La Lingua della scrittura a Vincenzo Consolo

a cura di Annagrazia D’Oria

La pubblicazione di Oratorio presso le edizioni Manni e un incontro a Milano in un’atmosfera tutta siciliana (la signora Caterina ha gentilmente offerto autentico latte di mandorla preparato in casa; sulla scrivania palpitavano pagine di appunti su una donna della Sicilia) sono state occasioni per questa breve intervista a Vincenzo Consolo. Di seguito anticipiamo il “Prologo” da Catarsi in Oratorio, a giorni in libreria.
Oggi la lingua letteraria è quella nazionale del linguaggio televisivo. Viene comunque usata dalla maggior parte degli scrittori: alcuni (pochi) la usano in maniera strumentale con un chiaro intento di opposizione, altri l’accettano per conformismo, come unica possibilità di esistere nel mercato. Tu che cosa pensi? Quali sono le tue idee sulla narrativa italiana?

In questo nostro tempo si è rotto il rapporto tra testo letterario e contesto situazionale e quindi non è più possibile adottare le forme de romanzo tradizionale (oggi si producono e si consumano cosiddetti “romanzi” che non hanno più nulla da spartire con la letteratura); non è più possibile raccontare in una prosa comunicativa, usare una lingua che è divenuta povera, rigida (la famosa nuova lingua italiana come lingua nazionale di cui ci ha detto Pasolini), una lingua priva di profondità storica, invasa dal potere dei media e del mercato.

C’è una soluzione per continuare a scrivere?

Oggi, l’unico modo per rimanere nello spazio letterario da parte di uno scrittore è quello di scrivere non più romanzi, ma narrazioni. Dico narrazione nel senso in cui l’ha definito Walter Benjamin. In Angelus Novus, nel saggio sull’opera di Nicola Leskov, Benjamin fa una precisa distinzione tra romanzo e narrazione. La narrazione, dice, è un genere letterario preborghese affidato all’oralità (racconti orali erano la Bibbia, i poemi omerici). Per ragioni mnemoniche, la prosa allora prendeva man mano forma ritmica, poetica. Nella narrazione insomma è assente quello che Nietzsche chiama “spirito socratico”.

Che cosa intende per “spirito socratico”?

Cos’è? È la riflessione, il ragionamento, la “filosofia” che l’autore mette in campo interrompendo il racconto. Questo è avvenuto, cioè l’irruzione dello spirito socratico, ci dice Nietzsche, nel passaggio dalla tragedia antica di Eschilo e di Sofocle alla moderna tragedia di Euripide. Questo è avvenuto nella nascita del primo grande romanzo della nostra civiltà occidentale, nel Don Chisciotte. “Il povero don Chisciotte aspira a un’esistenza mitica, ma Sancio lo riporta coi piedi per terra, introducendolo violentemente nella sua realtà, grazie alla quale era nato un nuovo genere: ‘il romanzo” scrive Américo Castro in Il pensiero di Cervantes. Ora, nella narrazione moderna o postmoderna, non è che si ritorni all’antica tragedia o al mondo mitico, ma si riflette, si commenta o si lamenta non in forma diretta, comunicativa, ma in forma espressiva, vale a dire indirettamente, vale a dire metaforicamente. Questo significa accostare la prosa alla forma poetica, contraendo la sintassi, verticalizzando la scrittura, caricando di significati le parole e caricando la frase di significante, di sonorità.

  Ho espresso questa mia concezione della narrativa nel saggio La metrica della memoria e l’ho messa in pratica in tutti i miei libri narrativi, ma soprattutto nell’ultimo, Lo spasimo di Palermo ed anche, in senso metaforico, nell’opera teatrale Catarsi.

Parlaci di Catarsi…

E’ messo in scena, in quest’opera, un Empedocle contemporaneo (con riferimento, certo, a quello di Hölderlin) nel momento estremo del suicidio e nell’estremità spaziale del cratere dell’Etna. Momento e spazio che non permettono più comunicazione, frasi, parole, ma soltanto urla o  suoni bestiali. Antagonista di Empedocle, il giovane suo allievo Pausania, ipocritamente invece continua a comunicare con un immaginario pubblico della cavea, si fa insomma falso messaggero, impostore. In tutti i miei libri, dicevo sopra, a partire da La ferita dell’aprile, e quindi ne Il sorriso dell’ignoto marinaio e negli altri vi sono degli “a parte”, brani in cui s’interrompe il racconto, il tono si alza, la prosa si fa ritmica.

Insomma un cantuccio come i cori della tragedia manzoniana, un intervento liberatorio della poesia che ha ancora una forza…
Sì, sono questi insomma dei cantica o Cori, digressioni lirico-poetiche, commenti non filosofici ma lirici. La filosofia per me consiste nel creare un testo che sia un iper-testo, che abbia cioè in sé rimandi, citazioni, espliciti o no. Ne Il gran teatro del mundo di Calderon, gli attori, all’inizio del dramma, indossano in scena i costumi e quindi cominciano a recitare. Questa invenzione mi aveva colpito e quindi in Lunaria, un’altra mia opera teatrale, ho capovolto li gesto: gli attori alla fine della rappresentazione si spogliano dei costumi in scena. Il senso è la fine dell’illusione. Dell’illusione necessaria, che dura il tempo di una rappresentazione teatrale o della lettura d’una poesia e che ci difende dall’angoscia dell’esistenza e dalla malinconia della storia. Finita l’illusione, c’è il ripiombare nella dura realtà. Che per noi moderni è diventata insopportabile, e scivoliamo quindi nell’alienazione o nella violenza. Soltanto i greci avevano una grande capacità di sopportazione della realtà.

Torniamo agli scrittori, al linguaggio, ma soprattutto al legame con la propria terra. Nel tuoi libri a Sicilia è una realtà viva e concreta, metafora del mondo e delle sue leggi ingiuste e violente…
Allora ci sono scrittori che chiamerei di tipo orizzontale, nel senso che essi possono parlare indifferentemente di qualsiasi luogo. E sono spesso anche grandi scrittori come Stevenson, Conrad, Hemingway o Graham Greene, per fare solo alcuni nomi. Ci sono scrittori invece che non sanno o non possono staccarsi dal luogo della propria memoria, con questo luogo devono fare i conti, di questo luogo fanno metafora. Per tanti scrittori, ed anche per me, questo luogo è la Sicilia. La quale è un’isola terribilmente complessa. Ha una complessità storico-culturale dovuta alle varie civilizzazioni che in essa si sono succedute. La presa di coscienza della sua complessità è stata la ricchezza e insieme la dannazione degli scrittori siciliani.

C’è un esempio importante dell’ineludibilità del tema Sicilia, ed è quello di Verga. Lo scrittore divaga per meta della sua vita, affronta temi cosiddetti mondani e scrive in un impacciato italiano. A Milano, nel 1872, avviene la sua famosa crisi e, nella crisi, “sente il bisogno di risalire alle origini e risuscitare le memorie pure della sua infanzia”., Il bisogno al ritornare con la memoria “al mondo intatto e solido della sua terra” scrive Sapegno. E inventa un “italiano irradiato di dialettalità”

, come dice Pasolini. Ogni scrittore siciliano ha declinato dunque la Sicilia in modo diverso. Detto semplicisticamente, in modo storicistico o esistenziale. Verga ha una concezione metastorica, una visione fatalistica della condizione umana, e si è parlato quindi di fato greco, ma in Verga non avviene assoluzione della colpa, non c’è liberazione. Per verga, bisognerebbe piuttosto parlare di fatalismo islamico. “Quel che è scritto è scritto” recita il Corano.

E la Sicilia di Pirandello?

Pirandello ha interpretato la complessità della condizione siciliana, complessità che provoca smarrimento, perdita di identità. Riguardo a Pirandello bisognerebbe piuttosto parlare di grecità. Nel teatro greco c’era il Prosopeion o Prosopon, ch’era insieme la maschera e la faccia, ma anche il modo come gli altri ti vedono.
Il Prosopon Pirandello l’ha trasferito nel mondo siciliano: non sai chi sei, sei di volta in volta colui che gli altri decidono, sei uno, nessuno e centomila; sei poi costretto, nel gioco sociale, a portare la maschera…
E negli altri scrittori siciliani?

La concezione esistenziale e insieme determinista che, partendo da Verga passa per Pirandello contraddetta da una versi fino a Lampedusa, è contraddetta da una forte linea storicistica, che da De Roberto, per Brancati e Vittorini, arriva fino a Sciascia. Nella concezione metastorica di

Lampedusa c’è una forte ambiguità. L’autore del Gattopardo doveva chiudere i conti, secondo me, con De Roberto, con Viceré (De Roberto dice, contraddicendo Verga: non ce nessun mondo dei vinti. Nella storia siciliana ha vinto sempre il cinismo. l’opportunismo, il trasformismo della classe dominante, dei nobili. vincitori sono sempre loro, mentre i perdenti e gli eternamente ingannati e sfruttati sono i popolani). Lampedusa dunque scrive un romanzo storico con una visione positivista del mondo. Afferma che dalle classi sociali di volta in volta ne emerge una, si raffina man mano nel tempo, arriva alla perfezione (estetica, culturale), quindi decade, tramonta, si spegne come si spengono le stelle in cielo. E quindi emerge un’altra classe (ineluttabilmente insomma alla nobiltà succede la borghesia). C’è una sorta di meccanicismo, di determinismo in questa concezione. Ai leoni e ai gattopardi devono necessariamente succedere gli sciacalli (che diverranno gattopardi a oro volta), ai Salina devono succedere i Sedara. Con questa sua concezione, Lampedusa assolve la classe a cui apparteneva, la nobiltà feudale, principale responsabile di tutti i mali della Sicilia. E assolve anche i borghesi mafiosi alla Sedara: era ineluttabile che questi arrivassero a potere, il loro emergere, è un esito del determinismo storico (con buona pace di “quell’ebreuccio”, di Marx, di cui Salina non ricorda il nome).

E Sciascia?

Sciascia, da illuminista, non accetta nessun meccanicismo nella storia, storia in cui le responsabilità dei mali sociali sono da attribuire al  potere, alla sua volontà. Da qui i suoi primi temi illuministi sulla pena di morte, sulla tortura o l’impostura de ll consiglio d’Egitto e di Morte dell’inquisitore, da qui i suoi romanzi polizieschi, necessitati dalla contingenza in Sicilia, in Italia, del potere politico degenerato, dei legami tra potere politico e mafia, dei delitti e dele. stragi del potere politico-mafioso. Ma i romanzi polizieschi di Sciascia sono singolari, opposi ai romanzi polizieschi classici: non  vi si arriva mai all’individuazione dell’assassino o degli assassini perché i romanzi di Sciascia sono polizieschi politici. L’individuazione degli assassini comporterebbe l’indagine e quindi la condanna del potere di se stesso. S’e mai visto un potere politico che condanna se stesso? Parliamo dei tuoi libri. In tutti ci sono dei temi fissi: la storia, la riflessione sul potere, sull’emarginazione, sull’oppressione dei deboli, sull’impegno politico e civile dell’intellettuale e usi sempre una lingua particolare, ricca di metafore. Quali sono le tue radici culturali?

Dopo questa lunga premessa parliamo anche di me, un poco, non tanto, come invece vuole di sé Zavattini.

Sono nato come scrittore nel ’63 e già dal primo libro mi sono mosso con la consapevolezza della letteratura, soprattutto della siciliana, di cui abbiamo sopra discorso, che mi aveva preceduto e di quella che si stava svolgendo intorno a me. Mi sono mosso con una precisa scelta degli argomenti da narrare (stori-co-sociali) e del modo in cui narrarli.

Sono nato, biologicamente, in una zona di confluenza del mondo orientale e del mondo occidentale della Sicilia, di incrocio vale a dire tra natura e storia. Potevo quindi optare per l’oriente, per i disastri dei terremoti dello stretto di Messina e delle eruzioni dell’Etna, optare per la violenza della natura ed affrontare temi metastorici, esistenziali, temi verghiani insomma. Ho optato invece per il mondo occidentale, dove sulla natura prevalgono i segni forti della storia. E sono approdato a Cefalù (con I sorriso dell’ignoto marinaio), che era per me la porta del gran mondo palermitano, del mondo occidentale.
Ho voluto narrare argomenti o temi storico-sociali e lo stile da me scelto non è stato comunicativo, non ho adottato una scrittura di tipo illuministico o razionalistico, ma lirico-espressiva con l’assunzione o innesto di parole o formule di lingue del passato che nel dialetto siciliano si sono conservate (dico del greco, latino, arabo, francese o spagnolo). Al contrario degli scrittori che immediatamente mi precedevano, scrittori illuministi o razionalisti (Moravia, Morante, Calvino o Sciascia, quest’ultimo a me più vicino), mi collocavo nella linea sperimentale, quella che, partendo da Verga, giungeva a Gadda, Pasolini, Mastronardi, Meneghello, D’Arrigo..
Ho voluto compiere insomma un azzardo, far convivere cioè argomenti storico-sociali con un linguaggio lirico-espressivo. Questa convivenza era nella realtà rappresentata da due personaggi, un poeta e uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

Hai scritto: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e si articola come la storia di una continua sconfitta della ragione”.

Ma, alla fine, i tuoi libri non comunicano una sconfitta al lettore, bensì una passione civile, l’esortazione ad usare sempre di più, anche se amaramente, anche se sconfitta, la ragione.
E questo fin dal primo romanzo… ” primo mio romanzo, La ferita dell’aprile, di formazione o iniziazione, è di personale memoria (il Dopoguerra, la ricostituzione dei partiti, le prime elezioni regionali in Sicilia, la vittoria del Blocco del popolo, la strage di Portella della Ginestra, le elezioni del 48 e la vittoria della Democrazia cristiana…), un racconto scritto in una prima persona che non ho mai più ripreso.
Ho quindi immaginato e attuato il mio progetto letterario che è rappresentato principalmente da una trilogia – Il sorriso dell’ignoto marinaio, Nottetempo, casa per casa e Lo spasimo di Palermo- che riguarda tre momenti cruciali della nostra storia, il Risorgimento, il Fascismo, gli anni Settanta, con la contestazione e il terrorismo, fino agli anni Novanta, con le due stragị politico-mafiose di Palermo, le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Stragi di cui quest’anno, in questo bel nostro tempo di governo di centro-destra, ricorre il decennale. Anno e governo che s’inaugurano con gli atroci fatti di Genova.

Vincenzo Consolo

Prologo

Un velo d’illusione, di pietà,
come il sipario del teatro,
come ogni schermo, ogni sudario
copre la realtà, il dolore,
copre la volontà.
La tragedia è la meno convenzionale,
la meno compromessa delle arti,
la parola poetica e teatrale,
la parola scritta e pronunciata.’
Al di là è la musica. E al di là è il silenzio.
Il silenzio tra uno strepito e l’altro
del vento, tra un boato e l’altro
del vulcano. Al di là è il gesto.
O il grigio scoramento,
il crepuscolo, il brivido del freddo,
l’ala del pipistrello; è il dolore nero,
 senza scampo, l’abisso smisurato;
 è l’arresto oppositivo, l’impietrimento.
Così agli estremi si congiungono
 gli estremi: le forze naturali
 il deserto di ceneri, di lave
 e la parola che squarcia ogni velame,
 valica la siepe, risuona
oltre la storia, oltre l’orizzonte.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
 vorremmo ci accompagnasse l’Empedokles
malinconico e ribelle d’Agrigento,
 ci accompagnasse Hölderlin, Leopardi.
Per la nostra inanità, impotenza,
 per la dura sordità del mondo,
 la sua ottusa indifferenza,
come alle nove figlie di Giove
 e di Memoria, alle Muse trapassate,
 chiediamo aiuto a tanti, a molti,
 poiché crediamo che nonostante
noi, voi, il rito sia necessario,
 necessaria più che mai la catarsi.
Tremende sono le colpe nostre
 e il rimorso è un segno oscuro
 o chiaro che in questa notte spessa
 tutto non è perduto ancora.
In questo viaggio estremo d’un Empedocle
vorremmo ci accompagnasse Pasolini,
 il suo entusiasmo, il suo oracolo, la sua invettiva.
Ci accompagnasse l’urlo di Jacopone,
 la chiara nudità, il gesto largo,
che tutto l’aere abbraccia,  l’armonia,
del soave mimo, del santo mattaccino.

1 Pasolini, Affabulazione
da Catarsi in Oratorio, 2002

Isole Dolci Del Dio.

Vincenzo Consolo


Isola è termine d’ogni viaggio, meta della grande
via per cui ha navigato la civiltà dell’uomo. E anelito e
approdo, l’isola, remissione d’ogni incertezza, ansia,
superamento, scoperta, inizio della conoscenza, progetto
della storia, disegno della convivenza.
Ma isola è anche sosta breve, attesa, pausa in cui rinasce la fantasia dell’ignoto,
il bisogno di varcare il limite, sondare nuovi mondi.
E metafora di questo nostro mondo: scoglio nella vastità del mare, granello nell’infinito spazio;
grembo materno, schermo, siepe oltre la quale si fingono <<interminati spazi e sovrumani silenzi>>. In isole e per isole si svolse la prima e più fascinosa avventura,
il primo poetico viaggio della nostra civiltà.

Per isole di minaccia andò vagando Ulisse, per luoghi di mostruosità e violenza fermi in un tempo precivile; approdò in isole d’incanto e di oblio, di perdita di sé, d’ogni memoria; giunse in isole d’utopia,
di compiuta civiltà. Il regno di Alcinoo nella terra dei Feaci è per Ulisse il luogo di salvezza e insieme di rinascita. Qui, l’ignoto naufrago, rivela il suo nome e narra la sua avventura, opera lo scarto dall’utopia alla storia, dall’idealità alla realtà, dalla dimensione mitica a quella umana.

Dice:

        Itaca è bassa, è l’ultima che in mare
        giace (…)
        rocciosa, aspra, ma buona ad allevare
        giovani forti. Non conosco un’altra
        cosa più dolce della propria terra!
Da isole del mito e insieme della realtà è circondata la più grande isola, la Sicilia,
l’estremo lembo di terra che il furioso Nettuno, lo Scuotiterra, separò con il suo tridente dalla penisola, creando il canale ribollente dello Stretto, dominato, da una parte e dall’altra,
dalle funeste Scilla e Cariddi.

Le Eolie, le Egadi, le Pelagie sono pianeti di quella Trinacria dove, come scrisse Goethe, si sono incrociati tutti i raggi del mondo. Dalla costa tirrenica di Sicilia, si ha davanti dispiegato, fisso e di continuo cangiante, 1o spettacolo delle Eolie. E dal teatro greco sul promontorio del Tindari si gode meglio lo straordinario spettacolo. Per il loro fantasmatico apparire e disparire, per il loro ritrarsi e avanzare, per il mutare loro continuo di forma e di colore, i naviganti preomerici, fenici soprattutto, formidabili esploratori e mercanti, trasferirono quelle isole nella leggenda, nel mito, e le immaginarono vaganti come le Simplegadi,

le chiamarono le Planctai, le chiamarono Eolie, sede dei venti e dominio del re che i venti comanda. Questo mito raccolse Omero – quel flusso di memoria collettiva, quella pluralità di aedi ciechi, che si tramandavano e cantavano le vicende dei loro dei e dei loro eroi, che convenzionalmente chiamiamo Omero – e in questa luce ce le narra per bocca di Ulisse: Quindi all’isola Eolia noi giungemmo dove il figlio d’Ippota, Eolo abitava, caro agli dei immortali: è galleggiante l’isola, un alto muro d’infrangibile bronzo e una roccia liscia la circonda.

In Eolia l’eroe è ospite per un mese e riceve in dono, alla partenza, un otre ben sigillato, che gli stolti compagni aprono liberando i venti dell’atroce tempesta che li allontana dalla patria, allunga il tempo della peregrinazione e dell’espiazione.
E certo che la geografia poetica non corrisponde quasi mai alla geografia reale, ma è certo che quella dell’Odissea si può spesso collocare ad occidente della Grecia, nell’ignoto centro del Mediterraneo, che corrisponde alla geografia siciliana nella etnea terra dei Ciclopi, nello Stretto di Messina,
nella piana di Milazzo, dove pascolano gli armenti

del Sole, in Lipari e nelle Eolie, regno di Eolo .,. Il muro di bronzo che cinge Eolia, la liscia roccia a picco sul mare non può non far pensare alla roccia scoscesa della cittadella di Lipari, alle gran mura megalitiche che la circondano. Perché preomerica, antichissima è la civiltà di Lipari e delle altre isole nell’arcipelago, risale al neolitico, conta cinque millenni di storia. Una storia scritta e leggibile, come su un manuale, nei vari strati archeologici del Castello, della contrada Diana e Pianoconte di Lipari, in contrade di Filicudi, di Panarea, di Salina: un grande archivio, come quello grafico di Ebla,

un grande libro di pietre e di cocci di ceramica, di selci e di ossidiana, di gironi d’inumazione e di urne cinerarie, di sarcofagi fittili e di pietre, di crateri e di statue, di monili e di maschere .,. Fin dalla seconda età della pietra sono state abitate le Eolie. Le quali diventano prospere per via del commercio dell’ossidiana. Poi i reperti ci dicono di una violenta distruzione, di incendi e di crolli, di abbandono delle isole, e poi di nuovo del loro risorgere con la colonizzazione greca. E Diodoro Siculo a narrarci nella sua Biblioteca storica la colonizzazione greca delle Eolie. Ci fa conoscere, lo storico, una società di

contadini e di guerrieri, in una netta divisione di ruoli, in una comunione di beni e di consumi da primitivo socialismo; una Lipari prospera e bella, con porti accoglienti e bagni d’acqua salutari. Finisce questa età felice degli eoliani con i saccheggi subiti da parte dei Siracusani e dei Romani. Dopo, in età cristiana, bizantina, araba e quindi normanna, le Eolie vivono una loro lunga epoca di civiltà appartata e autosufficiente. Sospinti dal grecale, navighiamo ora verso occidente, verso le altre isole che coronano la Sicilia. Ustica è la prima che incontriamo (Lustrica, in siciliano, Egina ed Egitta è chiamata da Tolomeo, Strabone e Plinio).

Aspra, inospitale, formata da lave basaltiche e rufi, era in antico disabitata, rifugio ideale di pirati barbareschi. A metà del Settecento i Borboni la popolarono concedendo ai nuovi abitanti franchigie d’ogni sorta, fortificando l’isola, munendola sulle coste di torri di guardia. L’isola allora risorse, venne rimboschita e coltivata. Sospinti ancora da un benefico vento, doppiato il Capo San Vito, incontriamo le isole dello Stagnone, fra Trapani e il Lilibeo, e per prima Levanzo, la più piccola delle Egadi, calcarea, montuosa, che denuncia il suo tempo profondo, i segni primi dell’uomo, nella Grotta del Genovese,

con i disegni e i graffiti preistorici sulla parete dell’ampia caverna. Ma a Favignana però, isola più vasta, ospitale, gli uomini del neolitico escono dalle grotte marine, costruiscono capanni, cacciano e lavorano forse anche la terra, seppelliscono i loro morti in grotticelle a forno scavate nella roccia calcarea. Il tonno propiziatorio dipinto nella grotta di Levanzo qui a Favignana dà il frutto più copioso e duraturo. La tonnara di Favignana, ancora oggi operante, ha scritto la storia più importante della pesca nel Mediterraneo. Marettimo << ultima che in mare giace, rocciosa, aspra>>, è stata da sempre,

come l’Itaca di Ulisse, buona per allevare forte gente di mare. Lo Stagnone ancora contiene, protetta dall’Isola Grande, la gemma più rara: l’isola di Mozia. Stazione degli avventurosi Fenici, ha mantenuto nei millenni intatti le sue mura, i suoi edifici, il suo porto, il suo tofet o necropoli. I Siracusani sconfiggendo i Fenici di Sicilia nella battaglia di Imera, imposero nel trattato di pace di mai più sacrificare i bambini ai loro déi, alla gran madre Tànit o Astante e al gran padre Baal Hammon. E Montesquieu, nel suo Esprit des lois, esultava (<< Chose admirable! >>) per quel salto di civiltà e di

umanità che Gelone di Siracusa aveva fatto compiere a quei Fenici. Un vento leggero e propizio gonfi ora le nostre vele per portarci più a sud, nel mezzo del canale di Sicilia, farci approdare a Pantelleria. È stato da sempre il ponte, quest’isola, tra la vicina lfriqia, oggi Tunisia, e la Sicilia. Ponte per ogni scambio di cultura fra il mondo cristiano e quello musulmano, ponte per scorrerie piratesche, di conquiste, d’emigrazione, nell’uno e nell’altro senso, di lavoratori in cerca di fortuna. Bassa, nera, rocciosa, sferzata dal vento, l’antica Cossira fa pensare alla Tàuride, alla terra d’esilio di Ifigenia.

<<Giace vicina alla steril Cossira / Malta feconda .,.>> ha scritto Ovidio. Ha un lago salato nel centro e soffioni solfiferi, acque termali sparse dovunque. Ma pur così aspra, l’isola è stata da sempre contesa dai Saraceni e dai Cristiani. E’ stato Ruggero il normanno a restituire l’isola alla cristianità. Ma toponomastica, onomastica e lingua sono nell’isola ancora un incrocio di siciliano e di arabo. Ancora più a sud, più vicina alla Libia è Lampedusa. un isolotto di pescatori che la fantasia dell’Ariosto ha innalzato nel cielo della poesia. A Lampedusa l’autore dell’Orlando furioso fa svolgere il celebre duello di tre contro tre, dei saraceni Agramante, Sobrino e Gradasso e dei paladini Orlando, Brandimarte e Oliviero.   
      Una isoletta è questa, che dal mare
        medesmo che la cinge è circonfusa.
Dice di Libadusa o Lampedusa Ariosto. <<I passi dei nostri eroi che finora hanno spaziato sulla mappa dei continenti, adesso (.,.) fanno perno sulle isole piccole e grandi del Mediterraneo>> commenta Italo Calvino. E sembra di tornare, in quest’ultima parte del poema ariostesco, agli spazi, alle isole omeriche delI’ Odissea, a quel primo poema, a quei miti da cui siamo partiti.



Note

pag. 11 “Itaca è bassa, ecc.” Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro IX versi 25 -26-27 -28 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 15 “Quindi all’isola Eolia ecc.”Omero, Odissea, versione di Giovanna Bemporad libro X versi l-2-3-+-5 Le Lettere, Firenze 1990
pag. 35 “Una isoletta è questa, ecc.” Ludovico Ariosto, Orlando Furioso canto XL versi 57-58 Einaudi, Torino 1962 “I passi dei nostri eroi ecc.” Italo alvino, Racconta l’Orlando Furioso capitolo XXI Einaudi Scuola, Torino 1997

I quindici disegni di Giorgio Bertelli (tutti del formato di 14 x 20,5 cm), realizzati a penna su carta uso mano, sono stati ultimati nell’agosto 2000.

Il prodigio

Ma il prodigio riprende, nell’assenza del mago, del palco,
riprende sul fondo nero, sopra il nero velluto del sipario.
Appaiono, si librano su quello schermo notturno, cristalli,
porcellane, trionfi di fiori, di frutta, neve di mughetti,
corallo di ciliegie, opale di limoni, granato di mezze lune di
meloni, e viole da gamba, violini, contrabassi. Appaiono al
comando del mago nascosto dal sipario, appaiono e trapassano,
sospesi, lievi, come in una danza. La danza del sogno, la
stregoneria del segno, la scrittura del mago, la magia soave
dell’incisore notturno.



  
                                                                  Vincenzo Consolo

Milano, 25 febbraio 2002.


Edizioni Libreria Dante & Descartes

L’anarchia dei villani in Serafino Amabile Guastella – Vincenzo Consolo

“Come gioco di specchio, mercurio su una lastra”

Letto al Convegno su S.A.Guastella a Chiaramonte Gulfi il 3.6.2000

“Corre l’antica Fama per le capitali, l’ingiusta Dea dalle lunghi ali e dalle cento bocche ripete che stolidi, folli, incomprensibili sono gli abitatori delle ville, i terragni che rivoltano zolle, spetrano, scassano, terrazzano, in capri con le capre si trasformano, in ape acqua vento con i fiori, dalla terra risorgono sagome di mota e di sudore; che nelle soste, lustrate lingua e braccia, sciolto l’affanno all’acque virginali delle fonti, nelle notti di Luna, nelle cadenze dell’anno, sulle tavole d’un Lunario immaginario, di motti fole diri sapienze – Aprile, Sole in Toro: zappa il frumento tra le file, zappa l’orzo l’avena le lenticchie i ceci le cicerchie, strappa dalle fave la lupa o succiamele – muovono arie canti danze, in note movenze accenti sibillini, stravaganti. E nelle capitali, accademici illustri, dottori rinomati, in oscuri dammusi, catoi affumicati, scaffali scricchiolanti, teche impolverate, ammassano cretosi materiali, la lingua glossa, la memoria, la vita agreste; con lenti spilloni mirre olii, con lessici rimarii codici, studian di catturare cadenze ritmi strutture. Ma l’anima irriducibile, finch’è viva, guizza, sfugge, s’invola, come gioco di specchio, mercurio su una lastra.” (da Lunaria di Vincenzo Consolo)

Nel novembre del 1997, l’inglese John Berger rispondeva su Le Monde Diplomatique con una lettera aperta a un comunicato di Marcos, il capo dei ribelli del Chiapas, il quale in vari elementi individuava la situazione attuale del globo: la concentrazione della ricchezza e la distribuzione della povertà, la globalizzazione dello sfruttamento, l’internazionalizzazione finanziaria e la globalizzazione del crimine e della corruzione, il problema dell’immigrazione, le forme, legittimate di violenza praticate da regimi illegittimi e, infine le zone o sacche di resistenza, tra cui naturalmente, quella rappresentata dall’esercito Zapatista di Liberazione.

Berger, a proposito di zone o sacche di resistenza avanzava un esempio storico, un luogo del Mediterraneo dal profondo cuore di pietra: la Sardegna e, di quest’isola, l’entroterra intorno a Ghilarza, il paese dove è cresciuto Antonio Gramsci. “Là” scrive Berger “ogni tanca, ogni sughereta ha almeno un cumulo di pietre […] Queste pietre sono state accumulate e messe insieme in modo che il suolo, benché secco e povero, potesse essere lavorato  […]. I muretti infiniti e senza tempo di pietra secca separano le tanche, fiancheggiando le strade di ghiaia, circondano gli ovili, o, ormai caduti dopo secoli di usura, suggeriscono l’idea di labirinti in rovina”. E aggiunge ancora, Berger, che la Sardegna è un paese megalitico, non nel senso di preistorico, ma nel senso che la sua anima è roccia e sua madre è pietra. Ricorda quindi i 7.000 nuraghi sparsi nell’isola e le domus de janas, le grotti celle per ospitare i morti. Ricorda la diffidenza dei Sardi nei confronti del mare (-Chiunque venga dal mare è un ladro, dicono), della loro ritrazione nell’interno montuoso e inaccessibile e l’essere stati chiamati per questo dagli invasori banditi. Dalla profondità pietrosa della Sardegna, dalla sua conoscenza, dalla sua memoria, si è potuta formare la pazienza e la speranza di Gramsci, si è potuto sviluppare il suo pensiero politico.

Ho voluto riportare questo scritto di Berger, questa metafora della Sardegna di Gramsci che illumina il mondo nostro d’oggi, perché simile alla situazione sarda – situazione fisica, orografica, e umana, storica, sociale – mi sembra il mondo della Contea di Modica restituitoci da Serafino Amabile Guastella. Pietroso è l’altipiano Ibleo, aspro il tavolato tagliato da profonde cave, duro è il terreno scandito dai muretti a secco che nei secoli i villani hanno abitato, in grotte hanno seppellito i loro morti. Guastella non è certo Gramsci, non è un filosofo, un politico, è un illuminato uomo di lettere, uno studioso di usi e costumi, tradizioni, linguaggi, un’analista di caratteri, ma, nel dirci dell’inferno dei villani della sua Contea, della loro “titurìa”, ignoranza, durezza, egoismo, empietà, furbizia, illusione, superstizione, ci dice di quel luogo, di quegli uomini, della condizione modicana pre e postunitaria, di un’estremità sociale, che non è presa di coscienza storica, di classe e quindi rivoluzionaria, ma di istintiva ribellione, di anarchia. Sono sì un “antivangelo” le Parità e le storie morali, come dice Sciascia, un “cristianesimo rovesciato”, un “inferno” senza rimedio, senza mistificazione consolatoria, come dice Calvino. Non c’è, nel mondo di Guastella, mitizzazione e nazionalismo, scogli contro cui andarono a cozzare altri etnologi del tempo, da Pitrè al Salomone Marino, in mezzo a cui annegò il poeta Alessio Di Giovanni: il suo sicilianismo a oltranza lo portò ad aderire al Felibrismo di Frédéric Mistral, il movimento etno-linguistico finito nel fascismo di Pétain. Si legga il racconto dell’incontro a Modica di Di Giovanni con Guastella, della profonda delusione che il poeta di Cianciana ne ricava. “Chi potrà mai ridire l’impressione che ne ricevetti io? Essa fu così disastrosa che andai via senz’altro, mogio mogio, rimuginando entro me stesso come mai in quella rovina d’uomo si nascondesse tanto lume d’intelligenza e un artista così fine e aristocratico”. Vi si vede, in questo brano, come sempre la mitizzazione è la madre della stupidità. Ma torniamo a Guastella, all’anarchia dei suoi villani. Si legge, questa anarchia – più in là siamo alla rottura, al mondo alla rovescia dei Mimì di Francesco Lanza – la si legge in tutta la sua opera, in Padre Leonardo, in Vestru, nelle Parità, nel Carnevale, in questo grande affresco bruegeliano soprattutto, dei pochi giorni di libertà e di riscatto dei villani contro tutto il resto del tempo di quaresima e di pena. E, fuori dall’opera di Guastella, la si trova, l’anarchia, anche nella storia, nei ribellismi dei momenti critici: nel 1837, durante l’imperversare del colera, in cui il padre dello scrittore, Gaetano Guastella, si ritrova nel carcere di Siracusa assieme all’abate De Leva, dove, i due, sono serviti da un tal Giovanni Fatuzzo, il villano che era stato proclamato re di Monterosso dalla plebe. Ribellioni ci sono state, nel ‘93/94, durante i fasci siciliani; nel 1919 e 1920 in cui il partito socialista conquistò i comuni di Vittoria, Comiso, Scicli, Modica, Pozzallo, Ragusa, Lentini, Spaccaforno, e che provocò lo squadrismo fascista degli agrari. Rispunta ancora l’anarchia e ribellismo dei villani in tempi a noi più vicini, nel ‘43/44. Nel Ragusano, allora, si passò dalle jacqueries alla vera e propria insurrezione armata. A Ragusa e a Comiso si proclamò la repubblica. “Di preciso si sa solo che furono repubbliche rosse; non fasciste dunque e neppure separatiste, e si sa anche che a proclamarle furono sempre rivoltosi contadini, per lo più guidati da dirigenti locali, a volte essi stessi contadini” Scrive Francesco Renda.

Dalla rivolta di Ragusa ci ha lasciato memoria Maria Occhipinti nel libro Una donna di Ragusa.

La profonda anima di pietra dei villani della Contea di Modica, quella indagata e rappresentata da Serafino Amabile Guastella, mandava nel Secondo Dopoguerra i suoi ultimi bagliori. Ma lui, il barone, uomo di vasta cultura, illuminista e liberale democratico, con citazioni d’autori, esempi, dava segni del suo modo di vedere e di sentire quel mondo di pietra, del suo giudizio sulla condizione dei villani. “Vivendo a stecchetto dal primo all’ultimo giorno dell’anno, il nostro villano ha preceduto Proudhomme (sic) nella teoria che la proprietà sia il furto legale: anzi ritiene per fermo che il vero, il legittimo padrone della terra dovrebbe essere lui, che la coltiva e la feconda, non l’ozioso e intruso possessore che ingrassa col sudore degli altri” scrive nel V capitolo delle Parità. Detto qui per inciso, quei verbi “coltiva e feconda” ricordano l’istanza di riforma agraria in Tunisia nel 1885, ch’era detta “Diritto di vivificazione del suolo”.

E quindi, più avanti, parlando del concetto e pratica del furto dei villani, scappa, al nostro barone, una parola marxiana, “proletario”. “…perocchè è conseguenza logica e immediata dei compensi escogitata dal proletario” scrive. Nel capitolo VI, illustrando ancora la pratica del furto, scrive: “Le idee del furto nel villano non essendo determinate dal concetto legale della proprietà di fatto, ma da quello speculativo della proprietà naturale, che ha per norma il lavoro, ne sussegue che i convincimenti di lui corrano in direzione opposta delle precisazioni dei codici. Il capitolo X delle Parità attacca così: “Il padre Ventura, lodando la politica cristiana di O’Connel, la definì col famoso bisticcio di ubbidienza attiva e di resistenza passiva; ma se i nostri villani non hanno inventata la formula, l’hanno però messa in pratica molto tempo prima di O’Connel, e del padre Ventura”. Cita qui, Guastella, Daniel O’Connel, detto il grande Agitatore, capo de la rivolta contro gli inglesi e padre dell’indipendenza dell’Irlanda; l’O’Connel lodato dal filosofo e teologo palermitano padre Gioacchino Ventura. Fin qui l’intellettuale Guastella. Ma occorre soprattutto dire dello scrittore, di quello che si colloca, afferma Sciascia, tra Pitré e Verga.

“Se fossi un romanziere non parlerei certo di don Domenico, il gendarme con le stampelle, perché in questo racconto ha una parte secondarissima, ma non essendo uno scrittore!…” scrive Guastella in Padre Leonardo. Credo che questa frase sia la chiave di lettura di tutta l’opera del barone di Chiaramonte. Uno scrittore, il Guastella, diviso tra la vocazione, la passione del narrare e l’impegno, il dovere quasi, culturale e civile, dell’etnologia; diviso tra la poesia e la scienza, l’espressione e l’informazione, l’obiettività e la partecipazione, la rappresentazione e la didascalia. Ma è già, in quel racconto, un po’ più vicino alla narrazione e un po’ più lontano dalla scienza; o almeno, l’etnologia, là, è come inclusa e sciolta nella narrazione, implicitamente dispiegata, e meno esemplificata e scandita, come al contrario avviene nelle Parità. In quel racconto, l’autore, consapevole dello slittamento verso la narrazione, mette subito in campo nel preambolo una mordace autoironia facendo parlare il protagonista: ”Io, fra Leonardo di Roccanormanna, umilissimo cappuccino, morto col santo timor di Dio il giorno 7 marzo 1847, […] senza saper come, nel marzo del 1875 mi trovai risuscitato per opera di un imbrattacarta, il quale non ebbe ribrezzo di commettere quel sacrilegio in tempo di santa quaresima e in anno di Giubileo […]”. E con questa bricconata d’intento […] il mio persecutore mi ha costretto ad andare per il mondo […] O Gesù mio benedetto, datemi la forza di perdonarlo!”

Il padre Leonardo si muove tra Roccanormanna e Vallarsa, suscita e fa muovere, come Petruska nel balletto di Stravinskij, altri personaggi: fra Liborio, padre Zaccaria, don Cola, mastro Vincenzo…

Ognuno d’essi suscita ancora altri personaggi, illumina luoghi, ambienti, storie,istituzioni, usi, costumi, linguaggi… Attraverso loro conosciamo conventi, chiese, confessori e bizzocche, giudici e sbirri, tempi di feste e di colera, dominanti e dominati, cavalieri grassi e villani dannati in abissi di miseria. Attraverso quel don Gaetano, sopra citato, e il cugino fra Zaccaria, costretto a fare un viaggio fino a Napoli, conosciamo l’ottusa, feroce violenza del governo borbonico, di Ferdinando e del suo ministro Del Carretto. E non possiamo non confrontare, questo viaggio a Napoli di fra Zaccaria, con quelli a Caserta, Capodimonte, Portici, Napoli del principe di Salina, il quale annota soltanto, oltre la volgarità linguistica di Ferdinando, di quelle regali dimore, “architetture magnifiche e il mobilio stomachevole”.

Quando è sciolto, Guastella, da preoccupazioni scientifiche o didascaliche, quando sopra la testa di cavalieri e villani, capedda e burritta, osserva il cielo, la natura, scrive allora pagine alte di letteratura, di poesia: “Dalle montagne sovrapposte a Roccanormanna scendea una nebbia fittissima, che prima invadeva le colline, poscia il paesello, indi un tratto della montagna, mentre dalla parte opposta, in cielo tra grigio e nerastro correvano nuvole gigantesche a forma di draghi, di navi, di piramidi, di diavolerie di ogni sorta: e sotto quelle diavolerie il sole ora si nascondeva, ora riapparia come un bimbo pauroso dietro le vesti materne. Finalmente privo di splendore e di raggi come una lanterna appannata, andò a tuffarsi in mare…” Questo brano, ecco, è speculare a quello ipogeo profondo, a quell’onfalo d’orrore, a quel Cottolengo, cronicario o Spasimo asinino della celebre pagina delle Parità in cui si parla della fiera di Palazzolo.

Ma torno, per finire, a quel Berger da cui sono partito, alla Sardegna pietrosa e alla Ghilarza di Gramsci quale metafora storica delle sacche di resistenza nella globalizzazione economica di oggi.

A Ghilarza, appunto, c’è un piccolo Museo Gramsci: fotografie, libri,lettere; in una teca, due pietre intagliate a forma di pesi. Da ragazzo, Gramsci si esercitava a sollevare quelle pietre per rafforzare le spalle e correggere la malformazione della colonna vertebrale. Sono un simbolo, quelle due pietre, simbolo che, cancellato in questo contesto sviluppato, affluente e imponente, riappare nei luoghi più pietrosi e disperati del mondo.

Nel Museo dell’olio di questo paese, di Chiaramonte, ho visto un altro oggetto simbolico: uno scranno, una poltrona di legno, il cui sedile, ribaltato, è fissato alla spalliera con un lucchetto. Su quello scranno poteva sedere soltanto il cavaliere, il proprietario del frantoio, che deteneva la chiave del lucchetto, giammai il villano. Il simbolo mi dice, ci dice questo: da noi, nel mondo sviluppato, la partita è chiusa col lucchetto, la chiave la tiene il gran potere economico che governa il mondo. Ma quel potere, e noi con lui, dovrà fare i conti con le pietre di Ghilarza, con i pesi di Gramsci.

Noi, se non vogliamo essere dominati, essere espropriati di memoria, conoscenza, essere relegati nelle grotte degradanti e alienanti della produzione e del consumo delle merci, se vogliamo essere liberi, non possiamo che anarchicamente ribellarci, resistere e difendere il nostro più alto patrimonio: la cultura, la letteratura, la poesia.

Claude Ambroise, presentando insieme a Sciascia, a Milano, nel ’69, la collana delle opere più significative della cultura siciliana tra il Sette e l’Ottocento, pubblicata dalla Regione Siciliana, ebbe a dire che senza la conoscenza, senza il possesso di quel substrato, di quel patrimonio morale, avremmo rischiato di camminare, di procedere nel vuoto. In quella collana era stato ristampato Le parità e le storie morali dei nostri villani, prefato da Italo Calvino.

Guastella, ecco, è una pietra, e fra le più preziose, della nostra ribellione, della nostra sacca di resistenza culturale.

Vincenzo Consolo

Milano, 2 giugno 2000

30.6.2010 per progetto Minimum Fax
cover

Prefazione al libro di poesie di Mokhtar Sakhri

scansione0018

A Civitavecchia

Mentre la statuetta piangeva le lacrime del miracolo,
Che dal gesso faceva zampillare il sangue,
La speranza perse la fede cantata dagli oracoli
E l’Uomo si vide bandire dalla società e dal suo rango.

La folla in preda ad un paganesimo atavico,
Cerca Dio in sogni e visioni sublimi
Ove Egli si manifesta irreale e apatico,
Simile a quei demoni che abitano gli abissi:

Una volta guida attenta e loquace della sua Creatura,
Al punto di dettare il Corano e i Comandamenti,
Oggi l’abbandona, gettandola in pasto
Ai ciarlatani che non giurano che con i Testamenti.

Declassato, il debole senza più soffio né preghiera,
Trascurato dall’immagine specchio della sua somiglianza
E dai suoi simili dalla vita altera e fiera,
Si libera dalla solitudine e dalla sua sofferenza.

Prefazione

Nell’aprile del 1991 mi trovavo ad Algeri, invitato là per l’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto italiano di cultura. Ho potuto cosi assistere, in uno di quei giorni, alla grande greve, allo sciopero generale proclamato dal FIS, il Fronte Islamico di Salvezza, che, vinte le elezioni amministrative dell’anno prima, cercava in questo modo di incalzare il governo per ottenere delle votazioni politiche nel volgere di breve tempo. C’era una terribile tensione in città. Ho visto il grande raduno degli integralisti, tutti con barba e candida palandrana, il Corano in mano,nella grande spianata di Place des Martyres,ai piedi della Casba, Tra il palazzo Jenina e le grandi Moschee. Ho visto, a una cert’ora , quella massa di dimostranti, inginocchiarsi e prostrarsi a terra per la preghiera, marciare poi compatti, agitando in aria il Corano, per le vie della città. Poliziotti, in assetto di guerra, precedevano e seguivano dimostranti,controllavano ogni loro movimento.
Un editore algerino mi faceva da guida nella bellissima Algeri. Mi guidò nei meandri della Casba, nella casa in cui s’erano asserragliati i patrioti durante la rivolta e dove erano stati uccisi il capo, Ali, e Alima, Mahmoud e un bambino innocente. In quella casa divenuta sede del FIS, mi tornava nitida alla memoria, la scena finale del film di Pontecorvo. Vidi ancora ad Algeri e nei dintorni, i luoghi di Camus, la spiaggia del delitto de Lo straniero e la Tipaza delle “nozze”. E mi spinsi pure nella Cabilia, nei poveri villaggi dell’interno. c’era in quei giorni in Algeria un’atmosfera tesa, una cupa sospensione, c’era come un’attesa di qualcosa di tragico che si stava abbattendo sul Paese. Venivano in albergo a trovarmi giovani poeti e scrittori per donarmi i loro libri e come per chiedere anche, a me italiano, tacitamente aiuto. La hall de El Djezair pullulava di poliziotti in borghese, di spie d’ogni sorta. Mi chiedevano ogni volta costoro chi erano e cosa volevano le persone che venivano un trovarmi. Negavo naturalmente loro ogni risposta. Riuscii poi miracolosamente a ripartire da Algeri.Da li a poco cominciarono in quel paese i massacri, le incursioni degli integralisti nelle periferie della città e nei villaggi, le violenze d’ogni sorta, gli orrori, gli obbrobri perpetrati nel nome di Dio, di una religione. L’empietà, la barbarie, il micidiale fanatismo d’Algeria diveniva il  prodromo, il segno primo e terribile d’altri scenari obbrobriosi che si sarebbero dispiegati di qua e di là nel Mediterraneo, in Africa, nei paesi più lontani. Certo alcuni  di quei giovani Intellettuali che incontrai ad Algeri furono poi, a causa della catastrofe algerina, costretti a lasciare la loro terra, e rifugiarsi in Europa. Lo scrittore Mokhtar Sakhri, il poeta di questo bel Viaggio Infinito, aveva anticipato di anni il destino dei suoi più giovani confréres, aveva abbandonato la sua paria nel tempo del regime di Boumedienne. Questo suo viaggio infinito dunque il fatale destino di ognuno che è stato costretto a sradicarsi dalla propria terra, dalla propria cultura, dalla propria lingua, il che è stato condannato, tra “esilio ed asilo” come dice Matvejevic, ad una perenne erranza della memoria e dell’anima.
Nell’ esilio e nell’asilo allora, il poeta articola, nell’imprescindibilità bisogno di comunicare, il primo e sorgivo linguaggio, le parole e la sintassi che precedono la ragione, la storia, la logica della società e della politica, dispiega il linguaggio, sulla traccia dei grandi poeti arabi del passato come Abu Nawass, del sentimento, dell’amore. Come in un ricreato Stil Nuovo, la prima silloge di liriche, da Lettere di Natale fino a Bon a Parigi,è dedicata a nomi di donne: Maurine , Sylvana, Catherine, Monica, Jacqueline, Loredana… Donne tutte “Intorno al core” che danno pretesto al racconto, una tranches de vie, a felicità e inganni, incantamenti e repulsioni.
ll poema a Parigi è la declinazione di quell’assoluta capitale, di quel mondo da ogni distanza fantasticato e agognato,é la scansione, nell’impatto da parte dello “straniero”, di questo cuore della civiltà nostra europea. “Mi parve odiosa” dice il poeta, ” Mi parve crudele e quindi” ignobile “, inquietante”, per apparire Infine “eterna”, “felice”. Conclude, “Non ero più uno straniero/ solo nella notte e nella città./ Dell’amore facendo il suo messaggero,/ e offrendomi una tra le belle/ delle sue ragazze,/ mi aveva adottato/ questa Regina” .
Per sentieri sotterranei e incontrollati, per il linguaggio primigenio  dell’amore il poeta dunque si concilia con quest’altro mondo, approda al linguaggio formale questa civiltà. Nella seconda  parte quindi della silloge dà voce alla memoria del Paese abbandonato e insieme al nuovo paesaggio umano che gli si presenta davanti agli occhi, il paesaggio degli altri immigrati, di quelli che popolano ancora la triste zona dell’emarginazione: I senegalesi, I Ladri Il ladro musulmano. Infine, approdato alla storia,il poeta urla per quanto di atroce avviene nel paese abbandonato, per quanto si ripete in Europa: I profeti dell’odio, Gli sgozzatori, Ballata algerina, Paradiso perduto, Bosnia. Urla il poeta per la sua Itaca imbarbarita, Itaca perduta ormai per ogni Ulisse che lasciata l’isola, condannato all’erranza, al Viaggio infinito.

Vincenzo Consolo Milano, Settembre 1999

 

Il Lunario ritrovato

IL LUNARIO RITROVATO

 di Vincenzo Consolo

 Vi fu un’epoca – iniziata in antico e durata fino a ieri – in cui non esisteva ancora l’industria culturale, non esistevano i best sellers, tirature immediate in migliaia e migliaia di copie di un libro, messaggi pubblicitari e imposizioni mediatiche; vi fu un tempo in cui le voci più nuove e autentiche della letteratura trovavano registrazione e identificazione nelle riviste letterarie: palestre, queste, laboratori di ricerca e anche cattedre di maestri conclamati. Erano numerose e autorevoli, queste riviste, di cui alcune sono chiamate oggi “storiche”, riviste vale a dire che hanno segnato una stagione, hanno aperto nuovi e progressivi sentieri letterari. Lunario siciliano è tra queste. Nato, il mensile letterario, nel dicembre del 1927, finiva la sua pubblicazione nel 1931. Nasceva ad Enna, il periodico, era stampato presso la tipografia di Florindo Arengi ed era diretto da Francesco Lanza: una città e uno scrittore che danno subito il segno e il senso della rivista. Enna, intanto, il luogo più estremo del Paese, il cuore della Sicilia, la città che, al di qua o al di là del grande e primigenio mito della terra, al di qua della sua antica storia, aveva ancora una sua attuale storia politica, sociale, culturale. Ad Enna e intorno ad Enna erano ancora vive le presenze magistrali di intellettuali che si chiamavano Napoleone Colajanni e Giuseppe Lombardo Radice; erano i giovani Nino Savarese, Aurelio Navarria, Arcangelo Blandini, Alfredo Mezio, Telesio Interlandi, Corrado Sofia, Francesco Lanza … In quell’epoca di fascismo appena consolidatosi nel Paese, in cui imperioso era il comando di conformare all’astratta idea nazionalistica alla italianità, ogni diversità storica, culturale, linguistica, di cancellare ogni loro segno (con la scomparsa di Giuseppe Pitrè, di Gioacchino Di Marzo e di Salvatore Salomone-Marino, Giovanni Gentile proclamava il tramonto della cultura Siciliana), questi giovani “frondisti” col loro Lunario siciliano, edito ad Enna, rivendicavano una forte identità siciliana, periferica e rurale, una tradizione letteraria, popolare e colta, con cui non si potevano recidere i legami. Rivendicazione che non significava chiusura e compiacimento nella e della diversità (il che avrebbe portato a un più angusto e nefasto nazionalismo, come quello in cui si impelagò il provenzale Federico Mistral), ma imprescindibile punto di partenza, inizio dalla cultura locale per aprirsi alla più vasta cultura nazionale e internazionale, al più attuale dibattito letterario. A questo foglio stampato in un luogo remoto collaboravano infatti autori fra i più autorevoli dell’epoca, vociani e rondisti, da Cardarelli a Ungaretti, a Cecchi, a Bacchelli, e a Falchi, Bartolini, Biondolillo, De Mattei, Centorbi, fino al giovane Vittorini. Enna dicevamo, e quindi Francesco Lanza. Si laurea a Catania il giovane di Valguarnera, con una tesi su Proudhon, il filosofo socialista romantico. Di questo socialismo Lanza rimane convinto e crede che il fascismo dei primordi lo riproponga nel nostro Paese. Si trasferisce a Roma e in questa città collabora alle più prestigiose riviste e a vari giornali, pubblica le sue prime prove letterarie: Almanacco per il popolo siciliano, Corpus Domini, Fiordispina, Storie di Nino Scardino, che s’intitolerà poi, su suggerimento di Ardengo Soffici, Mimi siciliani: il più straordinario, singolare, originale libro del Novecento italiano (“L’oscenità narrativa rimanda alla festa carnevalesca, al mito del paese della cuccagna, al capovolgimento dei e delle gerarchie e dei linguaggi, al sogno della realizzazione dei desideri, all’utopia” scrive dei Mimi Italo Calvino). Tornato in Sicilia nel ’27, dirige, come sappiamo, il Lunario siciliano. Accanto a lui, nei ruoli di redattori, sono due altri “ennesi”: Nino Savarese e Telesio Interlandi. Cattolico, rondista, ma di “assoluta fedeltà a se stesso”, come ha scritto Falqui, Savarese aveva già esordito nel ’13 con Novelle dell’oro e quindi pubblicato ancora Altipiano, Pensieri e allegorie, Ploto, l’uomo sincero, Gatterìa… Il suo umanesimo e il suo cristianesimo l’avevano tenuto critico e distante dal fascismo aggressivo, impietoso e ignorante che in quegli anni sempre più mostrava il suo vero volto e s’imponeva. Il contrasto, la frattura avvenne a causa di una sceneggiatura, commissionata allo scrittore dal regime, sul mondo contadino siciliano, sceneggiatura cinematografica da cui il fotografo-regista Vittorio Pozzi Bellini avrebbe dovuto trarre un documentario. Savarese (e insieme Pozzi Bellini nei suoi appunti fotografici) diede, del mondo contadino siciliano, la più vera e cruda realtà: di abbandono e di miseria, di sfruttamento e umiliazione. La Commissione romana, presieduta da Cecchi, bocciò naturalmente il progetto. Questa vicenda, questa lezione di coerenza e di dignità, è narrata da uno storico del cinema, dall’ennese Liborio Termine (Un eretico innocente). L’altro redattore di Lunario, il chiaramontano Telesio Interlandi, già da tempo trasferitosi a Roma dove dirigeva II Tevere, era, dei tre, più convinto e acceso fascista, convinzione e accensione che lo porteranno più tardi a dirigere l’infame giornale La difesa della razza. Nell’aprile del ’28 Lunario siciliano interrompe la pubblicazione. Riprende quindi a Roma ed è diretto da Telesio Interlandi. Le ragioni del suo trasferimento da Enna nella capitale, della sua stampa nella tipografia de Il Tevere e della avocazione a sé della direzione da parte di Interlandi, crediamo siano dipese da una caduta di assenso, da parte di Lanza e Savarese, a quelle che erano le richieste del regime, e insieme dalla volontà di un maggior controllo sul periodico da parte di Interlandi. Ritorna poi, Lunario, ad essere ripubblicato in Sicilia, a Messina, ed è diretto da Stefano Bottari. Scrive fiduciosamente, il direttore nel suo primo editoriale: “Il Lunario Siciliano” torna ad essere pubblicato nella sua terra, dopo una peregrinazione nella città capitale dal centro dell’isola dove nacque attento al lavoro dei campi, alle memorie degli antichi miti e ai racconti di cavalleria ancora così vivi nel popolo. Esso non muta i propositi di tre anni fa, al suo primo apparire (…). La vecchia anima del popolo siciliano, così ricca di canti non è vinta ancora da ciò che di soffocante è nella civiltà moderna…”. Pubblicherà solo tre numeri il Lunario messinese di Bottari e quindi si estinguerà: al lavoro dei campi, agli antichi miti, alla cultura contadina, alla tradizione letteraria popolare e no, ai Pitrè, Verga, De Roberto, Capuana, altri miti nefasti, altra cultura o incultura si erano sostituiti. La verità era stata coperta dall’impostura. La ripubblicazione di questo Lunario ritrovato ha un valore di un prezioso documento storico e letterario, significativo di quel che può accadere in un Paese quando viene oppresso dalla dittatura, quando la civiltà viene sopraffatta dalla barbarie.

 S.Agata Militello, settembre 1999

(Prefazione alla ristampa anastatica del “Lunario siciliano”, Enna, 1999)
Originale dattiloscritto indirizzato all’editore Giuseppe Accascina

A un uovo


A un uovo, a una pera o meglio a un limone assomiglia il mio volto.
Ma del limone sembra abbia solo il lunare pallore, e le rughe e i pori,
non l’acre o l’acidulo dentro.
D’un limone, sì, ch’abbia perso l’umore, sia ormai avvizzito.
Che dalle due fessure o ferite della sua buccia mostri occhi penosi
che guardano ma sembra non vedano. Se si chiudono quelle fessure,
se s’imbiancano gli occhi potrebbe anche assomigliare il mio volto
a una maschera, di quelle che si cavano una volta col gesso dai volti distesi,
resi ormai fermi dal rigore assoluto.
Ha ragione quel tale che disse che la foto è la morte?

Vincenzo Consolo
per Vanitas Ediz. Alsaba 1999



Uomini e paesi dello zolfo

di Vincenzo Consolo

    Siamo nel regno del latifondo, del feudo, quel regno che gli stessi antenati di Lampedusa, che così bene lo descrive ne Il Gattopardo, hanno contribuito, col loro assenteismo, con la loro incuria, con i loro criteri economici medievali, a desolare, a desertificare, renderlo quella distesa infinita di solitudinee miseria che è.

    E’ l’eucaliptus, di cui parla lo scrittore, l’unico albero che s’incontra in quella distesa, solitario, in gruppi, in boschetti nelle valli e per i dirupi franosi, l’eucaliptus, quest’albero maligno e velenoso come un serpente, che “si trasforma in una vera e propria pompa vivente che, se in un primo momento può risultare utile a bonificare certi terreni acquitrinosi, finisce con il diventare poi un mostro insaziabile, capace di prosciugare in breve tempo sorgenti, disseccare falde sotterranee, depauperare il suolo sottostante…” scrive Fulco Pratesi. L’eucaliptus diventa simbolo del gabelloto del feudo, del soprastante, del campiere, del picciotto, di quella gerarchia che, per delega del proprietario lontano, ha angariato il contadino, il bracciante, ha sfruttato il lavoro di questi e ha spogliato spesso il proprietario della terra; simbolo del gabelloto mafioso, come le alte, snelle palme davanti alle masserie, alle ville dei feudatari erano simbolo di proprietà e d’aristocrazia.

         Ma continuiamo il nostro viaggio all’interno dell’isola, dove altre piante, altri simboli s’incontrano. E altro paesaggio. Ci accorgiamo che, a poco a poco, le curve dei colli calvi, che si sciolgono in pendìi, in vallate, si spezzano, s’increspano, s’accavallano, si fanno dure e aspre: dai bruni o grigi terreni a mano a mano s’alzano frastagli di rocce calcaree, i fianchi dei colli, ora ripidi, mostrano le radici di quelle rocce, gli strati; le fiumare hanno tagliate netti quei fianchi, hanno scavato tra un colle e l’altro profondi abissi.

        E quelle rocce biancastre, lungo i fianchi, sui profili delle alture sembrano residui d’ossa calcinate di gigan­teschi animali preistorici. Nei loro fianchi, negli anfratti, cresce lo spino, l’agave, l’ampelodesmo, il cardo, la giummara, la ginestra spinosa, il pomo di Sodoma… E sopra vi volteggiano i neri corvi… Sembrano luoghi, questi, di maledizione biblica, luoghi come la disuma­na, barbara, d’atroce esilio per Ifigenia, terra dei Tauri (“in questa terra estrema, desolata”, dice Euripide). E qui, dove la roccia si frantuma e s’allarga, è il chiarchià­ru […]

        Ma andiamo avanti, avanti, e, come in una paurosa di­gressione onirica, in una metafisica discesa agli Inferi, ar­riviamo in luoghi ancora più desolati, se è possibile, più disumani. Là, dove il calcare si sfalda, si fa poroso, friabi­le, argilla e gesso giallognolo, cristalli di gesso, tuffu niuru (tufo nero), marna turchina, là è lo zolfo. Siamo nel cosid­detto altipiano dello zolfo, quello che va da Caltanissetta ad Agrigento. Se si guarda una cartina geologica della Si­cilia, come la francese Carte Sulfurière de la Sicile del 1874, dove i giacimenti di zolfo sono segnati a macchie rosse, si vede che le sparse tracce, partendo dalla periferia, dal Pa­lermitano (Calatafimi, Lercara Friddi), dal Catanese e dall’Ennese (Assoro, Licodia Eubea), a mano a mano s’infittiscono, s’addensano, tra Cianciana e Valguarnera, di­vengono un continuo lago rosso attorno a Girgenti, da Aragona a Serradifalco.

        Vasto luogo infernale, crosta, volta d’un mondo sot­terraneo dove malvagie divinità catactonie si manife­stano in alto per acque salmastre, gorgoglìi di pozze motose, soffi di vapori gassosi; dove Plutoni sarcastici si acquattano in attesa di Kore innocenti che non saranno mai rese alla luce, alla pietà delle madri. Siamo scivolati insensibilmente nel mito, ma avvolto nel mito doveva essere in antico lo zolfo, religioso e magico il suo uso. “Ma egli parlò alla cara nutrice Euriclea: / — Porta lo zolfo, o vecchia, il rimedio dei mali; portami il fuoco: / voglio solfare la sala” (Odissea, XXII). Così Odisseo pu­rifica i luoghi dove sono stati uccisi i Proci. Solo sotto i Romani abbiamo notizia che lo zolfo affiorante viene raccolto, quello sotterraneo viene scavato, fuso (E cuni­culis effusum, perficitur igni, Plinio), solidificato in pani (è attestato dalle lastre di terracotta con marchio delle officine di Racalmuto conservate al Museo nazionale di Palermo), largamente impiegato in medicina e nell’in­dustria tessile. E c’è un piccolo particolare nella storia della Sicilia sotto i romani, nel II secolo a.C., di un fram­mento di zolfo che si fa simbolo di rivolta e di riscatto. Racconta Diodoro Siculo, e con lui ripetono gli storici ottocenteschi siciliani, da Nicolò Palmeri a Isidoro La Lumia, che lo schiavo Euno, per acquistar prestigio presso i compagni, emetteva dalla bocca fiamme miste ad oracoli, fiamme con l’artificio di una noce svuotata e riempita di zolfo. E fiamme di zolfo uscivano dalla sua bocca guidando gli schiavi ribelli alla conquista di Enna. Altre fiamme di zolfo, altre rivolte vedremo più avanti, in tempi molto più vicini, se non di schiavi, di quelli che possiamo chiamare i dannati del sottosuolo: gli zolfatari.

        Sì, si hanno ancora notizie della conoscenza in Sicilia dei giacimenti di zolfo nel periodo arabo, normanno, angioino e ancora nel Quattro, Cinque, Seicento, ma quella che è la storia vera e propria dell’industria zolfifera dell’isola, dell’estrazione sistematica dello zolfo e della sua esportazione, comincia nel Settecento, sotto i Borboni, con la prima rivoluzione industriale, con la scoperta di un nuovo metodo per la preparazione dell’acido solforico, che larghissimo impiego aveva nell’in­dustria tessile, e della soda artificiale. Zolfo allora si chiedeva alla Sicilia, da dove veniva inviato su velieri fino al mercato di Marsiglia. Sul finire del Settecento, miniere attive erano a Palma di Montechiaro, Petralia Sottana, Racalmuto, Riesi, San Cataldo, Caltanissetta, Favara, Agrigento, Comitini, Licodia Eubea. Novantamila cantàri se ne esportavano, al prezzo di un ducato a cantàro. Ed ecco che le sotterranee divinità plutoniche, signore delle tenebre e della morte, si trasformano in benigne divinità della speranza. Il mito si distrugge, si razionalizza, i pozzi e le gallerie che inseguono la vena gialla dello zolfo non nascondono più paure metafisi­che, ma reali, concreti pericoli di crolli, d’allagamenti, di scoppi, di incendi. La febbre dello zolfo prende tutti, proprietari terrieri, gabelloti, partitanti, picconieri, com­mercianti, bottegai, magazzinieri, carrettieri, artigiani, arditori, carusi; attira avveduti stranieri, esperti di spe­culazioni e di profitti.

         È una febbre, quella dello zolfo, che cresce col tempo, una drammatica epopea che si sviluppa nell’arco di due secoli, tra congiunture, crisi, crolli di prezzi, riprese e miracoli, raggiunge il suo acme tra la fine dell’Ottocen­to e gli inizi del Novecento, decresce fino a sparire ver­so gli anni ‘50. Lasciando tutto come prima, peggio di prima. Lasciando, sull’altipiano di cui abbiamo detto, la polvere della delusione e della sconfitta, un mare di de­triti, cumuli senza fine di ginisi, di scorie, un vasto cimi­tero di caverne risonanti, di miniere morte, sopra cui i tralicci arrugginiti, i binari contorti dei carrelli fischiano sinistri ai venti dell’inverno; son tornati a ricrescere i ce­spugli spinosi del deserto, a strisciare le serpi, a volteg­giare i corvi. E tornata a regnare, su quell’altipiano, la metafisica, eliotiana desolazione:

        Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono

          Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,

          Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto

          Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,

          E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,

          L’arida pietra nessun suono d’acque.

        Ma nell’arco di quei due secoli, dallo zolfo, per lo zolfo, è nata e cresciuta in Sicilia una nuova categoria di lavoratori; nelle zone zolfifere, nei paesi delle miniere é nato e si è sviluppato un nuovo modo d’essere siciliano, una nuova umanità; dallo zolfo e per lo zolfo è nata una storia politica e sociale, una letteratura.

        Idealmente restringendo nel tempo e ipotizzando im­provviso l’esplodere e lo svilupparsi dell’industria zolfi­fera, c’è da immaginarsi la corsa di masse di uomini ver­so questa nuova possibilità di lavoro, verso questa nuova speranza. Dai popolosi paesi dell’interno dell’isola, dai miseri centri del feudo, in questa sterminata landa dove da secoli le possibilità di lavoro dipendevano dalla volontà, dal capriccio del gabelloto e dei suoi sottostanti, dalla soggezione a costoro, dove le giornate lavorative si riducevano a poche nell’arco dell’anno, dove il contadi­no era angariato, oltre che dalla iniqua divisione dei pro­dotti, da tasse, decime e balzelli vari, a cui bisognava ag­giungere le tangenti illegali, dove squadre di lavoratori stagionali, mietitori o spigolatori, erano costretti al nomadismo, dove la vita insomma raggiungeva inimmagi­nabili livelli di sfruttamento e di miseria, la miniera, la zolfara appare come un miraggio nel deserto. Tutti ora hanno possibilità di lavoro, dagli uomini più giovani, saldi e robusti, agli anziani, ai deboli, ai menomati, alle donne, ai bambini. Nella miniera, dentro la miniera, Co­me in esilio o in extraterritorialità, trova rifugio finanche il disgraziato che ha appena saldato un debito con la giu­stizia o che con questa ha ancora dei conti in sospeso.

        Senonché la miniera riproduce immediatamente, nel­la gerarchia padronale, nei vari gradi di sfruttamento, nella precarietà, nel rischio, nei danni, nella stessa spi­rale di miseria, quella che era la vita contadina in super­ficie, nel feudo. Come se la situazione orizzontale della campagna, in una rotazione di novanta gradi, si fosse verticalizzata: così la miniera, dalla sua bocca, e via via nei vari livelli, fisicamente, visivamente, è la rappresen­tazione di un’ingiusta, insostenibile situazione sociale. In superficie, dunque, invisibili, lontani, in alto nei loro palazzi di Palermo, di Girgenti o di Catania, erano i proprietari del suolo, che per legge erano anche pro­prietari del sottosuolo in cui era imprigionato lo zolfo, che senza preoccupazione e rischio alcuno ricevevano dal gabelloto, dal concessionario, l’estaglio, la grossa quota del prodotto. Scriveva il professore Caruso-Rasà nel 1896 ne La questione siciliana degli zolfi:

       Quando, nello scorso febbraio, ebbi occasione di conoscere qui a Torino il giovane Notarbartolo di Villarosa, il famoso lionpalermitano, che per una scommessa fatta con lo zio, du­ca di San Giovanni, compiva a piedi il viaggio da Palermo a Torino [in codeste imprese, impegnati in simili fatue avventu­re consumavano la loro vita molti giovani rampolli della no­biltà siciliana, ndr], volli, sapendolo proprietario di molte zol­fare in quel di Villarosa, chiedergli degli appunti e delle notizie che avrebbero potuto servirmi in questo studio, sul quale allora già lavoravo. L’intervista che io ebbi col giovane aristocratico palermitano fu per me poco edificante. Egli sa­peva di esser padrone di certe zolfare nel territorio di Villaro­sa, ma non sapeva né il numero, né il nome e mi confessò can­didamente che né egli né suo padre erano mai andati a visitarle.

           

         E ci immaginiamo quest’incontro tra lo scrupoloso professore siciliano, insegnante di economia politica nella Regia Università della capitale piemontese, e il “noncurante” Notarbartolo.

       Ancora in alto, lontani, erano gli sborsanti, i finanzia­tori dell’impresa, i gabelloti, i magazzinieri, gli esporta­tori: tutta una categoria parassitaria che dal lavoro della miniera traeva profitti.

       Sempre fuori della miniera, carrettieri, fabbri ferrai, bottegai (la bottega apparteneva spesso al proprietario della miniera, al gabelloto o a persona di fiducia che ap­plicava agli zolfatari il cosiddetto truck system). E anco­ra, più vicini, più strettamente legati alla miniera: calca­ronai arditori, addetti cioè alla preparazione dei calca­roni e alla fusione dello zolfo; i vagonari,che spingevano i carrelli sui binari dalla bocca della miniera fino ai cal­caroni. E quindi, dentro la miniera, distribuiti a diversi livelli come i dannati nei vari gironi: i capimastri, picco­nieri, glispesalori, pompieri, carusi.

       Ma, se si guarda bene, tutto questo vasto apparato, tutta questa realtà economica poggia principalmente sulle spalle di due soli lavoratori: il picconiere e il caruso. L’uno a colpi di piccone estrae lo zolfo, l’altro dalle visce­re della terra lo trasporta alla superficie, alla luce. L’uno e l’altro legati tra loro indissolubilmente oltre che da un contratto (spesso giudicato infame, disumano: il famoso soccorso morto), da uno stesso destino di pena, di fatica, di dannazione, di pericolo; l’uno e l’altro legato da inestri­cabili fili di dominio e soggezione, violenza e passività, benevolenza e rancore, amore e odio, acquiescenza e ri­bellione, fedeltà e tradimento. Sono gli ultimi due anelli, i picconiere e il caruso, di una lunga catena che nelle tenebre più fitte della miniera, all’estremo limite della condizione umana, sul confine tra vita e morte, hanno mes­so a nudo, come i loro corpi, la loro anima, gli istinti primordiali dell’uomo, al di là di ogni remora, di ogni regola di ogni condizionamento sociale.

       Attorno al picconiere e al caruso, vi sono poi gli altri protagonisti, v’è il coro degli altri dannati.

       Gli uomini della zolfara hanno operato una rivoluzione (o involuzione: giudichi ognuno come vuole) culturale, in ogni caso una rottura con quella che era l’arcaica, tradizionale cultura contadina. La quale era di rassegnazione, portatrice di valori statici, immutabili, di prudenza e “saggezza” ereditate dai padri, di confor­mità a una morale e a una “dignità” piccolo-borghese. La quale si esprimeva in un dire sentenzioso, in prover­bi, in collaudate massime sapienzali. Tutta la letteratu­ra siciliana, d’estrazione e tema contadino (da Verga in poi, fino alla svolta di Vittorini) esprime un sottoprole­tariato e proletariato in abiti e con aspirazioni piccolo-borghesi. Così viene fuori dagli studi etnologici di un Pitrè, di un Salomone-Marino, di un Guastella; così vie­ne fuori nei romanzi e nelle novelle di Verga, in quelli di Capuana, nelle novelle di Pirandello. L’unico libro in cui i contadini non siano mascherati da piccolo-borghe­si è I mimi siciliani di Francesco Lanza. Ma questo si spiega forse col fatto che Lanza, e i suoi contadini, sono d’un paese zolfifero, di Valguarnera.[…]

Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Milano, 1999, pp. 11-18.

Vera o di marmo, cosi Paolina sedusse Soliman

 

di Vincenzo Consolo

 

Ancora lei ci spinge a scrivere, la libera donna di Ajaccio, la “paganetta”, la generalessa d’ogni conquista amorosa, la dominatrice d’ogni Impero dei sensi, la legislatrice d’ogni regno del lusso e del gusto, l’impareggiabile Paolina Bonaparte, riapparsa da poco a Villa Borghese nella sublime formalizzazione canoviana, nella serena sua nudità, nella sua divina, trionfale bellezza. Riapparsa lontana e intoccabile per noi volonterosi pellegrini intruppati nella fila serpeggiante davanti al museo, individui privi di quei sogni, di quelle fantasie di cui sono dotati i poeti.

Loro sì, i poeti, sono in grado di allungare la mano, di toccare, carezzare quelle splendide forme, far palpitare di vita quel levigato, gelido marmo.

Le statue, si sa, hanno spesso sedotto, spinto a forzare la barriera della materia sorda, a sprofondare nel gorgo della forma, a possedere l’apparenza della beltà. Freud ci ha dato un esempio di questo dolce delirio nel saggio sul racconto Gradiva di Wilhelm Jensen. Ma al di là dell’analisi del profondo, tornando alla superficie, alla forma, ricordiamo le ispirate parole di Guy de Maupassant davanti alla statua della Venere Anadiomene di Siracusa:

“Essa chiama la bocca, attira la mano, offre ai baci la palpabile realtà della carne meravigliosa, della carne elastica e bianca, rotonda, ferma, deliziosa sotto l’amplesso”.

Difficile andare oltre le sensuali fantasie dell’autore di Bel Ami. Molto al di qua è rimasto, ad esempio, per aver introdotto nel calore del trasporto la fredda lama dell’ironia, o la rondistica geometria, Antonio Baldini di fronte alla nostra Venere, a Paolina. Paolina fatti in là s’intitola il suo racconto. Ma com’è esitante la mano che sfiora quel marmo, come formale la sua carezza.

”E se tenevo  chiusi gli occhi e salivo con la mano, non c’era parte del braccio che sotto le mie dita non rispondesse come vera carne. E quando le passai le mani sul capo, i riccioli mi piovevano tra le dita dalla nuca rotonda”.

Passando dal realismo magico di Baldini al real meraviglioso di Alejo Carpentier, vediamo, di fronte alla bianca, luminosa statua della Venere canoviana altro furioso rapimento, altra sensuale vertigine, l’altra mano audace e sapiente accarezzare, risvegliare e far vivere quel marmo. È la mano questa volta del negro antillano Soliman, personaggio de Il regno di questa terra del grande scrittore cubano, poco letto da noi, sepolto ormai dalla recente gran piena letteraria latino-americana. Scrive Carpentier: “Toccò il marmo con mani avide, e odorato e vista si trasferirono nelle dita. Toccò il seno. Fece scorrere il palmo sul ventre e il mignolo si fermò nella depressione dell’ombelico. Accarezzò la tenera curva della schiena, come per voltare il corpo. Le dita cercavano i fianchi rotondi, le delicate cosce, la purezza del seno e ritrovarono lontani ricordi, gli riportarono dimenticate

immagini […].  Con un grido terribile, come se gli sfondassero il petto, il negro prese a urlare, più forte che poteva nel vasto silenzio di palazzo Borghese”.  Quella mano di Soliman che scivola sul marmo, sull’ideale bellezza suggellata dalla forma neoclassica, la cui canoviana estremizzazione insinua il pensiero del più splendido arresto e della morte è una bella metafora dell’incontro della civiltà, della cultura nostra europea, mediterranea, con la cultura delle popolazioni del Nuovo Mondo. Carpentier, del resto, su quest’incontro ha scritto molti sui romanzi, da Il secolo dei lumi a L’arpa e l’ombra, a Concerto barocco.

Il regno di questa terra narra del colonialismo francese nell’isola di Haiti, del governatorato, sotto Napoleone, del generale Leclerc, della rivolta degli schiavi, della presa del potere nell’isola da parte del re negro Henri Christophe.  Leclerc muore di colera, la moglie Paolina torna in Francia e quindi sposa il principe Camillo Borghese. Nel palazzo di Roma, che Paolina aveva abbandonato per trasferirsi a Parigi, vengono ospitate, dopo l’assassinio del re Christophe, la vedova e le figlie. Con loro è l’ex schiavo Soliman, che era stato, a Cap-Haïtien e all’Ile de la Tortue, valet de chambre e massaggiatore di Paolina.

“Mentre Soliman le faceva il bagno, Paolina traeva un piacere perverso nello strofinare il corpo, sott’acqua, contro i fianchi di lui, poiché sapeva che egli era continuamente tormentato dal desiderio”.

Carpentier, nel romanzo, non si discosta dalla realtà storica (riscontro si può trovare nel libro Paolina Bonaparte di Geneviève Chastenet, recentemente edito da Mondadori e di cui questo giornale ha pubblicato stralci il 9 luglio u.s.).

Sulla realtà storica lo scrittore cubano fa germinare il suo musicale linguaggio, le sue letterarie fantasie, i suoi personaggi. Personaggi come Soliman, la cui mano sul marmo e il cui urlo hanno la forza dirompente e liberatoria di un rito vudù, della vita che vince la forma. È come se nei versi “canoviani”di Foscolo s’introducessero, per scardinarli, il patois e il ritmo del poeta antillano Derek Walcott, l’autore della Mappa del Nuovo Mondo

Da il Messaggero  del 31.7.1997

1galleria-borghese-canova-paolina-borghese

FANTASIA ISPANICA

Guida alla città vicereale                                                                                                                                                                  di Vincenzo Consolo

De la ciudad moruna
tras la murallas viejas,
yo contemplo la tarde silenciosa,
a solas con mi sombra y con mi pena.

(A. Machado, Campos de Costilla)


… T’avvolge improvvisa voluta di brezza di mare di monte, si fonde all’alga marcita la palma, poseidonia  ginepro fenicio e l’euforbia l’eringio il pino d’Aleppo esposto sui poggi del monte dimora al romito mai visto, pellegrino di grotte di tane, alla furia dei venti, brezza che fiori accarezza spessi d’effluvi di Cipro, spere di conca avvolte nell’oro: allora ti trovi alla balza su cui si erge la reggia.

Oh excelso muro, oh torres coronadas
de honor, de majestad, de gallardia!. (1)

Sei giunto dai sobborghi o dal Monte Reale per l’arco di porta dai giganti custodi reggenti la loggia, il belvedere a piramide a smalti e bande­ruola di latta (vi scorre ai piedi un ruscello, la vena sfuggita dal Nilo, che porta radici larve papiri caimani che il raggio di fuoco suscitò dalla coltre di limo ferace — il principe folle o burlone pietrificò nella villa quei mostri e altri ne aggiunse, una folla, sognati o pure intravisti alle corti alle feste d’un gran carnevale).

E varchi il portale dal timpano rotto in cui si spiegano gli stemmi le armi. Nel chiostro digrada un chiarore da lucernari di lino, per squarci di cielo turchese di cumuli cirri ammassi di nubi in cammino — sfreccia delle tempeste l’uccello, l’airone migrante, il solitario passero o quello maltese. Luce in prigione che indugia in labirinti di pietra, s’ammassa, esita alle colonne, agli archi, ai doppi loggiati, agli scaloni a rampe, a viti, scivola sopra mura scialbate, cilestrine lesene, paraste. Sale dalle segrete lo stri­dere dei ferri, dai viali, dai cortili dietro cortili il passo dei cavalli, il cigolio di carrozze, dai giardini pensili il cinguettare d’uccelli, rari del paradiso, dei tropici.

Passi per gallerie, anditi, ambulacri, ponti, sospese logge, ai vesti­boli esiti, alle soglie (il Grande, l’Infanta, il Condottiero da sogno, da parete dipinta ti viene): non badare alla guardia tronfia, al mercenario in brache festose, al buffone con lucerna spaccona, a pennacchio, che nasconde i sonagli. Odi se vuoi nel tempo sospeso II bisbiglio di preci per grate, fessure, per bussole schiuse d’oratori segreti, cappelle murate, delle fruste gli schiocchi, dei flagelli i lamenti, le canzoni dell’anima.

En una noche oscura
Con ansias en amores inflamada… (2)

Da vani diversi, dietro tende, cortine scarlatte, indovini l’alcova, la mano che indugia carezza, il pannello d’avorio cinese che scorre e dispiega la scena, licenze… (la sposa del capitano partito per terre con­quise s’arrese all’amore di un giovane a corte, e l’altra – ma qualcuno assicura che la linea del corpo, la pelle riflessa allo specchio appartiene alla stessa velata – fanciulla tenera, fu tolta a un padre in prigione, batti­loro ribelle, per risveglio di sensi, voglie incrostate di vecchi togati, pre­lati). Altrove é la forza, alla sala del dio provato da immani fatiche, la schiena le braccia potenti, a masse nodose.

Ma viene il momento: ti trovi al cospetto di viceré in teoria spiegati, lungo pareti, in effigie, tra bande di onice nero e fastigi, sovrapporte di stucco, imperi di gesso, e l’altro – non sai se vero o dipinto in sostitu­zione d’un altro – in damasco dorato a garofani a gigli, in seta cangiante e sboffi di trine, la gorgiera che regge un volto di buio (ride o ira tre­menda lo scuote?), assiso sul trono: – Maestà Seconda, Quasi Signore, Rappresentante Eccelso, Somma Autorità Dopo Qualcuno, Sovrano Limitato, Mio Viceré – dirai piegando a malapena un sol ginocchio, mezza la testa, e l’altra tieni alta: bada: sul trono avuto in prestito l’uomo senza volto non conosce il sorriso, il gesto largo, sereno della magnanimità, incrina la sua vita l’astio, l’orgoglio offeso, il pensiero costante d’un potere delegato, d’una grande sicurezza dipendente.

Ora é la volta della discesa, lasciando a mano dritta la macchina trionfale di Filippo, la Soledad, le cupole di sangue tra grappoli di datteri, pompelmi, viticci attorcigliati alle colonne, all’arco di ferro sopra il pozzo.

(2) Jùan de la Cruz, Cancionesa del almo

Sobre laclara estraila del ocaso
como un alfanje, plateada, brilla
la luna en el crepúsculo de rosa… (3)

La volta di pietre d’oro, d’ametista, topazi affumicati, intrecci, geome­trie affollate, ricami d’arenaria, rabeschi d’una grande moschea profanata. Dimora un cardinale che affonda in mollezze porporine e dispiega in volute, in ventagli sfaldati effluvi d’incensi grassi, acide essenze, malsani fer­menti. I servi, i paggi corrotti in fronzoli in gale a farandola intorno, e il monaco che regge lo stendardo dell’ulivo e del cane infuocato – Misericor­dia et Justitia – arrossano pei bagliori di roghi notturni sopra la piazza, moltiplicati da cristalli bocce vetri piombati.

Allora muovi il passo, affrettati allo spazio circolare, al centro da cui partono i quattro punti del mondo. Quattro fontane scrosciano: viene Pri­mavera con Carlo Imperatore e la vergine Cristina, Estate giunge con Filippo e la Ninfa fatta santa, al volger d’Autunno l’altro Filippo e l’Oliva santa, chiude Inverno con Filippo Terzo e la vergine che tiene sopra il palmo la mammella.

T’investono quattro venti e quattro canti.

Castilla varonil, adusta tierra,
Castilla del desdén contra la suerte,
Castilla del dolor y de la guerra,
tierra immortal, Castilla de la muerte! (4)

Procedi dunque per la via che si sperde alla Porta Felice – passano i galeoni, i velieri sul fondale del mare, costa, riposa alla fresca d’acque fon­tana teatrale: Orfeo danza, Ercole coi Fiumi i Tritoni le Ninfe, e il Genio della città sopra lo stelo di putti di conche di tazze spande largisce dona in cornucopia canestro festone di frutta, l’albicocca l’arancio il melograno dischiuso…

E guarda, osserva le quinte di pietra: scorgi le scale i portali le grate panciute i balconi pomposi di chiese conventi pretori, contro il cielo cobalto e trionfi di nubi i transetti i contrafforti a volute le aeree cupole come orci iridati, maioliche azzurre splendenti.


(3) Antonio Machado. EI poeta recuerda a una mujer desde del Guadalquivir.
(4) Antonio Machado. Orillas del Duero.

Del ablerto balcòn al blanco muro
va una franja de sol anaranjada
que inflama el aire… (5)

Il monastero ti dona alla ruota l’agnello trafitto dallo stendardo, i grap­poli d’uva dorata, i trionfi di gola, le frotte di mandorla, cesti canestri nature morte dipinte. E la chiesa, la chiesa il fresco di nave, lo sfavillio l’abbaglio degli occhi: scansa gli intarsi catturanti a mischio tramischio, staccati dalle spire di colonne a torciglioni, le Allegorie le cantorie i coretti, volgi in alto in alto lo sguardo: vedi i cieli, delle cupole le Apoteosi le Glorie le Ascen­sioni oltre le balaustrate rotonde da cui s’affaccia la pavolcella la lira il caprifoglio franante. E il Senato poi dispiega sopra i cieli le profane imprese, i Governi le Giustizie le Battaglie i cavalli galoppano, s’impen­nano tra nuvole, si rovescia il carro, cozzano le lance, brillano le bocche di fuoco, investono una folla d’affamati…

(5) Antonio Machado. Fantasia iconografica.