La poetica di “Accordi” in un inedito di Vincenzo Consolo
di Concetto Prestifilippo
di Concetto Prestifilippo
Il prossimo 25 gennaio saranno 33 anni dalla morte per mano violenta, mano di mafia, del sostituto procuratore di Trapani, Gian Giacomo Ciaccio Montalto, aveva 41 anni, era il 25 gennaio del 1983. Ammazzato a Valderice, davanti casa sua, al momento del rientro. Ancora per poco sarebbe stato in servizio al Palazzo di Giustizia di Trapani, presto sarebbe andato a Firenze, e quel trasferimento in Toscana faceva paura ai boss. La presenza di Cosa nostra in terra toscana sarebbe stata accertata anni dopo, una presenza di Cosa nostra che a Firenze e dintorni aveva intessuto stretti rapporti con la massoneria, alleanza che nel 1993 potrebbe essere servita a compiere le stragi che colpirono proprio Firenze, e poi Roma e Milano.
Ciaccio Montalto fu un «uomo dal candido coraggio», si imbatté nei primi anni 80 nella mafia che cominciava a cambiare pelle, quella che oggi chiamiamo «sommersa» e allora si cominciava ad interessare di appalti (1550 banditi e assegnati nel solo biennio 83/85 a Trapani, quasi tutti finiti intercettati da Cosa Nostra). Lo scrittore, e giornalista. Vincenzo Consolo appena scomparso lasciando ancora più orfana la Sicilia, disse un giorno di rimpiangere di non avere fatto il suo dovere, di giornalista, quando una sera raccolse lo sfogo di Ciaccio Montalto che si sentiva isolato: «Rimpiango di non avere disubbidito al suo volere e di non avere scritto subito quella intervista». Lo scrittore aveva vissuto Trapani per due mesi, nell’estate del 1975, quando seguiva per il giornale “L’Ora ” il processo al mostro di Marsala, Michele Vinci. Pubblica accusa di quel processo era il giudice Ciaccio Montalto.Consolo ricordò: «Un giorno Ciaccio mi chiamò e mi disse che mi voleva incontrare a Valderice, nella sua casa, da solo. Una sera andai e mi accolse con la moglie, una donna che negli occhi aveva tutte le preoccupazioni per il marito. Mi rivelò che aveva ricevuto delle minacce. Non scriva nulla, lo faccia solo se dovesse succedermi qualcosa, disse». Otto anni dopo, quella confessione divenne profezia. Allora scrisse sulla Stampa e sul Messaggero (a cui seguì una interrogazione alla Camera dei Deputati di Leonardo Sciascia) e rivelò ciò che Ciaccio Montalto gli aveva detto quella sera.
I magistrati di oggi e tra quelli che lavorano tra Trapani e Marsala, come Andrea Tarondo, titolare di molte indagini sulla nuova mafia trapanese, e l’ex procuratore di Sciacca, Dino Petralia, ex Csm, e che negli anni 80 fu collega vicinissimo a Ciaccio Montalto a Trapani, in più occasioni hanno osservato che“qui” non sarà tutto mafia quando corrisponderanno le azioni concrete, gli atti trasparenti, quando si cancellerà l’area grigia, quando la si smetterà di confinare la legalità nel lavoro di magistrati, giudici, investigatori. Lo disse il presidente Sandro Pertini proprio ai funerali di Ciaccio Montalto: «Per combattere la mafia c’è solo da rispettare fino in fondo la Costituzione». Ciaccio Montalto non è riuscito a sconfiggere la mafia, perchè la mafia glielo ha impedito. «Ulisse era il mito di Ciaccio Montalto» ha svelato un altro suo amico, il pediatra Benedetto Mirto, ma a lui non è riuscito ciò che riuscì a Ulisse, battere i proci e riconquistare la sua Itaca. Il compito oggi è di altri dentro e fuori i Palazzi di Giustizia. Ma la strada è in salita e lo sarà fino a quando non si riconoscerà come eroe davvero chi lo merita o chi lo fu e non come avviene di questi tempi, che eroi vengono indicati i mafiosi e i corrotti.
La ferita dell’aprile
Persone, fatti, luoghi sono immaginari. Reale è il libro
che dedico, con pudore, a mio padre.
Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la
strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere
i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato,
la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla
coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina
che svapora dai vestiti. La scuola me la ricordo appena.
C’è invece la corriera, la vecchiapregna, come diceva
Bitto, poiché, così scassata, era un miracolo se portava
gente. Del resto, il miglior tempo lo passai per essa: all’alba,
nella piazza del paese, aspettando i passeggeri – malati
col cuscino del letto e la coperta, sbrigafaccende, proprietari
che avevano a che fare col Registro o col Catasto,
gente che si fermava alla marina o partiva col diretto per
Messina – e poi, alla stazione, dove faceva coincidenza con
l’accelerato delle due e mezza.
Non so come cominciai ad aiutare Bitto, fatto sta che
mi vedo salire la scaletta, camminare sopra il tetto per sistemare
i colli, lanciargli, al segnale, il capo della corda
per legare.
Che posso ricordare di quegli anni di scuola e d’Istituto
se li presi controvoglia al primo giorno, se Bitto mi sfotteva
per i libri e lusingava con la guida, la corriera, la vita
in movimento? Chiedevo anche «biglietto» con a tracolla
la borsetta nera, o correvo col cato alla fontana per levare
dai vetri il vomito delle donne e dei bambini.
«Ma che vai all’Istituto, a sfacchinare?» chiedeva ma’
vedendomi le mani lorde, la giacca con le macchie.
Come le cose belle, finì la vita sopra la corriera dopo
che gli cantarono a zio Peppe di come Bitto m’aveva preso
a picciottello. Mi sistemò in una casa ch’affittava e da
quel giorno entrai nell’Istituto.[…]
Lo spasimo di Palermo
Lo spasimo di Palermo è un nostos, il racconto di un ritorno
[…] Chiuse il libro, prese la penna e scrisse.
Mauro, figlio mio,
sì, è così che sempre ti ho chiamato e continuo a chiamarti:
figlio mio. Ora più che mai, lontani come siamo, ridotti
in due diversi esili, il tuo forzato e il mio volontario in
questa città infernale, in questa casa… smetto per timore
d’irritarti coi lamenti.
Figlio, anche se da molto tempo tu mi neghi come padre.
So, Mauro, che non neghi me, ma tutti i padri, la mia generazione,
quella che non ha fatto la guerra, ma il dopoguerra,
che avrebbe dovuto ricostruire, dopo il disastro, questo Paese,
formare una nuova società, una civile, giusta convivenza.
Abbiamo fallito, prima di voi e come voi dopo, nel vostro
temerario azzardo.
Ci rinnegate, e a ragione, tu anzi con la lucida ragione
che sempre ha improntato la tua parola, la tua azione. Ragione
che hai negli anni tenacemente acuminato, mentre
in casa nostra dolorosamente rovinava, nell’innocente tua
madre, in me, inerte, murato nel mio impegno, nel folle
azzardo letterario.
In quel modo volevo anch’io rinnegare i padri, e ho compiuto
come te il parricidio. La parola è forte, ma questa è.
Il mio primo, privato parricidio non è, al contrario del
tuo, metaforico, ma forse tremendamente vero, reale.
Tu sai dello sfollamento per la guerra a Rassalèmi, del
marabutto, dell’atroce fine di mio padre, della madre di tua
madre, del contadino e del polacco. Non sono mai riuscito
a ricordare, o non ho voluto, se sono stato io a rivelare
a quei massacratori, a quei tedeschi spietati il luogo dove
era stato appena condotto il disertore. Sono certo ch’io
credevo d’odiare in quel momento mio padre, per la sua
autorità, il suo essere uomo adulto con bisogni e con diritti
dai quali ero escluso, e ne soffrivo, come tutti i fanciulli
che cominciano a sentire nel padre l’avversario.
Quella ferita grave, iniziale per mia fortuna s’è rimarginata
grazie a un padre ulteriore, a un non padre, a quello
scienziato poeta che fu lo zio Mauro. Ma non s’è rimarginata,
ahimè, in tua madre, nella mia Lucia, cresciuta con
l’assenza della madre e con la presenza odiosa di quello
che formalmente era il padre.
Sappi che non per rimorso o pena io l’ho sposata, ma
per profondo sentimento, precoce e inestinguibile. Quella
donna, tua madre, era per me la verità del mondo, la
grazia, l’unica mia luce, e sempre viva.
La mia capacità d’amare una creatura come lei è stato
ancora un dono dello zio.
Al di là di questo, rimaneva in me il bisogno della rivolta
in altro ambito, nella scrittura. Il bisogno di trasferire
sulla carta – come avviene credo a chi è vocato a scrivere
– il mio parricidio, di compierlo con logico progetto, o
metodo nella follia, come dice il grande Tizio, per mezzo
d’una lingua che fosse contraria a ogni altra logica, fiduciosamente
comunicativa, di padri o fratelli – confrères –
più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili
del disastro sociale.
Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta, e ho pagato
con la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna.
Compatisci, Mauro, questo lungo dire di me. È debolezza
d’un vecchio, desiderio estremo di confessare finalmente,
di chiarire.
Questa città, lo sai, è diventata un campo di battaglia,
un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo,
straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano
membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla
strada per l’aeroporto! – È una furia bestiale, uno sterminio.
Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma il principale
loro obiettivo sono i giudici, questi uomini diversi da
quelli d’appena ieri o ancora attivi, giudici di nuova cultura,
di salda etica e di totale impegno costretti a combat-
tere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo
loro stesso giudiziario, asservito al potere o nostalgico
del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi,
da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui
hanno la loro prima linea, ma la cui guerra è contro lo Stato,
gli Stati per il dominio dell’illegalità, il comando dei
più immondi traffici.
Ma ti parlo di fatti noti, diffusi dalle cronache, consegnati
alla più recente storia.
Voglio solo comunicarti le mie impressioni su questa
realtà in cui vivo.
Dopo l’assassinio in maggio del giudice, della moglie
e delle guardie, dopo i tumultuosi funerali, la rabbia, le
urla, il furore della gente, dopo i cortei, le notturne fiaccolate,
i simboli agitati del cordoglio e del rimpianto, in
questo luglio di fervore stagno sopra la conca di cemento,
di luce incandescente che vanisce il mondo, greve di
profumi e di miasmi, tutto sembra assopito, lontano. Sembra
di vivere ora in una strana sospensione, in un’attesa.
Ho conosciuto un giudice, procuratore aggiunto, che
lavorava già con l’altro ucciso, un uomo che sembra aver
celato la sua natura affabile, sentimentale dietro la corazza
del rigore, dell’asprezza. Lo vedo qualche volta dalla
finestra giungere con la scorta in questa via d’Astorga
per far visita all’anziana madre che abita nel palazzo antistante.
Lo vedo sempre più pallido, teso, l’eterna sigaretta
fra le dita. Mi fa pena, credimi, e ogni altro impegnato in
questa lotta. Sono persone che vogliono ripristinare, contro
quello criminale, il potere dello Stato, il rispetto delle
sue leggi. Sembrano figli, loro, di un disfatto padre, minato
da misterioso male, che si ostinano a far vivere, restituirgli
autorità e comando.
Quando esce dalla macchina, attraversa la strada, s’infila
nel portone, vedo allora sulle spalle del mio procuratore
aggiunto il mantello nero di Judex, l’eroe del film
spezzato nella mia lontana infanzia, che ho congiunto, finito
di vedere – ricordi? – alla Gaumont.
Un paradosso questo del mantello nero in cui si muta
qui la toga di chi inquisisce e giudica usando la forza della
legge. E per me anche letterario. Voglio dire: oltre che in
Inghilterra, nella Francia dello Stato e del Diritto è fiorita
la figura del giustiziere che giudica e sentenzia fuori dalle
leggi. Balzac, Dumas, Sue ne sono i padri, con filiazioni
vaste, fino al Bernède e al Feuillade di Judex e al Natoli
nostro, il cui Beati Paoli è stato il vangelo dei picciotti.
In questo Paese invece, in quest’accozzaglia di famiglie,
questo materno confessionale d’assolvenza, dove lo stato
è occupato da cosche o segrete sette di Dévorants, da tenebrosi
e onnipotenti Ferragus o Cagliostri, dove tutti ci
impegniamo, governanti e cittadini, ad eludere le leggi, a
delinquere, il giudice che applica le leggi ci appare come
un Judex, un giustiziere insopportabile, da escludere, rimuovere.
O da uccidere.
Ancora questa mattina, come ogni domenica, sono andato
ai Ròtoli a portare i gelsomini. C’è un fioraio qui,
all’angolo della strada, che me li vende, mastr’ Erasmo,
che ha un pezzetto di terra a Maredolce. È un vecchietto
originale, simpatico, che parla per proverbi. Oggi, nel darmi
i fiori, ne ha detto uno strano, allarmante per una parola,
marabutto, che mi tornava da dolorosa lontananza…
Lo interruppe lo squillo del telefono. Era Michela che
gridava, piangendo:
«Don Gioacchino, presto, esca di casa, scappi subito,
lontano!»
Riattaccò. Gioacchino restò interdetto, smarrito. Sentì
nella strada deserta, silenziosa, i motori forti, lo sgommare
delle auto blindate.
Guardò giù. Erano il giudice e la scorta. Vide improvvi-
samente chiaro. Capì. Si precipitò fuori, corse per le scale,
varcò il portone, fu sulla strada.
«Signor giudice, giudice…» I poliziotti lo fermarono,
gl’impedirono d’accostarsi. Sembrò loro un vecchio pazzo,
un reclamante.
Il giudice si volse appena, non lo riconobbe. Davanti al
portone, premette il campanello.
E fu in quell’istante il gran boato, il ferro e il fuoco, lo
squarcio d’ogni cosa, la rovina, lo strazio, il ludibrio delle
carni, la morte che galoppa trionfante.
Il fioraio, là in fondo, venne scaraventato a terra con il
suo banchetto, coperto di polvere, vetri, calcinacci.
Si sollevò stordito, sanguinante, alzò le braccia, gli occhi
verso il cielo fosco.
Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono.
Implorò muto
O gran mano di Diu, ca tantu pisi,
cala, manu di Diu, fatti palisi!
pubblicato nel 1998
“Filippo Siciliano ha preso parte alle lotte contadine in Sicilia per
l’occupazione delle terre incolte:
“…da sopra un masso che affiorava nel punto più eminente, le mani a
imbuto sulla bocca, così Filippo parlò: La terra a chi lavora! Questa terra
incolta è terra nostra”
Filippo era un giovane universitario.
Ora, dopo una lunga vita operosa, senza mai tradire i suoi ideali di
giustizia e libertà, manda a tutti noi questo messaggio.
Caterina Consolo
Ratumemi
I
Nuvole nere vagavano nel cielo, dense come sbuffi di comignolo,
da levante correvano a ponente, e nel loro squarciarsi e dilatarsi,
rivelavano occhi azzurri e cristallini, lunghi raggi del sole
che sorgeva, stecche incandescenti d’un ventaglio, giù dal fondo
del Corso, dal quartiere Màzzaro, dal Borgo, d’in sul triangolo
del timpano della chiesa gialla di Santa Lucia.
Il largo del mercato era affollato, d’asini muli giumente leardi,
luccicanti di specchietti, sgargianti di fettucce nappe piume,
scroscianti di campanelle e di cianciàne. E cristiani erano a cavallo,
a terra, aste di bandiere nelle mani, trùsce e cofìni pieni
di mangiare, ridenti nelle facce azzurre rasate quel mattino.
Aspettavano, gli occhi puntati sulla porta della Casa, l’uscita
dei capi dirigenti.
Dai balconi dei palazzi prospicienti lo spiazzo, detto in altro
modo l’Arenazzo (luogo di sosta de’ carrettieri venuti da Butèra,
Riesi o Terranova, sfregatoio di bestie a zampe in aria, riposo
dentro il fondaco, tanfo di corno arso per la ferratura nella
forgia, cardi bolliti e bicchier di vino dentro la potìa), dai
balconi del palazzo Accardi e del palazzo Alberti, dalla farmacia
Colajanni, financo dalla canonica di San Rocco, guardavano
a questo assembramento di villani, a questo cominciamento
di processione, a questa festa nuova, fuori d’ogni usanza e
d’ogni calendario.
E nel vocìo sommesso, nel mormorio di saluti e di discorsi,
nello stridere del ferro di zoccoli e di chiodi, nel tintinnìo di
campanelle, nel fumo di trinciati e toscanelli, trillarono i banjo, i
mandolini infiocchettati de’ barbieri che, lustri più di tutti nelle
facce, nelle lune e nei capelli, con le loro dita magre dall’unghie
coltivate attaccarono a suonare l’Internazionale. E subito Bandiera
rossa, l’Inno di Garibaldi e di Mameli. Staccarono dalle corde le
stecche a cuore di celluloide quando s’aprì la porta della Casa
del Popolo e uscirono La Marca, Cardamòne, Siciliano, Pirrone
e altri ancora, che traversarono tutto lo spiazzo, si portarono
in testa, verso l’imbocco della via Bivona, e salirono in groppa
alle bestie. Guardinghi, ché non tutti avevan confidenza con gli
animali, questi giovani mazzarinesi usciti dalla guerra, ch’avevanù
studiato, ma studiato, contro i libri di carta e di parole della
scuola, sopr’altri libri, e di più con passione sopra il libro del
paese, in cui avevan letto chiaramente la lunga offesa, la storica
angheria, la prepotenza dei baroni. Eredi ma diversi d’altri precedenti.
Come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava
al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco
Colajanni, il farmacista, ateo inveterato, che sul letto di morte,
la figlia terziaria e le monache assistenti esulcerate, volle da leggere
il suo Decamerone. O come il medico Giunta, che andando
sul Corso per le visite, alzando gli occhi ai balconi dei palazzi,
sputava e imprecava: «Ah porci, ah baroni!».
Questi giovani ch’avevan determinato il successo del Blocco
del Popolo alle elezioni, e che ostentatamente, dopo la vittoria,
uno accanto all’altro, ostruendo la strada, andavano avanti e
indietro lungo il Corso per dispetto agli avversari. «Una sventagliata
di mitra, ecco quel che ci vorrebbe! Guardateli!… Proprio
ora che sono a tiro tutti quanti… Ta-ta-tatà e, in un attimo,
ci si potrebbe liberare di questi scalzacani» vociava don Turiddu
Bàrtoli da sopra il suo balcone coi campieri schierati alle sue
spalle. In testa, angelo custode, mignatta e protettore, don Peppino,
Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione, compare
dello Scebba, altro capo di Butèra.
Quando tutti furono assettati sopra le cavalcature, il trombettiere
della cooperativa “L’Agricoltore” suonò il motivo della
sveglia, come da soldato. Il La Marca, da sopra il suo cavallo,
si girò verso la folla, alzò il braccio e urlò:
«Avanti!»
E tutti mossero, in un corteo festoso e vociante, coi barbieri
che attaccarono a suonare la marcia d’Orsomando, il maestro
della banda.
Mossero per via Bivona e Castelvecchio, su per la mulattiera
al bordo della vallata del Canale, lasciarono le ultime case sul
poggio Immacolata, arrivarono all’eremo di San Corrado, già
convento dei padri Carmelitani e lazzaretto in tempo di colera
e di vaiolo arabo, ma luogo di sepoltura anche di morti impenitenti
e di morti per morte di coltello o di lupara. Furono subito
sotto le mura e la torre superstite dell’antico castello dei Branciforti,
Carafa e Santapau, principi di Butèra, della Roccella e
del Sacro Impero, conti di Mazzarino e di Grassuliato, eccetera
eccetera. Castello, mura e torri così eminenti in cima a questo
poggio sulle falde del monte Diliàno, evidente d’ogni luogo e
d’ogni parte, tutti, che in quel momento vi passavano di sotto,
avevano negli occhi, la fantasia e la memoria, fin dalla nascita,
come una cosa che minaccia, di legatura o magarìa, di maledizione
antica. “Sempre ce lo portiamo appresso questo peso del
castello” diceva dentro di sé il La Marca. E capiva, capiva que’
due operai della diga che un giorno, alla vigilia delle elezioni,
erano andati da lui col tritolo dicendo che volevano far saltare
Castelvecchio. «Ma siete pazzi?!» li apostrofò La Marca.
Ma ora anche Totò pensò a un gesto, a qualcosa che servisse
a vincere la figura, come fosse la torre degli scacchi.
«Oh,» gridò verso i compagni «chi è tanto valente da piantare
sopra la torre una bandiera?»
«Jeu!»
«Jeu!»
E si fecero avanti due giannetti.
Presa una bandiera, corsero su pel montarozzo, tra le troffe
di disa e di rovetto, sparirono dietro la quinta del muro diruto
del castello. Riapparvero subito in cima a quella torre, tra due
merli, e infilarono in un pertugio l’asta della bandiera rossa, che
si sciolse e si mise a svolazzare.
Oltrepassarono il poggio Gambellina, il monte Caruso, si
buttarono nella piana Sanghez, raggiunsero la valle di Braèmi.
Superata questa, giunsero a Ratumemi ch’era già passato
mezzogiorno.
Sullo spiazzo d’erbe da cui affioravano rocce come groppe
d’animali della grande masseria di don Ercole.
Un muro alto, con buche per le canne del fucile, cocci di bottiglia
sopra lo spiovente, la circondava tutta.
Oltre il muro, oltre il portone sprangato, spuntava la chioma
d’un carrubo, si vedevano le inferriate davanti alle finestre, la
loggia in alto con colonne di pietra e archi di mattoni. Sembrava
tutto chiuso, deserto, silenzioso. Ma dalle stalle si levavano
i muggiti delle vacche. E nitriti da dentro il baglio, abbaiar di
cani, tubare di colombi dai buchi della muratura.
Si sparpagliarono sopra l’altopiano, legarono gli animali alle
boccole di ferro infisse al muro, scaricarono la roba da mangiare.
Fecero tannùre con le pietre, accesero frasche e legna, formarono
la brace, arrostirono sopra le gratiglie le sosizze, costole e
stigliole d’agnello e di maiale.
Fumi grassi si levarono da tutta la spianata nell’aria stagna
di dopo la caduta della brezza, in quella calma sopraggiunta di
meriggio, compatti e netti come tronchi. Che in alto sbocciavano,
s’aprivano in onde, in rami, s’univano tra loro per le cime
a formare una volta, un cielo di promesse saporite e sazianti.
Zi’ Ciccio Arcadipane, due palme d’uomo, era dei cucinieri
il più sapiente. Rivoltava con le mani rocchi e tocchi che colavano
di grasso, spargeva sale, pepe, finocchio, rosmarino. E nel
mentre lavorava, sentiva quel bruciore in fondo alle ganasce, il
riempirsi la bocca di saliva come ogni volta ch’aspettava di mangiare
e c’era qualcosa che molto l’appetiva.
Così tutti i compagni del suo gruppo: Vito Parlagreco, ch’era
magro, ma capace di mangiarsi per scommessa una madia di
pasta con il sugo; Turi Trubbìa, Santo Brucculèri, Croce Vitale
e Petro Grassiccia, un omone alto, rosso nella faccia, la panza
prominente.
Stavano torno torno alla tannùra, fumavano e nasavano con
certe facce lunghe e occhi a bramosìa.
Così Rocco Grassiccia, un bambinello d’appena cinque anni,
che sembrava partorito là per là, sorto all’istante dalla panza
di suo padre. Ché del padre era la copia: faccia tonda e rossa,
gran capelli biondi e occhi chiari affossati sopra le gote. Gli stava
sempre accanto e ne imitava movenze e positure, mani in tasca,
braccia conserte, dita intrecciate dietro la schiena. Ma per
il padre era come non ci fosse, tant’era abituato ad averlo sempre
appresso, sul lavoro e fuori, la domenica in piazza, come
un’ombra rimpicciolita del suo corpo.
E quando fu il momento di mangiare, Roccuzzo, come gli altri,
s’appressò alla gratiglia, afferrò il suo pezzo di carne fumante
e si mise a strappare coi denti di lupotto. Poi qualcuno gli porse
pure il bombolo del vino, ch’egli, serio, afferrò e portò alla
bocca tenendolo in alto come una tromba. Il padre glielo tolse.
«Ma levati di qua! Ma guarda ’sto delinquente!» gli fece. Tutti
sbuffarono in una gran risata. Rocco s’offese, s’alzò e se n’andò
presso la sua bestia, s’accovacciò con gli occhi umidi di pianto
contro il muro. Scagliò a terra per dispetto un osso che gli era
rimasto nella mano. Subito un cirneco, randagio o venuto dal
paese appresso a qualche mulo, fu lesto ad afferrarlo e a correre
lontano. Zi’ Ciccio Arcadipane andò per riportarlo nella comitiva,
ma Rocco fece no, no, testardo.
Dopo, molto dopo, tornò in mezzo agli altri, ch’erano sazi e
avevano bevuto. E più di tutti Petro Grassiccia, la cui faccia per
natura rossa s’era fatta colore sanguinaccio. Sfotteva Arcadipane
per via delle quattro figlie femmine. Zi’ Ciccio rispondeva
che a fare femmine ci voleva più potenza, prova ne è che campano
più a lungo. Ma ribatteva l’altro che l’uomo si consuma
nel travaglio e ancor di più in quel travaglio dolce ch’è il pestare
senza posa col battaglio. E lei che fa, ah?, sta là a pancia
all’aria e non si sforza.
«Non si sforza? Non si sforza?» sbottò Arcadipane. «Ma tu
allora di quella cosa non hai capito niente!»
O cefaglione, cefaglione, o palma e giglio, o fiore di giummàrra!
Tutti risero, ma accortosi zi’ Ciccio di Roccuzzo, ch’ascoltava
attentissimo e voleva che vincesse suo padre in quella disputa,
disse ch’era ora di finirla, basta. E si mise mormorando a disporre
ancora carne sulla brace. Nell’attesa, il bombolo del vino
ripassava per le bocche.
Anche dagli altri gruppi, prossimi, lontani, le colonne di fumo
continuavano a salire; giungevano voci, risate, motti di complimento
e di sfottò. E le musiche ogni tanto, sommesse o accennate,
dei barbieri.
Grassiccia, già ubriaco, s’era attaccato a Vito Parlagreco, un braccio
sopra la sua spalla, e gli offriva mangiare, bere, chiamandolo
compare, baciandolo ogni tanto sulle guance.
«Mangiate,» gli diceva «bevete! Siete così afflitto!»
Vito, col suo aspetto magro d’affamato, era quello invece che
aveva divorato più di tutti.
Roccuzzo li guardava, e vedendo che suo padre pensava a
nutrire il suo compare, correva alla gratiglia, afferrava tocchi e:
«Pa’, o pa’,» faceva «tieni.»
E Petro offriva la carne a Vito. Che, sazio, per secondare l’altro,
faceva finta d’azzannare e subito la passava a Trubbìa o Brucculèri. Parimenti faceva col bombolo del vino.
Sfatti, si distesero lunghi, i gomiti a puntello sopra l’erba. E
fu come s’ognuno ritornasse solo, solo coi suoi pensieri, i suoi
affanni. Lo sguardo perso per quella nuda piana, a cui succedevano
colline, appena verdeggianti per gli spruzzi di pioggia
dell’ottobre in corso, o bianche e aspre, fortezze alte e puntute
di calcare. Vedevano da una parte un lembo col castello del paese, e giù la Piana, e la Montagna, e poi in giro, in quell’infinito che smarriva, in direzione di Riesi o Barrafranca, i feudi di Contessa, Mastra, Mercatante. E niuno d’essi, niuno, spersi tutti, affogati in quello spazio di dimenticanza, sotto quel cielo fermo, niuno s’era accorto che da sopra il muro bianco
della masseria, sopra i vetri di bottiglia, da dietro le finestre inferriate, sotto gli archi della loggia in alto, erano sbucati baschi neri e colorati sopra facce impassibili, occhi che scrutavano, nasi e bocche che fumavano. Che sulla loggia, sotto l’arco di centro, erano don Ercole in paglietta, Peppuzzo Bàrtoli
suo figlio e don Peppino Falzone il mafioso, attorniati d’altri che immobili guardavano quell’assembramento di villani sopra Ratumemi.
«Pa’, o pa’,» fece Roccuzzo scuotendo il padre per la punta del gilè «guarda, là.» Ma Petro non si scosse, rimase con gli occhi semichiusi e a fiatare col suo fiato grosso. Si scosse invece e saltò su zi’ Ciccio Arcadipane, guardò la
scena della masseria, guardò i galantuomini e rimase sospeso, come un allocco. Lo smosse, lo risvegliò Totò La Marca, che, sopraggiunto, gli diede ’na manata e cominciò a gridare: «Zi’ Ciccio, forza! Oh, voialtri, al lavoro! Basta col riposo. Siamo venuti qua a lavorare. Forza!» E gridando guardava a sfida su verso la loggia. Poi i suoi occhi caddero sul figlio di Grassiccia, su Roccuzzo: gli s’accostò, gli posò la mano sopra la lana arruffata della testa.
«E ’sto caruso,» chiese «a chi appartiene?» «È mio!» rispose il Grassiccia con orgoglio. «Deve tornarsene subito in paese, coi barbieri.» E rivoltosi a Rocco: «Te ne torni da tua madre. Tuo padre resta qua». Rocco, serio, fece sì con la testa. Totò gli sorrise e se ne andò. In uno con La Marca, s’erano mossi e sparsi, correndo per ogni direzione di quel piano, gli altri capi, vociando ai gruppi, ordinando di procedere svelti ai travagli. Andarono allora tutti verso le bestie, slegarono dai basti zappe picconi badili, aggiogarono i muli agli aratri. Si formarono le squadre, si segnarono confini con le pietre in quel feudo vasto, a schiere si disposero con gli attrezzi in mano. E Filippo Siciliano, da sopra un masso ch’affiorava nel punto più eminente, le mani a imbuto sulla bocca, così parlò: «La terra a chi lavora! Questa terra incolta è terra nostra. Da qui non ce n’andremo. Qui faremo le trincee.,. Al lavoro, compagni, al lavoro!» Si levò un urlo da tutta la spianata. Poi, dopo il suono della tromba, tutti si chinarono e cominciarono a colpire quella terra. S’alzò davanti a ogni schiera, ai raggi del sole che inclinava ormai verso le zolfare, verso il Salso e Gallitano, un polverone,
che subito avvolse e nascose i lavoranti.
da Le pietre di Pantalica
Vincenzo Consolo
Oscar Mondadori
C’ È QUALCOSA che va al di là del sentirsi legati ad un credo religioso, qualcosa come un richiamo a cui ciascun individuo misteriosamente si abbandona: è la notte di Natale. Recitava un’ antica ninnaredda, nome delle sonate e cantate natalizie: «Quantu è bedda la notti di Natali, ca parturìu Maria senza duluri! E fici un figghiu che è dignu d’ amari». Perché è proprio a notte fonda che si ripete l’ evento celebrato in ogni tempo e in ogni luogo della nascita di un bambino. «Sera dopo sera – racconta nel suo testo “Un remoto e recente presepe” Vincenzo Consolo – la cerimonia in chiesa, il rito affollato di suoni, luci, odori, figure, colori. Si snodava in questo modo la novena, si procedeva atto dopo atto, verso la conclusione del gioioso dramma, verso il Natale …». In memoria dei canti che i pastori avevano dedicato al Bambin Gesù, ogni notte in Sicilia, venivano suonate le novene da ciechi cantastorie, che già dal 16 dicembre andavano in giro, di casa in casa, per chiedere: «Chi vuol prender novena?». Questi canti cominciavano e finivano un giorno prima dei tempi liturgici dell’ avvento, tanto che si diceva: «l’ orbi fannu nasciri a lu Bamminu un jornu prima». «Molti palermitani – scrive Giuseppe Pitrè in “Spettacoli e feste popolari siciliane” – ricorderanno ancora quel piacere sentito in quella specie di dormiveglia, quando svegliati da un dolce suono si rimane incerti della realtà di esso: «Alligràtivi, pasturi/ Già ch’ è natu lu Misia;/ Bittalemmi a li fridduri/ ‘ Spostu ‘ n vrazza di Maria». Era questa una tra le ninnaredde più note, soprattutto nel palermitano. Pure i ciaramiddari, che modulavano col piffero il suono monotono della cornamusa, facevano la novena, eseguita però durante il giorno o alla sera; chi poteva permettersi poi di spendere qualche soldo in più riusciva a disporre di una piccola orchestrina composta da un violino, un contrabbasso e un flauto. La preparazione del presepe avveniva giorni o anche settimane prima della novena. Era la rappresentazione figurata di un fantastico assemblaggio di pastori, di cui esisteva una curiosa lista: «la nanna cu li puddicini, lu ricuttaru, lu furnaru, lu piscaturi…». Al centro, tra Maria e San Giuseppe, ecco «il bambinello Gesù – come scrive sempre il Pitrè – il Re della festa» e di bambini, oggetto di premio e di regalo. In via dei Bambinai, a Palermo, operavano i cirari (ceraiuoli), esperti nell’ eseguire il Bambin Gesù, raffigurato nei vari atteggiamenti: ora dormiente, ora assiso con le braccia aperte e col rosso cuore in mano, ora sdraiato in mezzo alle ghirlande, a volte rivestito di pregiati abiti in seta e ricami in oro. A volte si trattava di un exvoto raffigurante le fattezze di un bambino reale: il ritratto del figlio guarito, o del neonato tanto atteso. Alcuni di loro recavano un bigliettino con la motivazione dell’ offerta. Queste statuine tramandate di generazione in generazione sono custodite come dei numi tutelari: alcuni di questi bambini ad esempio sono andati a finire con le famiglie emigrate, in Australia, negli Stati Uniti, in Venezuela. La tradizione dei “bambiniddari”, come venivano chiamati questi maestri scultori, era molto diffusa in Sicilia. Nella seconda metà del Seicento quest’ arte ebbe una tale diffusione e popolarità che i salons parigini dell’ epoca accolsero spesso queste ricercatissime sculture.A rappresentare la Sicilia e l’ arte della ceroplastica fu il siracusano Gaetano Zummo, considerato uno dei più bravi. La cera d’ api, duttilee delicata, è una sostanza secreta dalle api, come il miele, che si riteneva fosse un dono divino. La lavorazione della cera ha dunque una forte valenza simbolica e non è un caso quindi che con essa si riproduca l’ immagine del piccolo Gesù e di «un progidio» come scrive sempre Consolo: «È il riso del Bambino di Betlemme, dei bambini di Palermo e d’ ogni luogo del mondo».
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La polivalenza della forma, del genere e del linguaggio testimoniano la volontà di resistere, tra l’altro, contro reificazioni di senso. La forma elicoidale delle lumache illustra in modo convincente il carattere indefinito delle potenzialità allegoriche nascoste nei testi consoliani. Nel romanzo Sorriso dell’ignoto marinaio questo segno è stato posto ad emblema della bellezza della natura, dell’enigma della storia e dell’oscurità umana60. Le contaminazioni “storiche” di Consolo sono stratificate a più livelli. Esattamente come il simbolo della chiocciola (o spirale degli eventi) che è il culmine del libro Il sorriso dell’ignoto marinaio61. La figura della chiocciola costituisce, come anche quella dell’“ignoto marinaio”, una specie di Leitmotiv; è la metafora dell’ingiustizia sociale dovuta alla distanza fra i privilegiati della classe colta (ai quali appartiene anche il barone Mandralisca che nelle sue ricerche scientifiche si occupa proprio di chiocciole)
59 R. Andò: Vincenzo Consolo…, p. 10. 60 Cfr. F. Di Legami: L’intellettuale al caffé. Incontri con testimoni e interpreti del nostro tempo. Interviste a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttita, dal programma radiofonico di Loredana Cacicia e Sergio Palumbo, prodotto e trasmesso da Rai Sicilia nel 1991. Palermo, Officine Grafiche Riunite, 2013, p. 53. 61 Cfr. A. Giuliani: Edonismo…
e la gente senza cultura e senza voce, e alla distanza fra la classe dei possidenti e quelli che, come i contadini d’Alcàra, si sono mossi “per una causa vera, concreta, corporale: la terra” (SIM, 93). Alla fine del testo Mandralisca s’immagina una nuova scrittura storiografica, una riscrittura che procede dal fondo della chiocciola: “conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene” (SIM, 112). Sotto il segno della chiocciola si condensano più livelli: a chiocciola è l’architettura del carcere in cui si conclude il racconto, architettura che riproduce “il vorticare” della storia; a chiocciola ossia a spirale è la lettura delle scritte che ne tempestano le pareti. Ma il termine “chiocciola”, in cui si condensa tutta la passione di ricercatore del barone Mandralisca, la sua scienza, viene finalmente degradato a esprimere l’astrazione degli “ideali” di fronte alla spinta concreta della rivolta popolana: “una lumaca!”. Alla chiusa del romanzo la figura fisica, il simbolo, la struttura linguistica e narrativa, coincidono con un effetto intenso e felice; quanto basta per sigillare l’intelligenza e la validità di un libro 62. Anche i pensieri nel Sorriso dell’ignoto marinaio sono raffigurati in una inarrestabile scesa spiraliforme dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui si congiura contro i Borboni (primo e secondo capitolo) all’eremo di Santo Nicolò, fino ai villici e ai braccianti di Alcara Li Fusi (terzo e quinto capitolo); le volute diventano gironi infernali con la strage dei borghesi perpetrata ad Alcàra (settimo capitolo). Questa discesa è anche linguistica: al sommo c’è il linguaggio vivido e barocco dei primi capitoli; negli inferi (nono e ultimo capitolo) le scritte compendiarie dei prigionieri, emerse dall’odio, dal rimorso, dalla nostalgia di libertà. Ulla Musarra-Schrøder scopre anche che il dialetto siciliano è sommariamente italianizzato; e quello gallo-romanzo di San Fratello, nella scritta XII, prende già movenze di canto. Ma questi due estremi linguistici e le realizzazioni intermedie non si sovrappongono a strati, bensì si alternano o si mescolano, sempre secondo uno schema elicoidale63. 62
Cfr. G. Gramigna: Un barocco… 63 Cfr. U. Musarra-Schrøder: I procedimenti di riscrittura nel romanzo contemporaneo italiano…, pp. 560—563. 112 Capitolo III:
L’idea della struttura per frammenti Secondo Sebastiano Addamo il simbolo della lumaca64 va analizzato nel modo in cui risulta più utile ai fini dell’interpretazione. Soggettivamente, cioè rispetto al personaggio maggiore del romanzo, il barone Enrico Pirajno de Mandralisca, la lumaca può rappresentare la classica attività dell’intellettuale tradizionale. Ma oggettivamente è ben altro, dato che il medesimo barone Pirajno paragona le lumache da un lato al carcere, che è un simbolo del potere, e, dall’altro, alla proprietà, che è il potere medesimo, e sotto tale aspetto la proprietà viene infatti definita come “la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo”65. Il sesto capitolo del romanzo è tutto attraversato dalla metafora della chiocciola, metafora plurima che designa successivamente i privilegi della cultura, l’ingiustizia del potere, e la proprietà come usurpazione 66. La metafora realizza una sorta di autocritica, dato che di chiocciole si occupa principalmente Mandralisca nelle sue ricerche scientifiche; diventa poi schema descrittivo, nel capitolo ottavo, quando si parla del carcere di Sant’Agata di Militello, in cui sono rinchiusi i colpevoli dell’eccidio di Alcàra. E proprio alla fine del capitolo, che è anche l’ultimo da attribuire ufficialmente al narratore (dato che il nono raccoglie senza commenti le scritte dei prigionieri) troviamo una sezione dei sotterranei a chiocciola nel castello, con un’ulteriore metafora: 64 Consolo ha attribuito il ruolo plurisignificante alla chiocciola nelle sue narrazioni, servendosi anche dei motivi della spirale o del labirinto. Senz’altro si può interpretare la presenza della chiocciola secondo la chiave proposta da Mircea Eliade sempre dove Consolo parla della fine, della morte, della devastazione o della metamorfosi: le civiltà antiche riconoscevano nelle lumache il simbolo del concepimento, della gravidanza e del parto. Similmente, i cinesi, associano i molluschi con la morte, e con i rituali funebri che dovrebbero garantire la forza e la resistenza dell’uomo nella sua futura vita cosmica.
Cfr. M. Eliade: Obrazy i symbole. Warszawa, Wydawnictwo KR, 1998, pp. 156—159. 65 S. Addamo: Linguaggio e barocco in Vincenzo Consolo. In: Idem: Oltre le figure. Palermo, Sellerio, 1989, pp. 121—125. 66
Il concetto di “fortezza — labirinto” prende avvio dalle teorie sviluppate sia da Kerényi che da Eliade e riguardanti il fenomeno della costruzione a chiocciola come archetipo biologico di origine e di percezione. Un’immagine ipnotizzante a forma di chiocciola Ma ora noi leggiamo questa chiocciola per doveroso compito, con amarezza e insieme con speranza, nel senso d’interpretare questi segni loquenti sopra il muro d’antica pena e quindi di riurto: conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire. SIM, 139 Lo schema elicoidale della chiocciola può servire bene per analizzare il romanzo, come ci autorizza a fare Consolo, citando all’inizio di questo capitolo ottavo una frase di Filippo Buonanni, da Ricreatione dell’Occhio e della Mente nell’Osseruation’ delle Chiocciole (Roma, 1681)67: […] sempre più vi accorgerete, che Iddio, compreso sotto il vocabolo di Natura, in ogni suo lavoro Geometrizza, come dicean gli Antichi, onde possano con ugual fatica, e diletto nella semplice voluta d’una Chiocciola raffigurarsi i Pensieri. Alla metafora quindi dell’ironico sorriso, effigiato nel quadro di Antonello da Messina, si associa, opposta e complementare l’immagine della lumaca, emblema di un percorso oscuro in cui si trovano sofferenze e dolori non testimoniati. “V’è una inarrestabile discesa spiraliforme — ha scritto Segre — dal palazzo del barone Mandralisca e dalla buona società in cui i congiura contro i Borboni all’eremo di Santo Nicolò, alla combriccola di Santa Marecùma, sino ai villici e braccianti di Alcara Li Fusi; le volute diventano gironi infernali con la strage di borghesi perpetrata ad Alcara, e bolgia ancora più fonda quando nelle carceri sotterranee di Sant’Agata vengono racchiusi i colpevoli”68. Anche se presentato in modo molto dettagliato, questo luogo di isolamento rappresenta uno di tanti luoghi opachi, utopici e incantati. 67
Cfr. C. Segre: Intrecci di voci…, p. 81. 68 F. Di Legami: Vincenzo Consolo…, p. 26.