ed. G. MACCHIA, con la collab. di M.[ARIO] COSTANZO, I, «i Meridiani»,Milano: Mondadori): «Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che 181 Tuttavia, ciò detto, per questo nostro curiosare dietro le quinte di Lunaria (e en passant per chiarire il senso del titolo e l’oggetto di queste pagine), preme qui e subito sottolineare come quest’opera sia nel corpus di Consolo soltanto l’espressione letteraria più risolta del riconoscimento del magistero di Piccolo, ma certo non l’unico suo atto di riconoscenza. Ci si limiterà così ad alcune manifestazioni –precedenti e successive a Lunaria– di quella che si potrebbe definire con il Contini esegeta di Montale «una lunga fedeltà»9. È una fedeltà10 che si materializza in una fitta rete di giochi intertestuali: in primo luogo, naturalmente, Consolo-Piccolo (però al riguardo le cose andrebbero per le lunghe, sarebbe esteso il terreno da dissodare e al momento non ne verrebbero che intuizioni impressionistiche, nulla di fondato e verificabile), ma anche Consolo-Consolo, quindi una intertestualità tutta interna alla sua prosa e i cui segni è dato intravedere chiari dove subito chiunque frugherebbe, nel trittico Il barone magico di Le pietre di Pantalica11, ma anche meno evidenti nella storia del capolavoro consoliano, Il sorriso dell’ignoto marinaio12.Di fatto, Lucio Piccolo sembra in Consolo una presenza carsica:una sorta di corrente che affiora, scompare, riaffiora. Visto dall’osservatorio del Sorriso, che è quasi una trincea dalla quale si rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.» Dall’altro, in Lunaria, pp. 60-61 (83): «“allunga un formidabile calcio alla giara, che rotola giú per il sentieruolo tra le grida di tutti. Poi si sente il fracasso della giara che si spacca urtando contro un albero”.» è citazione virgolettata dell’intera didascalia della scena finale di PIRANDELLO, L.: ’A giarra (1916) e La giara (1925).9 CONTINI, G. (1974): Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino: Einaudi.10 La frequentazione è cosí ricordata in Pantalica, p. 141: «Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta, che sedeva con le spalle alla finestra sempre chiusa, anche d’estate (la luce filtrava fioca nella sala attraverso le liste della persiana). Lì, due, tre volte la settimana si faceva “conversazione”, ch’era un lungo monologo di quell’uomo che “aveva letto tous les livres”, come scrisse Montale, ch’era un pozzo di conoscenza,di memoria, di sottigliezza, di ironia.» E piú avanti, p. 149: «Lo frequentai per tanti anni,fino a quando non decisi di lasciare la Sicilia. Ma ogni volta che ritornavo nell’Isola, non mancavo d’andare a trovare il poeta.»11 Pantalica, pp. 133-1a49.12 Un profilo dei momenti chiave del decantarsi dell’opera in (mihi liceat): MESSINA, N.: «Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo», Quaderns d’Italià 10 (2005: 113-126).182 spera –da editori– di uscire indenni, il filo rosso di Il barone magico si dipana dall’ipòstasi unica dell’omonimo, cronologicamente alto, articolo su L’Ora13 al più basso trittico di Pantalica, e tra il primo punto e l’altro s’incrocia e s’intreccia con il farsi del dettato multiforme del libro che impose Consolo all’attenzione generale.In principio, dunque, è l’articolo apparso su L’Ora con quattro inediti del barone di Calanovella, tra cui proprio un frammento delle Esequie14. Il testo viene recuperato, sfoltito e tesaurizzato ad altro fine, ora decisamente commemorativo15, in quel dattiloscritto intitolato Carte per gioco, che rappresenta un seme non destinato a germogliare, un rogetto di cui costituisce il «Terzo Tempo – Magico (o poetico)»: la terza carta, allora, come le altre,non certo ‘ludica’, ‘per celia’, nuga o nugella, ma à jouer, to play,13 CONSOLO, V. (1967: 9).14 Il quarto degli inediti, intitolato esattamente «Esequie della luna» e presentato come:«Balletto in tre tempi di Lucio Piccolo di Calanovella per le musiche di Emanuele d’Astorga », è un brano del «II Tempo: Fantastico o Conventuale», con limiti testuali: «[…] era lei che scivolava sullo smalto delle fronde delle muse […] tutt’altro che una giovinetta,–aprile calmo già insediato– tra la malvetta e il garofano.», che qualche mese dopo (luglio – dicembre) si sarebbe potuto leggere in Esequie, pp. 165-166, di cui aiuta peraltro a emendare due refusi: foses [p. 165] : fosse; suricolari [p. 166] : auricolari. L’idea del balletto è carezzata e perseguita da Piccolo, il quale era buon conoscitore dei più noti compositori primonovecenteschi e ambiva a far musicare la sua operetta da Gian Francesco Malipiero, il suo preferito. Da ultimo, cfr. TEDESCO, N.: «I versi di Lucio Piccolo come armonie musicali. Così la poesia diventò politonale», La Repubblica, ed. Palermo (Mercoledì 27 luglio 2005): XIII: «[…] alla formazione di Piccolo concorrono gli studi musicali che egli intraprese e portò avanti fino ad un certo punto della sua vita: la scrittura di un testo liturgico, un Magnificat, di stile malipieriano, a detta di Gioacchino Lanza Tomasi, mescolava interessi per epoche diverse. A questo proposito, va tenuto presente il particolare rapporto di studio che nel tempo egli istituì con alcuni musicisti degli anni Dieci, Venti e Trenta, precisamente con Alfredo Casella, Ildebrando Pizzetti, Goffredo Petrassi, Franco Alfano e in particolar modo con Gian Francesco Malipiero le cui opere quasi tutte possedeva. Quel Malipiero che curò Monteverdi, altro interesse musicale del poeta nostro che leggeva e rileggeva l’Orfeo. Ma il rapporto con Malipiero si svolse oltre questi anni iniziali e a questo compositore si pensò per mettere in musica le “Esequie della luna”, forse per il ricordo dei “Poemetti lunari” del 1918 del musicista veneziano.In una lettera a Gioacchino Lanza Tomasi […], per la verità Lucio accenna pure alla possibilità che il balletto venga musicato da Sylvano Bussotti.» Si noti inoltre che Emanuele d’Astorga è il musicista siculo-spagnolo studiato da Chino Martinez, protagonista del consoliano Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1999).15 Basta leggere la dedica: «In ricordo del barone/ Lucio Piccolo di Calanovella/ autore dei Canti Barocchi», curiosamente quasi identica (unica variante: «In ricordo del cavaliere ecc.») a quella di «Il sorriso dell’ignoto marinaio», Nuovi Argomenti, N. S., n. 15

(1969: 161-174). Il testo avrà allora nella morte di Piccolo (26 maggio 1969) e nella prima uscita del Sorriso (luglio-settembre 1969) i suoi termini a quibus.183 quindi da ‘giocare’ ed ‘eseguire’, da ‘recitare’ come un copione o ‘suonare’ come uno spartito, nel quale a Piccolo si attaglia il felicissimo pseudonimo di «barone Merlino», un hapax rimasto purtroppo tale. La prima di queste Carte sarebbe il Sorriso della lezione di Nuovi Argomenti [1969], aumentata però dell’«Antefatto»a tutti noto e della prima delle due Appendici del futuro capitolo I («Primo Tempo – Narrativo»). La seconda consiste invece in una serie già programmaticamente16 grezza di materiali documentari diretti e indiretti: certificati, bollettini, stralci di pamphlets contemporanei alla strage di Alcara Li Fusi e ai suoi postumi («Secondo Tempo – Storico»), cioè all’evento storico catalizzatore delle dinamiche del Sorriso17.Il progetto di Carte per gioco, però, non si realizza e, con un buon margine di approssimazione, è dato supporre che nel frattempo (fine di questi anni Sessanta – prima metà anni Settanta)Consolo dovesse riprendere e sviluppare in quel che sarà il capitolo II del Sorriso gli appunti sparsi delle pagine iniziali di un primo Quaderno in cui lo spazio scenico è Cefalù, con il Duomo e lo scampanio delle sue chiese, il fervore della marina, e in primo piano si prospetta l’arrivo di un naviglio (un S. Bartolomeo che si trasformerà poi in S. Cristoforo) e con una zoomata non si scorge però Enrico Pirajno, come i lettori del Sorriso si aspetterebbero,ma un tale marinaio Onofrio Palomara (sic, sarà poi ribattezzato Giovannino), l’accompagnatore del deuteragonista Giovanni Interdonato, nascosto sotto le mentite spoglie del mercante Gaetano Profílio. Insomma, è proprio la carrellata d’apertura di L’albero delle quattro arance (cap. II). Allora, con la conoscenza che si ha adesso del libro, posto che questo Quaderno tramanda, in una 16 Non è da escludere. Risale agli anni Sessanta-Settanta il sorgere dell’attenzione consoliana per i tedeschi del Gruppo 47, gli «analitici» Hans Magnus Enzensberger, Alexander Kluge ed altri, di cui lo scrittore aveva dovuto leggere pagine sul Menabò vittoriniano (9, 1966) e nelle traduzioni dei primi anni Settanta. Cfr. la testimonianza diretta in CONSOLO,V. (1993: 49): Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, «Interventi / 7», Roma: Donzelli, ed anche C.[ARLA] RICCARDI, «Inganni e follie della storia », in PAPA, E. (ed.) (2004: 91), Per Vincenzo Consolo. Atti delle giornate di studio in onore di Vincenzo Consolo (Siracusa, 2-3 maggio 2003), San Cesario di Lecce: Manni.17 Nel regesto dei testimoni dell’edizione critico-genetica del Sorriso il dattiloscritto è stato denominato Ds 11.184 lezione di getto che sarà solo lievemente ritoccata, il celeberrimo passo in cui Consolo descrive il sorriso dell’inquietante marinaio incontrato sulla nave dal Mandralisca nell’ouverture del cap. I, è come se nel magma creativo iniziale le materie narrative dei futuri primi due capitoli non fossero decantate, si confondessero e non fossero ancora esattamente delineate le sequenze temporali interne del Sorriso (il prima e il poi, i protagonisti, le motivazioni delle due scene marinare, dei due viaggi Lipari-Cefalù: l’uno poi fissato al 1852 e l’altro al 1856). Ed è, volando d’ipotesi in ipotesi,come se questo fosse il possibile incipit del libro, con un Interdonato destinato da Consolo ad arrivare a Cefalù, non a portare al Mandralisca il dono della Kore, ma a “consegnargli” il ritratto di Antonello, per mitigare le pene e le furie della fidanzata Catena Carnevale o, con maggiore fondamento testuale, a regalargli il nettare delle Eolie, giacché l’Autore titola i due attacchi: «I / La Malvasia» e «Capitolo I / –La malvasia di Lipari–»18.Un secondo affioramento di Piccolo nella storia del Sorriso è rappresentato dalle quasi “prove di penna”, non piú di un flash di avvio di stesura di un quid indefinito in cui si presagisce l’incipit di una rimembranza del poeta, forse un articolo commemorativo,o qualcosa di simile, a giudicare dalla possibile datazione dei due Quaderni in cui le note albergano insieme alle attestazioni autografe superstiti, nel primo, dei futuri capitoli III Morti sacrata,IV Val Dèmone, V Il vèspero e di interpolazioni del cap. I; e, nel secondo, dei capitoli IV e VI Lettera di Enrico Pirajno a Giovanni Interdonato19. Negli appunti volanti si accenna al primo incontro Piccolo – Sciascia avvenuto a Villa Vina di Capo d’Orlando, dimora dei Calanovella, nel giorno capitale della celebrazione della prima messa in italiano (7 marzo 1965)20.18 Il Quaderno è stato registrato con la sigla Ms 1. I due avvii sono traditi rispettivamente dai ff. 3 e 4.19 I cosiddetti Ms 3 e Ms 4 potrebbero precedere la stessa ed. Manusè del 1975 e, in forza del tenore di questi appunti, datarsi post 1965 (la messa) e 1969 (26 maggio, morte di Piccolo). Cfr. MESSINA, N. «Per una storia …» cit., p. 124.20 In particolare, i due autografi riportano rispettivamente, Ms 3, f. 17v, un primo appunto:«Data cambio di liturgia (dal latino in italiano) – 7 marzo (domenica) 1964 [sic]./ —/185 Il fiume qui –siamo nella prima metà degli anni Settanta– si risommergerebbe per sfociare, da un lato, e prima, in quel chiaro omaggio che è Lunaria, con tutta l’intenzione di emulare L’esequie e l’ambizione di voler trasformare in atto quel che in potenza sarebbe nella prosa piccoliana. Qua e là, infatti, nel testo che per il poeta è «relazione» e «racconto»21, ma anche «balletto»22, si scorgono quasi delle didascalie da canovaccio da rappresentare:Ora sarebbe utile che non fossero più le parole a cercar di far muovere il Vicerè, ma che si muovesse lui da sè medesimo.[Esequie, p. 155].La narrazione del Villano viene immaginata come la proiezione d’una lanterna magica dell’ottocento23: disegni a mano, colori d’ametiste, di rubini, di zaffiri e di topazi simili a quelli delle corone nei racconti di fate.La descrizione verrà quindi fatta in quadri. [Ib., p. 160].La [scl. la luna] si può rappresentare come quei disegni infantili:un cerchio la faccia e semplici linee gli arti. [Ib., p. 161].La Fontana della Nocera è in centro, ma la visione o scenario si è molto ampliata, si scorgono aie, casali, vallette, ecc. [Ib.,p. 161].Dall’altro lato, e poi, Piccolo rispunta nel trittico di Le pietre di Pantalica, piú volte citato, che adatta e ingloba l’articolo di presentazione degli inediti e lacerti del necrologio firmato da Consolo per lo stesso giornale24, e in cui non poche sono le spie Incontro Piccolo – Sciascia / dopo 16 secoli che nella [ex abrupto explicit]»; f. 20, un secondo appunto: : «Il Era il giorno del 196 [spazio intenzionato], domenica, la prima domenica in cui si celebra la messa in italiano, dopo [explicit]»; e Ms 4, f. guardia 1v, altri due appunti: «7 marzo 1965 -/ 1ª domenica di [q]Quaresima// // È il giorno in cui si celebra per la prima volta dopo – – – – – – secoli, la messa in italiano. [explicit]». Cfr.Pantalica, p. 142: «L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una domenica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano».21 Esequie, pp. 166 e 169.22 Cosí vengono definite L’esequie in CONSOLO, V. (1967: 9).23 Sarebbe un chiaro anacronismo, se il riferimento non s’intendesse come un inciso didascalico.24 CONSOLO, V. «Con Lucio Piccolo a Capo d’Orlando. Ricordo del poeta scomparso», L’Ora (Martedì 27 – Mercoledì 28 Maggio 1969). In particolare, vi si rimemora l’ultimo incontro avuto con Piccolo nel quale il barone racconta un aneddoto di risonanze iberiche: «L’ho 186 intertestuali con il Sorriso25, in una dinamica di autocitazioni che fa venire in mente la scrittura e i modi di contaminatio musicale di un Bach. Solo qualche esempio. Si collazionino:Sulla destra, vicino a una finestra, tre poltrone di broccato e velluto controtagliato dai braccioli consumati attorno a un avolinetto.Al muro, un monetario siciliano di ebano e avorio;piú in là, un grande tavolo quadrangolare con le gambe a viticchio e con sopra panciuti vasi Ming blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina, draghi, galli e galline di Jacobpetit. Di fronte, sulla sinistra, una grande vetrina con dentro preziose ceramiche ispano-sicule, di Deruta, di Faenza.Negli angoli, colonne con sopra mezzibusti di antenati. Sopra le porte che si aprivano verso il resto della casa, medaglioni del Màlvica, bassorilievi in terracotta incorniciati da festoni di fiori e di frutta a imitazione dei Della Robbia. E ancora, per tutte le pareti, ritratti a olio di antenati o quadretti a ricamo o fatti dalle monache coi fili di capelli. [Pantalica, p. 141].e:Il salone del barone Mandralisca aveva quasi ormai l’aspetto d’un museo. I monetarî d’ebano e avorio, i comò Luigi sedici, i canapè e le poltrone di velluto controtagliato, i tondi intarsiati,i medaglioni del Màlvica26, tutto era stato rimosso e ammassato nell’ingresso e nello studio, lasciando sopra la seta delle pareti i segni chiari del loro lungo soggiorno in quel salone. Restavano solo le consolle coi piani di peluche che sostenevano vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina.E porcellane di Meissen e Mennecy, le frutta d’alabastro,visto, l’ultima volta, nello scorso aprile. Mi diceva di un suo recente viaggio a Roma,ultima grande avventura di un uomo che viveva nella solitudine. Mi raccontò del suo incontro con Rafael Alberti<:> “In un primo momento il poeta spagnolo era diffidente.Sentiva in me l’odore dei miei terribili antenati Moncada. Ma quando cominciammo a parlare di poesia spagnola, quando si accorse che conoscevo ed amavo la poesia spagnola,allora ci intendemmo”./ Mi parlò di altre cose, di molte altre cose. Mi disse ancheche non stava molto bene, la salute non andava bene. E vidi, per la prima volta, sul suo volto, una incrinatura di tristezza».25 Per la piú facile accessibilità, si cita da Il sorriso dell’ignoto marinaio, «Oscar classici moderni 193», Milano: Mondadori, 2004 (d’ora in poi Sorriso), riedizione dell’ultima licenziata dall’A.: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Romanzo, «Scrittori italiani», Milano:Mondadori, 1997.26 Nella sua edizione scolastica del Sorriso (Torino-Milano: Einaudi-Elemond Scuola, 1995:18, n. 74), Giovanni TESIO annota cosí: «il barone Giuseppe Màlvica che, sotto il patrocinio di Ferdinando I, fondò nel 1781 una fabbrica di maioliche artistiche, in località La Rocca di Palermo, sulla strada che conduce a Monreale.»187 fagiani chiocce e gallinacci di jacob-petit27, orologi di bronzo dorato e fiori di cera sotto campane di vetro. [Sorriso, p. 18].Nella descrizione degli ambienti principali delle case dei due baroni sono singolari le coincidenze, dovute forse alla presenza di analoghi arredi in certe dimore patrizie. Ma come escludere che gli interni ideali di Palazzo Mandralisca possano essere stati modellati da Consolo sull’immagine realmente sperimentata del salone della Villa dei Piccolo?E ancora si confronti:Mi favoleggiava del libro28 Lucio Piccolo, e di grandi che per quelle contrade erano passati lasciando impronte, segni poetici e regali.Come Ruggero il Normanno che, dopo vittoriosa battaglia contro i saraceni, lascia per voto al convento di Fragalà il suo stendardo.O Federico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi (“biondo era e di gentile aspetto”). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?» [Pantalica, p. 145].con:Al castello de’ Lancia, sul verone29, madonna Bianca sta nauseata30.Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce31. Federico confida al suo falcone Deonomastico, dal nome del creatore di queste porcellane. Diversa (jacobpetit) la lezione delle edd. 1995, 1976, 1975 e dei Dss 4, 3 e 2. Identica a quella di Pantalica ( Jacobpetit), la lezione dell’ed. 1969.28 Si tratta di C.[ARLO] INCUDINE, Naso illustrata. Storia e documenti di una civiltà municipale (1882), rist. anast., Milano: Giuffrè, 1975.29 Lemma poetico per antonomasia. L’eco leopardiana risuona chiara, e. g.: D’in su i veroni del paterno ostel lo / Porgea gli orecchi al suon della tua voce (A Silvia, 19). Lo sguardo di Bianca si perde nell’orizzonte vuoto per l’assenza e la lontananza del suo innamorato.Il sospiro, reazione tra le piú umane in simili circostanze, sarà pure e comunque, per i personaggi qui coinvolti, da ricondurre tra i topoi dei canti di se parazione e lontananza di quel tempo e luogo. Tra tutti, e piú consono a quel particolare ambiente cortese,come non ricordare: Già mai non mi conforto / nè mi vo’ ralegrare; / le navi sono al porto / e vogliono collare di Rinaldo d’Aquino, o: O dolze mio drudo, e vatène dello stesso Federico II?30 Bianca Lancia d’Agliano, di cui si è invaghito Federico II Hohenstaufen, ha le nausee tipiche della gravidanza: porta in grembo Manfredi, il monarca con il quale soccomberà il progetto di unità e afferma zione imperiale del padre.31 Citazione dantesca. Nel ventre di Bianca si agita il frutto del seme di Federico II, per Dante il terzo ed ultimo monarca svevo (Soave, Soàvia <Schwaben ‘Svevia’). Cfr. Par.3,118-20: Quest’è la luce della gran Costanza / Che del secondo vento di Soave <Enrico VI> / Generò il terzo e l’ultima possanza.32 È nota la passione dell’imperatore per la caccia al falcone, tanto da essere considerato autore del Tractatus de arte venandi cum avibus. O Deo, come fui matto quando mi dipartivi là ov’era stato in tanta dignitate E sí caro l’accatto e squaglio come Nivi…33 [Sorriso, pp. 6-7].A quanto si vede, i luoghi sono propizi alle rievocazioni poetiche,nella fattispecie due-trecentesche, e Consolo e Piccolo s’incontrano sul sintagma dantesco.Gli echi interessano anche la toponomastica delle due opere:Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena,Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai primordi,alle origini della civiltà. [Pantalica, p. 147].Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli ulivi giacevano città. Erano Abacena e Agatirno, Alunzio e Apollonia, Alesa… Città nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni,fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni34. [Sorriso, p. 7].I due brani sembrano postulare un rapporto  bidirezionale: da antiquiore a recenziore e viceversa, se si considera che l’ultimo ne varietur consoliano sostituisce nel Sorriso del ventennale [1997]all’originaria coppia Alunzio – Calacte quella Alunzio – Apollonia derivata da Pantalica35.33 È la canzone fridericiana Oi lasso! non pensai di cui si citano alcuni versi della st. 3(ed. Panvini, XLIII, 12,21-25). L’attribuzione è però incerta (Panvini 1962), perché i mss discordano: per il Vaticano Latino 3793 l’autore sarebbe Rugierone di palermo, per il Laurenziano-Rediano 9, Rex Federigo.34 Non può passare inosservato che alcuni di questi toponimi volteggiano anche in una delle tirate finali del Viceré. Cfr. Lunaria, p. 61 (84): «Dov’è Abacena, Apollonia, Agatirno,Entella, Ibla, Selinunte? Dov’è Ninive, Tebe, Babilonia, Menfi, Persepoli, Palmira? Tutto è maceria, sabbia, polvere, erbe e arbusti ch’hanno coperto i loro resti. Malinconica è la storia.» È l’orizzonte da terra desolata di tante altre pagine consoliane, in cui la civiltà soccombe ciclicamente alla forza della natura e alle aggressioni autodistruttive dell’uomo.Si rileggano almeno quelle del Cap. I del Sorriso con “cerniera” testuale Quindi Adelasia,regina d’alabastro [pp. 10-11].35 Per l’esattezza, il binomio è Alunzio e Calacte nelle edd. 1995, 1987, 1976, 1969, nelle bozze dell’ed. 1975 e nei dattiloscritti preparatori denominati Dss 4, 3, 2. La lezione preferita dall’ed. 1997 e confermata da quella del 2004, oltre a concordare con la serie di Pantalica, p. 147, sembra quasi rispondere alla sollecitazione implicita nel commento di G. TESIO, ed. cit., p. 6, n. 9: «Fantastici e stranianti suonano anche i nomi sonori dei luo189 Concludendo, in questo fugace scrutare dietro le quinte di Lunaria,l’opera senz’altro più piccoliana di Consolo, si sono intraviste tracce del decantarsi della commemorazione piú compiuta del poeta, il trittico di Pantalica, e ne sono stati anche rilevati i punti che hanno forse avuto piú a che vedere con la storia del Sorriso.Ora, stando alla nostra incompleta escussione dei documenti del Fondo Consolo, di questo trittico, del suo farsi, non si può dire che, oltre quelle indicate, emergano altre pezze d’appoggio testimoniale. Tuttavia, sorprese, si sa, non se ne possono escludere,nell’assoluto ecdotico. E nel relativo consoliano, lo scrigno delle carte del Fondo personale milanese può sempre riservarne,sorprese, a chi erto possa e sappia guardarci dentro, Catharina et Vincentio faventibus36.ghi evocati, ai quali l’occhio sognante del Mandralisca si abbandona (tutti nomi, tranne uno, curiosamente inizianti con la prima lettera dell’alfabeto).» Non sono da escludere però, insieme al riuso del segmento di Pantalica, l’omaggio da parte dell’A. all’erudizione enciclopedica del Mandra lisca, ma anche la parodia della meticolosità e precisione scientifiche e un po’ pedanti di chi, come il protagonista, tutto vede e ripone nella sua memoria come volumi ben ordinati sugli scaffali della propria biblioteca. E cosa c’è di piú ordinato di un elenco alfabetico? Qui forse basterebbe solo il ritocco di una doppia inversione: Abacena e Agatirno, Alesa e Alunzio, Apollonia…, che però avrebbe soppresso l’effetto del doppio settenario suggerito dai binomi prescelti.36 Ancora un’altra manifestazione di fedeltà si può scorgere nello scritto consoliano che accompagna l’edizione del centenario della nascita del poeta: PICCOLO, L. (2001): Canti barocchi e Gioco a nascondere, Milano: Scheiwiller, in cui si puntano di nuovo le luci sul ritratto del 1967.190

BIBLIOGRAFIA
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Quanto ci mancano la penna e la spada di Sciascia.

di Vincenzo Consolo

«Chi sei?» domanda Danilo Dolci a Leonardo Sciascia durante il dibattito tenutosi al Circolo Culturale di Palermo il 15 aprile 1965. E Sciascia risponde: <<Sono un maestro delle elementari che si è messo a scrivere libri. Forse perché non riuscivo ad essere un buon maestro delle elementari. Questa può essere una battuta, ma per me è una cosa seria>>.

No, non è una battuta, perché sappiamo dalle sue Cronache scolastiche, pubblicate nel1955 nel numero 12 di “Nuovi Argomenti”, la malinconia, la pena, lo smarrimento e l’indignazione per le condizioni di quei suoi alunni di 5″ elementare, alunni poveri, figli di contadini e zolfatari. Pena e indignazione per le condizioni di Racalmuto, della Sicilia di allora e di sempre, sfruttata e umiliata dai “galantuomini”, oppressa dalla mafia. Inadeguato, incisivo, come si sente, nell’ insegnare, si mette a scrivere (ma Sciascia aveva già pubblicato, le Favole della dittatura nel 1950 e La Sicilia, il suo cuore nel 1952) e scrivere per lui, impugnare la penna, è come impugnare la spada, L’affilata, lucida e luminosa spada della ragione per dire, denunciare e quindi combattere i mali della società, le ingiustizie, le offese all’uomo, alla sua dignità. Aveva scritto Sciascia, nella premessa a Le parrocchie di Regalpetra, pubblicato nel 1956, parlando del suo paese, di Racalmuto: <<La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice – basta un colpo di penna – come dicesse un colpo di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso. Paolo Luigi Courier vignaiolo della Turenna e membro della legion d’onore, sapeva dare colpi di penna che erano colpi di spada; mi piacerebbe avere il polso di Paolo Luigi per dare qualche buon colpo di penna.,.>>, e ribadisce, nella conversazione con Dolci: «Io concepisco la letteratura come una buona azione. Il mio ideale letterario, la mia bibbia è Courier, l’autore dei libelli. Courier definì il libello una buona azione.,.>>. Anch’io <<in effetti non ho scritto che libelli». Il libello o pamphlet. E siamo nel ’65, quando già Sciascia aveva pubblicato vari libri di narrativa, fra cui Gli zii di Sicilia, Morte dell’inquisitore, Il giorno della civetta, Il consiglio d’Egitto. Ma libello, dice, nel senso di buona azione, di impegno civile, vale a dire, sia in campo narrativo che in campo saggistico o giornalistico. Dice, ancora in quell’incontro con Dolci: <<Ho scritto libri di storia locale, in un certo modo, nel tentativo di raggiungere un pubblico anche popolare. Cosa che parzialmente mi è riuscita. E il mio impegno – ormai è diventato quasi ridicolo palare di impegno – ma io continuo a ritenermi uno scrittore impegnato. Perché fin quando c’è una realtà che si deve mutare, pena proprio la morte, come il caso nostro della Sicilia, io ritengo che esiste l’impegno dello scrittore>>. Scrittura narrativa, dunque, e scrittura libellistica, e scrittura saggistica e scrittura. giornalistica. E in tutte le scritture Sciascia ha come principio, come cifra stilistica la chiarezza. <<Il problema della chiarezza è per me come se lo può porre un giornalista, non come se lo può porre un letterato>>. E qui, in tema di chiarezza, di scrittura chiara ed estremamente comunicativa, siamo nel problema dello stile. Scrive Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura: <<Lo sconfinare dei fatti politici e sociali nel campo di coscienza della letteratura. ha prodotto un nuovo tipo, diciamo, di scrittore situato a metà strada tra il militante e lo scrittore vero e proprio (…) Nel momento in cui l’intellettuale si sostituisce allo scrittore, nelle riviste e nei saggi nasce una scrittura militante interamente liberata dallo stile e che è come il linguaggio professionale della “presenza”>>. E ancora: «Nelle scritture intellettuali si tratta di scritture etiche, in cui la coscienza di chi scrive trova
 l’immagine confortante di una salvezza collettiva.
Ora, crediamo che la distinzione barthesiana tra scrittore e intellettuale la si possa applicare a tanti scrittori, a partire dall’ Émile Zola del caso Dreyfus, ma nel caso di Sciascia non è possibile vedere quella dicotomia. Perché in Sicilia, in Italia, i fatti politici e sociali sconfinano con una tale irruenza, costanza e urgenza nella coscienza della letteratura che non è più possibile, per uno scrittore come Sciascia, praticare una lingua, uno stile per la scrittura narrativa e un altro per la scrittura di “presenza” o militante. <<Sono le grandi cose da dire che fanno la lingua>> afferma Sciascia. E anche; «Credo nella ragione umana, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono>>. La ragione che dalla buia miniera di Racalmuto, dalla Sicilia, lo porta alla luce di quella regione, di quella città dove la lingua ha avuto la sua più alta e limpida declinazione, a quelle rive dell’Arno in cui Manzoni volle sciacquare i panni. Manzoni fino ai rondisti. «Debbo confessare che proprio dagli scrittori “rondisti” – Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a scrivere. E per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente in me restano tracce di tale esercizio>> scrive il Nostro nella prefazione alla seconda edizione del’67 delle parrocchie di Regalpetra. La fiorentina lingua dei rondisti, sì, ma scavalcando poi le Alpi e trovando più robusta consistenza in quella lingua “geometrizzata”, come la definisce Leopardi, che è il francese, la lingua dei suoi illuministi, degli amati Diderot, Voltaire e Courier, la lingua del suo “adorabile” Stendhal. Scrive Italo Calvino a Sciascia, in data 26 ottobre 1964 (la lettera è pubblicata nel numero 77 della rivista francese “LArc”, dedicato a Sciascia): <<Tu sei molto più rigoroso “filosofo” di me, le tue opere hanno un carattere di battaglia civile che le mie non hanno mai avuto, esse hanno una univocità che è loro propria nel pieno del pamphlet. (…) Ma tu hai, dietro di te, il relativismo di Pirandello, e Gogol tramite Brancati, e, continuamente tenuta presente, la continuità Spagna-Sicilia, Una serie di cariche esplosive sotto i pilastri dello spirito filosofico. Io m’aspetto sempre che tu dia fuoco alle polveri, le polveri tragico-barocco-grottesche che tu hai accumulato”. E questo potrà difficilmente prodursi senza una esplosione formale, della levigatezza della tua scrittura>>. Ma mai e poi mai Sciascia avrebbe dato fuoco alle polveri, avrebbe fatto esplodere il suo stile, la sua lingua illuministico-comunicativa. Poiché polveri, esplosioni e tragici continui crolli, caligini e disordini erano già nella realtà storicosociale della Sicilia, dell’Italia; libertà e giustizia erano in quelle realtà continuamente offese, offeso era il cittadino, l’uomo nei suoi diritti, nella sua dignità. E allora Sciascia, tagliente penna-spada, con quella limpida, luminosa lingua “geometrizzata” scrisse i suoi romanzi, racconti. pamphlet, articoli di giornale, con la barthesiana scrittura di “presenza” o militante. I fatti poi, i fatti siciliani, italiani erano (e, ahinoi, sono tuttavia, direbbe Manzoni) così gravi e urgenti da spingere Sciascia a scrivere, a intervenire sulle pagine dei giornali, a spingerlo a dire, a denunziare, a indicare là dove un male civile era in atto o avrebbe potuto manifestarsi. Ma in lui gli intellettuali giornalistici erano anche occasione di ripercorrere la storia, rivisitare episodi, indicare personaggi, libri, autori che quegli episodi ci fanno capire, di cui ci indicano la soluzione. Già, da anni lontani. dalla metà degli anni Quaranta, Sciascia comincia a scrivere sui “giornali, sulla “Sicilia del Popolo” e quindi sul ‘Corriere del Ticino”. la “Gazzetta del Mezzogiorno”. sul “Corriere della Sera”. “La Stampa”, oltre che su varie riviste italiane e straniere. Ma il suo rapporto più assiduo, costante e direi più connaturale, è stato con il giornale “L’Ora”.
Inizia nel 1955) con un articolo su Micio Tempio, la collaborazione se pure saltuaria, con quel glorioso giornale di frontiera. Ma è dal ’64 al ’67 che Sciascia tiene sul quel giornale la rubrica settimanale “Quaderno”. E il nuovo direttore del giornale, Vittorio Nisticò. approdato a Palermo nel 1955, per restare alla direzione di quel giornale fino al ’75, a invitare Sciascia, tramite Gino Cortese e Mario Farinella. A collaborare col giornale. E lo farà, Sciascia, fino agli ultimi suoi anni, fino a dettare alla figlia, poco prima di morire, una nota su Giuseppe Antonio Borgese. La grande firma di Sciascia si affiancava nella gloriosa storia dell’ “Ora”, Fondato nel 1900 da Ignazio Florio e diretto da Vincenzo Morello (Rastignac), a quella di Verga, Capuana, Borgese, Rosso di San Secondo, Serao, Scarfoglio, Brocca, Di Giacomo, Guglielminetti, Ojetti; e, alla grande firma di Sciascia, si affiancavano firme di scrittori e intellettuali a lui vicini: Guttuso, Caruso, Addamo, Renda, Marck Smith, Sapegno, Sanguineti, Lanza Tomasi, Franco Grasso, Dolci, Giarrizzo, Pantaleone, lo stesso che qui vi parla, ed altri ed altri ancora: per non dire di intellettuali entrati come giornalisti a “L’Ora”: Farinella, Cimino, Saladino. Perriera, Nicastro e altri. Il rapporto più stretto, più assiduo di Sciascia con “L’Ora” è stato, come dicevo, attraverso la rubrica settimanale “Quaderno”, che va dal 24 ottobre 1964 al 27 giugno 1967. Rubrica poi raccolta in volume, pubblicato nel ’91 dalla stessa editrice “L’Ora”. Nella introduzione da me scritta per quel volume, definivo Sciascia “scrittore di pensiero”, in contrapposizione a quello scrittore di sentimento che era Verga. E l’uno e l’altro quindi, con due visioni del mondo e con due stili, con due lingue diverse: l’uno, ripetiamo, con una chiara ed estremamente comunicativa lingua centrale” o illuministica; l’altro con un italiano “irradiato di dialettalità”, come l’ha definito Pasolini. L’uno con una lingua articolata, dialettica; l’altro con una lingua chiusa, circolare, come di versetti biblici o sure del Corano. E cosa più importante, dietro Sciascia e Verga vi erano due biblioteche. Dietro Sciascia vi furono quei dieci importanti libri in cui s’imbattè nella sua infanzia, e quindi la sterminata biblioteca del suo vasto, inesauribile sapere. Per cui la lineare chiara scrittura di Sciascia, aveva in sé delle vaste e profonde risonanze; era la sua, in modo esplicito o implicito una scrittura palinsestica (di riscrittura egli parlava). In Verga, invece, non c’era nessuna biblioteca (ci poteva essere, sì, Zola o Flaubert), c’era solo in luì la memoria di Acitrezza o di Vizzini, la memoria dei proverbi e dei modi di dire siciliani che egli traduceva appena, in italiano.
La Spagna, innanzitutto. La Francia, abbiamo detto, nel pensiero, ma, com’egli ha scritto, <<La Spagna nel cuore>>. La Spagna della Guerra civile, la Spagna di Cervantes e di Unamuno, quella dei poeti della generazione del ’27, antologizzati da Gerardo Diego, di Lorca, di Alberti, di Guillén, Cernuda. Machado, Salinas, Aleixandre, Alonso .,. La Spagna di Manuel Azana, l’ultimo presidente della repubblica spagnola, l’autore de  La veglia a Benicarlò, che Sciascia aveva tradotto e introdotto per Einaudi. La Spagna ancora di Hemingwy e di Malraux, della città martire di Guernica e di Picasso dell’architetto Gaudì e di Robert Capa, della sconfitta dell’esercito fascista italiano a Gudalajara. Spagna e quanto di Spagna, attraverso lo schema del grande storico Américo Castro, è rimasto in Sicilia. Rimasto nelIa sua storia, nei costumi, nel modo di essere. Rimasto in quell’atroce fenomeno dell’lnquisizione. Inquisizione che è sì quella del Santo Uffizio a Palermo, del suo carcere qui. in questo palazzo dello Steri, dei messaggi degli inquisiti, dei Palinsesti del carcere. Quella Spagna e quella Sicilia di dolore e di orrore da cui sono scaturiti i racconti L’antimonio, Morte all’inquisitore, il Consiglio D’Egitto. Si chiude sì il Santo Uffizio a Palermo e il suo carcere, il giorno 27 marzo 1782, viene abbattuto l’orribile mostro”, come scrive il marchese Caracciolo al suo amico d’Alambert, ma le inquisizioni e le carceri continuano in Italia e nel mondo, là dove impera il “sonno della ragione” e si commettono ludibri, oscene vergognose violenze di uomini contro altri uomini, Di questo parlano, per esempio, le pareti delle carceri naziste o staliniste le carceri di via Tasso a Roma, così le pareti delle carceri argentine o cilene o greche, delle dittature dei colonnelli o di Pinochet; così oggi, e ancora con maggior ludibrio palano le pareti delle carceri americane in Iraq, di Abu Ghraib e quelle di Guantanamo. E, a proposito dell’Inquisizione a Palermo, Sciascia scrive ancora sul “Quaderno” del 21 novembre 1964: << II 19 agosto del 1953 incappò foco a due dammusi di polveri» nel castello a mare di Palermo: <<et essendo vicine le carceri, tutte le scacciò>>. Tra quei prigionieri di Castellamare perirono Argisto Giuffredi, autore di quel libretto (che precorre Beccaria) contro la tortura e la pena di morte intitolato Avvertimenti Cristiani, e il poeta Antonio Veneziano, che, nei bagni di Algeri, aveva conosciuto e stretto amicizia con Cervantes.
Tanti, tanti sono i tempi svolti da Sciascia in quei 125 articoli, scritti trai,’64 eil’67 per il “Quaderno”. Articoli che prendono spunto di volta in volta da fatti di cronaca – di mafia soprattutto -, da letture, viaggi, incontri, accadimenti politici, polemiche. Fra queste ultime vogliamo ricordare quella del 21 febbraio col giornalista dell’“Avanti!” Fidia Sassano. Il quale rimproverava a Sciascia di essere pessimista nei confronti del futuro della Sicilia, nonostante la miracolosa scoperta del petrolio in Sicilia, la presenza del “colosso europeo” del petrolchimico di Priolo, Melilli, Gela. E, dice Sassano a Sciascia: <<Questi benedetti letterati!». Ma benedetto letterato non era Sciascia allora, lo è stato invece, e ci dispiace dirlo, Vittorini, che in quel “petrolio siciliano” aveva visto il risveglio e il riscatto dei siciliani ed era stato indotto a scrivere Le città del mondo, uscito postumo. Del disastro, dello sfacelo di quell’utopia industriale che era stato il petrolio siciliano, Sciascia ne vede, profeticamente, il fallimento, così come profeticamente vede il fallimento del Psi, il Partito socialista italiano, cui Fidia Sassano appartiene. Quel partito socialista che alla sua fine, come frutto avvelenato, ci avrebbe lasciato in eredità un uomo e un partito: Berlusconi e Forza Italia, del cui potere o strapotere tutti soffriamo e di cui ci vergogniamo. Scriveva Sciascia: <<Sassano appartiene a quella categoria di socialisti che io chiamo soddisfatti: talmente soddisfatti che dalle loro soddisfatte viscere si possono trarre auspici non del tutto rassicuranti per il nostro immediato e lontano avvenire >>. Potrei ancora dire d’altri temi e d’altri spunti. Dire che questo illuminista interviene sempre là dove la ragione è offuscata, la libertà conculcata, il cittadino, l’uomo offeso. Ed è certo che la sua “conversazione” sempre dalla Sicilia parte e alla Sicilia si riduce, a quest’isola che duole al siciliano Sciascia, a questa regione in cui i siciliani onesti si ritrovano sempre “con la faccia per terra”, quei siciliani di “alta dignità e di tenace concetto” che non hanno meritato tutti i malgoverni locali e nazionali del passato, non meritano quelli nefasti e vergognosi di oggi, a Palermo e a Roma. Ci è mancato dal 1989 e ci manca ancora oggi e ogni giorno di più uno scrittore e un intellettuale come Leonardo Sciascia. Ci manca la sua penna, la sua spada. Come ci è mancata e ci manca quella di un suo confrère, di Pier Paolo Pasolini, il Pasolini delle Lucciole, del Palazzo, il Pasolini corsaro e luterano. Luterano come Sciascia, come pochi altri in questo Paese segnato da sempre da viltà e conformismo. Nel deserto e nella malinconia di questo nostro attuale Paese, di questo nostro contesto occidentale, ci conforta sapere che è stato qui con noi, per noi, un uomo come Leonardo Sciascia. Ci conforta sapere che possiamo tornare a rileggere le sue forti e luminose parole.

da Kalos “Sciascia il romanzo quotidiano”
2005 Gruppo editoriale Kalos

Teriomorfismo e malinconia Una storia notturna della Sicilia: Nottetempo, casa per casa di Consolo Rossend Arqués

copertina-nottetempo

 

Quaderns d’Italià 10, 2005 79-94

Teriomorfismo e malinconia Una storia notturna della Sicilia:
Nottetempo, casa per casa di Consolo

Rossend Arqués

Universitat Autònoma de Barcelona

Abstract

L’articolo vuol essere una lettura di Nottetempo, casa per casa che prende spunto dall’analisi del sostrato mitico e iconografico delle rappresentazioni teriomorfiche più importanti del romanzo (il «luponario» e il «caprone») per sottolineare il cammino del protagonista dall’afasia animale e malinconica in cui è immersa la sua famiglia, e lui stesso, all’accesso al linguaggio accompagnato dalla presa di coscienza della decadenza della società siciliana che coincide anche con il suo esilio. Parda chiavi: Vincenzo Consolo, licantropia, Pan, malinconia, letteratura siciliana.
Abstract

The article aims at providing a reading of Nottetempo, casa per casa, starting with the analysis of the mythological and iconographic substrata of the most significant theriomorphic representations within the novel (the «lycanthrope» and «goat») in order to emphasise the path taken by the protagonist from that animal, melancholy aphasia in  which he and his family are immersed, through to the access to language, accompanied by the growing awareness of the decadence of Sicilian society that also coincides with his exile.

Key words: Vincenzo Consolo, lychanthropy, Pan, melancholy, Sicilian literature.

  1. Nottetempo… all’interno del trittico consoliano
    La notte, la notte mitica, ha tutti gli elementi dell’incubo. Nottetempo, casa
    per casa (1992)1 nella trilogia che ha inizio con Il sorriso dell’ignoto marinaio
    (1976) e si conclude con Lo spasimo di Palermo (1998), occupa il secondo momento del periodo storico che Consolo ha dedicato alla Sicilia, il primo essendo il Risorgimento e gli anni che precedono l’assassinio del giudice Borsellino.
    2 Si tratta di un periodo della storia siciliana (siamo negli anni Venti),quello di Nottetempo, nero come le camicie dei fascisti che piano piano riempiono le piazze dei paesi e delle città d’Italia. Più concretamente, ci troviamo a Cefalú, già scenario de Il sorriso…3 Anni difficili, non solo per le vicende politiche, ma anche e soprattutto per quelle morali, come tanti altri della storia italiana. Consolo ha sempre agito come una memoria attenta e sensibile del passato che viene accostato agli avvenimenti più recenti di cui egli è testimone e interprete. In Nottetempo… Consolo stabilisce implicitamente un nesso tra l’Italia degli anni Venti e quella degli anni Settanta, così come nel Sorriso…tra il Risorgimento e gli anni Sessanta e nello Spasimo…tra gli anni 30 e l’inizio degli anni 90, con le morti di Falcone e Borsellino. Fasi storiche tutte segnate da successive cadute della società isolana e continentale in un pozzo senza uscita e senza possibilità di riemersione. «Traversare la Sicilia intera —scrive Consolo in un articolo intitolato «Paesaggio metafisico di una follia pietrificata »
    4 — , visitare quelle città e quei paesi un tempo vitali per umanità e cultura, carichi dunque, ancora fino a pochi anni addietro, di volontà e di speranza, luoghi che il moderno feticcio dell’accelerazione spasmodica, l’autostrada, ha tagliato fuori dallo spazio (…); visitare oggi Enna, Caltanissetta (…)più che accenderti furori, inutili ormai, ti infonde sconsolazione e pena. Sono paesi che si sono svuotati d’uomini e significato».5 Seguendo gli esempi di Manzoni, Verga e, soprattutto di Tomasi di Lampedusa e Sciascia, l’autore sceglie la formula narrativa del romanzo storico con questo obiettivo: collocare in figure, luoghi e trame del passato problemi e sentimenti del presente, che altrimenti risulterebbero non solo difficili da trattare ma addirittura pericolosi. Ne era ben conscio Calvino quando stabilì un parallelismo tra la narrazione realista e la Medusa. Per sfuggire allo sguardo pietrificante del mostro mitologico non resta nessun altro modo che osservare   la realtà attraverso la corazza-specchio di Perseo. La narrazione storica di Consolo ha questa funzione di corazza-specchio: proprio allontanandosi dal presente, essa è in grado di coglierlo, analizzarlo e giudicarlo, mentre riesce contemporaneamente a immergersi con spirito critico e analitico nel momento storico preso di volta in volta in esame, senza mai tralasciare la dimensione del mito nelle sue diverse sfaccettature, soprattutto di quei miti arcaici che hanno dato essenza e forma alla natura umana e morfologica della terra di Sicilia Come lo stesso Consolo ha dichiarato in «Le interviste d’Italialibri» 2001, anche se molte altre sue opere percorrono episodi ed eventi dell’isola: quello greco (Le pietre di Pantalica), quello dominato dagli spagnoli (Lunaria), quello illuministico (Retablo), ecc.«E Cefalù è stata un approdo, un luogo d’elezione e di passione. Perché Cefalù e non Palermo? Cefalù perché microcosmo, antifona di quel gran mondo che è Palermo […]. Io ho scelto Cafalù. Sono piccoli mondi così ricchi dentro il cui viaggio, la scoperta può non finire mai.» «La corona e le armi», Giornale di Sicilia, 14 marzo 1981.Pubblicato il 19 ottobre 1977 su Il Corriere della sera, cit. da Francesco GIOVIALE, «L’isola senza licantropi», in Id., Scrivere la Sicilia. Vittorini e oltre, Siracusa: Ediprint, 1983, p. 165-176.Lo stesso messaggio possiamo trovarlo in altri articoli e testi suoi. Citiamo a mo’ di esempio «La cultura siciliana è tramontata per sempre», L’Ora, 31 maggio 1982 e «Flauti di reggia o fischi di treno?», Il Messaggero, 19 luglio 1982. lia. Una narrazione storica, cioè, rivolta programmaticamente a evitare ognirealismo politico e storico, e alla ricerca di un nuova lingua letteraria capace di unire, condensare e quindi conservare fuse tra loro tutte quelle tracce. Di questo aveva già parlato Giovanardi in una sua bellissima recensione a Nottetempo…in cui sostiene che piú che a una storia questo romanzo sembra dar vita a una contrapposizione tra due diversi modelli di vita e di cultura, due modelli antropologici da sempre compresenti nello spazio insulare,6 e cioè la cinica accettazione dell’esistente e il pervicace ricorso alla fantasia come fuga dalla realtà.
    7 Ciò detto, però, non si può dimenticare che lo stesso Consolo ha insistito piú volte sulle fratture prodottesi nel tessuto sociale, ambientale e antropologico insulare in periodi concreti della storia siciliana piú recente (si veda a questo proposito il citato articolo Paesaggio metafisico… in un punto del quale leggiamo: «È il paesaggio della nuova umanità siciliana, uguale ormai, per perdita di cultura e di identità, alle altre realtà regionali italiane nate dallo squallore consumistico degli anni del cosiddetto boom economico»).
    8 Per stabilire fin dall’inizio la metodologia di questo mio lavoro, devo informare che la mia lettura di Nottetempo… parte dalle teorie analitiche junghiane e, in particolar modo, di quelle di Hillman, non perché io abbia una particolare predilezione per questo approccio critico, ma perché credo che effettivamente questo testo narrativo, come gran parte dell’opera consoliana, trovi spunto nell’universo degli archetipi di derivazione junghiana.
    9 Stefano GIOVANARDI, «Dalla follia alla scrittura», in La Repubblica, 25 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 152]. Si vedano anche Giulio FERRONI, «Bestie trionfanti», in L’Unità, 27 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 153-157]; Francesco GIOVIALE, «L’isola senza licantropi», in Id., Scrivere la Sicilia. Vittorini e oltre, Siracusa: Ediprint, 1983, p. 168; Francesco GIOVIALE, op. cit., p. 168; Lorenzo MONDO, «Invasati e dolenti», in La Stampa, 4 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 147-148]; Attilio SCUDERI, Scrittura senza fine. Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo, Enna:

Il Lunario, 1997; Giuseppe TRAINA, Vincenzo Consolo, Fiesole: Cadmo, 2001.

  1. L’autore stesso in un articolo del 1986 intitolato «Sirene siciliane» (ora in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano, Mondadori, 2001, p. 175-181), tenta di dividere la letteratura siciliana in due grandi rami: «occidentale e orientale, storico e esistenziale, poetico-lirico e prosaico, mitico e razionale, simbolico e metaforico», con tutti gli spostamenti e le contraddizioni del caso, fino ad ipotizzare una letteratura siciliana che riesca a fondere i due mondi: «E poi a me sembra di aver capito che tu, come capita ad alcuni siciliani della specie migliore, sei riuscito a compiere la sintesi di sensi e di ragione — dice La Ciura a Corbera» [i due personaggi del racconto Lighea di Tommasi di Lampedusa]. Quella sintesi che lui stesso tenterà in Nottetempo…, se non in tutta la sua opera.
  1. Un argomento simile si legge nell’articolo di Vincezo CONSOLO, «La cultura siciliana è tramontata per sempre», pubblicato su L’Ora (31 maggio 1982): «Con la seconda rivoluzione industriale, con la rivoluzione tecnologica, con i movimenti umani avvenuti nel nostro Paese in questi ultimi trent’anni, con i cambiamenti antropologici che questi movimenti hanno comportato, sono finite le culture locali, quelle che avevano una loro precisa individualità, una loro storia, una loro realtà «realtà». La cultura siciliana secondo me è tramontata».
  1. L’influsso hillmaniano è accertato. Lo stesso Consolo mi ha informato che un suo amico, Giovanni Reale, analista e filosofo junghiano, l’aveva introdotto a questo tipo di letture, tra cui c’erano anche alcuni libri di HILLMAN di cui qui mi preme sottolineare in particolarmodo, Saggio su Pan, Animali del sogno e Il sogno e il mondo infero. In un articolo intitola
    2. Licantropia: dolore e cosciencia
    Di che notte si tratta e quali sono le creature che vivono quella pittura notturna
    dominata dalla animalità e dal teriomorfismo? Passiamo ad analizzare,
    dunque, dettagliatamente e in profondità le diverse facce della bestialità e le
    funzioni che esse hanno nel testo oggetto della nostra attenzione. Non avrebbe
    senso, infatti, ridurre a una sola tutte le forme di animalità presenti nell’opera,
    omettendo di mettere in luce le differenze morfologiche e mitologiche di ciascuna di loro.
    10 Il romanzo ha inizio con la descrizione di un notturno lunare dominato
    da un uomo in pieno delirio, il cui terribile ululato squarcia il silenzio delle
    tenebre. Dietro a lui vaga attenta e angosciata un’altra figura, che in seguito sapremo essere il figlio, vero protagonista del romanzo. Il licantropo è Marano
    (il cognome derivato dallo spagnolo marrano ci dice delle sue origini di ebreo convertito a forza), padre di Pietro, vedovo. Il suo dolore straziante, insieme a quello di tutta la sua famiglia, è causato sia dal lutto per la perdita della sposa, sia dalla «memoria genetica» della violenza subita dagli antenati ebrei obbligati a cambiare cultura e religione,11 sia dall’ascesa sociale che lui e la sua famiglia hanno recentemente sperimentato grazie all’eredità lasciatagli da un eccentrico possidente locale, una specie di libertario tolstoiano che ha voluto beneficare la famiglia Marano al posto del suo legittimo erede, il nipote imbecille. Questo cambio repentino e non voluto di classe sociale sarà responsabile di una specie di schizofrenia comportamentale, almeno per quei personaggi femminili che si sentono obbligati a osservare scrupolosamente le regole sociali della piccola borghesia, per quanto diverse da quelle in cui sono nati e cresciuti.
    12 Un chiaro esempio di questo ci è offerto dal rifiuto di Lucia non solo di accettare ma neppure di ascoltare la dichiarazione d’amore di Janu, il capraio e amico d’infanzia, ora considerato solo un puzzolente pezzente. La famiglia Marano corrisponde a un catalogo di figure malinconiche, a una «follia dai molti volti», come scrive Segre.
    13 Serafina, la sorella maggiore di Pietro, rappresenta l’immagine stessa della fenomenologia depressiva che la porta all’immobilità corporale, alla pietrificazione autistica o alla schizoto «Sirene siciliane» (ora in Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, cit., p. 175-181) che prende spunto dal racconto Lighea, di Tomasi di Lampedusa, per parlare di altre sirene siciliane, tra cui Giovanni Reale, leggiamo (p. 181): «Se è vero, come sostiene Hilmann, che la pratica analitica non è altro che poiesis, quella di Reale lo è pienamente». Come fa, invece, Rosalba GALVAGNO, «Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa», in Enzo PAPA (a cura di), Per Vincenzo Consolo, San Cesario di Lecce: Manni, 2004, p. 23-58, che considera l’intero testo di Nottetempo… solo dal punto di vista della licantropia, senza avvertire la dialettica tra questa forma di animalità e le altre forme di trasformazione umana in bestia che sono presenti nello stesso testo consoliano.
  1. «Da quel cognome suo forse di rinnegato, di marrano di Spagna o di Sicilia, che significava eredità di ànsime, malinconie, rimorsi dentro le vene» — si legge a p. 42.Come chiarisce Vincenzo CONSOLO in «Le interviste d’Italialibri» 2001. Cesare SEGRE, «Una provvisoria catarsi», in Corriere della sera, 19 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 150]. frenia catatonica,14 così come ci è stata rappresentata iconograficamente nei secoli.
    15 La figlia minore, Lucia, invece, psichicamente alterata dal nuovo status della sua famiglia, è affetta da una psicosi maniaco-depressiva, in preda, com’è, a un continuo delirio paranoico.16 Parleremo di Pietro in seguito, dedicandogli più ampio spazio, per adesso occupiamoci del padre e del suo male «siciliano», come lo definisce Cervantes nel Persiles (I, 18).17 Non c’è dubbio che la descrizione cervantina, lasciando da parte il particolare del movimento in gruppo («en manada») dei lupi, è presente sia nell’immaginario narrativo di Mal di luna di Pirandello18 che nel testo di Consolo, pur con la presenza in entrambi dell’elemento lunare,19 assente, invece, in Cervantes. Colpisce, «E Serafina, ch’aveva preso il ruolo della madre e poi s’era seduta, fatta muta ogni giorno, immmobile, di pietra, dentro nella scranna, il solo movimento delle dita che sgranano il rosario di poste innumerevoli, di meccaniche preghiere senza soste.» — si legge a 42. Per una tassonomia attuale di questa malattia depressiva si veda Eugenio BORGNA, Malinconia, Milano:Feltrinelli, 1992 e Marie-Claude LAMBOTTE, Esthétique de la mélancolie, Paris: Aubier, 1984.Quest’ultima vede nell’inibizione il tratto più significativo della malinconia moderna.Ricordiamo qui le incisioni del Maestro F. B. (Franz Brun?) (1560), A. Janssens (1623),Feti (1614) o C. Friedrich (1818), si veda Raymond KLIBANSKY, Erwin PANOFSKY, Fritz SAXL, Saturno e la malinconia, Torino: Einaudi, 1983.
  1. Il narratore ci parla della sua malattia a p. 45-48, da dove prendiamo le seguenti frasi: «Lei era innocente, immacolata come la bella madre. E stava ore e ore chiusa nella stanza, avanti alla toletta a pettinarsi» (…) Finché un giorno, un mezzogiorno (…) non si mise a urlare disperata sul balcone, a dire che dappertutto, dietro gli ulivi le rocce il muro la torre le sipale, c’eran uomini nascosti che volevano rapirla, farla perdere, rovinare (…) «Mi parlano, mi parlano!» diceva stringendo la testa fra le mani». «Nell’orecchio, nel cervello, vigliacchi!’e torbidi erano i suoi occhi, più neri nel pallore della faccia.». Per una tassonomia moderna della sua delirante afezione psicotico-paranoica si veda Eugenio BORGNA, Op. cit.«Lo que se ha de entender desto de convertirse en lobos es que hay una enfermedad, a quienlos médicos llaman manía lupina, que es de calidad que, al que la padece, le parece que sehaya convertido en lobo, y se junta con otros heridos del mismo mal, y andan en manadaspor los campos y por los montes, ladrando ya como perros o ya aullando como lobos; despedazanlos árboles, matan a quien encuentran y comen la carne cruda de los muertos, y hoy día sé yo que hay en la isla de Sicilia (que es la mayor del Mediterráneo) gentes deste género,a quienes los sicilianos laman lobos menar, los cuales, antes que les dé tan pestífera enfermedadlo sienten y dicen a los que están junto a ellos que se aparten y huyan dellos, o que losaten o encierren, porque si no se guardan, los hacen pedazos a bocados y los desmenuzan,si pueden, con las uñas, dando terribles y espantosos ladridos.», Miguel de CERVANTES, Lostrabajos de Persiles y Sigismunda, ed. di Carlos Romero, Madrid: Cátedra, 2002, p. 244. D’altronde l’autore del Quijote poco si allontana dalla iconografia tradizionale dell’uomo lupo, così come è attestata nel Licaone di Pausania o di Ovidio. Si veda Paola MICOZZI, «Tradición literaria y creencia popular: el tema del licántropo en Los trabajos de Persiles y Segismunda de Cervantes», Quaderni di filologia e lingue romanze, III serie, n. 6, 1991, p. 107-152.Luigi PIRANDELLO, «Mal di luna», in Novelle per un anno, vol. II, t. I, a cura di M. Costanzo,Introduzione di G. Macchia, Milano: Mondadori, 1987, p. 486-495.La presenza della luna, invece, diventa elemento costante e ricorrente in particolar modo a partire dal XIII secolo, anche se nel Satyricon di Petronio era già stata descritta una metamorfosi lupina al chiaro di luna. Si vedano Gaël MILIN, Le chiens de Dieu, Centre de Recherche Bretonne et Celtique, 1993 (trad. it. El licantropo, un superuomo?, a cura di Jose Vincenzo Molle, Genova: ELCIG, 1997: p. 60-64) e P. MENARD, Les lais de Marie de France, París:P.U.F., 1979. In quest’ultimo leggiamo a p. 222-223. «So bene — scrive Gervasio di Tilbury al capitolo CXX (De hominibus qui fuerunt lupi) della terza parte degli Otia — che nel in merito a questo, la supplica che il malato dirige ai familiari di allontanarsi da lui quando arriverà l’attacco del male. Inoltre è importante qui sottolineare che il male della licantropia20 viene attribuito da Cervantes alla terra siciliana, 21 e abbiamo già visto che Consolo nel citato articolo Paesaggio metafisico…dichiara che l’identità arcaica dell’isola risiede appunto nell’esistenza di forme di bestialità terrorifica: nostro paese càpita ogni giorno che certe persone siano mutate in lupo sotto l’influsso delle lunazioni (per lunationes mutantur in lupus)». Con il corpo coperto di pelo, l’infermo correva per i boschi, in preda al delirio, celandosi allo sguardo altrui e attaccando ferocemente persone o animali con cui s’imbatteva. Passata che era la crisi, la persona malridotta, di solito un uomo (è una malattia prettamente maschile, per quanto ci siano versione femminili di trasformazioni zoomorfe, come la donna-pantera), tornava in sé dimentico dell’attacco di follia. Questa versione del problema ha alimentato molta letteratura scritta e cinematografica, fino al punto che Boris Vian (Le loup-garou) ne fece una versione inversa, il lupo che si trasforma in uomo, cioè, il lupo-uomo. Chiamati anche ulfhednar (uomini vestiti di pelli di lupo), i lupi mannari facevano parte tranquillamente delle truppe delle antiche popolazioni germaniche e scandinave in quanto eccezionali combattenti. La licantropia (dal greco lykos, lupo, e anthropos, uomo), cioè la trasformazione di un uomo in «lupo mannaro», il «luponario», per effetto di una forza malvagia o di uno spirito animale capace d’impossessarsi di un essere umano e agire attraverso di lui, non solo ha riempito leggende e storie di tutto il mondo, ma è stata da alcuni considerata una vera e propria infermità mentale. Una malattia che portava a chi la soffriva ad assumere l’aspetto di un lupo, almeno per un periodo di tempo non troppo lungo, coincidente il più delle volte con il plenilunio. Si veda Gabriele CHIARI, «Il lupo mannaro», in Lützenchirchen, Mal di luna, Roma: Newton Compton, 1981, p. 57-81; J.A. MAC CULLOCH, «Lycanthropy», in J. HASTING (a cura di), Enciclopedy of Religion and Ethics, tomo VIII,206-220; Gaël MILIN, Op. cit. e Ermanno PACAGNINI, «Uno sguardo amaro e memoriale», in Il Sole-24 ore, 5 aprile 1992 [ora in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 148-149];P. BLUM, The Bordeline Childhood of the Wolf-Man, in Freud and his patients, a cura di Kanzer e J. Glenn, II, New York-London, 1980, p. 341-58; S. CAMPANELLA, Mal di luna e d’altro, Roma: Bonacci, 1986; Gilbert DURAND, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Paris, Bordas, 1969; M. GARDINER (a cura di), The Wolf-Man by the Wolf-Man, New York, 1971; Carlo GINZBURG, «Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari», in Id, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Torino: Einaudi, 1992, p. 239-251; F. HAMEL, Human animals, Wellingborough: The Aquarian Press, 1973; Th. LESSING, Haarmann. Storia del lupo mannaro, trad. it. Milano: Adelphi, 1996; Guglielmo LÜTZENKIRCHEN et alt., Mal di luna, con un saggio introduttivo di Alfonso M. Di Nola, prefazione di Nando Agostinelli, Roma: Newton Compton editori, 1981; R. VALENTI PAGNINI, «Lupus in fabula. Trasformazioni narrative di un mito», in Bolletino di studi latini, n. 11, 1981, p. 3-22. Ringrazio l’amico Giosuè Lachin, esperto in luponari, l’arricchimento della mia biblioteca sull’argomento. Carlos ROMERO (en su edición de Miguel de Cervantes, Los trabajos de Persiles…, cit, 244-245) commenta a nota 15 de la p. 244: «[Cervantes] tendría oído y memoria suficiente para recordar un termino siciliano, aunque no privativo, desde luego, «de la mayor isla del Mediterráneo», en la que — no lo olvidemos — vivió bastantes meses y pudo tenerefectivo conocimiento de casos de licantropía o manía lupina. En DEI, art. lupomannaro, se lee: «V[oce] di orig. merid., che raggiunge la Sicilia, cfr. abr.[uzzese], lopëmënarë, dal molfett[ano] lëpòmërë, cal[abrese] sett. lëpuómmërë, dal la.t. regionale lupus homines (…) Si error de transcripción sigue habiendo, por parte de C., es ahora mínimo — y comprensible dada la ardua fonética de los dialectos del sur de Italia.» Io penso, invece, che l’etimologia di «luponario» provvenga dal latino lupus hominarius. Un urlo bestiale rompeva il silenzio nella notte di luna piena. Ed era uno svegliarsi, un origliare dietro le porte serrate, uno spiare dietro le finestre socchiuse, un porsi in salvo al centro dei crocicchi o impugnare la lama per ferire alla fronte e far sgorgare gocce di nero sangue. Il licantropo s’aggirava per l’abitato, a quattro zampe, ululando, grattando, le porte, con le sue unghie adunche. Il lupo mannaro era l’incubo, lo spavento notturno, nella vecchia cultura contadina, carico di male e malefizio, contro il quale opponeva crudeli gesti esorcistici. La rappresentazione del licantropo che ulula alla luna all’inizio della narrazione consoliana non lascia indifferenti. La metafora dell’uomo lupo ci parla del dolore straziante di alcuni esseri umani — forse anche dell’intera umanità intesa come singoli individui, famiglie o intere società — contro i quali il destino si è accanito da decenni, se non addirittura da secoli, sotto forma di sfruttamento,depredazione, violenza fisica e morale. Condizione aggravata, nel caso dei Marano e della società siciliana degli anni Venti, dall’avvento del capitalismo selvaggio e soffocante e dall’ascesa del fascismo. La metafora dell’uomo lupo ci parla ancora dell’impossibilità di reagire da parte delle vittime di tale accanimento, se non attraverso la pazzia (di Lucia), la metamorfosi e le urla bestiali (di Marano padre) o il silenzio (del protagonista, Pietro, e di sua sorella Serafina). La licantropia di Marano padre si pone al di là della densità mistica e folclorica della licantropia e del licantropo in generale, già studiata da alcuni autori. C’è infatti in essa una eco di afflizione amorosa che ricorda l’acme dello stato di malinconia d’amore, descritta dal medico catalano Arnau di Vilanova, e da lui denominata cicubus, nel De parte operativa (1271). Tra i sintomi del male non vi è soltanto l’orrore e l’odio irrazionale per la società, ma la convinzione di essere «galli, lupi, cani, vasi di vetro, o di avere la testa di vetro o persino di essere senza testa o anche morti».22

Anche il lessico e il ritmo poetico del primo capitolo ci ricordano i poeti lunari che sono, per sua stessa ammissione, i preferiti di Consolo e che non a caso formano con le loro opere la biblioteca ereditata dalla familia Marano e quella privata di Pietro. Penso in particolare a Leopardi (ma riferendoci all’autore, dovremmo citare anche Lucio Piccolo) i cui idilli notturni sono l’ipotesto di alcuni dei momenti di altissima poesia delle descrizioni di questa parte. Basti un esempio: «Nelle solinghe case sopra il colle, scossi nel pietoso sonno del ristoro, credettero ai passi di mali cristiani, ladri o sderegnati che la notte e il vuoto covrono e incorano». Alla base di questo nucleo narrativo-descrittivo c’è dunque la rappresentazione del malessere dell’umanità o almeno, di quella parte di essa, vittima di soprusi sociali, senza però mai perdere di vista i riferimenti di tipo mitico e archetipico. Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 85 «Alienatio, quam concomitatur horror, vel odium irrationabile sive immoderatum, et frequenter haec species manifestatur in errore societatis humanae, vel cuiuscumque individui humani (…) Verbi gratia: de melancholicis, utrum aestiment se gallos esse, vel lupos, aut canes, etc. vel utrum esse vitrea vasa, vel caput vitreum, aut non habere caput: et sic de membris aliis: aut se esse mortuos, et non debere comedere.» Tenendo ben presente questi due ultimi aspetti, a questo punto dell’analisi emerge prepotentemente la tipologia bestiale di Pan, il grande caprone, figura mitica e archetipica, contrapposta per morfologia e comportamento al luponario che, con le sue zanne e in solitudine, è costretto a vivere il suo calvario lunare. A Pan è dedicata qui di seguito una particolare attenzione. Janu o il ritorno e la nuova morte di Pan «Jeli, lui, non pativa di quelle malinconie», scrive Verga parlando del pastore protagonista della novella omonima.23 E si potrebbe sostituire «Jeli» per «Janu», tale è il collegamento tra il personaggio verghiano e quello di Consolo. Janu, però, è molto di più. Si tratta, innanzi tutto, di uno dei personaggi principali e dei più simbolici della narrazione, visto che le sue vicende occupano gran parte del testo, senza le quali non avremmo diegesi. Egli, come Jeli, è figlio, fratello, amante degli animali con cui vive. Entrambi i protagonisti delle  ispettive

narrazioni sono anche i pastori che, tra le altre cose, iniziano i giovani figli di famiglia agiata alla conoscenza della natura: Petro (e anche sua sorella Lucia), nel romanzo oggetto di questa analisi. Anzi, l’iniziazione sessuale di Petro, a imitazione dello stesso Janu, avviene con le capre en plein air. Petro aveva imparato tuttto dalla mandra (…). Avanti Janu, che aveva più di Petro un paio d’anni. E l’aiutò per questo, là alla mandra, a provare una volta con la capra. «Io la tengo,» disse «sta’ sicuro che non guardo… «Meglio che niente, è cosa naturale…» Una capra lui stesso, Janu («la faccia lunga come quella di una capra»), non proprio incarnazione del dio Pan, ma certo di uno dei suoi fauni. Janu, inoltre, ha un nome che denuncia l’ambivalenza della sua condotta. Giano è infatti il nome del dio bifronte che annuncia i transiti dal passato al futuro e i cambiamenti da una condizione a un’altra. Janu nel racconto è il protagonista principale del passaggio da un mondo nel quale il mito è vissuto ancora in forma pressocché «naturale», con i suoi riti e rappresentazioni cicliche, a un mondo in cui, invece, il mito è forzato a rinascere imparentato con il diavolo o, meglio detto, trasformato nello stesso Satana. Janu è sì la divinità panica («Piace your divine prick, a real satyr’ tool. This sicilian caprone entrare in nostro ovile… Vene, prego, a nostro Tempio, a villa di La pace, all’Abbèi de Thelèm», dice Cronwell, p. 80) che Aleister Crowley — la Grande Bestia 666, to mega therion— cercava negli antenati dell’isola dei satiri, ma anche la vittima propiziatoria del nuovo culto al dio Pan nella sua versione decadente di stregone o diavolo, propria dei costrutti mitici delle contemporane teorie della liberazione. Ma Pan è morto ormai da tempo e il suo ritorno non dipende da Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 86
23Cit. da Giovanni VERGA, Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano: Mondadori, 1979,137-172. queste forme superficiali e decadenti di rievocazione mitica, tutte intrise come sono di erotismo sadomasochista e pertanto non soltanto incapaci di guarire, ma al contrario, buone solo ad ammorbare corpo e anima. Il mito della morte di Pan (Pan, le Grand Pan, est mort) già ascoltato nella tarda antichità, indica che la natura ha finito di parlarci e che tutto è reificato, cessando di essere divinità e diventando semplicemente cosa.24 La morte di questo dio che distrugge e insieme preserva, annuncia la scomparsa della società.25 Per questo, il povero Janu, oltre a prendersi una malattia venerea, viene accusato di abigeato. Il dio Pan, il caprone divino, è stato degradato a puro pastore, anzi, a mera capra. Janu è, nella sua ingenuità, un essere ambiguo, senza alcuna malizia, puro istinto («restò solo nel rifugio della mandra. Privo di pensiero, di volere», p. 71). Nella sua degradazione senza pensiero, Janu coincide pienamente con l’immagine di Pan che il nuovo ordine ideologico insegue per i propri sfoghi falsamente liberatori. Ciò appare chiaramente nella scena dell’orgia panica nella quale Janu, il divine prick (il Pan redivivo), rischia di mancare al suo compito, quando, in piena performance priapica, non riesce a raggiungere l’erezione per penetrare la Cortigiana del Mondo. L’impasse è risolta, insieme alla sensazione di ridicolo che Janu vive, grazie alla cocaina. Tra i partecipanti all’orgia si trova anche il dannunziano Baron Cicio, nemico giurato dei Marano, oltre ad altri seguaci delle diverse manifestazioni dell’irrazionalità dell’epoca. Le quali manifestazioni confluiscono poi nell’ideale fascista e negli ambienti fascisti trovarono anche stimoli rappresentati dalle nuove mode, come l’ostentazione di marche e di marchingegni d’oltralpe (che hanno nella Targa Florio il suo acme), lo snobbismo e la violenza cieca. Arrivati a questo punto è evidente lo scontro tra due atteggiamenti contrapposti da ogni punto di vista (antropologico, culturale, ideologico, morale e persino mitico) che si concretizza nella descrizione delle due opposte biblioteche (chiaro riferimento alle biblioteche del Fu Mattia Pascal): quella di Mandralisca, cioè del defunto Michele, «zio» di Pietro Marano, e quella del suo avversario, don Nenè Cicio, patrizio di Cefalù. Quest’ultima un coacervo di tradizioni locali, cinismo, volgarità intellettuale e edonismo dannunziano e decadente, quanto la prima è «esercizio ostinato e appassionato della fantasia», fuga della mente verso altre realtà, con la presenza di grandi autori, tra cui brillano in modo particolare Leopardi, Dante, Pascoli, accanto a Tolstoi e Hugo.
26 Scrittori che alla fine del romanzo Petro contrapporrà anche alla letteratura
politica e ai poeti e letterati realisti e dialettali. Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 87 James HILLMAN, Saggio su Pan, Milano: Adelphi, 1977. «La société tombe en dissolution. Le riche se clôt dans son égoïsme et cache à la clarté du jour le fruit de sa corruption; le serviteur improbe et lâche conspire contre le maître; l’homme de loi, doutant de la justice, n’en comprend ples les maximes; le prêtre n’opère plus de conversions, il se fait séducteur; le prince a pris pour sceptre la clef d’or, et le peuple, l’âme désespérée, l’intelligence assombrie, médite et se tait. Pan est mort, la societé est arrivé au bas» — scrive Proudhon, cit in Jean CHEVALIER— Alain GHEERBRANT, Dictionaire des symboles, Paris, Robert Laffont, 1969, p. 724.

  1. Stefano GIOVANARDI, op. cit., p. 152.
    «Ora — leggiamo in Nottetempo… — sembrava che un terremoto grande avesse creato una frattura, aperto un vallo fra gli uomini e il tempo, la realtà, che una smania, un assillo generale, spingesse ognuno nella sfasatura, nella confusione, nella insania. E corrompeva il linguaggio, strancangiava le parole, il senso loro — il pane si faceva pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senso sonno…» (p. 140). L’oltraggio e le sue diverse forme, insieme alle svariate reazioni ad esso, è il grande tema di questo romanzo. E l’offesa che ha già colpito le persone (i Marano, Janu) fa scempio anche degli oggetti, come appare chiaramente nel capitolo intitolato «L’oltraggio», in cui degli sconosciuti penetrano in casa Marano per frantumare giare, rovesciare fusti, trafiggere otri. Il desolante spettacolo che lascia dietro di sé la furia devastatrice degli uomini non suggerisce al narratore né amare lamentazioni né veementi denunce contro gli «occulti» mandanti dello scempio, bensì una minuziosa descrizione del processo di realizzazione di un oggetto, una giara, che è stata vittima di tanta furia appunto: l’impasto di creta e acqua che l’artigiano plasma e modella, l’azione solidificatrice del fuoco a cui l’artigiano l’affida, gli asini che la trasportano per i mercati dell’isola e continentali. Dall’evocazione della materialità oltraggiata dell’oggetto scaturisce la spaccatura tra arcaicità e modernità. Tradizioni e geometrie di civiltà soccombono alla violenza cieca dei tempi moderni. In senso più lato è la spaccatura già annunciata simbolicamente dalla morte di Pan che nel romanzo acquista le fattezze di Janu. «Trapassa così l’ignaro pastorello dentro l’irrealtà, viene ridotto a maschera, figura, a bruto strumento di cerimonia» si legge nel capítulo «La calura» (p. 79).  Petro o la malinconia positiva E giungiamo finalmente a Petro, protagonista e a tratti voce narrante di Nottetempo…. Anche se la narrazione è a prima vista eterodiegetica, in realtà in molti punti, soprattutto per la focalizzazione costante e per le pause riflessive, risuona la voce di questo personaggio che diventa occhio e penna del narratore, e anche dello stesso autore, quando il romanzo lascia il posto all’autobiografia. Petro attraversa questa storia notturna della Sicilia con quella sua malinconia che lo porta alla fuga dall’isola, deluso dalla politica e dal suo linguaggio, ma destinato a trovare un approdo nella vera letteratura e nella nuova parola. Consideriamo in primo luogo il nome, Petro. Si tratta della variante semidotta e meridionale del nome latino Petrus, dovuta anche all’influsso del greco ecclesiastico. La pronuncia retroflessa della consonante dentale è un ulteriore marchio di sicilianità. Nella scelta del nome si potrebbe vedere un riferimento al Vangelo di Matteo, là dove Gesù consacra l’Evangelista capo della chiesa cristiana: «Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia chiesa… e ti darò le chiavi del regno dei cieli». Non tralasciando questa metafora della fondazione che sta alla base del nome Petro e comunque al di là di qualsiasi riferimento ecclesiastico, non è da scartare che il nome alluda a un altro tipo di fondazione, quella dell’illuminazione conoscitiva, essa pure associata alla tradizione biblica. Petro, però, è qui soprattutto una specie di Sisifo, obbligato a vivere costantemente con la pietra addosso («’No, io non sopporto più, più dentro di me questo cotogno», lamentava Petro «sopra di me questo macigno!» e la sua voce sembrava vorticare per le pietre della torre», si legge a p. 37). Lo stesso peso che ha paralizzato Serafina, ha reso pazzo suo padre e sua sorella Lucia.27 Un dolore nato molto prima di lui e dei suoi famigliari («da qualcosa che aveva preceduto la sua, la nascita degli altri.» p. 106), un freddo nell’anima, qualcosa che «era successo al tempo tangeloso dell’infanzia, una rottura, un taglio mai più rimediato» (p. 135), ripete la voce narrante poco prima dell’incontro di Petro con Grazia (non sfugga la grande valenza simbolica anche di questo nome proprio), la donna con cui egli tenta di «frantumare, con furia, senza posa, la pietra del dolore» (p. 135). Petro, dunque, si trova in una situazione opposta a quella dell’apostolo Pietro, perché la sua pietra è dentro di lui e su di essa si ergerà una più profonda conoscenza del mondo: pietra del dolore o della follia che non pietrifica ma che fonda un nuovo linguaggio che non lascia niente d’inesplorato (sentimenti, credenze arcaiche, gesti e volti, movimenti irrazionali e possibilità di redenzione). Forse per questo, all’inizio del capitolo «La torre», Petro che rappresenta la propria dimora come «casa della dolora, patimento, casa dell’innocenza», rifiuta la visione di Dio che gli è sopraggiunta.
    28 Non c’è dubbio che, in questo senso, l’opera è anche un romanzo di iniziazione a un tipo concreto di saggezza, quella letteraria e linguistica che passa, comunque, per la comprensione generale e particolare dell’umano (casa per casa, appunto). Basta leggere, a questo proposito, un frammento del capitolo «Pasqua delle rose»: «Dal piano di essa [la Rocca], da quel cuore partì con il pensiero a ripercorrere ogni strada vicolo cortile, a rivedere ogni chiesa convento palazzo casa, le famiglie dentro, padre figli, i visi loro, rievocarne i nomi, le vicende. Sentiva d’esser legato a quel paese, pieno di vita storia trame segni monumenti. Ma pieno soprattutto, piena la sua gente, della capacità d’intendere e sostenere il vero, d’essere nel cuore del reale, in armonia con esso. Fino a ieri». Essendo dunque la scrittura e il linguaggio il fulcro del romanzo, è fondamentale seguire con speciale attenzione le tappe attraverso le quali Petro vi accede: dall’impotenza di esprimersi iniziale all’epifania finale. Quasi tutto il capitolo «La torre» gira intorno allo sforzo del protagonista di lasciarsi dietro l’afasia, il grido, l’ululato (anche lui licantropo, in preda al «male catubo»), per appropriarsi finalmente dei nomi («rinominare, ricreare il mondo», p. 39) e con essi del senso, dato che a lui è concesso di non inabbissarsi completamente nella follia, di poter ancora tornare indietro. La luce della candela che compare in queste pagine è metafora della possibilità, non ancora solidamente fondata: sem-Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia Quaderns d’Italià 10, 2005 89
  1. E che ha petrificato, se vogliamo, la stessa Sicilia, come Consolo non manca di ripetere ponendo particolare enfasi sulla metáfora della «petrificazione». «’No, no!… Non voglio!’ e sventagliò le mani per frantumare, fugare quell’immagine, l’immenso dio di tessere che invadeva il cato della fortezza del suo Duomo». Vale a dire il pantocrator del mosaici della cattedrale di Cefalù. plicemente «un lume, nella bufera». Questo stesso capitolo registra il tentativo frustrato di accesso alla scrittura: E nella torre ora, dopo le urla, il pianto, anch’egli, stanco, s’era chetato. Si mise in ginocchio a terra, appoggiò le braccia alla pietra bianca della macina riversa di quello ch’era stato un tempo un mulino a vento, e cercò di scrivere nel suo quaderno — ma intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere, un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento (p. 53). A questa straziante dichiarazione d’impotenza segue, alcune pagine più avanti (nel capitolo «Il capretto»), quella della descrizione di una catabasi, una discesa, accompagnata inizialmente dal «chiaror di una lanterna»,
    29 dentro «i sotterranei del tempio diruto della Rocca», ma, in realtà, nei luoghi della memoria mitica e materiale dell’isola. Qui ha luogo «un passo nel silenzio»,
    come dice il narratore alla fine di questa scena, vale a dire «un passo all’interno
    del silenzio e al fine di uscirne». È questo un momento centrale: assistiamo a
    un inabissamento in una «zona incerta» della memoria che recupera assenze,
    mondi arcaici, miti e età sepolte; negli «spazi inusitati» illuminati da «una luce labile» ma «nuova», grazie alla quale sembra ancora ipotizzabile la narrazione, per quanto fatta di «frasi monche, parole difettive, per accenni, allusioni, per sfasature e afonie». Il narratore, a un certo punto, ricorda, quasi con le parole di Petro, il momento in cui in un passato imprecisato scoprì l’angelo, assorto e fermo, il cui attento sguardo di accecante luce, enuncia enigmi, misteri ed è «preambolo d’ogni altro spettro». Quest’angelo che Petro dice di aver visto nei sotterrani della torre è, in realtà, uno dei bellissimi nunzi dei mosaici del Duomo di Cefalù,30 come risulta dalla descrizione: «Da sfondi calmi, da quiete lontananze, dagli ocra, dai rosa, dai bruni, da strati sopra strati, chiazze, da scialbature lievi, da squarci in cui traspare l’azzurro tenero o il viola d’antico parasceve». Ma quest’angelo collima con l’altro, lo Scriba, meno esternamente lucente, ma più illuminante internamente, dell’incisione Melencolia I di Dürer: «lo Scriba affaccia, in bianca tunica, virginea come la sua fronte o come il libro poggiato sui ginocchi. (…) È l’ora questa degli scoramenti, delle iner-Ricordiamo, a riprova dell’importanza di quest’immagine del lume, la sua ripresa in una sequenza di chiara ascendeza pascoliana: «Lo guardò Petro allontanarsi [al padre], dietro una finestra, l’altra [Lucia], trapassa, per le stanze un lume, palpita, s’è spento. L’assale l’infinita pena, lo sgomento, si smuove, spande il dolore che ristagna dentro». Inoltre Consolo aveva voluto inserire l’opera di un anonimo Maître de la Chandelle sulla copertina della prima edizione dell’opera. «È un lume che esprime una fede, e questa fede è la letteratura, l’unico antidoto alla pazzia», scrive FRANCHINI 1992: XII. I mosaici si trovano nell’abside e nella crociera. I primi raffigurano Cristo pantocratore a mezzo busto nel catino, la vergine orante fra i quattro arcangeli: Michele, Gabriele, Uriele, Raffaele nel registro inferiore e i dodici apostoli, raggruppati per sei nei due registri inferiori. Nelle vele della crociera, invece, hanno posto le figure dei serafini e dei herubini,questi ultimi accompagnati dalle figure degli angeli del Signore.
    zie, degli smarrimenti, delle malinconie senza rimedio, l’ora delle geometrie
    perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia….(…) l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita.» (p. 65) Lo stesso Consolo ha confermato la fondatezza del rapporto tra il suo angelo e quello dureriano, per quanto alcuni particolari della descrizione non l’avallino; soprattutto il riferimento al volto bianco, poiché è noto che quello dell’angelo della malinconia è nero.31 A meno che non si voglia ritenere che alcune di queste divergenze appartengano alle zone d’intersezione tra le due immagini angeliche, se non addirittura a una vera e propria contaminazione fra le due iconografie il cui risultato sarebbe un lettura in positivo, un vero e proprio superamento, di quella dureriana. Il resto della descrizione dello «Scriba» «in bianca tunica» con il «il libro appoggiato sui ginocchi» nell’ «ora delle geometrie perfette, delle misure inesorabili, la sfera il compasso la clessidra la bilancia » ci porta, invece, inesorabilmente alla citata acquaforte dell’incisore di Norimberga. Per non parlare della luce crepuscolare di per sé sufficiente elemento di collegamento fra le due immagini. Un crepuscolo, quello dell’incisione dureriana «magicamente illuminato — detto con parole degli studiosi tedeschi — dal chiarore di fenomeni celesti, che fanno sí che il mare nel fondo brilli di una fosforescenza, mentre il primo piano sembra illuminato da una luna alta nel cielo che proietta ombre profonde ». È una «doppia luce» (significato letterale di twilight, crepuscolo) altamente fantastica che domina tutta l’immagine, la quale non intende riprodurre le condizioni naturali di una data ora del giorno, ma alludere piuttosto al misterioso crepuscolo di uno spirito, che non riesce a cacciare i suoi pensieri nella tenebra, né a «portarli alla luce».32 Il contenuto concettuale di quest’immagine è doppio, come lo è chiaramente la rappresentazione della scena da parte del narratore consoliano («l’ora della luce bianca, della luce nera, sospesa e infinita »). È doppia anche la natura stessa di Crono o Saturno, dio del Tempo, dominatore dell’età dell’oro e divinità triste e detronizzata, generatore e divoratore contemporaneamente di tutto l’esistente; spirito maligno e dio antico e saggio dei malinconici, esseri divini e bestiali allo stesso tempo. Così come l’ambivalenza del verso di Ungaretti citato qualche volta da Consolo: «la notte nelle vene ti sveglierà». Tutti questi elementi iconografici dureriani (il libro, la geometria e gli oggetti di misura e calcolo), presenti persino in gran parte della tradizione iconografica della malinconia,33 rappresentano oggetti già predisposti alla scrittura, alla strutturazione dello spazio in linee e vettori, al calcolo, ma non ancora utilizzati, poiché l’attenzione del protagonista è previa all’azione, cioè tutta rivolta alle profondità della sua mente. La saggezza dei malinconici è figlia delle profondità. Ma ci vuole l’angelo della luce per passare a uno stadio superiore Si veda KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 272-273 y 300. KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 300.
  1. Walter BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, Torino: Einaudi, 1980, p. 145-161. Per quanto riguarda gli oggetti si veda KLIBANSKY-PANOFSKY-SAXL, Op. cit., p. 287-297. di linguaggio e conoscenza. Un angelo bianco che era stato annunciato pagine addietro dalla figura vestita di bianco di Lucia, sorella di Petro, quando questi la consegna al ricovero di malati mentali di Bàida (in arabo, bianco) in preda alle allucinazioni («Mi parlano, mi parlano»).34 È anche indubbio che nella scena narrativa a cui ci siamo dedicati vengono esplorate le rovine di quella Sicilia cantata in diversi luoghi delle Metamorfosi ovidiane e nell’Eneide di Virgilio (soprattutto nel libro III). A essi rimandano gli «abissi, i vuoti, il nulla che s’è aperto ai nostri occhi» dai quali emergono «frammenti, schegge», giacché per un istante il mondo lascia scorgere le sue profondità. Si tratta sicuramente di una scena importante per il suo legame con la malinconia generosa o positiva che è il fondamento psicologico di tutte le arti, la conditio sine qua non di ogni invenzione poetica; un fascio di luce intensissimo che fa risplendere le cose e l’esperienza che di esse abbiamo. 35 È lo sguardo fisso dell’Angelus novus con gli occhi spalancati, la bocca aperta e le ali dispiegate. «L’angelo della storia — scrive Benjamin nella Tesi IX delle note “Tesi della Filosofia della Storia”36— deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera.» La malinconia è dunque la dimensione dalla quale è possibile comprendere la profondità del mondo; è quindi il tentativo disperato di salvare le cose dal loro precipitare nelle fauci del tempus edax (Che non consumi tu Tempo vorace, ripete il narratore citando Ovidio). Scrive Benjamin in una pagina che amo citare e che qui mi sembra piuttosto pertinente: «La melancolia tradisce il mondo per amore di sapere. Ma la sua permanente meditazione abbraccia le cose morte nella propria contemplazione, per salvarle.» La fuga di Petro è anche una fuga sia dal silenzio sia dal grido, per aprirsi finalmente alla possibilità di accedere alla parola. Se quella del padre, il luponario, era la fuga nella notte della ragione, nella nera irragionevolezza, nel grido della disperazione, quella di Petro può raggiungere finalmente l’espressione vera che rivela fino in fondo l’angoscia. La Tunisia, in cui approda Petro, è certamente un omaggio dell’autore a una delle prime destinazioni degli espatriati siciliani,37 ma è anche, e soprattutto, la prospettiva dalla quale, liberi dall’oppressione ambientale, si può finalmente guardare e capire la martoriata Sicilia, così come insegnano tanti grandi scrittori siciliani, quali Verga, Capuana, Vittorini che hanno potuto parlare della loro terra solo quando si trovavano lontano da essa. Il libro finisce come è cominciato, con un plenilunio che illumina il camposanto. Selene, però, non diffonde il suo distaccato candore sui passi disperati di un licantropo, ma è il lume amico che rischiara la strada, non dico verso la guarigione, ma verso un sapere che aiuti a capire il mondo; invece di accompagnare con fredda luce una delle sue creature condannate, ispira un futuro poeta, giacché la conoscenza è fulgore — folgorazione — lunare. Per giungere al punto in cui la luna è sole che illumina il mondo interiore del soggetto, è stato necessario passare attraverso il dolore e la disperazione, conoscere tutte le case e le cose, le pareti, le pietre; leggere tutti i libri, assistere alla degradazione bestiale di amici e nemici, alla degradazione delle tradizioni, dei costumi e dei miti, alla depravazione dei presunti liberatori dello spirito, alla violenza criminale dei fascisti, alla cieca ottusità dei millenaristi politici di qualsiasi specie («Petro costernato aveva visto ancora in quel vecchio la bestia indomita. La bestia dentro l’uomo che si scatena e insorge, trascina nel marasma. La bestia trionfante di quel tremendo tempo, della storia, che partorisce orrori, sofferenze» — p. 170). Petro ha dovuto attraversare il silenzio e il grido: «Ma prima è l’inespresso, l’ermetico assoluto, il poema mai scritto, il verso mai detto. È il sibillino, il mùrmure del vento, frammento, oscuro logo, profezia dei recessi. È la ritrazione, l’afasia, l’impetramento la poesia più vera, è il silenzio. O l’urlo disumano» — si legge a p. 164, giusto prima che le parole e lo

    stile adeguati escano finalmente dalla penna, si stampino sulla pagina. Da qui deriva, per conseguenza, la critica sia del realismo che del decadentismo letterari. Un nuovo tipo di letteratura è necessario. Dalla catabasi, dal descensus nella memoria addolorata del mondo siciliano deve sorgere un nuovo stile che riunisca senza distinzioni gerarchiche tutti i livelli di realtà della  faro, p. 219: «Riprende l’emigrazione italiana nel Maghreb nei primi anni dell’Ottocento.
    È un’emigrazione questa volta intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia […]. A Tunisi s’era stabilita da tempo una nutrita colonia di imprenditori, commercianti, banchieri […]. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Trapani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno nelle coste maghrebine. // Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. […] Alla Goletta, a Tunisi, in varie città dell’interno, v’erano popolosi quartieri che erano chiamati «“Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. » È una storia troppo complessa, quella delle conseguenze che hanno avuto, in seguito, la guerra di Libia, il fascismo, la seconda guerra mondiale sulle comunità siciliane e italiane di Tunisia per poterla riassumere qua. Lo stesso Consolo rimanda al libro di Nullo Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia. storia. Non una narrazione lineare, ma una storia piena di tortuosità, a strati sovrapposti, con personaggi, sensazioni e sentimenti del presente, del passato prossimo e di quello più remoto, che attinge a miti a cui si rifanno i comportamenti, in una frantumazione caleidoscopica. Non una lingua standard, ma quella più vicina al punto dal quale sgorgano le emozioni, alla gola strozzata di chi sta per emettere un grido che, invece, si trasforma in una frase, mozza e imperfetta, ma già intelligibile; una lingua piena di terrori e di incertezze di chi si dibatte tra l’impossibilità dell’esprimersi e la necessità di parole, di storia, di narrazione.38 La verticalità poetica opposta alla piatta orizzontalità della lingua standard. L’enumerazione, il pastiche, il miscuglio formato da italiano, inversioni, iperbati) e una accozzaglia di termini siciliani, spesso impenetrabili per un lettore non isolano, non rispondono al gusto di un mero «edonismo linguistico», di un puro artificio, ma a una scelta linguistica concreta che obbedisce al mondo interiore di questo Figlio del Lupo, il Wölfing. Egli esprime il dolore e la rabbia con il nuovo linguaggio asformato la sua pietra del dolore, la sua tristezza abissale. L’identità Petro-narratore è, credo, la conseguenza logica di quello che abbiamo appena detto: la fine del romanzo coincide con il suo stesso inizio, vale a dire che la storia inizia quando la voce narrante può finalmente raccontare il suo travagliato accesso alla scrittura. Nottetempo… è dunque l’autobiografia di Petro Marano, il figlio del bastardo, il capro malinconico che ha attraversato il dolore, la storia notturna sua e del suo paese, la Sicilia.39 «Forme e funzioni del linguaggio», in Nuove effemeridi, n. 29, 1995, p. 15-29.per quanto essenziale per capire il valore del linguaggio con il quale entrambi tentano di recuperare Pan e l’irrazionalità dell’istinto, considerati parte della nostra stessa realtà. Non si tratta di un programma di recupero superficiale degli istinti, come quello ideato dal satanista Crowley, ma di riappropriarsi delle caverne di Pan e di Licaone come parte della nostra mente notturna. Se anche essa non potrà ridarci la salute, ci renderà comunque più chiaroveggenti.
    Le riflessioni di Massimo CACCIARI, L’Angelo necessario, Milano: Adelphi, 1986 sull’angelo nuovo hanno molti punti di contatto con questi nostri angeli, in particolar modo il capitolo II («Angelo e demone»), dove leggiamo: «Il paradiso è perduto per sempre cercato, ma la ricerca si svolge “sin luz para siempre”. Essi [gli angeli] inondano il quotidiano, la loro dimora non è più in nessun modo inseparabile dall’ aria che l’uomo respira». Si veda ancheJosé JIMÉNEZ, El ángel caído, Barcelona: Seix Barral, 1982.Eugenio BORGNA, Op. cit., 1992, P. 149 Walter BENJAMIN, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Torino: Einaudi, 1997.Come ci ricorda lo stesso Vincenzo CONSOLO in «Il ponte sul canale», ora in Di qua dalPer una ricerca più approfondita della lingua di Consolo, si veda Salvatore C. TROVATO,Invece l’identità Petro — Consolo è più complessa, e in un certo modo meno interessante,

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma la luna, la luna… Vincenzo Consolo



 Si apre lo Zibaldone di Leopardi con questi versi: “Era la luna nel cortile, un lato Tutto ne illuminava, e discendea Sopra il contiguo lato obliquo un raggio…”1 . E quindi, ancora nello Zibaldone (3 ottobre 1828) Leopardi riporta un brano del Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820 del barone de Meyendorff, il quale parla dei Kirkisi e dice: “Plusieurs d’entre eux passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins”2 . Si sa che da questo brano di Meyendorff, dei Kirkisi che intonano tristi canti guardando la luna, prende spunto Leopardi, per scrivere il suo Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?”3 . chiede il pastore errante, e si chiede: “Dico fra me pensando: A che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo Infinito seren? (…) (…) ed io che sono? Così meco ragiono…”4 .

1 LEOPARDI, G. (1970: 474): Canti con una scelta di prose, a cura di Francesco Flora [diciottesima edizione], Verona: Edizioni Scolastiche Mondadori. 2 Cfr. LEOPARDI, G. (1970: 281). 3 LEOPARDI, G. (1970: 281, vv. 1-2). 4 LEOPARDI, G. (1970: 288, vv. 85-90).

 Ci sembra che questo pastore del deserto asiatico si faccia filosofo, che, sotto quel profondo infinito sereno, sotto quella luna venga posseduto dallo spirito socratico. Così come Euripide, ci dice Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia, inaugura la tragedia moderna per l’irruzione nelle sue opere di quello stesso spirito socratico: vale a dire dello spegnersi del canto, del canto corale come in Eschilo e in Sofocle, e dello sgorgare del pensiero, del ragionamento, dell’assillante e paralizzante argomentazione. “Ed io che sono?” si chiede il pastore asiatico. “Io sono” afferma invece con energia un altro errante, il nomade della valle dell’Indo o del deserto egiziano che percorre il Maghreb, giunge in Spagna, in Sicilia, nel Napoletano. Diciamo del gitano posseduto dal lorchiano duende, il gitano che distoglie lo sguardo dalla luna, dal cielo, per appuntarlo sulla terra. Del gitano che ritrova la misura umana, la finita geografia della sua esistenza, e questa afferma, con forza: con il canto, il cante jondo, il movimento, la danza, canto e movimento come quelli dei coreuti della antica tragedia greca. Ma rivolgiamo ancora lo sguardo alla luna, alla luna dei poeti, di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, rivolgiamo lo sguardo alla luna di Leopardi. Quasi tutti i Canti del poeta di Recanati sono illuminati dalla tenera luce dell’astro notturno, dell’ “eterna peregrina”, da La sera del dì di festa, a Alla luna, a La vita solitaria, a Il tramonto della luna. Dice in quest’ultima: “Dietro Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’infinito seno Scende la luna; e si scolora il mondo…”5 . E in altri, in altri Canti ancora balugina la luna. E quando non è la luna, sono le “vaghe stelle dell’Orsa” o il “fiammeggiar delle stelle” sopra la desolata coltre di lava de La ginestra. Ma la luna, la leopardiana luna, si stacca dal cielo e cade sulla terra nell’idillio intitolato Spavento notturno o Il sogno. E così Alceta narra il suo sogno a Melisso:

 5 LEOPARDI, G. (1970: 370, vv. 10-12).

 “(…) Io me ne stava Alla finestra che risponde al prato, Guardando in alto: ed ecco all’improvviso Distaccasi la luna; e mi parea Che quanto nel cader s’approssimava, Tanto crescesse al guardo; infin che venne A dar di colpo in mezzo al prato (…) Allor mirando in ciel, vidi rimaso Come un barlume, o un’orma, anzi una nicchia, Ond’ella fosse svelta; in cotal guisa, Ch’io n’agghiacciava; e ancor non m’assicuro…”6 . Nel sogno di Alceta, di Leopardi, la spaventevole caduta della luna fa scolorire il mondo. Ma ci sono poi altri poeti che la rimettono in cielo, nel cielo della poesia. Lorca, ad esempio, gioiosamente, con un gioco quasi di fanciullo: “Alta va la luna bajo corre el viento (…) luna sobre el agua. Luna bajo el viento”7 . E ancora, “La quilla de la luna Rompe nubes moradas”8 . “Los niños se comen la luna Como si fuera una cereza”9 . “La luna está muerta, muerta; Pero resucita en la primavera”10. Risuscita la luna in Montale, Caproni, Luzi. E luminosamente in Andrea Zanzotto così:

6 LEOPARDI, G. (1970: 398-399, vv. 3-9 e 17-20). 7 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Nocturnos de la ventana [A la memoria de José de Ciria y Escalonte, Poeta (1)]”. 8 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921): Poema del cante jondo, “Poema de la Saeta: A Francisco Iglesias [Madrugada]”. 9 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Teorías [Tío-vivo]”. 10 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde: A Laurita, amiga de mi hermana]”.

 “Luna puella pallidulla Luna flora eremitica, Luna unica selenitica, distonia vita traviata, atonia vita evitata…11”. E la luna infine, la luna che profuma d’oriente, di Lucio Piccolo: “La luna porta il mese e il mese porta il gelsomino”12. Ma è una luna, quella di Piccolo, che, come nel sogno di Alceta del leopardiano Spavento notturno, si frantuma, cade sulla terra e mai più risuscita. Lucio Piccolo di Calanovella. E bisogna purtroppo dire ogni volta di questo grande poeta scoperto da Montale, dell’autore di Gioco a nascondere e Canti barocchi, Plumelia, La seta, Il raggio verde, bisogna dire, per la fama planetaria che raggiunse l’autore de Il Gattopardo, che Lucio Piccolo era cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Era del Capo d’Orlando ma veniva sempre al mio paese, prima in landò, dal tempo screpolato, e poi in macchina. Correva sempre, correva, il volto chiuso in una sua gioia incomprensibile. M’accadeva d’incontrarlo spesso, e allora mi fermavo e lo seguivo con gli occhi finchè spariva. Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia Progresso. Entra, seguito dall’autista don Peppino. “Ecco qua” dice Piccolo. “Queste sono le poesie” e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di numero di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri che

11 Cfr. ZANZOTTO, A., 13 settembre 1959 (Variante), in IX Ecloghe (1962), in ZANZOTTO, A. (1999): Le poesie e prose scelte, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta (ed.), Milano: Mondadori. 12 Poesia dal titolo “La luna porta il mese”, in PICCOLO, L. (1956: 62): Canti barocchi e altre liriche, prefazione di Eugenio Montale, collana «I poeti dello Specchio», Milano: Mondadori.

avevo portato là per farli rilegare, vecchi libri che scovavo sulle bancarelle: almanacchi, guide, storie locali. Disse: “M’accorgo di non essere il solo ad amare questi libri. Sì, le guide, gli almanacchi, sono pieni di insospettabile poesia”. E aggiunse: “Ho una intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa”. Questo fu verso la fine del ‘53: era morto Stalin, i Rosemberg erano stati assassinati, le acque avevano sommerso la Calabria e in Sicilia una Madonna di gesso piangeva al capezzale di un operaio comunista. Quel libretto stampato dalla tipografia Progresso, intitolato 9 liriche, venne inviato a Montale, e quando poi, nel 1956 Mondadori pubblicò Canti barocchi, Montale ne scrisse la prefazione. Scrisse: “(…) mi colpì in queste liriche un afflato, un raptus che mi facevano pensare alle migliori pagine di Dino Campana. Il lessico è spesso ricercato, ma la parola ha poco peso, l’armonia è quella di un moderno compositore politonale”. E ancora: “Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando (…) Un uomo molto singolare, un uomo sempre in fuga, per certi aspetti affine a Carlo Emilio Gadda, un uomo che la crisi del nostro tempo ha buttato fuori del tempo”13. Quest’uomo io ho frequentato per anni, da lui ho appreso cos’è la cultura, cos’è la poesia. Il 17 febbraio del 1967 pubblicavo su L’Ora di Palermo un lungo articolo su Lucio Piccolo dal titolo “Il barone magico”. In quell’articolo davo l’anticipazione di una prosa, intitolata L’esequie della luna che il poeta stava componendo. Scrivevo: “L’esequie della luna è un balletto in tre tempi. Lo si chiama balletto per convenzione, ma potrebbe bene esso creare una nuova categoria letteraria. Pomposo, Fantastico e Pastorale ne formano i tre tempi. Il racconto è questo. La luna, fanciulla che s’ammala, cade sfaldandosi (il simbolo è palese): ne vediamo gli effetti alla corte di un viceré, in un convento di trepide suore e in campa

 13 Libretto “9 Liriche” stampato nello Stabilimento tipografico di Sant’Agata senza data. Montale nella prefazione pubblicata in Canti barocchi e altre liriche, (cit.), dice di aver ricevuto il libretto il giorno 8. 4. 1954 – La prefazione di Montale è da p. 9 a 19.

 gna, dove infine la Luna, fanciulla ricomposta in un’urna, viene sepolta presso le acque” 14. Nel settembre del 1967, Piccolo così communicava allo scrittore Corrado Stajano: “Intanto ho scritto una sorte di narrazione-fantasia, volutamente barocca e ingenuamente romantica, L’esequie della luna, opera più che altro nostalgica…”15. E ancora a Stajano, nell’ottobre dello stesso anno, scriveva: “Ho scritto recentemente una sorta di racconto fantastico (al quale già pensavo da lungo) in cui le parole dovrebbero essere rappresentative come le figure di un balletto. Clima dei Canti barocchi. È un canto estremamente nostalgico verso la Palermo di quando ero bambino proiettata sopra un immaginario Seicento dove opera o meglio non opera il burattinesco Viceré. La caduta del satellite significa appunto l’estinguersi dei residui del romanticismo-barocco (…). il quale fatto coincide pure con la crisi della nostra epoca (…) Comunque i resti vengono portati al riposo vicino le acque (notare questo riferimento ricorrente del simbolismo equoreo-eracliteo!) delle piccole comunità rurali, le quali sono le sole ancora ad intravedere barbagli, lucori zodiacali ecc…”16. Nel dicembre del 1967, la rivista Nuovi Argomenti, diretta da Carrocci, Moravia e Pasolini, pubblicava L’esequie della luna di Lucio Piccolo. In quello stesso numero appariva una parte de Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante e Pilade di Pier Paolo Pasolini. Il Pasolini che già nel 1964 aveva scritto il saggio Nuove questioni linguistiche in cui diceva della mutazione della lingua italiana dovuta al cosiddetto “miracolo economico”, al neo-industrialesimo e alla correlata espansione dei mezzi di comunicazione di massa. Il Pasolini che diceva della fine del mondo contadino in Italia, della sua plurimillenaria cultura e

14 Consolo, V. (1967): “Il barone magico. Quattro inediti di Lucio Piccolo, il poeta siciliano dei Canti barocchi, presentati da Vincenzo Consolo”, en L’Ora, Libri, Venerdì 17 febbraio, p. 9. 15 Lettera del 12 settembre 1967, in “Galleria”, Anno XXIX, n. 3-4 maggio-agosto 1979, p. 99 (Salvatore Sciascia Editore Caltanissetta). 16 Lettera ottobre 1967, stessa rivista “Galleria” come sopra pp. 99-100.

  dell’avvento della cultura di massa, del neo-capitalismo e della cultura piccolo-borghese. Lo stesso Pasolini poi che nel febbraio del 1975, pochi mesi prima della sua atroce morte, scriveva l’articolo sulla scomparsa delle lucciole. Leopardi, Pasolini, Piccolo: è pur vero che i poeti sono vati, sono “entusiasti”, vale a dire en theòs, vale a dire vaticinanti. Ed è pur vero che la vera scrittura è una scrittura palinsestica, una scrittura che scrive su altre scritture. Piccolo, nel 1967, aveva, con L’esequie della luna, aveva sì voluto rappresentare il tramonto di una cultura, che egli chiama “romantico-barocca”, ma aveva come presagito ciò che sarebbe successo da lì a qualche anno, la caduta del mito della luna appunto, della profanazione dell’astro dei poeti. Il 21 luglio 1969, l’astronave americana di nome Apollo -il fratello gemello di Diana approda sulla superficie dell’astro e degli uomini vi danzarono sopra con i loro scarponi di metallo. Nel romanzo incompiuto Un’isola nella luna William Blake ci dice che in quell’isola si parlava il linguaggio del nonsense. Ma un bel preciso e incisivo senso hanno quelle orme lasciate dall’astronauta sulla superficie della luna. Orma che è segno di violazione, di possesso. Scrive Sergio Perosa in L’isola la donna il ritratto: “La metafora principe del possessso è quella dell’orma, del footprint. Si può pensare per un momento (…) all’orma che lascia l’astronauta Armstrong sulla luna alla prima discesa della storia”17. Piccolo muore in quello stesso anno, il 1969. L’editore Vanni Scheiwiller racconta che Piccolo avrebbe voluto far musicare il suo L’esequie della luna da Gianfrancesco Malipiero e che avrebbe voluto, per la scenografia e i costumi, i disegni del pittore Fabrizio Clerici. Il desiderio di Piccolo non si è poi avverato, L’esequie della luna è rimasta solo una prosa da leggere. Nel 1969 io ero emigrato già da un anno a Milano. M’ero portato nel bagaglio l’idea o il progetto di un romanzo storico, apparso poi nel 1976 presso Einaudi col titolo Il sorriso dell’ignoto marinaio.

17 PEROSA, S. (1996: 48): L’isola la donna il ritratto, Torino: Bollati Boringhieri.

 Nel 1985, ancora presso Einaudi, apparve il mio Lunaria. La dedica, nel libro, è questa: “A Lucio Piccolo, primo ispiratore, con L’esequie della Luna. Ai poeti lunari. Ai poeti”18. Dicevo sopra che la vera scrittura è per me quella palinsestica, la scrittura vale a dire che scrive su altre scritture, la scrittura che poggia sulla memoria letteraria soprattutto. Il mio Lunaria era esplicitamente scritto su Leopardi e su Piccolo, ma anche su tanti altri poeti e scrittori. Partivo dunque da Leopardi e da Piccolo per rovesciarne l’assunto. La mia luna, sì, come dice Lorca “está muerta, muerta; / Pero resucita en la primavera19”. Risuscita in una contrada senza nome, una contrada che prenderà il nome di Lunaria. Credo sia chiara la metafora: la luna, sì, è caduta nel nostro contesto, nella nostra cultura occidentale, è caduta qui da noi la poesia. In luoghi ignoti, in contrade senza nome, in quelli che noi chiamiamo terzi, quarti o quinti mondi, in quei luoghi, pur afflitti di povertà e malattie, in quelle primavere della storia l’umanità sa creare ancora la poesia. Dice il mio Viceré Casimiro: “Se ora è caduta per il mondo, se il teatro s’è distrutto, se qui è rinata, nella vostra Contrada senza nome, è segno che voi conservate la memoria, l’antica lingua, i gesti essenziali, il bisogno dell’inganno, del sogno che lenisce e che consola”20. Il terrifico sogno dell’Alceta leopardiano si è dunque mutato nel sogno necessario, nel sogno che lenisce e che consola: il sogno della poesia. Cesare Segre, in Intrecci di voci, nel capitolo intitolato Teatro e racconto su frammenti di luna, mette a confronto e analizza L’esequie della luna e Lunaria. Scrive: “In Consolo, la figura del Viceré, dopo l’iniziale scena, comica, d’ignavia, si rivela progressivamente la coscienza della vicenda. Se ricordiamo che il Viceré scopre alla fine la sua natura di attore che impersona il Viceré, potremmo dire che quando egli pencola verso il comico è il

18 Consolo, V. (1985): Lunaria, «Nuovi Coralli 365», Torino: Einaudi. 19 Cfr. GARCÍA LORCA, F. (1921-1924): Canciones, “Canciones de luna [Dos lunas de tarde…]”, cit. 20 Consolo, V. (1985: 62).

 Viceré, quando è serio e meditativo è l’attore, distaccato tanto dal personaggio quanto dalla vicenda 21”. E trova consonanza e ulteriore sviluppo, l’affermazione di Segre, con quanto nota Irene Romera Pintor, l’autrice della magnifica traduzione in castigliano di Lunaria. Scrive: “Cierto, la sombra de La vida es sueño planea sobre las melancólicas ensoñaciones del Virrey, que ya no cree en su poder ni sabe siquiera quién es. Pero ningún crítico hasta ahora ha señalado la relación que sobre todo tiene Lunaria con El Gran Teatro del Mundo”22. E io ringrazio Irene Romera Pintor per questa rivelazione di un così alto rimando. La ringrazio per tutto il suo generoso lavoro su Lunaria.

Milano, 22 ottobre 2005


21 Cfr. SEGRE, C. (1991): “Teatro e racconto su frammenti di luna”, in ID., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, “Einaudi Paperbacks 214”, Torino: Einaudi, pp. 87-102 (cfr. in particolare p. 93). 22 Cfr. CONSOLO, V. (2003): Lunaria, edizione, introduzione, traduzione e note a cura di I. Romera Pintor, Madrid: Centro de Lingüística Aplicada Atenea (cfr. in particolare p. 12).

Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo

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Struttura-azione di poesia e narratività
nella scrittura di Vincenzo Consolo

Maria Attanasio
Scrittrice

Alla ricerca di un’espressività nuova rispetto all’omologazione linguistica della contemporaneità, la scrittura di Vincenzo Consolo assume le modalità ritmiche e la densità metaforica della poesia: una vera e propria struttura-azione testuale che fa interferire la lingua della memoria e la memoria della lingua, la sequenzialità del tempo narrativo e la verticalità di quello della poesia. Benché tutti i suoi libri siano traboccanti di citazioni, epigrafi e continui riferimenti a poeti d’ogni luogo e tempo — da Omero a Teocrito, ad Ariosto, a Iacopo da Lentini, a Shakespeare, a Leopardi, a D’Annunzio, a Dante, e a tanti altri — Vincenzo Consolo non ha mai pubblicato un libro di poesie, a differenza degli altri scrittori contemporanei siciliani — Sciascia, Addamo, Bufalino, Bonaviri, D’Arrigo, ad esempio — la cui narrativa è stata spesso affiancata o preceduta da un’autonoma produzione poetica. Eppure è poeta, il più poeta tra i narratori siciliani; non si tratta di una generica liricità che crocianamente trasborda in ogni genere, ma di una testualità che, dentro le sequenze del tempo narrativo dei romanzi, e in quelle argomentative della saggistica, fonde libertà espressiva e referenzialità compositiva,ragioni etiche e motivazioni estetiche, ideologia e parola: immaginifica interazionetra la lingua della memoria, che restituisce il passato come metafora del presente, e la memoria della lingua, che, immergendosi nella lievitante stratificazione culturale e mitica delle parole, restituisce significatività al linguaggio; esemplare è in questo senso un racconto appartenente a Le pietre di Pantalica, I linguaggi del bosco, in cui lo scrittore racconta l’esperienza di un fanciullo che, durante un soggiorno in campagna, apprende dalla selvatica amica Amalia ad ascoltare il bosco — il suono del vento tra gli alberi, il gorgoglio dell’acqua, l’oscurata parola delle bestie — e a rinominare con una lingua argotica ogni cosa Fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che in quel momento esistessero. Nominava in una lingua di sua invenzione, una lingua unica e personale, che ora a poco a poco insegnava a me e con la quale per la prima volta comunicava.1 metafora della necessità di una espressività nuova in una contemporaneità che, in nome del mercato e del profitto, opera, anche a livello linguistico, una marginalizzazione dei valori di un mondo a carattere antropocentrico. E in questi ultimi anni più che mai: la definizione di «guerra umanitaria» ad esempio, o l’umanizzazione di borse e mercati che «tremano, soffrono, si esaltano, si deprimono, sono euforiche», ecc., mentre, ridotti a puri beni strumentali dell’economia, gli uomini sono diventati semplici «risorse», talvolta da «rottamare». Vincenzo Consolo ha sempre respinto la piatta orizzontalità della lingua — quella da lui definita «tecnologica-aziendale» che, diffusa dai mezzi di informazione, rende afasica la realtà — spingendo invece la sua prosa a contaminarsi con altri generi, soprattutto con la verticalità immaginativa e demercificata del linguaggio poetico. La poesia è infatti oggi l’unica tra le arti che non diventa merce, perché il suo linguaggio, traboccando sempre dalla pura formulazione linguistica, non può mai totalmente identificarsi con quello della comunicazione: «coscienza anticipante», rispetto ai valori del proprio tempo, ma anche coscienza critica nei confronti del linguaggio del proprio tempo. La sua ricerca espressiva si muove perciò verso una scrittura che sia, insieme, esperienza di verità — non di semplice realtà — e testimonianza di libertà. Verità della storia — nella storia — e libertà della parola — nella parola — costituiscono infatti la struttura ideologicamente portante della sua narratività, che nella metafora del viaggio — presente e centrale in tutti i suoi libri — si congiungono, corrispondendo spesso — il viaggio e la scrittura — all’inizio e alla fine dello sviluppo narrativo; tappe necessarie di un processo conoscitivo che, coniugando storia ed esistenza, diventa presa di coscienza, parola, il cui nucleo — insieme motivazione e finalità — è sempre l’uomo, «Prima viene la vita, — scrive in Retablo — quella umana, sacra, inoffendibile, e quindi ogni altro: filosofia, scienza, arte, poesia, bellezza…». 2

  1. Vincenzo CONSOLO, Le pietre di Pantalica, Milano: Mondadori,1988, p. 155.
  2. Vincenzo CONSOLO, Retablo, Palermo: Sellerio, 1987, p. 131.

Tra il primo romanzo, La ferita dell’aprile (Mondadori, 1963) e l’ultimo, Lo spasimo di Palermo (Mondadori, 1999), il rapporto tra storia e parola — e quindi il senso della metafora del viaggio — si modifica però profondamente. Se fino a Retablo il viaggio è avventura conoscitiva e utopia, che dilatano il tempo, ingannano la morte — la causa vera del viaggio, per Fabrizio Clerici, il protagonista di questo libro, «è lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi, e il bisogno di staccarsene, morirne, e vivere nel sogno dell’ere passate, antiche, che nella lontananza ci figuriamo d’oro, poetiche, come sempre è nell’irrealtà dei sogni, sogni intendo come sostanza de’ nostri desideri»3, nella produzione successiva perde ogni connotazione conoscitiva, diventa nostos, amara verifica in un «paese piombato nella notte», «nell’Europa deserta di ragione»; Chino Martinez, il protagonista de Lo Spasimo di Palermo, ha infatti la consapevolezza che ogni viaggio è «tempesta, tremito, perdita, dolore, incontro e oblio, degrado, colpa sepolta rimorso, assillo senza posa». 4 La modificazione del senso della storia modifica anche quello della parola, con un’accentuazione sempre più espressiva ed espressionista del suo linguaggio, e con un utilizzo in funzione narrativamente destrutturante, rispetto a un tradizionale concetto di romanzo; un utilizzo, in questo senso, presente fin dalle prime opere. In un saggio del 1997, Il sorriso dell’ignoto marinaio vent’anni dopo, che conclude la raccolta di saggi Al di qua dal faro, scrive: Il suo linguaggio e la sua struttura volevano indicare il superamento in senso etico, estetico, attraverso mimesi, parodie, fratture, spezzature, oltranze immaginative, dei romanzi d’intreccio dispiegati e dominati dall’autore, di tutti i linguaggi logici, illuministici, che nella loro limpida, serena geometrizzazione escludevano le voci dei margini.5 Una vera e propria «struttura-azione» di poesia potentemente interviene a costituire il corpo stesso della narratività di Vincenzo Consolo, restringendo gli spazi di comunicazione, dissolvendo ogni ordinata sequenzialità di tempi e di sintassi, travalicando ogni rigida separazione tra i generi; ed emergendo in punte espressive — disancorate dalla narrazione — con due difformi e spesso simultanei riporti: tragico nei confronti della storia, lirico nei confronti della natura; una dimensione, quest’ultima, vissuta quasi con un senso di imbarazzo dalla coscienza etica e ideologica dell’autore, che ne teme la smemorante e avvolgente bellezza fuori dalla storia. Lo scrittore sente però fortemente il malioso richiamo che da essa proviene: la straniante fascinazione di forme, suoni, segni, paesaggi che, intrecciandosi o alternandosi agli echi drammatici e stridenti della storia, come una sorta di respiro profondo attraversa tutta la sua scrittura; non si tratta di una schi-Ibid., p. 177. Op. cit., p. 98.Vincenzo CONSOLO, Di qua dal faro, Milano: Mondadori, 2001, p. 282. zofrenia espressiva, ma di una strutturale complementarietà, come complementari — all’interno di una complessiva visione del mondo — sono in Dante e Leopardi, filosofia e sentimento, ideologia e poesia. E non è un caso che entrambi, insieme a Omero, a Eliot e a Lucio Piccolo, siano i poeti di riferimento più presenti nella sua scrittura, che assume talvolta il carattere di una visionaria riscrittura, pulsante di echi, parole, reperti linguistici, risalenti dal fondo del già scritto. In una sorta di rarefatto silenzio leopardiano, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio — mentre il bastimento con il Mandralisca e tutto il suo carico di storia ed esistenze, approda davanti alla Rocca di Tindari — risuona, al di sopra dei tempi e degli spazi della narrazione, la voce visionaria dello scrittore a richiamare dal buio dei millenni Adelasia, la solitaria badessa centenaria, che torna ad aggirarsi tra le celle ormai disabitate, a interrogare invano l’immemore fluire Quindi Adelasia, regina d’alabastro, ferme le trine sullo sbuffo, impassibile attese che il convento si sfacesse. Chi è, in nome di Dio? — di solitaria badessa centenaria in clausura domanda che si perde per le celle, i vani enormi, gli anditi vacanti. — Vi manda l’arcivescovo? — E fuori era il vuoto. Vorticare di giorni e soli e acque, venti a raffiche, a spirali,  uro d’arenaria che si sfalda, duna che si spiana, collina, scivolio di pietra, consumo. Il cardo emerge, si torce, offre all’estremo il fiore tremulo, diafano per l’occhio cavo dell’asino bianco. Luce che brucia, morde, divora lati spigoli contorni, stempera toni macchie, scolora. Impasta cespi, sbianca le ramaglie, oltre la piana mobile di scaglie orizzonti vanifica, rimescola le masse.6 Lo stesso cosmico smarrimento dei sensi e dell’intelletto lo restituisce attraverso il protagonista di Retablo, che, sul colle di Segesta, davanti alla grandiosità dell’arte e della natura, vede spalancarsi le inaudite voragini del tempo: Sedetti su lo stilòbate, fra le colonne, sotto l’architrave da cui pendeva e oscillava al vento il cappero, il rovo, l’euforbia, a contemplare il deserto spazio, ascoltare il silenzio spesso su codesto luogo. Un silenzio ancora più smarrente per lo strider delle gazze, dei corvi, che neri sopra il cielo del tempio e sopra il vuoto della gran voragine grevi volteggiano, per frinire lungo di cicale e il gorgogliare dell’acque del Crinisio o Scamandro che dall’abisso, eco sopra eco, sonora si levava. 7 finendo con la letterale citazione di un verso de L’Infinito leopardiano. «E sedendo e mirando…». C’è una circolarità geografica nella scrittura consoliana: gli stessi luoghi — esemplari di una perduta bellezza, come i resti della grecità, o di una aggrovigliata contemporaneità, come la Palermo barocca, o la tecnologica Vincenzo CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Torino: Einaudi, 1976, p. 8. Op. cit., p. 79. Milano — ritornano ciclicamente nelle sue opere; Segesta tornerà infatti a essere rappresentata ne L’olivo e l’olivastro: E là, nel centro, nel recinto aperto in ogni lato, verso ogni punto, esposto alla notte dell’estate che porta sulle brezze odori arsicci di fieni, nepitelle, porta le scansioni del silenzio, del buio, strida, pigolii, sprazzi verdastri, gialli, luccichii, aperto in alto all’infinito spazio, mi pongo arreso, supino, e vado, mi perdo nella lettura stupefatta del libro immenso, in incessante mutamento, nella scrittura abbagliante delle stelle, dei soli remoti, dei chiodi tremendi del mistero…..Rimango immobile e contemplo, sprofondo estatico nei palpiti,nei fuochi, nei bagliori, nei frammenti incandescenti che si staccano, precipitano filando, si spengono, finiscono nel più profondo nero.8 Un testo di una straordinaria intensità poetica; l’immagine di quei «chiodi tremendi del mistero» resta, ad esempio, ostinata a perciare la mente: l’enigma dell’improvviso ritrovarsi esistenti nel tempo. Interminabili potrebbero essere le citazioni, tratte da tutti i suoi libri, a esemplificazione della variegata e lirica restituzione della natura; del paesaggio soprattutto, colto in tutte le ore e le stagioni: dalla campagna alla città al mare, la cui plurale valenza simbolica nella sua scrittura meriterebbe una trattazione a parte; nella lunga e illuminante intervista, pubblicata ne La fuga dall’Etna (Donzelli, 1993), lo scrittore definisce infatti il mare, come un luogo di invasione e possessione della natura, dell’esistenza, dei miti e dei simboli: simboli ambigui, spesso, insieme, di valori opposti, stridenti come la vita e la morte. Ma la percezione del luogo nella sua scrittura non è mai orizzontale e univoca: nella sua spazialità affiorano memorie, miti, scritture, esistenze, visioni; e non solo nei luoghi dell’arte o in quelli della storia, ma anche in quelli abituali e scontati del quotidiano, come, ne Lo spasimo di Palermo, la stanza di un albergo: Scricchiolii, la guida scivolosa nella curva e il fiato di sempre venefico e pungente, mai tarme blatte, mai topi in quest’ammasso d’alberi e fasciami disarmati, forse madrepore, alghe secolari, fermenti sigillati di mari tropicali, lo sciabordio è nelle tubature verniciate, nel rigagnolo sotto il marciapiede. L’angustia è forzata dagli specchi, uguale gentilezza è impressa su carta tende copriletto, lo stridore è nel giallo degli eterni girasoli.9 A volte è invece il sentimento a far scattare la tensione lirica, privilegiatamente l’amore nelle sue diverse espressioni: come dolcissima e lacerante coniugalità ne Lo Spasimo di Palermo, come sconvolgente passionalità in Retablo, il meno storico dei suoi romanzi, benché ci sia anche in questo, come in tutta la sua produzione, una precisa lettura etica e di classe; nucleo motivante è, in Vincenzo CONSOLO, L’olivo e l’olivastro, Milano: Mondadori, 1994, p. 128. Op. cit., p. 11-12. questo libro, l’esistenza, nel suo rapporto, a volte conflittuale, di ragione e sentimento, di arte e verità; un tema, quest’ultimo, già fortemente presente, direi centrale, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Ma la scrittura per Vincenzo Consolo non è mai rotonda frontalità espressiva, levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; aldilà della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita: Oh mia Medusa, mia Sfinge, mia Europa, mio sogno e mio pensiero, cos’é mai questa terribile, meravigliosa e oscura vita, questo duro enigma che l’uomo ha sempre declinato in mito, in racconto favoloso e leggendario, per cercar di rispecchiarla, di decifrarla per allusione, per metafora?10 Per rappresentare il delirio amoroso di Isidoro, in Retablo, lo scrittore fa perciò interferire iperletterarietà e leggerezza, ricerca espressiva e liricità; scava infatti nelle sonorità del nome Rosalia, trovando in esso occultati tutti i sensi e i segni della passione. Ognuna delle due parti del nome genera infatti una appassionata proliferazione di figure d’amore; se «Rosa» è l’immaginifica sorgente di tutti fiori, i colori, gli aromi, di tutte le sfumature di bellezza dell’amata: Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha ròso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino,bàlico e viòla; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia,… Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel core.11 il «li» di «Lia» invece si moltiplica in una spirale di indicibili tormenti amorosi: Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come sangue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi, per mia dannazione.12 Il testo non è fine a se stesso, ma fa da attacco al romanzo, immettendo subito il lettore nel cuore tematico del racconto — la vita, l’amore, l’arte — ; presentando i protagonisti — Isidoro, Rosalia, Fabrizio Clerici — ; e profilando l’antefatto e i fatti. Già nel libro d’esordio — La ferita dell’aprile — lo scrittore apre la narrazione con una una bellissima prosa, scandita dal ritmo dell’endecasillabo: il ricordo del protagonista che rivede se stesso adolescente, in viaggio verso la vita e la consapevolezza storica:Op. cit., p. 109.Op. cit., p. 15.Ibid., p. 16.
Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista, sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti.13 Una lirica dilatazione memoriale, che, con un procedimento tipico della poesia contemporanea, a volte si traduce in contratta densità metaforica, tesa al coinvolgimento emozionale e interpretativo del lettore: esemplare è nello stesso libro la descrizione del panico dei viventi, e della natura tutta, di fronte all’eruzione: La strada è occhi grandi, dilatati, fronti pesanti sull’arco delle sopracciglia, gambe invischiate lente a trascinarsi, schiene ricurve sotto il cielo basso, la mano gonfia con le dita aperte; il gallo sul pollaio che grida per il nibbio, e il cane che risponde petulante. Il cane e un altro cane e tutti i cani: sì, si spaccò l’Etna.14 La presenza di incipit di poesia — in funzione lirica o tragica — aumenta sempre più, libro dopo libro, in funzione di anticipazione metaforica dello sviluppo narrativo, come il testo, tutto assonanze e rime, che da’ inizio al capitolo quarto di Nottetempo casa per casa: Nella vaghezza sua, nell’astrattezza, nella sublime assenza, nella carenza di ragione, di volere, nell’assoluta indifferenza, nel replicare cieco, nella demenza, rivolge a un luogo solo la dura offesa, strema la tenerezza, frange il punto debole, annienta.15 Nella risuonante atmosfera che la rima in «enza», scandendo la prosa, genera, s’imprime tragico e dissonante il conclusivo, «Crudo o Vile o Nulla, vuoto vorticoso che calamita, divora, riduce a sua immagine, misura». Nella produzione consoliana degli anni novanta, una visione sempre più pessimistica della storia tende a instaurare un rapporto inversamente proporzionale tra la rappresentazione della fine di un mondo a carattere antropocentrico e il vitalismo del linguaggio, in funzione di una strutturazione poematica del romanzo, che procede per accumuli lessicali, per addensamenti sonori di consonanze, rime, per grovigli metrici, settenari, novenari, decasillabi, endecasillabi soprattutto. Lo spostamento in senso poematico della sua narratività è l’esito ultimo di sua riflessione critica sul rapporto scrittura-realtà, che avviene nella seconda metà degli anni ottanta: da un lato — scrive in Fuga dall’ Etna — in concomitanza con il «clima spensierato, cinico, di ottuso scialo» della situazione politica italiana di quegli anni — «un carnevale o un paese della cuccagna alla Vincenzo CONSOLO, La ferita dell’aprile, Torino: Einaudi, 1977, p. 3. Ibid., p. 69. Vincenzo CONSOLO, Nottetempo casa per casa, Milano: Mondadori, 1992, p. 41.

Brughel», che lascerà, però, «un campo di macerie»; 16 dall’ altro con la scrittura teatrale di Lunaria e di Catarsi. In entrambe le opere i versi si alternano al dialogo: una distinzione puramente formale, anzi grafica, perché nella loro testualità non c’è alcuno scarto tra versi e prosa; esemplare è l’attacco in prosa — in realtà in endecasillabi — del primo scenario di Lunaria: «E’ vasto il vasto regno della Spagna vasto come i castelli di Castiglia, va oltre il mare, s’espande miglia e miglia…». 17 In Lunaria — una favola teatrale ambientata in una Palermo settecentesca — lo scrittore procede in un’ardita sperimentazione linguistica, portando, soprattutto nelle parti in versi affidate al coro, fino al non sense il gioco linguistico: attraverso ripetizioni consonantiche o sillabiche (ad esempio la funzione della consonante «n», e della vocale «o», in questi versi: «Nutta, nuce, melanìa/ voto, ovo sospeso,/ immoto»);18 attraverso l’uso della rima, che spesso si ripete — la stessa — verso dopo verso, facendo assumere alle immagini quasi la ritmicità di una giocosa litania, «minna d’innocenti/ melassa di potenti/tana di briganti, tregua di furfanti»; 19 e spesso anche attraverso un uso puramente sonoro del significante, che azzera il significato; gioco, ironia, divertissement, che l’uso di un lessico alto, ricercatissimo, commisto di aulicità, dialetto, di termini derivati da tutti i saperi e da tutte le lingue, morte e vive, accentua, «luna, lucore,/ allume lucescente/ levia particula/ fiore albicolante»).20 Ma il risuonante non sense delle cantilene di Lunaria, nulla ha a che fare con il linguaggio afasico della neoavanguardia, esattamente speculare all’afasia del potere per Vincenzo Consolo; nella sua poesia c’è sempre una parola,un verso, una soluzione espressiva che effrange il seduttivo canto di sirena del puro significante. La metamorfosi del protagonista in luna è, ad esempio, una metamorfosi anche linguistica: il vicerè viene come avvolto da un velame di «l»e di «u» di luna, «Lena lennicula,/lemma lavicula,/ làmula/ lémura, mamula./Létula/ màlia,/ Mah.», 21 un «mah» finale di una trasgressiva sonorità rispetto ai versi precedenti; quel suono però in persiano significa luna, in arabo vuol dire acqua, mentre in italiano rimanda al dubbio, alla perplessità, e anche alla forma tronca della parola madre. Luna, acqua, dubbio, madre: occultati e oscuramente vibranti nel suono di quel monosillabo. In Catarsi, attraverso il dramma di un Empedocle contemporaneo — il direttore di un centro di ricerca, che, coinvolto in uno scandalo, è in procinto di buttarsi nell’ Etna — lo scrittore invece indaga il rapporto tra parola e realtà nella società contemporanea. Sul tema della comunicazione infatti drammaticamente si confrontano il protagonista,Empedocle, e l’antagonista, Pausania, che, con la forza persuasiva della parola vorrebbe farlo desistere, rivendicando il suo ruolo di anghelos, di Op. cit., p. 61. Vincenzo CONSOLO, Lunaria, Torino: Einaudi, 1985, p. 7.

  1. Ibid., p. 5.Ibid., p. 6. Ibid., p. 49. Op. cit., p. 21.
    «colui che conosce i nessi, la sintassi, le ambiguità, le astuzie della prosa, del linguaggio»; 22 ma nella situazione estrema in cui Empedocle si trova nessuna parola può raggiungerlo, «Se le parole si fanno prive di verità, di dignità, di storia, prive di fuoco e suono, se ci manca il conforto loro, non c’è che l’afasia. Non c’è che il buio della mente, la notte della vita.»23 dice infatti a conclusione della scena terza. Nell’introduzione a Oratorio (Manni, 2002) — che oltre alla ripubblicazione di Catarsi, comprende anche L’ape iblea (elegia per Noto) del 1998 — in riferimento allo scritto teatrale del 1989, Vincenzo Consolo ribadisce e approfondisce la sua riflessione teorica. Verificando nella contemporaneità gli elementi costitutivi della tragedia greca, afferma che, oggi, non c’è legittimità d’esistenza per l’Anghelos, — il comunicatore che, narrando l’antefatto agli spettatori seduti nella cavea, dava inizio alla messinscena tragica — perché ormai la cavea è vuota, deserta. Sulla scena è rimasto solo il coro, il poeta che in tono alto, lirico, in una lingua non più comunicabile commenta e lamenta la tragedia senza soluzione, la colpa, il dolore senza catarsi.24 Nell’assenza di ascolto, di referente, nel tempo «dell’assoluta insonorità di un contesto istituzionale», s’interrompe ogni rapporto di transitività tra realtà e scrittura: orfana, senza oggetto, davanti alla violenza senza riscatto della storia, al sonno senza risveglio della ragione, la parola non può più disporsi in racconto, ma con una lingua «estrema e dissonante» squarciare la testualità narrativa, destrutturarla, spostando il romanzo «sempre più verso la parte espressiva, la parte poetica». In realtà non si tratta di una radicale innovazione, piuttosto dello sviluppo di elementi espressivi di poesia — il lamento e l’invettiva — già presenti nei suoi romanzi, benché con un segno ideologico diverso. A conclusione storica de La ferita dell’aprile, si leva una voce dal fondo della narrazione, che da una più alta prospettiva di giustizia e di pietà, rappresenta con grande forza poetica la strage di Portella della Ginestra del 1 maggio del 1947: N’ammazzarono tanti in uno spiazzo (c’erano madri e c’erano bambini), come pecore chiuse nel recinto, sprangata la portella. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò buttò buttò riversi sulle pietre una rosa maligna nel petto e nella tempia: negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto. Disse una vecchia, ferma, i piedi larghi piantati sul terreno: — Femmine, che sono sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca?. Non è la fine: sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso.25 Vincenzo CONSOLO, Catarsi in Trittico (Bufalino, Consolo, Sciascia), Catania: Sanfilippo,
    1989, p. 21. Ibid., p. 25. Vincenzo CONSOLO, Oratorio, Lecce: Manni, 2002, p. 6. Op. cit., p. 122-123.
    un requiem per i morti di Portella, in cui però alla rappresentazione della violenza della storia si contrappone quella di una ostinata resistenza ad essa, attraverso la plastica immagine della vecchia con le gambe ben piantate nel terreno. Snodo poetico e ideologico del libro, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, «il canto lamentoso, il pianto rotto, il cordoglio», riguardano la rivolta e la strage dei braccianti ad Alcara Li Fusi, e la fine della speranza di giustizia sociale che in Sicilia motivò l’adesione popolare al processo unitario («Sì, bisogna scappare, nascondersi. Bisogna attendere, attendere fermi, immobili, pietrificati»);26 ma anche, a mio parere, nascono dalla necessità dello scrittore di dare espressione allo spessore di sofferenza delle tante jaqueries, anonime e inespresse nella grande storia. Il brano oltrepassa la connotazione linguistica ottocentesca del personaggio del Mandralisca: è la voce dell’autore che, con un ritmo metaforico accelerato, entra in scena a indicare la cieca notte della storia «all’ estremo della notte già le orde picchiano alle porte, sgangherano e scardinano con calci chiodati, lasciano croci di gesso su bussole e portelli»):27 notte di morti, spari, inseguimenti, ma anche di una possibile sortita verso la luce, Muovi il tuo piede qui, su questa terra, entra, fissa la scena; in questo spazio invaso dalla notte troverai i passaggi, le fughe, esci se puoi dalla maledizione della colpa, senti: il rantolo tremendo si snoda in prospettiva, mantegnesco.28 In Retablo, invece, il lamento diventa invettiva contro «il secol nostro superbo di conquiste e di scienza, secolo illuso, sciocco e involuto!», e contro la città che nel Settecento meglio lo rappresentava — e ancora oggi meglio rappresenta il secolo — l’«attiva, mercatora», Milano, stupida e volgare mia città che ha fede solamente nel danee, ove impera e trionfa l’impostore, il bauscia, il ciarlatan, il falso artista, el teatrant vacabìnt e pien de vanitaa, il governatore ladro, il prete trafficone, il gazzettier potente, il fanatico credente e il poeta della putrida grascia brianzola;29 città che ritorna, oggetto di un’invettiva ancora più amara e disperata, ne Lo Spasimo di Palermo: simbolo dell’«illusione infranta», del disastro storico e morale dell’Occidente, città perduta, città irreale, d’ombre senz’ombra che vanno e vanno sopra ponti, banchine della darsena, mattatoi e scali, sesto e cinisello disertate, «tecnologico» ingranaggio, dallas dello svuotamento e del metallo. Addio.
    30 Op. cit., p. 112. Ibid., p. 113.Ibid.Op. cit., p. 103.Op. cit., p. 91.

Dopo Nottetempo casa per casa l’invettiva e il lamento si amplificano, acquistando una totale autonomia rispetto alla narrazione: diffusa voce extranarrante, inclusiva di vicende e destini, che, rispondendo a un consapevole disegno poematico del romanzo, blocca gli eventi, immobilizza il racconto senza possibilità di dialettico sviluppo e di autonoma parola nell’afasia della società di oggi. Ne L’olivo e l’olivastro cade infatti ogni steccato di genere tra poesia e prosa, tra poema e romanzo; il rimando da capitolo a capitolo — le tappe di una  contemporanea odissea — non risponde né alla sequenzialità narrativa, né tantomeno a un’organizzazione saggistica. Un’angolazione di poesia fa visionariamente implodere la simultaneità dei tempi della lingua nella sequenzialità di quello narrativo, connotando espressivamente eventi e personaggi. I luoghi si verticalizzano, materializzando — in un continuum di passato e presente, di bellezza e desolazione — la densità di storia e di vissuto che vibra oscurata dietro ogni paesaggio, ogni muro, ogni piazza, ogni città; il viaggio di Odisseo – Consolo verso l’Itaca – Sicilia non è infatti un viaggio «in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella vastità del mare, è come fosse il suo un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove a grado a grado, tutto diventa orrifico, subdolo, distruttivo»,31 dimensione di struggente lirismo si alterna a una poesia di dolente espressività: alla restituzione lirica di poche oasi di civiltà e di memoria — Siracusa, Cefalù, Caltagirone — si contrappone quella, indignata e drammatica, di una degradata contemporaneità, che trova tremenda esemplificazione in Gela, città «della perdita d’ogni memoria e senso, del gelo della mente e dell’afasia, del linguaggio turpe della siringa e del coltello, della marmitta fragorosa e del tritolo», 32 simbolo dell’irreversibile fine di un’Atene civile, «che — scrive Vincenzo Consolo nel lamento-invettiva di grande forza tragica, a conclusione morale del libro — nessuno può liberare dall’oltraggio». Lo scarto tra parola e realtà, tra racconto e afasia, si acutizza ne Lo spasimo di Palermo, in cui una lingua vertiginosamente espressionista disarticola l’apparenza di romanzo in gorghi di immagini, assonanze, rime, enjambement. Il libro si apre infatti con una sorta di proemio in cui lo scrittore addensa il senso e la connotazione metaforica della sua scrittura («Avanzi per corridoi d’ombre, ti giri e scorgi le tue orme. Una polvere cadde sopra gli occhi, un sonno nell’assenza. Il fumo dello zolfo serva alla tua coscienza. Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza»):33 un criptico viatico di poesia per il lettore, che insieme al protagonista — trasparente doppio dell’autore — sta intraprendendo un viaggio nell’immobilità della storia e nella fascinazione maliosa ma non consolatoria della parola.Quasi tutti gli undici capitoli in cui è diviso il romanzo sono introdotti da brevi preludi di un’immaginifica ed enigmatica densità, del tutto irrelati rispetto alla narrazione; un solo esempio: il preludio del IV capitolo,

  1. Op. cit., p. 19.Ibid., p. 79.Op. cit., p. 9.Muro che crolla, interno che si mostra, fuga affannosa, segugio che non molla, antro fra ruderi sferzato dalla pioggia, ironiche statue in prospettiva, teschi sui capitelli, maschere sui bordi delle fosse, botteghe incenerite, volumi che in mano si dissolvono, lei al centro d’un quadrivio accovacciata, lei distesa nella stanza che urla e che singhiozza, ritorna dall’estrema soglia, dall’insulinico terrore, entra ed esce per la porta sull’abisso, il tempo è fisso nel continuo passaggio, nell’assenza, nel fondo sono le sequenze, i nessi saldi e veri.34 Sono i misteri dolorosi di una via crucis, che, sviluppandosi capitolo dopo capitolo, tocca tutte le stazioni della contemporaneità — dal terrorismo alla speculazione edilizia, alla mafia, alla guerra, alla tenebra della follia, alla condizione di emarginazione urbana «degli stanziali dei margini» — i poveri, i disperati, i migranti — che vivono, oscuri e oscurati, negli squallidi anfratti delle città contemporanee, Stanno nel tempo loro, nell’immota notte, chiusi nel sudario bruno, ermetici e remoti, stanno come vessilli gravi sui confini, nel passo breve tra il moto e la paralisi. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, muri, statue in volute di drappi, spiegamento d’ali, slanci fingono l’estro, sono la massa ironica contro illusioni, inganni, monito dell’esito, del lento sfaldamento.35 L’intervento poetico e tragico dello scrittore spesso taglia verticalmente la narrazione, assorbendo il narrato nella restituzione metaforica di una condizione storica dove ogni giustizia è morta, ogni pietà s’è spenta. Sulla stasi e il silenzio della storia («Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime del tempo. La storia è sempre uguale»),36 si stende il requiem della poesia: rito di morte e, insieme, esorcismo contro la morte, di una scrittura che sul ciglio degli abissi «si raggela, si fa suono fermo, forma compatta, simbolo sfuggente»; 37 barocca fascinazione tonale di un linguaggio risuonante di rime, nominazioni, fastose metafore, che, simultaneamente, si pone come emergenza espressiva, ed estremo gesto di libertà ideologica, in una condizione umana coatta dalle istituzioni di potere e dall’assertorietà definitoria, ma anch’essa ideologica, del linguaggio, «La lingua — dice Vincenzo Consolo citando in un articolo della rivista Autodafè Roland Barthes — non è né reazionaria, né progressista: è semplicemente fascista, il fascismo non è impedire di dire, ma obbligare a dire…». Non resta allora che l’afasia o la poesia. E Vincenzo Consolo sceglie la poesia.
  1. Ibid., p. 45.Ibid., p. 70-71.Ibid., p. 9.Ibid., p. 12.
    Quaderns d’Italià 10, 2005
    foto di Claudio Masetta Milone