Vincenzo Consolo ” Era coraggioso come pochi “

Consolo: “Era coraggioso come pochi”
Di Roberto Carnero 19 giugno 2010
2433165922
Con Saramago perdiamo un autore di alta letteratura e di profondo impegno civile». In questo binomio – qualità letteraria coniugata con un’attenzione sempre vigile alla realtà circostante – uno dei più importanti autori italiani, Vincenzo Consolo, individua la peculiarità del lavoro di José Saramago. E ricorda un rapporto di amicizia quasi trentennale con lo scrittore portoghese, che conobbe all’inizio degli anni ’80 in Sicilia, la terra d’origine di Consolo.

In che occasione ha conosciuto Saramago?
«Fu a un convegno letterario organizzato a Catania, al quale ricordo che parteciò anche Leonardo Sciascia. In quell’occasione feci da cicerone a Saramago, che portai a visitare il Convento dei Benedettini, ricordato nei Viceré di Federico De Roberto, un romanzo che Saramago conosceva bene». Avete avuto modo di incontrarvi altre volte? «Sì, in diverse circostanze. Abbiamo mantenuto un rapporto costante negli anni. Ricordo, in particolare, un viaggio che compimmo nel 2002 con un gruppo di scrittori di diversi Paesi europei, organizzato dall’Unione Europea. Visitammo anche la Striscia di Gaza e nel constatare le terribili condizioni di vita della popolazione palestinese Saramago ebbe una reazione molto forte, pronunciando parole estremamente dure. Pronunciò, cioè, qualcosa di impronunciabile, parlando apertamente di crimine contro l’umanità. La reazione del governo israeliano fu molto determinata: i libri di Saramago vennero immediatamente ritirati dalle librerie».

Come ricorda il suo carattere?
«Questo era l’uomo: un uomo coraggioso, privo di autocensure, sempre disposto a dire apertamente ciò che pensava. Come prova l’episodio che ho appena rievocato. Non aveva cautele diplomatiche. Era schietto, diretto, a costo di essere fastidioso. Era una persona trasparente. Dotata di una grande capacità di empatia. Era innamoratissimo della sua seconda moglie, con la quale, quando era lontano da casa, passava delle intere mezz’ore al telefono».

Come mai era così importante per lui la dimensione dell’impegno civile?
«Lo si capisce facilmente se si guarda alla sua provenienza. Lui veniva dal giornalismo, da giovane, durante gli anni della dittatura di Salazar, aveva lavorato nel giornalismo d’opposizione. Pur essendo poi passato alla narrativa, non ha mai dimenticato di essere partito da lì. E ha mantenuto la forma mentis del bravo cronista, del giornalista d’inchiesta».

Quale dei suoi libri le è più caro?
«Sono molte le opere che l’hanno reso grande e che ho amato. Da Memoriale del convento a La zattera di pietra, fino a Storia dell’assedio di Lisbona. Un libro come Cecità è una grande metafora della nostra condizione attuale: una condizione di accecamento generale, specchio del mondo d’oggi».

In particolare in Italia, forse. Non è un caso che Einaudi, una casa editrice del gruppo Mondadori (la cui proprietà è riferibile alla famiglia Berlusconi), si sia rifiutata di pubblicare uno dei suoi ultimi libri, «Il quaderno» (poi edito da Bollati Boringhieri), perché conteneva critiche al nostro Presidente del Consiglio. Ha avuto modo di raccogliere le sue reazioni su questa vicenda?
«No, e devo dire che ho volutamente evitato di farlo. Perché mi è sembrata una storia davvero sgradevole, un caso di censura bella e buona, particolarmente grave visto che colpiva un autore della sua statura. E mi ha spinto a riflettere su come un’attività come la letteratura, per molti versi oggi considerata marginale, abbia evidentemente ancora la capacità di disturbare i poteri forti. Autori come Saramago e come Roberto Saviano danno fastidio ai potenti, politici o criminali che siano, perché dicono la verità, spiattellano con candore le tante piccole e grandi scomode verità che spesso facciamo prima a non vedere. O che il potere mediatico ci impedisce di vedere, rincitrullendo e rimbambendo la gente con ore e ore di programmi tv stupidi, superficiali e sostanzialmente vuoti. Ecco perché la perdita di uno scrittore come Saramago è gravissima: perché sono pochi quelli che come lui, in un panorama letterario per molti aspetti desolante, continuano a concepire il lavoro della scrittura in questi termini così ampi».

L’altro suo bersaglio polemico, soprattutto negli ultimi anni, era diventato la religione. Da dove derivava questa attenzione al fenomeno religioso?
«Anche questa critica alle religioni rivelate si inserisce nella più ampia critica al potere. Saramago attaccava le grandi fedi monoteiste, in particolare il cattolicesimo da cui proveniva per formazione e l’islam nelle sue derive fondamentaliste, a partire da una matrice laica e razionalista. Lo si vede bene anche nel suo ultimo libro, pubblicato poche settimane fa da Feltrinelli, Caino, che è una rilettura della Bibbia fatta in maniera del tutto anticonvenzionale».

Vincenzo Consolo e gli amici della lava nera

Vincenzo l’ho conosciuto nell’autunno 1968 a Zafferana Etnea, sotto il vulcano. Un paese  a una ventina di chilometri da Catania, con una bella piazza, la parrocchiale,  i caffè all’aperto, il mare lontano, come in uno scenario d’opera. Tutt’intorno vigne  e castagni, in un paesaggio rotto soltanto da cimiteri di lava nera tra le ville fatiscenti degli ultimi baroni e i villini malcostruiti dei nuovi mastro don Gesualdo.
Vincenzo Consolo era piccino, biondo e di gentile aspetto. Qualche anno prima avevo letto “La ferita dell’aprile” incantato dalla sua felicità espressiva.
L’avevano pubblicato nel 1963 Niccolò Gallo e Vittorio Sereni che dirigevano “II Tornasole” di Mondadori, una collana di prestigio che, con “I gettoni” della Einaudi, diretti anni prima da Vittorini, avevano segnato il dopoguerra letterario.
 Non era la solita opera prima, un romanzo, piuttosto, dove i caratteri del futuro scrittore erano già marcati, tra invenzioni del linguaggio, rifiuto della società incartapecorita, personaggi ribelli, rissa, idillio, beffa, amarezza e violenza, in un inarrivabile concerto comico.
Io ero un giovane giornalista precario. A Zafferana Etnea ero arrivato con l’incarico di scrivere per “Tempo illustrato” un articolo sul premio letterario “Zafferana-Brancati” che si proponeva come il rivoluzionario premio della contestazione. Il paese vantava lustri letterari. Gli scrittori siciliani erano venuti da sempre quassù – 574 metri sul mare – a villeggiare e a ripararsi dallo scirocco. Verga e Capuana davano il nome a una strada, De Roberto a una scuola, Brancati ricordava il paese in alcuni dei suoi libri, “Paolo il caldo”, il “Diario romano” e gli amministratori comunali, grati, gli avevano già dedicato una lapide nell’atrio del Municipio. Ora gli intitolavano anche il nuovo premio letterario. Erano riusciti a mettere in piedi una giuria di nomi illustri, Moravia, Paolini Dacia Maraini, Lucio Piccolo, Sciascia e Vincenzo Consolo, appunto. E poi un prete, critici, poeti e poetesse prevalentemente siciliani.
Conoscevo Moravia, Sciascia e Lucio Piccolo il barone poeta di Capo D’Orlando scoperto da Montale. Ero andato a intervistarlo anni prima, quando “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, suo cugino, aveva creato la moda dei principi di Sicilia e dei loro palazzi sontuosi. Intimidito, in mezzo a tutte quelle celebrità, con una frangetta sulla fronte, a Zafferana Etnea faceva pensare a un Beatle invecchiato. Indossava una giacca blu antiquata sotto cui spuntava una camicetta di seta blu a pois. Sembrava venuto dall’aldilà. C’era stata una gran bagarre al premio Zafferana-Brancati. Nella sala del Municipio gli animi dei giurati erano accesi, il 68 aveva incendiato il mondo, perfino i letterati si sentivano dietro le barricate. La discussione, pubblica, era punteggiata da un linguaggio allora corrente, un po’ grottesco in quelle bocche: contestazione, autocontestazione, potere culturale, potere decisionale, mozione, demistificazione, sistema, sistema, sistema, braccio di ferro con il potere, potere, potere, guerriglia, rivolta.
Poi i grandi temi dell’esistenza erano miserevolmente caduti come i castelli di sabbia costruiti dai bambini. E aveva vinto la famiglia allargata, il familismo amorale. Pasolini, con una studiata tecnica suadente, aveva proposto “Il mondo salvato dai ragazzini” di Elsa Morante. Subito seguito senza imbarazzi da Moravia che inizialmente aveva votato per un libro di Rossana Rossanda.

Sembrava una sceneggiata preparata con cura. “Il mondo salvato dai ragazzini” era un bel libro, ma la Morante era stata per decenni la moglie di Moravia. Ed era certo poco opportuno e anche non troppo decente una simile scelta per un premio che voleva essere rivoluzionario, diverso da tutti gli altri abituati a incoronare gli amici o gli autori delle case editrici dove i giurati pubblicavano i loro libri. Anche le mogli entravano ora nella rosa delle candidature -Sciascia era indignato. E con lui Consolo, due giurati, il prete.
Proponevano un altro bel libro, “Entromondo”, di Antonio Castelli, sugli emigranti siciliani, costruito sulle loro lettere alle famiglie. Il regolamento del premio prevedeva che per il vincitore occorressero i due terzi dei voti. ma la task-force Moravia-Pasolini, con affanno, o meglio con morbida violenza, sbaraglio i dissenzienti. Pasolini aveva tirato fuori la delega di Lucio Piccolo scappato nella sua villa tra gli aranceti e il cimitero dei cani. Poeti e letterati si erano aggregati, dolcemente impauriti, sotto il martellare  delle parole del grande romanziere e  del poeta maledetto. Ultima indispensabile conquista era stato il prete. Dalla teologia della liberazione ai desideri dei maggiorenti. La forza della cultura, la  cultura della forza.
 Al momento del verdetto, Vincenzo e io ci eravamo guardati e con un amaro ammicco ci erravamo intesi, “Eccoli qui i grandi inte llettuali della nazione, i fari del progresso sociale e civile” si dicevano le nostre occhiate. Da quel momento, credo diventammo amici.
A Milano ci vedevamo spesso. Abitavamo entrambi nel centro della città, lui lavorava alla Rai, io scrivevo sul “Giorno”, allora un grande quotidiano. Erano gli anni di piazza Fontana. La strage, subito dopo la bomba, aveva affratellato la comunità. Era stato troppo grave quel che era successo, i 17 morti pesavano anche sui cuori più duri. La paura si mescolava al coraggio, l’insicurezza alla volontà di resistere. Ogni giorno si rincorrevano voci minacciose, colpi di Stato, coi fantasmi di nuovi Bava Beccaris, mentre il processo della Banca nazionale dell’Agricoltura cominciava ad andare su e giù per l’Italia come una palla di neve che si gonfia, si squaglia per diventare alla fine acqua. Giustizia non fatta allora e oggi.

Vincenzo si sentiva ancora un immigrato. Era fuggito per salvarsi e si era salvato, ma chi poteva donargli ora le immagini, i colori, i sapori della terra natale amata e disamata? Quelle parole annotate da Goethe nel suo “Viaggio in Italia” il 13 aprile 1787 gli ronzavano nella testa: “Senza veder la Sicilia, non si può farsi un’idea dell’Italia. E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto”. Era vero, non era vero quel pensiero del grande scrittore approdato a Palermo da soli 10 giorni?
Quella che veniva definita “la capitale morale” poteva ammorbi-dire la nostalgia per la terra dei gelsomini, delle rosse cupoline arabe, dell’incanto del mare color del vino? Milano allora era ricca di energie, popolata da intelligenze, da Raffaele Mattioli a Montale a Vittorio Sereni, a Mario Dal Pra, a Cesare Musati, a Franco Fortini a Giulio Natta a Franco Albini a Ernesto Rogers. La finanza, la letteratura la scienza, l’architettura. Che contraddizione tra il Sud abbandonato e irredimibile e quel Nord di speranza nonostante i traumi e le bombe: l’angoscia, il dolore dell’esilio, la fatica di vivere insieme e insieme la curiosità di conoscere il nuovo un nuovo mondo, il mondo operaio di Vittorini, di Volponi, tutto quanto non c’era in quell’isola immobile che aveva abbandonatogli facevano da contro canto. Era lontano il degrado di Milano a quel tempo.
Stava scrivendo, Vincenzo, dopo quel suo libro di giovinezza ricco di magia Vincenzo, dopo quel suo libro di giovinezza ricco di magia? Lui diceva di sì, ma non si spiegava, non si scopriva, impaurito. Per uno scrittore la seconda opera è uno scoglio difficile. inI genere i critici letterari sono più severi con il nuovo libro, le cui qualità non sono quasi mai paragonabili a quelle del primo.
Ci mise lo zampino il caso. Caterina, la moglie di Vincenzo, andò dal libraio Manusé a cercare un libro sul Settecento messinese da regalare al marito. Gaetano Manusé, siciliano di Valguarnera Caropepe, provincia di Enna, era arrivato a Milano nel dopoguerra e aveva impiantato una bancarella di ferro verde dietro l’abside della chiesa di San Fedele, a due passi dalla Scala. Intelligente, furbo, con un amore quasi ossessivo per i libri, aveva avuto già allora clienti illustri, Toscanini, Luigi Einaudi, Raffaele Mattioli, Eugenio Montale. Tra le sue mani erano passati libri preziosi, tra gli altri una vita di Alfieri postillata da Stendhal. Manusé uscì dalla sua garitta foderata di antiche mappe, trovò il libro per Caterina che conosceva e le chiese se suo marito aveva qualche scritto nel cassetto. “Si”, disse Caterina, “due capitoli di un romanzo che non vuole finire”.
Manusé mise in moto la sua immaginazione. Con finta ingenuità chiese a Consolo i due capitoli, chiese a Renato Guttuso un’acquaforte per illustrarli ed esaudì il sogno della vita, diventare editore. Nacque così “Il sorriso dell’ignoto marinaio” o meglio il suo prezioso frammento uscito dalla stamperia Valdonega di Verona, con l’incisione del pittore siciliano che raffigurava con tratti realistici il protagonista del romanzo.

“Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro , di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaio: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vivuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e a le vicende loro. E, avvertivasi in colui, la grande dignità di un signore.”
 La letteratura più alta, il lacerto di un capolavoro in 150 esem-plari. Un romanzo storico di folgorante bellezza, protagonisti il barone Enrico Pirajno di Mandralisca – erudito, archeologo, mala-cologo, collezionista d’arte – e Giovanni Interdonato, avvocato, cospiratore democratico di sinistra, esule, magistrato, senatore del Regno d’Italia. Con loro braccianti, frati, mercanti, sbirri, banditi, pastori, negli ultimi anni del dominio borbonico, e anche dopo lo sbarco di Garibaldi, tra rivoluzioni liberali fallite, rivolte contadine, eccidi di massa, fucilazioni, tra Cefalù e Sant’Agata di Militello. I drammi della storia inclemente per gli uomini. Le loro cadute speranze.

Il 30 novembre 1975 scrissi un articolo sul “Giorno”: “Due siciliani pazzi per un libro unico” aveva per titolo.
Suscitò attenzione, creò curiosità. Le case editrici a quei tempi erano attente, non soltanto ai conti della spesa. Si fecero subito vivi con Consolo, Ernesto Ferrero della Einaudi e Mario Spagnol della Rizzoli. silente la Mondadori che, tra l’altro, aveva pubblicato “La ferita dell’aprile”. Dubbioso tra il gran nome che allora aveva la Einaudi e i sostanziosi assegni della Rizzoli, Consolo scelse la casa editrice di Torino, il catalogo della storia e della cultura nazionale dal 1933 a quegli anni.
Solo che adesso bisognava scrivere il resto del libro. Tutti lo tormentavano, anch’io.
Completò finalmente il terzo capitolo, “Morti sacrata”: un frate, ad Alcara Li Fusi scende dal suo eremo e incontra i contadini eccitati dallo sbarco di Garibaldi suscitatore di speranza perché promette terra e giustizia. Il frate profetizza una strage. E un capitolo intriso di dramma.
 Vincenzo lo fa leggere a Caterina. Anche quelle pagine sono bellissime. Caterina si emoziona e insieme s’infuria. “E tu – gli dice – che sai scrivere in questo modo non hai la forza e il coraggio di finire il tuo libro?”
Le parole fanno presa. Vincenzo vince la paura di scrivere, lo scirocco dell’anima, il pudore. Tutto sa del suo “Sorriso” perchè in quegli anni non ha fatto che studiare e pensare al romanzo. Nella mente ha chiaro come va costruito e strutturato. Si mette all’opera e scrive con straordinaria rapidità gli altri capitoli. Il sorriso dell’ignoto marinaio esce da Einaudi pochi mesi dopo, il 10 giugno 1976. Un meraviglioso libro. Inquietato dai tormenti.

     CHISTA E’ ” A STORIA VERA
  SCRITTA CU LU CARBUNI

SUPRA ‘A PETRA

CORRADO STAJANO
Microprovincia – Rivista di cultura diretta da Franco Esposito
n. 48 Gennaio-Dicembre 2010
foto di Giovanna Borgese

Il Mediterraneo tra illusione e realtà.

IL MEDITERRANEO TRA ILLUSIONE E REALTÁ, INTEGRAZIONE

           E CONFLITTO NELLA STORIA E IN LETTERATURA

Letto al convegno “ La Salute Mentale nelle terre di mezzo” organizzato da  Psichiatria Democratica 12-13.3.2009, Caltagirone

In una notte di giugno dell’ 827, una piccola flotta di Musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egiziani, Siriani, Libici, Maghrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furàt, partita dalla fortezza di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte sorprendenti incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica lasciato nell’isola dai Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta la Sicilia, dall’occidente fino all’oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia un emirato dipendente dal califfato di Bagdad. In Sicilia, dopo le depredazioni e le spoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della Chiesa, dei monasteri, i Musulmani trovano una terra povera , desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i Musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre Valli, rette dal Valì: Val di Mazara, Val Dèmone e Val di Noto; rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove tecniche agricole, a nuovi sistemi di irrigazione, di ricerca e di convogliamento delle acque, all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il sommacco e il cotone…);  rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della tonnara; rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande durante la dominazione musulmana è lo spirito di tolleranza, la convivenza tra popoli di cultura, di razza, di religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Di questa società arabo-normanna ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr, Ibn Hawqal, il geografo Idrisi. E sul periodo musulmano non si può che rimandare alla Storia dei Musulmani di Sicilia, (1) scritta da un grande siciliano  dell’ 800, Michele Amari. Storia scritta, dice  Elio Vittorini, “con la seduzione del cuore” (2). E come non poteva non scrivere con quella “seduzione”, nato e cresciuto nella Palermo che ancora conservava nel suo tempo non poche vestigia, non poche tradizioni, non poca cultura araba ? Tante altre opere ha scritto poi Michele Amari sulla cultura musulmana. Per lui, nel suo esempio e per suo merito, si sono poi tradotti in Italia scrittori,

                                                     2

memorialisti, poeti arabi classici.  Per lui e dopo di lui è venuta a formarsi in Italia la gloriosa scuola di arabisti o orientalisti che ha avuto eminenti figure come Levi Della Vida, Caetani, Nallino, Schiapparelli, Rizzitano, fino al grande

Francesco Gabrieli, traduttore de Le mille e una notte (3).

Vogliamo ripartire da quel porticciolo siciliano che si chiama Mazara, in cu

sbarcò la flotta musulmana di Asad Ibn al-Furàt, per dire di altri sbarchi, di siciliani  nel Maghreb e di maghrebini, e non solo, in Sicilia.

                                                   °°°°°°

Finisce la terribile e annosa guerra corsara fra le due sponde del Mediterraneo, guerra di corsari musulmani e di corsari cristiani, finisce con la conquista di Algeri  nel  1830 da parte dei Francesi. Ma si apre anche da quella data, nel Maghreb, la piaga del colonialismo. E comincia, in quella prima metà dell’ 800, l’emigrazione italiana nel Maghreb. É prima un’emigrazione intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli : “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”(4). Dopo i falliti moti di Genova del 1834, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Giuseppe Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 1849 ancora si fa esule a Tunisi.

A Tunisi si era stabilita da tempo una nutrita colonia italiana di imprenditori, commercianti, banchieri ebrei provenienti dalla Toscana, da Livorno soprattutto, primo loro rifugio dopo la cacciata del 1492 dalla Spagna. Conviveva, la nostra comunità, insieme alla ricca borghesia europea, un misto di venti nazioni, ch s’era stanziata a Tunisi. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Trapani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno sulle coste maghrebine.

Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di Monastir, di Mahdia,  nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Anche sotto il protettorato francese, ratificato con il Trattato del Bardo del 1881, l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna. Gli emigrati già

                                                            3

inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti.  Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità

italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade

nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte” .

La fine degli anni Sessanta del 1900 segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra. A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto in Sicilia,  a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia. A Mazara, una comunità di 5.000 tunisini riempie i vuoti, nella pesca, nell’edilizia, nell’agricoltura, che l’emigrazione italiana, soprattutto meridionale, aveva lasciato. Questa prima emigrazione maghrebina nel nostro Paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la quarta guerra punica, la “guerra” del pesce, il contrasto vale a dire fra gli armatori siciliani, che con i loro pescherecci sconfinavano  nelle acque territoriali nord-africane, contrasto con le autorità tunisine e libiche. In questi conflitti, quelli che ne pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi imbarcati sui pescherecci siciliani. Sull’emigrazione maghrebina in Sicilia dal 1968 in poi,  il sociologo di Mazara Antonino Cusumano ha pubblicato un libro dal titolo Il ritorno infelice.(5)

È passato quasi mezzo secolo dall’inizio di questo fenomeno migratorio in Italia. Da allora e fino ad oggi le cronache  ci dicono delle tragedie quotidiane che si consumano nel Canale di Sicilia. Ci dicono di una immane risacca che lascia su scogli e spiagge corpi senza vita. Ci dicono di tanti naufragi. E ci vengono allora  in mente i versi di Morte per acqua di T.S. Eliot :

                  Phlebas il Fenicio, da quindici giorni morto,

                  dimenticò il grido dei gabbiani, e il profondo gonfiarsi del mare

                  e il profitto e la perdita.

                                                                                Una corrente sottomarina

spolpò le sue ossa in sussurri. (6)

Le cronache ci dicono di disperati che cercano di raggiungere l’isola di Lampedusa. Disperati che partono soprattutto dalla Libia, ma anche dalla Tunisia e dal Marocco. Accordi ricattatori sono stati stipulati dal governo italiano con il dittatore Gheddafi, ma i mercanti di vite umane continuano sempre a spedire per Lampedusa barche cariche di uomini, donne, bambini, provenienti dal maghreb e dall’Africa subsahariana. I famosi CPT, Centri di

                                                       4

Permanenza Temporanea, a Lampedusa e in altri luoghi non sono che veri e propri lager. Il governo italiano intanto non fa altro che promulgare leggi xenofobe, razzistiche, di vero spirito fascistico. Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe, scontri

con le forze dell’ordine, scioperi della fame, gesti di autolesionismo e di tentati suicidi, di gravi episodi di razzismo e di norme italiane altrettanto razzistiche si

rimane esterefatti. Ci ritornano allora le parole  di  Braudel riferite  a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi contrazionari”.(7)

Volendo infine entrare nel tema di questo convegno La salute mentale nelle terre di mezzo, vogliamo qui annotare  che sono soprattutto le donne a soffrire  le violenze, i disagi della vita, del costume, della storia e citiamo qui  degli autori classici che in letteratura hanno rappresentato questo dramma. L’Ofelia dell’Amleto di William Shakespeare innanzi tutto; la suor Maria di Storia di una capinera di Giovanni Verga; la Demente di Come tu mi vuoi di Luigi Pirandello; Le libere donne di Magliano di Mario Tobino; la donna reclusa in una stanza in Voci di Marrakech di Elias Canetti.

                                                                  (Vincenzo Consolo)

Note:

  • Storia dei Musulmani di Sicilia di Michele Amari – CT Romeo Prampolini 1933
  • I Musulmani in Sicilia di Michele Amari a cura di Elio Vittorini -pag. 6

          Bompiani 1942

     3) Le mille e una notte – Einaudi 1948

     4) Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825 – pag. 890 Rizzoli 1967

     5) Il ritorno infelice di Antonino Cusumano –   Sellerio 1976

     6) Poesie di T.S. Eliot -pag. 79 – Ugo Guanda 195

     7) Civiltà e Imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II di Fernand

         Braudel -– vol.I pag. 921-922 – Einaudi 1976

Breve bibliografia sull’emigrazione:

Pantanella di Mohsen Melliti – Edizioni del Lavoro 1992

                                                           5

Le non persone di Alessandro del Lago – Feltrinelli 1999

Clandestino nel Mediterraneo di Fawzi Mellah Editore Asterios Trieste 2001

Mi chiamo Alì…(Identità e integrazione: inchiesta sull’emigrazione in Italia) di

                                                          Massimiliano Melilli – Editori Riuniti 2003                                                    

Migranti (verso una terra chiamata Italia ) di Claudio Camarca – Rizzoli 2003

I fantasmi di Portopalo di Giovanni Maria Bellu – Mondadori 2004

Bilal (Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi)di Fabrizio Gatti

                                                                                                         Rizzoli 2007

A Sud di Lampedusa ( Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti) di Stefano

                                                                                Liberti – Minimum Fax 2008

Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio di Amara Lakhous –

                                                                                             Editore e/o  2006

Milano, 10.3.2009

2005-torino-foto-di-geuppo-al-convegno-per-una-europa-senza-manicomi 2005-torino-vincenzo-consolo-ed-emilio-lupo-al-convegno-per-una-europa-senza-manicomi-organizzato-da-psichiatria-democraticalo-scrittore-vincenzo-consolo-ed-emilio-lupo-nella-sua-casa-di-secondigliano-1vincenzo-consolo-con-renato-donisi-ed-emilio-lupo
Foto di alcuni relatori del convegno
Vincenzo Consolo con l’amico Emilio Lupo – Segretario nazionale di Psichiatria Democratica

  

Vincenzo Consolo ci racconta Pio La Torre

10603897_10206518554992850_6003066279175589314_o30 ago 2008
Vincenzo Consolo ci racconta Pio La Torre

Ero anch’io là, quella primavera del 1982, là a Comiso, all’aeroporto, dove il Governo di Spadolini aveva deciso di far installare i missili Cruise. Ero là in uno dei giorni in cui facevano il blocco davanti al cancello centrale dell’aeroporto i pacifisti giunti d’ogni dove. Erano ragazzi accovacciati a semicerchio per terra. Volevano così impedire ai camion, alle impastatrici, agli operai di entrare nel campo. Tutti avevano maglie, giacconi variopinti sopra le teste di capelli ricciuti.

Alcuni avevano tute e casacche bianche, e sul petto e le spalle dipinte grandi croci scarlatte. Le ragazze portavano giacchette indiane con ricami e specchietti o la kufia palestinese sopra le spalle. Sul muro di mattoni sovrastato dal filo spinato e da un filare di eucalipti erano scritte di calce e appesi striscioni di tela. Dicevano «Pace», «Amsterdam contra militarisme», «Testate nucleari – Carcero speciali – È questa la guerra contro i proletari», «Vogliamo vivere, Vogliamo amare – Diciamo no alla guerra nucleare». Erano ancora tutti assonnati e di più assonnati i poliziotti e i carabinieri che chissà in quali ore notturne erano stati fatti partire dalle caserme di Ragusa o Catania. Erano giovane anch’essi e schierati davanti al cancello, a fronteggiare quegli altri accovacciati per terra. M’aggiravo sullo spiazzo di terra battuta e di stoppie, da un capo all’altro, e guardavo quei visi di giovani e volevo capire chi era dell’Isola, vedere se ne riconoscevo qualcuno. Ma nessuno; mi sembravano tutti d’un luogo di cui non avevo cognizione. Fu allora che mi sentii chiamare, richiamare. E mi corsero incontro alcuni del mio paese lì alle falde del Nébrodi, figli o nipoti di vecchi amici e compagni. Erano Aldo, Antonella, Francesco, Rino, Grazia, Saro. Mi dissero che era stato là, nei giorni passati, Pio La Torre, che li aveva spronati a resistere, a opporsi a quel progetto terribile dei missili Cruise, che avrebbero dovuto essere installati anche su rampe mobili e scorazzare per tutta la Sicilia.

Arrivano quindi le impastatrici e i camion degli operai decisi a entrare. I ragazzi fecero blocco, li fermarono. Arrivava intanto altra gente, politici, preti, un abate di Roma ch’era stato sospeso dal suo ufficio. Arrivò anche il questore, un omino atticciato in giacca e cravatta. Si mise a dire che doveva entrare nel campo, che doveva telefonare a Roma. Tutti dissero no, no! e serrarono le file davanti al cancello. E si misero a scandire slogan. «Dalla Sicilia alla Scandinavia – No ai missili e al patto di Varsavia». Il questore, a un punto, si mise a urlare, a dare ordini. Si mossero subito i militari con elmi, scudi e manganelli. Picchiarono e picchiarono sopra teste, schiene nude e braccia. Urla si sentirono, lamenti e un gran polverone si levò da terra. Sparavano lacrimogeni e nel cielo si formavano nuvole. Inseguivano e picchiavano tutti, giovani e no, deputati, medici e infermieri, giornalisti e fotografi. Stavo là impietrito a guardare. E vidi Luciana Castellina scaraventata per terra e picchiata; un giovanissimo carabiniere che s’inginocchia e piange; un poliziotto che sta per sparare, quando un altro a calci nel polso gli fa cadere l’arma di mano… Vidi che afferravano per i capelli e a calci e spintoni facevano salire sui furgoni i catturati. Mi sorpresi trasognato a urlare, a chiamare i miei giovani compaesani: «Antonella, Mino, Saro…», i quali arrivarono sanguinanti, pallidi, storditi. «Scappiamo, scappiamo!» dissero. «Hanno preso Grazia» dissero «Hanno preso Francesco»… Li lasciai raccomandando loro di tornarsene a casa, ché tanto a Roma il governo aveva deciso a tener duro su Comiso, a far rispettare a ogni costo gli impegni con gli Usa.

E invece no. Per merito di Pio La Torre e del movimento dei pacifisti, i missili Cruise vennero portati via, l’aeroporto sgomberato da quella minaccia. E l’aeroporto, già intitolato al generale di Mussolini Magliocco, venne poi intitolato, nell’aprile del 2007, a Pio La Torre, ucciso dalla mafia, venticinque anni prima. Ed ora, vergognosamente, il sindaco di An di Comiso vuole restituirlo alla memoria fascista di quel generale. Vergogna e ancora vergogna!
Pio La Torre, uno dei martiri siciliani, dei combattenti contro la mafia, l’oscuro e terribile potere politico mafioso. Nel secondo dopoguerra è il combattente martire insieme a Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale… Il nome di Placido Rizzotto richiama subito quello di Pio La Torre, perché è lui, il giovane militante comunista, che a Corleone prende il posto di dirigente della Confederterra. Erano gli anni, quelli, del movimento contadino, degli scioperi e delle occupazioni delle terre incolte per l’attuazione della Riforma Agraria, per l’assegnazione ai contadini di «fazzoletti» di terra nei feudi dei Gattopardi. Eletto nel Parlamento italiano, poi La Torre decide di tornare in Sicilia. Torna perché sente che sono tre i grandi problemi che bisogna affrontare e cercare di risolvere in Sicilia: la crisi economica, la criminalità mafiosa, la minaccia della pace nel Mediterraneo per l’installazione della base missilistica americana all’aeroporto di Comiso. Col suo ritorno in Sicilia, Pio La Torre mette in allarmemolte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione, della speculazione edilizia, del bellicismo. L’impegno suo nell’affrontare tutti questi problemi, e soprattutto la legge, che porta la sua firma, del sequestro dei beni dei mafiosi, fa maturare nel potere criminale la decisione di eliminarlo. La Torre viene ucciso la mattina del 30 aprile 1982 mentre è in macchina, in via Generale Turba, a Palermo, insieme al suo autista Rosario Di Salvo.

È Pio La Torre, sono tutti gli altri martiri, gli altri eroi caduti nella lotta alla mafia, sono loro l’onore di Sicilia, e di tutto questo nostro Paese. Paese oggi irriconoscibile e irriconoscente. Paese in cui l’attuale sindaco di Comiso di An Giuseppe Alfano (tanto nome!) immemore o smemorato o incosciente, vuol togliere il nome di La Torre all’aeroporto e restituirlo al generale fascista Vincenzo Magliocco. Dopo la via di Roma da intitolare as Almirante, le impronte digitali ai bambini rom, la criminalizzazione dei clandestini, dopo il lodo Alfano e tanto, tanto altro di questo onorevole Governo Berlusconi, questa è la poitica di ministri e piccoli sindaci del nostro irriconoscibile paese.

L’Unità

Presentazione del libro Filosofiana, di Vincenzo Consolo racconto tratto dal libro le “Pietre di Pantalica”. Madrid istituto Cervantes. Il 17 di aprile 2008 Presenta: Manuel Gil Esteve (Cattedratico de Filologia Italiana. Universidad Complutense. Partecipano: Renzo Cremante, Cattedratico de Filologia Italiana Director del Fond de Manuscritos de Autores Contemporaneos. Università di Pavia. Salvatore Trovato, Cattedratico de Linguistica Universidad de Catania. Irene Romera Pintor: Professora Titular de Filologia Italiana. Univesidad de Valencia.

Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Prima parte.
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Seconda parte
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Terza parte.

Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

scansione0016
Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

 

27 LUGLIO 2011 NATALE TEDESCO TOPOGRAFIE LETTERARIE

di Natale Tedesco

 

Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore. Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo, La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di Pantalica. Fascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagement. Di quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si giuoca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

20 giugno 2007

Per Pio La Torre



“Noi fummo i leoni e i gattopardi, dopo di noi verranno le iene e gli sciacalli.” Dice il principe di Salina a Chevalley, l’inviato del nuovo governo italiano, che gli offriva il laticlavio, la nomina a senatore. Ma il principe di Salina ignorava o voleva ignorare che le iene e gli sciacalli, i don Calogero Sedara, erano nati e cresciuti, si erano ingrassati nelle terre, nei feudi dei suoi pari, dei nobili, mentre loro, i feudatari, se ne stavano nei loro palazzi di Palermi a passare il tempo tra feste e balli. Vogliamo dire che la mafia dei gabellati, dei soprastanti e dei picciotti, mafia che sfruttava e opprimeva i braccianti, era nata là, nel latifondo, nel feudo, in quel sistema economico che durava da più di mille anni. Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, ignorava questo?
In quell’Ottocento post-unitario al governo italiano arrivavano sempre più spesso notizie di assassini, di stragi in Sicilia, nelle campagne e nei paesini dei feudi. Nel 1975 si promosse la prima inchiesta parlamentare sulla mafia in Sicilia. Ma i risultati furono quasi nulli perché tutti gli interrogati negavano l’esistenza di quella organizzazione criminale. Nel 1876 viene pubblicata l’inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino, un piemontese e un toscano, nella quale si parlava della specificità  siciliana della malavita organizzata, della mafia. Insorsero allora le anime belle di intellettuali, che sentirono quell’inchiesta come una offesa alla Sicilia. Luigi Capuana scrisse un pamplet per contestare l’inchiesta dei due studiosi, servendosi della definizione che della mafia dava il grande etnologo Giuseppe Pitrè per il quale la parola maffia era sinonimo di bellezza, di eleganza. Bellezza ed eleganza che opprimeva, sfruttava, uccideva. Per la prima volta, nel 1863, si rappresenta il legame tra mafia e potere politico nella commedia di Rizzotto e Mosca, I Mafiusi di La Vicaria, in cui il personaggio dell’Incognito che visita nel carcere di Palermo i mafiosi è nella realtà Francesco Crispi.
Quando arriva anche in Sicilia il messaggio del Socialismo, iniziano i primi scioperi dei contadini, degli zolfatari. E inizia la repressione delle forze dell’ordine. I carabinieri sparano contro i dimostranti, imprigionano. Avviene nel 1893 la strage di Caltavuturo. Andrea Barbato, capo dei Fasci Siciliani, viene imprigionato. Ingrao, nonno di Pietro Ingrao, è costretto a scappare e a rifugiarsi nel Lazio. Con l’avvento del fascismo e l’andata in Sicilia del prefetto Mori, il prefetto di ferro, la mafia si occulta, si immerge. “Calati Juncu ca passa la china”, piegati giunco ché passa la piena, dice il motto mafioso. La verità è che i due poteri mafiosi, fascismo e mafia, non potevano coesistere. Il giunco, la mafia, si rialza, si fa più potente che mai con lo sbarco degli americani nel 1943 in Sicilia. Renato Candida, nel libro L’esercito della lupara, ci racconta che Lucky Luciano, scarcerato in America, viene portato in Sicilia e fatto incontrare con don Calogero Vizzini, il potente capo mafia di Villalba.
Fatto è che i primi sindaci nei paesi dell’interno della Sicilia, nominati dagli americani, sono quasi sempre mafiosi. E sono loro che reprimono le prime lotte contadine del secondo dopoguerra, sono loro che comandano ai picciotti di assassinare capilega, sindacalisti, contadini. Nel 1947, sappiamo, avvenne la strage di Portella della Ginestra.

Fu la mafia, sappiamo, a sparare per mano della banda di Salvatore Giuliano, e insieme furono i fascisti del comandante di Salò Giulio Valerio Borghese, a sparare contro i contadini che festeggiavano il primo maggio, nella spianata di Portella, intorno alla pietra di Barbato. È da partigiano nel Piemonte Pompeo Colaianni prende il nome di Barbato, e del partigiano Barbato ci dice Beppe Fenoglio nel Partigiano Jhonny. Le due mafie – fascismo e mafia – si ritrovano a Portella concordi nell’uccidere, nel massacrare i proletari.
Nel secondo dopoguerra è una sequela terribile di assassini di capilega, di sindacalisti, contadini. Ricordiamo fra tutti i nomi di Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale (dell’indomita forza e dignità della madre di Salvatore, Francesca Serio, ci racconta Carlo Levi in Le parole sono pietre).
 Il nome di Placido Rizzotto richiama subito quello di Pio La Torre, perché è lui, il giovane militante comunista, che a Corleone prende il posto di dirigente della Confederterra. Erano gli anni quelli, del movimento contadino, degli scioperi e delle occupazioni delle terre incolte per l’attuazione della riforma agraria, l’assegnazione ai contadini di “fazzoletti” di terra nei feudi dei Gattopardi. È La Torre che vogliamo qui oggi commemorare nel 25° anniversario della sua morte, del suo assassinio. Era nato nel I92l in una contrada alla periferia di Palermo, Rocca Tagliata. Figlio di contadini, era riuscito a laurearsi in scienze politiche. Nel 1947 diviene dirigente prima della Confederterra, poi della CGIL e quindi delle PCI. Nel 1950 è arrestato e tenuto in carcere per un anno e mezza, arrestato di aver organizzato l’occupazione da parte dei braccianti e dei contadini senza terra del feudo di Santa Maria del Bosco, nei pressi di Bisacquino. Nel 1962 diviene segretario regionale della CGIL e quindi segretario regionale del partito. Fa parte anche del comitato centrale del PCI. Nel 1969 è chiamato a Roma per incarichi nella commissione agraria e in quella meridionale. Entrerà quindi nella segreteria nazionale della PCI su proposta di Enrico Berlinguer.

Nel 1981, mentre è deputato a Montecitorio, torna in Sicilia e assume la carica di segretario regionale del partito. Toma perché sente che sono tre grandi problemi che bisogna affrontare e cercare di risolvere in Sicilia: la crisi economica, la criminalità mafiosa, la minaccia della pace nel Mediterraneo per l’installazione della base missilistica americana nell’aeroporto di Comiso. Ci sono manifestazioni davanti a quell’aeroporto, vi si accampano giovani pacifisti giunti la da ogni parte di Europa, giovani che vengono puntualmente caricati e malmenati dalla polizia. Pio La Torre raccoglie un milione di firme in calce a una petizione al governo il cui presidente era allora Giovanni Spadolini. Con il suo ritorno in Sicilia, Pio La Torre mette in allarme molte centrali: del crimine organizzato, della destabilizzazione, della speculazione edilizia, del bellicismo. L’aeroporto di Comiso oltre a dover contenere i missili atomici delle rampe fisse avrebbe anche contenuto quelle mobili, che si sarebbero mosse per tutta la Sicilia. L’impegno suo nell’affrontare tutti questi problemi, mafia, destabilizzazione, pericolo atomico, fa maturare nel potere criminale la decisione di eliminarlo. Una terribile stagione quella dell’inizio degli anni ’80 in cui la mafia uccide presidenti di regione, ufficiali dei carabinieri, commissari di polizia, magistrati, giornalisti. La mattina del 30 aprile 1982 Pio La Torre esce di casa e sale sulla macchina guidata dall’autista Rosario Di Salvo. Dopo pochi metri di strada, in via Generale Turba, tre motociclisti si affiancano alla macchina e sparano, sparano, massacrando i due uomini, La Torre e Di Salvo. Gli esecutori del massacro, si saprà poi, sono Salvatore Cucuzza, Pino Greco e Giuseppe Lucchese. Ma non si sa ancora oggi chi sono stati i mandanti. Giorgio Frasca Polara scrive: “in un dischetto del computer di Giovanni Falcone, dopo la sua morte, sarà trovata una traccia: un collegamento del nome di Pio La Torre con Gladio (l’organizzazione clandestina anti-comunista) e il SISMI, cioè il servizio segreto militare (interessato alla campagna su Comiso?)”

Abbiamo iniziato con il Gattopardo, questo grande romanzo, ma con una concezione deterministica, meccanicistica della storia, speculare alla concezione fatalistica di Giovanni Verga. Abbiamo iniziato con le parole del principe di Salina per concludere ora che i veri nobili non sono i leoni e i gattopardi, ma tutti quelli che hanno lottato in Sicilia per la democrazia, per il rispetto dei diritti e della dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i Giovanni Falcone e i Paolo Borsellino, tutti coloro insomma che hanno lottato e sacrificato la loro vita per la libertà, la giustizia, il rispetto dei diritti di tutti. E Pio La Torre, sono tutti gli altri martiri, gli altri eroi,
 I’ onore di Sicilia

e di tutto questo nostro Paese. Onore a loro!

Vincenzo Consolo
Milano 21 aprile 2007
Letto a Firenze il 21 aprile 2007
congresso PD
pubblicato il 22 aprile 2007
Sull’Unità.


SICILIA IN FESTA – FOTO DI GIUSEPPE LEONE

SICILIA IN FESTA – FOTO DI GIUSEPPE LEONE
 Pubblicato in “Feste per un anno”Eidos-Fondazione Buttitta 2007 pag. 11-12


 “La mitologia […] questo ha potuto con sicurezza affermare: che i fenomeni del cielo e della terra nel loro periodico ripetersi e rinnovarsi han dato luogo a molte pratiche e usanze come a molti miti e leggende.” Scrive Giuseppe Pitrè nel volume Spettacoli e feste (1) della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane. E Sebastiano Aglianò, in Questa Sicilia, scrive a sua volta:”InSiciliailcarattere sacro dei misteri greci, la prostrazione islamica al Dio onnipotente hanno confuso i loro germi con quelli più vivi del cristianesimo” (2) Fenomeni dunque del cielo e della terra hanno creato i più antichi miti, e quelli della Grecia, i più significativi per noi. Hanno creato il mito primitivo e pregnante della terra, del buio e della luce, dell’inverno e della primavera. Il mito primigenio, vogliamo dire, di Demetra e di Persefone. “Demetra dalle belle chiome, dea veneranda, io comincio a cantare,/ e con lei la figlia dalle belle caviglie, che Aidoneo rapi.. così l’Inno di Omero a Demetra(3). E in questa madre dolente che ricerca la figlia rapita si è voluto vedere, nelle feste pasquali, l’Addolorata alla ricerca del Figlio. Lampante ancora ci sembra lo scivolamento pagano nella liturgia cristiana, nella festa di San Giovanni, il 24 giugno, nel solstizio d’estate. Festa che si fa in vari paesi, ma singolare è quella di Alcara Li Fusi, un paesino dei Nebrodi. Al mattino si svolge la processione con la statua del Santo. Alla sera, in ogni contrada del paese, si apparecchiano gli altarini del muzzuni, una brocca senza manici dentro cui si son fatti germogliare orzo e frumento. Intorno all’altarino, uomini e donne intonano canti d’amore. Dello stesso senso della festa di San Giovanni, della netta separazione del rito pagano dal rito cristiano, ci sembra il rito rappresentato da Pirandello ne La sagra del Signore della Nave. Ma torniamo alla Settimana Santa, ai riti del passaggio dalla morte alla resurrezione, alla vita. Già nell’alto medioevo, nel mondo cristiano, avveniva nelle chiese la recita del Mistero, la Sacra Rappresentazione per celebrare la Settimana Santa. E in Sicilia? La Sicilia, che al tempo dei greci aveva avuto i grandi teatri di Taormina, di Segesta, di Siracusa, dove Eschilo fece rappresentare per la prima volta le Etnee, con i Bizantini, gli Arabi e i Normanni non ebbe più rappresentazioni teatrali. Bisogna arrivare al 1563, quando, col viceré Medinaceli, fu rappresentato a Palermo, nella chiesa di Santa Maria della Pinta, l’atto, detto appunto della Pinta, scritto da Merlin Cocai, pseudonimo di Teofilo Folengo. L’atto della Pinta fu l’inizio di una serie di sacre rappresentazioni, di recite di opere teatrali nelle chiese, nei monasteri e finanche nei cimiteri delle varie città di opere teatrali nelle chiese, nei monasteri e finanche nei cimiteri delle varie – città e paesi di Sicilia. Erano storie di martirii di santi, ma erano soprattutto, durante la Settimana Santa, rappresentazioni del Mortorio, della Passione di Cristo; erano opere come il Cristo morto di Ortensio Scammacca, Funerale di Giesù di Giuseppe Riccio, Cristo condannato e Cristo al Calvario di padre Benedetto da Militello, Il riscatto di Adamo nella morte di Gesù Cristo di Filippo Orioles. A Trapani, come a Prizzi e in altri centri, la sacra rappresentazione cominciava la Domenica delle Palme, con la benedizione dei rami delle palme, tra musiche e scampanate. Dopo, nei giorni della Settimana Santa, la rappresentazione diveniva sempre più drammatica, come avveniva a Palermo lungo il Cassaro, con la Danza Macabra o Trionfo della Morte. Il culmine si raggiungeva, negli ultimi tre giorni della Settimana Santa, con la recita della Passione di Cristo, che prendeva a Erice il nome di Casazza. Nome, Casazza, dicono gli storici di volta in volta, venuto in Sicilia dalla Lombardia, dalla Toscana o dalla Spagna, ma che significa sempre la grande casa in cui avveniva la sacra rappresentazione. C’erano, in queste rappresentazioni, quelli che dovevano recitare l’ ingrata parte degli uccisori di Cristo, dei Giudei, come avveniva e avviene ancora, a San Fratello e a Geraci Siculo. Per i sanfratellani però l’interpretazione della parte dei Giudei forse ingrata non è. Nei loro sgargianti costumi diavoleschi, con trombe e catene in mano, quei contadini, pastori, boscaioli carbonai, sembra che interpretino fino in fondo, con convinzione, la loro parte di “cattivi”. Scrive Nino Buttitta: “Nel giovedì e nel venerdì precedenti la Pasqua le strade di San Fratello sembrano ripercorse dall’agitazione e dal tripudio dei giorni di carnevale. Salti, corse, sgambetti, saggi di equilibrismo [..], canti, rumori di catene, squilli di tromba, clamorosamente annunciano la presenza dei Giudei”(4). E ancora due altri etnologi, rispettivamente di San Fratello e di Mistretta, Rubino e Cocchiara, ci parlano di questi Giudei. Feste, feste in Sicilia: feste calendariali, feste religiose. “Che cosa è una festa religiosa in Sicilia? ” si chiede Leonardo Sciascia (5). E così risponde usando una grammatica freudiana e insieme pirandelliana: “E’ una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo” (6). Una solitudine troppo rumorosa verrebbe da dire con Bohumil Hrabal. Ru-more, chiasso, movimento, luce, colore che ritroviamo nel Carnevale, nel Natale, nella Pasqua e nelle feste patronali dei vari paesi di Sicilia, fissati nelle straordinarie fotografie di questa mostra di Giuseppe Leone. Giuseppe Leone, con Sellerio, Scianna, Minnella e altri, appartiene alla grande scuola dei fotografi siciliani, scuola che è speculare, azzardiamo dire a quella letteraria. Speculari, le due scuole, perché leggono interpretano, “rappresentano”, ciascuna a suo modo, la ricca realtà siciliana. Cento e più foto sono in questa mostra di Leone. In cui sono fissate le immagini delle feste, religiose e no, di tanti paesi di Sicilia, dal Natale di San Michele di Ganzeria e Barrafranca, al Carnevale di Chiaramonte Gulfi, di cui ci ha lasciato memoria Serafino Amabile Guastella; e ancora, la Settimana Santa, dalla Domenica delle Palme di Leonforte e di Gangi, al Giovedì e Venerdì Santo di Trapani e di Enna, ai Diavoli di Prizzi, e le feste patronali, dalle tre sante patrone di Palermo, Catania e Siracusa, Rosalia, Agata e Lucia,alla festa di San Giuseppe a Santa Croce di Camerina,di San Silvestro a Troina, Sant’ Alfio, con la corsa dei “nudi”, a Lentini e Trecastagne, a quella di San Paolo a Palazzolo Acreide… Sono immagini, queste di Leone, della profonda storia, della ricca cultura siciliana. Immagini che rimarranno, in questo nostro tempo di cancellazione d’ogni memoria, d’ogni tradizione, di omologazione culturale, come gli “annali” della nostri storia. Milano, 18.2.07 Vincenzo Consolo (1) Giuseppe Pitrè “Spettacoli e feste” pag. XI – Luigi Pedone Lauriel Palermo 1881 (2) Sebastiano Aglianò “Questa Sicilia” A.Mondadori editore 1950 (3) Inni Omerici a cura di Filippo Cassola -pag. 39 – Fondazione Lorenzo Valla – A. Mondadori editore 1981 (4) Nino Buttitta in “Feste religiose in Sicilia” di Leonardo Sciascia – foto di Fernando Scianna – Leonardo da Vinci Editrice – Bari 1965 – pagina senza numerazione (5) Leonardo Sciascia in “Feste religiose in Sicilia” idem come sopra pag.30 (6) Idem come sopra

Vincenzo Consolo – Sant’Agata di Militello – 2007

La Pasqua di Giuseppe Leone – Monterosso Almo
Il Maestro Giuseppe Leone
Vincenzo Consolo e Giuseppe Leone – bosco della Miraglia

Consolo ‘Un romanzo sui migranti nuovi proletari’

00433229_b

Consolo ‘Un romanzo sui migranti nuovi proletari’

I proletari non esistono più, almeno in senso ribellistico. Invece gattopardi, iene e sciacalli impazzano come prima e più di prima. Le classi subalterne sono state addomesticate, e snaturate, mentre i ceti egemoni continuano a perpetuare il loro dominio. Parola di Vincenzo Consolo, che ragiona sulle analogie e sulle differenze della Sicilia di oggi con quella da lui affrescata nel romanzo “Il sorriso dell’ ignoto marinaio”. La storia del barone cefaludese Enrico Pirajno di Mandralisca, nobile e rivoluzionario – una sorta di manifesto dell’ antigattopardismo – è uscita giusto trent’ anni fa. In occasione della sua ripubblicazione negli “Oscar oro” Mondadori, l’ Acio, l’ associazione contro il racket guidata da Tano Grasso, organizza un convegno internazionale, domani e venerdì a Capo d’ Orlando e sabato a Lipari. Tra i relatori il belga Walter Geertz, la francese Maryvonne Briand, l’ irlandese Daragh O’ Connell e Nicolò Messina, docente in Spagna. Non deve stupire questo connubio tra antiracket e letteratura. Il terreno comune è la rottura con il modello gattopardiano che fissa la Sicilia in un tempo senza sussulti. Immobile, in una paralisi che l’ annienta.
(segue dalla prima di cronaca) Tano Grasso e compagni che si scagliano contro le estorsioni, emblema di quella Sicilia rassegnata, somigliano un po’ al barone di Consolo, che contrariamente al principe Salina di Lampedusa, coglie i fermenti del tempo e si lancia con generosità tra i confusi gorghi del mutamento epocale. Perde, ma certamente non da spettatore. «In ogni momento di cambiamento – dice Consolo – si è assistito a queste spinte rivoluzionarie o ribellistiche. è accaduto sulla scia dell’ avanzata dei mille garibaldini, nella guerra partigiana, nella successiva occupazione delle terre del feudo. Magari a volte in modo violento, ma pur sempre sintomo di una reazione a secoli di sfruttamento. Oggi invece la mutazione si insinua in modo subdolo in ogni dove senza incontrare reazioni. L’ omologazione imperante ha azzerato ogni parvenza proletaria e fatto diventare tutti noi dei piccolo borghesi senza ideali, né velleità». «I nuovi proletari ormai sono i migranti che liquidiamo con la parola extracomunitari – continua lo scrittore – Ma con loro dovremo prima o poi fare i conti. La storia del mondo è costellata da questi esodi. I popoli si muovono non solo come dice Verga per spirito di conoscenza, ma per necessità. Giorno dopo giorno migliaia di disperati scappano dalle guerre e dalla miseria. E noi invece di ricordarci i tempi di Federico II quando razze e religioni coesistevano nel rispetto della diversità, continuiamo a erigere barriere. Nella Palermo raccontata dai viaggiatori arabi c’ erano decine di chiese cattoliche, moschee islamiche e sinagoghe ebraiche. E ognuno rispettava l’ altro e il suo credo. Questo è il modello che dovremmo tenere a mente, altro che lanciare anatemi e perorare crociate». E proprio a questi viaggi della speranza alla ricerca di un qualsiasi approdo dedicherà il prossimo libro Consolo. L’ ambientazione è tra Tunisi e Palermo, punto di partenza e di snodo, della rotta della disperazione. Ancora una immersione nel tempo presente per raccontare gli scossoni della cronaca che si fa storia. «Da sempre la Sicilia ha espresso autori che si misurano con il loro tempo – dice Consolo – basti pensare a Pirandello, quello de “I vecchi e i giovani”, Brancati, De Roberto, Sciascia e Vittorini, che raccontano la realtà che hanno sotto gli occhi e spesso utilizzando una lingua sperimentale e innovativa. Il caso di Verga è diverso. Lui, da un punto di vista letterario era rivoluzionario, ma da quello sociale era conservatore. Tornando da Milano, dove aveva assistito alla prima rivoluzione industriale, aveva diagnosticato per la Sicilia un pernicioso fatalismo che la portava progressivamente all’ immobilismo senza speranza. Una concezione metastorica del tutto speculare al determinismo propugnato da Tomasi di Lampedusa nel “Gattopardo”. Il principe Salina, grande astronomo trasferisce sulla terra la metafora celeste. Così come le stelle si espandono, si affievoliscono e si spengono, le classi sociali prosperano e si estinguono. “Dopo noi gattopardi arriveranno le iene e gli sciacalli”, dice. Ma dimentica che anche la sua classe nobiliare è formata da iene e sciacalli, visto che hanno consegnato i feudi alla mafia. Sono loro i principali colpevoli della deriva criminale nell’ Isola». Quelli citati sono gli autori che si sono «sporcati» le mani con l’ attualità. Nel gioco delle assenze è facile ricostruire chi sono gli scrittori siciliani che eludono il presente, l’ eterno presente, per bearsi sulle nuvole della fantasia. «Pur vivendo altrove io, come tanti altri, non riesco a scrivere cose diverse dalla Sicilia. Qui è la mia memoria, qui sono radicate quelle esperienze formative che mi hanno segnano per tutta la vita, qui, infine, è il luogo dove la grande storia è passata fermandosi e lasciando diffuse tracce di sé», dice. Il “Sorriso del marinaio” dopo trent’ anni è più attuale che mai ed intatto resta il pathos che emana, perché – come sostiene l’ autore – quando un libro nasce da un nucleo di verità, dilata la sua metafora nel tempo. Le storie cambiano ma le motivazioni che le muovono, infatti, sono sempre le stesse, scaturite dall’ eterna lotta tra bene e male, tra oppressori e oppressi, tra vincitori e vinti. Il romanzo, che ha consacrato Consolo come uno degli autori più rappresentativi del Novecento, è ambientato nella Sicilia del 1860: il barone Mandralisca assiste ai moti sanguinosi di Alcàra Li Fusi, in cui la disperazione dei contadini si scarica sui compaesani vessatori, borghesi e nobili, e cerca in ogni modo di perorare la causa di questi illusi che avevano davvero creduto alla missione rivoluzionaria dei garibaldini. Così come ci aveva creduto quel Corrao, generale dell’ eroe dei due mondi, che muore ammazzato per non essersi voluto rassegnare al grande ritorno dei vecchi borbonici una volta placata la furia delle camice rosse. Sullo sfondo del romanzo quel sorriso enigmatico del ritratto del marinaio fatto da Antonello da Messina, che somiglia al coprotagonista della narrazione, l’ avvocato Giovanni Interdonato, che ebbe parte attiva nei movimenti antiborbonici e poi fu senatore del regno. Un rimando somatico che induce Sciascia a ribadire l’ importanza della somiglianza in Sicilia. Fin dalla nascita ci accompagna il leit motiv della somiglianza con qualche altro, talora con tanti altri. Si deve per forza somigliare a qualcuno, ne va del consolidamento dell’ identità. Non si scappa. «In realtà – dice Consolo – la storia di Mandralisca è una metafora per rappresentare i sussulti dell’ Italia e della Sicilia degli anni Settanta quando scrivevo il libro. Le speranze accese da quei movimenti che soffiavano nuove idee nel paese transitato velocemente dalla cultura contadina a quella industriale. Un processo di rinnovamento che si è infranto. Oggi mi guardo intorno e vedo una realtà sorretta dai plusvalori. Quasimodo chiamava la televisione il video della vita, per me è il video della morte. Contagia e deturpa le coscienze. La lingua stessa ne risulta svilita». Per questo lo scrittore nel suo continuo sperimentare, si fa archeologo di parole e quando ne riscopre qualcuna vigorosa che esprime più forza dell’ equivalente in italiano – «carica di significati e di significanti, e magari ereditate dai greci, dagli arabi, dai normanni e da quanti altri sono convissuti con noi» – la immette nel flusso della narrazione. Sì, perché le parole – «a prescindere da quel sicilianismo di colore che impazza nei media» – sono lo scrigno della nostra memoria.

TANO GULLO

Vincenzo Consolo: le mie passioni e i tormenti

consolo

mercoledì 27 settembre 2006

Vincenzo Consolo: le mie passioni e i tormenti


Gianni Bonina

I libri di Consolo sono sempre nati da uno spunto di realtà e da un punto di vista. Poi prendono una via che può arrivare fino ad Ariosto. Nella sua officina letteraria convivono personaggi reali e diversissimi. E’ il caso di Pirajno di Mandralisca, concentrato sui realia, e di Fabrizio Clerici, attento ai surrealia. Come convivono nella officina di Consolo queste due figure che peraltro sono storiche? Fanno a pugni?
“Sono due personaggi – spiega Consolo – non accostabili, di matrice diversa, di esito diverso e anche di funzione diversa. Il barone di Mandralisca era il personaggio storico e romanzato che mi serviva per dimostrare cos’è la responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici. L’intellettuale non può estranearsi dalla storia altrimenti diventa complice di determinati misfatti. Mandralisca, che era chiuso nella sua erudizione di malacologo e antiquario, è stato costretto ad aprire gli occhi e vedere la realtà tragica e drammatica delle rivolte contadine nel 1860. Quando uscì, il libro fu chiamato ‘l’anti-Gattopardo’. Io non so se ne avevo consapevolezza tracciando questo personaggio, che modificai per quello che mi serviva. Non sapevo cioè di scrivere ‘l’anti-Gattopardo’, ma certo la mia concezione era assolutamente opposta a Lampedusa che vedeva nei cambiamenti storici una sorta di determinismo dove l’intervento dell’uomo sulla storia è, seppure con principi diversi, del tipo di quello di Verga: le classi nascono, si raffinano e tramontano come le stelle in un ciclo di ineluttabilità di cambiamenti epocali. Mentre Lampedusa giustificava anche quelle che chiamava ‘le iene e gli sciacalli’ dando loro una legittimazione deterministica, in me invece agiva una visione opposta della responsabilità dell’intellettuale nei confronti della storia, nel senso che deve dare un giudizio sulla storia e intervenire”.
Clerici allora a che distanza sta dal Mandralisca?
Quanto a Clerici, il gioco letterario è più scoperto. Avere spostato nel Settecento un personaggio contemporaneo mi è servito per rivendicare nei confronti della storia e del romanzo di cronaca il primato della letteratura, rendendole un omaggio nel senso che tra i sentimenti dell’uomo c’è l’amore e c’è la passione. La scelta di questi temi era dovuta alla contingenza di quei tempi. Ho scritto Il sorriso dell’ignoto marinaio in un momento di accensione storica qual è stato quello degli anni Settanta quando tutto era messo in discussione con il dibattito culturale e politico del momento. Negli anni in cui ho scrittoRetablo c’era piuttosto un atteggiamento da parte di certi intellettuali e politici di disprezzo nei confronti della letteratura, vista come concezione borghese, sicché ho scritto quel libro per difendere la letteratura contro la storiografia.
Lei ha frequentato generi disparati passando per esempio da una specie di introibo come fu Un sacco di magnolie, che è anche un bozzetto verghiano insieme con Il fosso, per arrivare a sponde rivali come nel caso dello Spasimo di Palermo. Ciò potrebbe fare pensare all’itinerario lungo e sofferto di una persona insofferente e smaniosa.
Racconti come Un sacco di magnolie rappresentano il tributo che fatalmente deve pagare un esordiente a quelli che sono i padri sacramentali della letteratura siciliana. Sfido chiunque scriva a dire di non avere avuto un minimo di eredità brancatiana e verghiana. Quello era il momento della fascinazione verghiana, dopo la quale è venuta una presa di coscienza, la rivendicazione di una propria identità.
Certo, ma passare da Verga a Eliot è come un “salto mortale”.
Non c’è dubbio. Sono sempre stato affascinato dalla poesia di Eliot che ho scoperto attraverso Montale già al tempo de La ferita dell’aprile. Lo stesso titolo è di tipo eliotiano, perché Eliot dice che “aprile è il più crudele dei mesi”, talché io ho identificato la crudeltà dell’aprile con l’adolescenza che era quella dell’io narrante, ma era anche l’ennesima adolescenza della Sicilia dopo la guerra, e dunque il momento della rinascita. Naturalmente questa ferita può rimarginarsi e diventare una “maturezza” come dice Pirandello oppure una cancrena. Io ho constatato che l’adolescenza in Sicilia è diventata una cancrena e che quella ferita è rimsta ancora aperta. Di Eliot mi affascinano i correlativi oggettivi, il passare da un’immagine a un’altra. E nelloSpasimo di Palermo mi ha accompagnato questa continua cifra eliotiana.
Da un viatico verghiano passa dunque a un libro vittoriniano quale La ferita dell’aprile e chiude una sua prima stagione con Quasimodo e la Sicilia rimpianta. Ma c’è un secondo Consolo che ha ascoltato Dolci, Levi e Sciascia. Il salto è dall’empireo all’impegno.
Io non vedo questo salto. È un processo di maturazione e di ricerca anche dal punto di vista linguistico e stilistico. Quando scrissi La ferita dell’aprile avevo consapevolezza piena di quello che facevo, della scelta di campo che operavo: avevo seguito la stagione del neorealismo, la memorialistica e tutto il meridionalismo, da Gramsci a Danilo Dolci fino poi a Carlo Levi e lo Sciascia delle Parrocchie. Voglio dire che l’esordio, a parte i racconti dei primi passi, è del tutto cosciente del contesto storico, sociale e stilistico perché questo libro è segnato da un forte impatto linguistico. Lo mandai a Sciascia e mi rispose chiedendomi spiegazioni su una particolarità linguistica che in effetti mi ha sempre accompagnato come diversità storica e sociale: cioè il dialetto galloitalico di San Fratello. Nella lettera che gli scrissi mi dissi debitore delle sue Parrocchie.
La ferita dell’aprile sta a lei come Le parrocchie di Regalpetra stanno a Sciascia, con la differenza che Le parrocchie sono una prova di realismo storico mentre La ferita di realismo mitico. Perché allora si sente debitore di Sciascia e non di Vittorini?
Perché i miei temi non erano di tipo esistenziale e psicologico, ma storico-sociale. Ho cercato di raccontare attraverso gli occhi di un adolescente cosa sono stati la fine della guerra, il dopoguerra, la ricomposizione dei partiti, la ripresa della vita sociale, le prime elezioni del ’47, la vittoria del Blocco del popolo, denunciando l’ennesima impostura che si perpetuava attraverso le vocazioni religiose, i “microfoni di Dio”, fino alla vicenda di Portella e la pietra tombale delle elezioni del ’48. Ho voluto rappresentare tutto questo con una cifra assolutamente diversa, prendendo le distanze da quella comunicativa di Sciascia e mettendomi su un piano di espressività.
Perché se la corrente era in senso contrario?
Ho le mie spiegazioni a posteriori di queste scelte. L’ho fatto perché non mi sentivo di praticare lo stile della generazione che mi aveva preceduto, Moravia, Calvino, Sciascia. C’era lo scarto di appena dieci anni con questi scrittori che avevano vissuto il fascismo e la guerra. Nel ’43, quando avevo dieci anni, loro nutrivano la speranza di comunicare con una società più armonica sicché la loro scelta illuminista e razionalista era nel senso della speranza. Quando io sono nato come scrittore questa speranza era caduta e ho cercato di raccontare perché si era restaurato un assetto politico che non era come si sperava, ancora una volta iniquo, che lasciava marginalità, oppressioni e sfruttamento. Ho scelto il registro espressivo e sperimentale non vedendo una società armonica con la quale comunicare. La speranza che avevano nutrito quelli che mi avevano preceduto in me non c’era più.
Detto adesso sembra facile, ma allora lei aveva di fronte le ultime risacche del neorealismo e le prime correnti del Gruppo 63.
Già, ma io avevo consumato questa esperienza. Il prete bello, Libera nos a Malo e la memorialistica di quanti erano reduci dalla guerra. Che non era diventata letteratura ma mera restituzione di un’esperienza.
Ma quella sua prova fu fortemente innotiva e poco sciasciana.
Senza dubbio. Ma è curioso che Sciascia sia stato impressionato dalla particolarità di questo libro. Poi, quando è uscito Il sorriso, a distanza di anni, con più consapevolezza e con la mimesi dell’erudito ottocentesco, Sciascia a Sant’Agata di Militello lo presentò e disse che quel libro era un parricidio. Voleva dire che avevo cercato di uccidere lui, come del resto avviene sempre. Dice Sklovskij che la letteratura è una storia di parricidi e di adozioni di zii. Debiti dunque sì nei confronti di Sciascia, ma la scelta di campo è stata diversa. La ricerca si inquadrava fatalmente sulla linea verghiana, gaddiana, pasoliniana della sperimentazione del linguaggio, della “disperata vitalità”, come la chiamava Pasolini.
C’è un campo che è stato poco investigato circa la sua ricerca ed è quello del reportage. Penso a Il rito sulla morte di Rossi, o a Per un po’ d’erba ai limiti del feudo, “pezzi” giornalistici che l’hanno impegnata per due decenni. Come ha fatto a scrivere reportage mentre scriveva La ferita e poiIl sorriso?
Mi sembravano due scritture diverse, della restituzione di una realtà immediata nel modo più originale la prima, senza però arrivare allo stile sciatto giornalistico, dando significati altri alla cronaca raccontata. Quando Sciascia stava facendo l’antologia sui narratori di Sicilia con Guglielmino pensava di mettere un mio brano della Ferita, ma quando lesse il racconto su Carmine Battaglia lo scelse perché gli sembrò più consono come sigillo di una certa realtà siciliana.
A me piacerebbe davvero fare chiarezza sui suoi debiti perché non si è capito se sia figlio di Sciascia o di Vittorini. È un fatto che, per quanto sia stata importante per lei l’Odissea, a un certo punto dice che ci è arrivato attraverso Vittorini e non Sciascia. E allora mi chiedo chi è il suo padre putativo. Sembra amare di più Sciascia, ignora Vittorini inDi qua dal faro ma in verità ha ben conosciuto Vittorini e lo ha molto osservato. 
Dunque. A proposito di parricidi, nella Ferita ho fatto morire all’inizio il padre dell’io narrante e ho adottato uno zio che poi è diventato padre avendo impalato la madre del ragazzo. Poi faccio morire anche questo patrigno. Io sono figlio di tanti padri che poi regolarmente cerco di uccidere. Certo, Vittorini l’ho ignorato nei saggi perché Vittorini mi interessava per certe sollecitazioni di tipo teorico che lui dava circa la concezione letteraria. Sciascia, a una seconda lettura diConversazione in Sicilia, dice di essere rimasto deluso, e lo capisco perché il libro è contrassegnato da una forte implicazione di tipo rondista con innesti di americanismo. Però è vero che per la prima volta appariva nella letteratura siciliana il movimento, l’atteggiamento attivo nei confronti della storia, la fuoriuscita dalla stasi verghiana, insomma una grande lezione per me quella del movimento.
Lei ha fatto la stessa cosa che ha fatto Vittorini e che racconta in un’intervista a Giuseppe Traina: ha disegnato per Il sorriso la carta topografica di Cefalù, vicolo per vicolo, come Vittorini fece con la Sicilia per Le città del mondo.
Già. Un modo per entrambi di essere più siciliani possibile, più precisi e acribitici.
In Un giorno come gli altri lei pone una questione non risolta: quella della scelta tra lo scrivere e il narrare, dove scrivere significa cambiare il mondo e narrare soltanto rappresentarlo, secondo una definizione di Moravia. È importante quel racconto perché segna la sua scesa in campo politico. E lei dice che è meglio scrivere.
Pensavo che la scrittura di tipo comunicativo-razionalistica avesse più incidenza che quella di tipo espressiva che io praticavo e che chiamo “il narrare”, implicata com’è con lo stile e la ricerca lessicale. Lo stile non ha impatto con la società e il movimento è dal lettore verso il libro, mentre in quella comunicativa il movimento è al contrario. I libri di Sciascia hanno fatto capire cos’era la mafia, Moravia ha fatto capire cos’era la noia durante il fascismo. La scrittura espressiva ha un destino diverso, com’è per la poesia. La narrazione non cambia il mondo.
Lei ha fatto una scelta a favore del coté espressivo.
Ho organizzato la mia prosa attorno alla forma poetica, seguendo un procedimento che riporta alle narrazioni arcaiche, orali, dove il racconto prendeva una scansione ritmica e mnemonica.
Vediamo la vicenda sotto un altro aspetto. Lei e Basilio Reale, entrambi messinesi, avete avuto uguali trascorsi: a Milano insieme e nello stesso periodo, però lei va verso la prosa mentre lui verso la poesia. E si chiede come succeda questo fenomeno.
Lo trovo infatti inspiegabile.
Mentre poi dice di essere più votato alla poesia quando Reale ha dato poi prova di essere buon prosatore.
Se parla delle sue Sirene siciliane, siamo di fronte a strumenti psicoanalitici. Io non so perché uno nasce con la tendenza verso la musica e un altro verso la pittura. Con Reale ci siamo incontrati all’università di Milano giovanissimi. A Messina non ci eravamo mai visti. Quando ci siamo conosciuti c’era un altro confrére, Raffaele Crovi che frequentava Vittorini più da vicino. Mi raccontava Ginetta Varisco, che ho frequentato dopo la morte di Vittorini, che Crovi veniva da uno strato sociale povero e quando andava a casa loro Elio le diceva “Cucina molta pasta perché questi ragazzi hanno molta fame”.
I suoi libri sono giocati in forma autobiografica. Il Petro Marano che lascia la Sicilia o il Gioacchino Martinez che viene in Sicilia sono sempre trasposizioni di sé. È sempre stato lei, sin dai reportage; e non ha parlato che di sé.
Sì, ma in maniera molto mascherata. La mia esperienza personale mi serve come chiave di lettura della realtà e del momento storico che vivo. Ma nel Sorriso ci sto poco. Sciascia vi vedeva più Piccolo che me.
Verga e Pirandello, anche loro andati via, sono però riusciti a scrivere di Milano, Roma e di salotti borghesi. Mentre lei, Sciascia, ma anche Vittorini, pur stando fuori non siete riusciti che a scrivere sempre della Sicilia. E c’è un motivo: perché bisogna conoscere il linguaggio e averne memoria, come ha osservato lei stesso.
Di Milano io non so fare metafora mentre della Sicilia sì. Di Milano posso restituire una cronaca, l’ambiente vissuto da studente, mentre la Milano che ho vissuto dopo mi serve per leggere meglio la Sicilia e creare paralleli tra questi due mondi antitetici e opposti. Non sono caduto in crisi come Verga, se mi è permesso: vivendo in questa realtà milanese non mi sono ripiegato verso l’infanzia dorata. Ho scoperto invece un’altra Sicilia, quella più vera e infelice, la continua ingiustizia e perdita e smarrimento dell’identità. I miei libri sono contrassegnati da questa spinta a varcare la soglia della ragione per andare nella terra dello smarrimento. Vittorini dal canto suo ha scritto su temi non siciliani i libri meno riusciti, così come Verga ha scritto Per le vie che sono le novelle meno felici. Io di argomento non siciliano ho scritto solo qualche racconto come Porta Venezia.
E’ dunque d’accordo che si può staccare un siciliano dalla Sicilia ma non si può staccare la Sicilia da un siciliano?
Certo. Nel bene e nel male non si può strappare la Sicilia a un siciliano.
Ma c’è un ultimo Consolo smaniato da intenti umoristici.Nerò metallicò ne è un esempio.
Di più c’è forse Il teatro del sole. E’ il rovescio del tragico. Musco a chi dice “Domani il sole illuminerà il cadavere di uno dei due” domanda “E si chiovi?”. E se piove?
Lei ha riflettuto lo stesso sentimento di Vittorini quando davanti al mondo industriale capiva di poter raccontare solo quello contadino. Le città del mondo nasce da questo stato d’animo.
Vittorini aveva creduto generosamente in un’utopia. Pensava che l’industrializzazione della Sicilia fosse possibile. Aveva avuto l’esempio olivettiano dell’industria a misura d’uomo e riteneva che la scoperta da parte di Mattei del petrolio risvegliasse finalmente i siciliani. Ed ecco nelle Città del mondo i contadini a cavallo che convergono al centro della Sicilia. Ma la realtà ha infranto la sua mitizzazione. Gli esiti li abbiamo visti. Gela, Augusta, Priolo, obbrobriosi e nefasti. Ecco cosa ne è stato dell’industrializzazione della Sicilia. Ci fu una polemica tra Sciascia e un giornalista dell’Avanti: Sciascia, che scriveva su L’Ora, aveva cominciato ad avanzare dubbi sull’industrializzazione e il giornalista gli contestò la mancanza di ottimismo concludendo “Benedetti letterati”. E Sciascia rispose: “Adesso si vede che anche loro, i socialisti, hanno la facoltà di benedire, come i democristiani”. Vittorini avrebbe voluto che la Sicilia uscisse dalla condizione di inferiorità e di soggezione incamminandosi verso un mondo di progresso. Non credeva nei dialetti individuali ma nella commistione delle lingue, ma non sapeva che gli immigrati siciliani a Torino la sera uscivano per imparare il piemontese e mimetizzarsi.
Se lo sguardo di Vittorini è utopico, il suo è nella trilogia certamente molto amaro. 
Ero più avveduto e avevo gli strumenti per esserlo. Avevo constatato la realtà qual era. Io mi direi, ricordando Eco, un apocalittico realista, avendo visto la realtà italiana dal dopoguerra ad oggi: una continua deriva verso i valori più bassi di un mondo che non accetto sotto nessun punto di vista.
A proposito ancora di Vittorini e delle sue “due tensioni”: viene prima la politica o la cultura? Una volta lei ha detto che è la politica a dominare la società, non la cultura.
Credo che sia così. Almeno immediatamente, perché nei tempi lunghi forse è la cultura ad avere più forza. In anni precedenti al Sessantotto, all’università di Napoli, durante l’inaugurazione dell’anno accademico, uno studente fece un intervento di tipo politico e Giovanni Leone, che sarebbe diventato presidente della repubblica, disse: “Qui non si fa politica, ma cultura”. Intervenne con un articolo Vittorini scrivendo che la cultura è politica. Voleva dire che la cultura non è mai staccata dalla politica perché riguarda il contesto sociale in cui viviamo, dove cerchiamo di difendere i principi fondamentali della nostra convivenza civile. La politica influenza la società e la società crea a sua volta la cultura. Sta a quella categoria della società formata dagli intellettuali di essere attenti osservatori e di essere critici nei confronti della politica e della società. Sempre. Io dico che anche in una ipotetica società perfetta l’intellettuale deve stare all’opposizione. Ho creato una metafora sulla posizione critica dell’intellettuale: solo il re non può non avere critici perché sarebbe critico di se stesso. Ma appena si tratta di un vicerè si ha il dovere della critica e, come dice Bachtin, bisogna avere una visione utopica della società.
Ma la politica non è specchio della societa, per cui non si può avere una classe politica migliore, o peggiore, della società che la esprime?
E’ vero, ogni società esprime la sua classe politica. Ma la storia ci dice che ci sono state élites che hanno indicato la via alla società. Pensi alla Rivoluzione francese, nata dagli ideali illuministici che hanno guidato i rivoluzionari. La cultura richiede tempi lunghi e lenti. Pensiamo all’influenza che può avere avuto la grande letteratura ottocentesca e settecentesca e ai cambiamenti che nei tempi lunghi ha portato, al di là di quella che Barthes chiama “la scrittura d’intervento”: di uno Zola per esempio che occupandosi dell’affaire Dreyfus smette di fare lo scrittore e interviene sui giornali.
La cultura è migliore della società che interpreta?
Senz’altro sì. Ma non dobbiamo pensare solo a una cultura alta. C’è anche una cultura popolare altrettanto degna. Anzi, dalla convergenza di queste due culture si ha il movimento delle masse. Stiamo insomma a dare ragione a Gramsci.
Lei ha detto che non si deve usare il linguaggio del potere perché significa contaminarsi ed essere complici.
Parliamo in questo caso di linguaggio d’invenzione. Siccome l’intellettuale dev’essere critico, non riesco a immaginare un artista che non sia intellettuale nel mondo attuale. Prima le due funzioni si potevano scindere, oggi non più. L’intellettuale non può usare il codice del potere ma un controcodice che sia diverso anche nella forma e nello stile. Oggi la situazione è talmente allarmante che adottare la lingua del potere, quella mediatica, berlusconiana per capirci, significa essere collusi. Un controcodice è dunque indispensabile, ma non di astrazione come era ipotizzato dalle avanguardie, futurismo o Gruppo 63, ma un controcodice della memoria, perché letteratura è memoria: per cui occorre conservare le radici profonde della memoria linguistica e cercare di immetterla nel codice di espressione perché il potere non fa che cancellare la memoria. E parlo anche di memoria linguistica.
Può rientrare in una logica no global l’adozione della lingua dialettale contro la mondializzazione dell’inglese? Anche il dialetto può essere un controcodice?
Bisogna stare attenti all’accezione della dialettalità che molto spesso è un codice regressivo e ristretto, affidato più che alla articolazione del pensiero alla microgestualità e alla corruzione della parola nazionale. Invece il cammino deve svolgersi al contrario: vedere da dove sorgono le parole dialettali, da dove vengono e perché sono state usate nel passato, per cercare di immetterle nella scrittura espressiva. E chiamo “espressiva” la scrittura non “comunicativa”, che è propria del codice centrale della linea manzoniana, illuministico-razionalistico. Per quanto mi riguarda la lingua comunicativa è impensabile. Si può usare solo un controcodice che conduca nella zona dell’espressione, dove è possibile la riesumazione delle parole, come anche dei suoni, per non farle espellere. Sono gli anglismi imperanti a distruggere il nostro patrimonio linguistico, che ci viene dalla storia, e a determinare una cancellazione di identità.
Nell’uso di questo controcodice possono essere compresi, quanto alla Sicilia, autori che vanno da Meli, Tempio, Buttitta fino a D’Arrigo e a lei stesso?
Lei fa nomi di autori, Meli, Buttitta, che hanno usato il dialetto in un momento in cui esistevano i contesti dialettali. Oggi il contesto dialettale non esiste più mentre ha preso piede una ricerca neodialettale da parte di autori consapevoli dell’assenza di un pubblico dialettale e che usano il dialetto come una lingua altra. In poesia soprattutto, che è espressività massima, usare il codice comunicativo diventa impossibile. Lo chiamiamo neodialettale perché è come se scrivessero in latino. C’è un poeta napoletano, Sovente, che scrive infatti in partenopeo e in latino.
Se il dialetto regredisce, l’italiano è però sempre più fragile, come ha detto una volta lei. Allora il futuro del nostro linguaggio espressivo qual è?
Il destino della nostra lingua nazionale è davvero segnato. Pasolini già nel ‘64 parlava di nascita di una nuova lingua italiana. Oggi in televisione assistiamo a un’invasione di linguaggi altri del potere e della rivoluzione tecnologica. Ceronetti scrisse un articolo tempo fa calcolando che il dieci per cento di parole sono italiane contro il novanta per cento di americanismi. Ma la letteratura è un’altra cosa. E’ di per sé il controcodice del linguaggio espressivo. E non può cancellare se stessa.
Ma questo controcodice è anche un contropotere uguale e contrario?
Sicuramente sì. E ancora una volta, per ripetere Vittorini, lo stile è politica.
Il problema però è di fare corrispondere le parole alle cose. E già Foucault diceva che si è creato un diaframma.
La parola deve sempre corrispondere alla cosa, altrimenti è astrazione, avanguardia. Altro discorso è il linguaggio estetico. Pensi a un Bufalino che diceva di usare il registro alto come lingua di bellezza: ma nel suo caso la forma non coincide con il contenuto e le parole non riflettono le cose ma una concezione elitaria di cultura separata dalla società.
Anche Piccolo fu molto ornato.
Una scrittura anche quella assolutamente alta, è vero, ma in un campo che è quello poetico dove è consentita, al pari della scrittura neodialettale di oggi.
Per avere una stretta corrispondenza tra forma e contenuto, parole e cose, che tipo di linguaggio occorre dunque adottare?
Solido, filologicamente giustificato. Dobbiamo sapere perché adoperiamo certe parole, da dove vengono, e come le riceviamo in un periodo e in una frase, quale realtà riflettono insomma.
A chi pensa?
Penso a tutta la linea sperimentale che parte da Verga, col rovesciamento del codice manzoniano, quello che Pasolini chiamò “l’italiano irradiato di dialettalità”. Poi ci sono tecniche e maniere diverse, sicché abbiamo i Gadda, i Landolfi, i D’Arrigo e via gli altri. Una linea sperimentale parallela a quella illuministica. Lo ripeto fino alla noia: mi sono sempre chiesto perché gli scrittori della passata generazione, con uno scarto di dieci o quindici anni rispetto a me, che hanno vissuto l’esperienza della guerra e del fascismo – Moravia, Calvino, Sciascia – avessero scelto la linea comunicativa; e mi sono detto che il loro codice fosse manzonianamente quello della speranza, perché pensavano che, finita la guerra ed entrati in un contesto democratico, si sarebbe avuta una società nella quale comunicare. Ma questa speranza è poi caduta e oggi non è più possibile usare un codice comunicativo.
Pasolini poneva l’equivalenza tra linguaggio e potere nel senso che il potere cerca sempre di fare proprio il linguaggio. Ma quando parliamo di potere di cosa parliamo?
Parliamo di un potere che non rispetta i principi fondamentali e la dignità dell’uomo, che crea le differenze tra chi ha e chi no, che opprime idee politiche: a questo potere si riferiva Pasolini, che nella sua analisi della lingua italiana riportava una frase di Aldo Moro (che pure era per lui il meno implicato nei guasti del nostro Paese) pronunciata nel discorso per l’inaugurazione dell’autostrada del sole, una frase indicata come esempio di “politichese”. Oggi il nostro linguaggio non è quello di Moro, ma è più doroteo e miserabile, più politichese, più squallido, è il linguaggio dei media, poi trasferito nella politica, lo slogan impositivo, che è una forma di violenza fatta con il bombardamento di messaggi pubblicitari. Lo slogan è la distruzione della lingua, è il linguaggio della menzogna e dell’impostura. Così è nella politica. Guardiamo i dibattiti trelevisivi o ascoltiamo i cosiddetti portavoce: parlano tutti per slogan.
Sono gli effetti ultimi del postmoderno. Però Verga forse fu un antesignano, perché, come ha notato lei in Di qua dal faro, ha smesso di scrivere per continuare con la macchina fotografica a parlare dei “vinti”. Cambiò linguaggio ma non argomento.
Fu una scoperta sconvolgente quella delle sue foto. A Parigi vidi una mostra di foto di Zola, in confronto alle quali le foto di Verga si distinguono per la rappresentazione verista della realtà rurale anziché della borghesia colta persino nei suoi sudori. Ma non mi spingo a dire che sia stato questo il motivo della rinuncia a completare il ciclo dei “vinti”. Come lui stesso disse a Guglielmino, non sapeva parlare il linguaggio della nobiltà. Piccolo mi raccontava che mandò De Roberto a una festa palermitana di aristocratici perché li osservasse e li sentisse parlare. E De Roberto ci andò standosene in un cantuccio tutto ingrugnito tanto che gli ospiti gli passavano davanti e dicevano: “Che vuole questo? Ma chi è?”.
L’esperienza di Verga, non riuscito a usare il linguaggio dell’alta società, non dimostra l’impossibilità di usare un controcodice, se la sua opera si vede nel segno di una proposizione della questione meridionale e dunque di un discorso sul potere?
Quello che non è riuscito a Verga è però riuscito a De Roberto. Con esiti diversi, è vero; ma ha usato un linguaggio borghese preoccupandosi però più del contenuto che della forma. De Roberto non aveva l’assillo stilistico che ossessionava invece Verga. Credo che Verga finisca con la morte di mastro don Gesualdo dileggiato dai camerieri della figlia nel palazzo di Palermo.
Una volta, fino agli anni Settanta, era impossibile fare politica senza la cultura mentre oggi è impossibile fare cultura senza la politica. Mentre una volta la politica doveva tenere conto dei maitres à penser, oggi bisogna rivolgersi al principe per qualsiasi iniziativa culturale.
Oggi la politica può fare a meno della cultura perché non è più ragionamento e persuasione, ma imposizione di messaggi propagandistici, per cui non le servono gli intellettuali. Galli Della Loggia equivoca quando parla di egemonia della sinistra. Il contesto era diverso, la politica era diversa: era naturale che un intellettuale operasse ideologicamente. Nella destra gli esempi di scrittori che hanno teorizzato la supremazia di una classe sulle altre sono stati pochi, mentre gli scrittori di sinistra hanno sostenuto a fondo principi di uguaglianza sociale e solidarietà umana.
Ma si può parlare oggi di etica della politica?
In questo governo di centrodestra si è avuto un caso di divergenza interna quando Buttiglione, un signore di matrice cattolica, ha preso posizione a favore di quelli che chiamiamo “clandestini” perché ha visto che l’atteggiamento xenofobo è anticristiano, disumano e incivile. Ci sono evidentemente dei limiti nella coscienza politica che non possono essere travalicati. Non si possono ignorare questi disgraziati che arrivano da noi. C’è una soglia di decenza e di rispetto dell’umanità che soltanto il fascismo e il nazismo hanno potuto varcare.
Lei oggi interviene perlopiù sulla stampa di sinistra, mentre Pasolini e Sciascia preferivano pronunciarsi su giornali che non fossero organi di partito. Eppure lei è riconosciuto come il loro legittimo successore.
E’ cambiato il contesto. Quando Ottone chiama al Corriere della sera Pasolini è mosso da intenti anche commerciali, ma soprattutto dall’interesse ad allargare l’orizzonte. Oggi i giochi sono più radicali. L’unica testata dove mi pare di potermi esprimere liberamente è l’Unità, anche se poi la critico per certa carenza di gusto e di cultura.
Allora era più facile farsi spazio per un intellettuale?
C’era più tolleranza. In realtà serviva un Pasolini che sul Corriere facesse il processo al Palazzo. Forse agiva anche una intenzione di civiltà nel senso di accogliere anche il dissenso. Oggi si è tutto polarizzato.
Ma non può essere stata un’operazione della borghesia? Accetta nei propri giornali Pasolini e Sciascia, come le grandi manifestazioni studentesche, per farne un fatto di moda, per volgere la protesta in costume. Oggi Pasolini appartiene infatti anche al costume.
Colpa dei cattivi lettori. Solo loro possono ridurre l’incidenza di un Moravia, di un Calvino, a un fatto di costume. Pasolini è rimasto noto per la sua omosessualità e Sciascia, dal canto suo, è stato inchiodato a due slogan male interpretati: “Né con lo Stato né con le Br” e “I professionisti dell’antimafia”. Un’intera articolazione di pensiero svilita dal cattivo lettore, che molto spesso è lo stesso intellettuale.
Lei parla di cattivi lettori, ma non si può pensare anche a una orditura del potere?
Certo. Il capitalismo è cinico. Gli servivano questi intellettuali che facessero il controcoro. Ma io salvo l’assoluta buona fede di uno come Ottone o di un altro direttore quale fu Benedetti a La Stampa. Quando cominciai a scrivere sul suo giornale perché Sciascia mi segnalò, Benedetti lo ringraziò. Era gente di grande onestà intellettuale e poteva dunque aprire a intellettuali come Pasolini.
Ma i giornali fanno parte della sfera della politica o di quella della cultura?
Dipende dalla proprietà. Quando Spadolini lasciò il Corriere della sera, partecipando a un convegno di giornalisti disse: “Mi hanno cacciato come un valletto”. E qualcuno dalla platea gridò: “Ti sta bene”.
Vittorini non credeva nel dialetto. Lo reputava un precipitato della classe contadina. 
Lo disse nel commento a I giorni della fera di D’Arrigo. Disse di non avere pazienza per i dialetti meridionali. Aveva le sue mitologie. Mitizzando l’industraiale del nord del tipo di Olivetti, pensava che l’industria settentrionale fosse una cifra di progresso e che nei confronti della storia l’operaio prendesse coscienza del suo lavoro come elemento del ciclo di produzione. Non accettava i dialetti ma vedeva il progresso in quello piemontese. Diceva che sarebbe stato interessante creare un incrocio tra i dialetti e fare nuove koinè. È avvenuto invece che gli operai meridionali che arrivavano a Torino quando la sera uscivano dalla fabbrica andavano a scuola di dialetto piemontese per non apparire terroni e mimetizzarsi. Poi è passato il rullo compressore della lingua televisiva che ha distrutto tutte le koinè che Vittorini aveva immaginato.
Vagheggiava una sicilia lombarda e si mostrava un antiverghiano fino alla bestemmia.
Generosamente pensava a una Sicilia migliore. Aveva lasciato l’immobilismo verghiano e pensava a un risveglio. Mi raccontava Vito Camerano (che con un altro catanese, Pippo Grasso, era andato da Vittorini con un manoscritto per poi essere invece reclutati entrambi come collaboratori) che nel viaggio in Sicilia per l’edizione illustrata diConversazione in Sicilia, arrivati ad Aidone Vittorini, accompagnato anche da giovani amici quali Giovanni Pirelli e Giancarlo De Carlo, disse ispirato: “Adesso vedrete persone alte, bionde, con gli occhi azzurri”. Ed entrati in paese trovarono vecchietti piccoli e curvi. Vittorini pensava di vedere Gran Lombardi dappertutto in Sicilia.
L’idea era di sprovincializzare l’isola. Un tentativo fallito. Oggi si è realizzato il sogno di Vittorini di una Sicilia non più provincia?
La sprovincializzazione non si è avuta dal basso, per maturazione ideologica, ma dall’alto, per imposizione del processo di omologazione che ha azzerato tutte le diversità e le individualità. Guardiamo le nostre coste: la sera si passa da un concerto di musica a un altro, in un misto di chiasso, di macchine, di confusione. La riviera adriatica non è in nulla diversa dalla nostra riviera tirrenica.
Vede tutto ciò in senso negativo?
Se tutto diventa alienazione e carnevalata sì. La Sicilia è entrata finalmente a far parte dell’Italia ma nel senso peggiore.
Quella smania di cui parlava a metà degli anni ’90, quando non sapeva quale fosse l’astratto furore che la portava ogni volta in giro per la Sicilia a cercare i lati più autentici, continua ad agitarla? 
Non mi pare che ci siano più aspetti autentici. Gli unici li trovo nella memoria dei luoghi, nelle architetture, ma nel paesaggio umano e ambientale vedo una devastazione sconfortevole. Leggevo del tentativo di saccheggiare addirittura il golfo di Scopello, uno dei luoghi più belli della Sicilia.
Però, rispetto agli Sessanta, gli anni dei sacchi in serie delle città, oggi si registra una maggiore sensibilità verso per esempio i centri storici.
Non è sensibilità, ma furia del rinnovamento, causa della nascita caotica e sconsiderata dell’architettura democristiana come la chiamava Pasolini. C’è anche una maggiore malizia nell’eludere le leggi. Condono edilizio in questo Paese cattolico è sinonimo di assoluzione. Non vale più più l’esigenza della prima casa, come un tempo, quando si trattava di uscire dai tuguri, ma invale il desiderio della seconda o terza casa.
Questo suo atteggiamento non rischia agli occhi dei giovani di risultare passatista?
Le nuove generazioni non hanno consapevolezza. Il loro paesaggio è questo che vedono. Sono nati in questo contesto e vedono come reazionari chi parla loro di altri contesti sociali. Oggi un ragazzo tende a rifiutare, e parlarne in termini di anticaglia, anche ciò che appartiene solo a un anno fa. Pensi ai prodotti commerciali o all’abbigliamento, subito vecchi per colpa della pubblicità che propone continue versioni.
Percorrendo la Sicilia, trova l’isola che ha lasciato un po’ georgica ed elegiaca?
Non esiste più. L’Itaca che cerco è stata cancellata. Ma non voglio essere pessimista: ci sono realtà che ammiro. Anche in Sicilia c’è un’umanità che ignoriamo: quelli che dedicano la loro vita ad aiutare gli altri. Guardi la Caritas di Lampedusa, alcuni preti palermitani di frontiera che ospitano dieseredati, i volontari dell’Unitalsi: un’umanità transnazionale fuori dalla politica e dalla religione.
Sciascia teorizzava l’equipollenza di chiesa e partito e diceva che chiesa cattolica e Pci fossero due chiese altrettanto potenti. Oggi chiesa e partito che forza hanno?
Oggi la chiesa come la intendevamo una volta, quella clericale, non ha più potere. I tempi del cardinale Ruffini sono finiti. Oggi c’è una chiesa nuova, nefasta, la chiesa-mafia, responsabile dei danni di questa nostra isola disgraziata. Il potere di partito è assolutamente mafioso, politico-mafioso. Lo dice la magistratura e lo dicono le inchieste in corso.
E dire che ci sono meno croci per le strade e che il peso della mafia non è quello che si vedeva una volta.
Vuol dire che non la mafia non ha bisogno di ammazzare. Vuol dire che prospera.
Ma non ci sono più neppure i veleni di una volta.
E’ la pax mafiosa. La speranza che ho è la magistratura. Sono persone che lavorano in prima linea e conducono una battaglia di civiltà.
Fino a che punto non le piace questa Italia?
E’ inaccettabile sotto tutti i punti di vista. E’ un’Italia impresentabile nel contesto civile, a volte anche vergognosa. Pensi a tutte le leggi approvate, sia regionali che nazionali. Credevamo che con la fine della Dc e del Psi, caduti per corruzione inetna, potesse cominciare una nuova storia e invece è accaduto ancora di peggio.
Ma questo governo non è stato forse eletto democraticamente, con tutti i crismi che si richiedono a un governo parlamentare?
Non ci sono stati brogli elettorali. Me li sarei augurati, come è successo di fare a Bush. E invece è stato il popolo italiano a volerlo, un popolo immaturo, ignorante e ancora oggi sempre più regredito e imbecille. Io lo chiamo “telestupefatto”. Spero solo che questa situazione sia in scadenza e che si esca presto da questo abbaglio.
Gli abbaglianti non sono quelli accesi anche dagli intellettuali?
La gente, la massa, guarda la televisione e non legge né i giornali né i libri. E la televisione, quale che sia il nome, è tutta in mano a Berlusconi.
Rimpiange forse l’Italia passata, quando la povertà era una condizione di vita?

Ho visto cosa sono state le lotte contadine in Sicilia e so cos’è la povertà. L’arretratezza era tanta, ma si sperava in un progresso e non in uno sviluppo caotico e selvaggio, un progresso di civiltà. Invece ecco questo consumismo folle e terribile. Ci sono Paesi come la Francia e la Spagna che sono diversi. Non c’è l’idiozia che c’è da noi, non ci sono tanti telefonini, non c’è il modo di fare stupido e volgare che abbiamo noi. Da Milano a Catania è dappertutto uguale. Appena metti il naso fuori di casa ti accorgi dell’individualismo sfrenato che ci rende succubi. Sappiamo solo declinare la prima persona singolare. E mitizzando la ricchezza a ogni costo perdiamo l’etica, perdiamo la moralità.

da
gianniboninablogspot