“ .,. In un paese ai piedi dei Nebrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle Eolie celesti e trasparenti sono nato e cresciuto.,.”.
In una finesterre, alla periferia e confluenza di province, in un luogo dove i segni della storia – segni bizantini: chiese, conventi, romitori arroccati su picchi inaccessibili – s’erano fatti labili, sfuggenti, dove la natura, placata – immemore qui dei ricorrenti terremoti dello Stretto, immemore delle eruzioni del Vulcano -, s’era fatta materna, benigna – nelle piane, nelle valli, sopra i monti erano oliveti agrumeti noccioleti, erano fitti boschi di querce elci cerri faggi -, in un paese ai piedi dei Nebrodi, sulla costa tirrenica di Sicilia, in vista delle Eolie celesti e trasparenti sono nato e cresciuto. In tanta quiete, in tanto idillio, o nel rovesciamento d’essi, ritrazione, malinconia, nella misura parca dei rapporti, nei sommessi accenti di parole, gesti – erano qui pescatori d’alici e sarde assolti da condanne del fato, alieni da disastrosi negozi di lupini; erano contadini proprietari minimi, ortolani, innestatori e potatori, erano carrettieri di carretti monocromi, gialli o verdi -, in tanta sospensione o iato di natura e di storia, il rischio era di scivolare nel sonno, pendersi, perdere il bisogno e il desiderio di cercare le tracce intorno più significanti per capire l’approdo casuale in quel limbo in cui ci si trovava. E poiché, sappiamo, nulla è sciolto da cause e legami, nulla è isola, né quella astratta d’Utopia, né quella felice del Tesoro, nella viva necessità che m’assali di viaggiare, uscire da quella stasi ammaliante, dal confine estremo, potevo muovere verso oriente, verso il luogo tremendo del disastro, il cuore del marasma empedocleo in cui s’erano sciolti e persi i nomi antichi e chiari di Messina, di Catania, muovere verso la natura, l’esistenza. Ma per paura di assoluti e infiniti, di stupefazioni e gorgoneschi impietrimenti, verghiani immobilismi, scelsi di viaggiare verso occidente, verso i luoghi della storia più fitta, i segni più incisi e affastellati: muovere verso la Palermo fenicia e saracena, verso Ziz e Panormo, verso le moschee, i sup e le giudecche, le tombe porfido di Ruggeri, di Guglielmi e di Costanze, le cube, le zise e le favare, la reggia mosaicata di Federico di “Soave”, il divano dei poeti, il trono vicereale di corone aragonesi e castiglione; muovere verso l’incrocio dei Quattro Canti d’ogni punto cardinale, dei venti della Rosa, delle culture e favelle più diverse. Andando, mi trovai così al suo preludio, la sua epifania, la sua porta magnifica e splendente che lasciava immaginare ogni Palermo o Cordova, Granata, Bisanzio o Bagdad. Mi trovai così a Cefalù. E non so dire quando, tanto lontano ciò avvenne nel tempo. Ricordo che mi meravigliava, man mano che m’ apprestavo a quel paese, l’alzarsi del tono in ogni cosa, nel paesaggio, negli oggetti, nella gente, nei visi, gesti, accenti d’essa, il farsi, il tono, più colorito e forte, più netto ed eloquente di quello che avevo lasciato dalle mie parti. Aspra, scogliosa la costa, con impennate montuose di scabra e aguzza roccia, fino alla gran Rocca tonda sopra il mare – Kefa o Kefalé -, al Capo che aveva dato nome e protezione dall’antico a Cefalù; adorni di nastri, specchietti, borchie e piume, risonanti di campanelle e búbbole cavalli e mule aggiogati ai carretti variopinti coi retabli alle sponde delle gesta d’Orlando e di Rinaldo; alta, chiara, dai capelli colore delle messi, la gente, o scura e riccioluta, camusa, come se, dopo secoli, ancor distinti, uno accanto all’altro scorressero i due fiumi, normanno e arabo, siccome accanto e in armonia stavano il gran Duomo o fortezza o castello di Ruggero e le casipole con archi, altane e finestrelle del porto saraceno, del Vascio o la Giudecca. M’innamorai di Cefalù. Di questo bellissimo paese che sembrava anticipare o rispecchiare in forma più domestica, ridotta, in corpo più leggibile e abbracciabile – anticipare nella Rocca il monte Pellegrino, nel porto saraceno la Cala, nel Duomo il Duomo, nel Cristo Pantocratore la Cappella Platina e Monreale, nell’Osterio Magno lo Steri chiaramontano, nei quartieri Crucilla e Marchiafava la Kalsa o il Borgo -, sembrava anticipare la grande capitale, rispecchiare Palermo.
E presi a frequentare Cefalù, ad abitare in quel paese durante le vacanze. Mi sembrava, ed era, quello, un altro mondo, un mondo pieno di segni, di messaggi che volevano essere letti, interpretati. Ma certo era me stesso che volevo leggere, decifrare la mia trama, leggendo e decifrando insieme la gente con cui mi trovavo a vivere quell’ Isola, in quel paese, leggendo il suo muoversi sotto quella luce, in mezzo a quelle pietre, il suo agire, il suo parlare. E l’ansia d’ uscire dal mio dolce pantano “naturale”, di viaggiare verso l’occidente, verso i luoghi della storia, era certo quella d’ogni uomo che vuol trovare la chiave per capire e giudicare il mondo suo, il mondo. Trovai a Cefalù un uomo che molto prima di me, nel modo più simbolico e più alto, aveva compiuto quel viaggio dal mare verso la terra, dall’ esistenza alla storia, dalla natura alla cultura: Enrico Piraino barone di Mandralisca. “Nasceva Enrico Piraino dei baroni di Mandralisca il dì 3 dicembre 1809 da Michelangelo e da Carmela Cipolla, e fu educato in Palermo nel Regio Convitto Carolino d’ onde usciva all’ età di 16 anni appena compiti, fornito di quella superficiale istruzione che era propria dei tempi, e del luogo in cui era stato recluso. Fatto sposo dopo un anno con Maria Francesca Parisi, non solo abbandonò il mondo e le sue futili illusioni, ma essendovi veramente persuaso, che l’ uomo fu creato per lavorare e produrre; e che vive nel proprio merito; ed avendolo la natura dotato di una non comune intelligenza, e di una operosità senza pari, si diede con tutta lena allo studio delle scienze naturali ed archeologiche che formarono la passione più spinta della sua vita, e per le quali si sobbarcò a spese e fatiche non comuni; e divenne infatti in pochi anni naturalista ed archeologo valentissimo come le memorie da lui scritte, le raccolte da Lui eseguite, ne fanno pienissima fede”. Così scrive il sodale ed estensore dell’Elogio Gaetano La Loggia.. Ci colpisce, in quelle note biografiche, il matrimonio dell’adolescente Enrico con l’adolescente cugina di Lipari Maria Francesca Parisi. E sarà stato, questo del Mandralisca, uno di quei matrimoni combinati dalle famiglie subito alla nascita dei loro rampolli, suggello formale di sottostanti e reali accordi economici. Ma poteva capitare che in quei matrimoni come fiore raro e prezioso in un arido terreno, sbocciasse anche l’amore. Speriamo che questo sia capitato ai coniugi Mandralisca. Fatto è che, dopo il matrimonio, Enrico, insieme alla consorte, comincia a far la spola tra Cefalù e Lipari, fa la spola tra il cuore della “storica” Cefalù, tra il centro, la piazza Duomo, dov’ era nato, e quindi la strada Badia, dove eleggerà la sua dimora, e il cuore della “naturale”, mitica, preistorica e antica Lipari, il quartiere più antico di quella città, detto Supra ‘a Terra, a ridosso di Marina Corta, dov’era il palazzo dei baroni Parisi. Cefalù e Lipari sono quindi i due poli fra cui si muove il Mandralisca fino alla fine dei suoi giorni. Spinto dalla sua passione archeologica e antiquaria, scava in quell’ isola, scava in quell’ ònfalo profondo della storia e del tempo che è la contrada Diana, scopre trasporta nella sua casa di Cefalù statuette, lucerne, vasi, monete, maschere, arule. Rinviene il cratere attico del Venditore di tonno, che sembra riprodurre nella scena dipinta sulla sua superficie un mimo dal medesimo titolo del Siracusano Sofrone. Una scena, rara su quegli antichi vasi, di vita reale, quotidiana, qui deformata in chiave caricaturale, comica. Recupera in una spezieria di Lipari il famoso Ritratto d’ ignoto di Antonello da Messina, dipinto sul portello di uno stipo. Il viaggio del Ritratto, sul tracciato di un simbolico triangolo avente per vertici Messina, Lipari e Cefalù, si caricava per me di vari sensi, fra cui questo: un’altissima espressione di cultura e di arte sbocciata, per mano del magnifico Antonello, in una città fortemente strutturata dal punto di vista storico qual era Messina nel XV secolo, cacciata, per la catastrofe naturale che per molte volte si sarebbe abbattuta su Messina distruggendola, in quel cuore della natura qual è un’ isola, qual è la vulcanica Lipari, che viene infine scoperta da un uomo sapiente e appassionato come il Mandralisca, viene salvata e riportata in un contesto storico, nella giustezza e sicurezza di Cefalù. E non è questo poi, tra terremoti, maremoti, eruzioni di vulcani, perdite, regressioni, follie, passaggi tra gli scogli di Scilla e Cariddi, il viaggio, il cammino tormentoso della civiltà? Quel Ritratto poi, il suo poi, il suo sorriso ironico, “pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà” era l’espressione più alta, più compiuta della maturità, della ragione. Il Mandralisca destinerà per testamento la sua casa alla Strada Badia, i suoi libri, i suoi mobili, la sua raccolta di statue e di vasti antichi, di quadri, di conchiglie, di monete, a biblioteca e museo, a liceo per i giovani di Cefalù. Fu questo piccolo, provinciale, polveroso e cadente museo Mandralisca il mio primo museo. Varcai la sua porta al primo piano, non ricordo più quando, e mi trovai in un vasto ingresso dalle mattonelle di maiolica sconnesse e rumorose sotto il passo, mi trovai tra “monetari di ebano e avorio, i comò Luigi sedici, i canapè e le poltrone di velluto controtagliato, i tondi intarsiati, i medaglioni del Malvica (…) le consolle con piani di péluche che sostenevano vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina. E porcellanne di Meissen e Mennecy, la frutta d’alabastro, fagiani chiocce e gallinacci di jacopetit, orologi di bronzo dorato e fiori di cera sotto campane di vetro”, mi trovai in mezzo a un gustoso, tenero bric-à-brac di un signorotto di provincia dell’Ottocento. Nella seconda sala, dove alle pareti erano Madonne e San Giuseppi, Santi Cosma e Damiano, Costantini e Sant’Elene, Sacre Famiglie, Maddalene e Malinconie, era, senza cornice, poggiato a un cavalletto, vicino alla finestra che dava sulla strada, da cui irrompeva violento il sole, la tavolozza del Ritratto d’ignoto di Antonello, detto comunemente dell’Ignoto marinaio. Mi trovai di fronte a quel volto chiaro, a quel vivido cristallo, a quella fisionomia vicina, familiare e insieme lontana, enigmatica: chi era quell’uomo, a chi somigliava, cosa voleva significare? “Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso.(…) Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà” Ragione, ironia: equilibrio difficilissimo e precario. Anelito e chimera in quest’Isola dov’è stata da sempre una caduta dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene sarcasmo, pianto, urlo. Diviene Villa dei Mostri a Bagheria, capriccio, locura, pirandelliana camera della tortura, sonno, sogno, ferocia. Diviene disperata, goyesca pinturas negras, Quinta del Sordo. ma è dell’Isola, della Sicilia che dice il Ritratto di Antonello o dice di questo nostro mondo di oggi?
Vincenzo Consolo
Sant’Agata Militello, 17 agosto 1993 per Valdemone
Ci sono giorni, tremendi giorni d’inquiete primavere, di roventi estati senza fine, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza estrema, insopportabile. Un mondo – cieli tersi di cristallo, acque immote di basalto, terre spoglie di calcare – un mondo attonito per la tragedia che appena s’è conclusa o sospeso nell’attesa del disastro. È il mondo, la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, l’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta; è il dolore che impietrisce e intenebra la Madre, smarrisce il Fratello adolescente. Sì, nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o Andalusia, sopra i Golgota di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio e del riscatto; nelle sue Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie; nella sua Messina, sopra i tavolati degli Iblei, per la valle del Belice si sono succeduti i terremoti; per gli immensi fianchi della sua Etna sono colate le lave d’ogni tempo. Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e di fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di fuoco, ha avuto il potere di travolgere, di ridurre alla paura, al sonno, alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della comprensione, della capacità e del bisogno del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso. Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Acitrezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria – la Bagaria, la bagarria: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione -, un paese di polvere e di sole, di tufo d’oro e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di Mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro duro e inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo ultimo, mortale. La salvezza era solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione, di verità e di poesia. Verga peregrinò e s’attardò in «continente» per metà della sua vita con la fede in un mondo irreale, di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi ogni velo di errore, di illusione, perché scoprisse dentro sé il mondo «solido e intatto» della sua memoria, ch’era stato sempre lì in agguato, pronto a ghermirlo, a gettarlo giù dal cavallo dell’incoscienza sul terreno della crisi, a fargli ritrovare il suo linguaggio. E ripartendo dalle situazioni, dai luoghi estremi, dalle falde dell’Etna, da Tebidi, dalla cava presso Monserrato, partendo da creature minime, innocenti, da Nedda, Jeli e Rosso Malpelo, il rischio subito fu quello dell’«innesto» del naturalistico, del dialettale nel linguaggio appena ritrovato («…quei corsivi che “bucano” la pagina» dirà un critico). Ma poi, dalla casa del Nespolo, dalla lava solidificata d’una immemorabile tempesta che sconfina e scioglie nel mare infido e fatale di Acitrezza, il linguaggio uniformemente «irradiato» di dialettalità, si fa sicuro canto, melopea, si fa parodo e stasimo della tragedia dei Malavoglia, della tragedia umana. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono, o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo: forte, all’epoca. ‘intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava a lui davanti a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua apparenza e nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella «dimora vitale» di Bagheria, si trovò a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il Venti e il Trenta, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, con il suo campiere, e il contadino, decisa la volontà in ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò i morti di Riesi e di Gela, che fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel: colui che, da lì a qualche anno, salito su un aeroplano. avrebbe martirizzato Guernica l’inerme, Guernica l’innocente: preludio infame di più vasti martini, d’olocausti. Si stagliarono allora subito le «cose» di Guttuso nello spazio con una evidenza e una vita straordinarie, parlarono di realtà assoluta e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che «bucano» la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro singolare, inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è il suo Fantasticherie, è il manifesto, la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire. La quale comincia, per questo pittore tragico d’una terra tragica, col vasto poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva. ineluttabile al pari di un’avversa deità, di un «destino», che si presenta con la violenza di un vulcano. La Juga dall’ Eina è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un «utero tonante» – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi; vengono avanti come valanga ostinata e orgogliosa di vita, vengono con le loro azzurre falci. coi loro mossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix; vengono tutti, uomini e animali, vibranti di vitalità come le masse di Gericault. Dall’allesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’oflesa investe Favo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Coya, di Gongora, di Unamuno. La Fucilazione in compagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo di dolore e raccapriccio, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie vaganti all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio, Guttuso inchioda alla loro colpa, con questo scandalo, con questo manifesto, i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificale, benedivano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei di sempre, non era né la nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era, come nella Flagellazione di Piero, in cui si relegava in secondo piano il tema sacro e avanzava nel primo una conversazione filosofica o civile, nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, anche Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. «Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati […] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee…» scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana, voce rattenuta di dolore e di furore, la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. Tornava l’eroe alla terra delle madri, della memoria, per ritrovare senso e ragione nella follia della storia, trovare nuovo linguaggio, «nuovi doveri». «Io ero quell’inverno in preda ad astratti furori…» narrava. E sono, negli anni atroci della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagheria, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara. In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte senza fine, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica disumana, dalla perenne paura del crollo e della fine. Una pagina di tale orrore e di tale pietà solo Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo (e in contrappunto Pirandello con Ciaula scopre la luna). E Malpelo è sicuramente il caruso piegato de La zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In tutto poi il peregrinare per il mondo: nell’affrontare temi «urbani», ampiamente storici, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo lin-guaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura, il terremoto nella valle del Belice. E La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, come gli antichi cortei funerari, la marcia verso un’acropoli di distruzione e di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dall’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da sicure mani, la lampada raggiante e allarmante di Guernica, sono le lampade alle finestre nella notte dell’incendio a Vizzini in apertura del Mastro don Gesualdo, e sono insieme il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche le realtà più estreme, più mude, più insopportabili, le realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo. Simbolo di una solare, guttusiana luce che ci aiuta a risalire il colle anche nella notte del disastro e dell’alienazione, della perdita del senso della realtà e della verità. Notte nella quale oggi stiamo vivendo.
Sant’Agata Militello, 16 agosto 1991
Pubblicato in forma diversa in Art e Dossier n.63 Giunti Editori. Firenze dicembre 1991
Il sorriso dell’ignoto marinaio, acquaforte di Renato Guttuso. autunno 1975
« Nasceva Errigo Piraino dei Baroni di Mandralisca il dì 3 dicembre 1809 da Michelangelo e Carmela Cipolla, e fu educato in Palermo nel R. Convitto Carolino d’onde usciva all’età di 16 anni appena compiti, fornito di quella superficiale istruzione che era propria dei tempi, e del luogo in cui era stato recluso. Fatto sposo dopo un anno con Maria Francesca Parisi, non solo abbandonò il mondo e le sue futili illusioni, ma essendo veramente persuaso, che l’uomo fu creato per lavorare e produrre, e che vive nel proprio merito, ed avendolo natura dotato di una non comune intelligenza, e di una operosità senza pari, si diede con tutta lena allo studio delle scienze naturali ed archeologiche che formarono la passione più spinta della sua vita, e per le quali si sobbarcò a spese e fatiche non comuni; e divenne infatti in pochi anni naturalista ed archeologo valentissimo, come le memorie da Lui scritte, le raccolte da Lui eseguite, ne fanno pienissima fede. »
In queste esigue righe, nelle sue scarne notizie, nelle sue poche date (al 1809 della nascita e al 1825 del matrimonio bisogna solo aggiungere il 1848 della nomina a rappresentante di Cefalù al General Parlamento di Sicilia, il 1861 dell’elezione a deputato al Primo Parlamento del Regno d’Italia, il 1864 della morte) è compendiata la vita del Mandralisca. Righe che abbiamo tratto dall’ « Elogio funebre – di Enrico Piraino – barone di Mandralisca – detto – dal Prof. Gaetano La Loggia», stampato a Palermo nella tipografia di Francesco Lao.
Ora, dentro queste righe guardando, come col microscopio la particella di un organismo o, in modo più sereno, col telescopio la luna, scorgiamo e conosciamo – per segni certi e anche per congetture l’intensa, ricchissima vita, l’affascinante personalità di un uomo della prima metà dell’Ottocento, in Sicilia, in uno straordinario paese di nome Cefalù.
L’estensore e declamatore dell’Elogio intanto, il professor Gaetano La Loggia, cospiratore dei moti del ’48 e del ’60, fu ministro del governo provvisorio di Garibaldi e quindi senatore del Nuovo Regno d’Italia; valentissimo medico, stese un umanitario «Catechismo e Istruzioni popolari sul colera. »
Col Mandralisca certo il La Loggia avrà stabilito una profonda e duratura amicizia in quel «reclusorio » che era il Regio convitto Carolino. Dove convenivano i rampolli delle più cospicue famiglie di Palermo e della Sicilia, i quali, giovani com’erano e quindi ricchi di slanci e armati di risentimento per l’oppressione che il potere esercitava, concepivano azioni affrancatrici, nutrivano comuni ideali di riscatto, stabilivano tra loro connivenze, duraturi legami, patti di solidarietà. Erano luoghi insomma, i convitti o collegi di quell’epoca, se non di vera istruzione (“superficiale” la qualifica il La Loggia ), di cultura e coltura cospirativa, scuola di educazione sentimentale e politica. Per i giovani.
Per le fanciulle invece i convitti o educandati erano spesso strutture di perenne segregazione, di condanna di innocenti: le storie di mal monacate sono state materia di famosi romanzi, ma sono stati anche reali drammi, consegnati a struggenti confessioni ( si legga per esempio «I misteri dei chiostri napoletani » di Enrichetta Caracciolo Forino).
Nasce dunque, Enrico, nel cinquecentesco palazzo Piraino ( perastro: sullo stemma al colmo dell’arco dell’imponente portale, proprio quest’umile e selvatico albero dispiega i suoi rami, a cui anela, con una zampa puntellata al suo tronco, un rampante leone) che s’affaccia sulla piazza del Duomo (Chiaru Signuruzzo), a fare da quinta, assieme al palazzo Maria, al Vescovato e al Seminario, al palazzo Martino, al convento di Santa Caterina, alla quadrata piazza, a fare da accolito alla maestà del Duomo, che al centro, in cima all’alta scalinata, domina palazzi e piazza, domina il paese. E Duomo e piazza e paese sono poi dominati, sono anzi protetti da quel gran promontorio, da quella rocca, dalla Rocca, la Kefa o Kefalé che accoglieva in sé l’antico borgo, che ha dato il nome, sonoro e musicale, a Cefalù.
Privati educatori, preti pedagoghi saranno stati i primi maestri del Piraino fanciullo, fino a che non venne mandato a Palermo al « Carolino». Da qui esce a soli sedici anni per sposare subito una cugina di Lipari, Maria Francesca Parisi. Sarà stato, questo del Mandralisca, uno di quei matrimoni combinati dalle famiglie subito alla nascita dei loro eredi, e da famiglie spesso tra loro imparentate, matrimoni che erano il suggello formale di reali accordi economici, dei modi di rimettere insieme patrimoni. Ma in questi matrimoni, come un fiore raro e prezioso in un arido terreno, poteva anche nascere l’amore. Che crediamo sia nato fra i due sposi adolescenti Enrico e Maria Francesca. Per i quali, subito fiorita, la vita era costretta in un codice di rigidi doveri, obblighi, regole, discipline, com’era per tutti il quel paludato Ottocento e soprattutto per persone della loro classe. E’ dunque, supponiamo, per superare questo impasse, per uscir da questa prigione che l’intelligente Mandralisca (al contrario di tanti suoi coetanei e di tanti nobili come lui, di Cefalù e d’altrove, che s’immeschiniscono e spengono nella noia della quotidianità, nell’agio e nello sperpero, nell’ossessione dell’accumulo e della conservazione della roba) si abbandona alle avventure dello spirito, alla passione della ricerca, alla febbre degli ideali: si consegna allo studio e alle esplorazioni naturalistiche e archeologiche, si nutre di ideali risorgimentali.
Dopo il matrimonio, assieme alla consorte, comincia a far la spola, Enrico, tra Cefalù e Lipari, riallacciando o rinsaldando così i legami fra le due città, che per le vie del mare, per ragioni di pesca o di commerci avranno sicuramente avuto origini remote (le vicende minime, ignote, i rapporti sconosciuti, le microstorie tra l’isola maggiore e le minori, tra paesi e città di coste opposte, nel piccolo teatro del basso Tirreno o nel più vasto teatro del Mediterraneo, sono quelle che più aiutano a capire l’essenza di un’epoca, di una civiltà).
Fa la spola, il Mandralisca, tra il cuore della «storica» Cefalù, tra il centro, il Chiaru Signoruzzo, e quindi la Strada Badia o Strada del Monte, dove poi eleggerà la sua dimora, e il cuore della «naturale», mitica, preistorica e antica Lipari, il quartiere più antico di quella città detto Supra ‘a Terra, a ridosso di Marina Corta, dov’era il palazzo dei baroni Parisi.
Cefalù e Lipari sono dunque i due poli fra cui si muove il Mandralisca fino ai suoi ultimi giorni. Poli per me – e qui mi permetto di introdurmi, forte del solo titolo d’aver scritto un romanzo storica, Il sorriso dell’ignoto marinaio, il cui ispiratore e protagonista è questo gran personaggio del Mandralisca – poli carichi di significati, di simboli, di metafore, entro cui si racchiude il cammino della vita del Mandralisca. Cerco di spiegare.
Cefalù, così rocciosa e solida, così affollata nel suo tessuto urbano di segni storici, così emblematicamente intrisa di auree arabe e normanne – è da qui che nasce la vera storia nostra, la storia che si chiama siciliana – Cefalù mi è sempre sembrata la porta, il preludio, la soglia luminosa del gran mondo palermitano (finanche la sua Rocca sembra il pròdromo del Monte Pellegrino), della Sicilia occidentale, del mondo maschile della regione e della storia.
Lipari, così vulcanica e marina, così mitica e arcaica mi è sembrato il luogo femminile della natura, dell’esistenza, dell’istinto, della discesa nell’oscurità del tempo, della risalita verso la fantasia creatrice.
C’è dunque in Mandralisca questo continuo movimento da Lipari a Cefalù, dal mare alla terra, dall’esistenza alla storia (movimento, passaggio sintetizzato nel simbolo della chiocciola, che ho cercato di riprodurre nel mio romanzo). In questi viaggi, il Mandralisca trasporta «antichità », statuette, lucerne, vasi , monete recuperate nei suoi scavi in quell’onfalo profondo della storia e del tempo che è la contrada Diana di Lipari. Recupera, salva dalla minaccia della natura, riporta alla terra quel «Ritratto d’ignoto» di Antonello, già sfregiato dal gesto irrazionale d’una donna (ma segno, lo sfregio, di volontà di superamento della ragione verso la creazione di un nuovo assetto politico e sociale), che sarà il gioiello più splendido della sua raccolta, del suo futuro museo.
Ma tanti altri significati, tanti altri valori, tanti altri insegnamenti mi ha regalato, ci regala la figura del Mandralisca, questo personaggio più generoso del gattopardo principe di Salina, più preoccupato delle sorti comuni, generali, soprattutto delle sorti di quelli socialmente più fragili, indifesi. E questa sua nobile preoccupazione non è un’invenzione letteraria, ma la si può realmente leggere nel suo testamento. «Voglio dell’annua rendita di tutti i miei beni…si fondasse e mantenesse nella mia patria Cefalù un liceo… », così dispone. E legati assegna al Collegio di Maria «con l’obbligo di mantenere una Scuola Lancasteriana per le fanciulle», all’Ospedale degli infermi… E nel testamento dispone ancora della Biblioteca e del Museo installati nella sua dimora.
Nel libretto dell’Elogio, stilato da La Loggia, vi è anche un bel ritratto litografico del Mandralisca, disegnato da un tal Tambuscio. Vi appare, il Nostro, come un maturo signore dal viso scarno di studioso con baffi e pizzo, dalla fronte ampia, dallo sguardo severo, acuto, penetrante. A chi somiglia questo Mandralisca? Somiglia forse all’ «ignoto» di Antonello? Somiglia certo al barone Pisani, a Michele Amari, a Napoleone Colajanni… Agli uomini vale a dire di più alto sentire, di più nobili e generosi slanci a cui la Sicilia abbia dato i natali.
Uomini di cui, in questo nostro tempo di meschine chiusure, di feroci egoismi, di stravolgimenti morali, si sta rischiando di perdere la memoria, l’insegnamento.
Milano, aprile 1991.
Vincenzo Consolo, Viaggi dal mare alla terra, in Aa. VV., Museo Mandralisca, Palermo, Edizioni Novecento, Palermo 1991
Non sappiamo se esiste o possa mai esistere una scienza che studia la luce in rapporto ai luoghi (topofotologia?). Speriamo che non esista, che non possa mai esistere. Perché vogliamo (noi che temiamo le razionalizzazioni, la distruzione delle fantasie, la loro riduzione in mappe, grafici, numeri: ah quella luna profanata, la sua caduta, il suo mito, la sua fantasia frantumata! Ah le sue misure, i nomi dei suoi “mari”. “. dei suoi monti, dei suoi crateri!) vogliamo che luoghi e luci – luoghi bruciati, smaterializzati dalla luce – rimangano pur sempre mari o cieli su cui navighi solo la poesia. Luogo di luce, di incroci o giochi di luce è ad esempio quell’isola del Mediterraneo che si chiama Sicilia. Luce che si modula, cambia da capo a capo, da costa a costa, da montagna a montagna, da pianura a pianura. Abbiamo potuto constatare (o è stato un abbaglio?), percorrendo l’isola, che, oltrepassato il capo Gallo, improvvisamente la luce cambia, si fa diversa da quella del Tirreno; che aggirato il capo Peloro, a torre Faro, sopra il gorgo di Cariddi, diversa è la luce dello Jonio; e ancora diversa oltre gli Iblei, da Siracusa a Pachino, all’Isola delle Correnti; che luce sua è, diversa dalle luci dei mari e delle coste, quella della sconfinata landa desolata dell’interno, oltre la barriera delle Madonie e dei Nébrodi. E non è altra la luce rossastra, infuocata, fenicia o africana, di Mozia, del Lilibeo o Selinunte, da quella bianca e cristallina di Taormina, di Megara o di Ortigia, altra dalla luce nera di Catania e dell’Etna? La luce terrosa di Palermo da quella marina, acquorea di Messina? La luce delle Egadi da quella delle Eolie, delle Pelagie? Messina, la spirale del suo porto, lo iato, la fenditura dello Stretto… Visto dalla platea di Paradiso, o dalle acque stagne di Ganziri, visto dai palchi dei colli di San Rizzo, dal Faro Superiore o Castanèa delle Furie, è un teatro unico, fantastico, una rappresentazione senza fine dove si spiegano velari, si squarciano, s’involano; dove rifrazioni di lastre immateriali, d’invisibili specchi sciabolano, s’incrociano, si spezzano; dove piovono, s’ammassano gravi cascami d’astri sfaldati; dove sorgono illusioni, sortilegi, fate morgane, allucinazioni; dove a volte il mondo crudamente e crudelmente si denuda, mostra tutta la sua desolazione, la sua angoscia (il dolore assoluto, senza scampo dello sfondo d’una qualche Crocefissione d’Antonello). E allor mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico, e affisso a un’eterna luce o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminabili e vani, scale, tra mezzo a cattedrali, regge di nuvole e di raggi. Mi pare quando che ho l’agio e il tempo di staccarmi d’ogni reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi nomi belli di villaggi o pel mio levarmi presto, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che mi fuga infine l’ombre i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, lo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo. E se dallo Stretto andiamo oltre il golfo, il capo di Milazzo, altro teatro, più vasto e più fantasioso vi si spiega: quello di Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi, Alicudi … Isole ora sfumate, lontane, fuggenti dietro cortine, velari, vapori, illusorie come Sirene; ora corpose, evidenti, reali, prossime e avanzanti sulle acque, con ali di meduse, pomici, alghe, fluttuanti come le Simplegadi. Andiamo verso il Tindari, i ricami delle rene, le acque morte, i giunchi velieri marciti sotto la sua rocca prominente. Questo il teatro che mi si parò davanti appena aperti gli occhi, questo il quadro, la memoria più antica e indelebile. E cos’è allora la memoria d’un pittore nato sopra lo specchio di sommo sortilegio e sommo inganno, sopra l’occhio verde e tremendo di Gorgona, sopra la lastra versicolore, il vetro di Murano, sopra quel Mar Morto e quello Stige, quel cielo rovesciato, quel ceruleo abisso che è la Laguna, la natura più intima, la segreta sorgiva di quel mare che scorre e che si mesce allo Jonio, all’Egeo? Nato in una città invisibile, Stambul e Samarcanda riflessa dentro l’acque, madrepora vagante, sargasso stralucente, mamona che si dona e che si nega? Nato in Venezia e lì imprigionato, nella marea che sale, nel cielo che s’abbassa, nelle acque e nelle brume smemoranti, che celano splendori, miracoli, potenze, ogni beltà, ogni arte? Nella città che sorge all’orizzonte, oltre le soglie, s’erge nei cieli della Luna, di Venere, del Sole, nel cielo delle Stelle, nel centro dei cerchi luminosi?
Quali nei pleniluni sereni Trivia ride tra le ninfe eterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vidi sopra migliaia di lucerne… (1)
E possibile ancora memorare, dire, riportare tanto abbaglio, tanta viva sorgente d’ogni luce, d’ogni trasparenza? Solo per allusioni, per astrazioni, per ritmi, per intermittenze, per pulsazioni, per fotoni, per piani e fasci di luce, per accenni d’infinito, per tagli, lame di giallo, bianco, per fuochi intensi, per vermigli, per modulazioni di cieli, e di acque, per azzurri profondissimi, per altre arti e per altre nostalgie, per inusitate visioni forse è possibile. Possibile, meravigliosamente ardita e luminosa fu la parola d’un Poeta fra luci e visioni d’altro mondo che ad ogni altro avrebbe tolto il passo, il fiato.
Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non si profonde che i fondi sien persi, tornan de’ nostri visi le postille, debili sì, che perla in bianca fronte… (2)
Bisogna superare ostacoli d’intimidatorie citazioni, stagni di brucianti ironie (e già temo l’ironia di questa metafora ippica) per parlare di un fotografo come Enzo Sellerio. Un signore che, costretto a dire di sé in rapporto alla fotografia, mette subito le mani avanti, sfodera una figura retorica come la preterizione attraverso un autorevole citazione di Rudolf Arnhcim che lapidariamente afferma: «L’arte rischia di venir sommersa dalle chiacchiere», a cui egli stesso, Sellerio, cementa altra pietra, o altra intimidazione, con la frase: «E la fotografia pure, qualunque cosa sia». Ma io temerariamente parlo perché non sono, come si dice, un addetto ai lavori, non sono un critico, e quindi spero che il mio parlare, al di qua o al di là dell’oggetto in parola, o dell’oggetto parlato, non si sommi alle chiacchiere sommergitrici (le attuali chiacchiere che, afferma sempre il Nostro, facilmente possono sgorgare dalla lettura delle 537 paginette – notare l’esattezza del conto – a cui assommano i saggi di Barthes, Benjamin, Freund, Sontag); io parlo perché, contro ogni dubbio di Sellerio, sono convinto che la fotografia — la sua fotografia — sia arte (cd ecco che questo giudizio mi mette in contraddizione con quanto ho detto sopra); parlo perché ho da sempre nutrito profonda ammirazione per quest’arte di Sellerio (le prime sue foto che vidi furono quelle pubblicare da Michele Gandin su •Cinema Nuovo- e che avrebbero dovuto illustrare Banditi a Partinico di Danilo Dolci: era il 1955, mi pare, ed io ero studente a Milano; l’anno in cui usciva, in volume, Le parole sono pietre di Carlo Levi; qualche anno prima era uscita l’edizione illustrata dalle foto di Crocenzi di Conversazione in Sicilia di Vittorini; immagini, libri che mi facevano conoscere o riconoscere la mia Sicilia lontana, che mi avrebbero indotto a tornare nell’Isola della quale volevo scrivere, volevo testimoniare); parlo infine, ma primieramente come motivo, per consonanza: perché, voglio dire a me narratore, il genere fotografico di Sellerio mi sembra simile al genere narrativo: la sua fotografia simile al racconto. «La qualifica di fotografo-giornalista esiste, ma non quella di fotografo-letterario: perché non è lecito fare un lavoro di ricerca simile a quello dello scrittore?» si chiede Sellerio (intervista a Maurizio Spadaro per la sua tesi al DAMS, 1988-89). Ma questo lavoro di ricerca Sellerio l’ha sempre fatto, sin dalla sua prima fotografia. Perché la sua è stata, è fotografia «letteraria» (ma metto tra virgolette questa parola ambigua, pericolosa), è fotografia narrativa. E cerco di spiegarmi. Ho sostenuto in altri luoghi che lo scrittore ha due modi di esprimersi: scrivendo, appunto, c narrando. Che il narrare, operazione che attinge alla memoria, è uno scrivere poetico; che è un rappresentare il mondo, ricrearne cioè un altro sulla carta. Gravissimo peccato detto tra parentesi, che merita una pena, come quella dantesca degl’indovini, dei maghi, degli stregoni (Inferno, XX canto):
| Come ‘I viso mi scese il lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso; chè dalle reni era tornato il volto, ed in dietro venir vi convenia, perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.
Sì, il narratore, attingendo alla memoria, procede sempre con la testa rivolta indietro (e il suo narrare può quindi apparire operazione inattuale, regressiva). Ha però, il narratore, al contrario dei dannati dell’Inferno, una formidabile risorsa, compie, dal passato memoriale, quel magnifico salto mortale che si chiama metafora: salto che lo riporta nel presente e qualche volta più avanti, facendogli intravedere il futuro. Si narra, io credo, riportando, nell’operazione del narrare, la propria memoria esistenziale e la propria memoria culturale. Perché noi siamo, si, figli della natura, ma siamo anche — dirci soprattutto – figli della cultura. Nasciamo, e subito veniamo incisi dai segni culturali. Lo scrivere invece, al contrario del narrare, può fare a meno della me- moria, è un’operazione che attinge al pensiero, alla logica. «Che cos’è per lei la fotografia?» chiedeva il critico Diego Mormorio 1983). E Sellerio: «Non le risponderò certo tentando una definizione. lo credo, e l’ho verificato più volte, che nell’atro di fotografare, in certi stati di grazia, scatti una specie di telemetro interiore che fa coincidere quello che si vede con quello che si sa». E, questo che si sa, cos’è, se non la memoria, la memoria culturale? Quindi, il fotografo enumera casi in cui memorie pittoriche, memorie letterarie sono riemerse nell’atto del suo fotografare. E Malata, Partinico 1954 rimanda a Femme au lit di Vuillard, Monastero di clausura di Santa Caterina, Palermo 1967 rimanda a Vermeer, Quartiere della Kalsa (o Fucilazione dei bambini), Palermo 1960, rimanda a Goya, Musica sacra al Duomo, Monreale 1959 rimanda alla America di Kafka, e c’è ancora Brueghel, c’è Millet, c’è Antonello, c’è Picasso, c’è Conversazione di Vittorini; e Chaplin e Bufuel, e tanto cinema francese degli anni ’40, e Cartier Bresson e Robert Capa… Non si finirebbe mai, con i rimandi, le citazioni volute e non volute, consce ed inconsce. Insomma, la fotografia, come ogni altra espressione d’arte non è innocente, la naïveté è un’illusione, quando non è impostura. Non è innocente l’obiettivo fotografico. Non è obiettivo. Neanche l’obiettivo di Giovanni Verga. Né quello della macchina a cassetta avuta in eredità dallo zio Salvatore, né quello della Kodak e quello della Express Murer acquistate a Milano, né quello della Aestman acquistata a Londra. L’impassibilità dell’obiettivo di Verga rimase solo una fede, una credenza. Ho avuto occasione di vedere le 400 e più foto, in massima parte fino ad oggi indite, scattate da Verga, e ho potuto constatare che in esse c’è naturalmente tutta la concezione letteraria dell’autore dei Malavoglia, c’è la sua estetica, la sua cultura, la sua ideologia. Quasi tutti i personaggi ritratti, pescatori e contadini, proprietari, popolani o borghesi, parenti o amici, uomini o donne, bambini o vecchi, tutti sono sempre in posa davanti al muro di una casa, accanto a una porta o a una finestra: come pronti, dopo quella uscita al sole per la posa, a rientrare nel conforto, nell’illusoria protezione delle mura domestiche, perché il fuori è sempre minaccia, è ineluttabilmente perdita, è iattura. Sono, quelli di Verga, come si sa, personaggi isolati e soli davanti al destino e la fissità della stampa fotografica sembra certificare, confermare questa immutabilità. «Mektoub» («E scritto»), dicono gli Arabi, e quindi è immutabile; sono, quelli di Verga, personaggi irrigiditi in una epopea tragica. I personaggi di Sellerio, al contrario, sono usciti, si sono staccati dalle case (negli interni sono rimasti solo i vecchi, i malati, le monache di clausura), si sono sparpagliati per le vie, le piazze, i vicoli di città e paesi, per i sentieri di campagna, per le montagne, per i giardini di aranci: un’umanità che pullula, che lavora, che gioca, che fa festa… formano questi personaggi, l’umana compagnia, tutti fra sé confederati, per dirla con Leopardi: un contesto storico, insomma, una società. E qui dunque non siamo più nella poesia tragica, ma siamo, come dicevamo sopra, nel racconto. Racconto laico, moderno. Racconto che nasce da una società, essa rappresenta e ad essa si rivolge. E il suo linguaggio, quindi, non è solo d’espressione, ma è anche di comunicazione. È linguaggio critico. E la critica, assieme alla poesia, ha certi acuti lirismi, ha certo struggente dramma, nasce dalla metafora. No, la fotografia di Sellerio, come ogni vera arte, non è naturalistica, ma è allusiva, è metaforica. Cadono nel ridicolo certe sperimentazioni linguistiche cosiddette concettuali, come quella, per esempio, di un fotografo che avrebbe voluto fotografare, in tutta la sua estensione, il muro di Berlino, e, incollando fotogramma a fotogramma, riprodurlo naturalisticamente. Siamo alle incomprensibili sperimentazioni cinematografiche di uno Straub che mette la cinepresa al centro della Piazza della Bastiglia o davanti a una fabbrica del Cairo e vuole riprodurre naturalisticamente tutto quanto si presenta davanti al suo obiettivo. «Chiedo perdono se proprio in un libro sulla Sicilia manca la violenza che qui, se non l’unico, resta un modus vivendi fondamentale scrive il Nostro nella nota introduttiva al suo Inventario Siciliano. Manca quindi nel suo Inventario la lupara, mancano i morti ammazzati dalla mafia, manca l’urlo, manca l’espressionismo traboccante di tutta l’infelicità sociale di Palermo e della Sicilia. Ma lo stile di Sellerio, il suo linguaggio, non è espressionistico. Esso si regge sul difficile equilibrio tra la parola e la cosa, tra il significato e il significante, tra l’informazione e l’espressione; tra la storia e la poesia, infine. Non c’è la violenza, non c’è la lupara. Ma c’è l’umano, il troppo umano. C’è amore, pietas, verso tutte le creature ritratte: verso i bambini, le donne, i lavoratori. In contrappunto, fuori dall’impaginazione della foto, sono la violenza, il crepitare del fucile; c’è l’offesa alle nobili creature ritratte. Ecco, dal momento che questo suo stile, questo suo linguaggio non è stato più capito o egli ha pensato che non fosse più capito, io credo che Sellerio abbia voluto smettere di scrivere il suo «E qui, forse, con queste fotografie di Robert, uomo di trentatré anni in terra di Sicilia, come con quelle della Spagna e della Cina, incomincia a terminare l’era della parola, a prendere l’avvio quella dell’immagine. Ma saranno poi, a poco a poco, immagini vuote di significato, uguali e impassibili, fissate senza comprensione e senza amore, senza pietà per le creature umane sofferenti. E ti vedrai quindi sfilare sotto gli occhi, a mille a mille, scene di guerre e di disastri, di morti e di massacri, d’intimità violate, di dolori esposti all’indifferenza e al ludibrio. L’abitudine, si sa, tannino che s’incrosta, nerofumo di camino, cancro che divora e che trasforma, ricopre, spegne la ragione, e l’idiozia è madre della degradazione e delle crudeltà. .Monsieur Guy de Maupassant va s’animaliser…. Scusate l’autocitazione. Questo è un brano di un mio racconto intitolato Il fotografo, in cui parlo di Robert Capa. Ma quando lo scrivevo, pensavo anche ad Enzo Sellerio. Il Sellerio che così dichiarava: «La professione di fotografo, come io la intendevo, cominciava ad andare in crisi. Sotto l’incalzare della televisione i periodici di maggior prestigio, anche negli USA, chiudevano via via i battenti: destino che non fu risparmiato qualche anno dopo a “Life”». E ancora: -Io avevo fotografato essenzialmente i luoghi della mia città che mi erano più cari e dove la vita era la continuazione della sua storia. Oggi quel paesaggio è completamente mutato… Non mi interessa la città nuova con i suoi mostri di cemento armato, né la nuova fauna umana che vi abita, dimentica del suo passato e incapace di immaginarsi un futuro… Questa città e quest’Isola le lascio ai giovani che possono fotografarle con minore angoscia». Ma non è solo la mutazione del paesaggio intorno che gli ha fatto cadere la penna di mano. È anche la mutazione dei linguaggi, che si son fatti sempre più urlanti, scomposti, sgrammaticati, sopraffacendo la poesia. È la rivoluzione tecnologica che ha ucciso il rigore, lo stile. E più aumentano gli oggetti, i materiali, i supporti (grandangolare, occhio di pesce, automatismi elettronici ecc…), così, come nella classifica che dava Kant delle arti a seconda della maggiore o minore materia che esse contenevano, sempre meno appare l’arte nella fotografia. «C’era una volta un fotografo. Fotografava moltissimo: profili e primi piani, ritratti dalle ginocchia in su e figure intere; sapeva sviluppare e fissare, dare i toni e riprodurre. Era una meraviglia! Ma non era mai contento, perché era un filosofo, un grande filosofo e un inventore…. Questo è l’attacco di un raccontino di Strindberg. Ecco, quel fotografo scontento, quel filosofo deluso che è Sellerio ha smesso – o dice di avere smesso — di narrare fotografando e s’è messo a praticare un’altra scrittura: l’editoria. I suoi splendidi libri — dal primo del 69, I veleni di Palermo, fino agli ultimi due Cristalli di quest’anno, Zolfare di Sicilia e La storia dei Whitaker, e ancora tutta l’impostazione grafica dei libri di narrativa, di saggistica, di storia dell’altro settore della Casa editrice Sellerio, quello di Elvira, dicono ancora e sempre del suo rigore, del suo stile. Stile che gli viene ancora una volta dalla sua cultura, dalla frequentazione delle più prestigiose riviste internazionali, di grafici come il grande Fleckhaus. Sono libri troppo noti e finanche largamente imitati, questi libri, per parlarne qui ampiamente. E voglio quindi tornare al Sellerio fotografo, al grande reporter, al maestro di quella scuola fotografica palermitana, o più estesamente siciliana, di cui prima o dopo bisognerebbe scrivere la Reporter. Viene da riportare, referre, riferire. È il messaggero del teatro greco che assiste alla tragedia che si è svolta in altro luogo e arriva sulla scena a riferire: ricreando il fatto, colla sua sensibilità, colla sua memoria, colla sua cultura, con il suo stile. Dipende da noi, da noi spettatori, se non abbiamo ancora perso il senso delle parole, intendere il linguaggio, la metafora di quell’anghelos. L’anglo-angelo melvilliano Billy Budd, nell’impossibilità di farsi capire, di dimostrare la sua innocenza, reagisce gestualmente alla sopraffazione del potere e ne paga le conseguenze. Ma nell’impossibilità di farsi capire oggi, nell’assordante chiasso, nell’urlante totalitarismo dei media, la reazione può essere l’afasia scandita da un’amara intelligente ironia. Quella che, per esempio, nel dilagare del baconiano «mosso» di tanta fotografia di oggi, di fronte al ritratto di una massaia contro le sue casseruole, fa dire: «Il messaggio è chiarissimo: la donna è mobile, le pentole no». «Fotografare significa scegliere e senza scelta non può esservi stile» dice Sellerio. Il fatto è che tanti fotografi oggi non scelgono. ma sono scelti; ridotti a passivi strumenti, come la camera che tengono in mano, a media dell’impero delle merci.
Vincenzo Consolo
28 ottobre – 18 novembre 1989 – Messina Testo di Vincenzo Consolo
Una voce di ragazzo irriverente, con un disincanto e un’ironia (e sarcasmo) già matura, racconta esperienze di umili affascinanti lavori presto vietati, di piccole e più o meno innocenti avventure antistituzionali, di calde solidarietà giovanili, all’interno di una struttura educativa cattolica chiusa e repressiva. La realtà narrata è quella di un paese siciliano all’indomani dell’ultima guerra, con un passato e un presente di vita stenta, dolorosa: tra lavori duri, poveri svaghi, refezioni della San Vincenzo, e potenti locali, clientele, omaggi servili. È questa la trama immediata ed esterna della Ferita dell’aprile, pubblicato per la prima volta nel’63, nella collana mondadoriana del Tornasole diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Una trama che potrebbe far pensare frettolosamente a un romanzo di ritardata tradizione neoverista. Mentre esso è molto di più e di diverso: anche nel senso che la linea narrativa isolana (De Roberto-Pirandello-Brancati-sciascia) cui Consolo sembra rifarsi, al tempo stesso con partecipazione e distacco critico, è quella più profondamente segnata dalla crisi e dal superamento della tradizione naturalista e verista; ma soprattutto nell’altro senso, che in quella trama Consolo immette con forza fin dall’inizio una carica problematica e sperimentale di non provvisoria modernità (che può richiamare perciò, rispettivamente, Sciascia e Gadda). Riletto oggi, questo suo romanzo non si conferma soltanto come uno tra gli esordi più promettenti degli ultimi decenni, ma altresì come l’avvio di una ricerca (nel clima delle sterili dicotomie tradizione-avanguardia degli anni Sessanta) di grande futuro. Un romanzo, insomma, che affronta già consapevolmente il problema del potere, considerato in tutte le sue più vistose e sottili implicazioni: l’insensatezza mascherata da formalismo (l’Istituto con le sue regole), il privilegio e la privazione del sapere (gli «alletterati » e gli altri, il Nord e il Sud), la carica liberatoria della diversità (soprattutto giovanile), e un impasto plurilinguistico sempre funzionale al discorso, tra una registrazione del parlato con intento deformante e caricaturale e un’intensa contaminazione di dialettalismi e gergalismi (e detti popolari) siciliani. Mentre sembra addirittura preannunciarsi il motivo centrale di Lunaria: Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte, femmine, correte, prima che si squagliano. Nella Ferita dell’aprile dunque, l’Istituto, la funzione religiosa, il cappellano militare appena tornato dalla campagna di Russia, la veglia funebre, e via via le altre vicende e feste e cerimonie paesane vengono osservate e descritte con un atteggiamento irridente, insofferente e caricaturale, come proiezioni o rappresentazioni di un mondo adulto di vuoti e fastidiosi doveri, di rituali senza senso, di inerti faziosità e dogmatismi, di colpevoli ottusità e ipocrisie, che già allude a un sistema di poteri e storture, subalternità e divieti ben più diffuso e feroce. Consolo si avvale di una discriminante giovanile, fondata sulla disobbedienza demistificatoria o sull’avventura trasgressiva, per impostare un discorso di ben più alte ambizioni e obiettivi. Il rapporto tra adulti educatori e giovani educati si vien configurando sempre più come un conflitto tra repressori e ribelli tout court, in un crescendo di spietata e cupa durezza. Ecco allora che la rappresentazione ironico-divertita diventa via via deformazione comico-tragica, come nella pagina sulla camera ardente di Squillace padre, con il Seminara che si prende «pure lui le condoglianze coi baci per lo sbaglio che il morto avesse un altro figlio», e con «la vecchia strologa» che provoca sinistri scoppi di ilarità. I giochi non sono soltanto una discriminante tra piccoli e grandi, ma arrivano quasi a segnare una sorta di confine tra la vita, l’allegria, e l’immobilità, la morte: «un passovolante fermo, fa caso come un uomo allegro che muore d’un solo colpo […], come un amico andato in seminario e lo ritrovi chiuso e distaccato». Le fantasticherie ribelli e liberatorie dei ragazzi si fanno sottilmente vendicative, quasi perverse: fino a immaginare i superiori imprigionati per il collo da un tagliente filo d’acciaio. Anche la politica, le elezioni del 18 aprile 1948 vengono sentite e rappresentate come “cosa dei grandi”, come esperienza fondamentalmente estranea rispetto alla discriminante giovanile della vera trasgressività e libertà. Certo, Consolo manifesta una trasparente e intensa solidarietà per i caduti di Portella della Ginestra, o per le umili vittime dell’ingiustizia e sopraffazione proprietaria, ma tende a investire il livello istituzionale della lotta politica di una sostanziale sfiducia, all’interno di una storia che gli appare immutabile e insensata, mentre la sua simpatia per i Mùstica padre e figlio, comunisti emarginati, prefigura piuttosto il motivo di una diversità rintracciabile a tutti i livelli della vita sociale e intellettuale. Il Mùstica figlio, del resto, è l’unico che non chiami «zanglé»* Scavone (il protagonista e io narrante del romanzo), che non lo rifiuti in quanto diverso; viene scelto insieme a lui per la parte di selvaggio nella recita dell’oratorio («danzavamo il peana di morte per i preti legati ai tronchi di banano») in una versione satirico-grottesca di quella diversità e di quella tensione vendicativa; è l’amico più amato da Scavone e il principale suo compagno di avventure e di ribellione; e ne viene mitizzato come «un condottiero, di quelli delle storie d’Omero». Dove Consolo riprende con tratti di nuova efficacia il motivo novecentesco del grande amico, ragazzo o adulto, ma caratterizzato sempre da una consapevolezza protettiva, intrinseca maturità, spregiudicata saggezza. Non è certo un caso che nel romanzo le eccezioni adulte riguardino personaggi in qualche modo anomali, e in quanto tali visti con simpatia: come lo zio-padre e convivente della madre vedova, o il prete-ragazzo don Barrajo, o la donna orba frequentata segretamente dal giovane Mùstica figlio. Figure amorevoli o protettive nei confronti del mondo giovanile, e comunque estranee al mondo adulto del divieto e dell’oppressione, se non addirittura trasgressive esse stesse. Ma nel rapporto di forze, nella guerra mascherata tra adulti e ragazzi, educatori e educati, normali e diversi, si vien delineando una vulnerabilità di fondo dei secondi rispetto ai primi, una insidiosa inesorabile prevalenza del potere in sostanza rispetto ai suoi piccoli oppositori: Consolo spiega altrove che «Zanglèi erano chiamati […] gli abitanti di San Fratello », e definisce «il sanfratellano, l’antico gallico o medio latino di quella colonia lombarda» (Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 20129, pp. 122 e 121). Ero capace di sfuggire ai grandi, stare diffidente, muto, chiuso nel mio guscio e fare il morto come la tartaruga stuzzicata con la verga, ma poi, solo che uno mi parlava buono, mi faceva un sorriso, subito m’aprivo, parlavo più del giusto, col risultato amaro, costante, di pentirmene, rimproverarmi per aver parlato. Più precisamente, l’inevitabile ingresso del ragazzo nel mondo adulto sottintende la sconfitta di ogni ribellione e trasgressività, la fatale caduta di ogni specificità e diversità (gli stessi adulti anomali scompaiono silenziosamente dalla scena, dopo più o meno brevi apparizioni: quasi figure transeunti e sconfitte anch’esse). “Diventare grande”, insomma, nonostante tutto significa snaturarsi in un mondo estraneo e nemico. Il passaggio coincide con l’uscita dall’Istituto, che segna appunto la fine della giovinezza e al tempo stesso l’abbandono di un luogo nel quale era pur possibile battersi e disobbedire, mentre nel mondo di fuori la discriminante giovanile-trasgressiva non avrà né senso né forza: anzi, si svuoterà di fatto. Dice infatti il protagonista narrante, dopo la cacciata del Mùstica dall’Istituto e la partenza di Vittorio Seminara per il seminario: Ancora un altro aveva varcato il cancello ed era uscito sulla strada per non tornare mai più all’Istituto. E non pensavo, no, che guardando sul portone quel vestito grigio che spariva a palmo a palmo per la scalinata, dopo Filippo e Vittorio sarei stato io a lasciare l’Istituto: così carusi ancora, la vita ci tracciava già le vie. Il titolo del romanzo allora, più che riferirsi alla emblematica “ferita” politica del 18 aprile, sembra alludere alla ferita della giovinezza come esperienza vulnerabile nel suo necessario passaggio alla maturità, o invece come ferita aperta dal mondo giovanile nel mondo istituzionale adulto, ma ben presto rimarginata e cancellata. Il finale è dunque segnato dal pessimismo e dalla sconfitta. Consolo riaprirà il discorso all’interno stesso del mondo adulto e al di là di una discriminante giovanile oggettivamente sconfitta (con un processo di approfondimento e superamento, anche, di un certo autobiografismo). Il discorso sul potere e sulle sue implicazioni, anzi, andrà ben oltre, fino a investire alle radici il rapporto tra insensatezza e ragione, normalità e diversità, privilegio e privazione del sapere: in una rivisitazione (dopo il secondo dopoguerra novecentesco della sua opera prima e il Risorgimento ottocentesco del Sorriso dell’ignoto marinaio) di quel secolo dei lumi nel quale nascono alcune di queste fondamentali contraddizioni, e in un sottile ritornante contrasto con alcune fasi di facile ottimismo collettivo degli ultimi decenni. Il leitmotiv del suo successivo romanzo del ’76 è quello del sorriso «pungente, ironico, fiore d’intelligenza e sapienza » dell’Ignoto di Antonello da Messina, nel quale si specchiano sia l’intelligenza e azione rivoluzionaria del fuoruscito quarantottesco Interdonato, tornato in Sicilia a combattere i Borboni, sia l’intelligenza divisa del barone di Mandralisca, liberale cospiratore e al tempo stesso cultore di studi scientifici del tutto disinteressati, trasgressore della sua classe e al tempo stesso accomunato a essa da rituali vuoti e segrete follie. Proprio nel Mandralisca matura ed esplode (coinvolgendo poi lo stesso Interdonato) la crisi di una razionalità e cultura nonostante tutto privilegiata, anche quando si schiera dalla parte degli oppressi e analfabeti, e la consapevolezza di una sostanziale impotenza dell’intellettuale aristocratico-borghese illuminato a interpretare i loro problemi e bisogni. Rispetto ai quali perciò, il sorriso dell’Ignoto rivela un distacco tanto profondo e incolmabile, da somigliare addirittura a quello degli oppressori, da trasformarsi cioè in un ghigno «grave, sardonico, maligno». Il privilegio e la privazione della scrittura diventano così, inevitabilmente, esercizio del potere ed esclusione delle masse subalterne. Il processo investe lo stesso livello linguistico ed espressivo del romanzo. Il sorriso lucidamente ironico, parodistico, sarcastico esercitato da Consolo su una ricchissima gamma di sperimentazioni e acquisti, in una rifusione di straordinaria modernità e vivezza (il romanzo ottocentesco e la divagazione erudita, il canto dialettale e la citazione latina, e in generale il discorso popolare e colto), alla fine del romanzo smuore, di fronte alle povere scritte sgrammaticate di denuncia e di collera contro i padroni. L’«alletterato» insomma sembra tacere e interrogarsi sulla «storia vera» raccontata dall’oscuro semianalfabeta, e sembra approdare al rifiuto nei confronti dell’ufficialità insensata della «Storia», e all’autocritica nei confronti della propria scrittura privilegiata. Anche in Lunaria (1985) Consolo conduce un discorso di sottile politicità, sviluppando con nuovi apporti la sua sperimentazione plurilinguistica, tra tenerezza evocativa e contemplazione incantata, gioco parodistico e finzione oratoria, all’interno di una favola allegorica dialogata che tende a farsi struttura poetica e riaffermazione di un mito poetico, la luna, contro il potere. In una Palermo dai tratti settecenteschi in sostanza, la caduta della luna evidenzia la diversità di un viceré che non crede nel potere, lo avvicina ai villani suoi sudditi e smaschera la falsa scienza rispetto alla scienza capace di audacia e concretezza, e rispetto alle generazioni di poeti e di umili diversi capaci di capire veramente la luna e la forza del suo mito. C’è dunque la negazione di ogni menzognero privilegio del potere e del sapere, e l’affermazione di un sapere comune nel segno di una disarmata eppur vincente diversità. E c’è, in generale, la valorizzazione di tutte le presenze marginali, dimesse, malinconiche, umbratili, notturne, dentro un universo di ufficialità vistosa, presuntuoso ottimismo, sfacciata solarità. Con Retablo (1987) Consolo torna al romanzo, esercitando la sua sperimentazione, la sua passione storico-erudita e il suo gusto figurativo su un intreccio serrato di scoperte e avventure, meraviglie e pericoli. In particolare, attraverso una Sicilia settecentesca sontuosa e miserabile, abbagliante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e sordida, si viene delineando un radicale conflitto tra l’avere e l’essere, tra le pretese virtù e valori che si fondano sulle ricchezze, sul nome e sul potere, e quelle che si affermano per se stesse, e che si possono ritrovare negli umili campioni di una diversità gentile o rude: pastori poeti o nobili vegliardi, briganti generosi o mercanti disinteressati. Con i quali simpatizza il cavalier Clerici, intellettuale illuminista e illuminato, soprattutto trovando un ideale compagno nel facchino Isidoro: entrambi innamorati sfortunati di due donne vittime dell’avere, prigioniere della ricchezza e dello status. Tornano perciò i temi dell’insensatezza di una storia nata sotto il segno della ragione, delle attive potenzialità dei diversi, del rapporto tra intellettuale privilegiato (e illuminato) e mondo subalterno. Ma c’è qui anche, da parte di Consolo, l’elaborazione quasi teorizzata di un impasto di forme linguistiche alte, colte, preziose, e basse, dialettali, gergali, le une e le altre intatte dall’usura della corporazione e del mercato letterari; la costruzione cioè di un romanzo che si proponga e affermi come autentica letteratura dell’essere contro le oscurità interessate e le banalità rumorose dell’avere. La raccolta di racconti e ritratti pubblicata con il titolo Le pietre di Pantalica copre un arco storico che va dalla Liberazione ai conflitti sociali del dopoguerra, dal boom degli anni Sessanta ai veleni e guasti del degrado di oggi. Vi si ritrova fra l’altro, la critica alla cultura del privilegio e del potere, che si manifesta anche nella contrapposizione polemica tra la «poesia» di maniera sul fascino selvaggio del latifondo e le nude, schiaccianti cifre sul «regime fondiario»; e ancora il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso e endemico» di una Sicilia emblematica. E vi si ritrova altresì la visione di una storia immobile e immutabile nelle sue prevaricazioni e inganni, ingiustizie ed esclusioni: i «baroni, proprietari e alletterati» che vanno incontro agli americani liberatori (e vincitori) «per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere i villani»; e i pastori e contadini che assistono «indifferenti» da secoli a guerre e liberazioni estranee e incomprensibili: E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo. Anche le pagine che raccontano di lotte combattute o di contestazioni organizzate sono segnate da questo senso di immutabilità della storia. Tipico il testo intitolato Comiso, nel quale si può seguire il passaggio quasi inavvertibile, come da un punto all’altro di uno stesso quadro unitario, dalla manifestazione pacifista alla repressione poliziesca al paesaggio archeologico-naturale. Ma si dovrà ricordare a questo proposito anche un saggio del 1985 dove, attraverso la storia dello zolfo, delle zolfare e degli zolfatari, Consolo ricostruisce una lunga vicenda di sopraffazioni e di lotte che non arriva mai a modificare i rapporti di fondo: La Regione siciliana, l’Ente minerario siciliano, assumendole, s’incaricava di liquidare e smantellare le zolfare. Mettendo la parola fine su questa realtà economica, sociale siciliana, che tanti morti era costata, tanta pena, tanto strazio. Altrove, lontano, in altri paesi gli zolfatari, i loro figli avrebbero continuato la loro fatica, la loro pena. Si può concludere, parafrasando una dichiarazione dello stesso Consolo, che in tutta la sua produzione egli (come il viceré di Lunaria), proprio perché non crede nel potere e non accetta la logica del privilegio, «riesce a vedere più degli altri una realtà di degradazione e di sopruso […] al di sotto dell’ottuso livello» di esibita vitalità della società contemporanea. Perché è sempre all’oggi che Consolo mira, sia che parli di intellettuali illuministi o di analfabeti ottocenteschi, e perché è tanto «notturno, malinconico, innocente» quanto ostinato, acuto, impietoso nei suoi dolenti e vivaci disvelamenti.
*Colloquio tenutosi il 5 dicembre 1988 nella Biblioteca Salita dei Frati di Lugano, in una serata organizzata dall’Associazione dei Siciliani nel Ticino e da «Bloc Notes». a cura di Paolo Di Stefano
Giunto a Milano nel 68, all’età di trentacinque anni, Vincenzo Consolo non è emigrante per necessità, ma per scelta. Questa scelta da quali ragioni è stata determinata?
«Devo dire che questa emigrazione a Milano, del 1968, era la mia seconda emigrazione. Emigrazione, naturalmente, tra virgolette, perché era un’emigrazione da privilegiato. Io avevo la possibilità di studiare e quando si trattò di fare gli studi universitari, decisi di compierli a Milano. Studiai diritto all’Università cattolica. Credo che in tutti i siciliani ci sia l’ansia di uscire dall’isola e di vedere il mondo, perché -almeno da parte delle persone che non sono strettamente necessitate- c’è come un bisogno di conoscere il «continente». Io avevo scelto Milano perché sin da allora offriva sollecitazioni letterarie: era la città dove era stato Verga, era soprattutto la città dove viveva Elio Vittorini. Speravo, quindi, andando a studiare a Milano, di conoscere Vittorini. L’incontro in realtà non avvenne a causa della mia timidezza. Mi ricordo che odiavo un mio compagno di università che era diventato amico di Vittorini e poteva liberamente accedere a casa sua e pranzare con lui. Ma voglio ricordare un episodio significativo per quegli anni. Piazza Sant’Ambrogio, dove si trova l’Università cattolica, era allora, parafrasando Calvino, la piazza dei destini incrociati: in quella piazza c’era, oltre alla basilica e all’Università, una caserma della celere -allora il ministro degli Interni era Scelba-, e un centro ricavato da un grande monastero, per l’orientamento degli emigrati. Negli anni Cinquanta c’erano grandi masse di meridionali che arrivavano alla stazione centrale, venivano convogliati su tram speciali e portati in Piazza Sant’Ambrogio, dove erano sottoposti a visita medica ed equipaggiati di casco e tuta, per essere poi mandati all’estero, in Francia, in Svizzera, ma soprattutto nelle miniere di carbone del Belgio. Allora, a studentelli piccolo-borghesi come me, o come Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi o altre persone che oggi appartengono alla classe dirigente italiana, poteva capitare di incrociare il compaesano contadino che emigrava, oppure il compaesano poliziotto. I destini dell’Italia si determinavano in quegli anni della ricostruzione. Finiti gli studi, capii che volevo fare lo scrittore. Pur avendo la possibilità di lavorare a Milano, decisi di tornare in Sicilia: per quelli della mia generazione, che non hanno fatto in tempo a fare la guerra, essere scrittori significava scrivere di problemi sociali, avendo letto la grande letteratura meridionalista del dopoguerra, da Conversazione in Sicilia alla saggistica, da Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre a D’Orso, a Gramsci. Decisi allora di tornare in Sicilia, per insegnare, per fare lo scrittore e testimoniare di quella realtà contadina.»
Perché, allora, il ritorno a Milano, una città con la quale, come tu stesso hai detto più volte, non hai avuto un rapporto facile?
«Tornai a Milano quando il mondo in cui avevo creduto e che pensavo di testimoniare era scomparso davanti ai miei occhi e davanti agli occhi di tutti. Si erano verificati grandi movimenti di masse dal Sud verso Nord, che coincisero con la fine della civiltà contadina. Il grande esodo verso l’industria settentrionale mi spinse a fare le valigie per assistere a quella grande trasformazione. Mi sembrava che in Sicilia la storia fosse finita, che si fosse chiuso un capitolo e che al Nord se ne aprisse un altro. In quegli anni c’erano alcune riviste molto attente a quelle trasformazioni, sia dal punto di vista sociale che linguistico: ad esempio, il «Menabò» sollecitava a studiare le commistioni che nascevano dall’incontro dei meridionali con le aree urbane, stimolava l’attenzione verso le nuove koiné che si sarebbero formate. Nel 1968, di fronte al rivolgimento culturale che si stava verifican-do, mi trovai spaesato e spiazzato, perché, provenendo dal mondo contadino, non capivo il linguaggio e la realtà di quella Milano. In molti anni di osservazione e di riflessione capii che non avrei mai potuto narrare di una realtà che non mi apparteneva e di cui non avevo memoria. Quindi l’unico modo per rappresentare quel mondo che non conoscevo era metaforico, rivolgendomi al mio bagaglio di memoria, alla mia storia e alla mia cultura. Cosi, dopo un silenzio di tredici anni, motivato dal momento di spaesamento e di osservazione, viene fuori il secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinato.»
Farei un passo indietro, per ricordare due figure determinanti per la tua cultura, entrambe siciliane, ma rappresentanti di due diverse Sicilie. Che cosa hanno significato per te Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia?
«Devo premettere che io parlo di microcosmi, ma credo che quel che dico possa applicarsi anche a realtà più ampie. Io ho sempre immaginato la la letteratura siciliana -che ha una sua precisa fisionomia, fortemente connotata storicamente e linguisticamente- come divisa in due parti: quella occidentale e quella orientale. Credo che ci sia una linea ideale che divide da una parte, a Ovest, narratori interessati al mondo storico e sociale -perché li son più forti i segni della storia-, dall’altra, a Est, scrittori più portati verso una visione esistenziale e verso una sorta di lirismo -perché il mondo orientale è più compromesso con la natura, una natura spesso violenta qual è, ad esempio, quella delle eruzioni vulcaniche o dei terremoti, con un continuo azzeramento della storia e la necessità di ricominciare sempre daccapo. Penso che questa distinzione sia valida non solo per gli scrittori ma anche per gli altri artisti. Io mi sono trovato a nascere e a vivere al centro di questi due mondi, in una specie di zona di confluenza, in un terreno franco dove c’erano segni labili della storia e segni labili della natura. Per me questi due poli erano rappresentati da Leonardo Sciascia e da Lucio Piccolo. Sciascia lo conobbi quando pubblicai il primo libro, La ferita dell’aprile; mi scrisse invitandomi ad andare a trovarlo. Andare a Caltanisetta fu per me come andare a New York, perché era un mondo completamente diverso rispetto a quello in cui abitavo: per noi che viviamo nella fascia settentrionale della Sicilia è molto più semplice prendere un treno verso il Nord, che esplorare quello che ci sta alle spalle, oltre quella barriera di Appennini rappresentata dai Nebrodi e dalle Madonie. Quindi conoscevo attraverso la letteratura il feudo e le zolfare, ma andando a trovare Sciascia mi accorsi che era una gente e una cultura diverse dalla mia. D’altra parte ho avuto in fortuna di stare vicino a un poeta come Lucio Piccolo, un cugino di Lampedusa, coltissimo, barone, che scriveva poesie altissime. Mi sono trovato, insomma, tra due bastioni, a combattere contro l’uno o contro l’altro.»
Nel 63 esce La ferita dell’aprile: la sintesi, che hai sempre cercato, tra questi due poli di cui parlavi, è già, almeno in parte, realizzata con il primo romanzo?
«Credo di sì. Sin dal primo libro mi sono scoperto una forte tentazione al canto. La ferita è concepita come una ballata, come un poema narrativo, come un romanzo fortemente ritmato. Ma tutto questo e corretto da tante malizie di tipo retorico, come l’ironia, le sprezzature, molte rotture interne e falsetti che ho messo in campo proprio in contrasto con questa propensione alla lirica. Oltretutto i temi trattati non erano per nulla assoluti o esistenziali o idilliaci. Erano argomenti drammatici: ho voluto raccontare con un linguaggio adolescenziale la storia dell’ennesima adolescenza della Sicilia del dopoguerra: la caduta del fascismo, la ricostituzione del partiti, la possibilità di avere una nuova storia sociale, il fallimento di tutto questo e il ritorno all’impostura eterna. È una falsa autobiografia, tanto che io lo considero un romanzo storico.»
Gli anni Settanta per te non sono anni di partecipazione. Eppure, nel ’76 esce Il sorriso dell’ignoto marinaio, da cui però emergono i segni del tempo. Qual è il rapporto tra storia e attualità?
«Questo libro l’ho potuto scrivere solo perché mi ero trasferito a Milano, dove ho potuto osservare la realtà operaia e industriale, e solo perché avevo visto i conflitti sociali, che in quel momento erano molto acuti. Volendo parlare di questo, mi sono rivolto alla storia siciliana e ho descritto un passaggio storico importante come il 1860, una data che tutta la tradizione narrativa siciliana ha trattato. In effetti gli scrittori siciliani si sono sempre chiesti i motivi della propria storia: per questo il tema del 1860 è stato trattato da Verga, da Pirandello, da De Roberto, da Lampedusa, da Sciascia. È quasi un passaggio obbligato. Io l’ho affrontato volendo trattare un argomento che mi stava molto a cuore: che cos’è la storia, da chi è scritta, qual è il dovere e l’atteggiamento dello scrittore e dell’intellettuale di fronte alla storia, in determinati momenti acuti. E giusto e morale, quando fuori le masse sono impegnate in lotte molto accese, che lo scrittore rimanga chiuso nella propria stanza a scrivere di se stesso o di squisitezze? Il protagonista di questo libro, il barone Mandralisca, è investito da questi interrogativi nel momento in cui in Sicilia avvenivano le rivolte popolari. Allora ho voluto raccontare l’atteggiamento di questo studioso, amante di oggetti d’arte, collezionista di quadri e studioso di malacologia, che si trova ad essere testimone di fatti atroci e di massacri.»
La presenza del documento originale, intercalato al racconto, può essere interpretato come il segno di un’insufficienza della narrazione?
«Direi che è un senso di colpa dell’arte nei confronti della storia e della vita. Io sento molto il privilegio della scrittura e il piacere della narrazione, ma anche un bisogno di verità nei confronti della grande menzogna che è la letteratura. Per questo, nella struttura del Sorriso, ho immaginato, insieme all’invenzione, l’inserimento di documenti, per mostrare la verità e la sublime impostura della letteratura legate in un tessuto unitario che desse un quadro complessivo. Raccontare in modo rotondo una storia come quella mi sembrava ingiusto. Ho voluto far veder e il disegno accanto al dipinto finito.»
Un aspetto fondamentale per comprendere la scrittura di Consolo è il linguaggio adottato. Che atteggiamento assume lo scrittore di fronte a questo argomento? A cosa si deve la scelta di quella «plurivocità» di cui ha parlato Cesare Segre?
«Il discorso sul linguaggio è molto complesso. Per quanto mi riguarda credo che ogni scrittore, se appartiene ad aree linguistiche periferiche dove Litaliano è una lingua che si acquisisce -come è stato nel mio caso-, debba inventarsi una lingua, non possedendo quella nazionale. A questo si aggiungono esigenze di tipo estetico-letterario. Da quando cominciai a scrivere io capii che non dovevo scrivere in italiano, proprio perché gli argomenti che volevo affrontare cozzavano con una lingua che parlava d’altro. Quindi volevo adottare una lingua che si opponesse a quella centrale, una lingua, se vogliamo, di contropotere. Questo, ovviamente, non è stato un problema solo mio, ma appartiene alla storia letteraria siciliana e non solo siciliana. Manzoni, quando decide di scrivere i Promessi sposi, un romanzo prettamente lombardo, in lingua toscana, lo fa per ragioni politiche, contro il potere austriaco. L’operazione linguistica del Verga è di segno opposto: rifiuta il toscano e sceglie una lingua altra per fare scoprire una realtà periferica che l’unità italiana ignorava: per questo Verga, prima di scrivere, studiò le tradizioni popolari, si documentò su inchieste parlamentari e no, fu molto colpito dal sondaggio di Sonnino e Franchetti sulle condizioni dell’agricoltura in Sicilia, soprattutto il capitolo finale in cui si parlava del lavoro infantile nelle miniere di zolfo, che fu una rivelazione per tutta l’Italia. Verga, per questo, scrisse in una lingua, come disse Pasolini, irradiata di elementi dialettali. Lo stesso Pasolini, provenendo dal Friuli, dovette affrontare lo stesso problema; non a caso le prime sue opere furono in dialetto e quando si trasferì a Roma scrisse in una lingua particolare, realizzando un processo retorico contrario a quello di Verga che abbassava a livello dialettale la lingua nazionale. Viceversa Pasolini, attraverso la digressione, partiva dalla lingua italiana per inserirvi elementi dialettali. Ci sono due modi per evitare di scrivere in italiano: un processo di irradiazione e un processo di innesto.»
Quando in Italia si parla di espressionismo linguistico nel Novecento si pensa a Gadda. In che termini si pone la tua ricerca linguistica rispetto all’esperienza gaddiana?
«Direi che ha agito non più di tanto, non credo che mi abbia influenzato, anche se, naturalmente, ho letto Gadda con interesse. Credo che l’unico aspetto che ci accomuna è il fatto che sia in Lombardia sia in Sicilia 111
è presente l’elemento spagnolo. Forse certo barocchismo proviene da questo retaggio culturale. Una volta hanno chiesto a Gadda le ragioni del suo barocco: rispose che barocco è il mondo e lui non faceva che rappresentarlo. La stessa tradizione siciliana è barocca, è composita, per nulla lineare e razionale. Brancati, commemorando Giuseppe Antonio Borgese, gli rimproverava di non aver praticato il barocco sino in fondo. Parlando del barocco siciliano, Brancati disse che è una linea retta che uscendo da un ghirigoro rientra subito in un altro ghirigoro. Questo significa che esiste la consapevolezza nel voler rappresentare una realtà e una tradizione che è in sé barocca.» Alla ribellione contro la lingua e contro la storia, si aggiunge in Consolo una opposizione rispetto ai generi letterari acquisiti. Il sorriso dell’ignoto marinaio, come è stato detto, è un romanzo che distrugge il romanzo.
«Sì. Io ho sentito in un certo senso la colpa di scrivere. Per questo ho cercato di negarmi sempre a qualsiasi tipo di inquadramento. Il sorriso ha una struttura così rotta, franta, è un assemblaggio di elementi talmente di- versi, che pensavo che il lettore potesse sentirsi frustato ad ogni pagina. Soprattutto per certo linguaggio presente nelle parti narrative, un linguaggio in negativo, cioè talmente mimetico e ironizzato che vuole negarsi nel momento in cui nasce. Cercavo di fare la parodia del linguaggio erudito dell’Ottocento. Inoltre il documento storico, diversi livelli linguistici e alla fine le scritte a carbone, che sono quanto di più sintetico, duro e incisivo si possa immaginare. Era un modo di sottrarsi al romanzo storico leggibile di fila, e quindi il tentativo di richiedere al lettore volenteroso di partecipare alla ricreazione del romanzo.»
Una costante dei libri di Consolo è la presenza, in diverse forme dell’immagine, del documento iconografico: Il sorriso parte da un quadro di Antonello, Lunaria contiene addirittura un corpus di riproduzioni ico-nografiche, Retablo ha per protagonista un pittore contemporaneo calato in ambiente settecentesco. Che significato ha questo rapporto con l’immagine?
«Forse la consapevolezza dell’insufficienza della parola e un bisogno di icasticità e di visualità. Nel Sorriso il Leitmotiv del quadro di Antonello si presenta in termini opposti: in un primo momento come presenza positiva, poi in senso rovesciato. In Retablo già il titolo appartiene alla categoria pittorica: «retablo» significa polittico, cioè insieme di storie raccontate in più scomparti. È un termine che si estende anche al teatro; in Cervantes «retablo» significa proprio teatrino. Io ho preso lo spunto da questa suprema ironia cervantina che richiama il senso dell’arte come impostura. Inoltre il protagonista è un pittore: il segno del falso storico che ho voluto rappresentare è proprio nel fatto che un pittore vivente assume vesti settecentesche.»
Fabrizio Clerici ha raccontato, in un’intervista, il pretesto che ha dato spunto al libro: un viaggio in Sicilia realmente accaduto…
«Una volta ci siamo trovati a Palermo per un fastoso matrimonio della nobiltà cittadina, a cui indegnamente ero stato chiamato a fare da testimone. Dopo la cerimonia abbiamo fatto un viaggio, con Clerici e altri, percorrendo l’itinerario classico di tutti i viaggiatori stranieri dal Settecento in poi. Da Palermo si approdava a Segesta, testimone della grecità, a Selinunte, poi ad Agrigento, spingendosi a volte fino a Siracusa, per fare il giro completo dell’isola. Fu quel giro a suggerirmi un libro che raccontasse di un viaggiatore lombardo in Sicilia. Ho scelto Clerici, che è di origine lombarda ed è un pittore tra il surreale e il metafisico. Inoltre in anni lontani aveva dipinto un quadro dal titolo «Confessione palermitana», dove comparivano le damine settecentesche di uno scultore che lavorava gli stucchi, il Serpotta, accanto alle quali aveva riprodotto gli scheletri delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Tutti questi elementi mi hanno spinto a inserire la figura di Clerici come protagonista del libro. Del resto Clerici e un personaggio già visitato dalla letteratura, essendo apparso in un libro di Savinio su Milano, Ascolta il tuo cuore città, in cui l’autore individua in Clerici un personaggio stendhaliano.»
In Retablo si raggiunge una sorta di sintesi tra l’elemento illuministico, rappresentato da Clerici, e la coralità siciliana barocca.
«Direi di si. La storia racconta di un personaggio, Clerici, innamora-to, non corrisposto, di Teresa Blasco, una fanciulla bellissima, secondo le testimonianze storiche rimaste, figlia di un militare spagnolo e di una siciliana. Nella realtà Teresa sposa Cesare Beccaria. Quindi, nella mia immaginazione, questa vicenda rappresenta l’incontro tra la ragione illuminista e la poesia della ragazza. Dall’incontro emerge la figura di Manzoni, di cui Teresa è la nonna, avendo generato, con Cesare, Giulia Beccaria. Il senso era questo: l’unione tra logica e irrazionalità. Clerici si allontana dalla cultura illuminista per pene d’amore; incontra in Sicilia un ex-frate, Isidoro, in preda anch’egli al delirio d’amore. Allora intraprendono insieme, come don Chisciotte e Sancio Panza, un viaggio per la Sicilia. L’intento di Clerici è di prendere le distanze dalla donna, immettendosi, lui dice, in una dimensione di «stasi metafisica», senza però riuscirci. Ma soprattutto è travolto dalla vita, quindi si crea questa tensione tra la ragione e la poesia.»
Torniamo indietro: in Lunaria (1985) come si combinano i richiami a Lucio Piccolo e a Leopardi?
«In effetti la dedica è molto importante: «A Lucio Piccolo primo ispiratore, con ‘L’esequie della Luna’. Ai poeti lunari. Ai poeti.» Lucio Piccolo, l’ho già detto, era un bravissimo e purissimo poeta scoperto da Montale, che aveva esordito nel 56, prima del Lampedusa. Le cronache letterarie si occuparono subito di questo signore eccentrico, barone, che esordiva già in età matura. Poi, però, fu commessa una sorta di ingiustizia nei suoi confronti. Quando esplose il fenomeno del Gattopardo, scritto dal cugino, se ne senti quasi come schiacciato, perché ogni volta che si parlava di lui veniva citato come il cugino di Lampedusa. Questo lo amareggiò molto e una volta, come racconta Sciascia, disse che era Lampedusa il suo cugino e non viceversa. In effetti la critica italiana non gli ha mai reso omaggio, mentre all’estero è molto tradotto. In anni lontani aveva intrattenuto corrispondenze con poeti stranieri importanti, come Yeast e Ezra Pound. Era un uomo di una cultura sterminata, aveva vissuto sempre appartato ed era molto autocritico. Il mio libro, Lunaria, è stato scritto in omaggio a lui, perché aveva scritto un’operetta in prosa che era una sorta di canovaccio da cui voleva ricavare un balletto. Infatti aveva mandato quel canovaccio a Ilde-brando Pizzetti che poi non ne fece nulla. Il tema di queste Esequie della Luna è la caduta della luna, è un tema leopardiano. In una poesia, Spavento notturno, Leopardi dice di un sogno in cui, appunto, la luna era precipitata. Io riprendo questo argomento facendone un’opera teatrale. In realtà ero molto disgustato per certa romanzeria di consumo che si faceva in quegli anni e che purtroppo continua a farsi. Allora ho voluto spingermi oltre Il sorriso dell’ignoto marinaio, proponendo un’opera in cui venisse eliminata tutta quella parte che è la radice del romanzo, la parte diegetica, riducendo all’osso la descrizione con brevi didascalie. La mia preoccupazione era che l’opera fosse più vicina alla poesia, con un rovesciamento di ruoli, per cui le parti scritte in versi sono più prosastiche, mentre le didascalie in prosa sono più ritmate e rimate. Ancora una volta era quindi un libro scritto in polemica rispetto all’industria culturale.»
A proposito dell’ultimo libro, Le pietre di Pantalica, alcuni critici hanno avvertito una sorta di sentimento nostalgico che lo pervade. Tu accetti questa osservazione?
«Non credo che ci sia nostalgia. Il libro è strutturato in tre parti, «Teatro», «Persone», «Eventi». Non so dove si possa avvertire questa nostalgia. Non credo certo nella terza parte, che è la più diaristica, la più violenta: si fonda sui miei ritorni in Sicilia di questi anni, sulla constatazione di un degrado, di un processo di imbarbarimento e di atrocità. Nella prima parte ho voluto raccontare gli ultimi bagliori dell’epopea contadina, a partire dall’arrivo degli Americani sino agli anni Cinquanta, il tentativo fallito di avere una riforma agraria e una maggiore giustizia sociale. Il mondo contadino non era assolutamente un mondo felice, per cui non credo se ne possa nutrire nostalgia. Tuttavia cerco di dimostrare che c’erano alcuni valori che si sono perduti: un senso immediato della realtà, senza schermi, e un’alta considerazione della vita umana. Credo che nel processo di imbarbarimento d’oggi sia avvenuto innanzitutto un distacco dalla realtà, per cui non se ne ha più la percezione. Tutta la storia della civiltà, secondo me, è contrassegnata da un oscillare continuo di accostamento e allontanamento dalla realtà. Nei momenti di distanziamento si verifica quella che noi chiamiamo alienazione, che ci costringe a guardare delle false realtà: momenti storici come quello che stiamo vivendo mi fanno pensare al ritorno dentro la caverna platonica, dove ci sono gli uomini che guardano le loro ombre sulle pareti della caverna credendo che quella sia la realtà, mentre la realtà è alle loro spalle. L’altro tema è la perdita del valore della vita umana, che oggi, osservandola dalla Sicilia, mi pare svilita in tutti i sensi. Allora ho parlato delle violenze siciliane, della mafia, in un anno preciso in cui sono successe atrocità incredibili. Era l’estate del 1982, dove un delitto si susseguiva all’altro. In luglio c’era la festa della patrona, santa Rosalia: io ho assistito alla processione, a cui era presente anche il prefetto Dalla Chiesa, incontro Camilla Cederna, che doveva intervistare lui e sua moglie. Quando sono tornato a Palermo, in settembre, il prefetto e la moglie erano stati uccisi. Si è trattato di un anno terribile, in cui sono state uccise più di cento persone. Ho voluto raccontare il degrado di questa città, ma anche di Siracusa, che è un luogo che appartiene a tutti, una città di grande valore civile e culturale, circondata da una enorme fascia di industrie dove interi paesi sono stati evacuati perché nascevano bambini deformi.» Come sono stati strutturati, nell’insieme, i diversi testi, in gran parte concepiti come estravaganti?
«La prima parte, «Teatro», è un nucleo narrativo unitario che avevo concepito come romanzo storico e dopo abbandonai perché non mi interessava più come genere. Quindi ho utilizzato solo una parte di questo roman-zo, che ho sforbiciato, perché mi importava allontanare nel tempo quella civiltà, senza rappresentarla ravvicinata. Poi ho raccolto altre cose che avevo scritto, ma era un periodo in cui guardavo e pensavo con quegli stessi occhi. Quindi ho messo in scena delle persone di quel mondo, come Lucio Piccolo o l’etnologo Antonino Uccello, che rappresenta il personaggio portante di tutto il libro, poi Leonardo Sciascia e Buttitta. A questo ho aggiunto il diario che ho tenuto durante i ritorni in Sicilia. Mi sembra che, più che racconti, il libro, per gli slittamenti che esistono tra una sezione e l’altra, per i rimandi, abbia un’unità e una struttura molto aperta ma anche coerente. Il sigillo del libro è dato dall’ultimo racconto, un racconto-verità, desunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, che si intitola «Memoriale di Basilio Archita». È un racconto che si svolge in pieno oceano su una nave greca, dove vengono scoperti dei clandestini kenioti che vengono gettati a mare in pasto agli squali, per decisione del capitano e degli ufficiali di bordo. Sono stato molto colpito da questo fatto e ho voluto riprodurlo immaginando che a bordo ci fosse un mozzo di origine siciliana, Basilio Archita, che, dopo essere sbarcato al Pireo, raccontasse questo delitto terribile, come testimone. Ho voluto dire che questo processo di imbarbarimento non è solo in Sicilia, ma sta all’origine della nostra civiltà che, come tutti sappiamo, ci viene dalla Grecia.»
All’inizio del racconto dedicato a Sciascia hai posto come epigrafe una sua frase che dice: «Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione.» Questa affermazione è valida anche per te?
«Sì, certo. Sciascia, però, quando parla della sconfitta della ragione pensa soprattutto all’aspetto storico e sociale: parla dell’inquisizione, dei fallimenti politici, delle offese all’uomo. Io porto la sua affermazione alle estreme conseguenze e penso alla disgregazione della ragione come follia. Una componente che è stata poco sondata dalla narrativa siciliana è proprio la follia del siciliano. Per questo ho paragonato la realtà siciliana a una tempesta alla quale è estremamente difficile sopravvivere. Quando ci si salva si approda, secondo me, a una sorta di maturazione anticipata. Ho paragonata la maturazione di cui parla Pirandello nel Fu Mattia Pascal («Così l’anima mia venne a maturazione ancora acerba…») a quei frutti che si producono artificiosamente fuori stagione in Sicilia e che si chiamano verdelli. Si portano le piante di limone, nell’agosto inoltrato, sull’orlo della morte, privandole dell’acqua, le foglie rischiano l’essiccazione e sono sul punto di cadere. Quando l’albero è «patuto», come si dice, viene immessa l’acqua nel mezzo degli agrumeti e l’albero fiorisce di colpo, mette la zagara e immediatamente cresce il frutto, un frutto fuori tempo, profumatissimo e gustosissimo che si chiama verdello. Per il siciliano è la stessa cosa: arriva all’orlo della morte e, se riesce a sopravvivere, acquista una saggezza prematura, una disperata intelligenza e una dolorosa consapevolezza.»
Pensi che oggi persistano, nell’ambito della letteratura prodotta in Sicilia, alcune caratteristiche tipiche che si possono definire siciliane a tutti gli effetti?
«Fino alla mia generazione è esistita. Adesso c’è una sorta di uniformazione. Io, negli anni settanta, ho fatto per anni il lettore per Einaudi e mi sono accorto che c’è stato un momento di passaggio da una scrittura a un’altra. Avevo chiesto a Einaudi di occuparmi soprattutto di letteratura meridionale. C’erano scrittori che in quel periodo erano portatori di realtà sociali ben precise, poi, passando a generazioni più giovani, notavo che i dattiloscritti che arrivavano da Palermo erano sempre più uguali agli altri. Come è avvenuta l’uniformazione linguistica, è venuta l’uniformazione dei temi. Cadeva l’interesse verso il mondo esterno, si tendeva sempre più a parlare dei propri problemi. Inoltre da una scrittura di conquista, una scrittura-scrittura, si passava a una specie di trascrizione di un parlato uguale per il Meridione come per il Nord. Le piccole culture si stanno distruggendo, ma è un processo di omologazione che avviene dappertutto, in Occidente attraverso la forza dell’economia e all’Est per forza di carri armati. Mi sono trovato una volta a Palermo a un convegno internazionale di scrittori. C’erano due scrittori emblematici del cosiddetto socialismo reale, Evtusenko e Kundera. Naturalmente non si amavano e lo mostrarono subito. Ma il primo a provocare fu Evtusenko: disse che gli astronauti sovietici gli avevano detto che dallo spazio le piccole patrie non si vedevano, si vedevano solo le grandi terre, i grandi continenti, alludendo al fatto che la Cecoslovacchia dall’alto non esisteva. Kundera rispose che è probabile che dallo spazio non si vedano le piccole patrie, ma dagli oblò dei carri armati si vedono benissimo. È questo il tema doloroso di Kundera, la sparizione della patria boema.»
Domande del pubblico.
Lei ha citato molti nomi di autori siciliani, ma non ha parlato di Gesualdo Bufalino. Che opinione ha di questo scrittore?
«Lo conosco benissimo, ma lo considero uno scrittore che non appartiene in modo totale alla tradizione siciliana. E un autore, secondo me, che si rifà un po’ a certa scrittura degli anni Trenta, di tipo centrale, rondista, i cui esponenti maggiori, per intenderci, erano Emilio Cecchi e Cardarelli, prosatori d’arte. In lui non vedo sperimentazione, la sua è una scrittura che appartiene, sia pure in modo magistrale, al codice nazionale, non c’è una parola che non sia nel vocabolario italiano, anche se si tratta di una scrittura di livello molto alto ed elegante. Quando cita una parola in dialetto la mette tra virgolette o in corsivo e le sue tematiche assolute non appartengono alla tradizione letteraria siciliana. Per questi motivi Bufalino potrebbe anche essere nato a Roma.»
Che rapporto c’è per lei tra la Sicilia come piccola patria e il suo tentativo di recupero della ricchezza culturale e linguistica della sua terra?
«Ci sono due modi di guardare alle piccole patrie. Un modo regressivo, per cui ci si chiude dentro al grembo materno senza crescere al mondo dell’agorà e della discussione: quindi il compiacimento della chiusura. Per me le radici, le storie e la cultura locale servono come metafora, come metro per misurare il resto del mondo. Faccio un esempio emblematico per essere più chiaro. C’era un poeta siciliano della fine dell’Ottocento, Alessio Di Giovanni, figlio di un notaio, che una sera rimase ammaliato dal canto in siciliano di un carrettiere, uno di quei canti che somigliano molto alle nenie arabe. Da allora si mise a studiare il mondo siciliano dialettale, scrivendo anche romanzi e poesie in siciliano. Quando uscirono I Malavoglia, rimproverò all’autore di avere scritto quel libro in italiano e si propose a Verga come traduttore in siciliano del romanzo. Naturalmente Verga si oppose. Quello di Alessio Di Giovanni era un modo compiaciuto di guardare al sicilianismo, e in questi casi non è difficile arrivare a chiusure assolute e a forme politiche molto dubbie: non per nulla questo Di Giovanni confluì nel movimento provenzale di Mistral che era molto di destra. Per me non è compiacimento del localismo, ma è misura del mondo data dalla propria cultura e dalle proprie radici.»
Il suo secondo libro è uscito a tredici anni dal primo. Pietre di Pantalica è apparso un anno dopo Retablo. I suoi tempi di lavoro sono cambiati o sia mettendo a frutto quanto ha fatto in passato?
«Prima avevo molti più dubbi, Forse, adesso, tante preoccupazioni sono cadute. Ma sento anche l’urgenza di dire alcune cose che prima non sentivo la necessità di comunicare. Nell’ultimo libro ho voluto ribadire lo
stesso discorso di Retablo con un linguaggio diverso, in termini molto più chiari. L’ho messo assieme, lavorando molto, proprio per riproporre quel discorso della scrittura con altre parole. Ma anche per mostrare che, al di là del barocchismo, in Retablo c’erano argomenti di fondo che mi stavano a cuore. Il tema di fondo, quindi, rimane uguale: cioè certa cultura e certa civiltà che nel mondo d’oggi si stanno perdendo.»
Che sentimenti nutre rispetto alla società letteraria d’oggi: non sente di compromettersi anche lei nell’industria culturale?
«Finora ho potuto rimanere appartato, rinunciando ad aderire alla società letteraria, negandomi. Dal primo al secondo libro sono passati tredici anni. Il sorriso è stato quel che si dice, in termini molto volgari, un successo editoriale, i critici ne hanno parlato moltissimo. Sull’onda di quel libro avrei potuto scrivere tanti altri romanzi uguali o simili, ma mi sono ritirato, fino a pagare con l’oblio questo mio silenzio. Nell’85 ho pubblicato un libretto che era la negazione del romanzo e del suo consumo. Adesso sento la necessità di scrivere di più. Oggi non è più cosi facile starsene appartati, anch’io subisco quelle che sono le dittature dell’industria e dei mezzi di comunicazione. Anch’io vado per librerie a fare presentazioni, anch’io mi nono assoggettato, con malagrazia e con molte remore, alle leggi della pubblicità e del consumo. Comunque ho cercato almeno di non perdere dignità e classe, di non arrivare a certi spettacoli degradanti. Oggi la letteratura, come la politica o la religione, è spettacolo. Le sorti nostre si decidono sulla base di spettacoli televisivi come quelli delle elezioni americane.»
Come può un siciliano vivere a Milano?
«Le posso rispondere con un’altra domanda: come può un siciliano oggi vivere a Palermo? È terribilmente difficile. Quando vado a Palermo e incontro Sciascia, il quale mi dice del suo dolore e della sua pena di stare in una città e in una terra come quella, mi accorgo di quanto sia atroce vivere li. Ma oggi è altrettanto terribile vivere a Roma e forse in tutta Italia. Ma credo che per i siciliani, quando potevano scegliere, come me nel 68, c’erano due modi di uscire dal loro paese: c’era una corrente che li portava a Roma e una corrente che li spingeva a Milano. Questo non era casuale, dipendeva da due modi di concepire il mondo: non per nulla Brancati approdò a Roma, mentre Vittorini scelse Milano. Milano era l’opposto della Sicilia, era la città della organizzazione sociale, mentre noi venivamo da una terra di disgregazione e di disordine atavico. Quando, nel 68, ho scelto Milano, l’ho fatto pensando che a Milano ci fosse un progetto sociale e culturale.
Oggi questa speranza è fallita e mi costa moltissimo rimanere a Milano. Ho detto, fra virgolette, che Milano è oggi la città più volgare d’Italia perché da Milano parte il messaggio pubblicitario, lì si organizza il messaggio che riduce il resto d’Italia in grandi masse di consumatori di oggetti inutili. Ma è volgare anche perché ci sono le case editrici, le case di moda, regno della futilità, i giornali, le televisioni. Eppure, se mi trovo a immaginare una città in cui mi piacerebbe abitare, non so pensare ad altre città se non a Milano. Quando ci si sradica a trentacinque anni, come è capitato a me, si finisce per non appartenere più a nessuna terra. Io vado spesso in Sicilia, ma quando arrivo mi arrabbio e non vedo l’ora di tornare a Milano; quando sono a Milano mi arrabbio con Milano e cerco di tornare in Sicilia.»
Lei crede che la letteratura debba avere soprattutto un compito sociale?
«Credo che lo scrittore abbia il dovere di essere estremamente critico anche in una ideale società perfetta. C’è un modo di dire dei tedeschi, riferito a scrittori come Böll o Enzesberger: si dice che sono scrittori che hanno sporcato il nido, perché parlano male del loro paese. Ma io credo che sia questo lo scopo della letteratura, sporcare il nido. I politici non lo fanno certo, sporcano eventualmente le coscienze. Ma soprattutto penso che sia questa la funzione del romanziere, perché il romanzo è uno strano ibrido, una unione di discorso logico e di discorso poetico. Ora, io dico che i poeti, i fanciulli e i re non hanno questo dovere proprio perché mancano dell’aspetto logico, che implica il contesto di cui facciamo parte. Nel momento in cui parliamo degli altri, facciamo un discorso critico e oppositivo. Perciò questo non è possibile ai bambini, né ai poeti, i quali non sono chiamati a fare i conti con il discorso logico. Ma neppure chi ha il potere possiede questa facoltà logica, perché non può andare contro i propri interessi. Per me il romanziere che non esercita la critica è uno scrittore di corte e perciò non esercita l’opposizione, perché ambisce ad essere abbracciato dal rе.»
Non c’è
turista che viaggiando per la Sicilia – minimo che sia il suo interesse alle
cose dell’arte – tra Palermo e Messina non si senta obbligato o desideroso di
fermarsi a Cefalù: e dopo averne ammirato il Duomo e sostato nella piazza
luminosa che lo inquadra, non imbocchi la stradetta di fronte e a destra per
visitare, fatti pochi passi, il Museo di Mandralisca. Dove sono tante cose –
libri, conchiglie e quadri – legati, per testamento del barone Enrico
Mandralisca di Pirajno, al Comune di Cefalù: ma soprattutto vi è,
splendidamente isolato, folgorante, quel ritratto virile che, tra quelli di
Antonello da Messina che conosciamo, è forse il più vigoroso e certamente il
più misterioso e inquietante.
E’un piccolo
dipinto ad olio su tavola (misura 30 centimetri per 25), non firmato e non
sicuramente databile (si presume sia stato eseguito intorno al 1470). Fu
acquistato a Lipari, nella prima metà del secolo scorso, dal barone
Mandralisca: e glielo vendette un farmacista che se lo teneva in bottega, e con
effetti – è leggenda, ma del tutto verosimile – che potevano anch’essere
fatali: per il ritratto, per noi che tanto lo amiamo. Pare che, turbata da
quello sguardo fisso, persecutorio, ironico e beffardo, la figlia del
farmacista l’abbia un giorno furiosamente sfregiato. La leggenda può essere
vera, lo sfregio c’è di certo: ed è stato per due volte accettabilmente
restaurato.
Lo sfregio – e ce lo insegna tanta letteratura napoletana, e soprattutto quel
grande poeta che è Salvatore Di Giacomo – è un atto di esasperazione e di
rivolta connaturato all’amore; ed è anche come un rito, violento e sanguinoso,
per cui un rapporto d’amore assume uno stigma definitivo, un definitivo segno
di possesso: e chi lo ha inferto non è meno «posseduto» di chi lo ha subito. La ragazza che ha sfregiato il
ritratto di Antonello è possibile dunque si sia ribellata per amore, abbia
voluto iscrivere un suo segno di possesso su quel volto ironico e beffardo. A
meno che non si sia semplicemente ribellata – stupita – all’intelligenza da cui
si sentiva scrutata ed irrisa.
Proveniente
dall’isola di Lipari, quasi che in un’isola soltanto ci fossero dei marinai,
all’ignoto del ritratto fu data qualifica di marinaio: «ritratto
dell’ignoto marinaio». Ma altre ipotesi furono avanzate: che doveva essere un barone,
e comunque un personaggio facoltoso, poiché era ancora lontano il tempo dei
temi «di genere» (il che non esclude fosse un
marinaio facoltoso: armatore e capitano di vascello); o che si trattasse di un
autoritratto, lasciato ai familiari in Sicilia al momento della partenza per il
Nord. Ipotesi, questa, ricca di suggestione: perché, se da quando esiste la
fotografia i siciliani usano prima di emigrare farsi fotografare e consegnare
ai familiari che restano l’immagine di come sono al momento di lasciarli,
Antonello non può aver sentito un impulso simile e, sommamente portato al
ritratto com’era, farsene da sé uno e lasciarlo?
Comunque,
una tradizione si è stabilita a denominare il ritratto come dell’ignoto
marinaio: e da questa denominazione, a inventarne la ragione e il senso, muove
il racconto di Vincenzo Consolo che s’intitola Il sorriso dell’ignoto
marinaio. Ma la ragione e il senso del racconto non stanno nella felice
fantasia filologica e fisionomica da cui prende avvio e che come una frase
musicale, più o meno in sottofondo, ritorna e svaria. La vera ragione, il senso
profondo del racconto, direi che stanno – a volerli approssimativamente
chiudere in una formula – nella ricerca di un riscatto a una cultura, quale
quella siciliana, splendidamente isolata nelle sovrastrutture, nei vertici:
così come quelle cime di montagne, nitide nell’azzurro, splendide di sole, che
dominano paesaggi di nebbia.
Ma prima di
parlare del libro, qualcosa bisogna dire del suo autore. Siciliano di
Sant’Agata Militello, paese a metà strada tra Palermo e Messina (sul mare,
Lipari di fronte, i monti Peloritani alle spalle), Consolo – tranne gli anni
dell’università e quelli del recente trasferimento, passati a Milano – è
vissuto nel suo paese e muovendosi, per conoscerli profondamente nella vita,
nel modo di essere, nel dialetto, nei paesi a monte del suo, nell’interno: che
sono paesi lombardi, della «Lombardia siciliana» di Vittorini – sorti cioè
dalle antiche migrazioni di popolazioni dette genericamente lombarde. Solo che
Consolo, a misura di come li conosce, oltre che per temperamento e formazione,
è ben lontano dal mitizzarli e favoleggiarne, come invece Vittorini in Conversazione
in Sicilia e più – non conclusa apoteosi – ne Le città del mondo.
Quel che più attrae Consolo è, di questi paesi, forse l’impasto dialettale, la
fonda espressività che è propria alle aree linguistiche ristrette, le lunghe e
folte e intricate radici di uno sparuto rameggiare. Perché Consolo è scrittore
che s’appartiene alla linea di Gadda (sempre tenendo presente che un Verga e un
Brancati non sono lontani): ma naturalmente, non per quel volontaristico arteficiato
gaddismo – che peraltro ambisce a riconoscersi più in Joyce che in Gadda – che
ha prodotto in Italia (e forse, senza Gadda, anche altrove) libri senza lettori
e testi, proprio dal punto linguistico, di assoluta gratuità e improbabilità.
Altro elemento
da tenere in conto, è quella specie di esitante sodalizio che Consolo ha
intrattenuto per anni con Lucio Piccolo. E qui bisognerebbe parlare di questo
straordinario e poco conosciuto poeta siciliano: ma rimandiamo il lettore ad
altro nostro scritto, pubblicato nel volume La corda pazza.
Tutto, in come è Consolo e in com’era Piccolo, li destinava a respingersi reciprocamente l’età, l’estrazione sociale, la rabbia civile dell’uno e la suprema indifferenza dell’altro; eppure si era stabilita tra loro una inconfessata simpatia, una solidarietà apparentemente svagata ma in effetti attenta e premurosa, una bizzarra e bizzosa affezione. Il fatto è che tra loro c’era una segreta, sottile affinità: la sconfinata facoltà visionaria di entrambi, la capacità di fare esplodere, attraverso lo strumento linguistico, ogni dato della realtà in fantasia. Che poi lo strumento avesse la peculiarità della classe cui ciascuno apparteneva – di «degnificazione» per Piccolo, di «indegnificazione» per Consolo – non toglie che si trovassero, ai due estremi del barocco, vicini. (Il termine «degnificazione» lo si usa qui nel senso di Pedro Salinas quando parla di Jorge Guillén: e quindi anche il suo opposto, «indegnificazione»). Il primo libro di Consolo, La ferita dell’aprile, pubblicato nel 1963 e ora ristampato da Einaudi, non ricordo abbia suscitato allora attenzione né ho seguito quel che ora, dopo Il sorriso dell’ignoto marinaio, ne hanno detto i critici: probabilmente, chi allora l’ha letto ha avuto qualche perplessità a classificarlo tra i neorealisti in via d’estinzione; e chi l’ha letto ora, difficilmente riuscirà a trattarlo come un libro scritto prima. Il che è ingiusto, ma tutto sommato meglio che l’intrupparlo tra i neorealisti. Tra il primo e il secondo son corsi bel tredici anni (e speriamo non ci faccia aspettare tanto per il terzo): ma c’è tra l’uno e l’altro un preciso, continuo, coerente rapporto; un processo di sviluppo e di arricchimento che è arrivato alla piena, consapevolmente piene, padronanza del mezzo espressivo (e dunque del mondo da esprimere). Anni, dunque, passati non invano, ma intensamente e fervidamente: a pensare questo libro, a scriverlo, a costruirlo; in margine, si capisce, ad altro lavoro, anche giornalistico (di cui restano memorabili cose: non ultimi gli scritti sul Gattopardo e su Lucio Piccolo). A costruire questo libro, si è detto. E lo ribadisco polemicamente, per aver sentito qualcuno dire, negativamente, che è un libro costruito. Certo che lo è: ed è impensabile i buoni libri non lo siano (senza dire dei grandi), come è impensabile non lo sia una casa. L’abitabilità di un libro dipende da questo semplice e indispensabile fatto: che sia costruito e – appunto – a regola di abitabilità. I libri inabitabili, cioè i libri senza lettori, sono quelli non costruiti; e oggi sono proprio tanti. Un libro ben costruito, dunque, questo di Consolo: con dei fatti dentro che sono per il protagonista «cose viste», e «cose viste» che quasi naturalmente assumono qualità, taglio e luce di pittura ma che non si fermano lì, alla pittura: provocano un interno sommovimento, in colui che vede, una inquietudine, un travaglio; sicché infine Enrico Pirajno, barone di Mandralisca, descrittore e classificatore di molluschi terrestri e fluviali, si ritrova dalla parte dei contadini che hanno massacrato i baroni come lui. E facilmente viene da pensare – almeno a me che so del rapporto che legava Consolo al barone Lucio Piccolo di Calanovella, che ho letto tutto ciò che Consolo ha scritto di questo difficile e affascinante rapporto – che nel personaggio del barone di Mandralisca lo scrittore abbia messo quel che mancava all’altro barone da lui conosciuto e frequentato, a quell’uomo che aveva «letto tutti i libri» e soltanto due, esilissimi e preziosi, ne ha scritti di versi: la coscienza della realtà siciliana. Il dolore e la rabbia di una condizione umana tra le più immobili che si conoscano. «Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change».
Leonardo Sciascia
brano tratto da “Cruciverba” einaudiana collana “Gli struzzi” 1983
Sfogliando il grande
libro (1300 pagine) di Stefano D’Arrigo
Vent’anni di lavoro,
e tant’attesa – È l’odissea di un marinaio reduce in Sicilia alla fine
dell’ultima guerra mondiale.
Annotava Moravia da qualche parte che alla povertà e
infelicità di una terra corrisponde ricchezza e felicità di letteratura, poesia
e romanzo. E portava l’esempio dell’America Latina, con Borges e Marquez e
tutti gli altri scrittori di quella vasta regione dove la letteratura (il
romanzo) cresce ancora rigogliosa e splendida. Bisognerebbe, a questa di
Moravia, aggiungere l’osservazione che non di tutte le terre solamente povere è
una letteratura che si possa dire propria di una determinata regione, ma di
quelle – come insegna Americo Castro – dove più o meno s’è formato il “modo
d’essere”, dove cioè la realtà da “descrivibile” è diventata “narrabile” e
quindi “storicizzabile”. Com’è appunto della Spagna e dell’America Latina. Ma:
e il romanzo del Settecento in Inghilterra e quello dell’Ottocento in Francia,
che infelici non erano ma forse solo inquiete nella loro borghesia? E il romanzo
russo? E il romanzo americano? Restano solo domande, per noi che ci muoviamo
disarmati. Perché allora bisognerebbe affrontare il vastissimo discorso sulla
letteratura, il romanzo: cos’è e perché nasce, che funzione e che destino ha.
E questo lo lasciamo agli specialisti, a quelli che riescono
a spiegare le cose e le ragioni delle cose.
A noi solo il piacere di goderle, quelle cose, il piacere di
leggere un romanzo: Qui solo vogliamo dire che quell’equazione
povertà-infelicità e ricchezza letteraria cade bene anche per la Sicilia e per
quella letteratura che si chiama siciliana.
E quando una storia della letteratura dell’isola si farà,
oltre alla stagione felice del Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, si dovrà
pure dire di un’altra, quella di Brancati, Vittorini, Sciascia, Lampedusa,
Addamo, Castelli, Bonaviri … ultimo, nel tempo, è da ascrivere a questa
anagrafe Stefano D’Arrigo, scrittore messinese, di cui a giorni sarà in
libreria il poderoso romanzo “Orcynus Orca” edito da Mondadori.
Ma torniamo per un momento a Castro per avanzare
un’ulteriore osservazione riguardo alla letteratura siciliana.
E più che a Castro, a Sciascia, che adatta quello schema
alla realtà siciliana e dice “storicizzabile” la Sicilia di dopo i normanni e
da questo momento fa nascere il modo d’essere siciliano.
Ora, l’isola, non sempre e non dappertutto ebbe uguale
sorte. Gli arabi, per esempio, lasciarono il loro segno più nella parte
occidentale che in quella orientale; il feudo nel Val di Mazara e la piccola
proprietà nel Val Demone hanno fatto si che le popolazioni delle due zone
fossero in qualche modo diverse. E
diverso è il siciliano dell’interno da quello della costa. Occidentale e
orientale, marino e dell’interno, continentale, ha per noi significato riguardo
agli scrittori, nella misura in cui essi rispecchiano nelle loro opere, nella
materia che assumono e esprimono, queste diversità. Verga ci sembra Marino (e
non per via dei malavoglia), De Roberto continentale, come Pirandello e
Sciascia e Lampedusa. D’Arrigo ci sembra autore marino (e non perché il suo
romanzo si svolge sullo stretto).
Vogliamo dire che gli scrittori siciliani sono diversi (come diversi
sono gli artisti: Greco o Migneco sono diversi da Guttuso) per la diversa
realtà che esprimono, a seconda cioè se quella realtà si muove nel
descrivibile, nel narrabile o nello storicizzabile: se partecipa più o meno al
modo d’essere siciliano. Sciascia,
sintetizzando Castro, dice che’ descrivibile “una vita che si svolge dentro un mero
spazio vitale”. E ci soccorre anche
Addamo scrivendo: “ … Nella prevalenza della natura c’è esattamente il limite
della storia”.
Ora, le regioni, le città, le popolazioni che per varie
ragioni hanno dovuto fare i conti con la natura prima ancora che con la storia,
o a dispetto della storia, da esse, ci sembra, non possono venire fuori che
scrittori, che opere i cui temi sono il mito, l’epos, la bellezza, il dolore,
la vita, la morte,… vogliamo dire che queste opere, quando sono vere opere, si
muovono dall’universale al particolare e sono siciliane per accidente; mentre
le altre, al contrario, partono dal particolare e vanno all’universale e sono
siciliane per sostanza. Ma questa non è
che una semplicistica classificazione, nella quale, come nel letto di procuste,
la realtà scappa da tutte le parti.
Tuttavia: una città
come Messina, per esempio, al limite e al confine, distrutta, ricostruita e
ridistrutta da terremoti, ci sembra un luogo dove la vita tende a svolgersi
dentro un mero spazio vitale. E
figurarsi poi la vita di quella città invisibile e mobile che si stende sullo
stretto, quella dei pescatori della costa calabra, e della costa siciliana, di
Scilla e Cariddi, Scill’e Cariddi, anzi, arcaica e sempre uguale, vecchissima e
sempre nuova, piccola e vastissima, come il mare. “Lu mari è vecchiu assai. Lu mari è amaru. A lu mari voi truvari fumu?”
dicono i pescatori. Ed è qui, su questo mare, su queste acque che si svolge il
romanzo di D’Arrigo.
La morte marina
“Orcynus Orca” è un
romanzo di 1257 pagine a cui l’autore ha lavorato per circa vent’anni. È la storia d’un Ulisse, ‘Ndrja Cambria,
marinaio della fu regia marina, pescatore del faro, a Cariddi, che durante
l’ultima guerra, nell’autunno del ’43, a piedi percorre la costa della
Calabria, da Amantea a Scilla, per tornare al suo paese. Quella lingua di mare,
lo stretto, lo ferma. Tutto è devastato,
distrutto, non ci sono più ferribotti e né barche. Le femminote, le mitiche, arcaiche, libere e
matriarcali donne di Bagnara sono ferme anche loro per le coste, in attesa di
riprendere, come prima, il loro contrabbando di sale. Ferme e in attesa sotto i giardini di aranci
e bergamotti, in mezzo ai gelsomini, alle olivare e tra le dune delle spiagge.
Solo una d’esse possiede una barca, la potente magara
Ciccina Circè che, impietosita e ammaliata, trasborda quel reduce, su un mare
notturno di cadaveri e di fere bestine.
Dopo tanta struggente nostalgia per la sua Itaca, all’approdo, l’isola
appare al reduce sconvolta, diversa, avvilita, scaduta per causa della guerra,
ma anche per causa dello stesso ritorno che, come tutti i ritorni, è sempre
deludente e atroce. Ritrova il vecchio
padre, i compagni pescatori, i pellisquadre d’una volta.
Ma qui, a Cariddi, sulla spiaggia della “Ricchia, compare
improvvisa l’orca, l’Orcynus Orca, com’è scritto sui libri di zoologia,
l’orcaferone”… quella che dà la morte, mentre lei passa per immortale: lei, la
morte marina, sarebbe a dire la morte, in una parola.
Solitario,
terrificante scorritore di oceani e mari: puzza lontano un miglio, lo precede
il terrore, lo segue il deserto e la devastazione. Il mostro arenato, scodato e irriso dalle
fere, i feroci delfini dei due mari, il Tirreno e lo Jonio, muore spargendo
fetore di cancrena. L’enorme carogna verrà trainata sulla spiaggia dagli
inglesi e dai pellisquadre. Il viaggio
di ritorno di ‘Ndrja Cambria diventa così viaggio verso un mondo alterato,
corrotto: viaggio verso la morte. Ma
viaggio anche verso la verità, l’origine della vita. Orcynus è anche orcio, grembo materno,
liquido rifugio, mare, principio e fine della vita. ‘Ndrja Cambria morirà, ucciso sul mare dello
stretto, striscia di mare, profonda, abissale, canale e oceano, iato, rottura
“naturale” tra una terra e le altre, tra una “storia” e le altre, ucciso da un
colpo d’arma che lo raggiungerà alla fronte
È quasi impossibile
riassumere questo vastissimo romanzo, magmatico, scandito in quarantanove
episodi, dove si muove un’infinita schiera di personaggi e figure. Romanzo dentro il quale tuttora siamo
immersi, come in un’avventura, un viaggio eccezionale e affascinante. E per poterne riferire in termini pacati e
chiari bisogna prima uscirne, bisogna che cessi lo stupore e l’incanto.
“Vogliamo adesso soltanto riferire, accennare anche alla lingua usata
dallo scrittore. Lingua che è il
dialetto proprio dei pescatori dello Stretto, gergo, suono e atteggiamento,
assunti e reinventati dall’autore con conoscenza e sapienza magistrale e resi
con ritmo e musicalità, larga, polifonica.
Una lingua che è
ammiccante, allusiva, ora tenera e carezzante, ora dura e sentenziosa, che
procede circolarmente, per accumuli, e arriva fino al cuore delle cose.
E riferire vogliamo
anche dello scrittore, di Stefano D’Arrigo. Nato ad Alì nel 1919, passa subito
a Messina. Ragazzo, navigava per le Eolie.
Sarà entrato nelle celle delle acque saline e calde delle terme di San
Calogero, dentro bocche, crateri spenti; si sarà imbattuto nelle necropoli
degli uomini antichi, venuti dal mare, nelle olle, negli orci, nei giaroni in
cui rannicchiati come nel grembo materno seppellivano i morti, la testa a
oriente, verso il sole. Si sarà
incantato davanti a tutto quanto dal mare si fa schiuma, conchiglia, roccia,
terra, e in tutto che si sfalda e ritorna al mare.
L’incontro con Vittorini
A Messina,
all’università, fa un giornale murale. D’Arrigo scriveva a un suo amico, Felice
Canonico, disegnava. Vittorini, chissà
per quali vie, da Milano sa di questo giornale e scrive perché vuole vederlo,
vuole leggerlo. Gli mandano un numero
con un interessante articolo di D’Arrigo, “La crisi della civiltà”. È il 1946.
Laureatosi in lettere con una tesi su Hoederlin (“Doveva forse sembrarmi
di scorgere in lui, malgrado lui, qualcosa di quel conflitto tra poesia e
follia, tra civiltà e barbarie che fa la Germania e in cui alla fine soccombono
civiltà e poesia”).
Nel 1947 parte per
Roma. Qui si occupa d’arte. Suoi amici sono Guttuso (e in certe pagine di
D’Arrigo c’è quell’aura dei quadri di Guttuso, dei quadri dei pescatori del
periodo di Scilla), Mazzullo, Canonico, ma anche Zavattini, De Sica, Ungaretti,
Ciarletta. Nella soffitta dello scultore
di Graniti, Peppino Mazzullo, si riuniscono, mettono ogni sera un tanto a
testa, e mangiano panibi e bevono vino.
Il pittore Felice Canonico se ne torna a Messina ed è a lui che poi
D’Arrigo si rivolge per sapere tutto sulla fera dello Stretto, sul
delfino. Canonico va dal direttore
dell’istituto talassografico di Messina e così può avere trattati scientifici,
storie antiche sul delfino, leggende. E
fa anche per D’Arrigo un bel disegno del pesce, un disegno scientifico, a
inchiostro di china, come quelli che faceva il durer dei granchi, dei cetacei.
Nel 1957 D’Arrigo
pubblica un libro di versi, “Codice siciliano” presso l’editore Scheiwiller di Milano.
Ma è nel 1960 che D’Arrigo viene conosciuto: Vittorini pubblica sulla rivista
“Menabò 3” due parti, cento pagine, de “I giorni della Fera”, come si chiamava
prima il romanzo. Scrisse allora
Vittorini sulla rivista: “Quanto qui ora
pubblichiamo di lui non è opera compiuta. Fa parte di un “Work in progress”
ch’io non sono riuscito ad appurare in che anno, e come, e perché, sia stata
iniziata, e come sia andata avanti finora ma che ritengo possa restare soggetta
a mutamenti e sviluppi anche per un decennio.
Di impegno complesso, estremamente ingenuo e estremamente letterario ad
un tempo, è di quel genere di lavori cui una volta, fino a metà circa dello
scorso secolo, accadeva di vedere dedicare tutta un’esistenza”.
Impegno totale
La rivista di Vittorini
era uscita nell’agosto del ’60. Nel settembre di quell’anno conobbi D’Arrigo a
Messina stupefatta e sciroccosa come i fondali dei quadri d’Antonello, alla
libreria di Giulio D’Anna, sul viale San Martino. Ci trovammo, non ricordo bene come, a parlare,
a chiacchierare. Io avevo appena finito di leggere le sue pagine sul “menabò” e
ne avevo ricevuto una grande impressione.
D’Arrigo, più che rispondere alle mie, mi fece lui
delle domande, domande a non finire, su quello che lui aveva pubblicato e io
avevo letto, voleva su tutto la mia impressione di lettore “messinese”: sul
linguaggio, il ritmo, i personaggi…
Lo incontrai l’anno
dopo, sempre a Messina, casualmente per la strada. Mi disse che era venuto giù
da Roma per verificare, a Sparta, ad Acqualatroni, alcuni modi di dire dei
pescatori, parole, frasi. Era pieno di
fervore, di vita. Si capiva che il
lavoro lo teneva in una forma di frenesia, di entusiasmo creativo. E lo rividi poi ancora a Roma nel 1964. Andai
a trovarlo a casa, a Monte Sacro. Era
già cominciato il suo completo isolamento. Lavorava dalla mattina alla sera. Il
libro era là nel suo studio, in bozze.
Bozze sulla scrivania, sulle sedie, attaccate al muro e con lunghe
strisce di carta scritte a mano incollate al margine inferiore del foglio e che
arrivavano fino al pavimento.
D’Arrigo era diverso da quello che avevo conosciuto a
Messina. Era tutto calato dentro il suo
libro, nel lavoro duro, massacrante, totale che richiedeva il libro. Mi disse che soffriva di cattiva circolazione
alle gambe per la vita sedentaria che faceva, lui che aveva giocato da
attacante nella squadra di calcio del Messina.
Sono passati anni. Di tanto in
tanto leggevo, come tutti, di lui sui giornali, brevi note che annunciavano
l’imminente pubblicazione del libro presso l’editore Mondadori.
Nel ’73 sono ancora
andato a trovare D’Arrigo a Roma. Mi
apre la porta e rimane sorpreso, impacciato per la visita improvvisa. Non vede
nessuno ormai da anni. Dopo un lungo
tempo di silenzio, seduti l’uno di fronte all’altro, D’Arrigo comincia a
sciogliersi a parlare, in un flusso straripante di racconto, dove c’è tutto,
memoria, progetto, speranza ma soprattutto sentimento e risentimento. Mi parla della moglie Jutta (è assente perché
al lavoro), che per tanti anni ha accettato questo calvario accanto a lui,
senza mai lamentarsene, stancarsi, sfiduciarsi, sempre spronandolo, con
speranza intatta e chiara. “A Jutta, che
meriterebbe di figurare in copertina con il suo Stefano” c’è scritto ora sul
frontespizio del libro. Parla degli
amici che se ne sono andati, quelli morti
(Niccolò Galo, Vittorini) e quelli allontanatisi, scomparsi in una città
grande, caotica e lontanissima che si chiama Roma. E parla di Messina, della sua Messina, della
Sicilia.
– Perché un giorno
non ce ne torniamo tutti laggiù? – mi dice – e cacciamo via tutti i
politicanti, gli affaristi, i mafiosi.
– E poi, dopo una
lunga pausa: – Ma no, non è possibile – dice – è un’utopia.
Ma del libro non parla e io non oso fargli domande. E il libro è lì, sempre in bozze sparse, sul tavolo
e anche sul divano. E c’è anche la prima
pagina, la controcopertina col titolo.
“Orcynus orca” si chiama ora e non più
“I giorni della fera”. E poi di
Dante – è grande in tutte le dimensioni – dice – è iperbolico. La Divina Commedia è il mio libro De
Chevet. Mi è servito molto, soprattutto
per la lingua. Quello che mi scandalizza sempre è il Manzoni, col suo “Bagno”
in Arno.
Al momento che devo
partire, non vuole lasciarmi andar via, vuole ancora parlare e parlare con me,
in quel suo flusso di ricordi, di sentimenti e risentimenti.
Certo, D’Arrigo,
rappresenta un caso, una eccentricità, un fenomeno di impegno totale alla letteratura, alla
poesia, che non si riscontra forse più nel mondo d’oggi. Non si sa ancora che ripercussioni avrà il
suo libro nei lettori, nei critici.
Il rischio più grosso in cui potrà incorrere è quello di essere chiuso, cristallizzato nel fenomeno, nel personaggio. E questo lui lo sa e lo teme. Ma ha anche temuto fino a ieri, soprattutto, portare a termine il libro, distaccarsene, non lavorarci più, consegnare col “va bene, si stampi”, quelle mille e duecento pagine di bozze all’editore. Perché, quando opere come “Orcynus Orca” possono dirsi concluse? Quando si può dire conclusa una vita, la vita, anche se minacciata dall’orca atomica, dall’orca tecnologica, dall’orca della disumanizzazione?