Disse che duro o non duro, il terreno, s’aspettava che il cielo si smuoveva, che pioveva, passava agosto, settembre, forse ottobre: e l’uva poi, e l’ulivo?- Domani scavo – disse.- La terra chi la leva, le pietre? – disse la madre – Io e Serafina abbiamo l’estratto; e il pane.- Il galantuomo – disse indicando il ragazzo con la testa. Puntò contro il petto la ruota d’un pane duro d’otto giorni e ne tagliò una fetta. Serafina fece la mossa con i pugni che spingono la carriola con la terra, il ragazzo le punse sotto il tavolo la coscia col coltello e subito gli arrivò una scoppola sorda.- Ihi ihi ihi… – fece il vecchio sbavando pane cotto dalla bocca.Il padre scostò il piatto, arrotolò il trinciato, leccò sulla cartina e se n’andò all’aperto.- Ma’, questa qua la sventro.- Serafina, sbarazza la buffetta.- O ma’, questa qua la sventro.- Chiamati tuo figlio – disse forte la madre verso la porta.- Ihi ihi… – fece il vecchio salendo accroccato la scala pel solaio. Fuori era chiaro, e la strada di polverazzo, di là della chiudenda, era più chiara, e gli alberi avevano le ombre lunghe stese ai piedi come fosse il sole che calava. Era invece la luna che saliva, si vedeva il lustro sul tetto della stalla e per le cime degli ulivi. Arrivò Diego che faceva sempre finta di passare e si fermava dietro la chiudenda finché il padre non gli diceva d’entrare. Subito afferrava un ceppo e l’accostava al muro come gli altri, accendeva la sigaretta e cominciava col soldato nella Grecia.Disse: – In Grecia abbeverano l’ulivo.- Vah – fece il padre.- L’abbeverano, l’abbeverano.- Vah, vah.Disse anche che c’erano fossi d’acqua per tutta la campagna, tanti fossi neri dall’anguille, ah quante anguille. E vah vah faceva il padre, sempre vah, sorridendo con la bocca chiusa.Dalla porta venne fuori Serafina e traversò il cortile per andare nella stalla. Ritornò con un panaro vacante in una mano e camminò incontro a loro, tutta la luce della porta sopra la faccia e la vestina, gli occhi torvi e le gambe pesanti come fosse impastoiata.- Bruhunci… – fece il ragazzo quando gli fu vicina. Lei non si scompose, solo gli diede in testa un colpo di panaro. Era una cosa che la faceva montare questo che le diceva che della vacca aveva il pelo rosso e il pettone.Raccontava ancora Diego che nelle case nuove attaccano sull’arco della porta ghirlande di fogliame, chi sa, forse di quercia, che levano il malocchio, e poi la festa fanno, ah la festa, con quelle dispinnis che ballano e non pare, col busto sempre fermo, e fanno girare l’uomo su se stesso veloce come stròmbolo, stretta nel pugno ‘na punta di mappina.Diego ce l’aveva sempre due solchi sulla faccia, ma ora rideva tutto aggrinzato, coi denti lunghi che gli uscivano di bocca.- Io alla casa metto mano a marzo – disse poi posato.- Buono fai – disse il padre.- E subito mi sposo, il tempo che s’asciughi.- Eh – disse il padre – L’età ce l’hai, e il pensiero del soldato, ha’ voglia, ormai te lo levasti. Diego era partito e ora saliva spedito per la strada, stretta e bianca come le pezze di lino che tesseva Serafina. A ogni chiusa, i cani ribellavano e gli abbaiavano feroci. Rispondevano i cani delle campagne attorno, poi anche quelli più lontani.- Serafina si marita – disse il padre.- Me la levo davanti – disse il ragazzo.- Bardasso sei ancora – disse il padre. Ora i cani s’erano quetati ed era segno che Diego era arrivato a Sanguinera. Ora silenzio c’era e la luna a picco sul cortile. Veniva da dentro lo sbattere del crivo sulle palme che la madre facendo cernendo la farina e, dal solaio, il rantolo affogato del vecchio che dormiva.Il padre arrotolò il trinciato e, quando accese, la sua faccia si confondeva col muro, ferma, con gli occhi che guardavano lontano, oltre la fiamma che aveva sulla bocca. Il vecchio per primo lasciava il pagliericcio, s’alzava ch’era fuori ancora scuro. D’inverno o di stagione tossiva e scatarrava, sbatteva le scarpe, l’orinale, si faceva cadere il bacile dalle mani: come non dormo io, nemmeno i cani. Il vecchio sorrideva maligno quando vedeva il ragazzo rizzarsi sopra il letto, buttare all’aria la roba e vociare. Faceva: – Ihi ihi… -. Quella condanna di dormirgli accanto finiva, finiva mai? Poi si metteva a frugare sotto il letto, a cercare le verghe di canna, di salice o calipso, e se n’andava fuori, sulla loggia, ad intrecciar panari. Questo voleva: fin dall’alba tutti in movimento, e lui là sopra, assiso sulla loggia, con tra le mani l’intreccio delle verghe, bearsi delle donne e trafficare giù in cortile, il padre per la campagna, il ragazzo a governare la vitella. E quella testa di lana sopra la faccia di mattone era una cosa fissa nella loggia, come i meloni, le cocuzze, le cipolle, le reste d’aglio pendenti dalla trave.- Ihi… – fece quando il ragazzo gli passò di sotto col primo carico di terra sulla carriola. La madre e Serafina erano già sedute davanti alla caldara che bolliva sul treppiede e tagliavano i pomodori e li buttavano dentro.- Aha… – gli fece Serafina quando il ragazzo le passò vicino.- Bruhunci… – Aha aha… – Sanguinera Sanguinera, testa di morto Diego Pirrera.- Ora sparla, ma’, ora sparla!- Là arroccasti? – gridò il padre.- Va’, travaglia! – disse la madre. Aveva fatto chissà quanti viaggi, le gambe le braccia gli dolevano, e il padre picchiava forte, sempre uguale, la canottiera verde americana e il fazzoletto al collo pel sudore. Ma il fosso era ancora a niente, solo una buca per seppellire un cane: terra rossa, cretosa, che quand’è asciutta diventa come pietra. Le donne avevano setacciato i pomodori e ora l’estratto era nei piatti, nelle insalatiere, sopra le tavole, sparsi per il cortile ad asciugare. Il vecchio gesticolava dalla loggia, mugolava, con le dita unite della mano faceva segni insistenti verso la bocca aperta. Il padre s’arrabbiò con Serafina: – La zuppa gliela porti, sì o no?Serafina saltò nella cucina e poi salì da fuori sino alla loggia, per la scala a pioli contro il muro. Il vecchio si sporse e, svelto, afferrò la tazza con le mani secche. Una volta che finirono l’estratto, le donne cominciarono a pensare per il pane. Portarono fuori la madia piena di farina cernuta dalla sera, misero l’acqua, il lievito e il sale e si misero a impastare. Serafina era impastatora nata, flag flag facevano i suoi pugni grossi nella pasta.Venne il padre e s’assettò sul ceppo, le gambe aperte, le spalle contro il muro. Si levò la coppola e la mise sul ginocchio, si sciolse il fazzoletto attorno al collo e s’asciugò la faccia.- Mangiamo? – disse.- Aspetta, prima mettiamo a letto – disse la madre.Serafina preparò il letto sotto l’ulivo vecchio del cortile, con due trespoli, le tavole e una tovaglia sopra.La madre si mise a fare i pani, con una sveltezza che pareva un’incanto: ruotava veloce la mano sulla pasta, schiacciava un poco, rivoltava la mano, e il pane le appariva sulla palma, tondo e perfetto. Serafina correva svelta, dalla madia al letto, dove andava a riporre i pani, a tre a tre in fila. Coprì alla fine i pani con una tela, un’altra tela bianca, molto spessa. Dopo mangiato, il padre si mise a fare il conto di quanta calce, mattoni, cemento ci sarebbero voluti.- Assai sono – disse la madre – Che devi fare un pozzo?- Uh… – fece il vecchio battendo un pezzo di pane duro sopra la tavola.- Più tardi inforniamo – gli gridò la madre in un orecchio.Le donne si misero a girare per la stanza, a entrare e uscire per la porta, ammucchiare in cortile le frasche per il forno. Al tavolo rimasero il padre che riempiva la cartina, il ragazzo che scavava la navetta pel telaio di Serafina e il vecchio che guardava fisso verso la porta, verso l’ulivo, dove c’era il letto bianco sotto la luce forte di quell’ora.Il vecchio d’un tratto lo sentirono rantolare, come di notte, la testa abbandonata sopra il petto. Il padre subito gli prese il polso e poi lo toccò per tutto il braccio, fino alla spalla secca, per dove lo scosse, adagio.- Pa’ – lo chiamò – O pa’.- Uh – fece il vecchio, e s’alzò a fatica e s’incamminò piano per la scala. Il padre lo seguì con gli occhi fino a quando non lo vide sparire là sopra, nel solaio. Poi guardò il ragazzo, il padre, gli guardò la faccia, la mano col coltello che scavava quel pezzo di castagno; e la sua mano si guardò, sopra la tavola, la sigaretta tra le dita.- A travagliare – disse alzandosi.L’ulivo poggiava sulla pietra il piede largo di bozze e nodi e groppi e fasce di cordoni. La pietra mostrava verso la casa una faccia colore dell’ulivo, con macchie nere e muffe e muschi verdi ch’erano cavalli e mostri pel ragazzo fin da bambino seduto sulla soglia a contemplare. L’ulivo poteva avere dduecent’anni e da quel tempo cresceva sulla pietra: che un giorno l’ulivo diventa pietra e la pietra si scioglie e si disperde il vecchio lo diceva nel tempo che parlava, com’è vero che l’uomo si fa terra. L’ulivo aveva il sole sopra il tronco: il tramonto, per di là della collina, nei mesi di stagione, s’adagiava sulla forca delle braccia ed arrossava la faccia della casa, la loggia sopra, la stalla, il timpo e gli alberi, ogni cosa. Il vecchio finalmente, dopo aver dormito tanto tempo, era tornato nel suo posto sulla loggia. Ora era anche lui una cosa che avvampava, sulle gambe il fondo tondo di panaro con la raggiera lunga delle verghe ancora da piegare. La madre tolse la lastra, si parò gli occhi con la mano sulla fronte e infilò la testa nella bocca nera del forno.- Serafina, – disse svelta voltandosi – dammi la pala, prepara la cesta.Il vecchio buttò sul lastrico la raggiera e si sporse in avanti per guardare. Il padre oramai era sotto terra fino alla vita e il piccone l’aveva abbandonato.Ora toglieva le pietre a una a una dal fondo di quel fosso e le poneva sul bordo: erano piastre rosse, tonde, levigate. La madre sfornava a uno a uno i pani e Serafina li poneva nella cesta. Poi parce una conca fumante al centro del cortile quella cesta di pane che spandeva odore buono per tutta la campagna. Il sole dall’ulivo era calato sotto la pietra, sotto la collina, e solamente il cielo aveva ancora una luce un poco accesa, mentre gli alberi e la terra pigliavano un colore bruno, come quello della sansa nel frantoio. – Va’ a chiamare tuo padre – disse la madre al ragazzo.Lo trovò disteso lungo dentro il fosso, la faccia all’aria, un braccio sopra gli occhi.- Pa’ – lo chiamò.- Oh – disse il padre mettendosi a sedere – Mi riposavo. Solo qui c’è fresco.- Ma’ dice che ci mangiamo il pane caldo.- Dammi una mano – gli disse il padre. Si sedettero sui ceppi, attorno al pane nella cesta, col piatto vacante sulle gambe. Passò la madre con l’olio e ne versò un poco nei piatti; poi ci mise il sale, l’origano, il peperone rosso pestato nel mortaio. C’era ormai nel cortile un colore di cinisia spenta, come quella ammucchiata sotto il forno. E c’era silenzio e ogni cosa ferma la fila dei cipressi ch’era limite nel ciglio del vallone l’ulivo sulla pietra fermo il nibbio con le ali aperte l’aria e loro, il pane con l’olio nelle mani. Disse il padre: – Di mio padre vi scordate sempre.- È vero – disse la madre battendosi la fronte con la mano. – Gli porto il mio – disse il padre, e per la scala a pioli contro il muro arrivò con. La fronte fino alla loggia.- Il pane – gli disse, e stese il braccio. Ma il vecchio non rispose, fermo, già nell’ombra.- Il pane caldo – insistè il padre.Il vecchio aprì la bocca senza denti, e di là gli uscì un respiro che forse voleva essere parola.Il padre scavalcò il parapetto e si chinò sul vecchio e lo nascose tutto.- Pà – chiamò il padre – O pa’!- ! gèesu – risucchiarono le donne, congiungendo le mani, in piedi sul cortile.
DI QUESTI FOGLI CHE RACCOLGONO UNA PROSA DI VINCENZO
CONSOLO E UNA INCISIONE ORIGINALE DI LUIGI GUERRICCHIO NUMERATA E FIRMATA
DALL’AUTORE SONO STATI TIRATI DALLA STAMPERIA SCIARDELLI DI MILANO NOVANTANOVE
ESEMPLARI CONTRASSEGNATI CON NUMERI ARABI E DIECI CON NUMERI ROMANI
“ Dove avete trovato Una storia cosi inverosimile?
Nel centro della terra, signore.
Questa l’epigrafe a La ragazza del vicolo scuro (Editori Riuniti, 1977) che l’autore, Mario La Cava, attribuisce a un anonimo calabrese.
Sgombrando subito il campo da quell’aggettivo ‘inverosimile’ che ci porterebbe lontano e di cui tanto s’è scritto – scritto di cosa è verosimile e non nelle storie narrate, in letteratura, e ricordando fra tutte la dissertazione che ne fa Pirandello in appendice a un suo romanzo, quel che ci interessa qui è la frase ‘ nel centro della terra ‘. La quale, parafrasata, potrebbe suonare: ‘ nel cuore dell’umanità ‘, suono che è, lo sappiamo, fortemente sospetto ed esposto, quanto meno, alla taccia di retorico. Ma quant’è. E che ci serve per spiegare un nostro concetto su questo romanzo, sulla narrativa di Mario La Cava.
Esistevano fino a poco tempo fa – e parliamo di venti, trent’anni addietro, prima cioè del grande terremoto di cui tutti sappiamo, quel terremoto che quanto stava sotto e sopra la crosta ha distrutto e portato allo stesso livello, reso uniforme – esistevano nel mondo, in questo nostro Paese, nel nostro Sud in Calabria, delle comunità, dei tessuti sociali, delle realtà umane che il tempo e la storia avevano profondamente stratificato e finemente tramato. Erano piccoli paesi che si chiamavano Acri, San Luca a Bovalino; si chiamavano Vizzini, Aci Trezza o Mineo. Non è Il caso di analizzare qui ancora una volta le ragioni per cui le realtà umane del nostro Sud fossero cosi stratificate, fossero cosi verticalmente incrostate e orizzontalmente compatte Fatto è che risultavano “singolari ‘, che avevano un loro parti colare modo d’essere, una loro particolare cultura.
Modo d’essere e cultura che facevano accendere l’interesse di ognuno per l’altro, di conoscere di ognuno la storia, le storie lui, della sua famiglia, dei suoi antenati ; di provare disprezzo per i suoi vizi o pietà per le sue sventure. Questo intrecciarsi o di Interessi, questa attenzione di ognuno per l’altro, l’odio o la compassione facevano crescere sempre più in sé quelle realtà, le chiudevano e, nello stesso tempo, sempre più le “ umanizzavano” (mettendo tra virgolette questo verbo). E allora era da qui, da questa attenzione e da questo interesse, che nasceva il racconto. Racconto orale, naturalmente. Era quello che veniva fatto nelle piazze, nel chiuso delle case, sulle aie e nelle botteghe. Più volte ripetuto, veniva modificato , levigato, portato alla sua cadenza al suo ritmo migliore e alla sua essenzialità. Era, questo, il racconto che sgorgava da quel “centro della terra “di cui dice l’anonimo calabrese, o dal “cuore dell’umanità “ di cui noi abbiamo detto e nel senso che abbiamo cercato di precisare. Racconto interrotto,storie, dove le generazioni si saldavano e facevano storia. Dove le prime sensazioni, le prime espressioni, la vita di una bambina di pochi anni, Antonuzza,si saldano alla vita e alle esperienze di un maresciallo di novantasei anni che ha visto briganti, terremoti e colera. E cosi ci è chiaro perché,detto per inciso, Vittorini mise assieme in un unico volume dei Gettoni ‘ Dialoghi con Antonuzza’ e ‘Le memorie del vecchio maresciallo’.
Ma, seguendo il nostro discorso, diciamo che La Cava appartiene alla razza di quei narratori orali, di quelli che ricevevano le storie e le trasmettevano. E chi conosce, del resto, lo scrittore fuori dalla pagina scritta, di persona, sa che a La Cava sempre il parlare si trasforma in racconto, prende il tono dell’affabulazione. Ma La Cava, è chiaro, al contrario di quei narratori orali ai quali per un verso appartiene, è anche scrittore. Il che vuol dire uscire da quelle realtà umane chiuse in se stesse verso l’universo, vuol dire dare significato a ciò che si racconta: e vuol dire altro.
E’ scrittore, La Cava, ed è specificatamente romanziere. Venne subito conosciuto e da allora rimase famoso per i Caratteri: brevissimi racconti, annotazioni, moralità; in una parola, frammenti. Come frammentista quasi è stato etichettato, con quanto di epigono vociano aveva la definizione. O come pseudoframmentista, nel senso, questo, in cui venne usato da Giacomo Debe nedetti a proposito di Tozzi del primo libro Intitolato “Bestie “… quel libro, in apparenza devoto alla moda e al gusto frammentistico, è viceversa Il libro di un vero narratore, che riesce a far passare attraverso quei frammenti, il suo animus narrativo, il suo bisogno di narrare’. La stessa cosa si può dire per il la Cava dei Caratteri, ma non appoggiandosi soltanto ai mezzi della critica letteraria, ma anche alle date, alla storia. E’ uscito ora, quasi contemporaneamente a La ragazza del vicolo scuro, un altro romanzo di La Cava dal titolo Il matrimonio di Caterina, edito da Scheiwiller. E’ sorprendente il racconto di questo racconto che il La Cava fa in una lettera all’editore stampata come prefazione. Dice subito che Il matrimonio di Caterina è il suo primo racconto, che è stato scritto nel 1932 ( prima dunque dei Caratteri), quando egli aveva 24 anni, e che viene pubblicato oggi, dopo 45 anni. Sorprendente la freschezza, la modernità e, nel contempo, la classicità di questa prima prova narrativa di Mario La Cava. Il matrimonio di Caterina, del 1932, per argomento e tematica è stranamente imparentato al romanzo di oggi, a La ragazza del vicolo scuro. Storia, nell’uno e l’altro, di una violenza, di una illusione, di una amara e terribile delusione, di una sconfitta: su una donna, di una donna; Caterina in quel libro Elena in questo. Ma La ragazza del vicolo più complesso e articolato dell’altro, più che in chiave esistenziale, in chiave di fatale sconfitta verghiana (Elena la fanciulla protagonista, ha la dignità e la nobiltà dell’offesa e nel dolore di una Nedda o Mena), può essere letto in chiave storicistica, meridionalistica come una metafora della sconfitta del Meridione, del fallimento – ormai crediamo definitivo, dato il fallimento generale di oggi – della soluzione del problema meridionale. E tutti gli elementi della vicenda concorrono a farci leggere in questa metafora il libro: Il vicolo irrimediabilmente senza luce e pieno di cocci di bottiglia dove i bimbi giocando si tagliano i tendini; la condizione di Sebastiano, padre di Elena,ultimo lavoratore della terra, privo di coscienza di classe disponibile per il padrone fino all’ultimo residuo di forze; che affoga nel vino la fatica la pena; la prima esperienza di sfruttata di Elena Nella casa della maestra Bononio, fascista, paranoica e ambigua; La seconda, in casa del segretario Giuffone, piccolo borghese fascista e corrotto, e della sua famiglia, avida, volgare e violenta; e l’amore di Giulio, l’italo-americano, l’illusione del matrimonio con questo e la speranza di uscire definitivamente da una condizione di povertà e di umiliazione. E poi il viaggio Roma, alla stazione di Roma, appena nell’anticamera di questa città – simbolo, la scomparsa vigliacca di Giulio e Il ritorno in paese di Elena, nella casa del vicolo scuro, che Giulio l’americano e i suoi dollari non avrebbero potuto non unirsi una a quella classe – ossatura del fascismo, la classe della maestra Bononio e del segretario Giuffone, che, caduto il fascismo e passata la guerra, sarebbe stata, oltre che scheletro, anche polpa e sangue del nuovo regime. Ed Elena, che aveva preso una prima volta e inutilmente, il treno per Roma, dove sta il governo e si decidono le sorti (e quali sorti oggi lo sappiamo tutti, al Sud e al Nord), Elena prenderà una seconda volta il treno per trasferirsi alla periferia di Milano o di Stoccarda.
Il terremoto livellatore di cui dicevamo ha portato in superficie dunque i centri della terra da cui venivano fuori le storie, i racconti. Altro verrà da questa superficie uniforme o è già venuto, non sappiamo se di meglio o di peggio, certo di diverso. E intanto, mentre qui rendiamo omaggio a un narratore vero e di razza come Mario La Cava, ci sembra di compiere un rito, sia pure familiarmente, sia pure dimessamente, di una fede che appartiene al passato.
Vincenzo Consolo estratto dal n.340 della rivista Paragone/ Letteratura
Giugno 1978 Sansoni Editore Firenze
“Per la nostra Sicilia invoco una vera solidarietà regionale, una concordia sacra, una pace feconda e operosa. Giustizia per la Sicilia! Tregua di Dio per la Sicilia!” declamava alla prima seduta dell’Assemblea regionale il presidente (per anzianità) Francesco Paolo Lo Presti. A Palermo, nel pomeriggio di domenica 25 maggio 1947. Nel- la sala detta d’Ercole per gli affreschi alle pareti d’un Velasquez che raccontano le fatiche del semidio enfio di coraggio e di muscoli di quel palazzo che era stato sede di emiri, di re e viceré, i novanta deputati erano disposti secondo gli schieramenti politici: a sinistra i comunisti e i socialisti del Blocco del popolo, i saragattiani e i repubblicani, al centro democristiani e separatisti; a destra monarchici, liberali e qualunquisti. Tra di essi, i protagonisti della infuocata battaglia politica che aveva preceduto le elezioni del 20 aprile: Li Causi, Colajanni, Finocchiaro Aprile, Alessi, Aldisio, Alliata… E in prima fila, al centro, tra le autorità, quel cardinale Ernesto Ruffini che implorerà “di cuore sul nuovo Parlamento siciliano l’abbondanza delle celesti benedizioni». (Una travolgente abbondanza di voti, di potere e di vantaggi s’abbatterà di lì a poco solo su quel gruppo democristiano che col cardinal Ruffini intreccerà unita d’ intenti e di voleri), Cosa voleva dire quella implorata “concordia sacra” “tregua di Dio” del presidente Lo Presti? Era che sala d’ Ercole, tra gli scranni, un profondo fossato era aperto, tra la sinistra e il resto degli schieramenti, un fossato entro cui scorreva la paura del centro e della destra per i seicentomila voti ottenuti dal Blocco del popolo. Paura che alcuni avevano cercato di fugare armando la mano d’un bandito, Giuliano, contro gli inermi lavoratori festeggianti il I° maggio a Portella delle Ginestre. «N’ammazzarono tanti in uno spiazzo (c’erano madri e cerano bambini), come pecore chiuse nel recinto, sprangata la portella. Girarono come pazzi in cerca di riparo ma li buttò riversi sulle pietre una rosa maligna/nel petto e nella tempia: negli occhi un sole giallo di ginestra, un sole verde, un sole nero di polvere di lava, di deserto. La pezza s’inzuppò e rosso sopra rosso è un’illusione, ancora un’illusione. Disse una vecchia, ferma, i piedi larghi piantati sul terreno: – Femmine, che sono ‘sti lamenti e queste grida con la schiuma in bocca? Non è la fine: sparagnate il fiato e la vestina per quella manica di morti che verranno appresso!” Ora il sangue delle undici vittime e dei feriti di Portella rigava quel fossato, ancora a demarcare, ancora a dividere le due Sicilie di sempre: quella proletaria dei contadini e dei braccianti e l’altra dei principi, dei sedara, dei gabelloti, dei campieri, dei mandanti e dei sicari. Sono, questi ultimi, i siciliani che si sentono eredi della storia illustre dell’Isola, che ne difendono l’antica civiltà e l’onore, sono questi che si riconosceranno nei “perfetti dei? del Gattopardo: d’un olimpo disumano, violento e sopraffattore, mafioso e “democristiano”. E mettiamo democristiano tra virgolette volendo dire che, messa da parte la componente popolare e sociale di quel partito, prevalendo l’altra, quella borghese delle clientele e delle cosche, niente ci sembra più siciliano del partito democristiano (come niente è stato in origine più padano, più lombardo del fascismo agrario e cattolico), di pratica politica cioè intesa in senso familiare e tribale, in senso mafioso e clientelare. Trent’anni sono passati da quel 25 maggio del ’47. Cosa è successo da allora lo sappiamo. Quella Sicilia di là dal fossato, la Sicilia che, dopo ottant’anni di unità sabauda, per non parlare di prima, dopo i vent’anni di fascismo con gli ultimi quattro anni di guerra, accesasi per l’ultima volta nella speranza di una nuova storia, di fare essa la nuova storia dell’Isola, è costretta a emigrare, a spargersi per l’Italia e l’Europa. E non erano, questi siciliani dell’emigrazione, solo contadini e braccianti, erano anche intellettuali. Restava nell’Isola, sequestrata dal potere, stretta nella morsa della promessa del favore e del ricatto, quella classe intermedia che riempiva uffici, riceveva assistenza, sovvenzioni, emolumenti. E in quei contadini e in quegli intellettuali emigrati, oltre la rabbia, era sempre dentro la speranza che nell’Isola prima o dopo qualcosa potesse cambiare, che prima o dopo fosse possibile il ritorno. Anche uno scrittore come Vittorini, che sempre respinse l’idea-sentimento di una patria-Sicilia, creandosi una dimensione ideologico-poetica di Sicilia-Lombardia, anche il Vittorini delle “‘tensioni” europee, nutrì per un momento la speranza di un cambia- mento. Si era intorno al ’50, e lo scrittore degli astratti furori di Conversazione, del notturno viaggio nel dolore e nella rassegnazione, tornato in Sicilia, assiste al grande movimento per la scoperta del petrolio: erano gli anni di Gela e di Mattei. Rapportò, o innestò, questa speranza dell’Isola a quella del Nord per l’industria “umana” e olivettiana, la speranza della nascita di una nuova società. Scrisse allora Le città del mondo, libro diurno e di grande movimento, di personaggi in lingua dalle rassegnazione dalle stasi di camionisti per le strade, di contadini a cavallo convergenti in una valle per una grande assemblea) Hai, quando la poesia si fa illusione e utopia, quando la storia taglia il filo che l’aggancia alla realtà. Nel maggio di quest’anno si è celebrato il trentennale dell’Autonomia siciliana. In quella sala d’Ercole del palazzo dei Normanni, accanto a Pancrazio De Pasquale, il primo, dopo trent’anni, presidente comunista del ‘Assemblea, cerano Andreotti, Ingrao e Murmura (quest’ultimo in rappresentanza di Fanfani). Ha parlato De Pasquale, ha risposto Andreotti, e da una parte c’era la richiesta di attuazione completa dello statuto e dall’altra la promessa, data la convinzione che è proprio dal rilancio della autonomia locale che può e deve scaturire a livello civile, culturale, umano il primo elemento di ricomposizione della società? e data la speranza che “dal Meridione e dalla Sicilia potrebbe emergere oggi, invertendo l’itinerario del secolo scorso, la riaggregazione a più alto livello dell’attuale società nazionale tanto turbata”. Il clima di ricorrenza e di celebrazione, chiaro, permette di eludere le analisi, i processi e le imputazioni, ché allora ci sarebbe stato davvero da sghignazzare, se non da gridare, alle parole di un presidente del Consiglio di quel partito della maggioranza che da trent’anni detiene il potere nel Paese, responsabile quindi delle condizioni di oggi della Sicilia, del Meridione, che appunta le speranze nelle autonomie locali di una ricomposizione- a livello, civile, culturale, umano della nostra società disgregata, di un nuovo risorgimento nazionale che parta dal Sud. E solo quest’ironia allora ci permettiamo menti avvertiti come siamo in fatto di risorgi i chi è che lascia oggi Pisacane per Cavour e i Savoia? Chi baratta la rivoluzione per il risorgimento, chi sono oggi questi nuovi Garibaldi del Sud? Intanto, quel fossato apertosi tra i banchi di sala d’Ercole, quello rigato di sangue, di cui si parlava all’inizio di questo scritto, è stato riempito. Il I° maggio di quest’anno s’è anche commemorata per la prima volta all’Assemblea regionale la strage di Portella delle Ginestre. Un’altra commemorazione a Piana degli Albanesi, sul luogo della strage, l’hanno fatta i sindacati unitari. Ma domenica 5 giugno a Palermo, mentre Pajetta commemorava da una parte Girolamo Li Causi, il grande capitano delle lotte del ’47, dall’altra parte il Centro Siciliano di documentazione svolgeva un convegno di studi sul tema: 1947- 1977. Portella delle Ginestre: una strage per il centrismo”: una controcelebrazione del trentennale? E in questo nostro paese di telegrammi ufficiali, di lacrime di coccodrillo, di corone di fiori di commemorazioni, di controcelebrazioni ce n’è gran bisogno: bisogno di analisi, di processi e di imputazioni. Cosa sappiamo, intanto, della Sicilia, del Meridione, dopo questi trenta anni di malgoverno, cosa sappiamo delle condizioni in cui sono state lasciate queste terre “di rapina”? Abbiamo avuto notizie solo di altre stragi, di sindacalisti ammazzati, di sciagure naturali che scoperchiavano altre e millenarie sciagure storiche, di mafia, di rapine, di corruzioni, di speculazioni, di intrighi e di compromissioni della classe dirigente: vasta è la letteratura a riguardo, e spesso romanzata fino al folklore, fino all’amenità, fino a perdere forza di verità, forza di denunzia. Ma dei siciliani che nell’Isola sono rimasti, dei loro mutamenti sociali e politici in questi anni poco sappiamo. La letteratura, a riguardo, crediamo che sia inesistente Ci sovviene soltanto qualche meritoria inchiesta giornalistica, come quella per esempio di Mario Farinella raccolta in volume sotto il titolo di “Profonda Sicilia”, una ricognizione per l’Isola sul finire degli anni ’60. E dei giovani meridionali, dei giovani siciliani di questa fine degli anni settanta, cosa sappiamo? Di questi, di cui non si può dire ormai che siano una generazione, ma una classe (una situazione esistenziale che è immediatamente storica Ed è allora, per questo che loro, i ragazzi, hanno sentito il bisogno di rivendiate, tra le altre cose, il principio che il personale è politico?): per l’emarginazione. il cui li abbiamo spinti, noi, i loro padri, per il deserto di valori in cui li costringiamo a vivere; por le varie crisi che gli abbiamo apparecchiato; per la distruzione di speranze, per le lande senza orizzonti in cui li abbiamo relegati, spogli di cultura e identità. Fino a poco tempo fa, dire giovani, dire siciliani, calabresi o lucani, appariva subito una definizione astratta se non qualunquistica, priva com’era di una distinzione di classe. Dire oggi giovani o giovani siciliani non è più sospettabile. Anzi. In questi, nei giovani siciliani, o giovani calabresi o giovani pugliesi, c’è già una doppia connotazione storica: in quanto giovani e in quanto meridionali. Di una storia che non è più uguale a quella delle generazioni precedenti. Tra queste ultime (del subito dopo- guerra, degli anni cinquanta o sessanta, del sessantotto o del dopo sessantotto) e le generazioni di questa fine degli anni settanta, sembra che dei terremoti siano avvenuti, a scavare abissi, voragini, a creare profondi mutamenti. A decifrare i quali non servono più i metri conosciuti e praticati sin qui. Quali nuovi metri allora si usano? Le sofisticate e asettiche analisi di laboratorio su campionature o cavie che gli scienziati, antropologi e sociologi, praticano con quel distacco e quella iattante autorevolezza che a noi – col rischio di apparire corrivi o vecchi umanisti superati – tanno nascere il dubbio di verità o deduzioni sospette perchè nate da quella scientificità “‘pura che è già ‘”socialdemocratica”; quando non risultano, queste analisi nel chiuso del laboratorio, immediatamente superate dallo svolgersi e radicalmente rivolgersi della realtà esterna. E allora preferiamo la vecchia, esposta. non-scientifica, non-rigorosa, ma “calda” e reale inchiesta giornalistica. E preferiamo anche la pratica di una realtà umana come quella giovanile (e spero che i lettori di questo scritto non siano portati a facili e offensive alla loro stessa intelligenza – battute cosiddette di spirito) di un poeta come Pasolini che lo portava a dolorose constatazioni, a inquietanti profezie. Ecco dunque un’inchiesta giornalistica sui giovani della provincia siciliana, questa di Giuseppe Corsentino: fra le prime e quindi preziosa; profonda, perchè di una realtà scovata in angolo bui e da anni dimenticati. Questa realtà giovanile della provincia siciliana è sconcertante. Per noi, lettori di vecchie letterature e vecchie inchieste sulla Sicilia, dove le classi separate davano un quadro dialetti- co e storicistico (gli zolfatari e i padroni di miniere, i contadini occupanti le terre incolte e i baroni e campieri, le speculazioni edilizie e le stragi a scoppi di tritolo e colpi di lupara, i cortili di Palermo e gli sprechi messi in luce da Dolci, le parole che erano pietre delle madri dei sindacalisti uccisi dalla mafia riportate da Levi, la fame dei bambini e i bottoni nella loro minestra, i salinari e il potere che si ricostituiva nel dopoguerra come ce li ha fatti vedere lo Sciascia de “Le parrocchie di Regalpetra”…), questo quadro di oggi della Sicilia dei giovani ci appare inedito (come inedito deve essere il quadro della realtà giovanile del resto delle regioni meridionali) non più dialettico, intanto, ma univoco, omologo, come oggi si dice. Di giovani quasi tutti appartenenti ormai (qualsiasi sia la loro origine) a una piccola borghesia vittima e disastrata dal consumismo (l’edonismo americano), di merci e di ideologie, disorientati e ondeggianti tra atteggiamenti di riporto di freakettonismo o indianismo paesano o triste e consapevole acquiescenza al vecchio ricatto e alla vecchia soggezione clientelare. Dall’altra parte, gli adulti, i vecchi, di fronte a questi giovani disorientati e disarmati, residui della risacca sessantottesca, “‘scollati” da qualsiasi organizzazione politica, instaurano vecchie controriforme, vecchie ipocrisie, vecchi vizii provinciali e bacchettonismi. Così è a Trapani a Sciacca, ad Agrigento, a Mazara, a Caltanissetta, a Castelvetrano, alienata e miracolata racina Canicattì, allo squallido deserto periferico di Gela… Qualcosa di diverso, di muovo, si nota noi giovani della Valle del Belice, dove il terremoto ha anche sconquassato le vecchie divisioni, le vecchie classi producendo, a prezzo di tanto dolore, uguaglianza e unità di impegno e di lotta. Siamo partiti da lontano: dalla Sicilia del 47. Questa è la Sicilia di oggi. Ma è anche il Meridione di oggi. Di questo Meridione che si è voluto cacciare dalle campagne e dai paesi, lo si è portato nelle fabbriche del Nord in nome della dea industria, che lo si è eletto a terra di conquista per i consumi, che si è spogliato di cultura e di identità. Oggi che quella divinità industriale dai piedi di argilla è crollata, c’è il marasma e lo smarrimento, nei giovani, soprattutto, i più fragili e vulnerabili. Per essi, la unica novità è la recente legge per l’avviamento al lavoro, e quale? In essi, intanto, c’ è il desiderio di un ritorno alla campagna: ci sono le rioccupazioni delle terre come negli anni ’50, si formano le comuni agricole, le cooperative. E questo significa che c’è nei giovani, oltre a una volontà di una vita diversa, anche il bisogno della ricerca di una cultura più “umana” di una identità più vera e più solida. Il governo, le forze economiche nazionali e non, terranno conto di questo loro bisogno?
Un Vincenzo Consolo quarantatreenne parla del suo secondo libro Il sorriso dell’Ignoto marinaio, dedicato all’incontro tra un erudito che studia le lumache e un misterioso marinaio sotto le cui vesti si nasconde un rivoluzionario. Siamo nella Sicilia risorgimentale negli anni tra il 1852 e il 1860. Un prezioso video tratto dalla trasmissione Tuttilibri e conservato nelle Teche Rai: un modo per ricordare lo scrittore siciliano morto il 21 gennaio 2012 a cui Rai Letteratura ha dedicato lo Speciale visibile sul portale.
Antonel di Sicilia, uom così chiaro… (G. Santi: Cronica rimata)
In ricordo del cavaliere Lucio Piccolo di Calanovella autore dei Canti Barocchi.
E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci. Il bastimento aveva smesso di rullare man mano che si inoltrava dentro il golfo. Nel canale, tra Tindari e Vulcano, le onde sollevate dal vento di scirocco l’avevano squassato d’ogni parte. Per tutta la notte il Mandralisca, in piedi vicino alla murata di prora, non aveva sentito che fragore d’acque, cigolii, vele sterzate e un rantolo che si avvicinava e allontanava a seconda del vento. E ora che il bastimento avanzava, dritto e silenzioso dentro il golfo, su un mare placato e come torpido, udiva netto il rantolo, lungo e uguale, sorgere dal buio, dietro le sue spalle. Un respiro penoso che si staccava da polmoni rigidi, contratti, con raschi e strappi risaliva la canna del collo e assieme a un lieve lamento usciva da una bocca che s’indovinava spalancata. Alla fioca luce della lanterna, il Mandralisca scorse un luccichio bianco che forse poteva essere di occhi. Riguardò la volta del cielo con le stelle, l’isola grande di fronte, i fani sopra le torri. Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollono i lor merli di cinque canne sugli scogli, sui quali infrangonsi di tramontana i venti e i marosi. Erano del Calavà e Calanovella, del Lauro e Gioiosa, del Brolo… Al castello de’ Lancia, sul verone, madonna Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte. Il vento di Soave la contorce. Federico confida al suo falcone
O Deo, come fui matto quando mi dipartivi la ov’era stato in tanta dignitade E si caro l’accatto e squaglio come nivi…
Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli olivi giacevano città. Erano Abacena e Agatiro, Alunzio, Apollonia e Calacte, Alesa… Città nelle quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni, fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente vaghi, suoni, sogni. E strinse al petto la tavoletta avvolta nella tela cerata che s’era portata da Lipari, ne tastò con le dita la realtà e la consistenza, ne aspirò i sottili odori di can- fora, ricino e di senape di cui s’era impregnata dopo tanti anni nella bottega dello speziale.
Ma questi odori vennero subito sopraffatti d’altri che galoppanti, sopra lo scirocco, veniva da terra, cupi e forti, d’agliastro, di fico, di nepitella. Con essi, grida e frullio di gabbiani. Un chiarore grande, a ventaglio, saliva dalla profondità del mare: svanirono le stelle, i fani sulle torri impallidirono. Il rantolo s’era cangiato in tosse, secca, ostinata. Il Mandralisca vide allora, al chiarore livido dell’alba, un uomo nudo, scuro e asciutto come un ulivo, le braccia aperte aggrappate a un pennone, che si tendeva ad arco, arrovesciando la testa, e cercava d’allargare il torace spigato per liberarsi come di un grumo che gli rodeva il petto. Una donna gli asciugava la fronte, il collo. S’accorse della presenza del galantuomo, si tolse lo scialletto e lo cinse ai fianchi del malato. L’uomo ebbe l’ultimo terribile squasso di tosse e subito corse verso la murata. Torno bianco, gli occhi dilatati e fissi, e si premeva uno straccio sulla bocca. La moglie l’aiutò a stendersi per terra, tra i cordami.
– Male di pietre – disse una voce quasi dentro l’orecchio del barone. Il Mandralisca si trovò di fronte un uomo con uno strano sorriso sulle labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro, di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e da un moto continuo di pietà. E gli occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero nelle sopracciglia. Due pieghe gli solcavano il viso duro, agli angoli della bocca, come a chiudere e ancora accentuare quel sorriso. L’uomo era vestito da marinaio, con la milza di panno in testa, la casacca e i pantaloni a sacco, ma, in guardandolo, colui mostravasi uno strano marinaro: non aveva il sonnolento distacco, né la sorda stranianza dell’uomo vivente sopra il mare, ma la vivace attenzione di uno vivuto sempre sulla terra, in mezzo agli uomini e a le vicende loro. E, soprattutto, avvertivasi in colui la grande dignità di un signore.
– Male di pietra – continuò il marinaio – E’ un cavatore di pomice di Lipari. Ce ne sono a centinaia come lui in quell’isola. Non arrivano neanche ai quarant’anni. I medici non sanno che farci e loro vengono a chiedere il miracolo alla Madonna negra qui del Tindari. Lo speziale li cura con senapismi e infusi e ci s’ingrassa. I medici li squartano dopo morti e si danno a studiare quei polmoni bianchi e duri come pietra sui quali ci possono molare i loro coltellini. Che cercano? Pietra è, polvere di pomice. Non capiscono che tutto sta a non fargliela ingoiare. E qui sorrise, amaro e subito ironico. scorgendo stupore e pena sul volto del barone. Il quale, pur seguendo il discorso del marinaio, da un pò di tempo si chiedeva dove mai aveva visto l’uomo e quando. Ne era certo, non era la prima volta che l’incontrava, ci avrebbe scommesso il fondo di Colombo o il cratere del Venditore di Tonno della sua raccolta. Ma dove l’aveva visto? Ma sotto lo sguardo dell’uomo, acuto e scrutatore, ritornò con la mente al cavatore. Al di là di Canneto, verso il ponente, s’erge dal mare un monte bianco, abbagliante, che chiamasi Pelato. Quivi copiosa schiera d’uomini, brulichio nero di tarantole e scarafaggi, sotto un sole di foco che pare di Marocco, gratta la pietra porosa coi picconi; curva sotto le ceste esce da buche, da grotte, gallerie; scivola sopra pontili esili di tavole che s’allungano nel mare fino ai velieri. Sotto queste immagini il Mandralisca cercava di nascondere, di rimandare indietro altre che in quel momento (frecce di volatili nel cielo di tempesta migranti verso l’Africa, verdi conchiglie segnanti sulla Le ora pietra strie d’argento, alte flessuose palme schiudenti le vulve delle spate con le bianche pasquali infiorescenze…), chissà per quale associazione o contrappunto, premevano per affiorare in primo piano. E quindi si presentarono, con disappunto del barone, davanti a quell’uomo indagatore e giudice, ordinate nei loro volumi, con titolo e stamperia e anno d’edizione, gli studi di cui il barone, in altri momenti, intimamente si compiaceva, con un certo orgoglio, con una certa soddisfazione, studi che gli avevano aperto le porte delle più importanti Accademie del Regno: ” Catalogo degli uccelli che si trovano stazionari o di passaggio nelle isole Eolie”, ” Catalogo dei molluschi terrestri e fluviali delle Madonie e luoghi adiacenti”, ” Catalogo e fecondazione delle palme”. . Il marinaio lesse, e sorrise, con ironica commiserazione.
Venne da poppa un vociare e lo sferragliare della catena dell’ancora che si srotolava e sprofondava nell’acqua Il bastimento era giunto a Oliveri, sotto la rocca del Tindari. Il marinaio lasciò il barone e si avviò con passo lesto verso il trinchetto. Il sole raggiante sopra la linea dell’orizzonte illuminava la rocca prominente, -col santuario in cima, a picco sopra la grande distesa di acque e di terra. Era, questa spiaggia, un ricamo di ori e di smalti. In lingue sinuose, in cerchi, in ghirigori, la rena gialla creava bacini, canali, laghi, insenature. Le acque contenevano tutti gli azzurri i verdi. Vi crescevano canne e muschi, vischiosi filamenti; vi nuotavano grassi pesci, vi sorvolavano pigri aironi e lenti gabbiani. Luceva sulla rena la madreperla di mitili e conchiglie e il bianco d’asterie calcinate. Piccole barche, dagli alberi senza vela, immobili sopra le acque stagne, fra le dune, sembravano relitti di maree. Un’aria spessa, umida, con lo scirocco fermo, visibile per certe nuvole basse, sottili e sfilacciate, gravava sopra la spiaggia.
Qual cosmico evento, qual terribile tremuoto avea precipitato a mare la sommità eccelsa della rocca e, con essa, l’antica città che sopra vi giaceva? Oh i tresori dispersi sotto quelle acque verdi e quella rena, le erbe sconosciute affatto, le impensate vegetazioni, le incrostature che coprivano le bianche levigate braccia, i femori di veneri e dioscuri. Ora, sopra la rocca, sull’orlo del precipizio, il piccolo santuario custodiva la nigra Bizantina, la Vergine formosa, chiusa nel perfetto triangolo del manto splendente di granati, di perle, d’acquemarine; l’impassibile Regina, la muta Sibilla, libico èbano, dall’unico gesto della mano che stringe il gambo dello scettro, l’argento di tre gigli.
– Fatti i cazzi tuoi! – intimò a Rosario il Mandralisca. II criato era appena giunto, con un velo di sonno che ancora gli svolazzava sulla testa, e pregava il padrone che andasse a riposare.
– Ma, Eccellenza, sono cose da cristiani queste, passare la nottata all’impiedi, fuori, con quel pezzo di legno sempre attaccato al petto come un nutrico?
– Sasà, lo so io quello che porto qua. Se tu vuoi continuare a ronfare, ronfa, da quell’animale che sei.
– Dormire, Eccellenza? Manco un occhio chiusi, Dio mi fulmini. Buttai a mare fino all’ultima quelle quattro ranfie d’aragosta che ieri sera mi succhiai.
* E tutta polpa dentro la corazza che quelle quattro ranfie facevano camminare, Sasà, affogata in un mare di salsa di capperi.
– Eccellenza si, squisita. Che peccato. – E non parliamo di come l’innaffiasti. – Eccellenza sì giulebbo. Ma dicevo… – – Sasà, capimmo. Torna a dormire. – Eccellenza sì.
L’ignoto marinaio, ritto sopra la coffa, soffiò nel tritone per tre volte e il suono, urtando sulla rocca, ritornò per tre volte al veliero. Si levò dalla spiaggia uno stormo di cornacchie di gabbiani, dalla rupe calarono i corvi e i rondoni. Si staccò un barcone a quattro remi dalla riva d’Olivèri. Dagli angoli dei ponti, dalle stive, sbucarono a gruppi i pellegrini. Erano donne scalze, per voto, scarmigliate; vecchie con panari e fiscelle e bimbi sulle braccia; uomini carichi di sacchi barilotti damigiane. Portavano vino di Pianoconte, malvasia di Canneto, ricotte di Vulcano, frumento di Salina, capperi d’Acquacalda e Quattropiani. E tutti poi, alti nelle mani, reggevano teste gambe toraci mammelle organi segreti, con qua e là crescenze gonfiori incrinature, dipinti di blu o nero, i mali che quelle membra di cera rosa, carnicina, deturpavano. Il cavatore di pomice indossava ora, sopra la pelle, lo scapolare di lana di capra, col cappuccio, e in mano teneva un cero grosso, alto quanto lui. Alla moglie la nuca pendevano sul petto, legate al laccio che le segava il collo, due forme a pera, lucide d’olio spalmato, di caciocavallo.
Il barcone toccò il fasciame del veliero e i pellegrini, con voci, con richiami, s’ammassarono alla scala per sbarcare.
Per la strada a serpentina sopra la rocca, che d’Olivèri portava al santuario, si snodava la processione degli altri pellegrini che dalle campagne e dai paesi del Val Dèmone giungevano al Tindari per la festa di settembre. Cantavano, salendo, un canto incomprensibile, che dalla testa rimbalzava alla coda della schiera, s’incrociava nel mezzo, s’aggrovigliava. Ma poi divenne, come amalgamato, dopo tante prove e tanti giri, un canto chiaro, forte, che cresceva in sè, si gonfiava, man mano che la processione avanzava e ‘avvicinava al santuario.
Una fanciulla bella, dai capelli corvini e gli occhi verdi, accesi, già seduta con gli altri dentro il barcone, all’eco dei quel canto, s’alzò in piedi e, dimenandosi, intonò un suo canto: un canto osceno, turpe, che i coatti, lì a Lipari, cantavano la sera, aggrappati alle inferriate del castello. La madre per fermarla, per tapparle la bocca con la mano, si lasciò sfuggire in acqua una testa di cera. Che galleggiò, con la sua fronte pura, e poi s’inabissò.
IL BARONE ENRICO PIRAINO DI MANDRALISCA E LA BARONESSA SUA MOGLIE LA PREGANO DI ONORARLI DI SUA PRESENZA LA SERA DEL 27 OTTOBRE 1852 NELLA LORO CASA DI CITTÁ PER GODERE LA VISIONE DI UNA NUOVA OPERA UNITASI ALLA LORO COLLEZIONE E SI DANNO L’ONORE DI RASSEGNARSI
Dopo il giro in paese, dopo aver per tutta la mattinata salito e disceso scale e scaloni, con quest’ultimo foglio nella mano guantata di bianco, Sasà era dovuto arrivare fino a Castelluccio: attraversando la collina di Santa Barbara, scendendo nel vallone Sant’Oliva, risalendo, con piccole corse qua e là, con aggiramenti, per scansare cani che dietro gli latravano, per ritrovare il passo tra recinti di ginestre e rovi, invocando mali maligni dritti al cuore, al cervello del conte di Baucina, che, ancora di questa stagione, conclusa la vendemmia, già tutti gli altri in paese, se ne stava la, arroccato tra le pietre di Castelluccio.
Tornando, passò da Quattroventi. I mulini gemevano e macinavano il frumento che una fila d’asini, attaccata agli anelli di ferro, avevano trasportato la mattina. Sui mucchi di sterco, tra i garretti, ruspavano galline, sciamavano nugoli di mosche iridescenti. Vespe e zanzare ronzavano ubriache sopra i rigagnoli di mosto dei palmenti. I terrazzani, uscendo dal fondaco, a bocca aperta guardarono Sasà, tutto sgargiante nella sua livrea. A porta di Terra, davanti la forgia, il maniscalco bruciava l’unghia d’un mulo e il puzzo di carogna appestava l’aria. Sconturbato, Sasa scese per corso Ruggero. In questo stretto budello venne assalito dai pescivendoli. Le spalle e un piede al muro, con accanto le sporte, lo assordarono con richiami, con, insulti, con imbonimenti. Uno lo inseguì e gli mise sotto il naso un cefalo sfatto chiuso in una manciata d’alghe sgocciolanti. – Fatt’è è la spesa, la spesa è fatta – gli disse Sasà allontanandogli il braccio con l’indice bianco. Era stanco Sasà, nauseato, ma soprattutto era seccato per le pensate bizzarre del barone.
– Beato te, beato te, Sasà! La barca all’asciutto l’hai – disse una voce cupa, cavernosa, che sbucava da sotto terra, quando i piedi piatti dentro gli scarpini e i grossi polpacci fasciati di bianco sfilarono davanti alle finestrelle con grate e inferriate a livello della strada, sotto l’Osterio Magno.
– Voi, all’asciutto, oh!, senza pensieri, senza combattimenti – rispose ai carcerati Sasà inviperito. Una scarica sonora di scorregge lo investi alle spalle come una fucileria. Presso la spezieria, per non dare in pasto a quella tana di curiosi e malelingue la sua furia e il suo abbattimento, raccolse la pancia e la riporto sotto il freno della cinghia, strinse all’altro il labbro inferiore ch’era pendulo e diede una tiratina di redini allo sguardo per puntarlo dritto e sostenuto nella prospettiva della strada. Sbucato in al piano Duomo, alla vista di quello spazio aperto e quella luce, sospirò. Non poté fare a meno di fermarsi alla potia per chiedere a Pasquale un goccio d’acqua con una spruzzatina di zammù. Si lasciò cadere sulla sedia, appoggiò le braccia sopra buffetta e fece: – Aaahhh.
– Stanco, Sasà? – fu domanda di Pasquale. Con l’amico diede libero sfogo al suo mugugno.
– Come se fosse battesimo, che dico? sposalizio. Fare una festa per un pezzo di sportello di stipo comprato a Lipari dallo speziale, pittato, dice lui, da uno che si chiamava ‘Ntonello, di Messina.
– Messinese? Quando mai hanno saputo fare cose buone i messinesi, cataplasmi come sono ? Che va cercando il barone? Questi son capidopera, Sasà, – e Pasquale indicò con gesto largo il duomo lì di fronte – il nostro potente patrono sopra l’altare, il Santissimo Salvatore, tutto oro e pietre rare, fatto da noi, dai cefalutani!
Le ombre delle chiome delle palme cadevano a piombo sul selciato facendo corona attorno ai tronchi. Uscì dalla Porta dei Re, venne fuori dal portico, scese l’alta gradinata con in cima i vescovi di calce, batté col bastone la bocca digrignata del leone di pietra sotto la vasca della fontana secca, l’organista cieco. Da dietro le bifore delle due torri del duomo si videro oscillare le campane: vibrando nell’aria ferma, come gli archi a zig-zag che correvano intrecciandosi lungo la facciata, il tocco di mezzogiorno si propagò per porta Giudecca fino alla Caldura, per la salita Saraceni fino alla prima balza della rocca, per la porta Piscarìa fino alle barche ferme dentro il porto, fino a Santa Lucia.
Il salone del barone Mandralisca aveva quasi, ormai, l’aspetto d’un museo. I monetari d’ebano e avorio, i comò Luigi sedici, i canapé e le poltrone di velluto controtagliato, i tondi intarsiati, i medaglioni del Malvica, tutto era stato rimosso e piano ammassato nell’ingresso e nella studio, lasciando sopra la seta delle pareti i segni chiari del loro lungo soggiorno in quel salone. Restavano solo le consolle coi piani di peluche che sostenevano vasi di Cina blu e oro, potiches verdi e bianchi, i turchesi e rosa della Cocincina. E porcellane di Sassonia e Meissen menne, le frutta d’alabastro, fagiani chiocce gallinacci di Jacob-petit, orologi di bronzo dorato e fiori di cera sotto campane di vetro.
Gl’invitati se ne stavano all’impiedi, tranne le anziane dame che occupavano, sotto il gonfiore delle crinoline, le poche sedie e il pouf al centro del salone. Le signorine e i giovanotti facevano cerchio attorno al pianoforte dove la baronessa Maria Francesca accompagnava i gorgheggi della nipote Annetta.
(.,,) Salvatore Spinuzza, che ancora portava sulla fronte e ai polsi i segni delle torture della polizia di Ferdinando, se ne stava in disparte, le braccia incrociate sul petto, gli occhi celesti e il pizzetto biondo puntati in alto, muto e fiero, con ai lati, come Cosma e Damiano, i due fratelli Botta. Lo ignoravano tutti, lo scansavano, tranne i padroni di casa, i loro parenti Agnello e il barone Bordonaro. Tranne Giovanna Oddo. Il duca d’Alberi teneva banco, con la sua voce di petto, tra le dame e i cavalieri più nobili della nobile mastra di Cefalù. Parlava dei turbatori dell’ordine, di giovani con fisime e vessìche in testa, pericolosi nemici di Sua Maestà il Re (Dioguardi) e della Santa Religione. Il signor Luogotenente, il buon principe di Satriano, troppo buono era, magnanimo, a perdere tempo e onze con arresti e con processi (santo diavolone!, non era bastato il quarantotto?): subito, subito la forca ci voleva. Giovanna Oddo si volse verso lo Spinuzza, con sguardo supplichevole, accorato. Totò si scompose, s’appoggiò sull’altra gamba, riportò al suo posto con un colpo di testa il ciuffo biondo caduto sopra la fronte, ricambiò lo sguardo. Accennò appena a un sorriso. Giovanna stava piangendo come fosse già, Madonna!, davanti a quel corpo amato pendente dalla trave come un canavaccio.
– Stupida! – le sussurrò la madre stringendole il gomito con tutta la sua forza – Scriteriata. Vai sul balcone, va’, asciuti quegli occhi. A casa faremo i conti.
– Ah, che mali acquisti fanno ‘ste povere fanciulle d’oggi-giorno! – sentenzio il duca, come continuando il suo discorso. Donna Salvina Oddo emise un sospirone.
– Complimenti, duca, per il vostro monumento – disse subito per sviare l’argomento. Il duca, lusingato, passò alla descrizione della fastosa tomba che s’era fatto costruire nella cappella di S. Michele Arcangelo.
– Non vi dico quanto m’è costata. Tutta marmi policromi, sullo stile del Pampillònia a Gibilmanna. Il mezzo busto, lo stemma e in più la dicitura… ANTE DECESSUM, TUMULUM CUM CARMINE, la data, POSUI, HIC CONDAR CINERES, HAEC CONTEGET URNA SACELLO… eccetera -.
Sette salme le piantai a manna – diceva forte, intanto, il conte di Baucina al vecchio e sordo cavaliere Invidiato – Dieci salme le scassai pel vigneto…
— Ih, come siete funereo con tutte queste salme! – l’apostrofò il duca d’Alberì. E subito tornò alla signora Oddo.
– Una bella cerimonia veramente. Una festa intima, religiosa. Il solo parentado, la confraternita dei Trentatre e l’intervento dell’Abate mitrato per la benedizione e il discorso.
Venne il momento della visita al museo. Guidati dal barone, fecero il giro della quadreria disposta in doppia fila alle pareti. Sentirono distratti elogiare la luce dell’Alba a Cefalù del Bevelacqua, l’espressione intensa della Sant’Anna del No-velli, la sapienza prospettica dell’Ultima Cena di Pietro Ruzzolone, dove le figure erano così tonde e grosse che sembrava quella si un’ultima cena, ma il cui inizio non si conosceva, con portate continue di maccheroni al sugo. E così avanti, per le tavole bizantine, per ignoti siciliani, per i viventi, fino a quello della giovane che offre alle labbra di un vecchio rinsecchito il capezzolo d’una mammella bianca che sbuca dallo scuro in piena luce.
– Vengo, mamma – disse la signorina Micciché, come avesse inteso d’essere chiamata per questione urgente. E si staccò dal gruppo, assieme alla Barranco, alla Pernice e a quella vezzosetta della Coco.
– Madonna, che caldo, andiamo sul balcone -, – Gesù, dove ho lasciato il guanto? — fecero le altre, man mano che ci s’avvicinava alle vetrine dei vasi greci.
Oltre al venditore di tonno, oltre a matrone languide, sdraiate, con ancelle attorno che l’aiutavano a fare toilette, i vasi neri mostravano fauni impudichi, sporcaccioni, che abbrancavano per la vita, per le reni ninfe sgambettanti per portarsele, poverette, chissà dove; altre scene di fughe e rapimenti, altre di ragazze estatiche davanti a giovani inghirlandati e con bordoni in mano di cui non si capivano le intenzioni. Gli uomini si davano gomitate, ammiccamenti, azzardavano sottovoce interpretazioni, mentre il barone li informava sull’epoca e sul luogo della loro provenienza. Alle vetrine, alle teche delle lucerne e delle monete, dove il barone si lasciò andare a una sequela infinita di date, di luoghi, di simboli, valori, quei quattro o cinque che appresso gli restarono, per troppa stima o estrema cortesia, afferrarono qualcosa come Mozia Panormo Lipara Litra Nummo Decadramma.
Entrarono i camerieri con vassoi ricolmi di brioches con burro e mosciamà, biscotti col sèsano, paste di Santa Caterina, buccellati, preferiti coi chiodi di garofano, nucàtoli. Sasà guidava come un capitano, con cenni degli occhi e della mano, grattandosi con l’altra la parrucca che gli faceva prudere il testone, l’assalto ai vari gruppi d’invitati. Ma il suo vero nemico era la, in mezzo alla sala, coperto da un panno, posto sopra un leggio alto, con ai lati due moretti candelieri su colonnine attorcigliate. Sasà, passandovi davanti, lo guardava torvo. Ma le voci l’altri nemici, più vivi e più famelici, entrarono dai balconi aperti sulla strada. Come cani che avessero sentito il filo dell’odore dei dolci che per l’aria muoveva serpeggiando, sbucando dal cortile Gonzaga, dal vicolo Ferraresi, dal Siracusani, dal Monte di Pietà, i carusi sotto i balconi cominciarono a vociare:
– Sasà, Sasà, affacciati, Sasà! E si misero a cantare: Bivuta Martina, chiamata Luscia, Cani canassa, scavassa larduta, viva Cuccagna, la xoia la mia!
-‘Sti vastàsi! – mormorò Sasà, e corse a chiudere i balconi. Nu xù cucussa, la bernagualà Buliu pigliata, sunata tambura, Tubba, catubba, la nanina nà!
cantarono più forte dalla strada, ballando, battendo le mani, le pietre.
– Sasà, – ordinò la baronessa Maria Francesca – fai scendere Rosalia con un vassoio. delle monete,
Mentre ancora gli invitati sorseggiavano cherry di Salaparuta e malvasia, il barone fece cenno a un cameriere d’accendere le sei candele dei moretti. S’accostò al leggio e, nel silenzio generale, tolse il panno che copriva il dipinto. Apparve la figura d’un uomo a mezzo busto. Da un fondo verde cupo, notturno, di lunga notte di paura e incomprensione, balzava avanti il viso luminoso. Un indumento scuro staccava il chiaro del forte collo dal busto e un copricapo a calotta, del colore del vestito, tagliava a mezzo la fronte. L’uomo era in quella giusta età in cui la ragione, uscita salva dal naufragio della stupida giovinezza, s’è fatta lama d’acciaio, che diverrà sempre più lucida e tagliente nell’uso ininterrotto. L’ombra sul volto di una barba ispida di due giorni faceva risaltare gli zigomi larghi, la perfetta, snella linea del naso terminante a punta, le labbra, lo sguardo. Le piccole, nere pupille scrutavano dagli angoli degli occhi e le labbra appena si stendevano in un sorriso. Tutta l’espressione di quel volto era fissata, per sempre, nell’increspatura sottile, mobile, fuggevole dell’ironia, velo sublime d’aspro pudore con cui gli esseri intelligenti coprono la pietà. Al di qua del lieve sorriso quel volto sarebbe caduto nella distensione pesante della serietà e della cupezza, sull’orlo dell’astratta assenza del dolore, al di là, si sarebbe scomposto, deformato nella risata aperta, sarcastica, impietosa, o nella meccanica liberatrice risata comune a tutti gli uomini. Il personaggio fissava tutti negli occhi, in qualsiasi angolo essi si trovavano, con i suoi occhi piccoli e puntuti, sorrideva a ognuno di loro, ironicamente, e ognuno si senti come a disagio.
Da porta d’Ossùna, in quel momento, s’udiron venire colpi di schioppo e abbaiar di cani. Era la ronda che di questi tempi sparava la notte a ogni ombra che vagava fuori le mura. Lo Spinuzza sentì un brivido salirgli per la schiena e si fece inquieto.
Nel silenzio che seguì a quegli spari, l’uomo sopra il leggio sembrava che avesse accentuato il suo sorriso. Il Mandralisca lo guardò e riguardò, aggiustandosi il pince-nez, lisciandosi la barba, come lo vedesse anche lui la prima volta. Si volse poi ai convitati e cominciò, con voce piana, come soprappensiero, gli occhi puntati sul pavimento di maiolica:
— Mi gode l’animo nello sperare, opino, sono in vero fortemente persuaso che trattasi d’opera di mano d’Antonello…
Alzò di colpo lo sguardo, si batté la fronte con la mano ed esclamò:
– Sasà, l’ignoto marinaio!
Sasà aprì le braccia ed atteggiò la faccia come davanti a uno che gli parlasse turco. Ci fu nel salone una gran risata. Il duca d’Alberi, staccandosi dal gruppo e avanzando solo verso il ritratto, tutto piatto dietro e la redingote aperta sul bombè che trionfalmente si portava davanti, con la sua voce acuta di cornetta chiese forte al Mandralisca:
– Barone, a chi ci ride quello? – indicando col dito il personaggio.
Ai pazzi allegri come voi e come me, agli imbecilli! – rispose il Mandralisca.
Vincenzo Consolo pubblicato sulla rivista “Nuovi Argomenti” 1976
“Di ville, di ville; di villette otto locali doppi servissi, di principesche ville locali quaranta ampio terrazzo sui laghi…”.Così Gadda, nel descrivere la sua Brianza, “arrondimiento del Serruchòn”, nella regione Keltiké (Lombardia) della nazione Maradagal (Italia) , in una amara e beffarda parodia sudamericana, in quel capolavoro che è “La cognizione del dolore”.“Di ville! di villule!, di villoni ripieni, di villette isolate, di ville doppie, di case villerecce…di rustici delle ville, gli architetti pastrufaziani avevano ingioiellato, poco a poco un po’ tutti i vaghissimi e placidi colli…”. Verrebbe voglia ancora di continuare con questi passi gaddiani almeno fino alla descrizione degli stili che gli architetti milanesi avevano saputo inserire nel verde di quella cmpagna, un’antologia completa del cattivo gusto più squillante. Ma questa Brianza di Gadda-don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino è degli anni intorno al 1920. Che Gadda già vede profanata e irrimediabilmente perduta. Rispetto a prima, forse alla Brianza letterariamente visitata dal Parini, Foscolo, Nievo, Stendhal, Fogazzaro. Un Eden oggi per noi quella campagna di Gadda, quella borghesia, della professione e della rendita, con gli anni si è aggiunta o sotituita un’altra, piccola e piccolissima, di ex contadini e artigiani trasformatisi in imprenditori, industriali, dei mobili, dei tessuti, del cemento. La Brianza diviene così il paradiso degli affari, la provincia serena e opulenta. I brianzoli sono famosi per la loro intraprendenza commerciale, per la loro capacità di fare i dané. Desio, Seveso, Meda, Cantù hanno riempito le case medie d’Italia prima con i loro mobili in “stile” e oggi con quelli in serie creati dai cosiddetti designers. E man mano che gli opifici, le fabbriche aumentavano, e aumentavano le case e le ville, decresceva il verde, spariva. I giornali milanesi di tanto in tanto pubblicavano anonimi trafiletti con inviti come questo, del 1968: “Affrettatevi a visitare la Brianza finché ne resta ancora un po’ “. E l’ultimo grido è quello di Leonardo Borgese che veniva dalle colonne di un settimanale, nel 1970, si proclamva la fine della Brianza: i laghi divenuti ecologicamente defunti, le colline tagliate a fette dai cementifici e, per non far vedere gli squarci, verniciate di verde. Ma è ancora tutto casereccio, brianzolo, paleocapitalistico, ancora tuttavia vivibile e quasi umano: Eden ancora, e doppiamente, se si pensa al lavoro che vi hanno trovato gli operai immigrati, e le “cattedre” i maestri e i professori qui venuti sù dal Sud.Un Eden fino a venerdì 9 luglio 1976. Il giorno dopo, sabato 10 luglio,, questo Eden si rivela improvvisamente un inferno metafisico. Da una di queste fabbriche del lavoro e del benessere, di questo amaro e fittizio benessere per i lavoratori, vantato sempre come miracolo e da sempre sfacciatamente esibito come alibi alle incapacità, agli errori e alle malefatte di una classe politica da troppi anni al potere, da una fabbrica di Seveso, nella bassa Brianza, si sprigiona quella nuvola bianca che porta la morte, impalpabile, incontrollabile, imprevedibile.Il micidiale TCDD, la diosina dalla nuvola distrugge colture e animali, colpisce bambini e adulti.La fabbrica è l’Icmesa, controllata dalla multinazionale Hoffman-La Roche, che produce tricloro fenolo per la casa madre di Ginevra e per la Givaudon Corporetion degli Usa. Da sabato10 luglio, l’allarme scatta una settimana dopo, il sabato 17 luglio, quando gli operai della Icmesa si rifiutano di lavorare. Ma lo sgombero della zona contaminata si decide dopo 14 giorni, sabato 24 luglio, dopo due settimane di dichiarazioni e controdichiarazioni, di rassicurazioni recitate “con faccia di tolla”, dicono a Milano, dagli schermi della TV da tecnici e autorità. In questi 14 giorni, e ancora fino a oggi, in cui sempre più si constata che la pericolosità è grave e investe sempre zone più ampie, in cui altra gente viene fatta sgomberare da altri paesi e bambini e adulti vengono ricoverati d’urgenza in ospedale, in questi giorni abbiamo potuto provare quanto la parodia di Gadda, di cui si diceva all’inizio, della Brianza, della Lombardia e dell’Italia tutta (Maradagàl) come un paese del Sud America, non è più tanto una parodia, una finzione letteraria, ma una realtà. Il nostro si rivela sempre più un paese dell’America Latina, nel Sud della depressione e del colera, nel Friuli del terremoto e nella Lombardia industrializzata e ricca del veleno. Paese latino americano per la disorganizzazione, l’incompetenza e l’incoscienza che dimostrano ogni volta le autorità e i burocrati che dovrebbero essere responsabili. Paese latino americano soprattutto per il cacicchismo dei nostri governanti che consegnano la salute e la vita nostra e dei nostri bambini nelle mani di queste società multinazionali, la cui unica morale è il profitto, i cui metodi sono brutali e disumani: che permettono a fabbriche come la Icmesa, che produce elementi base per i defolianti come quelli impiegati dagli americani nel Vietnam, che in ogni momento, per un incidente, possono spandere veleni i cui effetti si protraggono non si sa quanto nello spazio e nel tempo, permettono a queste fabbriche di installarsi nel nostro territorio. E c’è da chiedersi quante Icmesa ci sono oggi in Italia, e dove; quante altre fabbriche di aziende multinazionali e no spandono dentro le loro mura e fuori quanti altri veleni di cui non sappiamo, noi incompetenti e forse neanche i chimici e i tecnocrati che organizzano e ordinano la produzione. ”Recentemente è stato accertato, dopo la scoperta, due anni fa, che gli operai addetti alla produzione di plastica a base di polivinilcloruro contraggono cancro al fegato, che tra gli abitanti di zone circostanti queste fabbriche si ha una più alta incidenza di tumori al cervello, di malformazioni congenite e di aborti spontanei”: Ha dichiarato il professor Maccacaro. Il fatto è che viviamo oggi in mezzo a una nuova peste, portataci da questi veri e visibili untori, aiutati da allegri manutengoli nostrani. Ma a questi, al contrario dei due innocenti di piazza della Vetra, di Giacomo Mora e di Guglielmo Piazza, nessuna casa, nessuna “officina scellerata” verrà “adeguata” al suolo: nessuna Colonna Infame sarà issata. Ecologia, inquinamento, polluzione: di queste parole si sono riempiti la bocca re in esilio e ameni principi consorti, uomini politici screditati e proprietarie di giornali, scappando subito in luoghi puliti di villeggiatura non appena un odore ripugnante ha sfioratoi loro nasi. Gli hanno subito fatto eco scrittori angosciati e artisti d’avanguardia scrivendo romanzi ecologici e disegnando foglie e pampini. Altri, disperati per la cattiveria dei loro padri inquinatori sono fuggiti piangendo verso Indie dipinte e nuovi paradisi artificiali. Come se il problema non fosse ancora economico, non fosse ancora politico. Vincenzo Consolo
ARTICOLO MAI PUBBLICATO scritto per “Paese sera” e rifiutato dal Direttore Arrigo Benedetti data luglio 1976
Sfogliando il grande
libro (1300 pagine) di Stefano D’Arrigo
Vent’anni di lavoro,
e tant’attesa – È l’odissea di un marinaio reduce in Sicilia alla fine
dell’ultima guerra mondiale.
Annotava Moravia da qualche parte che alla povertà e
infelicità di una terra corrisponde ricchezza e felicità di letteratura, poesia
e romanzo. E portava l’esempio dell’America Latina, con Borges e Marquez e
tutti gli altri scrittori di quella vasta regione dove la letteratura (il
romanzo) cresce ancora rigogliosa e splendida. Bisognerebbe, a questa di
Moravia, aggiungere l’osservazione che non di tutte le terre solamente povere è
una letteratura che si possa dire propria di una determinata regione, ma di
quelle – come insegna Americo Castro – dove più o meno s’è formato il “modo
d’essere”, dove cioè la realtà da “descrivibile” è diventata “narrabile” e
quindi “storicizzabile”. Com’è appunto della Spagna e dell’America Latina. Ma:
e il romanzo del Settecento in Inghilterra e quello dell’Ottocento in Francia,
che infelici non erano ma forse solo inquiete nella loro borghesia? E il romanzo
russo? E il romanzo americano? Restano solo domande, per noi che ci muoviamo
disarmati. Perché allora bisognerebbe affrontare il vastissimo discorso sulla
letteratura, il romanzo: cos’è e perché nasce, che funzione e che destino ha.
E questo lo lasciamo agli specialisti, a quelli che riescono
a spiegare le cose e le ragioni delle cose.
A noi solo il piacere di goderle, quelle cose, il piacere di
leggere un romanzo: Qui solo vogliamo dire che quell’equazione
povertà-infelicità e ricchezza letteraria cade bene anche per la Sicilia e per
quella letteratura che si chiama siciliana.
E quando una storia della letteratura dell’isola si farà,
oltre alla stagione felice del Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, si dovrà
pure dire di un’altra, quella di Brancati, Vittorini, Sciascia, Lampedusa,
Addamo, Castelli, Bonaviri … ultimo, nel tempo, è da ascrivere a questa
anagrafe Stefano D’Arrigo, scrittore messinese, di cui a giorni sarà in
libreria il poderoso romanzo “Orcynus Orca” edito da Mondadori.
Ma torniamo per un momento a Castro per avanzare
un’ulteriore osservazione riguardo alla letteratura siciliana.
E più che a Castro, a Sciascia, che adatta quello schema
alla realtà siciliana e dice “storicizzabile” la Sicilia di dopo i normanni e
da questo momento fa nascere il modo d’essere siciliano.
Ora, l’isola, non sempre e non dappertutto ebbe uguale
sorte. Gli arabi, per esempio, lasciarono il loro segno più nella parte
occidentale che in quella orientale; il feudo nel Val di Mazara e la piccola
proprietà nel Val Demone hanno fatto si che le popolazioni delle due zone
fossero in qualche modo diverse. E
diverso è il siciliano dell’interno da quello della costa. Occidentale e
orientale, marino e dell’interno, continentale, ha per noi significato riguardo
agli scrittori, nella misura in cui essi rispecchiano nelle loro opere, nella
materia che assumono e esprimono, queste diversità. Verga ci sembra Marino (e
non per via dei malavoglia), De Roberto continentale, come Pirandello e
Sciascia e Lampedusa. D’Arrigo ci sembra autore marino (e non perché il suo
romanzo si svolge sullo stretto).
Vogliamo dire che gli scrittori siciliani sono diversi (come diversi
sono gli artisti: Greco o Migneco sono diversi da Guttuso) per la diversa
realtà che esprimono, a seconda cioè se quella realtà si muove nel
descrivibile, nel narrabile o nello storicizzabile: se partecipa più o meno al
modo d’essere siciliano. Sciascia,
sintetizzando Castro, dice che’ descrivibile “una vita che si svolge dentro un mero
spazio vitale”. E ci soccorre anche
Addamo scrivendo: “ … Nella prevalenza della natura c’è esattamente il limite
della storia”.
Ora, le regioni, le città, le popolazioni che per varie
ragioni hanno dovuto fare i conti con la natura prima ancora che con la storia,
o a dispetto della storia, da esse, ci sembra, non possono venire fuori che
scrittori, che opere i cui temi sono il mito, l’epos, la bellezza, il dolore,
la vita, la morte,… vogliamo dire che queste opere, quando sono vere opere, si
muovono dall’universale al particolare e sono siciliane per accidente; mentre
le altre, al contrario, partono dal particolare e vanno all’universale e sono
siciliane per sostanza. Ma questa non è
che una semplicistica classificazione, nella quale, come nel letto di procuste,
la realtà scappa da tutte le parti.
Tuttavia: una città
come Messina, per esempio, al limite e al confine, distrutta, ricostruita e
ridistrutta da terremoti, ci sembra un luogo dove la vita tende a svolgersi
dentro un mero spazio vitale. E
figurarsi poi la vita di quella città invisibile e mobile che si stende sullo
stretto, quella dei pescatori della costa calabra, e della costa siciliana, di
Scilla e Cariddi, Scill’e Cariddi, anzi, arcaica e sempre uguale, vecchissima e
sempre nuova, piccola e vastissima, come il mare. “Lu mari è vecchiu assai. Lu mari è amaru. A lu mari voi truvari fumu?”
dicono i pescatori. Ed è qui, su questo mare, su queste acque che si svolge il
romanzo di D’Arrigo.
La morte marina
“Orcynus Orca” è un
romanzo di 1257 pagine a cui l’autore ha lavorato per circa vent’anni. È la storia d’un Ulisse, ‘Ndrja Cambria,
marinaio della fu regia marina, pescatore del faro, a Cariddi, che durante
l’ultima guerra, nell’autunno del ’43, a piedi percorre la costa della
Calabria, da Amantea a Scilla, per tornare al suo paese. Quella lingua di mare,
lo stretto, lo ferma. Tutto è devastato,
distrutto, non ci sono più ferribotti e né barche. Le femminote, le mitiche, arcaiche, libere e
matriarcali donne di Bagnara sono ferme anche loro per le coste, in attesa di
riprendere, come prima, il loro contrabbando di sale. Ferme e in attesa sotto i giardini di aranci
e bergamotti, in mezzo ai gelsomini, alle olivare e tra le dune delle spiagge.
Solo una d’esse possiede una barca, la potente magara
Ciccina Circè che, impietosita e ammaliata, trasborda quel reduce, su un mare
notturno di cadaveri e di fere bestine.
Dopo tanta struggente nostalgia per la sua Itaca, all’approdo, l’isola
appare al reduce sconvolta, diversa, avvilita, scaduta per causa della guerra,
ma anche per causa dello stesso ritorno che, come tutti i ritorni, è sempre
deludente e atroce. Ritrova il vecchio
padre, i compagni pescatori, i pellisquadre d’una volta.
Ma qui, a Cariddi, sulla spiaggia della “Ricchia, compare
improvvisa l’orca, l’Orcynus Orca, com’è scritto sui libri di zoologia,
l’orcaferone”… quella che dà la morte, mentre lei passa per immortale: lei, la
morte marina, sarebbe a dire la morte, in una parola.
Solitario,
terrificante scorritore di oceani e mari: puzza lontano un miglio, lo precede
il terrore, lo segue il deserto e la devastazione. Il mostro arenato, scodato e irriso dalle
fere, i feroci delfini dei due mari, il Tirreno e lo Jonio, muore spargendo
fetore di cancrena. L’enorme carogna verrà trainata sulla spiaggia dagli
inglesi e dai pellisquadre. Il viaggio
di ritorno di ‘Ndrja Cambria diventa così viaggio verso un mondo alterato,
corrotto: viaggio verso la morte. Ma
viaggio anche verso la verità, l’origine della vita. Orcynus è anche orcio, grembo materno,
liquido rifugio, mare, principio e fine della vita. ‘Ndrja Cambria morirà, ucciso sul mare dello
stretto, striscia di mare, profonda, abissale, canale e oceano, iato, rottura
“naturale” tra una terra e le altre, tra una “storia” e le altre, ucciso da un
colpo d’arma che lo raggiungerà alla fronte
È quasi impossibile
riassumere questo vastissimo romanzo, magmatico, scandito in quarantanove
episodi, dove si muove un’infinita schiera di personaggi e figure. Romanzo dentro il quale tuttora siamo
immersi, come in un’avventura, un viaggio eccezionale e affascinante. E per poterne riferire in termini pacati e
chiari bisogna prima uscirne, bisogna che cessi lo stupore e l’incanto.
“Vogliamo adesso soltanto riferire, accennare anche alla lingua usata
dallo scrittore. Lingua che è il
dialetto proprio dei pescatori dello Stretto, gergo, suono e atteggiamento,
assunti e reinventati dall’autore con conoscenza e sapienza magistrale e resi
con ritmo e musicalità, larga, polifonica.
Una lingua che è
ammiccante, allusiva, ora tenera e carezzante, ora dura e sentenziosa, che
procede circolarmente, per accumuli, e arriva fino al cuore delle cose.
E riferire vogliamo
anche dello scrittore, di Stefano D’Arrigo. Nato ad Alì nel 1919, passa subito
a Messina. Ragazzo, navigava per le Eolie.
Sarà entrato nelle celle delle acque saline e calde delle terme di San
Calogero, dentro bocche, crateri spenti; si sarà imbattuto nelle necropoli
degli uomini antichi, venuti dal mare, nelle olle, negli orci, nei giaroni in
cui rannicchiati come nel grembo materno seppellivano i morti, la testa a
oriente, verso il sole. Si sarà
incantato davanti a tutto quanto dal mare si fa schiuma, conchiglia, roccia,
terra, e in tutto che si sfalda e ritorna al mare.
L’incontro con Vittorini
A Messina,
all’università, fa un giornale murale. D’Arrigo scriveva a un suo amico, Felice
Canonico, disegnava. Vittorini, chissà
per quali vie, da Milano sa di questo giornale e scrive perché vuole vederlo,
vuole leggerlo. Gli mandano un numero
con un interessante articolo di D’Arrigo, “La crisi della civiltà”. È il 1946.
Laureatosi in lettere con una tesi su Hoederlin (“Doveva forse sembrarmi
di scorgere in lui, malgrado lui, qualcosa di quel conflitto tra poesia e
follia, tra civiltà e barbarie che fa la Germania e in cui alla fine soccombono
civiltà e poesia”).
Nel 1947 parte per
Roma. Qui si occupa d’arte. Suoi amici sono Guttuso (e in certe pagine di
D’Arrigo c’è quell’aura dei quadri di Guttuso, dei quadri dei pescatori del
periodo di Scilla), Mazzullo, Canonico, ma anche Zavattini, De Sica, Ungaretti,
Ciarletta. Nella soffitta dello scultore
di Graniti, Peppino Mazzullo, si riuniscono, mettono ogni sera un tanto a
testa, e mangiano panibi e bevono vino.
Il pittore Felice Canonico se ne torna a Messina ed è a lui che poi
D’Arrigo si rivolge per sapere tutto sulla fera dello Stretto, sul
delfino. Canonico va dal direttore
dell’istituto talassografico di Messina e così può avere trattati scientifici,
storie antiche sul delfino, leggende. E
fa anche per D’Arrigo un bel disegno del pesce, un disegno scientifico, a
inchiostro di china, come quelli che faceva il durer dei granchi, dei cetacei.
Nel 1957 D’Arrigo
pubblica un libro di versi, “Codice siciliano” presso l’editore Scheiwiller di Milano.
Ma è nel 1960 che D’Arrigo viene conosciuto: Vittorini pubblica sulla rivista
“Menabò 3” due parti, cento pagine, de “I giorni della Fera”, come si chiamava
prima il romanzo. Scrisse allora
Vittorini sulla rivista: “Quanto qui ora
pubblichiamo di lui non è opera compiuta. Fa parte di un “Work in progress”
ch’io non sono riuscito ad appurare in che anno, e come, e perché, sia stata
iniziata, e come sia andata avanti finora ma che ritengo possa restare soggetta
a mutamenti e sviluppi anche per un decennio.
Di impegno complesso, estremamente ingenuo e estremamente letterario ad
un tempo, è di quel genere di lavori cui una volta, fino a metà circa dello
scorso secolo, accadeva di vedere dedicare tutta un’esistenza”.
Impegno totale
La rivista di Vittorini
era uscita nell’agosto del ’60. Nel settembre di quell’anno conobbi D’Arrigo a
Messina stupefatta e sciroccosa come i fondali dei quadri d’Antonello, alla
libreria di Giulio D’Anna, sul viale San Martino. Ci trovammo, non ricordo bene come, a parlare,
a chiacchierare. Io avevo appena finito di leggere le sue pagine sul “menabò” e
ne avevo ricevuto una grande impressione.
D’Arrigo, più che rispondere alle mie, mi fece lui
delle domande, domande a non finire, su quello che lui aveva pubblicato e io
avevo letto, voleva su tutto la mia impressione di lettore “messinese”: sul
linguaggio, il ritmo, i personaggi…
Lo incontrai l’anno
dopo, sempre a Messina, casualmente per la strada. Mi disse che era venuto giù
da Roma per verificare, a Sparta, ad Acqualatroni, alcuni modi di dire dei
pescatori, parole, frasi. Era pieno di
fervore, di vita. Si capiva che il
lavoro lo teneva in una forma di frenesia, di entusiasmo creativo. E lo rividi poi ancora a Roma nel 1964. Andai
a trovarlo a casa, a Monte Sacro. Era
già cominciato il suo completo isolamento. Lavorava dalla mattina alla sera. Il
libro era là nel suo studio, in bozze.
Bozze sulla scrivania, sulle sedie, attaccate al muro e con lunghe
strisce di carta scritte a mano incollate al margine inferiore del foglio e che
arrivavano fino al pavimento.
D’Arrigo era diverso da quello che avevo conosciuto a
Messina. Era tutto calato dentro il suo
libro, nel lavoro duro, massacrante, totale che richiedeva il libro. Mi disse che soffriva di cattiva circolazione
alle gambe per la vita sedentaria che faceva, lui che aveva giocato da
attacante nella squadra di calcio del Messina.
Sono passati anni. Di tanto in
tanto leggevo, come tutti, di lui sui giornali, brevi note che annunciavano
l’imminente pubblicazione del libro presso l’editore Mondadori.
Nel ’73 sono ancora
andato a trovare D’Arrigo a Roma. Mi
apre la porta e rimane sorpreso, impacciato per la visita improvvisa. Non vede
nessuno ormai da anni. Dopo un lungo
tempo di silenzio, seduti l’uno di fronte all’altro, D’Arrigo comincia a
sciogliersi a parlare, in un flusso straripante di racconto, dove c’è tutto,
memoria, progetto, speranza ma soprattutto sentimento e risentimento. Mi parla della moglie Jutta (è assente perché
al lavoro), che per tanti anni ha accettato questo calvario accanto a lui,
senza mai lamentarsene, stancarsi, sfiduciarsi, sempre spronandolo, con
speranza intatta e chiara. “A Jutta, che
meriterebbe di figurare in copertina con il suo Stefano” c’è scritto ora sul
frontespizio del libro. Parla degli
amici che se ne sono andati, quelli morti
(Niccolò Galo, Vittorini) e quelli allontanatisi, scomparsi in una città
grande, caotica e lontanissima che si chiama Roma. E parla di Messina, della sua Messina, della
Sicilia.
– Perché un giorno
non ce ne torniamo tutti laggiù? – mi dice – e cacciamo via tutti i
politicanti, gli affaristi, i mafiosi.
– E poi, dopo una
lunga pausa: – Ma no, non è possibile – dice – è un’utopia.
Ma del libro non parla e io non oso fargli domande. E il libro è lì, sempre in bozze sparse, sul tavolo
e anche sul divano. E c’è anche la prima
pagina, la controcopertina col titolo.
“Orcynus orca” si chiama ora e non più
“I giorni della fera”. E poi di
Dante – è grande in tutte le dimensioni – dice – è iperbolico. La Divina Commedia è il mio libro De
Chevet. Mi è servito molto, soprattutto
per la lingua. Quello che mi scandalizza sempre è il Manzoni, col suo “Bagno”
in Arno.
Al momento che devo
partire, non vuole lasciarmi andar via, vuole ancora parlare e parlare con me,
in quel suo flusso di ricordi, di sentimenti e risentimenti.
Certo, D’Arrigo,
rappresenta un caso, una eccentricità, un fenomeno di impegno totale alla letteratura, alla
poesia, che non si riscontra forse più nel mondo d’oggi. Non si sa ancora che ripercussioni avrà il
suo libro nei lettori, nei critici.
Il rischio più grosso in cui potrà incorrere è quello di essere chiuso, cristallizzato nel fenomeno, nel personaggio. E questo lui lo sa e lo teme. Ma ha anche temuto fino a ieri, soprattutto, portare a termine il libro, distaccarsene, non lavorarci più, consegnare col “va bene, si stampi”, quelle mille e duecento pagine di bozze all’editore. Perché, quando opere come “Orcynus Orca” possono dirsi concluse? Quando si può dire conclusa una vita, la vita, anche se minacciata dall’orca atomica, dall’orca tecnologica, dall’orca della disumanizzazione?