Caro Maestro

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Caro Maestro, sono ormai passati cinque anni e le stagioni sembrano essersi fermate. Il tuo scendere in Sicilia, a Sant’Agata, le scandiva tutte: segnava l’arrivo imminente dell’estate o il suo trascolorare nell’autunno, quando tornavi a Milano. Scrivevi: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.” (Le pietre di Pantalica, 1988) Alcàra Li Fusi, San Marco d’Alunzio, San Fratello, Portella, Femmina Morta, Mistretta, Furci, Scurzi, Caronìa, Santo Stefano di Camastra, le pendici dei Nèbrodi: sono tutte schegge, frammenti, sprazzi di una Sicilia visitata insieme, osservata, ascoltata, raccolta e custodita per farne narrazione, racconto, poesia. Sono pagine di una storia comune, condivisa, che tu temevi sfumasse nella dimenticanza, nell’abbandono, nel silenzio. Per questo mi chiedevi di accompagnarti per paesi e contrade, su e giù per i fianchi dei nostri monti, ricchi di storia umana e naturale, o lungo la costa, nelle contrade incastonate come piccole gemme tra la roccia e il mare: per raccogliere i palpiti di una terra che temevi fosse sul punto di scomparire. A te, poi, spettava il compito di trasferire nella scrittura il pulsare di quella vita, di quelle storie di cui ti volevi fare testimone, custode, attraverso la parola di quel Creato nebroideo popolato di pastori, contadini, carbonai, carrettieri, autentici plasmatori di forme e sapori. Ricordo ancora l’interesse consapevole con cui apprezzavi le forme dell’umano creare: un canestro di olivastro e giunco, un bùmbulu di calda terracotta, una fascedda di ricotta profumata sapevano strapparti il più sincero e vivido interesse. A me lasciavano il privilegio di aver potuto assistere alla tua meraviglia di siciliano mai stanco di conoscere la sua terra. Nel raccoglimento creativo che inevitabilmente seguiva, nella tua casa di Sant’Agata o dalla distanza di Milano, trasferivi al linguaggio la dimensione umana e culturale sperimentata nei nostri pellegrinaggi su e giù per la Sicilia di allora. Alla lingua, più che a ogni altra cosa, spettava il compito di far riaffiorare la stratificazione culturale, le incrostazioni di cui la storia e gli avvicendamenti dei popoli hanno segnato la nostra isola. Ripercorrendo i tuoi scritti, mi soffermo di frequente su questo passo: Azzurro, giallo, rosso. Mi regalò mio padre tre cristalli, mia madre tre nastri variopinti. Mi dissero partendo: Muoviti, figlio, agita il ventre, danza a campo raso, nella luce piena. È fredda l’ombra, immobile serpente, lunga la notte dentro la foresta. (Lunaria, 1985, pag.19) E penso alla musicalità, al canto della tua lingua, alla gioia, ingrediente mai riconosciuto sufficientemente della tua opera. E come non ricordarla, la gioia, quell’emozione densa di stupore con cui accoglievi e raccoglievi ogni nuova trovatura, ogni nuova scoperta che ti disvelasse una pagina della nostra comune storia di siciliani. La stessa gioia meravigliata che ti colse bambino di fronte alla rivelazione di nuovi linguaggi: “[…], fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero.” (Le pietre di Pantalica, 1990, pag. 151) Gioia, nella tua scrittura, era il dispiegarsi pieno e ricco del linguaggio e della sua policromia, gioia era il far risuonare tra le pagine l’eco di parole antiche ma vive, antidoto alla perdita di senso, allo svuotamento, all’oblìo: “Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha rόso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia.” (Retablo, 1990, pag.1 )

“ che Calasia ”.

Claudio Masetta Milone

foto di Gino Fabio

Caro Maestro

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Caro Maestro,
sono ormai passati cinque anni e le stagioni sembrano essersi fermate. Il tuo scendere in Sicilia, a Sant’Agata, le scandiva tutte: segnava l’arrivo imminente dell’estate o il suo trascolorare nell’autunno, quando tornavi a Milano. Scrivevi:

“Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all’interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.”
(Le pietre di Pantalica, 1988)

Alcàra Li Fusi, San Marco d’Alunzio, San Fratello, Portella, Femmina Morta, Mistretta, Furci, Scurzi, Caronìa, Santo Stefano di Camastra, le pendici dei Nèbrodi: sono tutte schegge, frammenti, sprazzi di una Sicilia visitata insieme, osservata, ascoltata, raccolta e custodita per farne narrazione, racconto, poesia. Sono pagine di una storia comune, condivisa, che tu temevi sfumasse nella dimenticanza, nell’abbandono, nel silenzio. Per questo mi chiedevi di accompagnarti per paesi e contrade, su e giù per i fianchi dei nostri monti, ricchi di storia umana e naturale, o lungo la costa, nelle contrade incastonate come piccole gemme tra la roccia e il mare: per raccogliere i palpiti di una terra che temevi fosse sul punto di scomparire.
A te, poi, spettava il compito di trasferire nella scrittura il pulsare di quella vita, di quelle storie di cui ti volevi fare testimone, custode, attraverso la parola di quel Creato nebroideo popolato di pastori, contadini, carbonai, carrettieri, autentici plasmatori di forme e sapori. Ricordo ancora l’interesse consapevole con cui apprezzavi le forme dell’umano creare: un canestro di olivastro e giunco, un bùmbulu di calda terracotta, una fascedda di ricotta profumata sapevano strapparti il più sincero e vivido interesse. A me lasciavano il privilegio di aver potuto assistere alla tua meraviglia di siciliano mai stanco di conoscere la sua terra. Nel raccoglimento creativo che inevitabilmente seguiva, nella tua casa di Sant’Agata o dalla distanza di Milano, trasferivi al linguaggio la dimensione umana e culturale sperimentata nei nostri pellegrinaggi su e giù per la Sicilia di allora. Alla lingua, più che a ogni altra cosa, spettava il compito di far riaffiorare la stratificazione culturale, le incrostazioni di cui la storia e gli avvicendamenti dei popoli hanno segnato la nostra isola. Ripercorrendo i tuoi scritti, mi soffermo di frequente su questo passo:
Azzurro,
giallo,
rosso.
Mi regalò mio padre tre cristalli,
mia madre tre nastri variopinti.
Mi dissero partendo:
Muoviti, figlio,
agita il ventre,
danza a campo raso,
nella luce piena.
È fredda l’ombra,
immobile serpente,
lunga la notte dentro la foresta.
(Lunaria, 1985, pag.19)
E penso alla musicalità, al canto della tua lingua, alla gioia, ingrediente mai riconosciuto sufficientemente della tua opera. E come non ricordarla, la gioia, quell’emozione densa di stupore con cui accoglievi e raccoglievi ogni nuova trovatura, ogni nuova scoperta che ti disvelasse una pagina della nostra comune storia di siciliani. La stessa gioia meravigliata che ti colse bambino di fronte alla rivelazione di nuovi linguaggi:
“[…], fu lei a rivelarmi il bosco, il bosco più intricato e segreto. Mi rivelava i nomi di ogni cosa, alberi, arbusti, erbe, fiori, quadrupedi, rettili, uccelli, insetti… E appena li nominava, sembrava che da quel momento esistessero.”
(Le pietre di Pantalica, 1990, pag. 151)
Gioia, nella tua scrittura, era il dispiegarsi pieno e ricco del linguaggio e della sua policromia, gioia era il far risuonare tra le pagine l’eco di parole antiche ma vive, antidoto alla perdita di senso, allo svuotamento, all’oblìo:
“Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha rόso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia.”
(Retablo, 1990, pag.1 )

“ che Calasia ”.

Claudio Masetta Milone

foto di Gino Fabio

Ho letto “Le pietre di Pantalica” di Vincenzo Consolo

Che fu? Che fu? Che fu? Fu furia furente, furore che scorre e ricorre, follia che monta scema che trascorre, farandola frenetica, girandola che vortica, si sgrana nel suo cuore, si spiuma nell’ali di faville, si dissolve in scie di pluvia spenta di lapilli. Fu fu fu, fumo vaniscente…
Ho scoperto Vincenzo Consolo per via del Ritratto d’uomo o d’ignoto marinaio di Antonello da Messina, conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, dove sarei andato a trascorrere le mie vacanze siciliane. Sul ritratto si era soffermato Consolo pubblicando nel 1976 Il sorriso dell’ignoto marinaio, da molti considerato il suo capolavoro. E’ mio vezzo da sempre leggere in vacanza libri che riguardano il luogo dove mi trovo. Scoprire Consolo mi ha dato una grande opportunità. Cosi ho cominciato con Le Pietre di Pantalica, una raccolta di racconti pubblicata nel 1988. Pantalica in provincia di Siracusa, che conoscevo perché fino al 2003 vi si è disputato un trofeo ciclistico internazionale, è una necropoli rupestre formata da migliaia di grotte scavate fra il XIII e l’VIII secolo a.C.
I primi racconti sono frammenti per un possibile romanzo ambientato all’epoca dello sbarco degli americani in Sicilia. Si svolgono tra Gela, Licata e Mazzarino.
Guatarono sulla strada quella gran tartuca di ferro, quella cùbbula possente, quel bufone meccanico col cannone sulla testa che avanzava lasciando dietro una coda di fumo e polverazzo. Videro le stelle bianche stampate sopra i fianchi e la bandiera floscia in su la cima dell’asta sopra il parafango. Che è che non è, capirono finalmente che si trattava d’essi, dei Mericani...
Da subito dunque Consolo intriga per quel suo linguaggio che lo rende assai diverso, più diretto, rispetto a quello artificiosamente siculo di un Camilleri.
Nella Mazzarino invasa da inglesi e americani lo scrittore ci introduce un fotografo ungherese al seguito delle truppe, uno che odiava la guerra, lo schifo della guerra e lo schifo dei fascismi e delle dittature che provocano le guerre. Ecco che Consolo regala al lettore una figurina (da alcune pagine si è capito che si tratta di Robert Capa), sperando che il fotografo ungherese, saltato su una mina a Thai Binh, in Indocina, un pomeriggio di maggio del ’54, approvi dal suo cielo, col suo sguardo ironico, il mio gesto.
Consolo si sofferma sulla chiamata alle armi del dopo 8 settembre ’43, quando si cercò di ricostituire qualcosa che somigliasse a un italico esercito. Arrivano le prime cartoline precetto: Rocco Ansaldi, al centro, con lo zolfanello diede fuoco alla sua carta di precetto, e alzò in aria, per una punta, alta la fiamma. Tosto l’imitarono i fratelli; tutti l’imitarono di poi, e nella piazza, tra voci e sghignazzi, fu un ballo di fiamme, brevi come fuochi di paglia. Le cartoline rosa si fecero di cenere.
Nella Mazzarino di Consolo compaiono personaggi pittoreschi come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco Colajanni, il farmacista, che sul letto di morte si fece leggere il Decamerone. Il medico Giunta, don Turiddu Bartoli e don Peppino, Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione. E più di tutti piace la baronessa donna Elisa Accàttoli, elegante, ma d’una superbia tale e d’una prepotenza, e pardessù d’una sboccataggine, che pareva ci avesse sotto due cose come un uomo.
E’ proprio la Sicilia che volevo conoscere e che ho trovato in questo e altri scritti di Vincenzo Consolo che poi filosofeggia attraverso il personaggio di Vito Parlagreco (“Ma che siamo noi, che siamo?… formicole che s’ammazzan di travaglio… Il tempo passa, ammassa fango, sopra un gran frantumo d’ossa… E resta come segno della vita che s’è trascorsa, qualche fuso di pietra scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra… Un cimiterio resta, di pietre e ciaramìte mezzo a cui cresce, a ogni rispuntar di primavera, il giaggiolo, l’asfodèlo”).
Sono racconti che vanno letti con attenzione per assaporare tutto lo humour che lo avvicina a Pirandello e agli scrittori siciliani che lo hanno preceduto. In altre pagine ci parla di intellettuali siculi, Sciascia, Buttitta, Antonino Uccello, Lucio Piccolo e ci porta a spasso per la costa nord, tra Palermo e Messina, così scorrono Naso, San Fratello, Capo d’Orlando, Sant’Agata di Militello che è il suo paese di nascita. Entrano di diritto nella narrazione la poesia, il teatro, la storia, l’archeologia. Sempre critico verso la sua Sicilia, abbandonata ben presto per vivere e lavorare a Milano, Consolo scrive righe allucinanti su Palermo: Palermo è fetida, infetta. In questo luogo fervido, esala odore dolciastro di sangue e gelsomino, odore pungente di creolina e olio fritto. Ristagna sulla città, come un’enorme nuvola compatta, il fumo dei rifiuti sopra Bellolampo.
Sembrano frasi scritte oggi, a luglio 2016. Della sporcizia e fatiscenza di Palermo sono stato recente testimone. Purtroppo. Ma è possibile che lì nulla cambi mai? Aveva ragione Tancredi, il nipote del principe di Salina che gattopardescamente aveva detto “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Questa è la Sicilia ancora oggi. E c’entra – l’oggi – nel Memoriale di Basilio Archita, il racconto che narra di un mercantile su cui si sono imbarcati di nascosto dei clandestini africani: Il capitano confabulò con gli ufficiali; il secondo comunicò poi a tutti che avrebbero buttato i negri in mare. L’oggi, appunto.
E infine nel racconto Comiso Vincenzo Consolo lascia una sorta di testamento nei confronti della sua terra: Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato… Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto… Ma sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.

Riccardo Caldara
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Un filo d’erba al margine del feudo da ” La mia isola è Las Vegas “

Carmelo Battaglia
C
armine Battaglia

Un filo d’erba al margine del feudo

Via del Sole scende stretta tra il muro laterale del Pa­lazzo e una ringhiera di ferro sul dirupo. Era in ombra a quell’ora. Il sole batteva invece sulle pietre di via Muro­rotto e sul portale d’arenaria ricamata del Palazzo. La ringhiera di ferro di via del Sole era quella d’un terrazzo sospeso, navigante.

Il vecchio con lo scialle sporse nel vuoto il braccio e con l’indice a corno percorreva la linea ondulata che dise­gnavano nel cielo terso i monti tutti attorno, dalle spalle del paese fino al mare.

– Motta – diceva fermando il dito su un punto bian­castro lungo la costa dei monti. E poi – Pettineo, Castel­luzzo, Mistretta, San Mauro… – Posò lo sguardo sul mare, ripiegò il braccio, si tirò sulla spalla lo scialle scozzese che gli era scivolato. Stesi io il braccio nel vuoto oltre la rin­ghiera e indicai il mare. – Quelle macchie azzurre sono isole, Alicudi, Filicudi, Salina… Più in là c’è Napoli, il Con­tinente, Roma…

– Roma – ripeté il vecchio. Volse le spalle al mare e continuò a indicare le montagne, ora con un breve cenno del capo: – Cozzo San Pietro, Cozzo Favara, Fulla, Fo­ieri…

L’ulivo, fitto ai piedi dei monti, diradava, spariva verso l’alto. Poi vi erano costole nude, scapole, e qua e là ciuffi di sugheri, di castagni.

Il vecchio sedette sulla panchina di pietra e, la fac­cia tra due sbarre della ringhiera, appuntò gli occhi sullo spiazzo erboso sotto il dirupo. Ragazzi vi giocavano, tra pecore al pa­scolo, piccoli, appiattiti sul prato, silenziosi. Uccelli con larghe ali planavano sulla valle. La strada a serpentina, grigia di fango rappreso, partiva dalle prime case del paese, passava tra alberi d’eucalipto e d’acacia, circondava il prato, accostava una vasca d’acqua stagnante e finiva in un cancello di lamiera arrugginita. Il sole di questo primo pomeriggio era tutto ammassato nella tenera valle, su­scitava tremuli vapori.

Al di là del cancello, dentro, il cerchio del muro, nel tabuto fresco di vernice, era Carmelo Battaglia, il sin­da­calista di Tusa ammazzato su una trazzera, una mat­tina di marzo, con due colpi a lupara, e messo in ginoc­chioni, con la faccia per terra. La valle declinava dolce fino alla balza d’Alesa (le sue mura massicce, l’agorà, i cocci d’an­fora e le colonne spezzate affioranti tra gli ulivi, la bianca Demetra dal velo incollato sul ventre abbondante). In fondo, Tusa Marina, col suo castello sull’acqua sma­gliante e triangoli di vele sui merli.

Nel ventitrè ammazzarono il padre Battaglia, con colpi a lupara, su una trazzera, e gli riempirono la bocca di pietre e di fango. Il vecchio s’era tirato fin sulla nuca e gli orecchi lo scialle scozzese, aveva chiuso gli occhi e recli­nato il mento sul petto.

Il piano della Piazza era tagliato a rettangoli e tra­pe­zi di luce. La torre medievale, al centro, massiccia, qua­dra­ta, aveva due facce illuminate. Uccelli neri, con lieve fruscio, facevano la spola tra la Matrice e la torre. Via Pier delle Vigne si perdeva tra vecchie case. Via Matteotti, dall’ogiva dell’antica porta, scendeva ripida e larga verso le case nuove. Un vecchio cantava nella piazza, seduto al sole davanti alla porta della società Agricola. Un altro vec­chio stava immobile dall’altra parte; e altri tre dentro, nel vano interrato della società, immobili attorno a un piccolo tavolo su cui batteva il sole. Il vecchio sulla porta cantava con gli occhi in cielo e un sorriso sulle labbra. Cantava: – Al natio fulgente sol / qual destino ti furò –; e poi dac­capo: – Qual destino ti furò / al natio fulgente sol –; sempre avanti e indietro su quelle parole.

Un’automobile nera venne giù da via Alesina, attra­versò la Piazza e scese per via Matteotti. Vi era dentro un ufficiale dei Carabinieri con le stelle d’argento sulle spalle e altri signori col cappello. Il vecchio interruppe il suo can­to e poi riprese.

Via Alesina era tutta in ombra, stretta e lunga, tra alte case, dalla Piazza fino al Belvedere. I vicoli verticali erano assolati. Cespi di bàlico fiorito, viola e giallo, spun­tavano dalle crepe delle case e ficodindia da sopra i tetti. Da un balcone del vicolo penzolava la testa d’un asi­no, pensosa nel sole. Il municipio e la cooperativa Risve­glio Alesino. Sul portone del municipio era scolpito lo stem­ma della città: un grosso cane muscoloso sopra una torre, le zampe posteriori contratte, sul punto d’avven­tarsi, i denti scoperti (1860: «In più luoghi, come a Bronte, a Tusa e al­tro­ve, i Consigli municipali, costituiti dai Go­vernatori di­stret­tuali, erano composti di elementi della grossa borghe­sia o dell’aristocrazia di proprietari terrieri, avversi alle rivendicazioni contadine e ai fautori e capi del movimento per la divisione delle terre demaniali»).

Una giovane bellissima, dietro i vetri d’una piccola finestra, ricamava. Divenne viva, aprì la finestra, si sporse, allungò il braccio bianco e fece segno che dovevo ancora andare avanti e poi salire per il vicolo.

Bussai e venne ad aprire una donna in nero. Mi fece strada per uno stretto corridoio celeste che sbucava in una grande stanza celeste. È il celeste, abbagliante per le mo­sche, latte di calce mischiato con l’azolo. Sei donne tutte nere erano attorno alla ruota della conca: la figlia, la moglie, due sorelle e altre due parenti di Carmelo. Parlava la giovane figlia, il fazzoletto nero annodato sotto il mento e ancora il velo nero che le scendeva per le spalle, gestiva con le sue mani guantate di nero. La madre, accanto, non parlava perché muta, muta e paralitica. Solo gli occhi ave­va vivi.

– Sì, fece il soldato e, finita la guerra, venne a piedi da Trieste. Passò lo Stretto su una barca e, a Messina, pri­ma che attraccassero, si buttò in acqua per toccare prima la Sicilia, ma non sapeva nuotare. Il pescatore calabrese lo dovette afferrare per i capelli per salvarlo. Rideva molto quan­do raccontava questo. Diceva che allora, a vent’anni, era sventato come un caruso.

– Sempre l’ha avuta questa idea socialista, ma di più quando tornò dalla guerra. Diceva che i contadini, i bovari sono sempre state malebestie. Sempre a limosinare un palmo di terra o un po’ d’erba al limite del feudo. Ma non parlava molto in casa, aveva le parole giuste, contate. Questa di mia madre era una pena forte che portava in cuore: venti anni che è allogo, un male di nervi.

– Partiva alle quattro, alle cinque, secondo la sta­gio­ne, col mulo, per il feudo. A volte si restava là e si por­tava un poco di pasta e una boatta di salsina. Questa volta do­veva restarci per due giorni.

– Sì, voglio che si scopra al più presto l’assassino. Voglio conoscerlo. Voglio vedere in faccia questo che in­sulta i morti, che li mette in ginocchioni.

– No, neanche i vivi s’insultano. Ma di più i morti, specie se in vita sono stati sempre latini, diritti, cava­lieri.

La madre mugolò e cominciò a piangere. La figlia le prese le mani, se le portò sulle gambe e, tenendovi sopra le sue, si mise a cullargliele.

La stanza era piena di penombra. C’era solo la luce rossa di un lumino davanti alla fotografia di Carmelo ve­stito da soldato, sopra il comò. Le donne stavano tutte chiuse nei loro scialli e mute. Una prese la paletta di rame e rimestò la brace nella conca.

– Nessun desiderio, nessun progetto. L’unica sua idea era quella di aggiustare questa casa».

Il sole era tramontato e, all’uscita del paese, sopra un muretto della strada, erano seduti un prete grosso e un prete magro. Quello magro, scuro, era venuto da Cesarò per predicare il quaresimale. Quello grosso, chiaro, era del paese.

– Un uomo buono, benvoluto da tutti. Parlava po­co ma spartano. No, in chiesa mai. Ci andavo io a casa sua, una volta al mese, per confessare e comunicare la moglie. Poveretta, mi scriveva i peccati su un foglio di carta.

Passavano i contadini per la strada, tornavano a grup­pi dal lavoro, gli uomini sul mulo e le donne a piedi. – Vos­sia benedica – salutavano.

– Benedetto – rispondeva il prete.

– Tra loro, si ammazzano, tra loro bovari.

– Benedetto.

Le montagne là di fronte erano diventate viola, di un viola tenero sfumato.

Questi Nebrodi, alti di fronte al mare, sono di una bellezza impareggiabile. Ora, con le prime ombre della se­ra, si udivano per la campagna ringhiare e abbaiare i primi cani: quei cani orbi, bastardi, che si avventano feroci non appena li sfiora l’odore della carne d’un cristiano.

[i] «L’Ora», 16 aprile 1966, p. 6. Stesso testo, col titolo: Per un po’ d’erba al limite del feudo, in L. Sciascia e S. Gu­gliel­mino (a cura di), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, pp. 429-434. Il testo del 1966 è ripreso tal quale – sotto forma di «Prima appendice del curatore», con fonte: L’Ora, 16 aprile 1966 (p. 6), autore: Vincenzo Consolo, occhiello e titolo: Tra cronaca e racconto un giorno a Tusa. Un filo d’erba ai margini del feudo, sottotitoletti redazionali in­fram­mezzati: Il tabuto fre­sco di vernice, Sei donne tutte nere – in Mario Ovaz­za, Il caso Battaglia. Pascoli e mafia sui Nebrodi, a cura di Fernando Cia­ramitaro, Palermo: Centro Studi e iniziative culturali Pio La Torre, 2008, pp. 124-126 [cfr. il precedente M. Ovazza, La mafia dei Nebrodi. Il caso Battaglia, a cura di Maurizio Rizza, Palermo: La Zisa, 1993].

” Ratumemi ” Vincenzo Consolo e Filippo Siciliano

“Filippo Siciliano ha preso parte alle lotte contadine in Sicilia per
l’occupazione delle terre incolte:

“…da sopra un masso che affiorava nel punto più eminente, le mani a
imbuto sulla bocca, così Filippo parlò: La terra a chi lavora! Questa terra
incolta è terra nostra”

Filippo era un giovane universitario.
Ora,  dopo una lunga vita operosa, senza mai tradire i suoi ideali di
giustizia e libertà, manda a tutti noi questo messaggio.

Caterina Consolo


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Ratumemi

I
Nuvole nere vagavano nel cielo, dense come sbuffi di comignolo,
da levante correvano a ponente, e nel loro squarciarsi e dilatarsi,
rivelavano occhi azzurri e cristallini, lunghi raggi del sole
che sorgeva, stecche incandescenti d’un ventaglio, giù dal fondo
del Corso, dal quartiere Màzzaro, dal Borgo, d’in sul triangolo
del timpano della chiesa gialla di Santa Lucia.
Il largo del mercato era affollato, d’asini muli giumente leardi,
luccicanti di specchietti, sgargianti di fettucce nappe piume,
scroscianti di campanelle e di cianciàne. E cristiani erano a cavallo,
a terra, aste di bandiere nelle mani, trùsce e cofìni pieni
di mangiare, ridenti nelle facce azzurre rasate quel mattino.
Aspettavano, gli occhi puntati sulla porta della Casa, l’uscita
dei capi dirigenti.
Dai balconi dei palazzi prospicienti lo spiazzo, detto in altro
modo l’Arenazzo (luogo di sosta de’ carrettieri venuti da Butèra,
Riesi o Terranova, sfregatoio di bestie a zampe in aria, riposo
dentro il fondaco, tanfo di corno arso per la ferratura nella
forgia, cardi bolliti e bicchier di vino dentro la potìa), dai
balconi del palazzo Accardi e del palazzo Alberti, dalla farmacia
Colajanni, financo dalla canonica di San Rocco, guardavano
a questo assembramento di villani, a questo cominciamento
di processione, a questa festa nuova, fuori d’ogni usanza e
d’ogni calendario.
E nel vocìo sommesso, nel mormorio di saluti e di discorsi,
nello stridere del ferro di zoccoli e di chiodi, nel tintinnìo di
campanelle, nel fumo di trinciati e toscanelli, trillarono i banjo, i
mandolini infiocchettati de’ barbieri che, lustri più di tutti nelle
facce, nelle lune e nei capelli, con le loro dita magre dall’unghie
coltivate attaccarono a suonare l’Internazionale. E subito Bandiera
rossa, l’Inno di Garibaldi e di Mameli. Staccarono dalle corde le
stecche a cuore di celluloide quando s’aprì la porta della Casa
del Popolo e uscirono La Marca, Cardamòne, Siciliano, Pirrone
e altri ancora, che traversarono tutto lo spiazzo, si portarono
in testa, verso l’imbocco della via Bivona, e salirono in groppa
alle bestie. Guardinghi, ché non tutti avevan confidenza con gli
animali, questi giovani mazzarinesi usciti dalla guerra, ch’avevanù
studiato, ma studiato, contro i libri di carta e di parole della
scuola, sopr’altri libri, e di più con passione sopra il libro del
paese, in cui avevan letto chiaramente la lunga offesa, la storica
angheria, la prepotenza dei baroni. Eredi ma diversi d’altri precedenti.
Come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava
al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco
Colajanni, il farmacista, ateo inveterato, che sul letto di morte,
la figlia terziaria e le monache assistenti esulcerate, volle da leggere
il suo Decamerone. O come il medico Giunta, che andando
sul Corso per le visite, alzando gli occhi ai balconi dei palazzi,
sputava e imprecava: «Ah porci, ah baroni!».
Questi giovani ch’avevan determinato il successo del Blocco
del Popolo alle elezioni, e che ostentatamente, dopo la vittoria,
uno accanto all’altro, ostruendo la strada, andavano avanti e
indietro lungo il Corso per dispetto agli avversari. «Una sventagliata
di mitra, ecco quel che ci vorrebbe! Guardateli!… Proprio
ora che sono a tiro tutti quanti… Ta-ta-tatà e, in un attimo,
ci si potrebbe liberare di questi scalzacani» vociava don Turiddu
Bàrtoli da sopra il suo balcone coi campieri schierati alle sue
spalle. In testa, angelo custode, mignatta e protettore, don Peppino,
Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione, compare
dello Scebba, altro capo di Butèra.
Quando tutti furono assettati sopra le cavalcature, il trombettiere
della cooperativa “L’Agricoltore” suonò il motivo della
sveglia, come da soldato. Il La Marca, da sopra il suo cavallo,
si girò verso la folla, alzò il braccio e urlò:
«Avanti!»
E tutti mossero, in un corteo festoso e vociante, coi barbieri
che attaccarono a suonare la marcia d’Orsomando, il maestro
della banda.
Mossero per via Bivona e Castelvecchio, su per la mulattiera
al bordo della vallata del Canale, lasciarono le ultime case sul
poggio Immacolata, arrivarono all’eremo di San Corrado, già
convento dei padri Carmelitani e lazzaretto in tempo di colera
e di vaiolo arabo, ma luogo di sepoltura anche di morti impenitenti
e di morti per morte di coltello o di lupara. Furono subito
sotto le mura e la torre superstite dell’antico castello dei Branciforti,
Carafa e Santapau, principi di Butèra, della Roccella e
del Sacro Impero, conti di Mazzarino e di Grassuliato, eccetera
eccetera. Castello, mura e torri così eminenti in cima a questo
poggio sulle falde del monte Diliàno, evidente d’ogni luogo e
d’ogni parte, tutti, che in quel momento vi passavano di sotto,
avevano negli occhi, la fantasia e la memoria, fin dalla nascita,
come una cosa che minaccia, di legatura o magarìa, di maledizione
antica. “Sempre ce lo portiamo appresso questo peso del
castello” diceva dentro di sé il La Marca. E capiva, capiva que’
due operai della diga che un giorno, alla vigilia delle elezioni,
erano andati da lui col tritolo dicendo che volevano far saltare
Castelvecchio. «Ma siete pazzi?!» li apostrofò La Marca.
Ma ora anche Totò pensò a un gesto, a qualcosa che servisse
a vincere la figura, come fosse la torre degli scacchi.
«Oh,» gridò verso i compagni «chi è tanto valente da piantare
sopra la torre una bandiera?»
«Jeu!»
«Jeu!»
E si fecero avanti due giannetti.
Presa una bandiera, corsero su pel montarozzo, tra le troffe
di disa e di rovetto, sparirono dietro la quinta del muro diruto
del castello. Riapparvero subito in cima a quella torre, tra due
merli, e infilarono in un pertugio l’asta della bandiera rossa, che
si sciolse e si mise a svolazzare.
Oltrepassarono il poggio Gambellina, il monte Caruso, si
buttarono nella piana Sanghez, raggiunsero la valle di Braèmi.
Superata questa, giunsero a Ratumemi ch’era già passato
mezzogiorno.
Sullo spiazzo d’erbe da cui affioravano rocce come groppe
d’animali della grande masseria di don Ercole.
Un muro alto, con buche per le canne del fucile, cocci di bottiglia
sopra lo spiovente, la circondava tutta.
Oltre il muro, oltre il portone sprangato, spuntava la chioma
d’un carrubo, si vedevano le inferriate davanti alle finestre, la
loggia in alto con colonne di pietra e archi di mattoni. Sembrava
tutto chiuso, deserto, silenzioso. Ma dalle stalle si levavano
i muggiti delle vacche. E nitriti da dentro il baglio, abbaiar di
cani, tubare di colombi dai buchi della muratura.
Si sparpagliarono sopra l’altopiano, legarono gli animali alle
boccole di ferro infisse al muro, scaricarono la roba da mangiare.
Fecero tannùre con le pietre, accesero frasche e legna, formarono
la brace, arrostirono sopra le gratiglie le sosizze, costole e
stigliole d’agnello e di maiale.
Fumi grassi si levarono da tutta la spianata nell’aria stagna
di dopo la caduta della brezza, in quella calma sopraggiunta di
meriggio, compatti e netti come tronchi. Che in alto sbocciavano,
s’aprivano in onde, in rami, s’univano tra loro per le cime
a formare una volta, un cielo di promesse saporite e sazianti.
Zi’ Ciccio Arcadipane, due palme d’uomo, era dei cucinieri
il più sapiente. Rivoltava con le mani rocchi e tocchi che colavano
di grasso, spargeva sale, pepe, finocchio, rosmarino. E nel
mentre lavorava, sentiva quel bruciore in fondo alle ganasce, il
riempirsi la bocca di saliva come ogni volta ch’aspettava di mangiare
e c’era qualcosa che molto l’appetiva.
Così tutti i compagni del suo gruppo: Vito Parlagreco, ch’era
magro, ma capace di mangiarsi per scommessa una madia di
pasta con il sugo; Turi Trubbìa, Santo Brucculèri, Croce Vitale
e Petro Grassiccia, un omone alto, rosso nella faccia, la panza
prominente.
Stavano torno torno alla tannùra, fumavano e nasavano con
certe facce lunghe e occhi a bramosìa.
Così Rocco Grassiccia, un bambinello d’appena cinque anni,
che sembrava partorito là per là, sorto all’istante dalla panza
di suo padre. Ché del padre era la copia: faccia tonda e rossa,
gran capelli biondi e occhi chiari affossati sopra le gote. Gli stava
sempre accanto e ne imitava movenze e positure, mani in tasca,
braccia conserte, dita intrecciate dietro la schiena. Ma per
il padre era come non ci fosse, tant’era abituato ad averlo sempre
appresso, sul lavoro e fuori, la domenica in piazza, come
un’ombra rimpicciolita del suo corpo.
E quando fu il momento di mangiare, Roccuzzo, come gli altri,
s’appressò alla gratiglia, afferrò il suo pezzo di carne fumante
e si mise a strappare coi denti di lupotto. Poi qualcuno gli porse
pure il bombolo del vino, ch’egli, serio, afferrò e portò alla
bocca tenendolo in alto come una tromba. Il padre glielo tolse.
«Ma levati di qua! Ma guarda ’sto delinquente!» gli fece. Tutti
sbuffarono in una gran risata. Rocco s’offese, s’alzò e se n’andò
presso la sua bestia, s’accovacciò con gli occhi umidi di pianto
contro il muro. Scagliò a terra per dispetto un osso che gli era
rimasto nella mano. Subito un cirneco, randagio o venuto dal
paese appresso a qualche mulo, fu lesto ad afferrarlo e a correre
lontano. Zi’ Ciccio Arcadipane andò per riportarlo nella comitiva,
ma Rocco fece no, no, testardo.
Dopo, molto dopo, tornò in mezzo agli altri, ch’erano sazi e
avevano bevuto. E più di tutti Petro Grassiccia, la cui faccia per
natura rossa s’era fatta colore sanguinaccio. Sfotteva Arcadipane
per via delle quattro figlie femmine. Zi’ Ciccio rispondeva
che a fare femmine ci voleva più potenza, prova ne è che campano
più a lungo. Ma ribatteva l’altro che l’uomo si consuma
nel travaglio e ancor di più in quel travaglio dolce ch’è il pestare
senza posa col battaglio. E lei che fa, ah?, sta là a pancia
all’aria e non si sforza.
«Non si sforza? Non si sforza?» sbottò Arcadipane. «Ma tu
allora di quella cosa non hai capito niente!»
O cefaglione, cefaglione, o palma e giglio, o fiore di giummàrra!
Tutti risero, ma accortosi zi’ Ciccio di Roccuzzo, ch’ascoltava
attentissimo e voleva che vincesse suo padre in quella disputa,
disse ch’era ora di finirla, basta. E si mise mormorando a disporre
ancora carne sulla brace. Nell’attesa, il bombolo del vino
ripassava per le bocche.
Anche dagli altri gruppi, prossimi, lontani, le colonne di fumo
continuavano a salire; giungevano voci, risate, motti di complimento
e di sfottò. E le musiche ogni tanto, sommesse o accennate,
dei barbieri.
Grassiccia, già ubriaco, s’era attaccato a Vito Parlagreco, un braccio
sopra la sua spalla, e gli offriva mangiare, bere, chiamandolo
compare, baciandolo ogni tanto sulle guance.
«Mangiate,» gli diceva «bevete! Siete così afflitto!»
Vito, col suo aspetto magro d’affamato, era quello invece che
aveva divorato più di tutti.
Roccuzzo li guardava, e vedendo che suo padre pensava a
nutrire il suo compare, correva alla gratiglia, afferrava tocchi e:
«Pa’, o pa’,» faceva «tieni.»
E Petro offriva la carne a Vito. Che, sazio, per secondare l’altro,
faceva finta d’azzannare e subito la passava a Trubbìa o Brucculèri. Parimenti faceva col bombolo del vino.
Sfatti, si distesero lunghi, i gomiti a puntello sopra l’erba. E
fu come s’ognuno ritornasse solo, solo coi suoi pensieri, i suoi
affanni. Lo sguardo perso per quella nuda piana, a cui succedevano
colline, appena verdeggianti per gli spruzzi di pioggia
dell’ottobre in corso, o bianche e aspre, fortezze alte e puntute
di calcare. Vedevano da una parte un lembo col castello del paese, e giù la Piana, e la Montagna, e poi in giro, in quell’infinito che smarriva, in direzione di Riesi o Barrafranca, i feudi di Contessa, Mastra, Mercatante. E niuno d’essi, niuno, spersi tutti, affogati in quello spazio di dimenticanza, sotto quel cielo fermo, niuno s’era accorto che da sopra il muro bianco
della masseria, sopra i vetri di bottiglia, da dietro le finestre inferriate, sotto gli archi della loggia in alto, erano sbucati baschi neri e colorati sopra facce impassibili, occhi che scrutavano, nasi e bocche che fumavano. Che sulla loggia, sotto l’arco di centro, erano don Ercole in paglietta, Peppuzzo Bàrtoli
suo figlio e don Peppino Falzone il mafioso, attorniati d’altri che immobili guardavano quell’assembramento di villani sopra Ratumemi.
«Pa’, o pa’,» fece Roccuzzo scuotendo il padre per la punta del gilè «guarda, là.» Ma Petro non si scosse, rimase con gli occhi semichiusi e a fiatare col suo fiato grosso. Si scosse invece e saltò su zi’ Ciccio Arcadipane, guardò la
scena della masseria, guardò i galantuomini e rimase sospeso, come un allocco. Lo smosse, lo risvegliò Totò La Marca, che, sopraggiunto, gli diede ’na manata e cominciò a gridare: «Zi’ Ciccio, forza! Oh, voialtri, al lavoro! Basta col riposo. Siamo venuti qua a lavorare. Forza!» E gridando guardava a sfida su verso la loggia. Poi i suoi occhi caddero sul figlio di Grassiccia, su Roccuzzo: gli s’accostò, gli posò la mano sopra la lana arruffata della testa.
«E ’sto caruso,» chiese «a chi appartiene?» «È mio!» rispose il Grassiccia con orgoglio. «Deve tornarsene subito in paese, coi barbieri.» E rivoltosi a Rocco: «Te ne torni da tua madre. Tuo padre resta qua». Rocco, serio, fece sì con la testa. Totò gli sorrise e se ne andò. In uno con La Marca, s’erano mossi e sparsi, correndo per ogni direzione di quel piano, gli altri capi, vociando ai gruppi, ordinando di procedere svelti ai travagli. Andarono allora tutti verso le bestie, slegarono dai basti zappe picconi badili, aggiogarono i muli agli aratri. Si formarono le squadre, si segnarono confini con le pietre in quel feudo vasto, a schiere si disposero con gli attrezzi in mano. E Filippo Siciliano, da sopra un masso ch’affiorava nel punto più eminente, le mani a imbuto sulla bocca, così parlò: «La terra a chi lavora! Questa terra incolta è terra nostra. Da qui non ce n’andremo. Qui faremo le trincee.,. Al lavoro, compagni, al lavoro!» Si levò un urlo da tutta la spianata. Poi, dopo il suono della tromba, tutti si chinarono e cominciarono a colpire quella terra. S’alzò davanti a ogni schiera, ai raggi del sole che inclinava ormai verso le zolfare, verso il Salso e Gallitano, un polverone,
che subito avvolse e nascose i lavoranti.

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da Le pietre di Pantalica
Vincenzo Consolo
Oscar Mondadori

Il barone magico , Vincenzo Consolo

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Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo

Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia “Progresso”. Entra, seguito dall’autista don Peppino. «Ecco qua» dice Piccolo. «Queste sono le poesie» e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri (vecchi libri che scovavo qua e là sulle bancarelle), ne lesse i titoli: Almanacco perpetuo di Rutilio Benincasa, Guida del monte Pellegrino, Patti e la storia del suo vescovado. Rise, guardò me, s’accorse che ero come contrariato, e si scusò. «Gli almanacchi, le guide, le storie locali, ah, sono pieni d’insospettabile poesia. Senta quest’attacco» aggiunse, aprendo la Guida del monte Pellegrino alla prima pagina; e si mise a leggere, con quella sua voce chiara: «Quando, mio caro lettore, ti trovi in quella grande pianura, alla quale i moderni diedero il nome di piazza del Campo, e che comunemente, da antichissimo tempo, si chiama Falde, gira lo sguardo a te attorno, e per quanto la tua vista si estende, di fronte, fino alle grandi prigioni, ed a sinistra fino al mare…». (Avrei ritrovato poi lo stesso attacco, la stessa cadenza, in Guida per salire al monte, inclusa in Plumelia: «Così prendi il cammino del monte: quando non / sia giornata che tiri tramontana ai naviganti, / ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola / e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento…».) Ero rimasto lì incantato, quando Lucio Piccolo sorrise ancora, mi tese la mano e: «Ho un’intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa» e sparì con Don Peppino dietro.
Venne stampato quel libretto che fu inviato a Montale per il premio San Pellegrino. E quando Mondadori pubblicò i Canti barocchi con quella prefazione di Montale che diceva: «Il libricino, intitolato: 9 liriche, stampato da una sola parte del foglio e impresso in caratteri frusti e poco leggibili, non aveva dedica ma conteneva una lettera d’accompagnamento. Proveniente da Capo d’Orlando (Messina), i tipi erano quelli dello stabilimento “Progresso”, quel «caratteri frusti e poco leggibili» fu un affronto per Don Ciccino Zuccarello. «Io lo denunzio questo Pontale, lo denunzio!» si mise a urlare.
Alla casa dei Piccolo si arrivava per una ripida stra­detta a giravolte, bordata di piante, iris, ortensie, che fi­niva in un grande spiazzo dove era la porta d’ingresso su una breve rampa di scale. Oltrepassata questa, ci si tro­vava subito nell’unica sala che per tanti anni conobbi. Era una grande sala dalle pareti nude, senza intonaco, e il pavimento di cotto. Sulla destra, vicino a una finestra, tre poltrone di broccato e velluto controtagliato dai braccioli consumati attorno a un tavolinetto. Al muro, un monetario siciliano di ebano e avorio; più in là, un grande tavolo quadrangolare con le gambe a viticchio e con sopra panciuti vasi Ming blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina, draghi, galli e galline di Jacobpetit. Di fronte, sulla sinistra, una grande vetrina con dentro preziose ceramiche ispano-sicule, di Deruta, di Faenza. Negli angoli, colonne con sopra mezzibusti di antenati. Sopra le porte che si aprivano verso il resto della casa, medaglioni del. Màlvica, basso­rilievi in terracotta incorniciati da festoni di fiori e di frutta a imitazione dei Della Robbia. E ancora, per tut­te le pareti, ritratti a olio di antenati o quadretti a rica­mo o fatti delle monache coi fili di capelli. Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta, che sede­va con le spalle alla finestra sempre chiusa, anche d’e­state (la luce filtrava fioca nella sala attraverso le liste della persiana). Lì, due, tre volte la settimana si faceva « conversazione», ch’era un lungo monologo di quel­l’uomo che «aveva letto tous les livres», come scrisse Montale, ch’era un pozzo di conoscenza, di memoria, di sottigliezza, di ironia. Le interruzioni erano solo quan­do nella stanza irrompeva Puck, la sua cagnetta, un grifoncino di Bruxelles, brutta e spelacchiata, ringhiosa. «Vieni qua, vieni qua dal tuo padrone, scimmietta, co­sa vuoi, ah, cosa vuoi?» la vezzeggiava facendosela saltare sulle gambe. O quando a tin certo punto entrava Rosa, la cameriera, col vassoio del caffè o delle granite. Ogni tanto appariva anche il fratello, il barone Casimi­ro, bello fresco rasato ed elegante come dovesse uscire per qualche festa. Era invece, come mi rivelò una volta in gran confidenza, ch’egli dormiva di giorno e vegliava di notte, e nel tardo pomeriggio, quando s’alzava, faceva toilette perché più tardi sarebbe cominciata la sua grande avventura dell’attesa notturna delle apparenze, delle materializzazioni degli spiriti. Il barone era un cul­tore di metapsichica e studiava trattati e leggeva riviste come «Luci e ombre». Mi spiegò una sua teoria sulle materializzazioni, non solo di uomini, ma anche di cani., di gatti, mi disse che a quelle presenze, per lo sforzo nel materializzarsi, veniva una gran sete ed era per questo che per tutta la casa, negli angoli, sotto i tavoli, faceva disporre ciotole piene d’acqua.
Di tanto in tanto arrivavano a villa Vina (Vena, in ita­liano: vena d’acqua, vena poetica?) in visita i «conti­nentali». Arrivò Piovene, Quasimodo, la Cederna e tanti e tanti altri, letterati e giornalisti.
L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una do­menica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano. Sciascia arrivò da Cal­tanissetta al mio paese e assieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali».
Avevo deciso di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Milano. «Non parta, non vada via » mi diceva Piccolo. «A Milano, con tutti gli altri, rischia di annullarsi. La lontananza, l’isolamento danno piùn fascino, suscitano interesse e curiosità». Non potevo rispondergli che non ero ricco, che dovevo guadagnarmi la vita. Non potevo dirgli, soprattutto, che lì in Sicilia mi sembrava tutto fi­nito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia.
Partii in gennaio. Quando tornai, in estate, andai an­cora a trovare Piccolo. «Cosa dicono di me a Milano, co­sa dicono?» mi chiese subito. Niente, non dicevano nien­te. Piccolo, dopo la curiosità suscitata al suo esordio, e dopo essere stato trascinato nel ciclone del Gattopardo, era bell’e dimenticato: altri miti, altre scoperte andava fabbricando per più rapidi consumi l’industria culturale.
Lo vidi l’ultima volta un anno dopo. Trascrivo da un mio diario: «Entro in casa Piccolo a Capo d’Orlando nel momento in cui la televisione trasmette l’arrivo sulla Terra dell’Apollo 8. Il fratello del poeta mi chiama e mi fa accomodare davanti al televisore. Il poeta non viene. È sera. Nelle grandi, stanze della villa, poche e fioche lu­ci negli angoli e la luce lattiginosa del video sulle nostre facce. Fuori, il vento e la pioggia sferzano le campagne. Il fragore delle onde penetra la casa attraverso le persia­ne. Di quel mare di Capo d’Orlando che qualche giorno prima ha devastato il litorale. Vicina, la fiumara di Zap­pulla in piena trascina macigni, sbatte contro i piloni del ponte della ferrovia già incrinato. I treni che giungono dal Continente carichi di emigrati si fermano e quindi attraversano il ponte lentissimamente. La voce dello speaker alla televisione, man mano che passano i minuti, è sempre più forte, ansiosa, concitata. Piccolo è sprofon­dato nella poltrona, silenzioso e immobile, in un’altra stanza piena di penombra. Non ha visto gli astronauti fi­nalmente giunti a bordo dello Yorktown, non ha sentito la voce di Frank Borman che saluta il mondo. Lo rag­giungo. “Per la Teoria delle ombre” , mi dice “la mia prossima raccolta, ho preso spunto dagli studi di pro­spettiva che ho fatto nella mia giovinezza…”».
Una mattino di maggio mi trovavo in assemblea nel­l’azienda dove lavoravo. Era un’assemblea accesa, con­citata, tumultuosa: c’era in ballo il rinnovo del contrat­to di lavoro. I sindacalisti litigavano con quelli del Cub, il comitato unitario di base. Fu lì che mi vennero a chiamare e mi dissero di telefonare in Sicilia. Così appresi della morte di Lucio Piccolo, ch’era avvenuta durante la notte. Provai dolore, ma dolore anche per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne an­davano. Mi tornavano in mente i suoi versi, e questi so­prattutto: «…spento il rigore dei versetti a poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco». Ma i versi, gli infiammati versi di Piccolo, tornato in assemblea, furono fugati, sopraffatti dalle voci, dalle grida, da quel linguaggio per me in­comprensibile.

***

Lo sentivo sempre favoleggiare d’una Naso Illustrata per Carlo Incudine, in cui gran parte aveva il santo me­dievale Conone Navacita. Mi bastavano allora quei tre nomi, Naso, Incudine, Conone, disposti su tre piani, in una luce d’oro sospesa di meriggio mediterraneo, per restare rapito a contemplare un sibillino quadro surrea­le. Mi favoleggiava del libro Lucio Piccolo, e di grandi che per quelle contrade eran passati lasciando impron­te, segni poetici e regali. Come Ruggero il Normanno che, dopo vittoriosa battaglia contro i saraceni, lascia per voto al convento di Fragalà il suo stendardo. O Fe­derico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi («biondo era e bello e di gentile aspetto »). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?». Ironizzava poi su quel santo dal geometrico nome, Cono, Conone, la cui particolarità era quella di restar sempre in estasi sospeso (si può immaginare un santo più metafisico?) o su un altro secentesco, frate Perlongo, fatto beato per l’avversione dimostrata in tut­ta la sua vita verso le donne, al punto che da bambino si rifiutava di baciare la madre per non commettere pec­cato. E sorrideva Piccolo, sorrideva malizioso, scher­mendo le labbra con quel suo gesto di portarsi il polli­ce sotto il naso e carezzarsi i baffi.
Quel libro introvabile mi restò per molti anni miste­rioso, come quell’imprecisato Libro del Cinquecento da cui traevano divinazioni, profezie i maghi e le maghe di queste parti. Fino a quando il neoproduttivismo e la tec­nologia non m’hanno portato finalmente tra le mani la ristampa anastatica del libro. E vi ho letto allora ch’era Naso una città fondata da popolazioni greche venute da Naxos e chiamata Naxida, da cui Naso, che quindi niente aveva a che fare con l’organo che sta al centro del volto, rincagnato o ciranesco. Che fu poi, quella città, dal medioevo fino al ’700 dominio di conti. Dei quali l’ultimo, e più dispotico, un certo Sandoval, spodestato, per amor di giustizia, da un barone Piccolo. Così l’In­cudine: «Ed ecco tin bel dì fars’innanzi un giovane: ve­stiva un mantello azzurro alla spagnola, calzone nero stretto a ginocchio da sfarzose frange di argento, cotur­ni dalle fibbie d’oro, e toccava i ventiquattro anni.
Ricchezze godea di poderi estesissimi, perocché con l’ala dell’occhio, meno poche interruzioni, ci poteva domi­nare liberamente quasi dal Timeto al Fitalia, il più bel tratto dell’agro nassense, dicendo: è mio! Nobili i nata­li e per le armi e per scienza di leggi, allegoricamente si­gnificati con araldica bizzarria dallo stemma di famiglia; nobilissime le tradizioni. Egli era Gaetano Piccolo». Un antenato di Lucio Piccolo di Calanovella. E tra il Time-to e il Fitalia, nel più bel tratto dell’agro nassense, v’era, di proprietà dei Piccolo, Capo d’Orlando, il paese e il territorio sulla costa tirrenica della Sicilia. Su una pianura di fitti limoni, un cupo tappeto verde trapuntato di frutti d’oro, sovrastato dalle snelle, altissime palme con la cascata a fontana del fogliame, scandito dai filari di cipressi spartivento. In mezzo, invisibili, le casupole d’a­renaria e calce dei contadini. Una pianura stretta tra i colli, folti d’ulivi grigioargento, e il mare. Di fronte, gal­leggianti sulla linea dell’orizzonte, le isole Eolie. Nei giorni in cui il vento fuga i veli dei vapori, si scorgono le casette bianche di Lipari e Salina, il faro di Vulcano.
Il paese è adagiato sotto il promontorio, il Capo, un perfetto cono a picco sopra il mare, un ammasso d’are­naria sopra cui crescono, a macchia, il ficodindia, il len­tischio, l’acanto, il selino, l’euforbia, il cappero. In cima al Capo, i ruderi d’un castello e un santuario della Ma­donna dei pescatori pieno d’ancore, timoni, ex-voto di caicchi, gozzi, velieri in balìa di fortunali. Il Capo pren­de il nome da Orlando, il più «furioso » dei paladini di Carlo Magno. Doppiato il Capo, v’è la cala di San Gregorio, il villaggio dove di notte sbarcavano i pirati, «Terrore a la riva: la furia dei ratti trae fra gli strilli la gonna come bandiera / e il corsaro dagli occhi di nera porcellana, / da la barba serpentine: / la scimitarra stride con l’arma paesana… ».
Qui abitava zia Genoveffa, la vecchia fattucchiera the tagliava col coltello dal manico bianco le trombe marine, toglieva il malocchio con fumigazioni di ramet­ti d’alloro, erica, rosmarino. Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena, Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai pri­mordi, alle origini della civiltà. Ma qui s’intrecciano an­cora e si confondono mito e storia, natura e civilizzazio­ne, poesia e realtà, simboli e metafore, vita e morte: qui gli uomini venivano sepolti dentro giaroni di terracotta, accovacciati in posizione fetale, come dentro l’utero materno.
Sopra un poggio che domina la pianura di Capo d’Orlando, il Tìndari e Cefalù ai due poli dell’orizzon­te, era la villa dei baroni Piccolo di Calanovella. Erano tornati nel 1930 su queste loro terre. Il padre era fuggi­to con una ballerina, se n’era andato a vivere a San Re­mo. La moglie, una principessa Tasca Filangeri di Cutò, sorella della madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, offesa nel suo orgoglio, aveva detto addio alla vita mon­dana di Palermo, dominata allora dai Florio, alle estati al castello di Santa Margherita Belice, la Donnafugata de Il Gattopardo, e s’era ritirata qui, coi suoi tre figli, Casimiro, Lucio e Giovanna, in esilio volontario, impo­nendo a sé stessa e ai figli, una vita austera, monacale.
Morta la madre, i tre fratelli, quasi ubbidendo a un segreto patto, a un giuramento, continuano fino alla morte la loro vita solitaria. In questa villa bianca, tra palme, pini, glicini, buganvillee, stipata di mobili, arazzi, porcellane antiche, lontani dal mondo, distaccati d’ogni preoccupazione d’ordine pratico (pensavano i tre ammi­nistratori alla conduzione delle terre; l’autista, il cuoco, le cameriere a quella della casa). Uniche frequentazioni, qualche amico o parente che ogni tanto veniva dalla Ca­pitale a fare visita. Più frequente quella di Tomasi di Lampedusa che qui a lunghi periodi soggiornava, e qui aveva concepito e scritto gran parte del suo romanzo (il nome dato a don Fabrizio, lo prende senz’altro dall’isola che ogni mattino si vedeva apparire di fronte, celeste e trasparente all’orizzonte, affacciandosi al ter­razzo-giardino pieno di piante esotiche, di ninfee galleg­gianti nelle vasche).
I tre fratelli, in questo buon ritiro, coltivavano le lo­ro segrete passioni. Calsimiro il primogenito, l’occulti­smo, la fotografia e la pittura. La baronessa Giovanna la passione della floricultura. Sperimentava innesti, inse­minazioni inusitati. Coltivava ortensie, iris, orchidee. Ma il suo orgoglio era l’aver fatto attecchire qui, in que­sta sua terra, una delicata e rara pianta tropicale, la puja, che dava un fiore blu come di porcellana, un fiore mallarmeano. Lucio, terzogenito, aveva la passione della letteratura, della poesia. Aveva fin da giovane scritto, scritto e distrutto. Finché non compose i Canti barocchi, in uno stato di incandescenza, di raptus, e non decise d’esporsi, di pubblicare: a cinquantadue anni. Fece stampare un piccolissimo libretto, dal titolo 9 liriche.
Liriche purissime, singolari, inedite nel panorama italiano, in cui convergevano tutta l’esperienza poetica europea vecchia e nuova. Una poesia dove vi è la natu­ra dolce e panica, misteriosa, concreta ma mutevole della campagna di Capo d’Orlando; dove vi sono le chiese barocche, gli oratori, i vecchi conventi, e le «anime ade­guate a questi luoghi», della Palermo della sua infanzia­-adolescenza; le passate stagioni, i trapassati che ritorna­no, in amorosa evocazione, in notturna processione, in febbrile ansia, in struggente flusso di memoria.
Lo frequentai per tanti anni, fino a quando non deci­si di lasciare la Sicilia. Ma ogni volta che ritornavo nel­l’Isola, non mancavo d’andare a trovare il poeta. Fu in uno di questi ritorni che insieme scendemmo dalla villa per andare in paese, a Capo d’Orlando. Da lì, alla cala di San Gregorio. Era una giornata d’aprile, chiara, cri­stallina. Al villaggio ci venne incontro zia Genoveffa, la maga delle trombe marine e dei fumi di rametti aroma­tici. «Bacio le mani, barone» salutò la vecchia. Piccolo si staccò da me e le andò incontro. Vicini, si parlarono.
Il sole calava verso le Eolie, il mare era fermo.
«I giorni della luce fragile, i giorni / che restarono presi ad uno scrollo / fresco di rami… / oh non li ri­chiamare, non li muovere, / anche il soffio più timido è violenza / che li frastorna… ».

ITALY,Sicily, Capo d'Orlando: The italian Poet Lucio PICCOLO. (c) Ferdinando Scianna/Magnum Photos

Vincenzo Consolo, Il barone magico
Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988

I contadini di Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

Il prossimo 20 aprile ricorre il 67° anniversario della vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali siciliane del 20 aprile 1947, quando comunisti e socialisti, assieme ad altre forze laiche e cattoliche raggiunsero la maggioranza relativa nelle prime elezioni regionali svoltesi in Sicilia. Fu la prima e l’unica volta che la sinistra nel suo insieme si candidò a dirigere la politica regionale, ottenendo il successo desiderato. Ma allora il pane si chiamava pane e le parole non avevano perduto il loro significato. I fatti sono ormai noti. La strage di Portella della Ginestra e quelle che seguirono ci hanno consegnato un’Italia che è sotto gli occhi di tutti. Ci piace ricordare con Vincenzo Consolo una delle pagine più gloriose di quell’epoca: quella dell’occupazione delle terre.

Nuvole nere vagavano nel cielo, dense come sbuffi di comignolo, da levante correvano a ponente, e nel loro squarciarsi e dilatarsi, rivelavano occhi azzurri e cristallini, lunghi raggi del sole che sorgeva, stecche incandescenti d’un ventaglio, giù dal fondo del Corso, dal quartiere Màzzaro, dal Borgo, d’in sul triangolo del timpano della chièsa gialla di Santa Lucia.
Il largo del mercato era affollato, d’asini muli giumente leardi, luccicanti di specchietti, sgargianti di fettucce nappe piume, scroscianti di campanelle e di cianciane. E cristiani erano a cavallo, a terra, aste di bandiere nelle mani, trùsce e colini pieni di mangiare, ridenti nelle facce azzurre rasate quel mattino. Aspettavano, gli occhi puntati sulla porta della Casa, l’uscita dei capi dirigenti.
Dai balconi dei palazzi prospicienti lo spiazzo, detto in altro modo l’Arenazzo (luogo di sosta de’ carrettieri venuti da Butèra, Riesi o Terranova, sfregatoio di bestie a zampe in aria, riposo dentro il fondaco, tanfo di corno arso per la ferratura nella forgia, cardi bolliti e bicchier dì vino dentro la potìa), dai balconi del palazzo Àccardi e del palazzo Alberti, dalla farmacia Colajanni, financo dalla canonica di San Rocco, guardavano a questo assembramento di villani, a questo cominciamento di processione, a questa festa nuova, fuori d’ogni usanza e d’ogni calendario.
E nel vocìo sommésso, nel mormorio di saluti e di discorsi, nello stridere del ferro di zoccoli e di chiodi, nel tintinnìo di campanelle, nel fumo di trinciati e toscanelli, trillarono i banjo, i mandolini infiocchettati de’ barbieri che, lustri più di tutti nelle facce, nelle lune e nei capelli, con le loro dita magre dall’unghie coltivate attaccarono a suonare l’Internazionale. E subito Bandiera rossa, l’Inno di Garibaldi e di Mameli. Staccarono dalle corde le stecche a cuore di celluloide quando s’aprì la porta della Casa del Popolo uscirono La Marca, Cardamòne, Siciliano, Pirrone e altri ancora, che traversarono tutto lo spiazzo, si portarono in testa, verso l’imbocco della via Bivona, e salirono in groppa alle bestie. Guardinghi, ché non tutti avevan confidenza con gli animali, questi giovani mazzarinesi usciti dalla guerra, ch’avevan studiato, ma studiato, contro i libri di carta e di parole della scuola, sopr’altri libri, e di più con passione sopra il libro del paese, in cui avevan letto chiaramente la lunga offesa, la storica angheria, la prepotenza dei baroni. Eredi ma diversi d’altri precedenti. Come don Oreste Paraninfo che nudo, di notte, suonava al violino sul balcone Mozart e Beethoven. O come don Rocco Colajanni, il farmacista, ateo inveterato, che sul letto di morte, la figlia terziària e le monache assistenti esulcerate, volle da leggere il suo Decamerone. O come il medico Giunta, ché andando sul Corso per le visite, alzando gli occhi ai balconi dei palazzi, sputava e imprecava; «Ah porci, ah baroni!».
Questi giovani ch’avevan determinato il successo del Blocco del Popolo alle elezioni, e che ostentatamente, dopo la vittoria, uno accanto all’altro, ostruendo la strada, andavano avanti e indietro lungo il Corso per dispetto agli avversari. «Una sventagliata di mitra, ecco quel che ci vorrebbe! Guardateli!… Proprio ora che sono a tiro tutti quanti… Ta-ta-tatà e, in un attimo, ci si potrebbe liberare di questi scalzacani» vociava don Turiddu Bàrtoli da sopra il suo balcone coi campieri schierati alle sue spalle. In testa, angelo custode, mignatta e protettore, don Peppino, Falzone di cognome, capo mafia di nome e d’azione, compare dello Scebba, altro capo di Butèra.
Quando tutti furono assettati sopra le cavalcature, il trombettiere della cooperativa “L’Agricoltore” suonò il motivo della sveglia, come da soldato. Il La Marca, da sopra il suo cavallo, si girò verso la folla, alzò il braccio e urlò:
“Avanti!”

(brano del racconto Ratumemi, in Le pietre di Pantalica)

Vincenzo Consolo

Lucio Zinna intervista Vincenzo Consolo a RAI-Sicilia :1988

 

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Nel 1988 Lucio Zinna curò per la RAI-Sicilia –  negli studi di Palermo, allora in Via Cerda – un programma radiofonico in tredici puntate dal titolo “Incontri”/Letteratura, quale autore dei testi e conduttore in studio. Si trattava di uno dei programmi culturali allestiti dalla regista Maria Cefalù, parecchi dei quali si avvalsero della collaborazione del poeta siciliano, nel periodo tra il 1981 e il 1988: ricordiamo (oltre ai testi di alcuni documentari televisivi) i programmi radiofonici: “Poesia oggi” e “Sicilia letteraria” (1981-1982, in collaborazione con Giovanni Cappuzzo), “Sei storie dal reale” (1983), “Questi maledetti poeti” (1984), “Tra il reale e l’immaginario”(1986), “C’era una volta /sei favole di Luigi Capuana” (1988) e altri.

     Il ciclo “Incontri”/Letteratura era basato su interviste in studio o telefoniche a personaggi del mondo letterario siciliano e non (fra questi gli scrittori Gesualdo Bufalino, Giovanni Gigliozzi, Andrea Vitello, autore di un’insuperabile biografia di Tomasi di Lampedusa, lo storico Orazio Cancila), con lettura, da parte di attori, di brani tratti da opere alle quali si faceva riferimento. In una di queste trasmissioni, andata in onda il 21 novembre 1988, Zinna intervistò in studio lo scrittore Vincenzo Consolo, di cui era appena uscito il libro di racconti “Le pietre di Pantalica”. Un brano dell’opera fu letto da Gabriella Guarnera. Regia di Maria Cefalù, con la realizzazione tecnica di Saro Cordaro e Nicola D’Addelfio.

     Trascriviamo il testo della conversazione da registrazione su nastro magnetofonico.

 

     Buon pomeriggio da Lucio Zinna. Il nostro ospite di oggi, per il ciclo di “Incontri/Letteratura”, è lo scrittore Vincenzo Consolo, del quale è apparso in questi giorni – edito da Mondadori – “Le pietre di Pantalica”. Ci intratterremo con l’autore subito dopo il nostro consueto profilo.

     Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello nel 1933. Conseguita la maturità a Barcellona Pozzo di Gotto, studia legge alla Cattolica di Milano dove si laurea. Torna in Sicilia per dedicarsi all’insegnamento, frequentando nel contempo scrittori come Leonardo Sciascia e il poeta Lucio Piccolo. Nel 1968 si trasferisce a Milano, dove vive tuttora, con frequenti catabasi nella sua terra.        

     La sua prima opera, “La ferita dell’aprile”, è un romanzo lirico e meta-dialettale apparso nel 1963. Una metafora del transito dall’adolescenza speranzosa alla deludente maturità. L’ambientazione è quella della Sicilia dell’immediato dopoguerra. Del 1976 è “Il Sorriso dell’ignoto marinaio”, edito da Einaudi. Una ricerca archetipica della psicologia dei siciliani, esemplata su un famoso quadro di Antonello da Messina. Il romanzo, ambientato in epoca garibaldina, narra di un esule siciliano, l’Interdonato, che rientra nell’isola sotto mentite spoglie nel 1852, per condurvi la sua lotta antiborbonica. Narra anche di un aristocratico cefaludese, Piraino di Mandralisca. Il sorriso ironico del primo esprime la consapevolezza che ogni spinta rivoluzionaria finisca per frangersi nell’isola contro il pessimismo storico della sua gente. Del secondo è evidenziato invece l’evolversi da un mondo di puri interessi scientifici a quello della dura realtà degli oppressi, con i quali viene casualmente a contatto, fino al suo impegno politico a favore degli oppressi medesimi, specie in occasione di rivolte popolari provocate da irrisolti problemi sociali dopo la spedizione dei Mille.

     Del 1985 è “Lunaria”, edizione Einaudi. Una fiaba teatrale in cui il persistente passato barocco di una Palermo settecentesca fa da contraltare al degrado del presente. Due anni dopo appare, presso Sellerio, “Retablo”, esemplare illustrazione di una Sicilia multiforme, proteica, aristocratica e plebea, feudale e rivoluzionaria, classica e illuminista, popolana. Anch’esso ambientato nel ‘700, come ‘Lunaria’, il romanzo si incentra sulla figura di due personaggi: il pittore milanese Fabrizio Clerici (diciamo che Fabrizio Clerici è vivente, ma è collocato, a ritroso, nella vicenda) e il siciliano Isidoro: un monaco smonacato. Sono ambedue innamorati: il primo di una nobildonna, il secondo di una popolana e mantenuta. Consolo pone a confronto due mondi diversi: la Lombardia ricca ed estetizzante e la Sicilia ansiosa di riscatto sociale. Il punto d’incontro è all’interno degli individui, nella spirale dei sentimenti.

     “Le pietre di Pantalica” è una coordinata raccolta di racconti nello scenario di una Sicilia variegata nelle sue tinte, ma costantemente dolente per le lunghe offese storiche subite, per le angherie da sempre esercitate sulla povera gente dai proprietari di turno, i quali sono ora baroni ora mafiosi, ciascuno con il loro stile e la loro immagine. Ogni guerra finisce per lasciare immutata la situazione sociale, quasi sulla falsariga di un latifondo solo di recente scomparso, ma riemergente in altre forme, fino a farsi degrado a un passo dall’identità etnica. Un’affascinante e ironica girandola di paesi, di città, di campagne, di personaggi in cui si svolgono le vicende di ieri e di oggi.

     La scrittura di Consolo si fonda su una singolare commistione di moduli narrativi, realistici e sperimentali, una scrittura lessicalmente ricca, fluente, che coinvolge il lettore nell’operazione di decodifica del testo. Più comunicative sono queste Pietre di Pantalica, in cui pur si innestano termini dialettali e termini culti, nonché forme verbali elegantemente arcaiche.

      Vincenzo Consolo è qui in studio e noi cogliamo la gradita occasione di rivolgergli alcune domande. 

    Lei è siciliano e vive a Milano. Ci sono scrittori siciliani che hanno dovuto cercare il successo fuori dall’Isola (Vittorini, Quasimodo), altri che hanno dovuto fare la spola tra Sicilia e continente (Sciascia, Cattafi), altri ancora, per singolari circostanze, non si sono mossi dai  loro luoghi: Piccolo, Bufalino. Quale è stata la sua iniziale avventura letteraria?

      La mia iniziale avventura letteraria credo che abbia avuto degli intenti contrari a quelli che di solito sono avvenuti nella storia, cioè il cammino dal Sud verso il Nord, e la Sicilia in questo senso, come lei ha detto, ha una lunga storia, da Verga a Capuana a De Roberto fino a Vittorini a tanti altri. C’erano, dalla Sicilia, due modi di partire verso la Milano, verso la Lombardia dell’organizzazione sociale e dell’organizzazione culturale, e verso la Roma dove c’era il potere politico, e dove i climi erano molto italiani e molto somiglianti a quelli della capitale siciliana, Palermo. Questi due modi di partire erano anche due modi di concepire la letteratura. Qui è molto lungo indagare le ragioni dell’emigrazione verso Roma o verso Milano. Comunque io, come lei ha ricordato, ho fatto i miei studi universitari a Milano negli anni ’50, negli anni in cui in Italia, dopo il disastro, l’azzeramento della guerra, si ricominciava a ricostruire, come si dice. I miei compagni di Università, allora più o meno più anziani di me forse di qualche anno, e comunque frequentanti lo stesso ambiente, respiranti lo stesso clima di studi e lo stesso clima culturale, si chiamavano De Mita, Misasi, Bianco, si frequentavano gli stessi luoghi. In questa piazza straordinaria che era la piazza Sant’Ambrogio, l’antica piazza del Giusti, della basilica di Giuseppe Giusti, lì, in questa piazza, si incrociavano i vari destini che erano, allora, i destini dell’Italia. C’era lo studente universitario che veniva da questo sud povero, c’era anche l’emigrato che arrivava in questa piazza, perché lì c’era il centro di emigrazione.  Questi emigrati venivano prelevati direttamente dalla stazione e portati in questo centro di emigrazione di piazza Sant’Ambrogio e poi spediti in Belgio, in Francia,  nelle varie miniere delle varie fabbriche; poi c’era il poliziotto che si arruolava proprio per bisogno perché lì, in questa stessa piazza, c’era una caserma della celere, quindi in queste trattorie letterarie, dove si andava a mangiare poteva capitare di imbattersi nel compaesano. Ecco, io sono andato a Milano perché ho obbedito a una sorta di mitologia letteraria, perché era stata la città di Verga, perché a Milano c’era Vittorini. Poi, dopo finiti gli studi, sono tornato in Sicilia per fare lo scrittore, perché mi interessava naturalmente il mio ambiente storico, il mio ambiente sociale. Sono stato fino al ’68 ma poi ho visto che quest’isola si desertificava, il mondo che mi interessava non c’era più e anch’io ho fatto le valige e sono tornato a Milano perché era l’unica città possibile per me, perché a Milano mi sembrava  che allora – proprio ancora sulla spinta della mitologia vittoriniana dell’industria a misura d’uomo, delle sperimentazioni che allora si facevano di industria e letteratura –, mi sembrava, appunto, che a Milano ricominciasse una nuova storia, volevo conoscere questo mondo industriale. Anche questa è stata una mitologia, il crollo di questa mitologia. Intanto io avevo pubblicato il mio primo romanzo e a Milano sono stato proprio per questo sradicamento e per questo reinnesto in un’altra cultura, tredici anni in silenzio, fino a che, dopo avere osservato questo mondo, ho capito che io non potevo scrivere di Milano perché mi mancava la memoria di una società industriale. Però ho potuto esprimere, spero, questo mondo di allora, questo momento storico a cavallo degli anni ’60 e ’70 attraverso la mia memoria, che era la memoria della Sicilia, però in modo metaforico. Scrivendo di questo mondo importantissimo in Sicilia, cioè degli anni attorno il 1860 con l’unità d’Italia, nodo storico in cui ci siamo imbattuti quasi tutti gli scrittori siciliani –  da Verga a Pirandello a De Roberto a Lampedusa allo stesso Sciascia –, nodo storico che quasi tutti abbiamo affrontato, perché partendo da lì ci siamo potuti rendere conto di certi mali che sono sociali, di cui soffre la nostra isola… Ho voluto metaforicamente esprimere non solo il mondo siciliano ma il momento storico nazionale, i temi che allora si agitavano erano quelli degli intellettuali di fronte alla storia, quello delle masse popolari esclusi dalla storia che non avevano la parola e temi di questo genere.

      Parte per vivere altrove, si porta la Sicilia dentro. Se la porta appresso questa Sicilia?

      Si, è il nostro mondo. Io ho sempre detto che esistono due modi di essere scrittore: lo scrittore di superficie e lo scrittore di profondità. Naturalmente questo non implica una valutazione qualitativa, sono modi di essere. Io credo che uno scrittore siciliano non può essere che uno scrittore di profondità, cioè la nostra è una cultura talmente composita, ricca, stratificata, come del resto la nostra storia, che non si può prescindere dal riportare nella scrittura tutto questo mondo che ci ha preceduto. Io ho sempre detto, e ripeto, che noi non siamo figli della natura ma siamo figli della storia; noi nasciamo incisi da dei segni culturali e in Sicilia i segni culturali sono molto importanti, sono molto profondi e sono difficili da eliminare.

      Ne ‘Le pietre di Pantalica’ figurano, quali personaggi, alcuni nostri scrittori e poeti, alcuni viventi quali Buttitta e Sciascia, altri scomparsi quali Lucio Piccolo e Antonino Uccello. Cosa è filtrato nella sua opera delle frequentazioni e consonanze con tali personalità?

     Mah, sono persone a me care. Io le ho volute raffigurare qui proprio come le persone più rappresentative di un mondo che è quello contadino, di una civiltà che è quella contadina. Sono le persone che più hanno rappresentato questa civiltà e questo mondo che per me ormai è scomparso, e quindi persone anche oggettivamente importanti dal punto di vista poetico.

     In prolepsi al racconto “Le Chesterfield” lei cita la seguente considerazione di Sciascia: « […] tutti i miei libri in effetti ne fanno uno, un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione […]». Così Sciascia. È così anche per lei?

     Sciascia parla della sconfitta della ragione in senso sociale, nel senso della organizzazione sociale. La sconfitta della ragione lui la rappresenta attraverso tutta la sua letteratura, con la violenza dell’Inquisizione, la violenza fatta all’uomo, l’impostura e tanti altri mali che ci hanno afflitto, parla appunto di sconfitta della ragione dal punto di vista sociale, qui io l’ho voluto riportare alla sua radice letterale, cioè la dialettica fra ragione e follia. Per me che constato i fatti, in un certo senso, mi porterebbero a dire di si, di essere d’accordo con Sciascia. Però io penso e voglio sperare che la storia  mi smentisca continuamente. Io credo nella Storia, credo che la storia abbia un andamento flessuoso, dei momenti in cui la linea raggiunge livelli molto bassi, in cui ci sono delle grandi aperture, in cui si aprono dei nuovi orizzonti e si possono nutrire delle grandi speranze. Tutto questo può essere deciso da persone assolutamente pessimiste, ma io, non credendo ad altro, io credo nelle forze progressiste della storia.

     Sempre ne “Le Pietre di Pantalica” lei parla di una Palermo-Beirut, una città mattatoio, una città nella quale, sempre sulla scia di tristi avvenimenti, che purtroppo conosciamo bene, gravano ricorrenti e cupi bagliori. Quanto è da addebitare di tale situazione ai palermitani stessi? Intravede qualche segno di ripresa, di risalita?

     Queste pagine su Palermo così violente, così assolutamente pessimistiche, non sono altro che la registrazione di una realtà in un determinato momento che era l’estate del 1982. È una invettiva abbastanza violenta che io faccio

     ma anche lirica in certi momenti

      anche lirica per certi aspetti si, però questa invettiva così risentita così forte nel tempo non denuncia che un amore mio nei confronti di Palermo, un amore tradito. C’è nei miei libri, sin dal romanzo “Il sorriso dell’ignoto marinaio” … io ho sempre detto che avrei ambientato una parte del libro a Cefalù, l’ho chiamato “la porta verso il mondo palermitano”, che per me è il mondo più bello, più affascinante, più ricco storicamente. Poi è venuto “Lunaria”, anche quello ambientato a Palermo, lo stesso “Retablo” è ambientato a Palermo. È una città che io amo perché è la città più impregnata di storia, più ricca di segni culturali e storici e quindi in questa invettiva c’è una sorte di tradimento di delusione per questo amore mal corrisposto.

[Gabriella Guarnera legge un brano, riguardante Palermo, dal racconto eponimo “Le pietre di Pantalica”]

     Chi ha tradito Palermo?

     Palermo, si lo sappiamo, è quella che è. C’è anche in questa città, malgrado tutto, malgrado la mafia, adesso voglio dire il quadro non è tutto nero, ci sono dei bagliori bianchi, ci sono dei bagliori di luce e questo si vede in tante cose che avvengono a Palermo nonostante tutto.

     Le rivolgo una domanda che lei rivolge a se stesso nella prefazione al libro di Mario Lombardo, “Giudice popolare al Maxi Processo” (Edizione ILA PALMA): ”Come è possibile che qui in quest’isola di tanta cultura, tanta civiltà, ci possano essere mafiosi criminali autori di efferati delitti, di stragi?”. Ecco la domanda che io vorrei rivolgerle è questa. C’è una risposta a questo interrogativo?

     Sinceramente io non riesco a rispondere. Quando leggo, sento, assisto a delle atrocità che avvengono in quest’isola civilissima, io ogni volta mi chiedo con raccapriccio, con smarrimento come è possibile che in questa terra così umana, in questa terra che ha prodotto tanta cultura, tanta arte, come è possibile che si arrivi a tali abissi di barbarie. Ecco, io ogni volta non trovo risposta a tutto questo

     …è lo sgomento di tutti

       si è proprio così, sono domande che smarriscono.

     Passiamo a un aspetto più squisitamente letterario. La sua ideale misura narrativa pare consista nel romanzo breve o nel racconto. Si considera uno degli scrittori così detti minimalisti o ritiene queste solo delle vuote formule letterarie o’ da letterati’?

     Mah, io non credo a queste formule che ci vengono imposte dall’estero. Non credo ai ‘minimalismi’ di sorta. Nessun minimalismo di sorta. Io credo che la letteratura tratti di fatti minori, minimi,  che non c’è bisogno di connotarli con questo termine che è mutuato dall’arte: il Minimalismo. La letteratura è sempre minimalista, perché parla dell’uomo nella vita quotidiana, dell’uomo…

     … si scava all’interno della coscienza

     della coscienza nei fatti quotidiani, io credo poi che questo non è più tempo delle grandi narrazioni…

       …di stampo ottocentesco…

     … di stampo ottocentesco, perché lo spazio letterario è relegato sempre più altrove. Bisogna scandagliare e sapere dov’è questo spazio letterario e io credo che la letteratura oggi,  proprio perché questo spazio letterario è invaso da altri tipi di narrazioni quali sono quelli dei media, della radio, della televisione, dei giornali, cose che nell’Ottocento non c’erano. Nell’Ottocento i romanzi-fiume avevano altre esigenze, di informare, anche di supplire a delle scienze, le cosiddette ‘scienze umane’,che allora non esistevano. I romanzi di Balzac informavano, dovevano contenere anche delle cognizioni di ordine sociologico, che oggi assolutamente il romanzo non dà e quindi la letteratura oggi, il romanzo oggi, si interiorizza e diventa sempre più sintetico, sempre più profondo.

     Ha appreso qualcosa dagli sperimentalismi, dal neoformalismo degli anni ’60 e ’70 o li ha preceduti di stretta misura, considerato che la “La ferita dell’aprile” è datata 1963, che è un anno ormai ben definito nella nostra storia letteraria?

     Io non ho mai amato gli avanguardismi. Io credo di essere figlio della cultura siciliana che è stata sempre sperimentale, da Verga in poi, almeno l’operazione linguistica di Verga: una operazione grandissima e altamente sperimentale. L’avanguardia è una operazione di azzeramento e di cancellazione di tutto quanto ci ha preceduto. Io invece credo nella sperimentazione tenendo presente tutto quanto ci ha preceduto, tenendo presente la storia. Io non ho potuto scrivere – ma come me tanti altri scrittori – non avendo consapevolezza di questa grande letteratura siciliana che ci ha preceduto.

Dialoghi Mediterranei, n.1, aprile 2013

Tra ricamo e labirinto: l’opera e la scrittura di Vincenzo Consolo

Tra ricamo e labirinto: l’opera e la scrittura di Vincenzo Consolo

Prima di leggere i libri di Vincenzo Consolo, ho letto qualche recensione e soprattutto alcune sue interviste che delineano una vera e propria ars poetica, presentandosi come manifesti letterari e civili di una grande e acuta profondità di pensiero, capaci da soli di far crescere l’interesse e la curiosità per la sua opera. E tutto questo, devo dire, per quella straordinaria disponibilità con la quale si mette direttamente al centro della problematica e, poi, per la sincerità confermata da ogni frase nel parlare apertamente del suo lavoro, delle sue ossessioni estetiche e non solo. Mi ha sconvolto innanzitutto la riflessione acutissima con la quale discute aspetti controversi di poetica narrativa in un momento in cui questi problemi sono diventati così complicati, fino a generare lunghe e spesso faticose, orgogliose dispute che finiscono per complicare ancor di più le cose.
Quella disponibilità, quella chiarezza e soprattutto quella sincerità, la franchezza, il suo modo di dire le cose senza nessuna intenzione di lusingare oppure di offendere la sensibilità del lettore costituiscono alcune delle qualità portanti del suo profilo letterario, capaci di configurare un modello di scrittore impegnato con la sua vita, con la vocazione e l’ardore nella propria scrittura e nel destino assunto, e assunto fino in fondo. Se la letteratura è ancora come dev’essere un problema di carattere, oltre il talento, oltre la vocazione vera, allora si può sostenere senza nessun rischio di approssimazione convenzionale che Vincenzo Consolo, a parte la dimensione particolare della sua scrittura, appartiene, a mio avviso, a quella tradizione di artisti per i quali il binomio arte e vita rappresenta un punto fermo di partenza e un punto fermo di arrivo; un progetto che fa coincidere il fuori e il dentro, realtà e coscienza, il destino, parola e cosa, società e individuo.

La ricchezza del suo lavoro, in tutti gli aspetti che riguardono il rapporto io-mondo, io-reale, e in particolar modo le scelte stilistiche, il problema linguistico così essenziale per uno scrittore italiano offrono una moltitudine di prospettive dalle quali si può partire nella valutazione della sua opera. Si è parlato a un certo momento di un carattere «intellettuale» della sua scrittura; ho già usato le virgolette per questo aggettivo, perché in effetti ogni costrutto che assume l’intento di un prodotto artistico non lo può escludere, non lo può evitare. Anche perché – si sa bene oggi forse meglio di ieri – esiste purtroppo una allucinante arte del consumo rivolta prevalentemente a un fruitore pigro, che va incontro alle sue aspettative più facili, alla sua comodità. Da questo punto di vista Consolo procede in una maniera tutta contraria: perché ha scelto di scrivere sulla realtà, di affrontarla, forse non per cambiarla – sarebbe soltanto un sogno da sempre – ma per portarla sul piano della coscienza per destare nel lettore la curiosità, il coraggio di assumere la realtà integrale con tutte le sue insidie, e le sue deformazioni.

Appunti di lettura. La metafora dell’«angelus novus»

Detto questo, vorrei iniziare sfogliando alcune mie pagine di appunti raccolti in presa diretta dai testi del Nostro. Sempre aperture di prospettive, di letture, di percezioni senza la preoccupazione, almeno per adesso, di articolare un discorso lineare dotato di quella coerenza che deve restare come prima condizione di una interpretazione, per dire così, organica.
Con la pubblicazione del suo primo libro, l’autore afferma di aver avuto già la consapevolezza di cosa sarebbero stati gli argomenti della sua scrittura e cosa gli interessava di più: «Mi interessava afferma lo scrittoreil mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia, e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali. Mi collocavo anche come stile, come tipo di espressione, su una linea sperimentale e di tipo espressivo». C’è già tutto qui: la scelta della ʻtematicaʼ e l’opzione stilistica, i due pilastri di ogni lavoro letterario.
Ebbene, la Storia, ma quale Storia, della Sicilia, però la storia è già qualcosa di infinito, non solo per la durata, ma anche per la sua dialettica interna, per il modo in cui viene vissuta e, poi, scritta-descritta, di chi, per chi e da chi assunta e con tante sofferenze, con delle conseguenze purtroppo irreversibili e così via. È proprio qui che sento il bisogno di chiamare in causa la metafora ormai famosa che è quella benjaminiana dell’Angelus Novus. Ricordiamola: «… un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che chiamiamo progresso, è questa bufera».
Una metafora, questa benjaminiana, dell’angelus novus, che tra l’altro non identifica un angelo nuovo, bensì ci può ricordare anche la figura della Medusa con il suo sguardo mortale per chi cerca di affrontarla a viso scoperto; possiamo poi evocare anche la metafora del labirinto dove, anche se non vi sono delle macerie – oppure non si fanno vedere – c’è sempre lo sguardo impegnatissimo nel trovare quel punto debole del percorso da dove sperare di trovare la via d’uscita o meglio una via d’uscita…

Ritorniamo all’opera di Vincenzo Consolo, cercando di trovare un punto di riferimento in grado di indicarci quale via (non di uscita, ma di entrata nel suo mondo, nel suo labirinto) possiamo seguire. Operazione assai difficile; innanzitutto perché ce ne sono molte, voglio dire, ci sono molti punti di riferimento, nuclei semantici, nodi referenziali che possono diventare vere e proprie chiavi di lettura e di approccio; e, poi, in secondo luogo, operazione difficile proprio perché,  specie in uno scrittore come Consolo che ignora, rifiuta, addirittura respinge qualsiasi metodo prestabilito, assumere un punto di partenza o un altro come una sorta di filo conduttore nell’esegesi della sua opera sarebbe ancora una volta una scelta in limine, ugualmente rischiosa.
Percorriamo un’altra strada. Ecco, citiamo alcune sue considerazioni prese qua e là dalle quali si potrebbe iniziare un percorso esegetico. Procediamo, questa volta noi, in maniera metodica così da identificare una linea, diciamo così, tematica: «Quando io ho pubblicato il mio primo libro, La ferita dell’aprile, ero consapevole di cosa fossero gli argomenti della mia scrittura e cosa mi interessava. Mi interessava il mondo storico sociale, non mi interessavano i problemi personali o le indagini psicologiche. Mi interessava raccontare la Storia, la Sicilia e quindi ho proseguito su questa scelta di argomenti, privilegiando quelli che erano i temi storico-sociali»
Allora, la scelta tematica era già identificata, e anche assunta: raccontare la Storia e propriamente una Storia, non solo quella della Sicilia, ma anche una sua parte, alcune pagine scelte fra le tante, e poi vedremo qual era il criterio insito in quella scelta.
Invece, molto significativo mi pare qui far interferire questo orientamento tematico dello scrittore con la metafora di Benjamin: qui interviene per darci una conferma l’autore stesso quando afferma che ha cercato «di scrivere delle narrazioni nel modo in cui intende questo genere Walter Benjamin, un tipo di scrittura o di racconto che appartiene ancora a una società pre-borghese». Che cosa significhi pre-borghese non mi pare così difficile da capire ma solo riducendo il discorso, sempre in base alle affermazioni dell’autore, a quella tipologia sociale per la quale la Storia non ha alcun senso di progresso e tantomeno una base giustificatrice. Quel mondo, quindi, situato tra una civiltà ancora contadina nei suoi aspetti superficiali, formali, apparenti, e che ha perso la sua coerenza di una volta, quella parte di sapienza di cui parla ancora la letteratura orale, e il mondo borghese, che forse, se non sbagliamo noi, ha attraversato quello del sottoproletariato, nel senso che si è fatto sfruttare, abbandonandolo per poi strumentalizzarlo con il preciso scopo di approfittare del suo lavoro. In tutte queste due categorie si ritrova un punto comune: la povertà, è da essa che poi scaturisce sempre il tentativo di opposizione, di confronto, di lotta, con l’intera scenografia che si conosce: speranza, attesa, fede e diffidenza, l’impegno diretto, il tradimento da alcune parti, e, alla fine, le sconfitte; ma sconfitte che conferiscono sostanza alla storia, le danno la propria consistenza, nel bene e nel male…

L’idea di labirinto

Esiste poi un altro punto di riferimento (e di partenza), quello che ci porta all’idea di labirinto. Ecco, parlando vent’anni dopo, su Il sorriso dell’ignoto marinaio, Consolo avverte: «I tre elementi allora, la rivolta contadina di Alcàra, i cavatori di pomice di Lipari e il Ritratto d’Antonello reclamavano una disposizione su uno spazio di rispondenze e di senso, in cui il Ritratto stesso, nel suo presumibile percorso da una Messina, già di forte connessione storica, cancellata dai terremoti, a Lipari, isola-regno d’esistenza, di mito, a Cefalù, approdo nella storia e nella cultura, disegnava un triangolo e un movimento da un mare d’incertezza e rassegnato destino (…), a una terra di consapevolezza e di dialettica. Questa planimetria metaforica verticalizzavo poi con un simbolo offertomi dal malacologo Mandralisca, quello della conchiglia, del suo movimento a spirale»*.
A proposito di Eliade, si può riflettere intorno a un’idea che potrebbe servire nell’operazione di decriptazione di alcuni significati portanti della letteratura consoliana e cioè quella indicata dal grande scienziato romeno con la formula l’incentramento del margine, o meglio centrare il margine; quell’arduo compito che Consolo assume così come intendiamo noi il suo operare sulla storia e sul reale e cioè quello riguardante strettamente la Sicilia, si potrebbe indicare almeno sul piano di un’ideologia letteraria, questo tentativo di porre al centro (dell’interesse e della preoccupazione del lettore e non solo) ciò che si è chiamato il problema della Sicilia, la Sicilianità come quel modo di vivere nella difficoltà.
Sempre con riferimento a Eliade, si deve invocare qui la sua metafora dell’eterno ritorno, che per altro è anche una metafora di estrazione romantica e, in particolar modo, nietzschana; tuttavia, in Eliade, la metafora si colloca puntualmente nel discorso sull’origine e sul dovere (quasi un segno di destino e di fatalità) di ritornare sempre al punto di partenza, e così si genera, inculcata nella nostra vera e propria identità, una circolarità che alimenta, intrattiene, potenzia la sofferenza, il dolore, una specie di pendant a quel male di vivere montaliano.

Ecco come si colloca Consolo in funzione del motivo del ritorno all’origine, che infatti è un altro motivo ricorrente nelle sue meditazioni-riflessioni.
Parlando del suo libro L’ulivo e l’olivastro, l’autore propone un aspetto particolare della sua Sicilia presente, ma sempre col riferimento al mito ulissiano e al tema del ritorno come un dovere ontico, come destino. «In Sicilia – afferma l’autore – si ritorna, non si può fare a meno. Così come Ulisse lascia la dolce terra dei Feaci per ritornare nella sua pietrosa Itaca. Non si può prescindere dai luoghi dove si è nati, dove si è cresciuti, dove si sono sentite le prime voci, dove si sono viste le prime luci. Sono luoghi che non si possono eliminare dalla nostra memoria. Si sente il sogno di tornare, malgrado tutto».
E di qui che si va verso la metafora della lumaca, collocata anch’essa nel labirinto, vista come una rappresentazione di un’ascensione dal basso verso l’alto, e che può significare anche lo sprofondare e il perdersi all’apice di questa stessa spirale. Diamo di nuovo la parola all’autore: «Ed è anche il simbolo, per studiosi di etnologia e di storia delle religioni, …il simbolo del labirinto. Ecco, dal labirinto, con intelligenza, si può uscire, oppure si può rimanere prigionieri. Ecco, quel simbolo io l’ho preso come il simbolo della storia, per cui i popoli, le popolazioni che si trovano in una infelicità sociale, possono rimanere prigionieri dentro questo labirinto a forma di spirale, oppure, seguendo il labirinto, possono uscire verso la realtà della storia e prendere consapevolezza della loro condizione sociale…». Conclusione, una fra le tante, emblematica, direi, per il lavoro del Nostro.
Inutile evocare a questo punto una parola-concetto, una parola spia della scrittura di Consolo e appunto la parola greca nostos, che vuol dire proprio l’origine, quell’ipogeo come il dovere di partire sempre dalle radici, che non per caso si trovano nel sottosuolo, nel sottoterra, quel luogo che fa da controcanto, da contropartita alla Storia nella visione e nella rappresentazione di Vincenzo Consolo. E le cui immagini (di questi luoghi sotterranei, di queste caverne) sono un po’ il corrispettivo della profondità della lingua e della profondità della storia; è già un altro punto di partenza per addentrarci nell’opera consoliana.

La scrittura come ricamo

Ma si può continuare con l’idea di labirinto come una metafora così produttiva nel campo esegetico. Oltre il suo vastissimo e diversissimo campo semantico, mi pare opportuno sottolineare un fatto della poetica narrativa di Consolo: il rapporto che stabilisce tra l’idea di viaggio come esplorazione dello spazio, più quello del mare che della terra, il viaggio come anche ritorno, di un Ulisse che si trasforma così in un prototipo dell’eroe universale, un archetipo della sapienza, del conoscere, un navigatore ideale e insieme singolare. Pare superfluo ricordare che per Consolo, come per Dante, per Pirandello, la vicenda dell’eroe omerico con la sua intera disperazione riguarda lo spazio siciliano, e anche quello terribile e insieme affascinante Stretto di Messina che diventa anch’esso ricorrente nell’opera del Nostro.
Il tentativo di Ulisse, sommariamente indicato qui, punta sullo spazio cosicché, attraversarlo per conoscerlo equivale ad assumerlo. Un tentativo compiuto col sacrificio liminare, non di una sua possibile fine, morte, ma, con l’allontanamento dalla sua Itaca, coll’affrontare il rischio di perdere tutto ciò che aveva prima, regno e soprattutto l’amore incorporato nella figura di Penelope. Qui interviene un altro possibile punto di partenza per interpretare l’opera di Consolo: quello che potrebbe omologare la sua scrittura sullo stesso piano con la tela su cui Penelope sta ricamando, non qualcosa di utile, ma proprio l’attesa stessa che subentra così nel destino, suo, di Ulisse, di tutti noi.
La scrittura come ricamo non mi risulta fuori del progetto scritturale dell’autore di Le pietre di Pantalica. La invoca anche, se mi ricordo bene. Invece sul piano stilistico, espressivo, poetico, il labirinto si presenta davvero come un riferimento preciso, assolutamente non casuale, legato a una scelta che Consolo identifica in Calvino. Ed è per questo che si può chiamare in causa, per la sua specificità poetica, la famosa formula calviniana La sfida del labirinto; ma il riferimento non significa altro che un possibile percorso della critica nella ricerca di altre chiavi di lettura per poter dare effettivamente, se questo fosse possibile e plausibile, un senso al mondo che ci propone un autore che rimane – poiché così deve rimanere – ancora un mondo da interrogare, in un confronto sempre aperto con la coscienza del lettore…

La semantica del labirinto

Ma quale sarà a questo punto l’offerta indicata, più adatta, della ricca e lunga semantica del labirinto? Quel gioco che ha, come ricorda Kerenyi, un significato rituale e che come tale serve a scongiurare – rappresentandola – la paura della morte, l’angoscia dell’uomo di fronte alla nullificazione di tutte le cose? Rifacciamo in breve lo scenario di questo gioco che si presenta in due tempi, in due fasi: l’entrata nel labirinto e il faccia a faccia col mistero, in cui gli attori sperimentano la perdita di sé; poi, il ritorno alla luce che rappresenti, diciamo, una nuova nascita, attestando la continuità della vita che di generazione in generazione rinnova se stessa. Fin qui, Kerenyi. Sono intervenute poi tante altre interpretazioni-soluzioni, come quella di Tagliaferri per il quale il labirinto potrebbe essere preso come una metafora di un utero materno e il filo di Arianna sarebbe allora un cordone ombelicale, il Minotauro diviene un embrione, un germoglio, un’ombra inquietante con cui dobbiamo confrontarci.
Per Calvino, si sa, si pone un altro tipo di richiesta, di interrogativo, di soluzione, attraverso un’idea – che abbiamo incontrato anche in Consolo, a proposito di un altro argomento –, ma non così distante da questa prospettiva, torno a ripetere, di natura poetica e, se si vuole, di poiesis, come il far poetico.
Per l’autore delle Cosmi-comiche, l’operatore interpretativo diventa un rapporto cartografico che include una distanza rispetto al labirinto: così, è facile trovare la via d’uscita quando il labirinto si osserva dall’esterno, quindi quando si dispone di una mappa totalizzante; invece, dal di dentro e allorquando le mappe sono parziali e contraddittorie, succede che non solo sia possibile la salvezza, ma si entra in una grave confusione, una specie di sostituzione dei topos, delle isole, appunto, perché avvicinandosi, il topos, l’isola cambia nome, ossia anche l’identità.
Ci fermiamo qui con la storia esegetica di un motivo-mito così complicato e insieme stimolante. Ma non prima di focalizzare almeno una suggestione per la scrittura di Consolo: il labirinto per lui si presenta in veste di Storia, o meglio una sua pagina sempre della storia siciliana, identificata in alcuni momenti di rottura, di confusione, di sconvolgimento, e perciò bisognosa non di una giustificazione, ma di una giusta ricostruzione in base alla quale sarà poi possibile denunciare quelle tracce, e quelle insidie, che ci provocano nel e dal presente.
Ed è per questo che rientra in scena proprio adesso la metafora benjaminiana dell’angelus novus; il quale, ricordiamoci, si trova fissato, prigioniero tra un passato per cui non basta la sua nostalgia a compiere il ritorno, ma non è possibile nemmeno andare avanti, nel futuro, per via di quella bufera che lo sconfigge.
Ma il presente dov’è? Il presente non esiste, sulla linea di una dialettica elementare, è soltanto un passaggio, un momento di transito, un limbo, quel purgatorio dantesco dove Virgilio ha quasi perso tutti i poteri e dove a Dante, come a tutti noi, è rimasto solo porsi degli interrogativi come soluzione di orientamento. Ma l’idea di labirinto è un motivo di riflessione per il Nostro.

Per Vincenzo Consolo, creatore di un’opera che non si impone né per la quantità (dimensione, diversità di motivi, di argomenti), né per l’imprudenza di lusingare i gusti, in gran parte pervertiti, corrotti dal consumismo, del lettore (un lettore che lo vuole, come sostiene, un po’ simile a se stesso), quindi per Vincenzo Consolo, la letteratura mi pare che sia una scommessa; e un riscatto: una scommessa con la Storia così come è sempre stata scritta-descritta, ma non vissuta; e un riscatto come tentativo di recupero per la mediazione della parola, diventata pietra, capace invece di esorcizzare il reale vero, quello vissuto, e mai tradito.

In questa prospettiva, poetica, sento il bisogno di identificare la formula paradigmatica per l’insieme della sua opera e che si può definire come testualizzazione del reale, ossia un tentativo di trasmutazione, nel logos, di quell’ontos inteso come topos, ipogeo o nostos che dir si voglia.

NOTA
* Archetipo biologico e origine di percezione, conoscenza e costruzione, com’è nella Spirale delle calviniane Cosmi-comiche; arcaico segno centrifugo e centripeto di monocentrico labirinto, com’è in Kérenyi e in Eliade.

George Popescu
(n. 11, novembre 2012, anno II)