Vincenzo Consolo e la sua Itaca della memoria

12 Dicembre 2016  

Questo volume, concepito e voluto da Vincenzo Consolo ma pubblicato postumo,raccoglie cinquantadue brevi scritti narrativi che copronoun arco di più di mezzo secolo e ripercorrono il suo itinerario di scrittore toccando i temi a lui più cari. In un’intensa galleria sfilano quadri dell’infanzia in Sicilia e della giovinezza a Milano, ritratti ironici o feroci della società e del mondo culturale italiano; viaggi nella storia, nel paesaggio, nell’arte di una Sicilia amata con dolorosa consapevolezza; interventi che testimoniano un appassionato impegno civile.

(…) “Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni … ” dice di sé Pirandello.  Sì, si può cadere su questo mondo per caso, ma non si nasce in un luogo impunemente. Non si nasce, intendo, in un luogo senza essere subito segnati, nella carne, nell’anima da questo stesso luogo. Il quale, con gli anni, con l’inesorabile, crudele procedere del tempo, si fa per noi sempre più sacro. Sacro per i fili degli affetti che man mano si moltiplicano e ci sostengono; per i fili dei ricordi, l’accumulo di memoria che il luogo, come prezioso reliquiario, in sé racchiude; memoria dolce di quelli che non sono più con noi; assiduo, presente ricordo di quelli che assieme a noi procedono; simpatia profonda per quelli che ci seguono. Fin dal primo sguardo sul mondo, fin dai primi bagliori dei ricordi – e sono scene isolate, fotogrammi luminosi incorniciati dal nero dell’immemorabile – si è impresso, Sant’Agata, dentro di me per sempre.

Hieme et aestate et prope et procul, com’era scolpito nella stele fogazzariana, io porto in me questo punto unico del mondo, questo paese: nello spazio in cui esso s’adagia, in questa campagna bella alle sue spalle, piena di contrade, d’abitanti, nell’anfiteatro dei colli che vanno dalla punta dello Scurzi a San Fratello, dalla valle del Rosmarino o quella dell’Inganno; nel suo mare, spesso minaccioso, impraticabile, ch’era pericolo costante e fatica immane per i nostri pescatori: mi porto dentro fatalmente il reticolo delle sue vie, delle sue case, una folla di volti, un’infinita sequenza di gesti, e un concerto di voci, parole, frasi; mi porto dentro i suoi giorni e le sue notti, la sua luce e il suo buio. Avrei potuto, o potrei, giunto alla mia età, riempire pagine e pagine di ricordi, di memorie, ricostruire, al di là d’ogni validità letteraria, un tempo perduto, stendere una mia, un’umile, piccola recherche. Ma non è questo il moto e lo scopo del mio scrivere. E allora: perché scrivo? Ma perché scrivo in prosa? E perché scrivo romanzi o racconti di contenuto storico e sociale? Scrivo dunque di temi relativi, contingenti perché non sono poeta, perché non sono fanciullo, perché non sono re (non faccio parte, voglio dire, non sono detentore del potere). Solo i poeti infatti, i fanciulli e i re possono affrontare gli assoluti, immergersi, naufragare nell’infinito mare dell’esistenza. Esistenza che è irreparabile, crudele nella sua indifferenza. Riscattabile è al contrario il contingente, il vivere nel temporaneo patto sociale (sì, solo al poeta è lecito beffarsi delle magnifiche sorti e progressive: “Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco”: si specchi nelle ceneri infeconde, nell’ impietrata lava; si specchi nella terra desolata, nell’ osso di seppia, nella bufera … ).

(…)lo sono d’una terra, la Sicilia (ma quante altre terre nel mondo somigliarono, somigliano o somiglieranno alla Sicilia!) dove, oltre l’esistenza, anche la storia è stata da sempre devastata da tremende eruzioni di vulcani, immani terremoti, dove il figlio dell’uomo e il figlio della storia non hanno conosciuto altro che macerie di pietra, squallidi, desolanti ammassi di detriti attorno a zolfare morte. “In una manciata di polvere vi mostrerò la paura” dice Eliot. E allora, di fronte alle macerie, alla polvere dell’esistenza e della storia, privi come siamo di speranze e conforti di ordine metafisico, non resterebbe che lo sconforto, il pianto. Ma solamente i poeti, ancora, posseggono l’oscuro segreto delle parole per dire, con la più alta dignità e più alta bellezza, della grande avventura dell’esistere, della vita; dei suoi dolori, delle malattie, della morte; dire delle sue consolazioni, delle sue illusioni; dell’amore, dell’arte, di un fiore (sia pure una ginestra), del sorgere del sole, del tramonto della luna, della grazia di una donna.

(…)Ora, questo paese che mi ha dato i natali ha la ventura, il destino di trovarsi ai confini, alla confluenza di due regni, dove si perdono, sfumano, si ritraggono in una sommessa risacca le onde lunghe della natura e della storia. Lasciando, su questa remota spiaggia dell’incontro, segni indistinguibili e confusi. Remota spiaggia, limen, finisterre, ma anche luogo sgombro, vergine, terra da cui rinascere, ricominciare, porto da cui salpare per inediti viaggi. Nato da qui ho preso coscienza, a poco a poco, d’aver avuto il privilegio di trovarmi legato all’ago di una bilancia i cui piatti possono restare in statico equilibrio o prendere, da una parte o dall’altra, a secondo se sopravanza il peso della natura o della cultura.  E non è questo poi l’essenza della narrazione? Non è il narrare, come dicevo, quell’incontro miracoloso, di ragione e  passione, di logica e di magico, di prosa e poesia?

Non è quest’ibrido sublime, questa chimera affascinante?

Mi sono ispirato, narrando, a questo mio paese, mi sono allontanato da lui per narrare altre storie, di altri paesi, di altre forme. Però sempre, in quel poco che ho scritto, ho fatalmente portato con me i segni incancellabili di questo luogo. E mi sono allontanato da lui anche per andare a vivere altrove. In questi giorni si concludono venti anni da che ho lasciato la Sicilia per andare a lavorare e vivere a Milano, la Milano di Manzoni, ma anche di Verga, di Quasimodo, di Vittorini. Ma in quella città, nella progredita, ricca e allettante, ma anche dura, ma anche pretenziosa città, non credo di essermi consegnato, docile e spoglio di identità, a una cultura che non mi apparteneva, pur curioso, pur attento osservatore di quest’altra cultura. Credo, infine, di non aver mai smesso di essere uomo di quest’isola, figlio di questo paese. A cui sono grato di tutto quanto mi ha dato, con i suoi segni, con la sua luce, con i suoi accenti.

di Emanuela Gioia
dal blog dilibriealtro

Titolo : La mia isola è Las Vegas
Autore: Vincenzo Consolo
Casa editrice: Mondadori
Anno di pubblicazione: 2012

Della felicità del leggere

della-felicitaVincenzo Consolo
” Della felicità del leggere “.
con una nota di
Antonio Franchini
Edizioni Henry Beyle
Illustrazione di Lucio Passerini

 

*

In una casa senza libri, in un paese senza biblioteca e librerie mi sono trovato nella remota infanzia, nell’adolescenza, trovato in un deserto con brama e miraggi di letture che intuivo necessarie ad aprirmi varchi, sentieri di conoscenza e salvezza, letture diverse da quelle velenose della scuola nel fascismo o dalle altre tristi e mortificanti dispensate dai preti dell’oratorio.

  Scoprii per prima una polla d’acqua fresca nella casa d’un cugino di mio padre, un piccolo proprietario terriero che viveva d’una magra rendita, solo e scapolo, a cui la fantesca aveva regalato un figlio.  Nei momenti d’odio, di furia verso il mondo, verso il podestà e il regime, don Peppino s’affacciava al balcone e declamava versi dell’Inferno, brani di “Vittor Ugo”, dei Miserabili.  Scoprii nella sua casa nove o dieci libri (“I libri giusti per capire chi sono questi tiranni! “ diceva), che non mi dava in prestito, ma mi faceva leggere là, seduto a un tavolo di marmo, sotto il suo sguardo vigile.

  E quindi fu la volta della malaria e di Silvio Pellico.

  Prima dell’arrivo degli americani e della disinfestazione di paesi e di campagne con il DDT, nel mezzo dei giochi e dello studio, venivamo assaliti all’improvviso, noi ragazzi, da brividi di freddo, da tremori.  Dovevamo allora correre subito a casa, metterci a letto, seppellirci sotto montagne di coperte fino a che non arrivava la violenta febbre a riscaldarci, a buttarci nel delirio.  Fu durante uno di questi attacchi di febbre malarica, per la suggestione forse del racconto del maestro che riemergeva dall’inconscio, che chiesi piagnucolando Le mie prigioni.

E i miei, costernati (non seppi mai in quale modo e dove) riuscirono a trovare un esemplare squinternato delle memorie dell’eroe piemontese.  Tornato alla coscienza, divorai il libro, ma ne rimasi inappagato, per la mestizia che dentro vi stagnava, la rassegnazione.

  Un’oasi poi scoprii, ricca di zampilli, di ruscelli, d’alberi dai frutti prelibati, in casa del mio compagno delle scuole medie Beniamino, figlio d’un avvocato.  Andavo da lui a fare i compiti, a fargli i compiti, i temi, le versioni, ché Beniamino, grasso e pigro, non aveva amore per la scuola, per lo studio, e in cambio ottenevo in prestito i libri in mostra per arredo negli scaffali neri dello studio di suo padre, bei volumi intonsi in finissima carta d’India, rilegati in marocchino.  Fu grazie a quella biblioteca che potei leggere Shakespeare e Molière.

  Boccaccio e Goethe, Stevenson e Defoe, Manzoni e Nievo, Melville e Poe, Tolstoj e Dostoevskij, D’Annunzio e Deledda…  Leggere con furia, con disordine, come se dentro quei boschi fitti di parole, fra quegli immensi alberi, di cui non sospettavo la profondità delle radici, non sapevo vedere la prodigiosa altezza, il rigoglio delle chiome, andassi alla ricerca d’un tesoro.  E non capivo che il tesoro consisteva nell’ossigeno che respiravo di quel bosco, nelle erbe, nei muschi, nelle bacche di cui camminando mi nutrivo.

   Calmatasi la furia adolescenziale, il cieco bisogno di impostare muscoli e ossa ( se non avremo letto in quella tumultuosa stagione, forse mai più conosceremo il piacere, la felicità del leggere, mai scopriremo i tesori nascosti in isole lontane, mai la vera ricchezza di questo nostro mondo), comincia a sistemare, a mettere ordine nella mia biblioteca ideale, nella biblioteca anche materiale che man mano poi cominciai a formare, a possedere.

  L’incontro che non diceva più di mondi bellissimi e lontani, di isole e avventure, di folli cavalieri erranti, di re e di battaglie, di amori e di contrasti, l’incontro che per la prima volta mi fece poggiar lo sguardo sul mondo in cui ero nato e mi trovavo a vivere, sugli uomini e le cose del paese, sui pescatori e i contadini, sui baroni proprietari, su me e i miei parenti, fu con Verga.  Verga mi fece decifrare il mondo complesso, intricato della mia Sicilia, quel mondo mi fece vedere, duro e pietroso, riflesso come in uno specchio, mi fece sentire la musica sommessa, il mormorio doloroso e risentito del suo dire.  E capii che da quell’incontro, da quel mondo, e dall’altro parallelo e più moderno di Pirandello, sarei dovuto ripartire per percorrere e capire, per decifrare ogni altro mondo.  Ripartire da Acitrezza, da Vizzini e da Girgenti.

La Sicilia comasca di Consolo nei “Meridiani”

Di Lorenzo Morandotti

Nei “Meridiani” di Mondadori è approdata, a cura e con un saggio di Gianni Turchetta e con un testo introduttivo del filologo Cesare Segre, l’opera letteraria dello scrittore Vincenzo Consolo, molto legato al Lario. “Voglio subito enunciare un giudizio complessivo – esordisce Segre – Consolo è stato il maggior scrittore italiano della sua generazione. La sua scomparsa ha turbato tutto il quadro della narrativa del nostro Paese, rimasto senza un punto di riferimento alto e, per me, indubitabile”.

Pubblichiamo qui il testo integrale dell’intervista al maestro di Sant’Agata di Militello, scomparso nel 2012, apparsa sul nostro giornale il 19 novembre 1997. Consolo era assiduo frequentatore del Lario. Nel 1993, fresco vincitore dello Strega, nella sala del comune di Albavilla, aveva presentato con il giornalista Lorenzo Morandotti del “Corriere di Como” il suo romanzo “Nottetempo casa per casa”. L’autore dell’articolo-intervista a Consolo, Dario Campione, così commenta oggi sul suo blog: “Ho ritrovato parole sorprendentemente attuali, a testimonianza del fatto che i grandi temi restano sempre sullo sfondo della vita degli uomini, sono il loro palcoscenico naturale. Rileggere Consolo a 20 anni di distanza dà la misura della sua grandezza di scrittore e di osservatore della realtà italiana”.

Vincenzo Consolo in Altolago nella chiesa di San Giacomo di Livo

Lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo ha instaurato un intenso rapporto con il territorio altolariano. In uno dei suoi libri più fortunati, Retablo, si parla diffusamente di Gravedona e delle Tre Pievi, terra di emigrazione (dal Cinquecento all’Ottocento) verso Palermo e la Sicilia. Eccone anche per darne un saggio della ricca prosa di Consolo, una citazione dal romanzo, che ritroviamo anche nel “Meridiano” pubblicato da Mondadori: “Con gran sorpresa riconobbi, sulla soglia di una botteghella, un uomo della terra di Stazzona, ove la mia famiglia possedea cascine e campi, e una casa in cui s’andava nell’estate e ancora vanno di tempo in tempo i miei parenti (…) Mi mostrò orgoglioso la sua bottega di panniere. ben avviata, fiorente, pur nel poco tempo in cui si dimorava qui in Palermo.”
Sempre più frequenti sono state, negli ultimi anni, le sue visite sul Lago di Como. In Retablo il protagonista, il pittore Fabrizio Clerici, compie un viaggio dalla Lombardia alla Sicilia. È anche il libro con il quale lei si è legato al territorio lariano. Come è nata l’idea del romanzo?

«Retablo è innanzitutto un omaggio alla letteratura, al Manzoni, rievocato attraverso il personaggio di Teresa Blasco, ma anche nel figlio del mercante gravedonese emigrato in Sicilia, che il Clerici incontra a Palermo, proprio nell’ultimo capitolo, nel momento in cui abbandona l’isola. Quel ragazzo si chiama Lorenzo e manda, attraverso il pittore, un paio di orecchini alla sua fidanzata, Lucia. Il romanzo contiene anche un omaggio al grande Cervantes attraverso il gioco del Retablo, riflessione sull’inganno necessario, l’inganno della poesia. Una società privata della poesia è una società che impazzisce, una società che si aliena. Sino a quando coltiviamo la memoria non correremo questo rischio. Se perdiamo la poesia perdiamo la memoria e quindi siamo veramente destinati alla follia della storia. E sappiamo a quali disastri, a quali orrori può condurci la follia della storia».
Che cosa l’ha colpita dell’Alto Lago, al punto da eleggerlo a luogo letterario?
«L’estremità di questi luoghi, questo Nord profondo che si incontra con la Sicilia grazie all’emigrazione. Credo che l’emigrazione sia veramente il cammino delle civiltà. Tutte le grandi civiltà si sono infatti formate attraverso le emigrazioni, a partire da quella greca. L’Altolago è un luogo della memoria, come dimostrano ad esempio i tanti oggetti sacri che la “Nazione Lombarda”, insediatasi nella Palermo del Seicento e del Settecento, mandava al luogo di origine, e che ancora oggi sono conservati nelle chiese. La memoria spesso si perde, viene cancellata. Sull’emigrazione lombarda in Sicilia sono state pubblicate parecchie ricerche, lavori meritori perché spiegano il fenomeno e ne dimensionano la portata. Sono le stesse ricerche di cui anch’io mi sono servito. Soltanto la letteratura, il romanzo, è però in grado di assegnare un significato alla storia, a dargli poesia. La letteratura scava nel profondo e restituisce ai fenomeni storici il loro senso più vero e profondo».
Si è mai chiesto perché si emigra?
«Tutte le emigrazioni sono sempre dovute a necessità economiche. Credo che la stessa cosa sia successa in quel lontano Seicento agli uomini delle Tre Pievi, quando per ragioni di carestia e di fame sono arrivati a Palermo, in questa grande capitale che allora era una sorta di crocevia del mondo. Da lì infatti passavano tutte le navi dirette a Oriente o verso le coste africane. Era una metropoli ricca, dove grande era anche la vitalità culturale ed economica. I valori in cui ci si riconosce, nell’emigrazione, sono quelli dell’onestà, della probità, del lavoro, della tolleranza, i valori della solidarietà. Questi lombardi, questi emigrati comaschi, proprio perché avevano questo senso dell’onestà del lavoro, del lavoro fatto bene – erano degli artigiani provetti – trovarono a Palermo la loro dimensione, il loro destino. Queste famiglie esistono ancora, oggi il più importante gioielliere di Palermo si chiama Barraja, ma si possono fare tantissimi altri esempi. Hanno trovato tolleranza, perché a Palermo, in quegli anni, c’era, proprio per eredità culturale, tolleranza e solidarietà per chi veniva da fuori, e hanno saputo con il loro lavoro, con la loro sapienza artigianale, con la loro probità, trovare lì, in questo luogo così lontano e così diverso da quelli che avevano lasciato, una nuova identità, un nuovo futuro e, in definitiva, il loro destino».
Perché la metafora del viaggio è così importante per gli scrittori di ogni epoca e di ogni tradizione culturale?
«Viaggiare per scoprire i luoghi in cui i propri antenati sono emigrati, ad esempio, è un fatto di memoria, è un modo di difendere la propria identità. Oggi una diversa organizzazione del mondo, l’esplosione della cosiddetta rivoluzione tecnologica, l’invasione dei mezzi di comunicazione di massa, tendono a cancellare la nostra memoria, la nostra identità, e quindi a farci vivere in un presente infinito dove non riusciamo a immaginare neanche il futuro più prossimo. Credo che l’impegno di ciascuno di noi debba essere quello di conservare la memoria di tutto quanto ci ha preceduto e quindi: consapevolezza del presente e progettazione del futuro. Non facciamoci ridurre a oggetti, cerchiamo di rimanere soggetti della nostra vita e della nostra storia».
I suoi libri sono considerati difficili, il linguaggio in cui lei si esprime è volutamente colto, a volte caratterizzato da arcaismi e locuzioni dialettali. Da dove nasce questo modo di scrivere?
«Il mio linguaggio scaturisce da uno scavo profondo in un giacimento prezioso, di cui non ho alcun merito. È il giacimento linguistico lasciato da tutte le civiltà che sono passate nella mia terra. Scavando in questo patrimonio ho cercato di immettere in circolo parole sepolte dall’oblio. Fra queste lingue preziose, tra questi reperti lessicali, che vanno dal greco al latino, all’arabo, allo spagnolo, una lingua particolarmente importante per me è stata l’antico lombardo, che si parlava nella pianura padana intorno all’800 dopo Cristo. Quando i Lombardi, dopo essere venuti in Sicilia con i Normanni per cacciare gli Arabi dall’isola, decisero di insediarvisi definitivamente, formarono delle colonie linguistiche (su questa Lombardia siciliana ha molto fantasticato e mitizzato uno scrittore come Vittorini: inConversazione in Sicilia c’è infatti la figura del “Gran Lombardo”). Ho adottato questa lingua, che è un medio-latino, o gallico che dir si voglia, proprio come estremità linguistica, da cui partire per giungere poi alla lingua della comunicazione».
Non le sembra a volte di esagerare, di tentare un gioco estremo, di correre il rischio di cedere di fronte al fascino della forma?
«La mia lingua letteraria non è usata soltanto per un gioco formale. Sono nato vicino ad una di queste isole linguistiche, San Fratello, dove il medio-latino gallico si è conservato integro. I sanfratellani, proprio perché parlavano una lingua diversa (e avevano di conseguenza usi e costumi differenti) erano oggetto di critica, di dileggio, qualche volta anche di beffa».
A questa sua sperimentazione assegna un significato particolare?
«Investe tutto il significato della mia ricerca. Mi sono posto subito, sin dal mio primo gesto di scrittore, su una linea “sperimentale”, non ho cioè adottato il codice linguistico della comunicazione, ma quello dell’espressione, situandomi così su una linea che parte da lontano, da Verga, e poi, in tempi più recenti, passa attraverso Gadda e Pasolini. Ho conosciuto un mondo che adesso è scomparso, quello della cultura contadina, ed ho assistito alla grande trasformazione italiana, cioè alla cancellazione di questa cultura contadina e all’avvento di quella industriale. Credo che in Europa nessun paese come l’Italia abbia vissuto una trasformazione così rapida e profonda. Ciò ha messo in crisi parecchi scrittori. Pasolini, ad esempio cerca disperatamente di raccontare questa grande trasformazione. Nel momento in cui ho cominciato a scrivere si concludeva anche una stagione importante, nella letteratura come nel cinema: il neorealismo. Scrittori come Pratolini o Carlo Levi (e nel cinema registi come Roberto Rossellini e Vittorio De Sica) con grande generosità avevano immaginato, dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, una nuova società, e si erano quindi espressi in un linguaggio di estrema comunicazione, credendo così di poter ricostruire la realtà dalle macerie in cui era stata ridotta».
Ma il suo mestiere di scrittore nasce da un’esigenza di raccontare la società italiana o di trasformarla? Si tratta insomma di una scelta stilistica o di una scelta politica?
«Credo entrambe. L’Italia non ha mai avuto una società coesa proprio perché non si è mai affermata, nel nostro Paese, una lingua comune. Il problema della lingua è stato agitato da parecchi scrittori della nostra letteratura: Leopardi, ad esempio, guarda oltralpe, afferma che il francese tende all’unità, è una lingua che si è geometrizzata a partire dall’epoca di Luigi XIV, mentre in Italia esistono un’infinità di lingue. La Francia ha “perso l’infinito” che aveva in origine, mentre l’Italia lo ha mantenuto, ha mantenuto cioè la possibilità di alimentare la propria lingua attraverso l’apporto delle parlate popolari, dei dialetti. Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, porta come esempio di possibilità infinita di orchestrazione dell’Italiano uno scrittore del Seicento, Daniello Bartoli. Bartoli era un gesuita, autore di una straordinaria Storia della Compagnia di Gesù, un’opera usata come pretesto per descrivere luoghi esotici, lontani, e in particolare l’estremo oriente e la Cina. Non è un caso che il padre del romanzo italiano, Alessandro Manzoni, nel momento in cui, con un gesto di generosità civile, cerca di dare una lingua agli italiani “sciacquando i panni in Arno”, “attacchi” il suo grande romanzo parodiando proprio Bartoli. “Quel ramo del lago di Como” non è altro che la mimesi, la scimmiottatura di una descrizione della Cina del Bartoli. Per quanto mi riguarda, rinunzierei a quello che Leopardi chiama l’infinito che c’è e c’è stato nella nostra lingua, pur di avere una società dove tutti possano comunicare in un’unica lingua della verità e della giustizia».

Corriere di Como 14 Aprile 2016

Un filo d’erba al margine del feudo da ” La mia isola è Las Vegas “

Carmelo Battaglia
C
armine Battaglia

Un filo d’erba al margine del feudo

Via del Sole scende stretta tra il muro laterale del Pa­lazzo e una ringhiera di ferro sul dirupo. Era in ombra a quell’ora. Il sole batteva invece sulle pietre di via Muro­rotto e sul portale d’arenaria ricamata del Palazzo. La ringhiera di ferro di via del Sole era quella d’un terrazzo sospeso, navigante.

Il vecchio con lo scialle sporse nel vuoto il braccio e con l’indice a corno percorreva la linea ondulata che dise­gnavano nel cielo terso i monti tutti attorno, dalle spalle del paese fino al mare.

– Motta – diceva fermando il dito su un punto bian­castro lungo la costa dei monti. E poi – Pettineo, Castel­luzzo, Mistretta, San Mauro… – Posò lo sguardo sul mare, ripiegò il braccio, si tirò sulla spalla lo scialle scozzese che gli era scivolato. Stesi io il braccio nel vuoto oltre la rin­ghiera e indicai il mare. – Quelle macchie azzurre sono isole, Alicudi, Filicudi, Salina… Più in là c’è Napoli, il Con­tinente, Roma…

– Roma – ripeté il vecchio. Volse le spalle al mare e continuò a indicare le montagne, ora con un breve cenno del capo: – Cozzo San Pietro, Cozzo Favara, Fulla, Fo­ieri…

L’ulivo, fitto ai piedi dei monti, diradava, spariva verso l’alto. Poi vi erano costole nude, scapole, e qua e là ciuffi di sugheri, di castagni.

Il vecchio sedette sulla panchina di pietra e, la fac­cia tra due sbarre della ringhiera, appuntò gli occhi sullo spiazzo erboso sotto il dirupo. Ragazzi vi giocavano, tra pecore al pa­scolo, piccoli, appiattiti sul prato, silenziosi. Uccelli con larghe ali planavano sulla valle. La strada a serpentina, grigia di fango rappreso, partiva dalle prime case del paese, passava tra alberi d’eucalipto e d’acacia, circondava il prato, accostava una vasca d’acqua stagnante e finiva in un cancello di lamiera arrugginita. Il sole di questo primo pomeriggio era tutto ammassato nella tenera valle, su­scitava tremuli vapori.

Al di là del cancello, dentro, il cerchio del muro, nel tabuto fresco di vernice, era Carmelo Battaglia, il sin­da­calista di Tusa ammazzato su una trazzera, una mat­tina di marzo, con due colpi a lupara, e messo in ginoc­chioni, con la faccia per terra. La valle declinava dolce fino alla balza d’Alesa (le sue mura massicce, l’agorà, i cocci d’an­fora e le colonne spezzate affioranti tra gli ulivi, la bianca Demetra dal velo incollato sul ventre abbondante). In fondo, Tusa Marina, col suo castello sull’acqua sma­gliante e triangoli di vele sui merli.

Nel ventitrè ammazzarono il padre Battaglia, con colpi a lupara, su una trazzera, e gli riempirono la bocca di pietre e di fango. Il vecchio s’era tirato fin sulla nuca e gli orecchi lo scialle scozzese, aveva chiuso gli occhi e recli­nato il mento sul petto.

Il piano della Piazza era tagliato a rettangoli e tra­pe­zi di luce. La torre medievale, al centro, massiccia, qua­dra­ta, aveva due facce illuminate. Uccelli neri, con lieve fruscio, facevano la spola tra la Matrice e la torre. Via Pier delle Vigne si perdeva tra vecchie case. Via Matteotti, dall’ogiva dell’antica porta, scendeva ripida e larga verso le case nuove. Un vecchio cantava nella piazza, seduto al sole davanti alla porta della società Agricola. Un altro vec­chio stava immobile dall’altra parte; e altri tre dentro, nel vano interrato della società, immobili attorno a un piccolo tavolo su cui batteva il sole. Il vecchio sulla porta cantava con gli occhi in cielo e un sorriso sulle labbra. Cantava: – Al natio fulgente sol / qual destino ti furò –; e poi dac­capo: – Qual destino ti furò / al natio fulgente sol –; sempre avanti e indietro su quelle parole.

Un’automobile nera venne giù da via Alesina, attra­versò la Piazza e scese per via Matteotti. Vi era dentro un ufficiale dei Carabinieri con le stelle d’argento sulle spalle e altri signori col cappello. Il vecchio interruppe il suo can­to e poi riprese.

Via Alesina era tutta in ombra, stretta e lunga, tra alte case, dalla Piazza fino al Belvedere. I vicoli verticali erano assolati. Cespi di bàlico fiorito, viola e giallo, spun­tavano dalle crepe delle case e ficodindia da sopra i tetti. Da un balcone del vicolo penzolava la testa d’un asi­no, pensosa nel sole. Il municipio e la cooperativa Risve­glio Alesino. Sul portone del municipio era scolpito lo stem­ma della città: un grosso cane muscoloso sopra una torre, le zampe posteriori contratte, sul punto d’avven­tarsi, i denti scoperti (1860: «In più luoghi, come a Bronte, a Tusa e al­tro­ve, i Consigli municipali, costituiti dai Go­vernatori di­stret­tuali, erano composti di elementi della grossa borghe­sia o dell’aristocrazia di proprietari terrieri, avversi alle rivendicazioni contadine e ai fautori e capi del movimento per la divisione delle terre demaniali»).

Una giovane bellissima, dietro i vetri d’una piccola finestra, ricamava. Divenne viva, aprì la finestra, si sporse, allungò il braccio bianco e fece segno che dovevo ancora andare avanti e poi salire per il vicolo.

Bussai e venne ad aprire una donna in nero. Mi fece strada per uno stretto corridoio celeste che sbucava in una grande stanza celeste. È il celeste, abbagliante per le mo­sche, latte di calce mischiato con l’azolo. Sei donne tutte nere erano attorno alla ruota della conca: la figlia, la moglie, due sorelle e altre due parenti di Carmelo. Parlava la giovane figlia, il fazzoletto nero annodato sotto il mento e ancora il velo nero che le scendeva per le spalle, gestiva con le sue mani guantate di nero. La madre, accanto, non parlava perché muta, muta e paralitica. Solo gli occhi ave­va vivi.

– Sì, fece il soldato e, finita la guerra, venne a piedi da Trieste. Passò lo Stretto su una barca e, a Messina, pri­ma che attraccassero, si buttò in acqua per toccare prima la Sicilia, ma non sapeva nuotare. Il pescatore calabrese lo dovette afferrare per i capelli per salvarlo. Rideva molto quan­do raccontava questo. Diceva che allora, a vent’anni, era sventato come un caruso.

– Sempre l’ha avuta questa idea socialista, ma di più quando tornò dalla guerra. Diceva che i contadini, i bovari sono sempre state malebestie. Sempre a limosinare un palmo di terra o un po’ d’erba al limite del feudo. Ma non parlava molto in casa, aveva le parole giuste, contate. Questa di mia madre era una pena forte che portava in cuore: venti anni che è allogo, un male di nervi.

– Partiva alle quattro, alle cinque, secondo la sta­gio­ne, col mulo, per il feudo. A volte si restava là e si por­tava un poco di pasta e una boatta di salsina. Questa volta do­veva restarci per due giorni.

– Sì, voglio che si scopra al più presto l’assassino. Voglio conoscerlo. Voglio vedere in faccia questo che in­sulta i morti, che li mette in ginocchioni.

– No, neanche i vivi s’insultano. Ma di più i morti, specie se in vita sono stati sempre latini, diritti, cava­lieri.

La madre mugolò e cominciò a piangere. La figlia le prese le mani, se le portò sulle gambe e, tenendovi sopra le sue, si mise a cullargliele.

La stanza era piena di penombra. C’era solo la luce rossa di un lumino davanti alla fotografia di Carmelo ve­stito da soldato, sopra il comò. Le donne stavano tutte chiuse nei loro scialli e mute. Una prese la paletta di rame e rimestò la brace nella conca.

– Nessun desiderio, nessun progetto. L’unica sua idea era quella di aggiustare questa casa».

Il sole era tramontato e, all’uscita del paese, sopra un muretto della strada, erano seduti un prete grosso e un prete magro. Quello magro, scuro, era venuto da Cesarò per predicare il quaresimale. Quello grosso, chiaro, era del paese.

– Un uomo buono, benvoluto da tutti. Parlava po­co ma spartano. No, in chiesa mai. Ci andavo io a casa sua, una volta al mese, per confessare e comunicare la moglie. Poveretta, mi scriveva i peccati su un foglio di carta.

Passavano i contadini per la strada, tornavano a grup­pi dal lavoro, gli uomini sul mulo e le donne a piedi. – Vos­sia benedica – salutavano.

– Benedetto – rispondeva il prete.

– Tra loro, si ammazzano, tra loro bovari.

– Benedetto.

Le montagne là di fronte erano diventate viola, di un viola tenero sfumato.

Questi Nebrodi, alti di fronte al mare, sono di una bellezza impareggiabile. Ora, con le prime ombre della se­ra, si udivano per la campagna ringhiare e abbaiare i primi cani: quei cani orbi, bastardi, che si avventano feroci non appena li sfiora l’odore della carne d’un cristiano.

[i] «L’Ora», 16 aprile 1966, p. 6. Stesso testo, col titolo: Per un po’ d’erba al limite del feudo, in L. Sciascia e S. Gu­gliel­mino (a cura di), Narratori di Sicilia, Milano: Mursia, 1967, pp. 429-434. Il testo del 1966 è ripreso tal quale – sotto forma di «Prima appendice del curatore», con fonte: L’Ora, 16 aprile 1966 (p. 6), autore: Vincenzo Consolo, occhiello e titolo: Tra cronaca e racconto un giorno a Tusa. Un filo d’erba ai margini del feudo, sottotitoletti redazionali in­fram­mezzati: Il tabuto fre­sco di vernice, Sei donne tutte nere – in Mario Ovaz­za, Il caso Battaglia. Pascoli e mafia sui Nebrodi, a cura di Fernando Cia­ramitaro, Palermo: Centro Studi e iniziative culturali Pio La Torre, 2008, pp. 124-126 [cfr. il precedente M. Ovazza, La mafia dei Nebrodi. Il caso Battaglia, a cura di Maurizio Rizza, Palermo: La Zisa, 1993].

Vincenzo Consolo, Mediterraneo. Viaggiatori e migranti


Il sottotitolo di questo grazioso libriccino di Consolo è viaggiatori e migranti che hanno attraversato le coste del Mediterraneo, “il mare di conflitti, di spoliazioni territoriali, di negazioni d’identità, di migrazioni e diaspore, di ognuno che, esule per desiderio di conoscenza o per costrizione, ritrova la sua terra, il suo cielo, la sua casa” (p. 22). Punto di osservazione dello scrittore siciliano che non aveva la fede illuministica di Sciascia è la sua terra sospesa tra incanto e disincanto, e lacerata nelle sue corde più profonde. Consolo fa palpitare, più che gli spasimi, i respiri della sua isola che sembrano sprigionarsi dal mito, dalla storia e dalla letteratura in un gioco di rimandi e di corrispondenze reciproche. Filo conduttore della trattazione è il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario dove avviene il trauma del distacco dalla realtà, “dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico, la fascinazione, l’ossessione, dove la ragione si oscura e trovano varco i mostri” (p.7). Sospinto dalle onde tremende del mare, l’eroe omerico, dopo aver lasciato la distrutta Ilio intraprende il viaggio di ritorno ad Itaca per ritrovarvi con l’aiuto del figlio Telemaco l’armonia perduta. L’asse centrale di questo piccolo e prezioso reportage sul Mediterraneo che lo scrittore offre ai suoi lettori è il legame della Sicilia con la cultura araba che “ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana” (p.10).Da Mazara a Palermo i segni della cultura araba si sono sedimentati lungo un millennio nel carattere, nelle fisionomie, nei costumi e nella lingua del popolo siciliano. Il miracolo più grande, osserva Consolo, è che durante la dominazione musulmana domina lo spirito di tolleranza e di pacifica convivenza che viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi e Ibn Hawqal hanno raccontato nei loro testi. A Ibn Giubayr, viaggiatore e letterato musulmano di Spagna vissuto tra il XII e il XIII secolo è dedicato un capitoletto che ricostruisce il suo “Itinerario” (Riḥla), sul pellegrinaggio da lui compiuto alla Mecca (1183-85) partendo da Granata, dopo aver attraversato pericolosamente le coste del Mediterraneo. Al suo ritorno in patria si ferma in Sicilia e, attraversandola in lungo e in largo, rimane abbagliato dalle sue città e dalle sue coste. Queste notizie sui viaggiatori arabi trovano poi una sistemazione accurata nella grande opera in cinque volumi, La storia dei Musulmani di Sicilia scritta da uno scrittore e saggista politico del secolo scorso, Michele Amari che “reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia”(p.13). E dopo di lui, venne a formarsi in Italia una vera scuola di arabisti ed orientalisti (Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi della Vida, Leone Caetani, Francesco Gabrieli ed altri) di cui non si parla quasi più. La narrazione di Consolo scandita nella forma di deliziosi pastiches cattura pagine, voci, suoni e topoi come ripescati dai fondali del Mediterraneo stordito dalle sue ataviche contraddizioni geopolitiche. Lungo quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane scopriamo un affresco mosso e variegato fatto di storie di scambi e di razzie, di emigrazioni e di conquiste che coinvolgono uomini di culture e fedi diverse (italiani, tunisini, marocchini, poi cristiani, musulmani, ebrei). Una pennellata di questo affresco è la “grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali” (p.26).Un’altra pennellata è il racconto, Uomini sotto il sole, pubblicato nel 1963 dal palestinese Ghassan Kanafani, ucciso nel 1972 in un attentato. I tre personaggi-profughi principali del racconto moriranno asfissiati dentro un’autocisterna nel tentativo di espatriare in Kuwait, dopo aver attraversato il deserto iracheno che di lì a poco sarà il tragico teatro della prima guerra del Golfo. Consolo rilegge il racconto come una grande metafora della tormentata e ricca civiltà mediterranea e come un esempio di vera letteratura politica.

Edizioni dell’asino, Roma 2016

Il ponte sul canale di Sicilia

Gostanza, di nobile e ricca famiglia di Lipari, ama, riamata, il povero pescatore Martuccio. Per l’impossibile amore, il giovane abbandona l’isola, si fa corsaro per il Mediterraneo. Gostanza, avuta notizia che Martuccio era morto, disperata, sale su una barca per andare alla ventura e lasciarsi morire, ma il vento la sospinge e la fa approdare sulla costa di Barberia, nei pressi di Susa. Sulla spiaggia la fanciulla s’imbatte in una donna che parla latino e che è al servizio di pescatori cristiani. Questo è l’argomento della Novella Seconda della Giornata Quinta del Decamerone di Boccaccio. In cui, al di là della storia d’amore che poi felicemente si concluderà, ci colpisce il fatto che pescatori cristiani, trapanesi, tranquilli soggiornassero e pescassero nelle acque della musulmana Tunisia, di Susa, oggi Sousse. E ci conferma nella consapevolezza che ancora nel medioevo quel canale, quel breve braccio di mare tra la Sicilia e le coste africane, libiche tunisine algerine, non fosse ancora frontiera, barriera fra due mondi, ma una via di comunicazione e di scambio, che quelle acque anzi venissero allora percorse solo in un senso, dai lavoratori di Sicilia, di Calabria, di Sardegna, che volendo sfuggire alla fame cercavano fortuna in quelle ricche terre degli “infedeli”. Provetti “tonnaroti”, lavoratori delle tonnare, pescatori di alici e di sarde, di spugne e di coralli, da Trapani, da Pantelleria, da Lampedusa, s’avventuravano sulle loro esili barche per quel canale, e insieme contadini, pastori, murifabbri, minatori da ogni parte del nostro Meridione.
S’ interruppe questa comunicazione, questa provvidenziale emigrazione, con la dominazione turca sulle coste africane e quella spagnola in Sicilia, con l’insorgere delle guerre corsare. Carlo V si spinse fino in Tunisia per combattere e umiliare il nemico. La battaglia di Lepanto significò lo scontro più alto e simbolico fra le due fedi, i due imperi, quello cristiano e quello ottomano. Vittoria di Lepanto che però non riuscì a domare, a scemare le incursioni barbaresche nelle nostre contrade. E corsari si fecero anche ammiragli e principi cristiani, incursioni praticarono sulle coste africane, razziando uomini e cose, riducendo in schiavitù. Ai mercati di schiavi di Algeri o di Tunisi corrispondevano quelli cristiani di Livorno o di Genova. Scrive Braudel in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari'”.
Prigionia in Algeri patirà Miguel de Cervantes, che già aveva pagato il suo tributo alla guerra nella battaglia di Lepanto con l’amputazione di una mano. Lascerà memoria di quella sua triste esperienza nel Don Chisciotte e in altre sue opere.
Si hanno notizie ancora dettagliate, precise, di quel mondo di allora sulle coste africane nel secentesco libro del frate Diego de Haedo Topographia e Historia Generai de Argel. Dal quale si apprende, fra l’altro, che una nuova, massiccia emigrazione avveniva allora di italiani nel mondo ottomano. Erano, costoro, emigranti della fede, cristiani vale a dire rinnegati, che si facevano musulmani, “turcos deprofesión”, che divenivano capi corsari, razziatori nelle loro stesse terre d’origine, mercanti di schiavi.
Finisce questa pagina tremenda, questa lunga guerra corsara fra le due sponde del Mediterraneo, nel 1830, con la conquista di Algeri da parte dei francesi. Ma si apre anche in quella data, nel Maghreb, la piaga del colonialismo.
Riprende l’emigrazione italiana nel Maghreb nei primi anni dell’Ottocento. È un’emigrazione questa volta intellettuale e borghese, di fuoriusciti politici, di professionisti di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: “Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti”.
E ancora negli anni ’30, ’40 e fino all’Unità, reduci da congiure, moti rivoluzionari repressi, qui si rifugiano. Dopo i falliti moti di Genova, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 49 ancora si fa esule a Tunisi.
A Tunisi s’era stabilita da tempo una nutrita colonia di imprenditori, commercianti, banchieri ebrei provenienti dalla Toscana, da Livorno soprattutto, primo loro rifugio dopo la cacciata del 1492 dalla Spagna. Conviveva, la nostra comunità, insieme alla ricca borghesia europea, un misto di venti nazioni, che s’era stanziata a Tunisi. Accanto alla borghesia, v’era poi tutto un proletariato italiano di lavoratori stagionali, pescatori di Palermo, di Tra-pani, di Lampedusa che soggiornavano per buona parte dell’anno sulle coste maghrebine. Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali.
Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Susa, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e  di Gafsa. Nel 1880 nel Consolato italiano erano registrate 12.000 presenze italiane, ma molti sfuggivano alla registrazione, e fra questi, naturalmente, gli irregolari, renitenti alla leva o colpevoli di reati.
Nel 1911, le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri che erano chiamati “Piccola Sicilia” o “Piccola Calabria”. Si aprono scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale (i collegamenti marittimi nel Canale di Sicilia erano di compagnie italiane, italiana, dei Rubattino, era la compagnia che costruiva la ferrovia Tunisi-Algeria), fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria, per togliere all’Italia questa supremazia. Tutto questo portò al Trattato del Bardo del 1881 e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilirono il protettorato francese sulla Tunisia.
“L’Italia non è abbastanza ricca per pagarsi il lusso di un’Algeria” aveva dichiarato il ministro degli Esteri Visconti Ventosa dell’allora governo di Benedetto Cairoli. La Francia, con il protettorato, iniziò la sua politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti la cittadinanza francese. Anche sotto il protettorato, l’immigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale su mezzi di fortuna. La reggenza francese, di fronte a quel continuo affluire di diseredati, ricorse ai rimpatri. Nei primi cinque anni del Novecento ben 13.000 furono rimpatriati. Quelli già inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti. Nel 1914 giunge a Tunisi Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte”.
I riflessi che la guerra di Libia, la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale e il dopoguerra poi hanno avuto sulla comunità italiana di Tunisia è storia molto complessa per poterla qui riassumere. Rimandiamo perciò al libro di Nullo Pasotti, Italiani e Italia in Tunisia, libro dal quale abbiamo attinto per stendere questa memoria.
La fine degli anni ’60 segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia, dell’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra. A partire dal 1968 sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle nostre coste. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.
A Mazara, una comunità di 5.000 tunisini riempie quei vuoti, nella pesca, nell’edilizia, nell’agricoltura, che l’emigrazione interna italiana aveva lasciato. Questa prima emigrazione maghrebina nel nostro paese coincide con lo scoppio di quella che fu chiamata la quarta guerra punica, la ” guerra” del pesce, il contrasto vale a dire fra gli armatori siciliani e le autorità libiche e tunisine. In questi con-fitti, quelli che ne pagavano le conseguenze erano gli immigrati arabi, i quali, oltre ad essere sfruttati, venivano di tempo in tempo perseguitati. Odiosi episodi sono avvenuti, in quella parte meridionale della Sicilia, di “caccia al tunisino”.
“. Su questa prima emarginazione maghrebina in Sicilia, un giovane sociologo di Mazara, Antonio Cusumano, ha scritto un libro documentato, preciso, Il ritorno infelice, pubblicato nel 1976 da Sellerio.
Sono passati trent’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con improvvisati metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.
Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: “In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato…”.

Mediterraneo
Viaggiatori e Migranti

Un remoto e un recente presepe

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UN REMOTO E UN RECENTE PRESEPE
 
Voci bianche di fanciulli e voci scure d’adolescenti, sopra le note dell’organo, là dalla cantoria come dall’alto del cielo, precipitavano tra le navate, cadevano sopra i fedeli. I cherichetti, in tunica rossa e cotta bianca, si muovevano sul presbiterio a passo di danza, facevano oscillare il turibolo, spandevano fumi azzurri d’incenso. Tuonava con voce grave l’officiante là all’altare, sotto il drappo che nascondeva il presepe, sotto la faccia di saraceno del santo eremita che troneggiava dentro il catino dell’abside: “Praecursor pro nobis ingreditur … Ipse est Rex iustitiae, cuius generatio non habet finem … “
Sera dopo sera la cerimonia in chiesa, il rito affollato di suoni, luci, odori, figure, colori. Si snodava in questo modo la novena, si procedeva atto dopo atto, verso la conclusione del gioioso dramma, verso il Natale, l’apertura del sipario, l’apparizione del Bambino, il fulgore d’ogni luce, il dispiegamento d’ogni canto, il concerto delle campane.
Diciamo d’un remoto Natale in un paese ai piedi dei Nebrodi, nella piana fitta d’ulivi e d’aranci, il mare di fronte con le Eolie fantasmatiche all’orizzonte e le boscose colline alle spalle, l’immenso Etna in fondo di nevi e caligini.
C’era stata, già prima, tutta l’ansia, c’era stato il travaglio per preparare in casa il presepe. La ricerca di sugheri, legni, pietre, vetri, stagnola, cartoni, tutta l’ossatura del favoloso teatro, l’apparato di monti, valli, anfratti, fiumare, gole, grotte, la primigenia, la nuda creazione di un ritaglio del mondo
E quindi, sopra il deserto, i segni dell’uomo, recinti d’ovili, casupole sparse, villaggi, masseria, casali, mulini, e la città sullo sfondo, alta incombente, la fortezza con mura merlate di un potere nefasto, di un re spietato che avrebbe introdotto nel quadro serafico la lama del male, la tragedia d’una Strage. La pelle poi sullo scabro apparato, il tenero muschio, smeraldo, raccolto lungo gli argini dei torrenti, sopra gli orli di gèbbie e lo spino pungente che diveniva nimbo sopra la Grotta, su cui si sarebbe adagiata, a fiocchi, la neve, avrebbero volteggiato in Gloria gli angeli.
E prati, siepi, alberi – ginestre, fichidindia, corbezzoli, ulivi, palme -, cascate d’acqua, laghi d’argento. Nel notturno cielo di carta, stelle infinite, vie lattee, tenebrosi sprofondi e vividi sprazzi, l’arco della cometa che sovrasta e attraversa tutto il teatro. Il mondo animato infine, animali, uomini, divine presenze.
I pastori. Giungevano da santo Stefano di Camastra, il paese vicino dei “cretari”, sortivano dalle fornaci dei Gerbino, dei Frantatonio, in cui si cuocevano giare alte e panciute come badesse (la giara di don Lolò dell’omonima commedia di Pirandello), scifi, brocche, piatti, mafarate, càntari, lucerne … Tutto vasellame d’uso, ma il solo oggetto di “delizia”, d’ornamento che gli “stazzonari” si concedevano era la mastrangela, la madre degli angeli, un’ottocentesca damina bianca con sulle spalle le ali spiegate.
Ed erano di delizia anche i pastori a Natale, per cui erano delegati i “carusi”, gli apprendisti. Che modellavano con mano grande, maldestra, come quella del ragazzo “aspro e vorace” di Saba, ma che spalmavano i pastori con colori soavi, rosa, pistacchio, celeste, giallo, i colori dei “pupi” di zucchero, del marzapane, dei gelati. Si disponevano sul presepe prima i pastori dei margini, delle baide ignare, quiete, non ancora investite e sconvolte dell’improvvisa Novella: la vecchia che fila, il contadino che zappa, il garzone tra le pecore al pascolo, il mugnaio, il maniscalco, il pescatore, il dormiente, l’infreddolito davanti al braciere …
Al centro poi la luce e il moto, la danza degli angeli sospesi, il procedere in terra verso il luogo del prodigio, del richiamo, il convergere alla Grotta del miracolo: gli zampognari, gli offerenti, lo “spaventato”, i Magi e, sulla soglia dell’antro, in piena luce, come sorti dal profondo, dal buio, l’asino, il bue, i due attori supremi, Giuseppe e Maria, chini, adoranti accanto alla mangiatoia ancora vacante. Un tempo lungo, di nove giorni, doveva trascorrere perché si concludesse il trionfo, con l’apparizione del bambino rosato, questo spettacolo.
 
In questo tempo, dopo il rito liturgico, c’era la notte l’attesa di un’altra Novena, quella cantata sotto il balcone dai ciaramiddari, cantata dal cieco:
 
 Quannu Cesari jittavu lu gran
 bannu ‘mpiriusu.
 ’nta la piazza si truvav
a San Giuseppi gluriusu.
 
questo il Natale di un paese ai piedi dei Nebrodi, il favoloso presepe della remota innocenza.
 
Tanti altri presepi poi vedemmo, con occhi ormai di disincanto, dai più preziosi del museo di Trapani ai popolari della Casa di Uccello. Ma ritrovammo per caso l’incanto, già carichi d’anni e malizia, grazie a un presepe di Angela Tripi, questa erede incantata di Giovanni Matera.
Avvenne a Parigi, sulla piazza del Municipio, in un padiglione dove ogni anno s’appronta il presepe d’un paese diverso.
La crèche de Sicile era un fantastico assemblaggio dei monumenti, dei luoghi più suggestivi dell’Isola. C’erano le chiese e i mercati di Palermo, i mosaici di Monreale, i templi greci di Segesta e di Agrigento, l’Etna fumante e il mare di Aci Trezza … E i pastori, loro d’argilla e di stoffa, in umili panni o sfarzosi, ripetevano fisionomie, gesti, azioni, mobile com’era il presepe sonoro, di quel crogiolo di razze e di voci che è ancora la Sicilia.
“Ma dove siamo, in Oriente o in Occidente, siamo in Arabia o in terra cristiana? Cos’è questa confusione di monumenti, questa babele di epoche, lingue?” declamava la voce narrante. Eravamo in Sicilia, e la Natività era posta sotto le vele dell’abside, tra le colonne di una chiesa barocca diruta.
Concludeva la voce narrante: “Ecco il prodigio: è il riso del Bambino di Betlemme, dei bambini di Palermo e d’ogni luogo del mondo. E’ l’amore, la pace, il messaggio antico e sempre nuovo del Natale”.
Vincenzo Consolo

Il barone magico , Vincenzo Consolo

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Lucio Piccolo e Vincenzo Consolo

Un giorno, dopo anni, il barone Piccolo me lo trovai davanti nella carto-libreria-legatoria dei fratelli Zuccarello, titolari anche della tipografia “Progresso”. Entra, seguito dall’autista don Peppino. «Ecco qua» dice Piccolo. «Queste sono le poesie» e consegna dei fogli dattiloscritti, con un sorriso tra imbarazzato e divertito. Discussero di carta, di caratteri, di copertina, di copie. Poi gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri (vecchi libri che scovavo qua e là sulle bancarelle), ne lesse i titoli: Almanacco perpetuo di Rutilio Benincasa, Guida del monte Pellegrino, Patti e la storia del suo vescovado. Rise, guardò me, s’accorse che ero come contrariato, e si scusò. «Gli almanacchi, le guide, le storie locali, ah, sono pieni d’insospettabile poesia. Senta quest’attacco» aggiunse, aprendo la Guida del monte Pellegrino alla prima pagina; e si mise a leggere, con quella sua voce chiara: «Quando, mio caro lettore, ti trovi in quella grande pianura, alla quale i moderni diedero il nome di piazza del Campo, e che comunemente, da antichissimo tempo, si chiama Falde, gira lo sguardo a te attorno, e per quanto la tua vista si estende, di fronte, fino alle grandi prigioni, ed a sinistra fino al mare…». (Avrei ritrovato poi lo stesso attacco, la stessa cadenza, in Guida per salire al monte, inclusa in Plumelia: «Così prendi il cammino del monte: quando non / sia giornata che tiri tramontana ai naviganti, / ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola / e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento…».) Ero rimasto lì incantato, quando Lucio Piccolo sorrise ancora, mi tese la mano e: «Ho un’intera biblioteca di questi vecchi libri. Venga, venga a trovarmi a Capo d’Orlando. Al chilometro 109 c’è una stradina che arriva fino alla casa» e sparì con Don Peppino dietro.
Venne stampato quel libretto che fu inviato a Montale per il premio San Pellegrino. E quando Mondadori pubblicò i Canti barocchi con quella prefazione di Montale che diceva: «Il libricino, intitolato: 9 liriche, stampato da una sola parte del foglio e impresso in caratteri frusti e poco leggibili, non aveva dedica ma conteneva una lettera d’accompagnamento. Proveniente da Capo d’Orlando (Messina), i tipi erano quelli dello stabilimento “Progresso”, quel «caratteri frusti e poco leggibili» fu un affronto per Don Ciccino Zuccarello. «Io lo denunzio questo Pontale, lo denunzio!» si mise a urlare.
Alla casa dei Piccolo si arrivava per una ripida stra­detta a giravolte, bordata di piante, iris, ortensie, che fi­niva in un grande spiazzo dove era la porta d’ingresso su una breve rampa di scale. Oltrepassata questa, ci si tro­vava subito nell’unica sala che per tanti anni conobbi. Era una grande sala dalle pareti nude, senza intonaco, e il pavimento di cotto. Sulla destra, vicino a una finestra, tre poltrone di broccato e velluto controtagliato dai braccioli consumati attorno a un tavolinetto. Al muro, un monetario siciliano di ebano e avorio; più in là, un grande tavolo quadrangolare con le gambe a viticchio e con sopra panciuti vasi Ming blu e oro, potiches verdi e bianche, turchesi e rosa della Cocincina, draghi, galli e galline di Jacobpetit. Di fronte, sulla sinistra, una grande vetrina con dentro preziose ceramiche ispano-sicule, di Deruta, di Faenza. Negli angoli, colonne con sopra mezzibusti di antenati. Sopra le porte che si aprivano verso il resto della casa, medaglioni del. Màlvica, basso­rilievi in terracotta incorniciati da festoni di fiori e di frutta a imitazione dei Della Robbia. E ancora, per tut­te le pareti, ritratti a olio di antenati o quadretti a rica­mo o fatti delle monache coi fili di capelli. Il mio posto fu per anni su una poltrona davanti al poeta, che sede­va con le spalle alla finestra sempre chiusa, anche d’e­state (la luce filtrava fioca nella sala attraverso le liste della persiana). Lì, due, tre volte la settimana si faceva « conversazione», ch’era un lungo monologo di quel­l’uomo che «aveva letto tous les livres», come scrisse Montale, ch’era un pozzo di conoscenza, di memoria, di sottigliezza, di ironia. Le interruzioni erano solo quan­do nella stanza irrompeva Puck, la sua cagnetta, un grifoncino di Bruxelles, brutta e spelacchiata, ringhiosa. «Vieni qua, vieni qua dal tuo padrone, scimmietta, co­sa vuoi, ah, cosa vuoi?» la vezzeggiava facendosela saltare sulle gambe. O quando a tin certo punto entrava Rosa, la cameriera, col vassoio del caffè o delle granite. Ogni tanto appariva anche il fratello, il barone Casimi­ro, bello fresco rasato ed elegante come dovesse uscire per qualche festa. Era invece, come mi rivelò una volta in gran confidenza, ch’egli dormiva di giorno e vegliava di notte, e nel tardo pomeriggio, quando s’alzava, faceva toilette perché più tardi sarebbe cominciata la sua grande avventura dell’attesa notturna delle apparenze, delle materializzazioni degli spiriti. Il barone era un cul­tore di metapsichica e studiava trattati e leggeva riviste come «Luci e ombre». Mi spiegò una sua teoria sulle materializzazioni, non solo di uomini, ma anche di cani., di gatti, mi disse che a quelle presenze, per lo sforzo nel materializzarsi, veniva una gran sete ed era per questo che per tutta la casa, negli angoli, sotto i tavoli, faceva disporre ciotole piene d’acqua.
Di tanto in tanto arrivavano a villa Vina (Vena, in ita­liano: vena d’acqua, vena poetica?) in visita i «conti­nentali». Arrivò Piovene, Quasimodo, la Cederna e tanti e tanti altri, letterati e giornalisti.
L’incontro di Piccolo con Sciascia avvenne una do­menica, il primo giorno in cui, dopo secoli, nelle chiese si celebrava la messa in italiano. Sciascia arrivò da Cal­tanissetta al mio paese e assieme andammo da Piccolo. Al congedo, sulla porta, Piccolo solennemente disse allo scrittore, indicando con la mano su per le colline: «Sciascia, la invito a scrivere di queste nostre terre, di questi paesi medievali».
Avevo deciso di lasciare la Sicilia e di trasferirmi a Milano. «Non parta, non vada via » mi diceva Piccolo. «A Milano, con tutti gli altri, rischia di annullarsi. La lontananza, l’isolamento danno piùn fascino, suscitano interesse e curiosità». Non potevo rispondergli che non ero ricco, che dovevo guadagnarmi la vita. Non potevo dirgli, soprattutto, che lì in Sicilia mi sembrava tutto fi­nito, senza speranza, che a Milano, al Nord avevo la sensazione che tante cose si muovessero, che stesse per iniziare una nuova storia.
Partii in gennaio. Quando tornai, in estate, andai an­cora a trovare Piccolo. «Cosa dicono di me a Milano, co­sa dicono?» mi chiese subito. Niente, non dicevano nien­te. Piccolo, dopo la curiosità suscitata al suo esordio, e dopo essere stato trascinato nel ciclone del Gattopardo, era bell’e dimenticato: altri miti, altre scoperte andava fabbricando per più rapidi consumi l’industria culturale.
Lo vidi l’ultima volta un anno dopo. Trascrivo da un mio diario: «Entro in casa Piccolo a Capo d’Orlando nel momento in cui la televisione trasmette l’arrivo sulla Terra dell’Apollo 8. Il fratello del poeta mi chiama e mi fa accomodare davanti al televisore. Il poeta non viene. È sera. Nelle grandi, stanze della villa, poche e fioche lu­ci negli angoli e la luce lattiginosa del video sulle nostre facce. Fuori, il vento e la pioggia sferzano le campagne. Il fragore delle onde penetra la casa attraverso le persia­ne. Di quel mare di Capo d’Orlando che qualche giorno prima ha devastato il litorale. Vicina, la fiumara di Zap­pulla in piena trascina macigni, sbatte contro i piloni del ponte della ferrovia già incrinato. I treni che giungono dal Continente carichi di emigrati si fermano e quindi attraversano il ponte lentissimamente. La voce dello speaker alla televisione, man mano che passano i minuti, è sempre più forte, ansiosa, concitata. Piccolo è sprofon­dato nella poltrona, silenzioso e immobile, in un’altra stanza piena di penombra. Non ha visto gli astronauti fi­nalmente giunti a bordo dello Yorktown, non ha sentito la voce di Frank Borman che saluta il mondo. Lo rag­giungo. “Per la Teoria delle ombre” , mi dice “la mia prossima raccolta, ho preso spunto dagli studi di pro­spettiva che ho fatto nella mia giovinezza…”».
Una mattino di maggio mi trovavo in assemblea nel­l’azienda dove lavoravo. Era un’assemblea accesa, con­citata, tumultuosa: c’era in ballo il rinnovo del contrat­to di lavoro. I sindacalisti litigavano con quelli del Cub, il comitato unitario di base. Fu lì che mi vennero a chiamare e mi dissero di telefonare in Sicilia. Così appresi della morte di Lucio Piccolo, ch’era avvenuta durante la notte. Provai dolore, ma dolore anche per un mondo, un passato, una cultura, una civiltà che con lui se ne an­davano. Mi tornavano in mente i suoi versi, e questi so­prattutto: «…spento il rigore dei versetti a poco a poco / il buio è più denso / sembra riposo ma è febbre: / l’ombra pende al segreto / battere di un immenso / Cuore / di / fuoco». Ma i versi, gli infiammati versi di Piccolo, tornato in assemblea, furono fugati, sopraffatti dalle voci, dalle grida, da quel linguaggio per me in­comprensibile.

***

Lo sentivo sempre favoleggiare d’una Naso Illustrata per Carlo Incudine, in cui gran parte aveva il santo me­dievale Conone Navacita. Mi bastavano allora quei tre nomi, Naso, Incudine, Conone, disposti su tre piani, in una luce d’oro sospesa di meriggio mediterraneo, per restare rapito a contemplare un sibillino quadro surrea­le. Mi favoleggiava del libro Lucio Piccolo, e di grandi che per quelle contrade eran passati lasciando impron­te, segni poetici e regali. Come Ruggero il Normanno che, dopo vittoriosa battaglia contro i saraceni, lascia per voto al convento di Fragalà il suo stendardo. O Fe­derico di Svevia, che al castello de’ Lancia, in Brolo, ama Bianca e genera Manfredi («biondo era e bello e di gentile aspetto »). E Piccolo chiedeva: «Non nota lei, non nota che da queste parti aleggia ancora il vento di Soave?». Ironizzava poi su quel santo dal geometrico nome, Cono, Conone, la cui particolarità era quella di restar sempre in estasi sospeso (si può immaginare un santo più metafisico?) o su un altro secentesco, frate Perlongo, fatto beato per l’avversione dimostrata in tut­ta la sua vita verso le donne, al punto che da bambino si rifiutava di baciare la madre per non commettere pec­cato. E sorrideva Piccolo, sorrideva malizioso, scher­mendo le labbra con quel suo gesto di portarsi il polli­ce sotto il naso e carezzarsi i baffi.
Quel libro introvabile mi restò per molti anni miste­rioso, come quell’imprecisato Libro del Cinquecento da cui traevano divinazioni, profezie i maghi e le maghe di queste parti. Fino a quando il neoproduttivismo e la tec­nologia non m’hanno portato finalmente tra le mani la ristampa anastatica del libro. E vi ho letto allora ch’era Naso una città fondata da popolazioni greche venute da Naxos e chiamata Naxida, da cui Naso, che quindi niente aveva a che fare con l’organo che sta al centro del volto, rincagnato o ciranesco. Che fu poi, quella città, dal medioevo fino al ’700 dominio di conti. Dei quali l’ultimo, e più dispotico, un certo Sandoval, spodestato, per amor di giustizia, da un barone Piccolo. Così l’In­cudine: «Ed ecco tin bel dì fars’innanzi un giovane: ve­stiva un mantello azzurro alla spagnola, calzone nero stretto a ginocchio da sfarzose frange di argento, cotur­ni dalle fibbie d’oro, e toccava i ventiquattro anni.
Ricchezze godea di poderi estesissimi, perocché con l’ala dell’occhio, meno poche interruzioni, ci poteva domi­nare liberamente quasi dal Timeto al Fitalia, il più bel tratto dell’agro nassense, dicendo: è mio! Nobili i nata­li e per le armi e per scienza di leggi, allegoricamente si­gnificati con araldica bizzarria dallo stemma di famiglia; nobilissime le tradizioni. Egli era Gaetano Piccolo». Un antenato di Lucio Piccolo di Calanovella. E tra il Time-to e il Fitalia, nel più bel tratto dell’agro nassense, v’era, di proprietà dei Piccolo, Capo d’Orlando, il paese e il territorio sulla costa tirrenica della Sicilia. Su una pianura di fitti limoni, un cupo tappeto verde trapuntato di frutti d’oro, sovrastato dalle snelle, altissime palme con la cascata a fontana del fogliame, scandito dai filari di cipressi spartivento. In mezzo, invisibili, le casupole d’a­renaria e calce dei contadini. Una pianura stretta tra i colli, folti d’ulivi grigioargento, e il mare. Di fronte, gal­leggianti sulla linea dell’orizzonte, le isole Eolie. Nei giorni in cui il vento fuga i veli dei vapori, si scorgono le casette bianche di Lipari e Salina, il faro di Vulcano.
Il paese è adagiato sotto il promontorio, il Capo, un perfetto cono a picco sopra il mare, un ammasso d’are­naria sopra cui crescono, a macchia, il ficodindia, il len­tischio, l’acanto, il selino, l’euforbia, il cappero. In cima al Capo, i ruderi d’un castello e un santuario della Ma­donna dei pescatori pieno d’ancore, timoni, ex-voto di caicchi, gozzi, velieri in balìa di fortunali. Il Capo pren­de il nome da Orlando, il più «furioso » dei paladini di Carlo Magno. Doppiato il Capo, v’è la cala di San Gregorio, il villaggio dove di notte sbarcavano i pirati, «Terrore a la riva: la furia dei ratti trae fra gli strilli la gonna come bandiera / e il corsaro dagli occhi di nera porcellana, / da la barba serpentine: / la scimitarra stride con l’arma paesana… ».
Qui abitava zia Genoveffa, la vecchia fattucchiera the tagliava col coltello dal manico bianco le trombe marine, toglieva il malocchio con fumigazioni di ramet­ti d’alloro, erica, rosmarino. Qui era un tempo la città antica d’Agatirno, una delle città lungo questa costa che, coi loro nomi comincianti in A (Abacena, Alunzio, Apollonia, Amestrata, Alesa…) fanno pensare ai pri­mordi, alle origini della civiltà. Ma qui s’intrecciano an­cora e si confondono mito e storia, natura e civilizzazio­ne, poesia e realtà, simboli e metafore, vita e morte: qui gli uomini venivano sepolti dentro giaroni di terracotta, accovacciati in posizione fetale, come dentro l’utero materno.
Sopra un poggio che domina la pianura di Capo d’Orlando, il Tìndari e Cefalù ai due poli dell’orizzon­te, era la villa dei baroni Piccolo di Calanovella. Erano tornati nel 1930 su queste loro terre. Il padre era fuggi­to con una ballerina, se n’era andato a vivere a San Re­mo. La moglie, una principessa Tasca Filangeri di Cutò, sorella della madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, offesa nel suo orgoglio, aveva detto addio alla vita mon­dana di Palermo, dominata allora dai Florio, alle estati al castello di Santa Margherita Belice, la Donnafugata de Il Gattopardo, e s’era ritirata qui, coi suoi tre figli, Casimiro, Lucio e Giovanna, in esilio volontario, impo­nendo a sé stessa e ai figli, una vita austera, monacale.
Morta la madre, i tre fratelli, quasi ubbidendo a un segreto patto, a un giuramento, continuano fino alla morte la loro vita solitaria. In questa villa bianca, tra palme, pini, glicini, buganvillee, stipata di mobili, arazzi, porcellane antiche, lontani dal mondo, distaccati d’ogni preoccupazione d’ordine pratico (pensavano i tre ammi­nistratori alla conduzione delle terre; l’autista, il cuoco, le cameriere a quella della casa). Uniche frequentazioni, qualche amico o parente che ogni tanto veniva dalla Ca­pitale a fare visita. Più frequente quella di Tomasi di Lampedusa che qui a lunghi periodi soggiornava, e qui aveva concepito e scritto gran parte del suo romanzo (il nome dato a don Fabrizio, lo prende senz’altro dall’isola che ogni mattino si vedeva apparire di fronte, celeste e trasparente all’orizzonte, affacciandosi al ter­razzo-giardino pieno di piante esotiche, di ninfee galleg­gianti nelle vasche).
I tre fratelli, in questo buon ritiro, coltivavano le lo­ro segrete passioni. Calsimiro il primogenito, l’occulti­smo, la fotografia e la pittura. La baronessa Giovanna la passione della floricultura. Sperimentava innesti, inse­minazioni inusitati. Coltivava ortensie, iris, orchidee. Ma il suo orgoglio era l’aver fatto attecchire qui, in que­sta sua terra, una delicata e rara pianta tropicale, la puja, che dava un fiore blu come di porcellana, un fiore mallarmeano. Lucio, terzogenito, aveva la passione della letteratura, della poesia. Aveva fin da giovane scritto, scritto e distrutto. Finché non compose i Canti barocchi, in uno stato di incandescenza, di raptus, e non decise d’esporsi, di pubblicare: a cinquantadue anni. Fece stampare un piccolissimo libretto, dal titolo 9 liriche.
Liriche purissime, singolari, inedite nel panorama italiano, in cui convergevano tutta l’esperienza poetica europea vecchia e nuova. Una poesia dove vi è la natu­ra dolce e panica, misteriosa, concreta ma mutevole della campagna di Capo d’Orlando; dove vi sono le chiese barocche, gli oratori, i vecchi conventi, e le «anime ade­guate a questi luoghi», della Palermo della sua infanzia­-adolescenza; le passate stagioni, i trapassati che ritorna­no, in amorosa evocazione, in notturna processione, in febbrile ansia, in struggente flusso di memoria.
Lo frequentai per tanti anni, fino a quando non deci­si di lasciare la Sicilia. Ma ogni volta che ritornavo nel­l’Isola, non mancavo d’andare a trovare il poeta. Fu in uno di questi ritorni che insieme scendemmo dalla villa per andare in paese, a Capo d’Orlando. Da lì, alla cala di San Gregorio. Era una giornata d’aprile, chiara, cri­stallina. Al villaggio ci venne incontro zia Genoveffa, la maga delle trombe marine e dei fumi di rametti aroma­tici. «Bacio le mani, barone» salutò la vecchia. Piccolo si staccò da me e le andò incontro. Vicini, si parlarono.
Il sole calava verso le Eolie, il mare era fermo.
«I giorni della luce fragile, i giorni / che restarono presi ad uno scrollo / fresco di rami… / oh non li ri­chiamare, non li muovere, / anche il soffio più timido è violenza / che li frastorna… ».

ITALY,Sicily, Capo d'Orlando: The italian Poet Lucio PICCOLO. (c) Ferdinando Scianna/Magnum Photos

Vincenzo Consolo, Il barone magico
Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988

La Sicilia e la cultura araba



Si sa che, con la fine del latino, nel medioevo italiano, si è imposto in letteratura, sulle altre realtà linguistiche e regionali, il dialetto toscano. Questo è avvenuto grazie ai tre grandi padri della letteratura italiana: Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma si sa anche che il primo nucleo della nuova lingua italia-na, o volgare, come si chiamò, si formò in Sicilia, che i primi poeti in lingua italiana furono siciliani, quei poeti della cosiddetta Scuola Poetica Siciliana che si trovarono raccolti nella palermitana corte dell’imperatore Federico II o che attorno ad essa ruotavano. E questo afferma Dante nel De vulgari eloquentia. In lingua siciliana poetavano in quella corte, in una lingua cioè che era mistilinguismo, in cui vi erano echi anche della lingua araba. Ma arabo era soprattutto lo stile di quei poeti: uno stile lirico, un po’ manieristico, nella costruzione di complicate metafore. Le rime, i sonetti, i contrasti di Cielo d’Alcamo, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Re Enzo, Pier delle igne, di altri, non molto si discostano dalle qaside dei poeti siculo-a-rabi che con l’avvento dei Normanni avevano lasciato l’isola. E basta ricordare tra tutti il siracusano Ibn Amdis. Dal suo esilio maghrebino cosi cantava:

 Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo. Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore di nobili ingegni. Se son stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia? Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso… O mare, di là da te io ho un paradiso, in cui mi vestii di letizia, non di sciagura!…

La cultura araba ha lasciato nell’isola un’impronta tale che dal suo innestarsi nell’isola si può dire che cominci la storia siciliana. “Indubbiamente gli abitanti dell’isola di Sicilia cominciano a comportarsi da siciliani dopo la conquista araba” dice Sciascia. Il quale, mutando da Américo Castro lo schema che il grande storico aveva applicato alla Spagna, chiama descrivibile la vita siciliana prima degli Arabi, narrabile quella sotto la dominazione araba, storicizzabi-le quella che viene dopo. Sciascia fa quindi iniziare quello che egli chiama il modo d’essere siciliano proprio dalla dominazione araba. La cultura araba ha inciso nell’isola soprattutto in quella parte occiden-tale che ha per vertici Mazara e Palermo. I segni arabi sono durati in quella parte per un millennio e più, nel carattere della gente, nelle fisionomie, nei costumi, nell’architettura, nella lingua, nella letteratura, popolare e no. Durati per un millennio fino a ieri. “Ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini”. E i Barberini questa volta, anche qui, in questa remota plaga dell’Italia e dell’Europa, sono i messaggi della civiltà di massa che tendono a distruggere le vere, autentiche culture, per tutto livellare, miseramente omologare. Ma torniamo all’inizio della conquista musulmana di Sicilia. In una notte di giugno dell’827, una piccola fotta di musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egi-ziani, Siriani, Libici, Maghrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furt, partita dalla fortezza di Susa, nella odierna Tunisia, emirato degli Aghlabiti, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara (nella storia ci sono a volte sorprendenti incroci, ritorni: Mazar è un toponimo di origine punica lasciato nell’isola dai Cartaginesi). Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta la Sicilia, dall’occidente fino all’oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. Si formò in Sicilia, dopo la conquista, un emirato dipendente formalmente dal califfato di Baghdad. I musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le spoliazioni del Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della chiesa, dei monasteri, i musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. L’isola viene divisa amministrativamente in tre Valli: Val di Mazara, Val Dèmone e Val di Noto; rifiorisce l’agricoltura grazie a nuove tecniche agricole, a nuovi sistemi di irrigazione, di ricerca e di convogliamento delle acque, all’introduzione di nuove colture (l’ulivo e la vite, il limone e l’arancio, il sommacco e il cotone…); rifiorisce la pesca, specialmente quella del tonno, grazie alle ingegnose tecniche della tonnara; rifiorisce l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana e lo spirito di tolleranza, la convivenza fra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Di questa società arabo-normanna, di cui ci daranno testimonianza viaggiatori come Ibn Giubayr, il geografo Idrisi, Ibn Hawqal, sono segni evidenti quelle chiese, quei monasteri, quelle cappelle, quelle residenze reali, quei giardini che ancora oggi si possono vedere a Palermo o in altre località vicine. Così scrive Ibn Giubayr di Palermo: “In questa città i musulmani conservano traccie di lor credenza; essi tengono in buono stato la maggior parte delle loro moschee e vi fanno la preghiera alla chiamata del muezzin… Vi hanno un qadì al quale si appellano nelle loro divergenze, e una moschea congregazionale dove si radunano per le funzioni, e in questo mese santo vi fanno grande sfoggio di luminarie. Le moschee ordinarie poi sono tante da non contarsi; la più parte servono di scuola ai maestri del Corano”. Non voglio, né so fare qui tutta la storia del periodo musulmano di Sicilia. Voglio però qui rimandare a La Storia dei Musulmani di Sicilia scritta da un grande siciliano del secolo scorso: Michele Amari. Quest’apostolo della cultura e della libertà (egli combatté contro la dominazione borbonica nell’Italia meridionale e per l’Unità d’Italia) scrisse questa monumentale opera in cinque volumi durante il suo esilio politico in Francia, a Parigi. Nelle biblioteche di quella città, dopo aver imparato l’arabo, Amari reperì e tradusse documenti storici, memorie, letteratura araba che riguardava la Sicilia. “La storia dei Musulmani di Sicilia è una delle più suggestive opere d’intenti storici che da un secolo circa siano state scritte in Europa” scrive Elio Vittorini. E aggiunge: “La storia dei Musulmani di Sicilia voleva essere, forse, solo un frammento della storia patria, ma sembra che abbia avuto per punto di partenza, da come è scritta, una seduzione del cuore, qualche favolosa idea che l’Amari fanciullo si formò del mondo arabo tra le letture dei vecchi libri e i ricordi locali”. E come poteva non scrivere con la “seduzione del cuore”, cioè con rigore scientifico, ma anche con visionarietà e poesia, Michele Amari, nato e cresciuto a Palermo, in quella Palermo che ancora nel secolo scorso conservava non pochi vestigi, non poche tradizioni, non poca cultura araba? Basti pensare al castello della Zisa (restaurato, sembra destinato ora a museo islamico), alla Favara, ai bagni di Cefalà Diana, alla Cuba, alla Cubula, al quartiere della Kalsa, ai suq, ai mercati della Vucciria, di Ballarò o dei Lattarini, a San Giovanni degli Eremiti, alla Martorana, alla stessa cattedrale… Ultimi splendori della Palermo araba dalle numerose moschee, dai giardini, dai bagni innumerevoli, con cui poteva stare a confronto soltanto Cordova. Dopo l’Unità d’Italia, dopo il 1860, Amari, nominato ministro della Pubblica Istruzione, non smise di coltivare i suoi studi di arabo. Così, oltre La storia dei Musulmani di Sicilia, ci ha lasciato una Biblioteca Arabo-Sicula, Epigrafi, Sulwan al-mutà di lbn Zafir, Tardi studi di storia arabo-mediterranea. Per lui, nel suo esempio e per suo merito, si sono poi tradotti in Italia scrittori, memorialisti, poeti arabi classici. Per lui e dopo di lui è venuta a formarsi in Italia la gloriosa scuola di arabisti o orientalisti che ebbe le sue eminenti figure in Ignazio e Michelangelo Guidi, Giorgio Levi Della Vida, Leone Caetani, Carlo Alfonso Nallino, Celestino Schiaparelli, Umberto Rizzitano e il famoso Francesco Gabrieli. Il quale ultimo, idealmente continuando l’opera di Michele Amari, pubblicava nel 1980, in collaborazione con altri, un poderoso e documentatissimo volume dal titolo Gli Arabi in Italia. E scriveva, nel 1983, nel volume collettivo Rasa’il, in onore di Umberto Rizzitano, un capitolo dal titolo Attraverso il canale di Sicilia (Italia e Tunisia). Capitolo in cui fa la storia dei rapporti fra i due paesi, dall’antichità e fino a oggi. Ma più che della Tunisia con l’Italia, della Tunisia con la Sicilia, così vicine le due, geograficamente e culturalmente, così uguali. E ricordava Gabrieli, che già sul finire della dominazione araba in Sicilia, il grande letterato tunisino Ibn Rashîq faceva in tempo a venire a chiudere la sua vita a Mazara, mentre sull’opposta sponda tunisina, a Monastir, s’innalzava un mausoleo al giureconsulto mazarese, all’Imaàm al-Màzari. E ancora: “Nella scuola di lingue Bu Rqiba, i nostri giovani studenti dell’arabo e dell’Islàm han trovato da molti anni il più efficiente centro di iniziazione linguistica, in un diretto contatto con la terra dell’Islàm ispirato da puro interesse scientifico e spirituale”. Per merito di questi valorosi arabisti italiani si sono tradotti i classici arabi, a partire da una splendida edizione, curata proprio da Gabrieli, de Le mille e una notte. Ma della letteratura, del romanzo e della poesia maghrebina contemporanea gli editori italiani solo da qualche anno han cominciato a pubblicare qualcosa. Negli anni ’50 si svolse a Roma un convegno di scrittori arabi in cui si esaminarono i mezzi per una migliore diffusione delle loro opere in Italia. Questa non può avvenire che attraverso le traduzioni e quindi di una maggiore diffusione della lingua araba. In questi anni ciò è avvenuto, la lingua araba è sempre più studiata. Riallacciandoci allo scritto di Francesco Gabrieli, ripartiamo da quel porticciolo siciliano che si chiama Mazara in cui sbarcò la flotta musulmana di Asad Ibn alFuràt. Partire da lì per dire, in uno con quelli letterari o oltre essi, anche di altri sbarchi, di siciliani nel Maghreb e di maghrebini in Sicilia.

Vincenzo Consolo

Armonia perduta, Il viaggio iniziatico di Ulisse nei mari dell’immaginario

Le onde tremende lo spingono, quasi lo sbattono, sfracellandolo, contro l’alta costa di basalto. Il naufrago riesce ad afferrare lo spuntone d’una roccia, ne viene subito staccato dal risucchio dell’acqua e, ferito nelle mani, è ancora in balia, fragile uomo, della furia del mare. Nuota disperato sottocosta fino a che non si trova di fronte a una insenatura piana, alla foce di un fiume. Prega la divinità fluviale d’arrestare lo scorrere rapido delle sue acque perché possa finalmente approdare, uscir dal mare, salvarsi dalla tempesta, da sicura fine. E così, spossato, ferito, i polmoni pieni di salmastro, tocca finalmente la spiaggia, avanza sopra una solida superficie, tra alberi e arbusti. È l’uomo più solo sulla terra, senza più un compagno, un oggetto, l’uomo più spoglio e debole, in preda a smarrimento, panico, in una terra estrema, sconosciuta, che come e più del mare può nascondere ancora pericoli, violenze. Ulisse ha toccato il punto più basso dell’impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e martoriata, debole, trova riparo in una tana, fra un olivo e un olivastro (spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell’umano, spuntano come presagio d’una biforcazione di sentiero o di destino, della possibilità di salvezza dentro un consorzio umano), si nasconde sotto le foglie secche per passare la notte paurosa che incombe. È svegliato nel mattino dalle voci, dalle grida festose e aggraziate di fanciulle, di Nausicaa e delle sue compagne. E si presenta a loro, la nudità schermata, l’organo sessuale occultato da una fronda simbolica per non allarmare le vergini, come il più dimesso, il più umile dei supplici. Così Ulisse entra nella terra dei Feaci, nel luminoso regno di Alcinoo, nella ricchezza, nel seno di una altissima civiltà, l’utopia, regno appartato, remoto, incontaminato (tutto qui è opposto al desolato, periglioso, infecondo, all’oscuro mare, opposto a tutti i passati approdi infidi e disastrosi: il rigoglioso giardino di Alcinoo, la fastosa reggia, la saggia moglie regina, i figli belli e valorosi, l’accogliente corte, il popolo amichevole). Entra in questo regno, Ulisse, e noi, lasciata la cornice dell’epica e la narrazione in terza persona, entriamo nel cuore del poema, nella narrazione testimoniale in prima persona svolta dal protagonista, dall’eroe. Narrazione a ritroso, in un lunghissimo flash-back. Che comincia, come nel passaggio di una soglia magica, di un confine iniziatico, nel momento in cui Ulisse, con i suoi compagni, le sue navi, lascia la distrutta Ilio e intraprende il viaggio di ritorno verso Itaca. È un viaggio da oriente verso occidente, in una dimensione orizzontale. Ma, una volta immerso nella sfera marina, è come se fosse, quello di Ulisse, un viaggio in verticale, una discesa negli abissi, nelle ignote dimore, dove, a grado a grado, tutto diventa orrifico, atroce, mostruoso (il mostruoso “naturale” sembra che faccia qui da contrappunto a quel “mostruoso” artificiale, tecnologico, progettato da Ulisse, a quel cavallo di legno, arma estrema, infida e dirompente, che ha segnato la fine di Troia, della guerra), e a grado a grado sono smarrimenti, inganni, oblii, allucinazioni, perdite tremende fino all’estrema solitudine, all’assoluta nudità, al rischio estremo per la ragione e per la vita. Il romanzo di Ulisse non poteva che svolgersi in mare, perché il mare, questo cammino mobile e mutevole, è il luogo dove avviene il distacco dalla realtà, dove fiorisce il fantastico, il surreale, l’onirico, la fascinazione, l’ossessione, dove la ragione si oscura e trovano varco i mostri. Attraversate tutte le perdite, le follie, concluso il vagare per l’infido mare, divenuto più consapevole, più sapiente, più umano, Ulisse potrà finalmente raggiungere Itaca, affrontare i nemici reali, storici, installatisi nella sua casa; con l’aiuto del figlio, di Telemaco, ricolmare la lunga assenza, ricongiungersi con Penelope, rinsaldare lo squarcio della sua vita. Purgato d’ogni colpa, dopo il viaggio penitenziale, ritrovare l’armonia perduta.