Consolo, la Sicilia come missione.

Cesare Segre “Diario civile”
A cura di Paolo Di Stefano



Mentre il primo romanzo di Vincenzo Consolo, La ferita dell’aprile (1963) ebbe scarsa risonanza, fu invece una rivelazione Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976, ma scritto verso il 1969). Qualunque discorso sullo scrittore deve necessariamente partire da qui, perché quel libro, uscito a tanta distanza dal primo, rivela già luminosamente i problemi che Consolo continuerà a dibattere e approfondire e ridefinire, nella sua successiva attività.

Quello che subito venne avvertito (Paolo Milano) è che il libro è una specie di anti-Gattopardo: identico il quadro storico (la Sicilia al tempo della spedizione dei Mille), enorme, a prescindere dalla qualità delle due opere, il divario stilistico e la differenza nella prospettiva della narrazione. Perché se Tomasi di Lampedusa si attiene al rapporto tradizionale tra riferimenti storici, invenzione narrativa e scrittura, Consolo mostrò subito la sua diffidenza (che alla lontana risale al Manzoni) riguardo alla storia come razionalizzazione dei fatti. Ben esplicitando le sue riserve, ci offriva dunque, con il suo non-romanzo, materiali storici che sta a noi rimontare e, se possiamo, razionalizzare.

In pratica, Consolo alternava frammenti di testi storici e cronachistici alle parti d’invenzione, istituendo tra gli uni e le altre una dialettica, che poi si ripresenta, a un livello ideologicamente più alto, nel diverso e pur convergente impianto politico dell’azione dei due protagonisti, il barone Enrico di Mandralisca e il magistrato Giovanni Interdonato. Il primo rappresenta bene i borghesi e gli aristocratici illuminati, quelli insomma dei moti carbonari; il secondo è un democratico di sinistra, che alla fine assolverà i responsabili dell’insurrezione contadina di Alcàra Li Fusi. I discorsi dell’uno e dell’altro espongono nel modo più efficace le due posizioni tra le quali oscillavano, all’epoca, le menti più consapevoli: la sanguinosa rivolta di Alcàra e la successiva spietata repressione saranno il principale oggetto del dibattito.

Ma la storia non ha solo la colpa di offrirci spiegazioni ingannevoli; essa è responsabile di accogliere la prospettiva dei vincitori, sacrificando, ancora una volta, quelli che non hanno nemmeno il diritto alla parola: i vinti, gli sfruttati, i miserabili. È appunto la prospettiva dei vincitori che farà assimilare (impropriamente) i piemontesi ai detronizzati borbonici. Quest’impostazione storiografica, diffusa negli anni in cui Consolo scrive il suo libro, sulla scia dei saggi di Benedetto Radice e di Salvatore Francesco Romano, produce un’altra serie di conseguenze nell’impianto del romanzo. Per «inventare» la voce di coloro che non hanno avuto voce, Consolo crea un plurilinguismo vivacemente espressionistico, che mette a contatto nobili frammenti latini e forme del siciliano o persino del dialetto galloromanzo di San Fratello (a pochi chilometri da Sant’Agata di Militello, patria di Consolo), canti popolari e barocchismi spagnoli. Da «archeologo della lingua», quale si definiva, ci fa attraversare verticalmente i principali strati della storia del siciliano e della Sicilia, magari grazie ai frammenti di una canzone di Federico ii.

Il collante di questo plurilinguismo non è concettuale, ma prosodico. La scrittura di Consolo si caratterizza infatti per il suo sottofondo di armonie verbali. Si può persino sostenere, e qualcuno l’ha sostenuto, che quanto lui scrive è senz’altro una prosa metrica, con i suoi nessi e le sue pause. La musica unifica dunque materiali così eterogenei. Consolo continuerà la serie di «romanzi storici» con Nottetempo, casa per casa (1992), evocazione, anche autobiografica, degli anni in cui le squadracce fasciste portarono la violenza a Cefalù, e con Lo spasimo di Palermo (1998), presa di coscienza del disastro operato dalla mafia, e celebrazione del Judex che dovrà restaurare la giustizia; mentre L’olivo e l’olivastro (1994) racconta un viaggio di ritorno, o di scoperta, in Sicilia, alla ricerca di una natura e di una cultura devastate dalla modernità. E sulla Sicilia della storia e della contemporaneità sono numerosi i saggi, e le raccolte di saggi, di Consolo: per esempio Le pietre di Pantalica (1988) o Di qua dal faro (2001). A parte vanno considerati i divertissements di argomento settecentesco, come Lunaria (1985) e Retablo (1987), che sono anche omaggi da una parte a Leopardi e a Lucio Piccolo, dall’altra all’Illuminismo milanese.

Con Vincenzo Consolo perdiamo uno scrittore eccezionalmente inventivo, capace di immergersi nella storia ma più ancora di giudicare il suo tempo. Sempre attento e acuto, mai in cattedra.

22 gennaio 2012 – Corriere della sera

«Noi siàn le triste penne isbigotite».


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«Noi siàn le triste penne isbigotite».
Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo.

di Claudia Minerva

« […] ti trovo bene, un po’ più magro…»

Con l’eccezione di pochissimi interpreti, in linea di massima la critica ricorre ad una approssimazione per definire Lo Spasimo di Palermo (1998) di Vincenzo Consolo: perlopiù schivando il termine ‘romanzo’ (e Consolo ormai dichiarava il genere invilito e impraticabile), chiama questo oggetto letterario per nome (lo Spasimo) oppure nelle varianti di ‘opera’, ‘libro’, ‘testo; e lo dice ‘vicino alla poesia’, o ‘vicino ai silenzi della poesia’, agli ‘approdi della lirica’, avvalendosi di simili locuzioni, tutte versatili e debitamente laconiche, e apertissime alle inferenze del lettore. Espressioni insomma vagamente oracolari, concise e scontornanti insieme: che additano ad uno scarto rispetto ai libri precedenti dell’autore, e forse accennano (ma assai in aenigmate) a uno scavalcamento dei dominî specifici di prosa e poesia e allo squilibrio netto della narrazione in direzione di quest’ultima; ma perifrasi che pure – e anche quando non siano diventate formule abusate (come accade), o maniera collaudata per sbrigarsi da un’impasse, non soltanto classificatoria – pure sembrano aggirarsi, tra allarmate e reticenti, intorno a un nucleo di non detto.
Perché certo è reale la dilagata ‘verticalità’ della scrittura consoliana, la sua innegabilmente cresciuta e fortissima contiguità alla lirica; ma dacché poi sempre poetica è stata la pagina dello scrittore siciliano – cadenzata, assonanzata, rimata; e gremita di echi letterari, colta, rara, di lingua incantata – a voler marcare le differenze rispetto al passato bisognerà mettere da parte la retorica e puntare piuttosto al rasciugamento della lingua e all’accentuarsi della contrazione testuale (della ritrazione autoriale); e dunque al modo ampiamente scorciato ed ellittico, allo ‘spasimo’, che è del periodo e del racconto.

Il mutamento, tuttavia, era annunciato. A guardare indietro, gli indizi stavano nell’acuirsi di un disagio peculiare in Consolo: se vogliamo in una sorta di insicurezza, una perenne quasi scontentezza delle strade già percorse, spesso anche ritentate, ma poi dismesse, accantonate; e in una crescente palpabile desolazione, nella fatica strana della penna. Le avvisaglie erano nei lunghi intervalli tra i libri tutto sommato pochi di questo autore che disperatamente e attardatamente ancora, nel pianeta ignorante e immorale, nel mercimonio globale, si ostinava a voltare le spalle al mercato e a voler fare Letteratura, a voler essere artista e scrittore ‘impegnato’, ‘civile’: un affabulatore, un incantatore, epperò al tempo stesso l’intellettuale utile ad arginare, curare, denunciare: magari a prevenire e a impedire il dolore del mondo, come insegnava una bellissima utopia di Vittorini. Le tracce si leggono nel succedersi dei testi: distanti uno dall’altro non solo cronologicamente, ma veramente poi ognuno a suo modo, nella lingua e nello stile: ogni volta a riprovare la forza della scrittura per piccoli aggiustamenti o inversioni di rotta o a furia di rimaneggiamenti; e con esiti più o meno felici, opachi o splendidi, ma forse, al fondo, con sempre meno entusiasmo. E stanno, le tracce, in una oscillazione tra due poli, nell’opzione combattuta – d’un tratto nettamente divaricata e poi stranamente mischiata, impazzita o violentemente turbata – tra ‘scrivere’ e ‘narrare’, tra certe punte aride, cronachistiche, e un progressivo spostarsi o arroccarsi nella zona della ‘espressione’. E vogliamo dire che il mutamento è andato al passo con l’approfondirsi di una riflessione (o di uno scoramento) che ha una radice antica, se è vero, come sembra a noi, che è dallo squieto interrogarsi del Sorriso dell’ignoto marinaio (1976), dall’assillo della ‘scrittura-impostura’ (ornamento, fiore bizantino, e comunque voce di secondo grado sempre: sempre finzione), se da quel tarlo discende il «rimorso» dello Spasimo. Un «rimorso» che Consolo ha affrontato per gradi, da Catarsi (1989) e Nottetempo casa per casa (1992); e poi ha scandito in due tempi, nell’Olivo e l’olivastro (1994) e qui, nel testo ultimo. Ci ha messo due libri per dircelo o per dirlo a se stesso, e lo ha fatto senza più volute e riccioli e sontuosità barocche, togliendosi la cifra così sua e spettacolare di fasto e di vertigine, elidendo la bellezza. E non perché lo Spasimo non sia bello, al contrario. Ma se nessuno dei testi di Consolo è facile, più degli altri è difficile questo: che porta il nome di un quadro della Passione, di una chiesa votata alla rovina, di un affanno che tortura, di «uno scatto di tendini e nervi» per «allucinato dolore»[1], e che come un dolore è difficile; come la dichiarazione di una colpa, come la confessione di un fallimento, è faticoso.
E davanti a questa scrittura quasi impossibile da realizzare e da sopportare – tutta a risalti e rilievi di pena, terremotata nella sintassi, smagrita nella lingua e nelle immagini, e tenace nella volontà di tormentare se stessa – chiudere la vicenda e frettolosamente siglarla con l’apparentamento spesso meccanicamente ripetuto con la lirica e i suoi «ardui approdi» o i suoi «silenzi», è quasi un non voler guardare, pare il tentativo di aggirare e di scansare il silenzio verso cui davvero Consolo si è mosso (e quanti ‘addii’ ci sono in questo libro?). La storia poi è sempre uguale. Sembra, come davanti al Tramonto della luna di Leopardi, di trovarsi di fronte a un eguale imbarazzo della critica, al non voler prendere atto – allora come adesso – di una messa in liquidazione.

Quando troppo sbrigativamente si afferma che la pagina di Consolo s’è fatta più vicina ai silenzi della poesia, l’impressione è che più sotto ci sia una questione semplicissima ma essenziale di cui si tace, quella di una scrittura che non vuole più incantare. Dov’è infatti la lingua che gremiva ed affollava Lunaria (1985), la «parola suavissima», la «notte di Palermo» («Nutta, nuce, melània / […] deh dura perdura, […] non porgere il tuo cuore / alla lama crudele dell’Aurora»; LUN, 13-14)? Che fine ha fatto la Luna?
Era «lucore», «faro nittinno», «fiore albicolante», la Luna: e cadeva, certo, nel sogno di un malinconico Viceré, come in un sogno famoso di Leopardi (Frammento XXXVII); e veramente pioveva giù dal cielo, lentamente in garze si sfaldava, spariva, moriva, lasciava in alto solo vacuo nero, vuoto. Ma poi dopo, in una Contrada senza nome, in un luogo che aveva conservato le parole antiche, la memoria, magicamente si ricomponeva, bianchissima risorgeva; e favolosamente rifaceva il sipario della quiete, l’inganno del cuore, la malìa, il «sogno che lenisce e che consola», la Poesia.
Per i poeti è un indicatore importante la Luna. Che pure nello Spasimo compare, però fugacemente, e per tre volte. La prima, in una rammemorazione, un idillio accennato e appena bruttato del tempo dell’infanzia. Lei piena ed aprilina splende, e la luce e la sua bellezza spande sopra il mare, il paese, i pesci che vengono a galla affatturati; e sopra un corpo massacrato, un morto ammazzato (SP, 15)[2]:

Era luna lucente in quell’aprile, gravida, incombente, notte di soste per anciove e sarde, di barche  sui parati, di lampare spente, e conche d’ombra ai platani, alle palme. Urlavano donne in cerchio sulla piazza, alzavano le braccia. Era al centro il corpo steso e morto del Muto che pittava sulle prore sirene draghi occhi apotropaici. Il sangue cagliava e s’anneriva torno alla testa disgranata e pesta, al torso, al ventre.

È soltanto un momento, forse istintivamente canonico (ricorda un modo montaliano, o intimamente leopardiano : «E tu dal mar cui nostro sangue irriga, / Candida luna, sorgi […]»): una rapida incarnazione dell’indifferenza – e però c’è quasi una malignità sottesa in quel suo incombere di «gravida», che ce la mostra sovrastante, alta, e minacciosa di cascarci addosso, tutta peso.
Più inquietante è la seconda messa in scena lunare, con il protagonista dello Spasimo che si aggira tra i barboni di Milano, ma il luogo potrebbe essere una qualsiasi metropoli con la sua risacca di rifiuti e di degrado, col suo moderno paesaggio di rovine (SP, 70-71):

Stanno nel tempo loro, nell’immota notte […]. Proni, supini, acchiocciolati contro balaustre, muri, statue che in volute di drappi, spiegamento d’ali, slanci fingono l’estro […]. La luna imbianca groppe, balze, il gioco delle mante. Da dove giungono questi pellegrini, quale giorno li vide camminare, eludere dogane, quale raggio scoprì crepe, frane, il velo sopra l’occhio, la patina sul volto, i segni bassi della differenza? Sono gli stanziali dei margini, le sentinelle della voragine […], il segno dello squilibrio ingiusto, del cieco brulichio, dell’ottusa prepotenza. La terrosa schiera, il canto o il silenzio delle rotte senza approdo.

Non ha sempre questa tonalità cupa lo Spasimo, questo colore impastato e vischioso, agglutinato nell’allucinazione: il brano è il rimaneggiamento di un testo composto per un catalogo d’arte, nel 1995[3]; e la tecnica del riuso (che sia recupero, tessitura, accostamento, incollaggio o inserimento spinto delle pagine già scritte, delle proprie vecchie, sparse e disparate cose) è una prassi di Consolo, pericolosamente frequente. Però torniamo alla Luna: Lei che
in un altro tempo era «virgilia», guida e «malofora celeste»; che lieve e greve, malinconica atra o candente, faceva germogliare le parole, leniva la pena, accendeva e affollava il teatro delle meraviglie. E invece adesso sta in un rigo ed è nome senza aggettivi: «imbianca groppe» – non schiene; «balze» – si dice di un rilievo topografico, una roccia, una collina, un cumulo di terra; «il gioco delle mante» di una statuaria desolante. È una cosa, questa luna: un trasudamento o un faro freddo; e pare un sudario, una mano spessa di calcina sopra una umanità cascante imbozzolata in stracci, tra teriomorfa e minerale.
La terza luna (SP, 98-9) sarà di nuovo un simbolo, e la ritroveremo più avanti; ma solamente in parte è quella antica. Perché alla fine è Lei (l’incanto, il sogno, la scrittura) il rimorso di Consolo.

Per fare chiarezza sugli elementi di novità dello Spasimo, proviamo a mettere a confronto due momenti della scrittura dell’autore, gli estremi temporali di una ‘controstoria’ d’Italia costituita da testi autonomi e scandita per epoche di crisi – segnatamente il nodo dell’Unificazione nel Sorriso dell’ignoto marinaio, gli anni dell’avvento del fascismo in Nottetempo casa per casa, e con Lo Spasimo di Palermo quelli dal dopoguerra fino ai giorni nostri, ai giudici ammazzati con le bombe. Specificando che la presenza decrescente di aulicismi e arcaicismi dipende dalla collocazione cronologica delle vicende narrate (dall’età del Risorgimento all’epoca attuale), e sottolineando che i nostri prelievi saranno necessariamente indicativi e non esaustivi, guardiamo dunque al Sorriso, che non è il primo libro dell’autore siciliano ma il testo in cui si palesa la sua cifra stilistica gremita e riconoscibilissima; e quindi allo Spasimo, che della trilogia sta a conclusione. Ne vengon fuori due lingue qualitativamente differenti (una vorticosa, l’altra indurita e come rastremata) e l’esistenza di due diversi tipi o gradi di complessità:

Parlai nel preambolo di sopra d’una memoria mia sopra i fatti, d’una narrazione che più e più volte in tutti questi giorni mi studiai redigere, sottraendo l’ore al sonno, al riposo, e sempre m’è caduta la penna dalla mano, per l’incapacità scopertami a trovare l’avvio, il timbro e il tono, e le parole e la disposizione d’esse per poter trattare quegli avvenimenti, e l’imbarazzo e la vergogna poi che dentro mi crescean a concepire un ordine, una forma, i confini d’un tempo e d’uno spazio, a contenere quell’esplosione, quella fulminea tromba, quel vortice tremendo; e le radici, ancora, le ragioni, il murmure profondo, lontanissimo da cui discendea? (SIM, 125)

Sùbito un murmure di onde, continuo e cavallante, una voce di mare veniva dal profondo, eco di eco che moltiplicandosi nel cammino tortuoso e ascendente per la bocca si sperdea sulla terra e per l’aere della corte, come la voce creduta prigioniera nelle chiocciole, quelle vaghissime di forma e di colore della classe Univalvi Turbinati e specie Orecchiuto o Bùccina o Galeriforme, Flauto o Corno, Umbilicato o Scaragol, Nicchio, d’una di quelle in somma vulgo Brogna, Tritone perciato d’in sull’apice, che i pescatori suonano per allettare i pesci o richiamarsi nel vasto della notte mare, per cui antique alcuni eran detti Conchiliari o Conchiti, onde Plauto: Salvete fures maritimi Conchitae, atque Namiotae, famelica hominum natio, quid agitis? E Virgilio … Ma che dico? Di echi parlavamo. (SIM, 142- 43)

Il primo prelievo è un campione di mìmesi linguistica accusata con posposizione del possessivo, soppressione di preposizione, elisione di articoli e preposizioni, enclisi, imperfetto debole in –ea, troncamento, e terna anaforica battuta sul deittico (quel /quella); il secondo è un esempio di fascinazione, una piccola cavata elencatoria nel ‘barocco’ di Consolo: un periodo che si slarga e si gonfia, che lievita e si espande; e che parrebbe poter continuare a crescere su se stesso divagando ad libitum, o svolgendosi in volute, a spirale, per tortili virate. Che sia assedio o amore di vertigine (o entrambe le cose), si direbbe che la frase sogna: per incidentali, relative, similitudini e apposizioni.
Questo invece è Consolo adesso, questo è lo Spasimo (SP, 25):

Nella libera vita, elusione di regole e castighi, nel crollo d’abitudini e costumi, rimescolio di stati, cadute di ritegni, privo d’imposizioni e di paure, della voce, dello sguardo che ordina e minaccia, solo con Aurelia, Chino visse, nel marasma del paese, nella casa saccheggiata in ogni stanza, nel dammuso e nel catoio, il tempo suo più avventuroso.

Nel libro lo scrittore impiega pressoché esclusivamente il punto e la virgola[4]: una interpunzione che spesso, o come qui, obbliga alla rilettura, dacché per comprendere il testo occorre trovarne il ritmo e la cadenza. Che non sono affatto intuitivi, ma sono questi:

Nella libera vita, [elusione di regole e castighi,] nel crollo d’abitudini e costumi, [rimescolio di stati, cadute di ritegni,] privo d’imposizioni e di paure, [della voce, dello sguardo che ordina e minaccia,] solo con Aurelia, Chino visse[, nel marasma del paese, nella casa saccheggiata in ogni stanza, nel dammuso e nel catoio,] il tempo suo più avventuroso.

Solo rileggendo, insomma, riusciamo ad impostare la voce, ad abbassare la curva intonativa accordandola al senso dell’apposizione, del non altrimenti segnalato inciso, della parentetica. E si guardi alla costruzione peculiare del brano riportato sotto (SP, 24), al disorientante paritetico allinearsi dei membri di una sintassi tra accidentata e scomposta; e al rallentamento musicale prodotto da punteggiatura e ripetizioni – e qui veramente, con una impostazione grafica diversa, semplicemente andando a capo ad ogni virgola, diremmo che si tratta di una poesia:

Lo strazio fu di tutti, di tutti nel tempo il silenzio fermo, la dura pena, il rimorso scuro, come d’ognuno ch’è ragione, cosciente o meno, d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta, o di qua d’un muro, d’una grata, parete di fenolo, vacuo d’una mente, davanti alla scia in mare, all’arco in cielo  che dispare, di cherosene.

È una sorta di procedimento (sklovskiano) della ‘forma oscura’: vale ad aumentare la durata della percezione di un oggetto (uno scritto, una musica, una tela), quindi ad accrescerne la permanenza e l’impressione nella memoria rendendone impegnativa la decrittazione, impervia la comprensione. E può essere che Consolo ci stia sfidando con la difficoltà del testo, che voglia costringerci a restare su ogni pagina e a rileggerla finché non la teniamo a mente (nella memoria, appunto): finché sappiamo recitarla sentendoci dentro le pause, gli scatti, la curva della sua voce (della sua pena). Ma pure è forte il sospetto che Consolo dal lettore abbia già preso le distanze, e stia parlando con se stesso. E che la linea faticosa e ‘spezzata’ della scrittura sia un esteso correlativo oggettivo, o come la traccia di un cardiogramma, la mimesi di uno spasimo che si torce nella penna e spezza la voce, e che in tutto il libro sgrana e frantuma la fabula e il discorso. Perché questo non è il passo disteso di un narratore, non c’è mai quell’agio; e lo annunciava, in    esergo del testo, il Prometeo eschileo :
«Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore» – che significa: ogni cosa mi fa male, parlare o tacere; lo si voglia riferire alla persona dell’autore o al protagonista del libro, Gioacchino Martinez.
Torniamo però al nostro confronto. Si potrebbe pensare, e in un certo senso è così, che prevalentemente semantica sia la difficoltà del Sorriso, nel quale, sebbene la narrazione non si svolga piana come in un romanzo tradizionale, resta maggiore la disponibilità al racconto; e che sintattica sia invece quella dello Spasimo, in cui la forma narrativa si contrae accentuando la tendenza a slogare un periodo solitamente paratattico che avanza come a gomiti, veramente si allarga a spigoli, slontanando soggetto verbo e oggetto (normalmente invertendo in iperbato l’ordo naturalis) a mezzo di colate appositive. Ma si tratterebbe appunto di una verità parziale, poiché la complessità sintattica è anche un fatto, per quanto non il prevalente, del Sorriso (SIM, 143-144):

Prendemmo a camminare in giro declinando. Sul pavimento a ciottoli impetrato ricoverti da scivoloso musco e da licheni, tra le pareti e la volta del cunicolo levigate a malta, jisso, a tratti come spalmate di madreperla pesta, pasta di vetro, vernice d’India o lacca, lustre come porcellane della Cina, porpora in sulle labbra, sfumante in dentro verso il rosa e il latte, a tratti gonfie e scalcinate per penetrazioni d’acqua, che dalla volta gocciola a cannolicchi càlcichi, deturpate da muffe brune e verdi, fiori di salnitro e capelvenere a cascate dalle crepe: luogo di delizie origine, rifugio di frescura pel principe e la corte lungo i tre giorni infocati di scirocco, come le cascatelle della Zisa, i laghi e i ruscelli a Maredolce, i giardini intricati di bergamotti e palme, le spalle a stelle di jasmino, trombette di datura e ricci d’iracò, le cube e le cubale dei califfi musulmani, o come le fantasie contorte d’acque sonanti e di verzure, di pietre e di conchiglie dell’architetto Ligorio Pirro pel Cardinale D’Este.
Tutto questo, addio […].

Introdotta da un periodo breve, fiorisce gigantesca su un imprendibile complemento di luogo la frase nominale che fra chiasmi, allitterazioni e paronomasìe procede in corsa, balza in avanti a cascata gonfiandosi di immagini, aprendo ovunque rivoli, spandendo i suoi tentacoli, ingoiando le cose e generandone poi altre, e inarrestabilmente gremendosi, affollandosi. Ma è un procedere, una estroversione: tagliata in barocco, certo; e al fondo e in superficie è ansia: attorcigliata, srotolata o esplosa, è sempre la solita danza su baratri e sbalanchi, una frenesia di copertura, la maschera sul vuoto: infine una modalità del tragico: un movimento disperato e affannoso, si sa, e incantatorio anche: sforzato e lanciato all’infinito come se questo dire-toccare-accumulare fosse prendere e fermare le infinite cose, o salvarle e salvarsi; però resta un movimento verso fuori. Non è quello introvertito dello Spasimo: del periodo che si sfonda o si incava, che si avvolge e rifà all’indietro la sua spira; e non ingoia  le cose, gli oggetti, il mondo, ma se stesso. Si ponga attenzione a questa ipotassi (SP, 52 – la messa in evidenza è nostra), alla parentetica che si dilata tra il soggetto (alla fine della frase)  e il suo complemento (all’inizio della proposizione):

Ma anche per lui, per il padre, che pure della sciagura voleva parlare al figlio, dire finalmente, spiegare, e ora che partiva, ritornava laggiù, nella sua isola, ora che dal figlio di più s’allontanava, da quel fuggiasco costretto nell’esilio, la presenza di Daniela era opportuna

Il prelievo, poco illuminante a livello contenutistico, è esemplare dell’andamento macroscopico del racconto.

Lo Spasimo è la storia di un viaggio dalla Sicilia alla Sicilia, via Parigi e Milano. Consolo narra in terza persona, perlomeno prevalentemente; ma sembra che parli di sé. Gioacchino Martinez è uno scrittore invecchiato che non scrive più perché alla propria scrittura non crede. È un padre che si accusa di non aver saputo salvare il figlio dal disastro di una ideologia manipolata, degenerata poi nella violenza degli ‘anni di piombo’; e a Parigi, nell’ennesimo viaggio verso quel figlio con cui non sa parlare e che poco gli parla, da una fotografia sulla parete di un albergo, inizia a ricordare: l’infanzia sull’isola, lo sbarco degli americani nel ’43, il rifugio suo di bambino: il «marabutto», il posto per starsene lontano, col mondo tutto fuori, a immaginare; e il padre lì viene ammazzato dai tedeschi, e forse per colpa di Gioacchino. E ricorda, Martinez, l’amore per la sposa luminosa e fragile, Lucia; la casa di Palermo con lei e il figlio: l’oasi di una vita chiusa tra gli affetti e la scrittura, nel riparo di quelle mura, difesa dal bellissimo giardino; e poi le piante scerpate e avvelenate, la mafia che con le bombe si prende quella terra per lucrare sul cemento e i condominî; e quindi la fuga dalla Sicilia, il viaggio verso Milano pensata umana e civile ma in breve divenuta un altro luogo di terrore e spari, e poi, craxiana, fatta teatro di ogni mercimonio,  della volgarità più oscena. E dopo, l’impazzire e il morire di Lucia, il figlio accusato di terrorismo che si rifugia in Francia, i tanti viaggi tra Parigi e Milano; e prosegue la storia fino al ritorno di Gioacchino a una Palermo incancrenita, dove lo scrittore muore, salta per aria nell’attentato a un giudice che assomiglia a Borsellino. Questa, per amplissime linee, la vicenda del libro.
Ma non sappiamo dire, con la straordinaria sicurezza che pure è di qualche interprete, che ‘equivocheremmo’ qualora sovrapponessimo le voci e le figure, se insomma scambiassimo l’afasia di Martinez per una possibile (o temibile) afasia di Consolo[5]. Perché in realtà ci pare che sia proprio di Consolo il rifiuto o l’impossibilità di scrivere del tragico protagonista dello Spasimo – una impossibilità che, per questa critica lontana dal dubbio, varrebbe a registrare «un dato antropologico e sociale» nella generalissima questione (almeno così capiamo noi) del senso della funzione intellettuale oggi.
Certo non intendiamo appiattire lo Spasimo alla dimensione esistenziale dell’autore: la separazione tra l’io che vive e l’io che scrive c’è sempre, innegabilmente; e la finzione, l’invenzione, è la condizione di qualunque narrazione, anche autobiografica. Ma pure se non sapessimo nulla di Consolo, anche se non riconoscessimo opaca in queste pagine un’esperienza sua reale, comunque, davanti all’opera che mette in scena uno scrittore che dichiara l’impasse, e con fatica e con durezza ogni volta torna sul proprio fallimento, che le proprie parole sente false e della propria scrittura recita il mea culpa – non potremmo non pensare che chiunque sia l’autore, in qualche modo stia parlando di sé, del suo rapporto con la Letteratura. E a maggior ragione nello Spasimo, che di tutti i testi di Consolo è veramente il più ‘sovrascritto’ dacché qui la «metrica della memoria» – lo sfondarsi della pagina e il precipitare suo in verticale per il sovrappiù di senso di cui la caricano le voci della Letteratura (e sono tante: Omero, Dante, Cervantes, Tasso, Manzoni, Leopardi, Verga, T.S. Eliot, Vittorini, Montale) – è anche e principalmente memoria fortissima di sé, dei propri libri, di una storia letteraria personale e vera che costantemente richiama se stessa e si mostra per lacerti, accenni, rinvii: da Un giorno come gli altri Le pietre di Pantalica Catarsi all’Olivo e l’olivastro.
Neppure sappiamo dire con certezza se lo Spasimo debba chiamarsi romanzo, antiromanzo, o narrazione poematica; e potremmo aiutarci specificando che è insieme tragedia, confessione, racconto del viaggio, o dell’esperienza, oppure un’espiazione, e un addio. Ma la questione dei nomi poi non muta la sostanza dell’oggetto: di questa che è (e rimane) una prosa, con le sue fortissime vibrazioni o fibrillazioni liriche; e che narra una storia, per quanto  destrutturandola – con tristezza o con violenza, con qualche esibita trasandatezza, forse con una strana sprezzatura. Lasciamo quindi la definizione esatta dello Spasimo ai catalogatori esperti, ai teorici della letteratura; e in fondo anche ‘romanzo’ può andar bene poiché il genere, elasticissimo, è per natura aperto a tutti gli attraversamenti, a ibridazioni e contaminazioni[6]; e l’avversione al romanzo, ormai più volte espressa da Consolo, è una polemica nei confronti del suo attuale scadimento, una provocazione e una dichiarazione di non-omologazione al mercato cultural-editoriale che di tale ‘etichetta’ costantemente abusa, amalgamando strame e opere di Letteratura[7]. Ma indipendentemente dalle nostre incertezze classificatorie, e pure dal fatto che Consolo, dopo lo Spasimo, abbia realmente scritto  oppure no (e a quasi due anni dalla sua scomparsa, ancora non vien fuori L’amor sacro, il «romanzo storico-metaforico» (sic) che egli stesso annunciò finito)[8] comunque non crediamo di sbagliare affermando che lo Spasimo di Palermo ha il modo di una parola ultima. E che è difficile per chi lo legge perché è difficile per chi, disperatamente, lo ha scritto.

La disperazione, insieme alla diminuzione di sé, è un tratto distintivo di Consolo: racconta una pena reale, crescente, e ossessivamente presente nell’ultima sua produzione – si guardi, prima che al massacro pervicacemente operato da Gioacchino Martinez nei confronti di se stesso e della propria scrittura, all’odio di sé che già nel 1989 si sbozzava nei toni gridati enfatici dell’Empedocle di Catarsi (lo scienziato-poeta impazzito per la falsità che sente dentro le parole – anche le proprie – e il cui «odio verso il mondo è pari all’odio per se stesso, pari al suo dolore, al suo rimorso»; Cat, 58), o allo svilimento a «infimo Casella», a
«eroe patetico» che è nell’Olivo e l’olivastro (OO, 107). Dentro c’è la coscienza della «cavea vuota», il senso di parlare «arditamente» – e a Consolo dové parere ‘teatralmente’ – al niente; forse il timore di perdersi nell’alessandrinismo, nella tentazione dell’ornato o nel vaniloquio della parola bella; e anche quello di scadere nella querimonia, nell’infinito lamento del vecchio che si sente escluso, estromesso. E con tutto il valore estetico morale e civile di cui sempre ha considerato depositaria e custode la Letteratura, Consolo deve aver fatto fatica a non smarrire il senso del proprio lavoro, la spinta del proprio scrivere, del suo ostinarsi ad additare dei valori al nostro tempo di ignoranze, di coscienze assordite ed avvilite, ottuse. Probabilmente nello Spasimo è il peso del disinganno che spezza e sgrana il racconto, che blocca il farsi del romanzo, della storia levigata e ‘tonda’; pure se indubbiamente esiste (e sarebbe fuorviante escluderlo), insieme al bisogno (ancora) di dire una parola ‘utile’ al mondo, il desiderio di misurarsi (ancora), di sperimentare la via diversa, il taglio che magari incida la corazza dell’indifferenza mentre attinge un risultato alto, una compiutezza di stile. Meno cesellata e preziosa è la lingua dello Spasimo (come già quella delle Pietre, dell’Olivo) rispetto alla voltura ricchissima, alla esuberanza vertiginosa e tortile cui ci aveva abituato la penna dell’autore siciliano; ma liricamente tesa, musicale per assonanze e rime interne, resta una partitura ritmica; e si presenta più facile all’approccio lessicale, porta i segni di una nuova asciuttezza, quasi la tendenza a una semplificazione che in qualche modo va a bilanciare il tratto singolare, internamente terremotato della struttura. Ma la questione è complessa, se la distanza dalla voce antica è aumentata progressivamente, disegnando e chiarendo un movimento, più che di distacco, di rigetto.

Mancano allo Spasimo le pezze d’appoggio del Sorriso, i documenti veri o contraffatti del romanzo di stirpe manzoniana misto di storia e d’invenzione; gli manca l’ironia, anche amara; e la quinta di teatro, la metafora di un tempo altro. Non ci sono i fatti del 1860 o gli anni Venti di Nottetempo per dire ‘in figura’ le cose di oggi, perché siamo nell’oggi, e la Storia non si esplicita per nomi e date, ma sta inscritta nella scena metropolitana o nell’iconografia stringata di una terra rovinata e guasta; e si aggruma ad ogni passo del racconto, lo incide di veloci apparizioni e di rumori (il traffico, gli spari, certi improvvisi boati) orientando e dirigendo la vicenda. E indubbiamente la narrazione mai facile di Consolo qui si fa più sussultoria dacché sfronda e scolla pesantemente la trama fino a darcela esplosa, confondendoci. Spesso, in un unico capitolo, passato prossimo e remoto (Milano e la Sicilia), il presente degli eventi (all’inizio Parigi, Palermo poi) e quello perenne di incubo e dolore stanno insieme: per paragrafi staccati, sì: epperò uno via l’altro e per continui salti, sempre in assenza di segnalazioni o di appigli che dicano chiari i tempi e i luoghi; e anche qui, per capire, siamo costretti a tornare indietro, a rifare la lettura. Pare sconnessa l’architettura, franata[9]. Che sia ormai insofferenza dell’invecchiato autore, sfida orgogliosa a un uditorio assente, fretta o voglia di finire, l’opera somiglia a un disegno impazzito: e costantemente pasticcia la sua struttura, la svisa, la fa sghemba: quasi a voler mostrare che la mano non sa (o non vuole) più reggere i fili di una compiuta fabula, che sta cedendo – ed è vero – alla stanchezza. Ma a guardar bene, il disegno di Consolo è tutt’altro che confuso: lo Spasimo è un congegno ben pensato, tagliato e montato per frammenti, tra analessi e prolessi, flashback e anticipazioni; e mentre gradualmente rivela la sua tramatura di ‘simboli’ (sono figure equivalenti il giudice, il padre, lo scrittore; e tutti i luoghi del rifugio – o della viltà – sono la scrittura) mentre che pare disperdersi o costruirsi quasi casualmente, si serra a cerchio intorno alla vicenda che si snoda nel presente: un’azione che si interrompe già alla seconda pagina del primo degli undici brevi capitoli del libro; che torna a svolgersi, si chiarisce e (provvisoriamente) si conclude tra il terzo e il quarto, che ancora si blocca in una rammemorazione e riprende poi a scorrere dal nono capitolo fino alla conclusione del testo. È insomma il racconto di un viaggio di ritorno che comincia in medias res, ritrova il suo principio per tornare poi al passo col presente, secondo uno schema antico, omerico. E veramente Consolo ha riscritto un’Odissea, dal tempo dell’Olivo e l’olivastro: però nei modi sgangherati e tragici e con le afonie di un cantore moderno.

Iperbati, anafore, assonanze e rime interne sono frequenti nello Spasimo; consueta è la cadenza degli endecasillabi e pure di senari, settenari, ottonari e novenari mascherati e fitti nel tessuto della prosa: ma è un dato acquisito che ritmi e procedimenti topici della poesia da sempre contraddistinguano la pagina di Consolo. Lirica è la pagina iniziale, quasi una protasi, amara e splendida; lirico e commovente l’addio alla donna morta; e veramente mirabile (un gioiello da antologia) l’addio a Milano (SP, 93-4) così lucido e fermo e dolente (e quanta vita, quanta fede letteraria, quante cose ci sono in questo addio fatto di luoghi di persone di scrittori di poeti) ma che poi cambia il tono suo pacato, si gela e si strozza in   una maledizione, in uno sputo – ma potremmo continuare a lungo. E sporgenze, affacci e approssimazioni ai modi della lirica stanno nelle aggettivazioni, parche e però puntute, folgorate, tutte rapprese; e nelle inserzioni citazionali di versi, nelle incongruenze sintattiche violente, in certa fortissima icasticità di dettato; e nei cataloghi dei nomi che adesso non sbocciano fastosi ed opulenti e non si affoltano in vorticosa danza a coprire il vuoto, ilaro-tragici e infebbrati di vertigine, ma in quello cascano o colano gravi, disanimati e nudi. Resta colta e non omologata la lingua di Consolo, però si è incrudita: non gronda più umori densi o olii soavissimi, non si espande per volute, non ricama i suoi vecchi e splendidi arabeschi, ma vuole incidere e pesare, come una pietra: a tratti si fa rasposa per asciuttezza e sempre ha in gola una dissonanza aspra, una caduta, uno stridore, la disarmonia che spezza l’illusione la malìa il lenimento del canto (la tentazione dell’incanto). Per distillazione e smagrimento, per erosione si è rappresa in una bellissima economia verbale che coniuga torsioni incongruenze e lapidarietà sintattiche allo sfondamento in profondità e in espansione, all’appiombo verticale della parola poetica. Ma veramente quel che più rileva e fa la differenza, rispetto al passato, di questa lingua sfrondata, è l’ispessirsi delle sue zone di silenzio: tanti sono gli spazi bianchi che si aprono fra i capoversi o fra i paragrafi staccati; e le virgole, anche ravvicinatissime, che spezzano il fluire del racconto, isolano segmenti quasi versicolari: sono pause che si leggono come se ci fosse un salto d’aria in mezzo, come gli ‘a capo’ della poesia. E questo ispessimento deriva dal ricorrere di un procedimento che appunto porta in sé il silenzio perché implica un margine di non detto, di non spiegato: l’ellissi, che è il vuoto su cui rallentiamo, ci fermiamo; che siamo chiamati a interpretare, o di cui dobbiamo prendere atto.

Elide i nessi Consolo, spesso la consequenzialità narrativa; avanza per associazioni sue, per saltum, e sembra (voler) perdere il filo, o volerlo ingarbugliare a noi. Agisce ellitticamente quando ci confonde sovrapponendo le maschere, le personae in cui si scorpora e parla la voce narrante (io, tu, egli: nello Spasimo è lo stesso); o quando proditoriamente ci spiazza nel giro di una frase o di un capoverso con una posposizione che è un repentino cambio del soggetto (SP, 26):

Ricominciò a poco a poco a frequentare l’intrico dei vicoli dietro la sua casa, il quartiere tra la chiesa e la piazza di fondachi e di antri, casupole col mulo nella stalla, carretti ad aste all’aria, gabbie d’animali, buffette di scarpari, forge fumose, fermenti grassi, fioriture d’untumi, afrori da porte e lucernari, lippi e limaglie tra i ciottoli, ai bordi dello scolo. Sulla soglia, mischiavano le donne vasellina e zolfo per la rogna. Si negava a quel meandro in ogni tempo, come posto dentro una caverna, sotto perenne nuvola di cenere dell’Etna o sabbia del deserto, il sole che nelle cadenze, nel giro naturale temperava questa fascia del mondo, governava i giorni, le stagioni.

Ellittico è il discorso in cui tutte le parole funzionano come una stenografia e hanno dentro un’eco, allargano e sfondano la pagina col peso; ellissi è l’accostamento straniante dei frammenti, oppure l’omissione del verbo, o il comparire suo con impressionante ritardo (è la prassi con cui Consolo sistematicamente ci disorienta) come nel fraseggio apparentemente nominale in chiusura di questa pagina che riportiamo intera ad esemplificare in sequenza quanto appena detto (SP, 42-3):

Oblio di tempo e luogo in quella sosta di ristoro, estraniamento, ritaglio d’un mondo prossimo e lontano, e Abdelkrim mostrò il tramonto, il vuoto intorno, significò la chiusura del giardino, delle porte.
«A demain, monsieur, à demain» il sorriso sul viso nobile, caprigno.
Ancora spinto dal caso, nel cieco vagolare, nelle luci e nelle ombre della sera.
Portavano i passi verso il luogo dov’era la ragione del viaggio, del suo persistere nel mondo, verso quell’uomo esplicito e sfuggente, quel figlio che si negava a ogni confidenza, tentativo di racconto, chiarimento.
Furtivo avanti la libreria a spiare nella sala fumosa e affollata, lui con altri al tavolo, sorridente e ironico, accanto al profetico scrittore riccioluto.

“Piangevi per le nuvole, pei tuoni, ti stringevi a me forte, le nule le nule – lamentavi –, t’ostinavi a contare le stelle, a scovare le cicale, dicevi del veliero sopra il Monte, dei fuochi sopra l’onde, e lei che ridendo più in dentro ti spingeva nelle fole.”

Dentro frotte, masse, che non credea non credea che tante, notturne e inebetite, per viali passaggi impasses, angoli scuri, insegne lampeggianti, video e ordigni sessuali, negre maestose e vecchie consumate, club, guardiani ch’afferrano pel braccio, spacciatori, giovani piegati e barcollanti, uno stordimento, un fiume trascinava, in fondo, fino alla foce calma, alla penombra sotto un arco, ombre immobili e scorrenti.

Il periodo in apertura della citazione mostra due maniere allineate: quella nominale («Oblio di tempo → lontano») e quella predicativa («e Abdelkrim → delle porte»); elidono i verbi
«A demain → caprigno» (e ci lampeggia dentro Saba), «Ancora spinto → della sera», «Furtivo avanti→ riccioluto»; e sono modi scorciati e rappresi, intervallati dall’ordito più tradizionale di «Portavano → chiarimento» (con le anaforiche riprese melodrammatiche e l’euritmia retorica della terna sinonimica in chiusa) e dal frammento di sapore pascoliano
«Piangevi → fole».
In questo contesto, l’eliotiano-dantesco «Dentro frotte, masse → scorrenti», ci sembra immediatamente anch’esso privo di predicato; ma è un’impressione indotta dalla sintassi che procede centripeta tra slogature e agglutinazioni, per membri sbrancati. Il periodo infatti ha
«fiume» per soggetto, «trascinava» per verbo, «ombre» come oggetto e tre complementi di luogo: «dentro», «per» e «fino»; il primo («dentro») complicato dalla citazione che dovrebbe contenere e riportare il commento del protagonista Gioacchino, di cui il libro narra in terza persona; e che però innesta un ulteriore effetto di sbandamento per l’ambiguo sovrapporsi di soggetto narrato e voce narrante, e forse per l’improvviso baluginare o il chiarirsi della identità delle personae grammaticali, di egli-Martinez e di io-Autore-Consolo, dacché l’imperfetto debole credea indubbiamente vale per entrambe le persone, terza e prima; ma appunto la memoria dantesca ed eliotiana (e sono presenze capitali nello Spasimo) generano o rivelano la ‘confusione’; e istintivamente leggiamo come se a parlare fosse la prima («e dietro le venìa sì lunga tratta |di gente, ch’i’ non averei creduto |che morte tanta n’avesse disfatta»; If, III, 54-57; «A crowd flowed over London bridge, so many, /I had not thought death had undone so many»; WL, 61-63; la sottolineatura è nostra).
Ad ogni modo, reputare omesso il predicato è un errore che Consolo ci spinge a compiere. O meglio, lo commettiamo perché lo Spasimo ha una orchestrazione sinfonica, una sua musica: l’autore prende un tema, cambia strada, lo lascia, e poi a distanza, magari dopo molti altri toni e altri motivi, ci ritorna, lo riprende, lo continua. A rigore infatti, nel caso appena esaminato, Consolo sta continuando un ‘tema’ precedente, e ad essere più precisi avremmo dovuto parlare della elisione di un avverbio o di un periodo (o di una serie di periodi) che stanno due pagine prima di quella citata: «Via fino al Quais des Célestins […]. Via da quella zattera di pietra […], dentro borghi, strade, piazzette di dimenticanza, bistrots e librerie, volumi aperti su pagine istoriate, inchiostri multicolori, scrittura ondosa e sibillina. Quindi davanti al muro bianco, alla cupola smagliante, al minareto della moschea» (SP, 40); ma potremmo anche fare come se fosse sottinteso il «girovagò» dell’inizio del capitolo (è lontanissimo, a pagina 33); oppure, veramente, ‘andava’: perché il continuo e affannoso   movimento, il desolato e interminabile peregrinare è un motivo che ritorna (ma ce ne sono altri: la colpa, il rimorso, il rifugio, l’addio), una nota dolorosa che lo Spasimo (questo libro che racconta un viaggio) perde e poi riprende. E ‘andava’ sarà il predicato saltato più avanti, in un diverso tempo e luogo della vicenda, a Milano anziché a Parigi; ma il modo ellittico – la ripresa del tema che compare a distanza, come fosse un refrain, in pagine differenti – è analogo a quello indicato in precedenza:

«Andava nell’ora antelucana per la città ignota, per vie, larghi senza nome, per scale, passaggi pedonali, nel neutro lampare dei semafori. Gli egri ippocastani attorno al monumento marcivano le bacche […]» (SP, 69).

E dopo altri coagulati motivi, altri rappresi pensieri (la fiumana del progresso, il Gran Ballo Excelsior, Verga che torna in Sicilia, gli scontri degli anni ’70 a Milano) ‘andare’ torna in anafora (SP, 70) in un altro capoverso:

«Andava in quel crepuscolo, fra lo sbarramento di portoni, di serrande, nel giallo dei fanali, nel vuoto, nell’arresto mattutino. Guardie infilavano i biglietti[…]»;

E più giù, dopo la descrizione della città desolata, la comparsa in scena di Manzoni[10], l’apocalissi dei barboni (questa pagina, che in parte abbiamo citato, staccata dal racconto, separata e chiusa tra due spazi bianchi) lontano insomma, ma ancora eliso, sottinteso, c’è il predicato, ‘andava’:

«Dentro il fitto intrico della cerchia e la curva larga in cui nei muri, negli accessi, erano ancora i segni del Naviglio» (SP, 71).

E muovendoci anche noi per salti, arriviamo all’avvio del testo, che è prologo o protasi o una specie di ‘a se stesso’, o un ‘a parte’: leggiamo l’incipit della scrittura «poematica» dolorosa e franta, l’inizio del viaggio (SP, 9):

Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del lungo tuo viaggio, andiamo.

Ma più indietro – ché questo libro è un perenne ritornare di Consolo su di sé, sul suo mestiere, i suoi libri, la sua funzione di scrittore – c’è l’andare, il fermarsi, lo scendere, l’entrare, il correre del reduce «patetico» e «smarrito», del viaggiatore disperato di una Sicilia perduta:  c’è l’odissea spezzata e fallimentare dell’Olivo; e Consolo doveva tornare su qualcosa che lì, con quel cammino, aveva incominciato a dire.

La parola «rimorso» sta all’inizio e alla fine dell’Olivo e l’olivastro; poi compare (ed è un indicatore di rotta) nell’avvio dello Spasimo; e in realtà sono numerose e tutte rilevanti le occorrenze del termine in queste due variazioni tragiche sul tema della colpa e sul viaggio di matrice omerica, sull’impossibile ritorno a un’Itaca scomparsa.
Si chiama così L’Olivo e l’olivastro perché fra quegli arbusti, nell’intrico fitto e armonico di selvatico e coltivato, ripara Ulisse quando scampa al suo lungo naufragare e tocca un mondo solido, o comunque più solido del mare: Scherìa incantata, la terra dei Feaci. Al personaggio del mito Consolo dedica un intero capitolo (il secondo del libro) rendendo esplicito il parallelismo tra due viaggi che si svolgono nel testo, entrambi di ritorno, epperò segnati  da esiti differenti. Perché se Odisseo alla fine del suo travaglioso peregrinare raggiunge Itaca, il protagonista dell’Olivo approda invece a un’isola mutata, devastata: una Sicilia sconciata cementificata incancrenita dannata, ormai dominio dei Proci, del selvatico soltanto, della barbarie. E certamente narra di sé, Consolo: a descrivere il disastro è un personaggio senza nome di cui parla in terza persona ma che in tutto gli somiglia. Prescindendo tuttavia in questa sede dal moltiplicarsi dei ‘giochi a nascondere’ (e qui gli specchi dell’autore sono tanti), ci interessa il carattere espiatorio del cammino dei due erranti: l’antico eroe greco e il moderno protagonista dell’Olivo accomunati dal «rimorso» (otto sono le occorrenze del lemma, solo a contarle da pagina 9 a pagina 28 del testo) e dunque dall’aver commesso una colpa. E però quale?
Ulisse è l’ideatore degli inganni, l’inventore dell’idolo di legno che nasconde nel ventre la morte feroce, le braccia armate che distruggono Troia; e lui che ha coltivato métis techné  per un fine letale (questa è la lettura di Consolo) è il più colpevole degli Achei ma pure l’unico a salvarsi. Non è il guerriero più forte, o il più degno, il più valoroso; e lo sa. Perciò è il più carico di rimorsi: quelli che dovrà affrontare (per una sorta di contrappasso) materializzati in mostri (Ciclopi, Lestrìgoni, Sirene, la «rovina immortale» di Scilla e di Cariddi); e prima ancora, quelli che deve propriamente confessare nella reggia di Antinoo: perché nello
«strazio» del racconto è l’ammenda per cui l’eroe è assolto (OO, 45); e questa specifica ‘catarsi’ è necessaria (dire, narrare, confessare la colpa) acché il ritorno in patria possa compiersi. Ulisse dunque piange e narra: «narra fluente la sua odissea […] diventa […] l’aedo e  il poema […] il narrante e il narrato, l’artefice e il giudice, diventa l’inventore d’ogni fola, menzogna, l’espositore impudico e coatto d’ogni suo errore, delitto, rimorso» (OO, 19); e ne vien fuori una strana mistione di vero e falso, confusamente l’impressione che dentro il racconto si insinui e stia acquattata una simulazione, una menzogna di fatto imprescindibile; ma la questione (metaletteraria) della possibile «impostura» della scrittura (che è un assillo tipicamente consoliano) pare solamente accennata qui, nell’Olivo, e si svilupperà poi, dolorosamente, nello Spasimo.
Quanto all’autore che nell’Olivo dice di sé in terza persona – che in apertura del testo dichiara l’impossibilità a narrare («Ora non può più narrare») e tuttavia, in furia o in pianto, pure dietro una maschera, racconta – anch’egli porta una colpa: «con un bagaglio di rimorsi e pene » (OO, 9) lasciò l’Isola bellissima e terribile (lei che tra calcinacci e tufi, corsa dai randagi e abitata dai corvi, è già terra votata all’abbandono, pare fatta di polvere); e se ne andò via, lontano (lontano anche da quella ingombrante imbattibile Natura: rigogliosa o riarsa o minacciosa di lave e terremoti e sempre troppo imparentata con qualche Assoluto: sempre comunicante con l’inutilità del fare, con un impietramento, con l’oblio); via verso la Storia, il cambiamento, una vita di impegno, di lavoro; epperò adesso, dopo tanti anni, lo schiaccia un peso più gravoso e sono «rimorsi», ancora: ma «un infinito tempo» di quelli e di «orrori, fughe, follie, vergogne» (OO, 16). Sembra insomma accusarsi, Consolo: lui che dalla Sicilia partì per andare a vivere, per scrivere a Milano. Si accusa di essere fuggito – ma non crediamo che intenda semplicemente dall’Isola; piuttosto, ci sembra, di non aver fatto quanto andava fatto, o comunque non abbastanza per evitare la frana di una civiltà, di una cultura (ma poi che cosa può in concreto sulla vita, sulla Storia, per la manutenzione del mondo, la penna di uno scrittore, la parola della Letteratura?). E nello smarrimento e nella indignazione, per tagli, in un lunghissimo e angoloso plahn tra cronaca e poesia, veramente nell’Olivo Consolo corre l’Isola intera in un frenetico andare senza soste, con l’urgenza di dirla tutta e dirne lo scempio, quasi che nominare il male lo potesse veramente fermare, o come fosse a salvamento: di lei (Isola e cultura e Storia e mondo) e di sé, di un impegno civile, del lavoro di chi scrive. Però, dall’ira che a volte con fatica monta, e forse ripete le sue parole quasi uguali (pare infatti di stare come fermi, per quanto sempre ci si muova, in questo inferno), da un affanno che è nel dire e maledire, dal lamento continuato, dalla sintassi narrativa che si spezza e ti inciampa (e ti stanca anche, con qualche pesante monotonia) senti che si è incrinata, che è diventata disperata quella superstizione volontaria (o era la fede letteraria) antica.
Certo ha degli slarghi narrativi l’Olivo: a tratti prende la forma e il ritmo del racconto breve e incastona le vicende di nativi, reduci o pellegrini di Sicilia – e tutti come toccati dall’Isola, ammalati (ci sono Verga e Caravaggio, Maupassant, Zummo, von Platen, fra questi  ulissidi incupiti o pazzi o moribondi); e pure Consolo continua una sua intenerita o storta e tragica Odissea. Ma il libro è principalmente la cronaca del viaggio dentro una ‘terra guasta’, tutt’altro che vittoriniana: offesa da ignoranza cemento liquami speculazioni e mafie, e chiamata – con l’attuale degrado e con la bellezza violentemente deturpata – a far da emblema di una devastazione in atto, del macroscopico processo che ovunque azzera e imbarbarisce le coscienze cancellando insieme Storia, memoria, umanità e cultura. Più avanti ci fermeremo sui luoghi di questo nervoso periplo siciliano che da Gibellina parte e lì ritorna così chiudendo il suo percorso irregolare e zigzagante: e tante sono le tappe, accomunate dallo stesso orrore, e generalmente articolate sullo schema del confronto, della visione sincronica di un abominevole presente e di un passato splendido e svanito. Però a Segesta, in cima al teatro, lontano dal rumore, dallo spettacolo della reliquia violata e offerta alle mandrie dei turisti distratti, lontano dalla scena in cui si compie simbolicamente una diuturna e commercialissima dissacrazione – a Segesta il viandante dell’Olivo si ferma e sogna; e come sempre accade a questo tristissimo innamorato dell’antico (o potremmo dire del lontano, del perduto) «prova sollievo nella fuga, nel rapimento» (OO, 127). Ma un’altra volta – la terza e ultima sta alla fine del libro – Consolo qui dentro dice ‘io’ (per quanto provi ancora a confonderci indossando un’altra maschera, di un altro ulisside).
Leopardiana al fondo, ma più cupa che in Retablo, è la contemplazione dell’architettura del tempio che si spalanca al cielo «come porta verso l’infinito o come pausa, sosta d’un momento, quale la vita dell’uomo nel processo del tempo inesorabile ed eterno» (OO, 128). E la voce che dice ‘io’ mentre che si smarrisce a guardare il tempio, la notte, le stelle, questa che adesso parla in prima persona (e forse sta ripetendo una cosa che era già dentro le Pietre di Pantalica), sta esprimendo un desiderio di fine, di morte (OO, 128):

[…] all’infinito spazio, mi pongo arreso, supino, e vado, mi perdo […] nella scrittura abbagliante delle stelle, dei soli remoti […]. Rimango immobile e contemplo, sprofondo estatico nei palpiti, nei fuochi, nei bagliori, nei frammenti incandescenti che si staccano, precipitano filando, si spengono, finiscono nel più profondo nero.

Lo stesso che torna nella pagina finale dell’Olivo, quando tra i ruderi, nel teatro allestito sul colle della scomparsa Gibellina antica, si recita un episodio della guerra romano-giudaica,  un moderno adattamento della tragedia di Masada narrata da Giuseppe Flavio. Consolo è di nuovo dietro uno schermo, ma in qualche modo crediamo di riconoscerlo nel tono e nei gesti di questi assediati che scelgono di togliersi la vita (OO, 148-9):

Avanza dal fondo Eleazar, il comandante della fortezza, in mezzo ai soldati.

– Da gran tempo avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori del dio… In tale momento badiamo a non coprirci di vergogna…Siamo stati i primi a ribellarci a loro e gli ultimi a deporre le armi. Credo sia una grazia concessa dal dio questa di poter morire con onore e in libertà…Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza provare la schiavitù…

Narra una voce.

– Così, mentre carezzavano e stringevano al petto le mogli, sollevavano sulle braccia i figli baciandoli tra le lacrime per l’ultima volta, al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono ad effetto il loro disegno.

Tirano poi a sorte chi di loro avrebbe ucciso i compagni.
E così l’ultimo, anche per l’orrore, il rimorso, rivolge il ferro contro se stesso.
I romani, con tute di pelle, con caschi, irrompono sopra motociclette, corrono rombando dentro le crepe del cretto, squarciano il buio coi fari.
Trovano corpi, fiamme, silenzio.

Lo «strazio» del racconto non è dunque servito al viaggiatore dell’Olivo per ritrovare la sua Itaca – mutata è l’isola: non si torna a un mondo che ha smesso di esistere. E l’ultimo soldato di Masada, che uccide i compagni per risparmiare loro il peggio che sicuramente verrà, può solo morire, si uccide. E può essere che il «rimorso» sia in questa resa, in questo abbassare le armi e rivolgerle contro se stesso, nel dovere alle fine ammettere che non c’è speranza o letteratura che tenga.

Guardiamo adesso le occorrenze del termine «rimorso» all’interno dello Spasimo di Palermo. Superato l’esergo eschileo, il testo si apre con una pagina in corsivo che è insieme fuori e dentro il racconto, e in certo modo è la sua chiave. Il nostro lemma è nel paragrafo iniziale (che abbiamo già citato), e tuttavia il proemio vogliamo leggerlo intero. Il tema è ancora quello del viaggio e della colpa, e il ‘tu’ dell’allocuzione non è il lettore (SP, 9-10):

Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico, l’assillo della meta (nella gabbia dell’acqua, nella voliera del vento hai chiuso i tuoi rimorsi), ed io, voce fioca nell’aria clamorosa, relatore manco del tuo lungo viaggio, andiamo.
Solca la nave la distesa piana, la corrente scialba, tarda veleggia verso il porto fermo, le fantasime del tempo. La storia è sempre uguale.
S’è placata la tempesta, nella grotta, sulla giara sepolta s’aggruma la falda della spuma. Speri che il cerchio – stimme, macule, lèuci ferventi – quieto si richiuda. Ignora il presagio, il dubbio filologico se per te lontano o dal mare possa giungere. Il segreto che sta nelle radici, nel tronco di quell’albero non sai a chi svelarlo, è vuota la tua casa, il richiamo si perde per le stanze. Avanzi in corridoi di ombre, ti giri e scorgi le tue orme. Una polvere cadde sopra gli occhi, un sonno nell’assenza. Il fumo dello zolfo serva alla tua coscienza. Ora la calma t’aiuti a ritrovare il nome tuo d’un tempo, il punto di partenza:

In the beginning is my end

Ma pure in questa cala urlano sirene, aggallano carcami, approdano navigli clandestini, l’alba apre il volo a uccelli di passaggio. A coppie vanno gendarmi e artificieri, a schiere anime disciolte, a volte si confondono voci volti vie porte d’ingresso e di sortita.
Ricerca nel solaio elenchi mappe, riparti dalle tracce sbiadite, angoscia è il deserto, la pista che la sabbia ha ricoperto. T’assista l’eremita l’esule il recluso, ti guidi la fiamma di lucerna, il suono della sera, t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento.

Le marche letterarie forti, l’attacco, slogato in Consolo epperò riconoscibilissimo della Love song of J. Alfred Prufrock («Let us go then, you and I […]») e la memoria aggettivale dantesca (è Virgilio chi «per lungo silenzio parea fioco»; Inf., I, 63) operano già per accumulo, orientandoci contemporaneamente in due direzioni apparentemente divergenti ma contigue e sovrapponibili: un moderno girovagare metropolitano in assenza di senso, e un antico viaggio penitenziale; in entrambi i casi (considerata anche l’epigrafe ‘infernale’ di PrufrockInf., XXVII, 61-66) un viaggio nella desolazione, o comunque nel dolore; e a compierlo (almeno così sembra) due viaggiatori tristi ancora sfocati: un ‘tu’ con l’ansia tormentosa di arrivare – ha con sé i doni inconsistenti di ospiti che pare lo abbiano deriso e un viatico che non serve (è la provvista del pellegrino, o la benedizione che si dà ai morenti?): è un ‘tu’ che non ha niente e porta un peso, un carico di «rimorsi» che non gli è riuscito di chiudere da nessuna parte, dentro nessun bagaglio (gli fanno una bufera intorno, devono essergli esondati addosso, perché non ci sono gabbie o sbarre che tengano l’acqua, o che fermino il vento); e poi c’è un ‘io’ di voce «fioca», dice parole che non si sentono nell’aria strepitosa, piena di rumori: e non è nessun Virgilio (sbagliavamo): è un relatore insufficiente, uno che riporta, però a strappi e a brani – forse con poco talento («[…] mi perdo nel ristagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono […].»; SP, 88) – il lungo andare dell’altro.
Qualcuno insomma stanco o forse vecchio (canonicamente «tarda veleggia» la sua imbarcazione) viaggia per qualche placato mare, metaforico o reale (nella «corrente scialba» sembra purgatoriale), naviga verso un «porto fermo», una quiete; e viene da pensare a quella definitiva, alla morte (indipendentemente dai ricordi letterari, che ci sono, cominciando da Petrarca e Foscolo) perché la metafora è semplice: il cerchio che il ‘tu’ spera si richiuda, che non ha ancora concluso il proprio giro e che contiene, come in un crogiuolo, quello che lo ha composto: piaghe e macchie, ma pure luci abbaglianti bianche e ribollenti, può essere la vita; e può essere che il viaggio sia della memoria, che il porto fuori da ogni scorrere, fuori dal mutamento, sia quello che è stato, il passato, i fantasmi – che a riguardarli rivelano una storia «sempre uguale», come fissata in una ripetizione. Pare finita l’erranza, e prende terra questa barca in un riparo, la grotta in cui affiora una «giara sepolta», lambita dalla schiuma – un relitto appropriato alla scena marina, o magari una memoria infantile, un pezzo di storia privata di questo reduce, che è inutile affannarsi a interpretare. Anche se rileva notare che il lemma «sepolta», nello Spasimo, torna due volte soltanto, e sempre associato ad una colpa («colpe sepolte e obliate», SP, 47; «colpa sepolta», SP, 98).
E diventa criptico il discorso rivolto al ‘tu’ dal suo cronista, si fa ellittico: «Ignora il presagio, il dubbio filologico se per te lontano o dal mare possa giungere». Manca infatti il soggetto della proposizione ipotetica: il «relatore manco» non dice cosa possa giungere «dal mare» (evidentemente, lui e questo ‘tu’ silenzioso condividono un codice, si capiscono benissimo), anche se per il lettore l’appiglio alla comprensione sta probabilmente nella figura precedente, nella metafora del cerchio che si chiude. Ma c’è un’indicazione, una traccia letteraria palese che aiuta a sciogliere la contrazione della scrittura mentre che ispessisce e complica la fisionomia del viaggiatore triste. Il «segreto che sta nelle radici» è quanto fonda  e tiene la casa di Odisseo: il «letto ben fatto» (Od, XXIII, 189) che non si può spostare e  che Ulisse scolpì solido nel tronco di un ulivo centenario («C’era un tronco ricche fronde, d’olivo, dentro il cortile, / florido, rigoglioso; era grosso come una colonna: / intorno a questo murai la stanza […]»; Od, XXIII, 190-192) – la radice è la casa: ciò che uno è, che ha costruito e che trasmette: la vita la storia gli affetti l’esperienza la cultura. Ed è la marca omerica a gettare luce all’indietro sul presagio, la profezia ambigua di Tiresia a Ulisse: la morte (perché era lei il soggetto saltato della proposizione) ti verrà εξ άλός (questo il «dubbio filologico»): «dal mare» oppure da fuori del mare, «lontano» da quello; anche se poi, per questo nostro navigante, solo dal mare la morte può arrivare dacché veramente per lui non c’è terra: l’Odissea è (come nell’Olivo) rovesciata, l’approdo è apparente, imperfetto è il ritorno e la casa è vuota: non c’è nessuno con cui parlare («il richiamo si perde tra le stanze»), nessuno a cui tramandare un «segreto» che non serve.
Forse sulla maceria, nel vuoto, in questa nicchia di niente, ora che non c’è più da andar per mare, affrontare la tempesta, ancora cercare; forse ora che non c’è neanche la rabbia inquieta della giovinezza, ora, nella vecchiezza, in questo porto abborracciato, si può provare a rifare la storia (nella memoria) a cercarne il senso o la crepa: ora che da dove si era partiti si è tornati, per finire. «In my beginning is my end», nel mio principio è la mia fine – e la citazione dai Four quartets di Eliot qui non significa nessuna trascendenza, non allude a nessuna rinascita: sta solo nella pars destruens, come un’epigrafe; ci sta rappresa un’incombenza: un’imminenza (la conclusione è prossima, è vicinissima) e una necessità (l’impossibilità di una conclusione diversa da quella che stava scritta nel principio, o anche il dovere di ripensare a partire da quel principio).
Però la cala del rifugio non ripara dalla pena e non isola dal mondo: a urlare qui non sono  le sirene del mito, ma, più prosaicamente, quelle di ambulanze e polizie; e le carcasse che nell’acqua «aggallano» potranno anche essere metaforicamente i punti morti, gli errori, le colpe che mordono il ‘tu’ che si è messo a ricordare, ma assomigliano alle carogne reali del Mediterraneo odierno, le navi a quelle degli attuali contrabbandi e degli sbarchi clandestini. E la ronda di «gendarmi e artificieri», il presidio della zona minacciosa e minacciata dagli ordigni, camminata da «schiere» di «anime disciolte» (significa vaganti? sbrancate? che si disfano? liquefatte?) svelano il quadro presagito dall’inizio (schiere di anime dannate si ammucchiano in attesa di Caronte [Inf, III, 120]; a «schiera larga e piena» [Inf, V, 41] vanno «di qua, di là, di giù, di su», come le mena la bufera) e mostrano la terra desolata dell’approdo,  la ‘città irreale’ che in questo libro farà spesso da sfondo (Parigi, Milano, Palermo è lo stesso: «A crowd flowed over London Bridge, so many […] »; «[…] ch’i’ non averei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta […]»); e forse il rischio ora è l’allucinazione, la confusione – o il non voler vedere, l’astrazione.
Ma anche se l’inferno batte vicinissimo, pure se la casa è vuota, sparita, anche se non c’è  più nessuno ad ascoltare, «riparti»: fruga nella polvere, scava nella sabbia la «pista» che il deserto ha ricoperto (mantieni la memoria) – così dice il cronista di «voce fioca» al reduce sperduto, al cercatore di mappe e di reliquie che dovrà essere assistito dagli angeli strani dell’isolamento e dell’esclusione («l’eremita, l’esule, il recluso») e avrà per guida solo una «fiamma di lucerna» e il «suono della sera»: questo ‘tu’ che nella solitudine, dentro il silenzio, forse nel breve cono di luce di una lampada, somiglia a uno scrittore nel suo studio (l’attitudine è quella, l’immagine è topica);  e immediatamente abbiamo pensato a Montale,  a lui che con la sardana fuori scatenata, chiuso dentro il guscio, la sfera luminosa del suo pensiero, componeva un diverso (ugualmente amaro, ma quanto più fiero) Piccolo testamento («Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero […]. Solo quest’iride posso/ lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta […].»); e ci siamo ricordati di Fortini, che mentre fuori la stessa follia imperversa, la stessa tempesta, in una stanza, al proprio tavolo, traduce le parole di un poeta, si obbliga a farle parlare ancora, a non lasciarle morire:
«Scrivi mi dico, odia / chi con dolcezza guida al niente / […]. La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi» (Traducendo Brecht). Non siamo lontani da Consolo: pure se tutto è perduto, scrivi; anche se è dolore, racconta: questo l’invito al viaggio che dà avvio al libro («Allora tu [ed io [andiamo»), l’esortazione rivolta al ‘tu’ che forse è semplicemente un doppio dell’ ‘io’, forse è uno scrittore, forse è il protagonista dello Spasimo, forse è Consolo che parla a se stesso. A un ‘tu’ dolente e smarrito che cerca assoluzione («[…] t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento»). E deve raccontare una colpa, come Ulisse nell’Olivo – deve scrivere questa storia. Che inizia subito dopo, ma disorientandoci (SP, 11):

E poi il tempo apre immensi spazi, indifferenti, accresce le distanze, separa, costringe ai commiati – le braccia lungo i fianchi, l’ombra prolissa, procede nel silenzio, crede che un altro gli cammini accanto.

L’afflato lirico, il modo scorciato (e il viaggio, la solitudine, gli addii) sono ancora quelli del proemio e difatti sembra che il testo si stia sviluppando esattamente di lì: un’impressione che non dura, perché già al secondo rigo ci accorgiamo di non capire ‘chi’ stia parlando e  ‘di chi’ stia parlando. Non c’è più insomma né l’‘io’ né il ‘tu’, bensì qualcuno (un autore)   che dice di una terza persona: il soggetto sottinteso (egli) che cammina solo e silenzioso  con «le braccia lungo i fianchi» (ha le mani vuote, abbandonate, non ha niente) e che scambia per un-altro-a-fianco-a-sé la sua stessa «ombra prolissa» (che si stampa grande o lunga  su una strada o contro un muro di questo paesaggio che non si connota e pare quasi uno spazio metafisico; ma possiamo anche pensarla sovrabbondante quest’ombra, e quindi cascante, stanca). È Gioacchino Martinez il soggetto narrato in terza persona, e certo assomiglia agli attori del proemio: è vecchio, è solo, è uno scrittore smarrito; anche lui tornerà (per finire) alla sua terra (al suo principio), in Sicilia, e non ritroverà la sua isola; e anche lui, che porta un carico di «rimorsi», cerca «remissione» (SP, 12).

Un’altra occorrenza del termine «rimorso» abbiamo incontrato esaminando la sintassi dello Spasimo. Siamo intorno al ’43, dopo lo sbarco americano in Sicilia, quando Martinez  ha circa dieci anni. Il padre (con cui il bambino ha un rapporto conflittuale) aiuta un disertore, lo porta in un rifugio; ma i tedeschi li scovano e li uccidono. A rivelare il nascondiglio probabilmente è lo spaventato Gioacchino (SP, 24):

Lo strazio fu di tutti, di tutti nel tempo il silenzio fermo, la dura pena, il rimorso scuro, come d’ognuno ch’è ragione, cosciente o meno, d’un fatale arresto, d’ognuno che qui resta, o di qua d’un muro, d’una grata, parete di fenolo, vacuo d’una mente, davanti alla scia in mare, all’arco in cielo  che dispare, di cherosene.

La colpa di cui Martinez sente il peso è quella di aver determinato, «cosciente o meno», la morte del padre (di averla anche in certi momenti, per rabbia, desiderata); ma a noi interessa questa specie di ‘sintomatologia dell’arresto’: l’immobilità, la paralisi, l’«estraniamento» che stanno insieme al «rimorso» e nello Spasimo gli si accompagnano sempre; e dacché il libro tesse una rete sotterranea di simboli, forse non è senza importanza che il posto in cui viene ammazzato il padre di Chino (il posto che da questo momento rappresenta e significa il «rimorso») sia proprio quello in cui il bambino realizza il suo isolamento volontario, la sua fuga dal reale. Ma dobbiamo essere più chiari.

C’è un luogo che si ripete nello Spasimo, un luogo che ogni volta si rifà e torna magari con un nome diverso, ma in fondo è sempre lo stesso, quello in cui Gioacchino si nasconde e sogna. È il suo rifugio segreto, il «marabutto» (viene dagli arabi la parola antica: indicava la dimora dell’eremita, la sua tomba): uno stanzone vuoto – lo strame a terra, la volta a cupola, una parete con le figurine saracene: un ricovero di capre mezzo sepolto dal terriccio, celato dalle frasche. Qui corre e si ripara Chino, ombroso, senza madre; qui si intana in odio  al padre o a tutto il mondo, deciso a stare sempre lontano, solo; e nella finta caverna, nella solitudine, dentro la mezza luce la pena si quieta, vengono le figure; e inizia ogni racconto,  il cinema, l’incanto (SP, 20):

Corse al marabutto, al rifugio incognito, segreto, ov’era deciso a rimanere sempre, solo, fuori da tutti, il mondo, sempre fino alla morte, avrebbe visto il padre, sì, avuto scorno, rimorso infine, pentimento.
S’accucciò in un lato, contro il muro, riguardò ogni cosa, le figure sul fondo celestino, le tortore fra i rami, i veli trasparenti della donna, i seni tondi, la sciarpa svolazzante intorno al corpo, e il cielo cavo della cuba. Ora la lama non piombava netta traverso la fessura, ma s’effondeva in chiaria lieve, lambiva le pareti, i lippi secchi e freschi, i fiori di salnitro, i gechi squamosi e palpitanti.
Gli si fecero appresso ad una ad una, e insieme circonfuse, tutte le donne, la giovane maestra che leggeva a scuola il suo componimento, Urelia col suo caldo e l’ansia acuta d’aglio, la siracusana bella e pregna di confetto, Lucia dorata e crespa, e la madre bianca più del letto, smunta, straziata, che lenta se n’andava.

Tanti nomi per dire una tendenza alla separatezza che è peculiare di Martinez: questa «tana» (SP, 18), lo «stanzino» in cui si chiude da bambino (SP, 21), il «capanno» che si inventa da ragazzo tra le radici pendule di un ficus: la sfera di «separazione, occultamento, letture fantasie proponimenti, nel meriggio pieno, nel silenzio», la cortina che lo cela e lo protegge mentre spia e vede le cose fuori, da sé distanti (SP, 47); e poi l’oasi «degli innesti e delle chimere sorprendenti» (si badi: in tutta la produzione consoliana il ‘luogo degli innesti’ ha sempre valenza metaletteraria): il giardino della casa di Palermo con le infinite piante e i fiori esorbitanti chiamato a fare da barriera intorno alla «quiete fragile» di Gioacchino ormai adulto (SP, 75), al suo sogno di una «vita sequestrata» (SP, 78) difesa dalla violenza e dall’orrore del presente, conclusa tra gli affetti e la scrittura; e ancora, in certo modo, l’Isola stessa, la Sicilia in cui, anziano, sente il bisogno di tornare per «chiudersi, occultarsi, finire nell’oblio» l’avventura della vita (SP, 53). E una separatezza, seppure differente, è il «silenzio» del vecchio: il rifiuto di scrivere detto in questo lamento come a spigoli d’affanno, con una sorta di precipitosa stanchezza nel modo cumulativo, negli incisi che di primo acchito non si distinguono, nella punteggiatura ‘difficile’ dell’avvio (SP, 37):

S’era chiuso nel silenzio, nel dominio della notizia, invasione del resoconto, scomparsa di memoria, nell’assenza o sordità dell’uditorio, vana era ormai ogni storia, finzione e rimando del suo senso diceva e si diceva. Ma sapeva che suo era il panico, l’arresto, sua l’impotenza, l’afasia, il disastro era nella sua vita.

Vanità dunque è raccontare ancora, ostinatamente parlare quando nessuno ascolta; vanità continuare a fare il ‘letterato’ in mezzo a «chiasso» e «scadimento» (Sp, 37), la «voce fioca» contro l’urlo potente delle mode, dei giornali, delle televisioni, del mercato culturale coi  suoi mille imbonitori – per la Letteratura non c’è posto; ma resta che a produrre l’afasia è l’«impotenza» propria, la scrittura insufficiente, che non è servita a niente.
E un’ultima variante. Sempre nella vecchiezza, un giorno, a Parigi, scampando a un’aggressione, Martinez di nuovo si nasconde: trova riparo «in una cantina fatiscente, davanti a un film osceno»; ed è solo una contingenza, da quel luogo uscirà immediatamente, però pronunciando un ‘atto di dolore’ o una sorta di anatema, inorridito, più che dalla scena squallida, da se stesso: «Viltà di sempre, fuga dal reale, menzogna e adattamento. Via dalla caverna del rifugio, fuori per la porta d’emergenza […]» (SP, 43). Forse insomma nella
«caverna del rifugio» si annida il ‘vizio’, la viltà, la colpa che sta al fondo.

«Rimorso» ed estraneazione appaiono di nuovo affiancati, e cominciano a chiarire un legame stretto, nel colloquio tra lo scrittore e Mauro, da tempo rifugiato in Francia; il figlio nei cui confronti Martinez sente di aver fallito come padre, e che lo giudica con una punta di sufficienza, forse di disprezzo. La prima battuta è di Gioacchino (SP, 53-54):

« […] Il tempo, la memoria esalta, abbellisce ogni pochezza, ogni squallore, la realtà più vera. Per la memoria, la poesia, l’umanità si è trasfigurata, è salita sull’Olimpo della bellezza e del valore.»
«Ne hanno combinate i letterati!» ironizzò Mauro.
C’era stata ancora intenzione nella frase? Sospettava o aveva conoscenza? Rapida si presentò, unita come sempre al suo rimorso, emblema fisso d’ogni astrazione, latitanza, la sagoma bianca del fantastico bibliotecario, del cieco poeta bonaerense ch’era andato quella volta ad ascoltare nell’affollato anfiteatro.
«Che c’è, s’è risentito lo scrittore?» fece il figlio.
«Sai bene che non sono più scrittore, se mai lo sono stato. Ma perché ti rivolgi sempre a me in modo impersonale? Mai per quel che sono, tuo padre.»
«Padre si trova solo nei romanzi, nelle tragedie […]. Ma che discorsi, che discorsi… siamo tornati indietro di un po’ d’anni, tu giovane, io adolescente…» e rise Mauro.
«È il mio vizio, lo sai, la mia paralisi.»

Viene punto nel vivo il «letterato»; e il suo trasalire ha a che fare con le pratiche della trasfigurazione artistica, della compensazione estetica, col tarlo di una ‘finzione’ che intimamente lo rode; ma probabilmente c’entra anche il «tornare indietro», lo stare sempre fermo sui  suoi assilli; e c’entra che il figlio non lo chiami ‘padre’, gli neghi quel nome, la funzione di chi indica la strada, educa, guida, addita una direzione. Il «vizio», la «paralisi» che Martinez confessa è poi la scrittura, questo luogo suo di arresto (la sua compensazione, il suo rifugio); e sta direttamente in rapporto con un «rimorso» di cui Borges è l’«emblema»: la «sa goma bianca» (quasi una apparizione, uno spettro) in cui si incarnano del pari «astrazione» e «latitanza». Borges che incantava con gli scacchi, gli specchi, le immense biblioteche impossibili e sperdenti, i labirinti, i libri magici, i giochi della mente: con l’infinito proliferare della Letteratura da se stessa, l’autofecondazione inarrestabile (mostruosa) che partorisce favole, trame, sogni, enigmi irrisolvibili, in una condizione di totale autosufficienza – di allontanamento dal mondo, di separatezza. E non a caso Borges più avanti ritornerà associato a  una «illusione rovinosa» (SP, 80): quella di Mauro perduto dietro l’esaltazione politica negli anni della contestazione studentesca, ma più in profondità la propria, quella di lui, Martinez: «inerte, murato» e ugualmente perduto nell’inseguimento di un miraggio, dietro a un «folle azzardo letterario» (SP, 126). E nel continuato ‘esame di coscienza dello scrittore’ che è lo Spasimo, durissimo e costante (ossessivo) è l’autoaccusarsi del protagonista. Si guardi a questo stranito e quasi-teatrale dialogo ancora tra il padre e il figlio. Le parentesi valgono a riportare il non detto, il non espresso nel colloquio; ma forse siamo di fronte a una specie di Secretum. Inizia Mauro (SP, 35):

« […] ti trovo bene, un po’ più magro…»
«La vecchiaia… […] anticipa poi l’ulteriore smagrimento, e assoluto.»
«Di chi queste allegrie?»
«Mie, solo mie.»
«Fai progressi. Ancora un poco e sei alla poesia.»
(Sempre uguale la tua ironia, costante il tuo rifiuto d’ogni incrinatura, cedimento) (Il tuo lamento, il tuo bisogno di aggrapparti)
(Ti sei nutrito d’astrazioni, dottrine generali, ed ostinato credi che ancora possano salvare)
(Le parole con cui ti mascheri e nascondi sono solo una pazzia recitata, un teatro dell’inganno)

Si può dedurre che Martinez rimproveri al figlio l’eccessiva durezza e una pervicace astrazione ideologica (ma il testo è volutamente ambiguo: «nutrito d’astrazioni», in fondo, è pure lo scrittore con la sua chimera, la sua ‘missione letteraria’); e che a sua volta Mauro ferocemente e silenziosamente irrida il padre, il costante suo «lamento», il tono da tragedia, il patetico ostinarsi a interpretare un ruolo intellettuale mancato o inconsistente, l’insufficienza ad agire sulla storia, i destini, il presente; che disprezzi le parole dietro le quali il vecchio ha mentito e si è nascosto (e dopotutto ancora e sempre è evaso, si è consolato, dal reale si è allontanato: fuori del mondo ha sognato come nella tana antica, nel marabutto). E certo potrebbe essere così: ma dimenticheremmo che molta parte del dialogo (tutto il sottinteso) si svolge in interiore homine, e che probabilmente è solo Martinez a riempire i vuoti della conversazione coi suoi implacati assilli, con l’orrore che ha di sé. Tanto più che nello Spasimo, ad ogni occasione, questo scrittore che non può e non vuole più scrivere, di sé fa strazio: non salva niente. Impietosamente liquida la propria opera: poco talentuosa, perduta «nel ri stagno dell’affetto, l’opacità del lessico, la vanità del suono…» (SP, 88); e tutti i suoi libri (che poi, richiamati dal testo, sono veramente i libri di Consolo) definisce «storie perenti, lasche prosodie, tentativi inceneriti, miseri resti della sua illusione, del suo fallimento» (SP, 66).
Ha «ripugnanza» della propria scrittura Martinez (SP, 66): di un piacere estetico atteggiato a impegno intellettuale e che invece era latitanza, astrazione, mascherata viltà. E non ha salvato nessuno: la moglie dalla paura, il figlio dalla violenza, il presente dal disastro.

«Rimorsi» assalgono Gioacchino che ancora pensa al figlio, al «candido ribelle» col quale non ha mai saputo parlare e che non è stato in grado di sorreggere, di aiutare, di avvisare  dei rischi di una ideologia che poi tutti i più puri ha tradito; pensa a Mauro che scampando il carcere è fuggito dal paese e «da ogni padre imbelle, ipocrita e impotente» (SP, 89) – si è allontanato da lui, Martinez (SP, 81):

S’affrettarono i giudici a dichiarare «il padre no, non c’entra». E invece sì. Come ogni padre, ogni complice allora di quel potere, di quello stato, ogni responsabile della ribellione, dei misfatti di quei giovani.

È un nodo importante dello Spasimo questa tragica e inabile figura paterna: è un’immagine speculare dello scrittore che ha fallito il suo compito, il suo dovere di guida. Poi fallirà anche l’altro che lo stesso dovere incarna, il giudice – all’inizio del libro, Judex, il personaggio di un film muto, è l’eroe del bambino Chino: un portatore di giustizia, un riparatore di torti; e nella conclusione dello Spasimo un magistrato in carne ed ossa che ne ricorda un altro da vicino, che come Borsellino muore in un attentato (e insieme a lui Gioacchino) e soccombe non per sua incapacità o viltà, ma perché lo uccide la mafia, perché è più forte il mondo.
Come scrittore, come padre e come giudice ‘insufficiente’, Martinez si accolla la responsabilità e porta il peso della rovina che non ha fermato – l’attuale degrado, l’involuzione culturale, la perdita di valori, la bestialità e la volgarità imperanti; e lo sbando di una generazione «incenerita», sì, «da un potere criminale», ma smarrita e perduta perché «figlia di padri illusi» anch’essi naufragati (SP, 39): quelli che dopo la guerra «avrebbero dovuto ricostruire […] formare una nuova società, una civile, giusta convivenza» (SP; 126).
Alla fine prende la penna, Gioacchino, e scrive al figlio (SP, 126-128):

Abbiamo fallito, prima di voi e come voi dopo, nel vostro temerario azzardo.
Ci rinnegate, e a ragione, tu anzi con la lucida ragione che ha sempre improntato la tua parola, la tua azione. Ragione che hai negli anni tenacemente acuminato, mentre in casa nostra tenacemente rovinava, nell’innocente tua madre, in me, inerte, murato nel mio impegno, nel folle azzardo letterario.

In quel modo volevo anch’io rinnegare i padri, e ho compiuto come te il parricidio. La parola è forte, ma questa è.
[…] rimaneva in me il bisogno della rivolta […] nella scrittura. Il bisogno di trasferire sulla carta […] il mio parricidio, di compierlo con logico progetto […] per mezzo d’una lingua che fosse contraria a ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli – confrères – più anziani, involontari complici pensavo dei responsabili del disastro sociale.
Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta, e ho pagato con la sconfitta, la dimissione, l’abbandono della penna.
Compatisci, Mauro, questo lungo dire di me. È debolezza d’un vecchio, desiderio estremo di confessare finalmente, di chiarire.

La lettera poi si interromperà, forse la confessione non è intera; ma il «rimorso» di Martinez lo conosciamo ormai: la coscienza di non aver salvato niente, di non aver fatto abbastanza col proprio mestiere letterario (ed era già la colpa dell’Olivo) che si accompagna a un acre giudizio di sé, alla condanna feroce della propria scrittura tutta ridotta a menzogna, autoinganno, fuga dal reale, sonorità e cascame.

E siamo arrivati all’ultima occorrenza del «rimorso» e finalmente alla terza e ultima luna di Consolo, con Gioacchino che ritorna in Sicilia:

Tornava nell’isola, il porto da cui era partito, in cui si sarebbe conclusa la sua avventura, la sua vita. Disvio, mora, sottrazione, anestesia, tormento della sorte […]. Vita ferita […]. Spoglia sospesa alla fronda lenta, all’inganno, al miraggio letterario.
Ma ogni viaggio, sapeva, era tempesta, tremito, perdita, dolore, incanto e oblio, degrado, colpa sepolta, rimorso, assillo senza posa.
Era la notte placida, le stelle, l’immacolata luna, la primavera dei risvegli, l’alba della promessa, l’amore che invade, trasfigura […].
Era il miracolo dell’arte, la consolazione della ginestra, il fraterno affetto, la mano porta al naufrago, l’idea fresca, collettiva di volgere la storia, lenire l’esistenza.

È vero che lo Spasimo somiglia alla poesia: lo attesta anche la struttura grafica di questa pagina (SP, 98-9) in cui l’a capo è quello di una composizione in versi liberi, non di un romanzo o di un racconto. Bisogna intendere: «ogni viaggio […] era tempesta […] era la notte placida […] era il miracolo dell’arte […]»; e il «viaggio» del testo, dello scrittore e padre fallito Gioacchino Martinez e della sua vita «sospesa […] all’inganno, al miraggio letterario», è  la scrittura: la fabbrica delle consolazioni, l’incanto artificiale, il sogno indotto della «immacolata luna». Lei che è astrazione e latitanza, rifugio, oblio colpevole e «rimorso, assillo senza posa», Lei questo spasimo.

Sull’inutilità e il danno della letteratura, sui consuntivi amarissimi, disperatamente in negativo, in tanti hanno già fatto storia: Verga fingeva di scrivere, chiuso nel silenzio offeso degli ultimi anni a Catania; e prima di lui Foscolo scomponeva e ricomponeva nevroticamente le Grazie senza poterle mai finire; Manzoni disprezzava e negava il suo romanzo – «tiritera» lo chiama, «cantafavola»[11], menzogna; l’elegantissimo Leopardi gettava al macero tutte le illusioni col Tristano, e nel Tramonto della luna faceva precipitare l’astro bianco, a morte metteva la sua Regina antica, la seppelliva: e con lei la propria voce, il desiderio, il canto,  il cuore. C’entra naturalmente l’esperienza, la maturità (che «senz’altra forza  atterra»), c’entra anche la vecchiezza in Consolo, la perdita fisiologica dell’entusiasmo. Ma la scrittura dello Spasimo, o diciamo meglio, la questione dello spasimo di questa scrittura faticosa e contratta, e difficile per dolore, non può andar disgiunta da un particolare malessere che si produce in chi si ostini, oggi, a fare Letteratura alta e civile – cose, oggi, entrambe azzardate e anacronistiche.
Può essere che in assenza di un uditorio reale, a furia di parlare per o con se stesso, il poeta moderno finisca col dimenticare o col prendere per favola l’urgenza stessa e il valore del  suo dire; che addirittura finisca col credere di aver recitato (di aver mentito) per vanità e gusto di esibizione, per il piacere solitario della forma splendida e sonante. E può essere che il disincanto che sta in ogni vecchiezza, assieme alla indisponibilità totale e vera della contemporaneità, abbiano spinto Consolo ad una severità eccessiva, e come a travedere: ad accusarsi, intendiamo dire, di colpe che forse aveva anche rasentato, ma che non gli appartenevano. Perché non era finta la sua disperazione, e neppure erano finti l’impegno, l’arte, l’indignazione; eppure questo autore non ha avuto nessuna pietà per la sua opera, per il suo mestiere: «lasche prosodie», ha detto delle sue cose, lo ripetiamo, «rifugio», «vizio dell’assenza», «vanità», «colpa», «malattia».
Lasciamo stare quanto potesse essere necessario a Consolo un rasciugamento, o quanto la ‘autocorrezione’, lo scarnimento dello Spasimo lo abbiano preservato dal rischio di farsi eco di sé, della lamentazione estenuata o di una barocca e vorace esmesuranza. La parabola di questa scrittura, il suo ridursi a una nuova e scabra essenzialità rinunciando all’alone favoloso, alla meraviglia e anche all’orpello, è un approdo che comunque sorprende, pure se viene dalla stanchezza; ed è una evoluzione, uno scatto, un movimento anomalo e vitale all’interno dell’ambito generalmente conservativo della prosa. Un modo diverso, che già faceva le prove nelle Pietre e nell’Olivo, assai lontano dai lenimenti classici e barocchi, dai sogni della luna, dai fasti tutti d’oro e neri al fondo di Retablo, del Sorriso; ed è la forma più dura e acuminata di una tragedia da sempre percepita ma che adesso alza i toni; e nella sua bellissima nudità è la voce più dolente dell’autore, e la più sincera.
Però resta l’impressione che Consolo abbia attinto la sua nuova maniera come punendosi, tagliandosi la vena che era sua di vertigine e cascame, di febbrile incessante e  violentissimo rigoglio; e che della lingua propria abbia finito col provare fastidio, quasi il rimorso di una cosa falsa; e per questo abbia preso a resecarla, fino al rischio di cancellarla. Come con l’intento di adeguarla al silenzio furioso che si è sentito intorno.

Claudia Minerva

Note:

[1] E. SICILIANO, Lo Spasimo di Palermo, «La Repubblica», 11 novembre 1998; poi in L’isola. Scritti sulla letteratura siciliana, Manni, Lecce 2003.

[2] Tutte le citazioni da Consolo recano tra parentesi la sigla e il numero arabo che individuano il luogo da cui la citazione è tratta. Queste le sigle (tra parentesi quadre indico la prima edizione; fuori della parentesi quadra  è data l’edizione di riferimento):
SIM    Il sorriso dell’ignoto marinaio  [1976],  Mondadori,  Milano 2002.
LUN  Lunaria  [1985],  Mondadori,  Milano 2003.
PP       Le pietre di Pantalica  [1988],  Mondadori,  Milano 1990.
OO     L’olivo e l’olivastro  [1994],  Mondadori, Milano 1999. SP             Lo Spasimo di Palermo [1998],  Mondadori, Milano 2000.
Altre citazioni sono da OMERO, Odissea (trad. R Calzecchi Onesti), Einaudi, Torino 1963; DANTE ALIGHIERI,
Inferno; T.S. ELIOT,  The Waste Land. Le sigle adoperate sono rispettivamente OdInfWL.

[3] Sulle molte versioni del testo I barboni, scritto da Consolo per il catalogo dell’artista Ottavio Sgubin, cfr. D. O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore palincestuoso, «Quaderns d’Italiá», 13, 2008, pp. 161-184. Riassumendo: Barboni, simbolo inquietante del nuovo medioevo, «Il Messaggero», 3 marzo 1996; poi, Barboni e Natura morte, in Sgubin, Opere 1988-1997, Marsilio, Venezia 1997; poi, in Ottavio Sgubin, edizioni Mario Jerone, ottobre 1999; poi, Barboni, segno dei nostri fallimenti, «L’Unità», 29 Ottobre 2003; infine I barboni di Ottavio Sgubin, in Ottavio Sgubin pittore, aprile 2003.

[4] Sono del tutto assenti nello Spasimo i due punti e il punto e virgola; raro è l’impiego del punto interrogativo, dell’esclamativo e dei puntini di sospensione fuori delle (poche) battute di dialogo; sporadico (ricorre una decina di volte) l’uso del trattino.

[5] Cfr. M. ONOFRI, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in (a cura di) E. PAPA, Per Vincenzo Consolo, Manni, Lecce 2004, pp. 59-67. Diversamente, ci sembra, all’indomani della scomparsa di Consolo e sull’aver presentito, nello Spasimo, un «congedo» dell’autore, cfr. ancora M. ONOFRI, Vincenzo Consolo, scrittore antagonista in lotta con il potere, «La Nuova Sardegna», 24 gennaio 2012.

[6] Cfr. G. FERRONI, Il mondo salvato da uno scriba, in «Corriere della Sera», 30 novembre 1998. Di ‘romanzo’ parla Ferroni (di una «dizione essenziale» dello Spasimo) e insieme di pagine «volte verso una liricità lacerante», di una «prosa poetica» che addensa su di sé la fatica dell’esistenza, della storia, della cultura, dell’alterarsi del mondo»: una spinta a narrare continuamente controllata dal «rifiuto dell’illusione del narrare», contigua alla fluida disponibilità al racconto tipica di certa disinvoltura postmoderna. In questo libro che «sgomenta», tuttavia, il critico legge tuttavia un segno di speranza nella «ostinata narrazione poetica», nel dialogo con la grande Letteratura, nell’ostinarsi delle parole, nel loro insistere e resistere a cercare giustizia e verità, come mostrerebbe la preghiera muta con cui il libro si chiude: «O gran manu di Diu, ca tantu pisi, / cala, manu di Diu, fatti palisi!». Cfr anche L. CANALI, Che schiaffo, la furia civile di Consolo, «l’Unità», 7 ottobre 1998. Lo Spasimo è forse «il più bello» dei libri di Consolo, dice lo studioso; è «il più duro e compatto»; ed è «un violento schiaffo» a tanta odierna «letteratura di basso consumo». È testo «impervio», «orgoglioso», «difficile»; simile (dice Canali) a una alternanza di deverbia e cantica, come nella tragedia e nella commedia antiche; ed è pieno di una poesia amarissima, «consapevole della inesorabile sconfitta, non solo personale, ma collettiva, delle istituzioni, dello Stato, dei pochi giusti destinati a soccombere alla violenza criminale o alle tresche segrete dei potenti. E questa attitudine è un altro schiaffo dato a chiunque, nel ‘mondo delle lettere’ non creda più nell’impegno civile e anzi talvolta lo beffeggi. È dunque una singolarità, questo ‘romanzo’ di Consolo: ad un massimo di tensione stilistica, semantica, lessicale, culturale, che potrebbe sfociare in un parnassianesimo fatto di essoterismo estetizzante, corrisponde invece un massimo di denuncia sociale sia pure consapevole della probabile inutilità del proprio sacrificio. Mai, come in questo libro, la furia, questa sì dissacrante, di Consolo, e il romanticismo idealistico della sua ispirazione, si erano tanto avvicinati alla lezione dei ‘classici’».

[7] Riportiamo la bella intervista rilasciata da Consolo ad A. Properi nel 1992 (V. CONSOLO, Il suddetto e i parrucconi, «L’Indice», 5, 1992). Sul mondo della letteratura di oggi e i suoi meccanismi editoriali così si esprime lo scrittore siciliano: Diciamo letteratura, ma dobbiamo intendere narrativa, romanzo o racconto. Ché, la poesia, imperturbata e ignorata, procede sempre più nella sua sacra lontananza, nel suo infernale Eliso o nel suo celeste Olimpo. Procede, lei figlia della Memoria, verso l’oblio, in questo nostro presente immenso dell’estrema frontiera del profitto. Presente che ha mutato ogni valore in merce, ogni espressione in assoluta, squallida comunicazione. Il romanzo sta morendo o è già morto (no, non è il ritornello avanguardistico) e mai come oggi si sono prodotti tanti romanzi, mai se ne sono consumati così tanti. E ognuno d’essi è imbonito come capo d’opera, come sommo frutto della più autentica letteratura, ognuno è imposto come indispensabile all’esistenza o quanto meno alla permanenza nello stato sociale in cui ci si è posti. Produce così, l’industria, come avviene per ogni altra merce, il romanzo per le masse, tristi e misere imitazioni d’altri tipi di moderne narrazioni, giornalistiche o televisive, e il romanzo di lusso per l’élite, riproposte di vecchie, già sepolte squisitezze letterarie, neorondismi di professori pensionati o neomanierismi di anemici o brufolosi scolaretti. I quali, professori e scolari, frenetici cottimisti, solitari e alienati lavoratori a domicilio, sono obbligati a produrre sempre più affannosamente per essere sempre più presenti nell’affollata e vociferante borsa dei “titoli”, sempre disponibili nel modesto mercatino rionale o nelle grandi fiere internazionali; sono obbligati a calcare pateticamente ribalte, a cavalcare tigri, a urlare, farsi inverecondi finanche nelle finte, recitate ritrosie. Chi in questa sede è invitato a confessarsi dichiara allora che, dotato di una forte inclinazione a delinquere, ha cercato, fin da quando ha mosso i primi passi nel territorio letterario, di violare le leggi oppressive della comunicazione e del mercato. Ha scritto poco e in un modo in cui la comunicazione era ridotta al minimo necessario, spostando proditoriamente la sua scrittura verso l’espressione, la forma incongrua e irritante della poesia, praticando un linguaggio che fa a pugni, stride fortemente con il codice linguistico stabilito dal potere; s’è tenuto sempre igienicamente lontano dalle accademie, dalle consorterie, dalle massonerie, dai gruppi d’ogni sorta, d’avanguardia o retroguardia. Tutti questi delitti hanno fatto sì che i tutori dell’ordine lo punissero, che i gendarmi lo tenessero sotto controllo come elemento antisociale. Così a ogni rara uscita, a ogni nuovo libro del suddetto, i parrucconi, i piazzisti della merce, istericamente si scompongono, cominciano a urlare: “È siciliano, non scrive in italiano, è barocco, è oscuro, è pesante come una cassata, le sue narrazioni non sono filate, fruibili: ma chi crede di essere, ma come si permette?.

[8] Cfr. «Il Piccolo», 11 giugno 2011; «La Repubblica», 30 giugno 2011.

[9] Una stroncatura viene da C. TERNULLO, Vincenzo Consolo, Dalla ‘Ferita’ allo ‘Spasimo’, Prova d’Autore, Catania 1998: parla di «scadimento», il critico; di una «pertinace sentenziosità» dell’autore che insisterebbe a «farsi ‘cattiva coscienza’ dei tempi» senza però possedere l’equilibrio di Sciascia; e di una «chiara disunità» del libro, di un «accostamento forzato e insincero dei segmenti narrativi» (p.66-7), di un rasentare l’horror nella descrizione della vecchiaia (p. 69) – giudizio ingeneroso e quasi intemperante, come si vede; e del resto, ognuno ha il proprio (ricordiamo comunque a Ternullo che le «voci di dannunziana memoria» alle quali si riferisce a p. 42 del suo libretto, sono leopardiane).

[10] SP, 70: «Quel contrapposto di gale e di cenci, di vanità e miseria»; segnalata dalle virgolette basse, è citazione dal capitolo XXVIII dei Promessi sposi, con la carestia a Milano.

[11] È quanto Manzoni scrive a Monti (15 giugno 1827) e a Cioni (10 ottobre 1827); lo leggo in A. LEONE DE CASTRIS, L’impegno del Manzoni, Sansoni, Firenze 1965, p. 246.

Pietha de Woogd ,traduttrice di Retablo in lingua olandese. Intervista Vincenzo Consolo Il 3 marzo 2011.

Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo



Il romanzo di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, è tutto uno scatenarsi di follia.
Questa follia dilaga in una Sicilia antica, pastorale e agricola, splendida nei suoi monumenti medievali foderati di mosaici, imponente nei palazzi barocchi, pittoresca e tenebrosa nei vicoli brulicanti. E’ una follia dai molti volti, sempre a confronto con una natura vincitrice per la sua bellezza magica e indifferente, sue luci che non si curano di farsi strada negli animi.
Una natura dai cieli immensi, cui si contrappone la discesa in tenebrose caverne, ove i segni del tempo, si perdono tra le ombre. Pietro il protagonista, vive tra la licantropia del padre e la psicosi ossessiva della sorella. Personaggio positivo, condivide senza infatuazioni i programmi di rinnovamento politico e sociale che stanno velocemente, ma provvisoriamente, affermandosi: però anche li scopre le crepe dell’irrazionale e del fanatismo. Di contro al suo giudizioso rapporto con la pazzia, sta la funzione di condensatore di ogni sregolatezza mentale svolta da Aleister Crowley, l’inventore officiante di riti satanici in cui si mescolano alla promiscuità sessuale e alla droga tutte le invenzioni più stravaganti e kitsch di religioni e leggende esoteriche. Nella sua thélème di satiri e donne assatanate sono via via attratti il dannunziano barone Cicio e il pastore Janu.

Questo campionario di follia offertoci da Consolo sintetizza le manifestazioni dell’irrazionale che intorno al ’20, in Sicilia e altrove, invocando il fascismo in via di costituzione, vi trovarono poi un alveo. Era anche viva l’illusione di strapparsi a un’ indifferenza secolare, al sonno, alla noia: come una smania, un assillo verso qualcosa di agognato quanto sconosciuto. E la ricostruzione d’epoca è molto più sistematica di quanto non appaia a prima vista. Da un lato l’indolenza delle vecchie abitudini, il Circolo, i pettegolezzi di paese, i rapporti tra una nobiltà decaduta e pretenziosa e un popolo ancora primitivo. Dall’altro le nuove mode, le réclames con pizzichi di esotismo, l’esibizione di parole francesi e inglesi, le marche dei prodotti appena commercializzati, i compiacimenti dannunziani, la Florio. Fitti perciò gli inserti materici nella prosa d’arte di Consolo. Anche Aleister Crowley è un personaggio strico; suoi i versi inglesi riportati nei capitoli dedicatigli. Deve aver affascinato lo scrittore spingendolo a raccogliere notizie e dicerie su di lui: e certo subirono il suo fascino i molti che vennero a conoscenza o a contatto con questo santone attirati secondo i casi dall’aura misteriosofica o profetica di cui si circondava o dalla dissolutezza sua e dei suoi seguaci. Inglese o americano, Anticristo, mormone o quacchero, è facile credere che abbia sbalordito il chiuso ambiente in cui venne a sistemarsi.
Con questo mirabile romanzo si fa ancora più chiaro il programma svolto da Consolo nel ciclo della sua narrativa: rappresentare la Sicilia in varie fasi della sua storia, da quella greca riscoperta in frammenti enigmatici (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria) al settecento illuministico (Retablo)
al risorgimento e all’unità malamente realizzata (Il sorriso dell’ignoto marinaio). E per ottenere il necessario straniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata Di Militello, fungono da testimoni o pietre di paragone dei forestieri: il vicerè di Sicilia o il cavaliere e artista lombardo Fabrizio Clerici, ora il mistificatore inglese. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale, sovrastorico sinché non si apre a parole precisamente, significativamente connotate, lirico sinchè non discende con efficacia alla corposa quotidianità.
Ho appena parlato di narrativa, ma occorre chiarire. Consolo sempre aborrito il raccontare filato, la trama in senso tradizionale. Egli procede con una successione di scene sintomatiche, rivelandone i nessi con la riapparizione dei personaggi e segnalandone il tono con i ben scelti eserghi. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, brani di opere storiche intercalati alle scene fornivano le notizie attestandone la verità. Sotto questo riguardo, Nottetempo, casa per casa è l’opera che si avvicina di più a un romanzo, dato il forte nesso fra le scene allineate nei dodici brevi capitoli e l’eterna presenza di pochi personaggi in fasi diverse della loro vicenda.
Anche Petro, alter ego dello scrittore, ha la sua vena di pazzia: vede i protagonisti dei romanzi che divora nei pochi momenti liberi, parla con loro interrompendo il silenzio delle sue letture. Questa pazzia positiva sembra essere la provvisoria catarsi proposta da Consolo. Una catarsi drammatica perché pare irraggiungibile (<<intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere , un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela, l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento>>); ma Petro alla fine si sa maturo per attingere le parole, il tono, la cadenza, per sciogliere il grumo dentro e dare ragione a tanto dolore.
Questa decisione di testimoniare, non solo i fatti ma i tumulti del sentimento, è formulata da Petro all’arrivo in Tunisia. Perché anche la topografia del romanzo si allarga progressivamente: da Cefalù e Palermo ai remoti paesi delle peregrinazioni di Crowley, da una Sicilia profonda, verghiana, a un’Europa atteggiata secondo un gusto dannunziano e liberty, Una topografia in cui irrompono deformandosi, le nuove idee, e l’impazienza rivoluzionaria si attua in velleitarie azioni terroristiche, mentre i fascisti fanno le loro scorrerie. Infine, Petro riesce a attuare lo strappo: lascia in nave la sua Sicilia dov’è in pericolo, emigrante più che esule, scettico verso i programmi di lotta enunciati dall’anarchico Schicchi che lo accompagna. La scelta della scrittura è, insieme, una lucida rinuncia a una vittoria.

Cesare  Segre
Microprovincia gennaio – dicembre 2010

Filosofiana ( relato de Las piedras de Pantalica ) Vincenzo Consolo

FILOSOFIANA (relato de Las piedras de Pantálica) VINCENZO CONSOLO 2ª edición, revisada y ampliada Edición, introducción, traducción y notas de Irene Romera Pintor Este libro ha sido editado con la ayuda financiera de la Fundación Caja Murcia, gracias a la gestión cultural del Director de la Sucursal de Caja Murcia de Puerto Lumbreras (años 2009 y 2010). Colaboran asimismo en la presente edición el Instituto Italiano de Cultura de Barcelona y el Centro Giacomo Leopardi de Valencia De la presente edición, introducción, traducción y notas: © Irene Romera Pintor. Todos los derechos reservados. © Vincenzo Consolo. Todos los derechos reservados. En las contraportadas: © de la fotografía de Vincenzo Consolo: Jordi Pla. © de la fotografía de Irene Romera Pintor: Juan Carlos Comas. Queda rigurosamente prohibida, sin la autorización escrita de los titulares del copyright, bajo las sanciones establecidas por la ley, la reproducción total o parcial de esta obra por cualquier método o procedimiento, comprendidos la reprografía y el tratamiento informático. Fundación Updea Publicaciones Barceló 1º, 28004 Madrid www.updea.org Segunda edición, 2011 Depósito legal: M-40467-2011 ISBN: 978-84-615-4082-2 Impreso en España A Vincenzo Consolo, por sus 75 años, en el vigésimo aniversario de las Piedras de Pantálica. (1ª edición 2008) A la ciudad de Lorca, tierra de mi padre, como homenaje a su gente y a su habla. (2ª edición 2011) ÍNDICE Pág Prólogo a la segunda edición ………………………………………………………………….. 9 INTRODUCCIÓN I. Estudio de “Filosofiana” ……………………………………………………………………… 13 I. a.Un relato de Vincenzo Consolo: “Filosofiana” ……………………………… 13 I. b.Los retos de la traducción de “Filosofiana” …………………………………… 19 II. Los regionalismos y su correspondencia ……………………………………………… 23 III. Referencias de citas bibliográficas ……………………………………………………… 27 IV. Recensiones sobre Le pietre di Pantalica …………………………………………….. 31 FILOSOFIANA I. Nota al Texto …………………………………………………………………………………….. 36 II. Nota a la Traducción …………………………………………………………………………. 37 III. “Filosofiana” ……………………………………………………………………………………. 39 IV. Relación comentada de regionalismos y otros matices del texto …………… 64 APARATO BIBLIOGRÁFICO I. Obra de Vincenzo Consolo ………………………………………………………………… 93 II. Traducciones de la obra de Vincenzo Consolo …………………………………….. 97 III. Premios y Reconocimiento a la obra de Vincenzo Consolo …………………. 103 IV. Trabajos de investigación …………………………………………………………………. 105 V. Encuentros monográficos sobre Vincenzo Consolo ………………………………. 117 VI. Estudios críticos ………………………………………………………………………………. 125 ÍNDICE DE NOMBRES …………………………………………………………………….. 133 9 PRÓLOGO A LA SEGUNDA EDICIÓN Para esta segunda edición de “Filosofiana” no sólo se ha llevado a cabo una labor de revisión y ampliación de la primera, sino que se ha modificado el planteamiento mismo de la propia traducción, con lo que tanto el texto de la traducción, como consiguientemente el glosario de términos y regionalismos que aparecen en la misma, han sufrido una reforma sustancial. En lo referente al glosario de regionalismos y de otros matices relevantes de la traducción, dado que el número de entradas se ha visto incrementado considerablemente en relación con la primera edición, he preferido ofrecerlo por orden alfabético en esta segunda edición con objeto de facilitar y simplificar su manejo. Con ello también se evita la incómoda presencia de asteriscos, que en la primera edición destacaban –dentro del corpus de la traducción– cada uno de los términos comentados, con lo que no sólo se rompía la fluidez de la lectura, sino que también la hacían más dificultosa. Del mismo modo, el aparato bibliográfico ha sufrido una profunda transformación. Para esta segunda edición mi propósito ha sido ofrecer una relación bibliográfica lo más nutrida y completa posible. En este contexto, no puedo dejar de agradecer efusivamente a Cesare Segre la atenta lectura crítica –en Valencia– que otorgó a la primera edición (abril 2008) y el tiempo que me ha dedicado para la elaboración de la presente edición en octubre de 2008 y febrero de 2011, en Milán. He tenido muy presentes sus observaciones tanto en materia bibliográfica como en cuestiones lingüísticas. Por último agradezco muy sinceramente a Vincenzo y Caterina Consolo que me abrieron las puertas de su casa y de su archivo. Le estoy particularmente agradecida a Caterina Consolo por mi estancia en octubre de 2008 y por las sesiones de trabajo en septiembre, octubre y noviembre de 2010, así como febrero y junio de 2011. La consulta con el autor ha sido imprescindible para perfilar matices traductológicos y para elaborar el “Aparato Bibliográfico”. Valencia, septiembre de 2011. INTRODUCCIÓN 13 I. ESTUDIO DE “FILOSOFIANA” I. a. Un relato de Vincenzo Consolo: “Filosofiana” “Filosofiana” es el séptimo de los quince relatos que componen el libro Le pietre di Pantalica (Las piedras de Pantálica), publicado en 1988. Consolo no era ya ciertamente un desconocido en los ambientes literarios italianos y europeos. El éxito de Il sorriso dell’ignoto marinaio, traducido inmediatamente a los principales idiomas, seguido unos años más tarde por Lunaria, en 1985, y por Retablo, en 1987, había creado un público expectante de lectores ávidos de saborear de nuevo una lengua de belleza, de recrearse con las resonancias, a la vez antiquísimas y nuevas, que despertaba en ellos el lenguaje consoliano, de recuperar una historia que creían sepultada y tomar conciencia de la necesidad de reaccionar contra el embrutecimiento material y moral que el mundo actual traía consigo, esa “distruzione e lo squallore: un paesaggio di ferro e di fuoco, di maligni vapori, di pesanti caligini” (Le pietre…, p. 166). No quedarían defraudados. Una vez más, Consolo vuelve a reavivar lo que Segre llamó acertadamente “su nostalgia del teatro”. Esta profunda sensibilidad de dramaturgo se manifiesta en su libro Le pietre di Pantalica al ofrecer de un lado la escenografía, de otro los personajes y por último la acción. Así, delimita cuidadosamente los contenidos de esta obra estructurándolos en tres grandes apartados intitulados: teatro, personas, acontecimientos. La primera parte (teatro) consta de siete relatos que presentan otros tantos escenarios de 14 los alrededores de Pantálica, antiquísima necrópolis desde los tiempos prehistóricos, situada en el corazón de la Magna Grecia. La naturaleza en este caso brinda al autor una escenografía de singular belleza en su austera grandiosidad. El séptimo y último relato de esta primera parte es precisamente “Filosofiana”. Nada es casual en Consolo. Tampoco el hecho de que esta pequeña joya de concisión cumpla a la perfección la regla de las tres unidades del teatro clásico: se desarrolla en un espacio de 24 horas, desde el alba de un día al alba del día siguiente, en un mismo lugar, los altos de Filosofiana, y con una misma acción, la búsqueda inicial de un tesoro, material para Vito Parlagreco y glorioso para don Gregorio Nànfara, acción única hasta el final del relato en que los dos protagonistas se quedan frente a frente sin haber conseguido el uno el oro, el otro la fama. Y en esa región de Filosofiana, o Sofiana, como se la conoce popularmente en Sicilia, surcada por cerros, montañas, valles y villas, cuyos nombres griegos dulces de repetir se convierten en versos1 , es donde Consolo va a situar a sus dos protagonistas. Pero también aquí, como en dos de sus obras anteriores, Il sorriso dell’ignoto marinaio y Retablo, estructura la coherencia interna de su libro por medio de una tupida red de ecos y reencuentros. Y es que Consolo mantiene a lo largo de su trayectoria literaria un personalísimo y constante sentido de la construcción narrativa. Procede por fragmentos, mezclando vivencias históricas y personales con personajes ficticios y documentos auténticos en sus obras. Así, cada una de ellas configura realmente las páginas de un único libro, recorrido por vibraciones y resonancias que se corresponden entre sí para gozo y disfrute de los iniciados, esos felici pochi que –al igual que los happy few de Stendhal– Consolo quiere como lectores. 1 Refundición de los versos de Salvatore Quasimodo, citados en Le pietre…, p. 123: “… Il cui nome greco / è un verso a ridirlo, dolce”. 15 Con una técnica narrativa casi de cámara cinematográfica2 Consolo presenta un largo primer plano de un hombre solitario, un campesino, con su mula y sus avíos de trabajo, que llega desde el valle al altiplano de Sofiana. Se desconoce todavía su nombre; sólo la voz en off del narrador omnisciente descubre los sueños de este labrador: uno cumplido, el haber logrado un retal de tierra aún lleno de piedras; el otro aún por cumplir, el sueño –que le hace reír de placer– de crear una casa suya llena de belleza, copia en pequeño de la mansión y de los jardines del rico terrateniente para el que había trabajado. Es de señalar la delicadeza de sentimientos de este labriego aún sin nombre. No es un sentimiento de envidia el que lo embarga, sino de admiración por la belleza. Sólo cuando el personaje se dispone a descansar, después de haber trabajado y rastrillado en su árido terreno, se descubre su nombre: Vito Parlagreco. Es entonces cuando el lector reencuentra a un viejo conocido. Vito ya había aparecido en el relato inmediatamente anterior a “Filosofiana”, “Ratumemi”, en el mismo libro Le pietre di Pantalica. Este relato se encuentra dividido en dos partes, separadas por la inclusión de documentos auténticos sobre los latifundios y hábitos de contratación de braceros. En “Ratumemi” Consolo había presentado con pequeñas pinceladas algunos rasgos del carácter de Parlagreco. Por tanto, al descubrir el nombre del labriego, bien entrada la lectura de “Filosofiana”, el lector sabe ya que este labrador es extremadamente delgado y que su aspecto famélico esconde una voracidad poco común. También sabe de la finura espiritual que subyace bajo su aspecto rudo. No es casual, en este sentido, su nombre y apellido, cargados intencionadamente de simbolismo. Vito era el nombre que elegían los primeros cristianos para expresar su esperanza en la vida eterna, al tiempo que Parlagreco 2 En 1992 Pasquale Scimeca llevó a la gran pantalla “Filosofiana” en su película Un sogno perso, film que se articula en torno a tres relatos, siendo el primero éste de Consolo. 16 atestigua la huella de la lengua hablada por sus antepasados, el griego. La cámara de Consolo se acerca enfocando de cerca y pone en primer plano a Vito almorzando. Influido por el silencio impresionante y su cansancio físico, Parlagreco va desgranando su hastío y desconcierto ante el misterio de la existencia humana. Sin embargo, Vito, haciendo honor a su nombre y alimentado desde niño por relatos de hallazgos fabulosos, abriga en su corazón un sueño de vida mejor: encontrar un tesoro de doblones de oro con el que su “vida de pesambres y de miedo” se torne en una de alegría y de sosiego. Y lo encuentra, o cree haberlo encontrado, al descubrir una antiquísima tumba llena de vasijas. En su ingenuidad, está convencido de que sólo necesita de una fórmula mágica para que su hallazgo se convierta en oro. Aquí entra en juego el segundo protagonista, que –éste sí– resulta desconocido para el lector: don Gregorio Nànfara. Su nombre y apellido también han sido cuidadosamente seleccionados por Consolo. Gregorio en griego significa el que está en vela, preparado para cualquier acción, al tiempo que Nànfara es un nombre siciliano que alude a una voz de timbre nasal. Consolo presenta aquí con gruesos trazos un arquetipo del típico charlatán, que se podía encontrar en cualquier pueblo hasta mediados del siglo pasado. En realidad un pobre hombre, aunque simpático, que sobrevive gracias a toda clase de expedientes, explotando la credulidad e ignorancia de las gentes del campo. A pesar de su pobreza y desaliño, es sin embargo respetado y admirado por la sencilla gente del pueblo debido a su supuesto conocimiento del griego y del latín, al prestigio de haber estudiado en la ciudad en un seminario y sobre todo a su ciencia esotérica, casi mágica, como demuestra su capacidad de detectar corrientes subterráneas en un país en donde el agua es un bien escaso. A él acude Vito Parlagreco para que emplee sus conocimientos en materializar el tesoro que prometía aquella tumba. El pícaro Don Gregorio, a cambio, consigue que el labriego le pague por adelantado mil liras por sus servicios. 17 Pero Consolo tiene reservada una última sorpresa. En paralelo al desconcierto que experimenta don Gregorio ante la tumba descubierta, aquí también el drama se torna farsa, burla escatológica. Esta burla cruel, a la que Vito Parlagreco y Gregorio Nànfara son sometidos, quiere ser metáfora –según me confirmó el autor– de la que sufrieron los campesinos sicilianos después de que el partido Blocco del Popolo, tras obtener la victoria en 1946, les hubiese asegurado el reparto de tierras. Tuvieron que presionar para ocuparlas hasta que finalmente, en 1950-1, les repartieron las peores (“questa terra ch’era ’na ciaramitàra, una distesa rossigna in groppa all’altopiano di cocci e di frantumi, pance culi manici di scifi, lemmi, di bombole e di giare”). Estos hechos se relatan en “Ratumemi”. De igual modo, en el relato de “Filosofiana”, Don Gregorio Nànfara fracasa en su encargo de materializar el oro a partir de los restos encontrados en la tumba y se las agencia para encontrar una justificación que lo exime de toda responsabilidad culpabilizando a Vito, que se había encontrado con un misterioso cabrero poco antes de descubrir la tumba. Parlagreco, abrumado por el sentimiento de culpa al no haber reconocido al duende tutelar guardián del tesoro en aquel pastor mudo que le regalara una liebre muerta, se traga junto con el vino el ojo de cristal que don Gregorio había dejado en un vaso. Nànfara lo va a retener en su casa, purgándolo con sal inglesa, hasta que el desgraciado lo restituya. Consolo trenza todo el relato de “Filosofiana” con dos hilos conductores: su ironía de raíz ática y su inmensa ternura. Ternura hacia el pobre Vito Parlagreco, ingenuo y bondadoso, y ternura también hacia el trafulla de don Gregorio, granuja de medio pelo, que acaba creyéndose sus propias argucias. Uno y otro son perdedores. Nànfara, por quedar desposeído de su ilusión de haber encontrado la auténtica tumba de Esquilo, descubrimiento con el que esperaba haber alcanzado la gloria. Y Parlagreco, por ser despojado de mil liras y “secuestrado” hasta que restituya el ojo de cristal de don Gregorio. 18 Así termina, con una carcajada, un relato envuelto en meditaciones poéticas y ensoñaciones de tiempos remotos, en donde no falta un toque de realismo mágico, que se materializa en la figura del cabrero. En el nombre de este muchacho –Tanatu– resuena la voz griega de “thanatos”3 (muerte), esa muerte que planea tan a menudo en los relatos de Consolo acompañando los sueños, la vida. Lo mismo que Segre habla de la “nostalgia del teatro” de Consolo, se podría hablar no ya de su nostalgia, sino de su vivencia de la vida como sueño, muerte y representación, tan anclada en su personalidad por la impronta, quizá inconsciente, del Barroco español en Sicilia4 . Aquel cabrero misterioso que aparece de improviso y desaparece tan veloz como inesperadamente, al igual que la muerte, ¿será en verdad un pastor de carne y hueso o el genio todopoderoso del cual dependía que el fango de las vasijas se convirtiese en oro? Y aquella voz surgida del fondo de las entrañas de la tierra, declamando un verso de Esquilo, ¿sería la de don Gregorio o la del propio poeta griego, que pedía ser 3 Como observó agudamente el profesor Fausto Díaz Padilla [cf. «“Filosofiana” o Cuando las piedras hablan», en La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (Homenaje por sus 75 años), ed. de I. Romera Pintor, Valencia, 2008, pp. 39-53 (véase en concreto la p. 40)], en el eco del diminutivo del nombre Gaetano, “Tanatu” –nombre del pastor–, resuena la palabra griega Thanatos que significa “muerte”, que es la sombra que planea en los altos de Filosofiana en este relato. Posteriormente, consultándolo con el propio autor, Consolo me confirmó que, en efecto, ésta había sido su idea para aureolar a este personaje del cabrero, algo misterioso, de un halo telúrico y arcano. 4 Cf. el prefacio a mi traducción de Lunaria, en la edición de 2003 (Madrid, Centro de Lingüística Aplicada Atenea) y Romera Pintor, I.: “Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón”, en La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. Giuliana Adamo (ed.), con una introducción de Giulio Ferroni, Manni («Studi, 99»), San Cesario di Lecce, 2006, pp. 161-176. Cf. asimismo Gianni Turchetta, introducción a Le pietre di Pantalica, “Oscar” Mondadori, Milán, 1990, pp. V-XIII. 19 honrado como hombre y no como dios? La respuesta queda abierta a cada lector. Pero lo que no deja lugar a dudas es la voz de Consolo que se hace paso a través de la de Parlagreco, una voz llena de belleza, que proclama los misterios arcanos y telúricos de una vieja tierra cargada de historia y, por ende, de memoria, para impregnar seres y paisajes de ese halo inconfundible, crisol de las civilizaciones que configuraron el Mare Nostrum y esencia de la esencia de Europa, que es la sicilianidad. I. b. Los retos de la traducción de “Filosofiana” Hasta la fecha sólo existen dos traducciones de Le pietre di Pantalica, obra de Vincenzo Consolo en la que se ubica el relato “Filosofiana”: en 1990 Maurice Darmon la tradujo al francés y en 1996 Anita Pichler lo hizo al alemán. Mi edición de “Filosofiana” de 2008 es, por consiguiente, la primera que ofrece la traducción del relato al español. Este hecho, con ser un privilegio, no deja de conllevar una enorme responsabilidad, tal y como se verá a continuación. A la hora de traducir “Filosofiana” he procurado respetar hasta el extremo la estructura lingüística, sintáctica y estilística del original. Conviene tener en cuenta que el uso del asíndeton, de la anáfora, de la yuxtaposición y de tantos otros recursos que recorren el texto de principio a fin tienen un alto valor estilístico y literario, y confieren al relato un sello de identidad propio del lenguaje de Vincenzo Consolo, que se caracteriza precisamente por su riqueza lingüística, por sus juegos de sonoridades y cadencias, por su léxico… por su belleza, en definitiva. Ha sido éste un tema que he consultado con el propio autor. La importancia de rendir en la traducción este sello de identidad consoliano me ha empujado a tratar el texto con el mayor respeto. No es fortuito el hecho de que, por ejemplo, haya conservado meticulosamente la misma puntuación. Ni son tampoco 20 fortuitas las construcciones sintácticas de la traducción, en las que he tratado de reproducir el mismo orden que en italiano. No cabe duda de que una traducción más libre y menos respetuosa con la lengua de origen habría optado en no pocas ocasiones por soluciones más asépticas y estandarizadas. Siguiendo en esta misma línea, y siempre con la idea de rendir la textura del original, he preferido siempre el vocablo más próximo por su sonoridad al del texto italiano, dentro del abanico de posibilidades que ofrecen las equivalencias al español. Este hecho responde una vez más a una voluntad consciente en el acto de traducir y no a una mera coincidencia lingüística. Así por ejemplo, no es fortuito el hecho de que haya optado por “candela” en lugar de “vela”, por “can” en lugar de “perro” o por “botijo” en vez de “cántaros” para traducir bombole. En definitiva, he elegido las voces más similares fonéticamente a las elegidas por Consolo, conservando las prioridades del regionalismo, así como el valor literario y culto de las mismas, pero privilegiando siempre la oralidad del discurso. No en vano la oralidad es un punto esencial en la escritura consoliana –quizá por aquella “nostalgia del teatro” a la que aludía Segre– y por consiguiente lo es también en su traducción. En definitiva, mi intención al traducir “Filosofiana” ha sido la de reproducir en la medida de lo posible el estilo, la sonoridad y la cadencia, así como las mismas construcciones lingüísticas y sintácticas del relato. Ahora bien, la decisión sin duda más arriesgada en mi trayectoria como traductora ha sido la de hacer corresponder los regionalismos sicilianos con los murcianos. La idea surgió al constatar las similitudes existentes entre las variantes lingüísticas de uno y otro. Este hecho no sorprende si se tiene en cuenta la proximidad geográfica del Levante español e Italia. La palabra que me llamó la atención en primer lugar –por su correspondencia casi exacta con su equivalente murciano– fue la de calipso, forma siciliana para “eucalipto”. La estructura del 21 término “eucalipto” se ha modificado en siciliano por medio de una metábole con aféresis, alteración que se recoge en el habla murciana casi literalmente (“calistro”). Todavía más significativo es el uso de algunos términos que desgraciadamente han caído en desuso tanto en España como en Italia, como “lampo” y “lastra”, pero que se siguen manteniendo vivos en los ambientes rurales de Sicilia y Murcia. Pero aún observé otras similitudes lingüísticas: el mismo rasgo que privilegia en ambas regiones el uso del pretérito simple sobre el compuesto, hecho que también se justifica por la proximidad geográfica del Levante español y Sicilia, así como por la identidad de sus raíces etimológicas, principalmente latinas con influencias árabes y también aragonesas en ambos casos. Sólo daré un ejemplo de la gratificante similitud e idéntica procedencia etimológica entre dos voces: “gebbia” y “aljibe”, que proceden del árabe clásico “gˇibb” y que comparten el mismo valor semántico. Estas equivalencias tan similares y llamativas me llevaron a estudiar la posibilidad de aplicar en todo el texto una correspondencia entre los regionalismos sicilianos y los murcianos. Aunque no fue la única razón porque, además de estas analogías lingüísticas, la narración transcurre en una región (Filosofiana) que me recordaba mucho a una tierra particularmente entrañable y querida para mí, la de Lorca, concretamente el “roalico” de Puerto Lumbreras, cuna de mi familia paterna, donde paso desde niña todos mis veranos y donde por consiguiente puedo vivir “in situ” sus gentes, sus sueños y empaparme de “viva voce” de su habla. Efectivamente, estas dos regiones, la siciliana y la murciana, se asemejan singularmente no sólo en su fisionomía física –altos planos que rodean pequeños valles– sino también en su historia. Ambas comparten civilizaciones sepultadas (fenicios, cartagineses, romanos, árabes…) y esconden en sus entrañas tumbas legendarias de personajes emblemáticos: la de Esquilo en Gela, la de los Escipiones en el Cabezo de la Jara. Ambas también mantuvieron vivas hasta mediados del siglo pasado la tradición de los “trovos”. 22 Fue así cómo finalmente –y tras una gratificante labor de investigación lingüística– me decidí a llevar a cabo la traducción de “Filosofiana” haciendo uso de los regionalismos murcianos. Con todo, en esta segunda edición he hecho un uso extensivo del habla murciana, aplicándola a todo el relato, aún cuando no se corresponda con un regionalismo siciliano en el texto original. Este nuevo planteamiento está más en consonancia con el espíritu y la dinámica global de la narración, así como con el ambiente rural que se describe y con el habla de los personajes. De este modo la presente edición recupera toda la plasticidad lingüística de las variantes regionales de esa lengua que en palabras de Vicente Medina “gana en dulzura y belleza conservando su tierno y delicado sabor local”, en estos momentos de depauperación cultural y lingüística donde los medios de comunicación están imponiendo una lengua estándar desprovista de color y sabor. Convenía, por tanto, recuperar estas voces ya olvidadas (“tanimientras”, “terretremo”, “escullir”, “lampo”, “lastra”, “pesambre”, etc.), imitando en eso a los franceses en la iniciativa seguida con entusiasmo por el gran público y lanzada por Bernard Pivot: “Sauvons un mot chaque jour”. En definitiva, a través del habla murciana, la presente traducción ofrece al lector español las mismas valencias cargadas de sorpresa y el mismo redescubrimiento de su propio idioma que Consolo brinda a su lector italiano. 23 II. LOS REGIONALISMOS Y SU CORRESPONDENCIA Conviene aclarar desde un principio que no existe una lengua murciana como tal. Existe desde luego una variedad de habla murciana o regionalismo murciano que se caracteriza precisamente por mantener rasgos morfo-sintácticos, fonéticos y léxicos del español antiguo, es decir del castellano, así como de otras lenguas con las que entraron en contacto, como el árabe (durante la dominación musulmana tras desmembrarse el reino visigodo), el aragonés (con la llegada de los religiosos aragoneses que predicaron en Murcia tras la Reconquista) y el catalán (la repoblación cristiana en Murcia era en su mayoría catalana). Pero la lengua de Murcia es hoy –y ha sido siempre– el español. En este sentido, resulta altamente significativo el hecho de que un buen número de vocablos que se recogen en los diccionarios de regionalismos murcianos o de hablas murcianas sean palabras españolas que con el tiempo han caído en desuso en casi toda España, pero que –muchas veces alteradas y modificadas– se conservan en Murcia, principalmente en las zonas rurales, así como en buena parte del Levante. Con ello ya queda señalado uno de los rasgos que mejor caracterizan este regionalismo: el de su conservadurismo lingüístico, su arcaísmo léxico, su sabor añejo. Es éste un rasgo que comparte el habla murciana con la siciliana y una de las razones que imprimen al texto de Consolo ese regusto de tiempos pretéritos evocado por el propio léxico, tan rico y sugerente, amalgama de voces actuales y vigentes, y a la vez de resonancias arcaicas, remotas, misteriosas. 24 Con todo, existe un gran número de alteraciones, principalmente fonéticas y morfológicas, propias del habla murciana. Lo que sin duda caracteriza la pronunciación de este regionalismo es la supresión de la “s” final (que viene a pronunciarse como una especie de “h” aspirada) y a menudo también de la “r” en final de palabra. En este contexto, conviene señalar que no he reflejado en la transcripción5 la aspiración de la “s” ni la pérdida de la “r” final con objeto de no perturbar la comprensión del relato, ya que una supresión gráfica sistemática de estas consonantes habría podido resultar desconcertante y provocar ambigüedades que pondrían en peligro la comprensión del texto. Sin embargo, no cabe duda de que ésta es la seña de identidad fonética del habla murciana. En cambio, sí que he reflejado en la traducción la supresión de la “d” intervocálica, tan extendida y tan típica del hablar murciano (“sío” por “sido”, “callaíco” por “calladico”, “comprendío” por “comprendido”, “parao” por “parado”, “múo” por “mudo”, etc.). También transcribo elisiones, como la de la “e” en la preposición “en” seguida de artículo (“n’el” por “en el”), la de “o” en “como”, o la de la “e” en la conjunción “que” y en la preposición “de” (“com’uno d’esos” por “como uno de esos”, “qu’era” por “que era”, etc.). Además de los vocablos que se consideran propiamente regionalismos, la inmensa mayoría del léxico que conforma el habla murciana está constituida por modificaciones o deformaciones de palabras vigentes en todo el territorio nacional. Son muchos los casos de aféresis, en que se suprime alguna letra o prefijo al inicio de la palabra («’tate» en lugar de “estate”), o bien aún en medio o al final de la palabra 5 Salvo en contadas ocasiones, como en «po’» y como en el poemilla, donde he suprimido gráficamente la “s” de “asponticos” y del verbo “es” para mejor transcribir el acento rural de la letrilla: (…) N’er Lanniri siet’aspontico’ / Sabucina e’ jarta d’oro (…). Por las mismas razones, sólo he transcrito la desaparición de la “r” final en contadas ocasiones, como “señó” por “señor”. 25 (“anque” por “aunque”, “custión” por “cuestión”, “señó” en lugar de “señor”). Son frecuentes asimismo la metátesis –en la que se altera el orden de los fonemas (“pedricar” por “predicar”, “naide” por “nadie”)– y otros metaplasmos en los que se alteran fonemas (“umbligo” por “ombligo”, “liopardos” por “leopardos”, “cimiterio” por “cementerio”, “nusotros” por “nosotros”, “semos” por “somos”, “dicir” por “decir, “mesmo” por “mismo”, ”uíste” por “oíste”), o en los que se contraen palabras (“ande” en lugar de “a dónde”). También son habituales las apócopes, que en ocasiones van acompañadas de mutaciones vocálicas («po’» en lugar de “pues”, «pa’» en lugar de “para”, «ca’» por “cada”, «to’» por “todo”, “quié” por “quiere”, “casá” por “casada”, “tiés” por “tienes”), así como todo tipo de añadidos fonéticos: prótesis al inicio de la palabra (“ajuntar”, “abajar”, “asentarse”), epéntesis en el interior (“muncho” por “mucho”, “lenjos” por “lejos”) y paragoges al final de la misma (“asín” por “así”, “sín” por “sí”). Muy típicos del habla murciana son igualmente dos sufijos que provienen del aragonés, “ico” (“puentecico”) y “uco” (“Vituco”), así como el sufijo “ujo-a” (“cosujas”). Finalmente, es muy frecuente también la mutación de la “l” por la “r” en los artículos seguidos de consonante (“er día” por “el día”, “ar cielo” por “al cielo”) y en no pocas palabras (“farta” por “falta”, “argo” por “algo”, “vorver” por “volver”, “curpa” por culpa”, etc.). Similares mutaciones se encuentran en el regionalismo siciliano: sufijo “uzzo” (“Vituzzo”), alteraciones de fonemas y letras (“cimiterio” en lugar de “cimitero”, “liopardo” en lugar de “leopardo”), contracciones y metaplasmos por supresión de fonemas (“vossi” en lugar de “vossignorìa”, «’gnorsì» en lugar de “signorsì”, “sto” en lugar de “questo”), etc. Por todo ello, el resultado de este uso del habla murciana en la traducción permite de un lado reflejar la compleja variedad lingüística del texto original y de otro enriquecer la versión española del relato a través de una variedad de matices, si no idénticos, cuando menos similares a los que el autor ha querido infundir a su obra. 27 III. REFERENCIAS DE CITAS BIBLIOGRÁFICAS 1. Diccionarios de regionalismos: Grosschmid, Pablo y Echegoyen, Christinna (1998): Diccionario de regionalismos, Barcelona, Editorial Juventud. Mortillaro, Vincenzo (1876): Nuovo Dizionario siciliano-italiano, Palermo [rist. anast. Palermo 1871, Vittorietti]. García Soriano, Justo (1980): Vocabulario del dialecto murciano, Murcia [facsímil de la 1ª edición de 1932]. Gómez Ortin, Francisco (1991): Vocabulario del Noroeste murciano, Murcia, Editora Regional. Ruiz Marín, Diego (2007): Vocabulario de las hablas murcianas. El español hablado de Murcia, Murcia, DM librero-editor. Vocabolario siciliano, vol. I (A-E) a cargo de G. Piccitto, CataniaPalermo 1977; vol. II (F-M) a cargo de G. Tropea, Catania-Palermo 1985; vol. III (N-Q), a cargo de Giovanni Tropea, Catania-Palermo 1990; vol. IV (R-Sgu-) a cargo de G. Tropea, Catania-Palermo 1997; vol V (Si-Z) a cargo de S. C. Trovato, Catania-Palermo 2002, Centro di Studi filologici e linguistici siciliani. 28 2. Diccionarios de consulta general: Barcia, Roque (1881-83): Primer diccionario general etimológico de la lengua española, Establecimiento tipográfico de Álvarez hermanos, Madrid. Battaglia, Salvatore, Grande Dizionario della lengua italiana, Turín, UTET, 1961 y ss. Corominas, Joan y Pascual, José Antonio, Diccionario crítico etimológico castellano e hispánico, Madrid, Gredos, 1980 y ss. DRAE = Diccionario de la Real Academia Española de la Lengua, 22ª edición (2001). De Mauro, Tullio (2005): Il dizionario della lingua italiana, Torino, Paravia. Lo Zingarelli (2002): Vocabolario della lingua italiana, Bologna, Zanichelli. MM = Moliner, María (2007): Diccionario del uso del español, Gredos. Sabatini-Coletti (2003): Il Sabatini-Coletti. Dizionario della lingua italiana, Milano, Rizzoli-Larousse. 3. Bibliografía general: Alvino, Gualberto (1998): Tra linguistica e letteratura. Scritti su D’Arrigo, Consolo, Bufalino. Introduzione di Rosalba Galvagno. Fondazione Antonio Pizzuto, Quaderni pizzutiani, Palermo. 29 García de Diego, Vicente (1964): Etimologías españolas, Aguilar. Ibarra Lario, Antonia (1996): Materiales para el conocimiento del habla de Lorca y su comarca, Universidad de Murcia, Murcia. Muñoz Garrigós, José (2008): Las hablas murcianas. Trabajos de dialectología. Edit.um, Murcia. Pitré, Giuseppe (2000): Grammatica siciliana. “Biblioteca delle tradizioni popolari”, Brancato Editore. Steiger, Arnold (1932): Contribución a la fonética del hispano árabe y de los arabismos en el ibero-románico y el siciliano, Madrid. 31 IV. RECENSIONES SOBRE LE PIETRE DI PANTALICA AÑO 1988 • Vico Faggi, “Dalla Sicilia con rimpianto”, Il Secolo XIX, 11-10-1988. • Sebastiano Addamo, “L’eterno ritorno di Consolo”, La Sicilia, 13-10-1988. • Francesco Mannoni, “Una Sicilia contadina magica e struggente”, Libertà, 15-10-1988. • Oreste Del Buono, “Sicilia con furore”, Panorama, 16-10-1988, pp. 134-7. • Guido Gerosa, “In magiche pietre scavate il paese dei sogni e della memoria di poeta”, Il Giorno, 16-10-1988. • Raffaeli Crovi, “Echi di Verga e Vittorini nella Sicilia necropoli di Consolo”, Italia oggi, 17-10-1988. • Giuseppe Amoroso, “La memoria che vagabonda dalla nobiltà alla barbarie”, La Gazzetta del Sud, 18-10-1988. • Renato Minore, “Care memorie”, Il Messaggero, 22-10-1988. • Giovanni Giudici, “Pietre di nostalgia”, L’Unità, 26-10-1988. • Maurizio Cucchi, “Consolo racconta una Sicilia ferita a morte”, La Stampa, 29-10-1988. • Natale Tedesco, “Viaggio tra felicità e orrore”, L’Ora, 29-10-1988. • Giovanni Giudici, “Consolazione in Sicilia”, L’Espresso, 30-10-1988. • Silvia Sereni, “Parole, immagini, colori di Sicilia”, Marie Claire, novembre, 1988. • Stefano Giovanardi, “Imbroglio siciliano”, La Repubblica, 02-11- 1988. • Giuseppe Bonura, “Com’è annebbiato il mito di Sicilia”, Avvenire, 05-11-1988. 32 • Natale Tedesco, “Scrivere è sogno e fuggire dalla vita”, Il Mattino, 08-11-1988. • Salvatore Nigro, “Un album siciliano sottratto alla rovina”, La Sicilia, 15-11-1988. • Giovanni Raboni, “Le pietre di Pantalica”, L’Europeo, nº 47, 18-11- 1988. • Ermanno Paccagnini, “Le pietre di Pantalica, frammenti di una civiltà”, Il Sole 24 Ore, 20-11-1988. • Mauro Bersani, “Le pietre perdute”, Corriere del Ticino, 03-12- 1988. • Claudio Marabini, “Un pasticciaccio alla siciliana”, Il resto del Carlino, 10-12-1988. • Eugène Mannoni, “L’ île mysterieuse”, L’Express, 21-12-1988. AÑO 1989 • R. Carbone, “L’ombra delle rovine”, L’Indice, nº 1, enero 1989, pp. 6-7. • Maria Sebregondi, “Le pietre di Pantalica”, Leggere, enero, 1989. • Gianni Turchetta, “Consolo: pietre e macerie. Il teatro del mondo e la nave degli orrori”, Linea d’ombra, nº 34, enero 1989, pp. 11-12. • Antonio Di Grado, “Amarezza e speranze”, La Sicilia, 6-01-1989. • Carmelo Depetro, “Parlando di Sicilia”, Ragusa sera, 28-01-1989. • Paolo Pogliani, “Le pietre di Pantalica”, Letture, febrero, 1989. • Andrea Zanzotto, “Consolo sospeso tra due Sicilie”, Corriere della Sera, 13-02-1989 (se publica también en Francia “Consolo entre deux Siciles”, Le Monde, 30-11-1990). 33 • Carlo Sgorlon, “Pietre che dicono cos’è la Sicilia”, Gazzettino di Venezia, 15-02-1989. • Romano Luperini, “Coniugando Verga e Gadda”, L’immaginazione, enero-marzo 1989. • Idolina Landolfi, “Sicilia patria perduta”, Il Giornale, 12-03-1989. • Luciano Satta, “Fra queste pietre il sussurro di un canto”, Il Giornale, 23-03-1989. AÑO 1990 • Nicola Di Gerolamo, “Il viaggio sentimentale di Vincenzo Consolo”, Arenaria, agosto-septiembre 1990. • Evelyne Pieiller, “Le roman d’un peuple, de son histoire, de ses langues”, La Quinzaine littéraire, 16-10-1990. AÑO 1991 • Jean Baptiste Marongiu, “Blessure sicilienne”, Liberation – Special livres, marzo 1991. • Louis Soler, “Les deux Siciles”, L’Ane, magazine freudien, nº 47, julio-agosto 1991. FILOSOFIANA 36 I. NOTA AL TEXTO 1. El relato de “Filosofiana” aparece recogido dentro del libro Le pietre di Pantalica, publicado por primera vez en octubre de 1988 por la editorial Mondadori de Milán, “Collezione Scrittori italiani e stranieri”. 2. La misma editorial sacará a la luz una nueva edición para la colección “Oscar Scrittori del Novecento”, en septiembre de 1990. En esta colección existen varias reediciones, desde la primera de 1990 hasta la última de 2007. Las diferentes reediciones, de esta colección van acompañadas siempre de una introducción de Gianni Turchetta. Todas ellas conservan el mismo formato. Son exactas entre sí, con la salvedad de las siguientes diferencias: • Cada reedición presenta una imagen diferente en las portadas de los libros. • En la edición más reciente de septiembre de 2007 se ha añadido el apartado “Bibliografía” (pp. XIV-XVIII). 3. Por lo que respecta a esta segunda edición de la traducción al español de “Filosofiana”, al igual que hiciera en la primera, me he basado en el texto original de la edición Princeps (Mondadori, 1988), que es la considerada definitiva por el autor (“Filosofiana”: pp. 75-97). 37 II. NOTA A LA TRADUCCIÓN 1. Las cuestiones lingüísticas y terminológicas relativas a las opciones de traducción para la presente edición en español de “Filosofiana” se analizan a continuación del relato de “Filosofiana”, en el capítulo IV (Relación comentada de regionalismos y otros matices del texto). La secuencia de los términos comentados en dicho apartado sigue un orden alfabético. En esta segunda edición, por tanto, los vocablos analizados dejan de estar señalados en el corpus de la traducción por medio de un asterisco junto a la palabra o grupo de palabras objeto de comentario, tal y como sucedía en la primera edición. 2. Por su parte, las notas que acompañan el corpus de la traducción están únicamente destinadas al comentario, aclaración o explicación de aquellas referencias literarias y culturales recogidas en el propio texto que puedan ser de utilidad para el lector. 39 FILOSOFIANA Al alba había llegado a Sofiana, a la fanega y media y algún que otro bancal que había mercao empeñando hasta la camisa, tras irse al traste las cooperativas y su esperanza de obtener la concesión d’un roalico de tierra en Ratumemi, Rigiulfo, Gibilemme o n’er mesmo infierno. Una tierra qu’era una cascajera, una llanura rojiza a lomos d’un cerro de tiestos y cascotes, culos panzudos de botellas, asas d’ánforas, lebrillas, botijos y jarrones. Como si en este campo hubiese habido hornos d’alfarería. Abandonados, cerrados y enterrados, dejando sobre el terreno como seña este cimiterio de cinabrio, lo mismo que la masa amarillenta d’escorias y cenizas al reor de las bocas de los pozos de Bubbonìa o de Pazienza eran las señas d’azufrales muertos (reino de cal, de sisca y de acíbara; refugio de sombras y vientos, cucalas, lagartijas, leros; lugar de desolación y de acoramiento). Y encomedias d’estos casquijos, crecían espárragos, cardos, alcaciles silvestres, calistros y robinias. Lió la mula a un tronco y se asentó sobre un murete de arenisca que asomaba to’ tieso, cuasi como seña de linde o cimientos de casa. El cielo aclaraba, las estrellas se apagaban, desaparecían, y la luna, una luna de tres cuartos, perdía su luz, palidecía, volviéndose papel de seda, vitela. Se veía, más allá del valle, más allá del Dessuèri y del Dittàino, más allá del Adrano, Jùdica y Centùripe, sobre un fondo de cielo violeta y luminiscente, la cumbre nevada y la humareda del volcán. 40 Miraba a su tierra, la suya, la escudriñaba. Sopesaba si debía empezar por roturar, plantar barbados y esquejes americanos, resistentes al mal tiempo, a la filoxera; y olivos, almendreros, pistacheros; y árboles de capricho como higueras, acerolos, jinjoleros, serbales, membrillos, granados; y plantas de olor y de belleza, rosas, claveros, jazmines, cidronelas, alrededor de la casita que habría hecho aquí, en lo más alto, la fachada cara al levante, quizá sobre estos mismos gruesos cimientos en los que se asentaba, la terraza, el parral y el pozo en la parte delantera. Se la figuraba en pequeño, pero copia de la gran masía de la Favara, donde había trabajado varios meses bajo las órdenes del amo llamado Saavedra6 , regia mansión, maravilla con cúpulas, terrazas, balconcitos, patios con columnas, suelos con azulejos de Valencia; aljibes, albercas, cenia, paseos con parras encomedio de campos de algodón y cañadú, jardín con plantas y flores de las más variadas, garullos y pavos en libertad por el jardín, y todos los pájaros del arca en las pajareras. Rió, rió de su sueño, se dio dos manotazos en los muslos y se levantó para tomar el legón y el pico. Tajo parejo comenzó por despedrar, librar el terreno de cualquier resto de barro roto. Rastrillaba y formaba aquí y allá en los bordes caballones rojizos, y a poco a poco aparecía, ahí donde no había hierbajos, chicoria o hinojo silvestre, una tierra negra y feraz, tierra de virginidad inmaculada, que jamás había conocido reja de arado, golpe 6 Nombre de la familia propietaria de las fincas y del palacio de la Favara desde el siglo XVI. Apellido de rancio abolengo español, perteneciente también a la nobleza del Reino de las Dos Sicilias. Por sus estrechas relaciones tanto con Murcia como con Sicilia, señalaré a uno de sus más ilustres representantes: el político y literato murciano Diego de Saavedra Fajardo (1584-1648), que fue secretario del Cardenal Gaspar de Borja, primero embajador en Roma y después Virrey de Nápoles residiendo por algún tiempo tanto en Nápoles como en Sicilia. 41 de azadón, jamás había alimentado semilla de haba, cebada o trigo. Y cuando fue justo mediodía, con el sol perpendicular sobre el follaje del bosquecillo de Alzacuda, quiso enderezar el lomo7 pero se quedó derrengao. Se llevó las dos manos a los riñones e hizo fuerza, crujiendo y quejándose, hasta lograr ponerse derecho como un hombre. Imprecó su mala suerte, santos y diablejos, caminando hacia la mula, donde tenía liado el hato de la fiambrera con el empedrao, el vino, el pan y el queso frito que su mujer le había preparao. Se asentó de nuevo sobre el murete, cuadrado y pulido como un poyo delante del molino de Caldai o de la trituradora de la Providencia, extendió el paño de cocina, puso encima los avíos para comer. Y mientras comía miraba toda la faena hecha durante la mañana, la tierra negra libre de herbajo y de tiestos, parecía desnúa, después de inseculorum sécula a la luz der sol y d’estremecerse ante la ligera brisa otoñal. Lo que le turbaba era el silencio. Acompasado por el pisoteo de la mula, los cascabeles de las ovejas lejanas y algún que otro grito de un pájaro de paso. Y la montaña inmensa al fondo, una masa de negro y de blanco, con la humareda que salía de su cumbre expandiéndose por el azul de la bóveda. Cercanas se veían las casas de Caltagirone, de Adrano y de Piazza (contaban que en el Casal, en el vallecico del Nociara, habían descubierto bajo tierra una gran villa, el suelo de cuadradicos minúsculos que formaban frisos con guirnaldas de frutas y flores, escenas de caza con animales salvajes y fieros, leones tigres liopardos; pesca con redes de peces moteados, plata y oro, nenes que jugaban a coscoletas sobre cabras y palomas, luchas de gigantes heridos por flechas, un hombre con tres ojos. Pero la maravilla de la que se platicaba abonico era la 7 Según me hizo observar Segre, al emplear la palabra groppa (“lomo”) Consolo quiso subrayar la animalidad que conlleva el duro trabajo de la tierra (cf. la entrada “enderezar el lomo” en el capítulo siguiente). 42 sala de las zagalicas, tan apañás, en cueros, que bailaban y jugaban graciosas con la pelota, la sombrilla, er tamboril. De seguro la villa d’un rico caprichoso, muncho más rico qu’er rico Saavedra de la villa Pastorana en Favara). “Pero ¿qué semos nusotros, qué semos?” se preguntaba Vito Parlagreco8 , masticando su pan y queso de cabra con pimienta. “Hormiguicas que se matan a faenar n’esta vida breve como er día, un lampo. En fila dalante atrás sin parar n’esta era redonda que se llama mundo, llenos de granos, pajas, trigo, en pro de uno o dos más afortunaos. ¿Y qué? Er tiempo pasa, amontona fango, tierra sobre un gran escombro d’añicos de huesos. Y queda, como seña de la vida qu’ha transcurrío, argún que otro fuste de piedra acanalá, argo escrito en una lastra, arguna escena o figura como las desenterrás n’er valle de Piazza. Un cimiterio queda, de piedra y casquijos encomedio der cual crece, ca’ espuntar de primavera, l’alhelí, l’asfódelo”. Y miró los bancales de cascotes delante de él, las terracotas, algunas patinadas de musgo y otras pintadas de negro, rojo, unas lisas y otras grabadas con figuras mutiladas. “Qué caprichos, qué caprichos se daban los antiguos” se dijo Parlagreco. Y se dijo también que dejase ya de pensar en la vida que fue, que es, como lo hacía siempre en los altos de la faena, n’er silencio y en la soledad, de pensar com’un viejo, com’uno d’esos jubilaos asentaos dende la mañana dasta la tarde de cháchara a la puerta de la Liga. Pa’ irse a luego a luego de la tierra ar cielo, ar sol, a la luna, a las estrellas. Entonces, entonces era preso de vértigo, 8 Sólo aquí, después de tres largas páginas, se descubre el nombre del misterioso labrador. Consolo ya lo había presentado anteriormente en este mismo libro Le pietre di Pantalica. Había aparecido en concreto en las dos partes que componen el relato “Ratumeni”. Con unas cuantas pinceladas Consolo ofrece en “Ratumemi” un retrato tanto físico como psicológico del futuro protagonista de “Filosofiana”. Por lo tanto, su lector, puede ahora proyectar perfectamente su imagen mental y entender mejor sus reacciones (cf. la introducción). 43 le parecía escullir dentro d’un pozo sin fin. Y fue en ese punto, en esa quietud de desierto o eremitorio cuando, desde la lontananza de sus pensamientos, se sintió llamar, volver a llamar: «¡Ohu, ohu!» y le salió al encuentro, desde el fondo de su campo, seguido de ovejas y corderos, un cabrerico alegre, risueño, arremolinando en lo alto su cayado. Cuando estuvo delante, se plantó, poniéndose rojo rojo. Reía, reía, sin estarse quieto un momento, balanceándose de un lado a otro sobre sus piernas arqueadas, los pies envueltos en trapos. Era un zagal d’unos quince años, crecío de cabeza y tórax, con pelusa en la barbilla y sobre los labios, pero que s’había quedao corto d’estatura. Miraba fijamente con los ojos de par en par al labrador. «Eh» le dijo Parlagreco masticando «¿qu’haces? ¿Ande vas?» Mas el cabrero reía y no hablaba. Cortó entonces el labrador una tajada de pan con el cuchillo, colocó encima un trozo de queso y se lo ofreció al zagal. Éste, riendo, retrocedió, denegando con la cabeza. Probó con el vino, tendiéndole la botella. Y de nuevo el no de aquél. Pero ahí quedaba mirándolo fijamente, espiando su cara, sus gestos. Vito entonces fingió no darle importancia, no verlo, continuando distraído su comida, siguiendo con la mirada al rebaño disperso, un can9 blanco de pelo enmarañao que ladraba y corría tras las ovejas que s’alejaban a lo lenjos. Después Vito se encendió un pitillo, miró al muchacho que seguía ahí plantao 9 Góngora se negaba a utilizar el término “perro”, que consideraba un barbarismo –de hecho tiene un origen incierto–, y sólo consentía en emplear la palabra “can”, de procedencia latina. Con todo, el Roque Barcia recoge la etimología de Covarrubias, para quien el vocablo “perro” viene del griego Pyr, “que significa fuego, por ser estos animales de un temperamento seco y fogoso. Otros quieren se dijese á rodendo pede” (cf. Primer Diccionario General Etimológico de la Lengua Española, Roque Barcia, Tomo cuatro, Francisco Seix, editor. Barcelona, 1879). 44 todavía sonriendo, echó las piernas sobre el murete, se dio la vuelta y se dispuso enseguida a reposar, el hato bajo la nuca a guisa de almohada. Tras el humo del pitillo, miraba el cielo terso e inmutable, mudo, vacío, como la tierra sobre la que se encontraba. Y pensó n’er zagal dentro der vacío, quién sabe desde hacía cuántos años en soledad, solo con sus ovejicas, encomedio de las hierbas, en los altos de Filosofiana, expuesto al agua y ar viento, bajo er sol, bajo la luna, bajando a Dessuèri, y más allá a través de los campos de Gela, vagando hasta Morgantina, hasta Licodia Eubea. Vida sola, sola, tanto que se le había olvidao, si arguna vez la tuvo, la palabra. Giró apenas la cabeza para mirar de reojo a ese pastor esquivo, y lo vio acucunaíco n’er suelo, er cayado entre las piernas, el rostro feliz por estar en compañía d’un cristiano. Pensó en sus tres zagalicos allá en Mazzarino, Michele, Maria, Bastiano, que iban a la escuela, jugaban en la calle, hablaban, gritaban, dormían por la noche bajo techo10. Y en estos pensares, aspeao como estaba por la cansera de la mañana, esculló a poco a poco en el sueño. Lo despertaron de golpe los alaridos, los ladridos del can. Se irguió, y vio al muchacho que saltaba, tomaba piedras del suelo y disparaba con su honda contra una bandada de airones que volaba en formación de ángulo, de flecha, como las dos alas desplegadas de un único pájaro grande. Se veía cada cuanto al airón timonel, en el ápice del ángulo, que con el pico y su largo cuello hendía el aire, ceder su puesto a otro que lo alcanzaba desde el extremo del ala. Y 10 Son los mismos sentimientos de ternura compasiva que expresa José María Gabriel y Galán (1870-1901) en su entrañable poesía “Mi vaquerillo”, que para un lector actual no deja de ser encantadoramente afectiva: “(…) / Pero el niño ¡qué solo vivía! / ¡Me daba una lástima / (…) / tan solo pasaba / las noches de junio / (…) / y las húmedas noches de octubre, / (…) / y las noches del turbio febrero, / (…) / con vientos y aguas!… / (…) / Yo tenía un hijito pequeño / (…) / que jamás te dejé si tu madre / sobre ti no tendía sus alas”. 45 así avanzaban, con sincronía y consonancia, emigraban, ahora que se aproximaba la ivernada, hacia lugares cálidos, Linosa, Lampedusa, Gerba, quizá después de un alto en el lago Dessuèri, en el estanque de los Pàlici o Vendìcari. Saltó del murete y corrió hacia el muchacho, lo agarró por los brazos y se los retorció detrás de la espalda, haciéndole caer la honda de las manos. Éste, tomado a traición, pataleaba y se revolvía. Lo arrastró hacia el muro, lo hizo girar sujetándolo con fuerza por las muñecas. «Basta» le gritó «¡basta!». El muchacho lo miró espantao. Después las lágrimas le llenaron los ojos. Vito aflojó su presión. «Ai-ro-n» dijo, señalando al cielo «ai-ro». «¡Pero tú hablas, hablas!» exclamó Vito. El muchacho se enjugó los ojos con el dorso de la mano. «¿Quién eres? ¿Cómo te llamas, eh?» le preguntó. El otro lo miró con ojos muy abiertos. «Uno, Vito» dijo Parlagreco apuntando el índice sobre el pecho. «¿Y tú?». «Ta-na-tu, Ta…» silabeó el muchacho, y se rió, descubriendo unos dientes agudos. «¿Tanu? ¿Tanu?» preguntó Parlagreco. El otro dijo que sí con la cabeza. «Los airones no se matan. ¿Comprendío?» remachó. El muchacho reía, y no decía ni si ni no. «Abora se van lenjos, qu’aquí llega el ivierno… ¿Tú, ande vas?». Pero Tanu no respondió, siguió riéndose. Luego de golpe giró, fue a recoger del suelo su honda, volvió y se la entregó a Parlagreco. «No, no» le dijo Parlagreco «tenla. ¿Qu’hago yo con ella?» Y fue a retomar su azadón. Tanu abrió el zurrón que llevaba en bandolera, puso dentro la honda y sacó un liebro muerto, con la cabeza corgando encostrá de sangre. Se lo llevó a Parlagreco. 46 «No, no, cómelo tú». Pero el muchacho insistía. «¡No!» dijo decidido Vito, y se echó a andar. Entonces Tanu dejó rápidamente el liebro sobre el muro, se llevó dos dedos a la boca, silbó para llamar al can y partió dando saltos y haciendo molinillos con su cayado. Vito lo persiguió, pero el otro corría veloz sobre sus piernas zambas, desapareció pronto, seguido del can y de las ovejas, en el follaje del bosquecillo de Alzacùda. Vito se quedó plantao mirando er punto por donde había desaparecío aquel zagal, la sendica encomedio de los troncos de calistro. Sintió despecho, luego algo parecido a pena, pena por ese zagal que quizá nunca más volvería a ver, lo que semeja a la muerte, como los airones que se ven migrar, esfumarse en la lejanía. Pena aún por él, que retornaba a estar solo, solo con su faena n’er campo de Filosofiana. Miró el liebro muerto sobre el murete, le dio la espalda y tornó decidido al punto donde había interrumpido su faena. De pronto, después de unos pocos golpes de pico, oyó resonar la tierra como si estuviese hueca, hubiese una cueva o una vasija enterrá. Excavó despacico despacico, amontonando tierra hacia los lados, y apareció a poco a poco una lastra alargá como la lápida d’una tumba. Fue preso de ansia, pensares; recuerdos acudían en tropel a su mente, de fábulas, encantamientos, tesoros escondidos por moros o por bandoleros. Le parecía estar soñando. Y este sueño que tenía por la noche con frecuencia, cuando s’echaba en la cama lleno de cansera, era er de cavar con las manos n’er polvo, n’er fango, y encontrar por fin una perola o cuarterola cormá de peluconas11. ¿Pero era sueño o 11 En el texto original marenghi (p. 82). Se trata de las monedas de oro acuñadas por Napoleón con motivo de la victoria de éste sobre los Austro-Húngaros en Marengo (1800). Por extensión cualquier moneda de oro macizo. Para rendir la misma equivalencia a un lector español elegimos la palabra “pelucona”, moneda 47 recuerdo lejano de cuentos, como er der Castillo d’Entella o er de la Gruta der Caballo en Sabucina, d’ese pastorcico que fue a la feria embrujá ande compra naranjas que se vuerven oro? Y recordaba siempre esta letra qu’abora s’había puesto a recitar: Una fuente n’er puentecico N’er Lanniri siet’aspontico Sabucina e’ jarta d’oro Testa de lumbre, Testa d’ oro… Sólo que sueño o fábula poca es la diferencia. ¿No es acaso sueño todo cuanto se cuenta, se inventa o se relata, por medio de la voz, de la escritura o de cualquier otro modo, de una vivencia de ayer, de hoy o de mañana, de una vivencia posible o fantástica? Es siempre sueño la empresa del narrar, un desligarse de la vida real y vivir en otra. Sueño o quizá aún locura, porque es propio de la locura la vida que se desliga y prosigue, como sombra, fantasma, ilusión, al lado de esta otra vida que nosotros llamamos real. ¿O de la muerte? Vito Parlagreco hizo palanca con la cuña del pico y alzó con esfuerzo la pesada lastra. Apareció una fosa, tallá dentro de la toba y bien cuadraíca. Una fosa repleta d’un terrero oscuro, blando como la de los hormigueros. Y del terrero afloraba un cráneo, el color amarillo de la frente, el negro de las órbitas, el marfil de la dentadura, y los huesos, sutiles como alas de pájaros, de las manos. Parecía el esqueleto de un hombre desplomado dentro del fango y que se esfuerza por salirse o de uno que, vuelto a despertar en su tumba después de milenios por la luz roja del sol poniente, hace ademán de incorporarse. de oro acuñada por los reyes Borbones españoles hasta Carlos IV inclusive. Esta moneda tenía en una de sus caras el perfil del rey vigente que ostentaba una peluca. De ahí su apelación popular. 48 Vito no tuvo sobresalto ni miedo, más bien notó la misma alegría como cuando en sueños descubría sus peluconas. Alegría sobre todo porque al reor al reor d’aquel antiguo muerto afloraban ánforas, orzas, platos, luminos, semienterraos también n’er terrero, como si flotasen sobre el agua cenagosa d’un aljibe. Estaba seguro abora d’encontrar en las vasijas de barro un tesoro escondío n’er tiempo de fábulas y d’encantos, y el único temor que sintió fue er de no saber la fórmula mágica, la frase, la palabra arcana que debía decir n’el instante de rozar el oro con los dedos. Temía que de un momento a otro todo pudiese desaparecer como nube errante, cenizas al viento, esfumarse como un sueño al despertar. Rezó entonces en su corazón a su madre a su padre, al niño que se le había muerto al nacer, a amigos y a conocidos. “Oh mis mortichuelos” rezó “difuntos qu’amé y que conocí, ayudarme, cambiarme al fin esta dura vida mía, esta vida de pesambres y de miedo”. «Amén, amén» concluyó en voz alta, la única palabra sacra que sabía y recordaba. A gatas se puso a rascar con los dedos la tierra que apresaba la loza, con un ansia y un deseo, una delicadeza12, iguales a los que sintió cuando había tocado por primera vez las carnes de su mujer. Liberó así la primera orza panzuda y más amplia, la apretó contra el pecho, echó una ojeada al interior: negror. Estaba negro como la noche ahí dentro. Esculló la mano y tocó una materia incrustá, rascó con las uñas y sacó fuera un grumo d’una substancia que parecía carbonilla grasienta. Estuvo seguro, seguro de qu’aquel carbón había sío hasta 12 Consolo ya había destacado esta delicadeza de espíritu de Parlagreco, que contrasta con el rasgo de rudeza casi animal en su duro bregar con la tierra, en el relato “Ratumemi”, que precede a “Filosofiana”. En él presenta a un Vito que, saciado tras haber comido, acepta todo lo que le ofrece su compañero para no herir sus sentimientos: “E Petro offriva la carne a Vito. Che, sazio, per secondare l’altro, faceva finta d’azzannare e subito la passava a Trubbìa o Brucculèri. Parimenti faceva col bomobolo del vino” (cf. Le pietre di Pantalica…, p. 53). 49 ese momento oro fino, monedas resplandecientes a la par der sol, y que por magia malvá, por no saber la fórmula secreta necesaria para consolidar para siempre el oro en su estado, encontraba abora este tanino en su mano, este puñao de mierda der diablo. Miró decepcionado la orza, el ánfora panzuda y barnizada. Nunca había visto nada más hermoso. La frotó con la mano, sopló para quitarle el polvo y aparecieron figuras de color rojo: un hombre desnudo por delante con una manteleta que le caía por detrás, la mano apoyada en una lanza; una mujer con vestido liviano, las alas desplegadas en la espalda, los brazos abiertos, como un ángel que revolotease por delante; otra mujer con yelmo en la cabeza y coraza habla con un zagalico que lleva en la mano un bastoncillo con dos aros; un gato moteado de cola ondulada brinca entre dos portadores de lanzas; en la cara opuesta, un hombre envuelto en un lienzo, una cinta al reor de la cabeza, ofrece a una joven, en túnica transparente hasta los pies, una bonica taza colmada quizá de ambrosía o de malvasía. Eran figuras que Vito no entendía, escenas de hechos oscuros y de misterios, enigmas que nunca en toda su vida resolvería. ¿Y si estuviese ahí, pintao n’aquella orza, er dicho mágico, la llave para romper el encanto13? Pensó entonces, pensó qu’el único que tenía er poder como tó er mundo sabía para romper o echar conjuros, predecir er tiempo, sentir corrientes d’agua soterrás, leer er pasao y la buena ventura era en Mazzarino don Gregorio Nànfara, hombre de ley y sabio, que de mozo había estao n’er seminario, frecuentaba iglesias, conventos y monasterios, sabeor d’historia, poesía, d’astros n’er cielo, de griego y de latín. Decidió pues no tocar na’ más no fuese a echar a perder el 13 Como en el resto de Europa, y sobre todo en ambientes rurales, el imaginario colectivo siciliano cultiva leyendas de tesoros ocultos en las entrañas de la tierra. Todo campesino sueña con encontrarlo bajo su azada, pero hay que conocer la fórmula secreta para que el tesoro se vuelva real y la materia que lo reviste desaparezca, dejando paso a monedas de oro macizo o piedras preciosas. 50 encanto, dejarlo to’ com’estaba y regresarse con don Gregorio. Pero se llevó consigo la orza ya cachifollá, como prueba tangible de qu’este tesoro escondío qu’él había encontrao no era un sueño, una visión. Volvió a colocar raudo y veloz sobre la tumba la pesada lastra, esparció tierra encima para enmascarar su descubrimiento. Al llegar a la mula, su mirada cayó sobre el liebro que Tanu había abandonado en el murete: una nube de moscas le comía los ojos y la herida, una cuadrilla de hormigas le entraba por la boca. «Baaah…» hizo Vito con una mueca sintiendo angustia. Pero a la par no pudo dejar de volver a pensar n’el extraño cabrero, er zagal desaparecío n’er bosque, creatura de mudez, de solitud. Espoleó la mula y bajó corriendo hacia Mazzarino como si cabalgase un gallardo alazán, llegó a las primeras casas de Cicoria cuando ya había descendido la tarde violeta. Fue flechado al Borgo, a la vieja casa de don Gregorio Nànfara. «Chisss, chisss…» le dijo don Gregorio con el dedo sobre los labios después del relato anhelante de Vito Parlagreco. «Por amor de Dios… ¿Platicaste con arguno?». «¡Quia! Osté es er primero con quien platico. Vine de Sofiana to’ p’alante hast’acá». «Bien hecho» dijo don Gregorio. «Si jamás, de arguien que no fuese yo, la nueva traspasase la impura aurícula, se disiparía to’ encantamiento, la esperanza se tornaría desesperanza». Vito lo escuchaba atónito, perdido en pos de aquel lenguaje alado. «Chisss… Quieto parao» le ordenó don Gregorio, y se levantó de la silla detrás de la mesa para encaminarse hacia la ventana. La cerró, y entonces se dirigió a la puerta, se agachó para mirar por la cerradura por si acaso alguien estaba a la escucha. Tranquilizado, encendió la lamparilla llena de cagarrutas de moscas que colgaba en medio del cuarto, volvió a sentarse. A su paso, la habitación parecía sacudida por un terretremo, crujían bajo sus zapatos las losetas sueltas. Era un hombrón corpulento, calvo y con el cráneo reluciente, un ojo 51 bien colocado en su sitio, azul y fogoso, y el otro, de cristal, inmerso dentro del agua del vaso sobre la mesita. «Nos» continuó Nànfara «nos qu’es sólo er que te habla, nos estamos más allá de toda impureza y de toda curpa. Nos que alcanzamos a escudriñar, gracias ar saber, a la sabiduría» y señaló con amplio gesto todos los libros viejos y enmohecidos a sus espaldas «er punto imperscrutable donde la Noche y er Día se conjugan, la estrella Austral con la Polar, er viento Griego con er Garbino14, er Bien con er Mal… Parlagreco, Parlagreco, son cosas difíciles d’entender, d’explicar…» suspiró, «Parlagreco… Tú que de la lengua griega, ay de mí, perdiste la sapiencia… Es la historia, la historia, er tiempo qu’arrolla y trastorna… ¡Parlagreco!» lo interpeló más fuerte. «¡¿Sí?!» respondió al instante Vito levantando la cabeza. «¿No será qu’en Sofiana t’adormilaste, no t’habrás pasao con er tinto de Favara?». «Eh, eh…» dijo Vito con una ligera sonrisa de compasión. «Esto me lo aguardaba, don Gregorio» se agachó, tomó del zurrón que había dejado en el suelo el cántaro pintado y se lo puso delante sobre la mesa. «¿Eh?» dijo «¿Conque sueño, engañifa d’achispao? ¿Eh?». Don Gregorio alargó los brazos y pegó su único ojo sobre aquella maravilla. «¡Qué belleza! ¡Qué belleza!» exclamó con arrobamiento. «Y aún hay dos más igualicas, que yo no he tocao, y platos, orcillas y luminos pequeños». Don Gregorio tuvo una sonrisa taimada, después una risita como el que saborea la dulzura del placer. Tomó la lupa de mango largo, de las que usan los señorones para leer el periódico delante del Círculo, y se puso atentamente a estudiar las figuras dibujadas sobre 14 El “viento Griego” es el viento del Noreste, es decir el de Levante. El “Garbino” es el viento del Suroeste, también llamado viento de África, es decir el de Poniente. 52 la orza. Murmuraba palabras incomprensibles, su ojo azul tras la lupa, agrandado como el que estaba en el agua del vaso. «Don Gregorio…» lo llamó Vito al cabo de un rato. «¿Ah?… Voy, voy…» respondió, sin levantar la cabeza de su estudio. Se puso después a recitar, como si declamase un papel teatral: «Es una crátera magnífica… Un deinos15 pa’ más precisión… Representa una escena funeraria. Este hombre que s’apoya en la lanza mira tristemente a su propia muerte, personificá por la jovencica alada qu’es una Harpía; siguen los parientes, con cintas y ofrendas pa’ la ceremonia; luego Atenea ordena a Hermes que guíe ar muerto abajo n’el Hades… ¡Qué belleza, qué belleza!» concluyó. Y se levantó, se puso a pasear por el cuarto atestado y maloliente que era toda su casa, hablando y gesticulando como un abogado en el tribunal. «¡Ésta es una prueba, otra prueba más, Parlagreco, de que Grecia no existe, no ha existío jamás!… Grecia es un invento de los ingleses y de los alemanes, d’estos protestantes… To’ tuvo lugar aquí, en tierra de Sicilia… ¡Qué Troya ni Micenas, Atenas, Las Termópilas ni Salamina!… ¡Aquí, fue aquí ande to’ ha ocurrío!» golpeaba con el pie las losetas y temblaba el suelo. «Debe acabar este cuento, esta impostura enorme que dura desde hace demasiaos siglos…». Se detuvo, agarró su ojo de cristal del vaso, y rápido se lo plantó dentro de la órbita. Se irguió, miró fijamente con sus dos ojos a Parlagreco. «¡Esquilo!» bramó con todo su vozarrón. «Esquilo está sepultao aquí, en nuestro territorio al reor de Gela…». Se sobresaltó, como si de repente algo lo hubiese golpeado16. 15 Esta cerámica griega también se conoce como dinos. Se trata de una crátera o vasija grande y panzuda que suele estar montada sobre un pie o peana. 16 Plutarco relata que Esquilo, disgustado al haber sido vencido por Sófocles en una competición dramática, abandonó Atenas y se trasladó a Sicilia, donde murió hacia el año 455 a. C. Según una creencia arraigada, Esquilo estaría enterrado en los alrededores de Gela. Don Gregorio de repente, se dio cuenta de que 53 «¡San Liberador!» exclamó. «¡¿Si fuese ésta la tumba, si fuese ésta?!…» Se acercó a Vito. «¡Parlagreco!». «¿Qué?» respondió Vito intimidado, mirándolo de abajo a arriba. «¿Notaste dentro lastras con inscripciones, máscaras trágicas, estatuas menúas de comediantes?». «No, no, mesmamente no…». «¡Ah, veremos, veremos!…». «Don Gregorio…» lo volvió a llamar Vito. «¿Ah?». «¿Pero este, es un tesoro o no lo es?». «¡Lo es, lo es, sín que lo es!». «¿Y a luego qué?». «¡A luego salimos esta noche, a las tres debemos estar en Sofiana! Yyy… ¡Callaíco! ¡Que no se t’escape una palabra, tan siquiera con tu sombra o con el alma de tu padre!». «¡Sín Señó!» juró Vito llevándose la mano al pecho. «Parlagreco…». «¿Qué?». «Mil liras. No t’ofendas…». «¿Enantes?». aquel muerto desconocido bien pudiese ser el dramaturgo griego. Destaquemos otra analogía entre la Comarca de Filosofiana y el campo lorquino. También en el Cabezo de la Jara, que es la colina más alta de Puerto Lumbreras, la tradición quiere que se encuentre la tumba de los Escipiones –Cneo Cornelio y Publio Cornelio Escipión, tío y padre respectivamente de Escipión el Africano, vencedor de Aníbal–. Estos generales romanos detuvieron el avance de los cartaginenses Asdrúbal y Magón por esos entornos, pero sucumbieron en la lucha siendo enterrados en la zona. En algunos mapas antiguos de España hasta bien entrado el siglo XX aparece señalizada la zona de la supuesta sepultura. 54 «Enantes, sín. Es la costumbre. Porque si a luego a luego, Dios nos libre, la desencantadura falla, por accidente o por influjo maligno, sin ser en verdad curpa mía, adiós, si t’he visto no m’acuerdo…». Vito, resignao, se quitó la boina de la cabeza y de dentro del dobladillo interior, enrollaícos, sacó dos billetes y se los entregó, tragando saliva, a don Gregorio. «Vito, Vito, Vituco, por la Virgen de Màzzaro, ¿qué pasa? Dímelo, habla, no me dejes penando…» le imploró su mujer, pegada a la puerta, todavía con el calor de la cama, descalza, el pecho jadeante bajo su camisa de tela, cuando Vito iba a salir. «Chisss, chisss…» le dijo Vito. «Na’, na’ malo, ’tate tranquilica. A luego a luego te platico. A naide, comprendío, a naide debes dicir que salí en mitá de la noche. ¡Ojo!» y Vito le hizo una caricia, desde la nuca hasta el pecho rosado, cerró la puerta a sus espaldas y se encontró en la calle. Don Gregorio esperaba ya delante de su casa, capazo en mano, sombrero en la cabeza y un mugriento guardapolvo gris de gabardina. Vito le ayudó con gran esfuerzo a montar sobre la mula, el hombrón se asentó a mujeretas, el culo sobre el basto y las dos piernas colgando de un lado. «¿Es mansa, es mansa esta bestia?» preguntó aprehensivo don Gregorio. «Como una recién casá, una miel. Osté no esté rígido, déjese acunar como en una cuna». Vito tomó la mula por el cabestro y se pusieron en marcha, camino abajo hacia la calle Minoldo, calle Galizia, dejando atrás las casas del pueblo, carretera arriba hacia Cannavera. Llegaron a Sofiana, al lugar de la tumba, hacia las tres, con una luna casi llena, un blanco lechoso que clareaba todo el campo, y unas pocas estrellas en los márgenes del cielo. 55 Don Gregorio se dejó caer de la mula, bufando se quitó el gabanillo que relucía de grasa, abrió el capazo y empezó a sacar fuera y a disponer sobre el murete de arenisca libros, cirios, una vara, una granada, pez griega y una estola de iglesia de un brillante color escarlata. Vito se puso a rastrillar la tierra que había esparcido sobre la lastra. La limpió a fondo, como un horno antes de colocar los panes, y volvió cerca de don Gregorio. «¿Está preparao, don Gregorio?». «Eh, carma. La priesa en estas cosas es enemiga de cuarquier éxito». Y entonces don Gregorio miró a Vito fijamente a la cara. «Desnúate» le ordenó. «¡¿Eh?!». « Desnúate. En cueros». «¿Osté está de guasa?». «Parlagreco, ¿es hora de guasa? Haz lo que te digo. ¿Es acaso capricho mío? ¡Está escrito aquí, n’estos libros arcanos, n’este der Cinquecento17, n’er Rutilio18, y n’este otro, er Gran Cuadrado Maltés19!». Y diciéndolo don Gregorio agitaba los dos libros ante las narices de Vito. Vito comprendió que no había na’ qu’hacer, agachó la cabeza y se fue tras un árbol. Se desnudó, no sin haber escudriñado el campo 17 El Cinquecento alude aquí a la época de publicación (siglo XVI) del libro de Rutilio Benincasa, Almanaque Perpetuo, del cual don Gregorio cita más adelante unos versos (ver nota siguiente). 18 Rutilio Benincasa (1555-1626?). Filósofo, matemático y astrónomo. Tuvo un gran prestigio y renombre entre los seguidores de las ciencias esotéricas y cabalísticas en toda Italia, pero sobre todo en Sicilia. Su libro Almanaque Perpetuo, publicado en 1593, abarca todos los ámbitos del saber, incluyendo conocimientos botánicos y agrícolas. 19 El Gran Cuadrado Maltés es también una obra de cabalística muy apreciada por los cultivadores del esoterismo y las artes mágicas. 56 por todo el horizonte. Volvió mortificado delante de don Gregorio, sólo con los calzoncillos puestos. Don Gregorio, tanimientras, había endosado la estola roja y encendido los dos cirios colocados rectos sobre el murete. Miró a Vito que se le acercaba con sus calzoncillos largos de tela blanca sobre la piel aún quizá más blanca, menos la cabeza que destacaba negra hasta el cuello. «Parlagreco, ¿Acaso estamos en la playa de Manfria o Falconara? ¿Qué?, ¿te vas a bañar? ¡Los calzoncillos, los calzoncillos!» bramó don Gregorio. Vito, resignado, sufrió esta última afrenta de presentarse desnúo com’un gusano ante otro hombre, anque éste tuviera un solo ojo, anque fuera n’er negror de la noche. Don Gregorio le tendió las dos candelas encendidas. «Ten» le dijo «sujétalas bien a l’artura der pecho». Pero Vito no se decidía a apartar las manos de sus partes nobles. «Aaah…» dijo don Gregorio impacientado. «Vusotros los perullos estáis siempre llenos de remilgos. Mira a los azufraores, van siempre desnúos, quizá incluso ante Su Majestad». Vito se convenció y tomó en mano las dos candelas. «Vamos» dijo don Gregorio «empecemos. Desd’este momento, cuidaíco, no debes decir ni mú, tan siquiera respirar. Haz sólo lo que t’ordeno». Don Gregorio abrió delante de las candelas el primer libro, que era el Almanaque perpetuo20 y, hundida la cabeza en las páginas, se puso a recitar estas sentencias: 20 El Almanaque Perpetuo (ver notas 17 y 18) incluye unas tablas aritméticas perpetuas que supuestamente proporcionan la manera segura de acertar los números ganadores de la ruleta, la lotería, etc. Todavía hoy en día siguen circulando por Internet para beneficio de los adictos a esos juegos. 57 «Orbis nemo sua contentus sorte videtur, Mille tenensque urbes plus cumulare cupit. Cuncta perire vides; sola est virtusque perennis Quae facit aeternos nobilitatque viros. Quid juvant miser heu argentum, et aurum cumulabis Si post tartaneis tu crucieris aquis. Quisquis per mare, vel per terram acquiserit, aurum, Stultus erit, coeli cum male inquit opes» 21. Don Gregorio, con su corpachón imponente, esa voz suya cavernosa, su cabezón calvo, le semejaba a Vito el arcipreste, el obispo de Piazza o de Caltagirone. Vito temblaba de frío o de emoción, y tenía a la vez la frente llena de sudor. «Procedamus, procedamus…» dijo don Gregorio. «Vayamos a la tumba». Volvió a poner raudo en el capazo todos los pertrechos que había traído, se puso a caminar tras Vito, que alumbraba con las dos candelas. Pero el brillo de la luna era más fuerte que el de las dos llamitas, tanto que las sombras de los dos hombres caían justo a sus pies y se movían con ellos. El grito de una lechuza se oyó en aquel momento llegar desde la cima de un árbol cercano. Don Gregorio murmuró alguna palabra que era sin duda un conjuro contra aquel pájaro nocturno de mal agüero. Vito se detuvo delante de la lápida. Entonces don Gregorio, con su manera de obispo tonante, volvió a leer en otro libro: palabras oscuras, nunca oídas antes, y, aún si se llegasen a oír, palabras por su propia naturaleza irrepetibles, por mí que escribo, por ti que lees, por nosotros pobres hombres cargados de culpas, nosotros que nos movemos ciegamente en este mundo, 21 Consolo me pidió que no tradujera estos versos en latín algo macarrónico, para mantener el aura esotérica en torno a D. Gregorio. 58 ignorantes de todo lo sacro, todo lo arcano. Y mientras salmodiaba, don Gregorio echaba sobre la lápida las hierbas que tomaba una a una del capazo, llamándolas por su nombre. «Pimpinela» decía «Petrosela, Buglosa, Chalote, Nabo, Apio, Pastinaca…». Y sin dejar de leer, empezó a trazar con la vara sobre la lastra círculos, triángulos, cuadrados. Después colocó con respeto el grumo ambarino de pez griega. «Dame una candela» dijo a Vito. Con la llama, prendió fuego a la resina, que se inflamó y se derritió dejando sobre el barro cocido una hermosa mancha como una meada. Don Gregorio mojó ahí el pulgar, se acercó a Vito y le hizo la señal de la cruz en la frente, los labios, la barbilla, el corazón, el umbligo… pronunciando a cada vez esta palabra: «Labis, labis, labis, labis, labis…» Vito lo dejó hacer, ahora ya impasible y frío como una estatua. Tomó por último don Gregorio del capazo la granada y se la llevó a Vito. «Parlagreco» le dijo «ésta es la parte más difícil: to’ depende de ti. Tienes que comer esta graná sin dejar caer ar suelo un solo grano». Vito dijo que sí con la cabeza y tragó aire haciendo correr a lo largo del cuello su nuez que era puntiaguda como el esternón de un pájaro. Abrió lo más grande que pudo la boca de su horno, embocó la granada, le hincó los dientazos, masticó y deglutió. Sólo una gota de jugo le resbaló por la barbilla, y fue raudo en recogerla con la lengua antes de que le cayese sobre el pecho22. «¡Bravo! ¡Bravo!» casi gritó don Gregorio que lo observaba atento con la candela en la mano. «¡Extraordinario!». 22 La capacidad de deglución de Vito Parlagreco ya la había señalado anteriormente Consolo en el relato “Ratumemi”, que precede al de “Filosofiana”. Cf. Le pietre di Pantalica…, p. 51: “Vito Parlagreco, ch’era magro, ma capace di mangiarsi per scommessa una madia di pasta con il sugo (…)”. 59 Vito esbozó una apagada sonrisa de satisfacción, sonrisa que se trocó rápidamente en una mueca de eructo. «¡Levantemos abora esta lápida!» ordenó solemne don Gregorio. Y esta vez Vito no necesitó la palanca del azadón, sino que levantó a pulso la pesada lastra con las manos. Lo primero que les saltó a la vista, aún más blanco por la luna que lo inundaba todo, fue el esqueleto que afloraba del antiguo muerto. Don Gregorio quedó deslumbrado, estupefacto. A poco a poco abajó a la tumba, y solemne, como hablando con el muerto, declamó: «¿Eres tú er trágico sumo que dio palabra ar dolor inexpresable der mundo? ¿Eres tú er divino23 Esquilo?». En el silencio que siguió a la pregunta, se oyó más fuerte la risa burlona del pájaro en lo alto del árbol. Y a luego una voz, como si viniese del cielo o de las profundidades de la tierra: “Légo kat’andra, mè theón, sèbein emé…” 24 Don Gregorio se convirtió en estatua de sal, miró a Vito que permanecía inmóvil en el bordillo con la candela en la mano. «Parlagreco» le dijo con voz trémula «¿tú hablaste en griego?». Vito, fiel a la consigna de no proferir palabra, sacudió la cabeza para decir que no. «¿Pero uíste, uíste un verso griego?». 23 El autor me confirmó que el verso de Esquilo que cita a continuación (cf. la traducción en la nota siguiente) es la contestación al calificativo de “divino” que Don Gregorio aplica al dramaturgo griego. De esta manera Esquilo quiere refutar cualquier connotación divina que sus admiradores le atribuyen para ser única y exclusivamente honrado en su condición humana. 24 “Quiero que como a un hombre, no como a un dios, me honres”. Esquilo, Agamemnón (Nota del Autor). 60 Vito sacudió de nuevo la cabeza. «Ah» dijo cabizbajo don Gregorio «ésta es una noche mesmamente rara, noche de misterios impenetrables… Vamos, Parlagreco, desenterremos esta vajilla». Vito, que esperaba con ansia esta orden, saltó al foso, se puso a cuatro patas y empezó a rascar la tierra con las uñas, como un can que busca trufas25. Liberó la primera vasija y se la llevó a don Gregorio. Nànfara, asentado en el suelo, la apretó entre sus muslos. Jadeaba. También la respiración de Vito, acucunado a su lado, era intensa. El busca tesoros esculló la mano, no sin haber dirigido primero al cielo, a la luna, su mirada tuerta suplicante murmujeando entre dientes sus letanías. Na’. También esa gran vasija resultó estar vacía, llena d’aire, con sólo una masa grumosa y carbonosa n’er fondo. Y con la segunda fue lo mesmo. Los dos hombres se quedaron como embobados. Don Gregorio, sin mirar a Parlagreco, fue después hasta la mula y volvió con una azadilla. Con ella, se puso a revolver el fondo de la tumba, a desenterrar tiestos, platos, lamparillas, que iba amontonando en el bordillo del foso a medida que los sacaba. Embistió a lo último contra los huesos del muerto que, apenas tocados, se deshicieron como si fuesen de azúcar. Sólo el cráneo resistió, con la dentadura de reluciente marfil intacta. Y bajo la cabeza de aquel muerto don Gregorio descubrió el mascarón de un hombre grotesco de pelo ensortijado en la frente, orejas como abanicos, ojos grandes y boca risueña que dejaba colgar la lengua fuera. “¿Pero qué quié decir esto, qué quié decir?” se preguntó don Gregorio. “¿Es una cochina guasa, nos la dan por culo? ¿En lugar 25 Consolo subraya de nuevo el paralelismo entre el labrador y los animales, ya sean bestias de carga (como en la expresión “enderezar el lomo”) o domésticos, como en este ejemplo (un perro de caza). 61 d’Esquilo estaría aquí Aristófanes? ¿La tragedia s’ha trastocao en farsa?” Y, jodío como estaba por el chasco de no haber encontrao una señal, una inscripción qu’indicase n’aquella tumba la presencia d’Esquilo, descubrimiento qu’habría confirmao sus tesis, l’habría dao fama en to’ er mundo, tomó la terracota injuriosa y la estampó estrellándola contra la pared de la tumba. El Parlagreco, cabizbajo, había ido a vestirse. La luna tramontaba, cuasi redonda, burlona como el mascarón, don Gregorio le lanzó una última mirada. “Luna, quasi Lucina, oh Reina gobernaora de las cosas naturales interiores…” repitió para sí. Y después, citando a Trismegisto26: “Detrimentum Lunae est detrimentum totius naturae…”. «Pero es creciente, creciente, ¡cochino demonio!» prorrumpió. Desde oriente ahora, del lado de Piazza y de la gran montaña que humeaba, se expandía un claror color rosa. «Don Gregorio, ¿vamos? Dentro d’una miaja tengo que vorver aquí a la faena…» le dijo Parlagreco. «Vamos, vamos» respondió don Gregorio, haciéndose ayudar para salir de la tumba. «Antes debemos recoger estas cosas… Estas vasijas me las llevo a casa, las quiero estudiar, quiero entender, entender por qué…». «¿Qu’hay qu’entender abora?…». «Po’ hay que, hay que…». Y el Parlagreco, para poner priesa, poner en marcha a ese fulero, recogió vasijas, platos, jícaras, luminos, los echó todos dentro del saco. 26 La identidad y datación de Hermes Trismegisto (cuyo nombre designa al dios mitológico tres veces grande) son inciertas y legendarias. Se le atribuye la autoría del Kybalion y del Corpus Hermeticum, un compendio de ideas filosóficas y religiosas de origen egipcio y griego. En todo caso, Hermes Trismegisto es considerado el primer alquimista, es decir el primero en buscar la piedra filosofal que trasmute la materia en oro. 62 Llegaron a la entrada del pueblo cuando los otros labradores salían, sobre sus mulas, asnos, yeguas. Saludaron, al cruzarse, al Parlagreco, y con respeto también a don Gregorio asentado sobre la mula, con el saco de vasijas apretado contra la barriga. Parecían así, los tres, una Huída a Egipto. Liada la mula a una argolla de la pared, Vito descargó las cosas de Nànfara y subió con él a su casa para ayudarlo. «Asiéntate» le dijo don Gregorio. «Hago café». «Tengo qu’irme. La paya está en peso…». «Dos minutos…». Don Gregorio, se quitó el ojo de cristal y echándolo en el vaso, se puso a trajinar con la cafetera napolitana. Bebieron el café, fumaron, escudriñándose mutuamente pa’ averiguar por dónde iba a salir ca’ cual. Vito temía que le fuese a pedir aún más perras. «¿Tiés hambre, Parlagreco? Yo desde ayer a mediodía no he catao bocao». «¡Ande que yo!». «Tengo magra…». Y al instante puso sobre la mesa pan, queso y una botella de vino de Favara. «Tú quizá pienses» empezó a decir don Gregorio masticando «qu’ha sío curpa mía… Yo estoy en paz, en conciencia, he hecho to’ según las leyes rituales… ¿Qué te crees? Pasé to’ er tiempo, desde que te fuiste, leyendo, consultando libros… Pero argo ha pasao, que ni yo, ni tú, ni tan siquiera los libros han previsto… Es esto lo que m’esfuerzo por entender… Dime: ¿tuviste sueños, señas, viste cosas raras enantes de dar con esta tumba?». «Boh… Sueños, naíca. Señas, cosujas sin importancia… Ayer pasó por Sofiana un cabrerico con las ovejas, un zagal múo… Luego, una bandá d’airones que migraba… Y er cabrerico, Tanu, me dejó como regalo un liebro qu’había matao con su honda». 63 «Ah, ¡cochino demonio!» tonó don Gregorio dando un puñetazo sobre la mesita. «¡¿Y no m’has dicho na’ enantes?!». «Osté no me preguntó na’…». «¿Y hacía farta?… Parlagreco, aquel no era un cabrerico de verdá, un zagal humano, era un visivilo disfrazao, un martinico… Y er liebro, er liebro, ¿qu’hiciste con él?». «Lo dejé allá, sobre er poyete… No me gusta na’. Tampoco a la paya, ni a los zagales les gusta la caza…». «¡Desgraciao! ¡Debías habértelo comío, haberlo comío, anque crúo!». Vito se sintió humillado por esta acusación que lo culpaba del fracaso. Tomó, para animarse, la botella de vino y llenó con furia el vaso. Se lo tragó de golpe. Pero, al beber, ingirió también algo sólido y liso. «Don Gregorio» preguntó, dejando el vaso sobre la mesita «¿qu’había n’er vino?». «¿Qu’había?» y don Gregorio miró en transparencia la botella, miró después el vaso vacío. «¡ Desgraciao!» bramó «¡Mi ojo! ¡T’has tragao mi ojo!». «¡Ah!» dijo Parlagreco escupiendo en el suelo con angustia. Enseguida, con la calor de la cara subiéndole a las cejas: «¡Pero cegato asqueroso!… ¿Pero es que se mete el ojo n’er vaso?». «¿Y ande lo meto, eh? ¿N’er culo me lo meto? Es una custión d’higiene, d’higiene… Claro, que vusotros perullos qué vais a entender…». «Yo me largo». Don Gregorio, de un brinco, alcanzó la puerta de la habitación. «¡Tú no te mueves d’aquí si enantes no me cagas el ojo!» le intimó «Es más, voy enseguía a mercar sal inglesa» y diciendo esto, salió, cerrando la puerta a sus espaldas acerrojándola con todas las llaves. 64 IV. RELACIÓN COMENTADA DE REGIONALISMOS Y OTROS MATICES DEL TEXTO El estudio de los regionalismos y de otros matices relevantes a la hora de traducir “Filosofiana”, tal y como se llevará a cabo en este apartado, se centra en el comentario de aquellos vocablos por los que he optado para la traducción al español. Según queda señalado en la Introducción, en esta segunda edición he hecho extensivo a todo el relato el habla murciana, aún cuando no se corresponda con un regionalismo siciliano en el texto italiano. Con todo, dentro del discurso narrativo he procurado limitarlo a aquellos pasajes en los que –detrás de la voz del narrador– se percibe el pensamiento o la cosmovisión del personaje, y no en los meramente descriptivos o en aquellos otros, mucho más poéticos en los que claramente habla Consolo. Naturalmente los regionalismos y las singularidades del habla murciana se encuentran presentes en los diálogos y, al igual que en la primera edición, en los casos en que aparece un sicilianismo en el texto original. Como ya he anticipado en el prólogo a la presente edición, la secuencia de los términos comentados en el glosario sigue en esta segunda edición un orden alfabético que permitirá localizarlos de manera rápida y efectiva, en lugar de seguir el orden de aparición en el texto traducido, tal y como sucedía en la primera edición. Tampoco quedan señalados los términos comentados en el corpus de la traducción mediante asteriscos, pues se hace innecesario gracias a la nueva ordenación alfabética. 65 Por último, las equivalencias al italiano de los términos comentados en el presente glosario corresponden únicamente a las de su primera aparición en el relato de “Filosofiana”. Conviene tener presente, sin embargo, que a menudo estos mismos términos vuelven a aparecer en otros contextos a lo largo de la narración. a luego a luego: poi (Le pietre…, p. 79) La locución adverbial “a luego a luego” ha caído en desuso en España hasta el punto de que el diccionario de uso de María Moliner (2007) la omite, a pesar de que el DRAE (2001) la sigue recogiendo. En la región murciana y más concretamente en el campo lorquino sigue siendo una expresión habitual y de uso corriente. Me ha parecido oportuno emplearla aquí, durante la intervención de Parlagreco, porque sin ser regionalismo (como tampoco lo es poi) rinde el valor arcaico propio del habla rural. En otro pasaje posterior del relato, esta misma locución permitirá reflejar en su propia estructura formal la repetición presente en el original: Dappoi, dappoi (Le pietre…, p. 89). a mujeretas: a modo femminino (Le pietre…, p. 89) Aún cuando este regionalismo murciano se utilice en singular con el sentido de “hombre afeminado”, la locución plural “a mujeretas” empleada para hacer alusión a la forma de montar (a caballo, mula, etc.) significa simplemente montar sentado en amazona, con las dos piernas de un lado. a poco a poco: a mano a mano (Le pietre…, p. 76) Expresión murciana con prótesis de la “a” inicial en lugar de “poco a poco”, que rinde la estructura de la locución a mano a mano. abora: ora (Le pietre…, p. 81) Regionalismo propio del habla murciana, que alterna con las variantes “aboa”, y “agora”, equivalentes todas de “ahora”. 66 acucunaíco: accovacciato (Le pietre…, p. 79) Regionalismo propio del habla murciana, de uso corriente. Significa “acurrucado”, “encogido”, “arrinconado”. achispao: imbriaco (Le pietre…, p. 86) Esta voz (“achisparse”) es un regionalismo popular con el sentido de “excederse con la bebida, emborracharse”, valor que se corresponde con el término siciliano imbriaco. al reor de las: torno alle (Le pietre…, p. 75) Deformación fonética propia del habla rural murciana que equivale a “alrededor de”. alcaciles silvestres: carciofi di ventura (Le pietre…, p. 75) El vocablo “alcacil” es una forma popular para designar la alcachofa, aunque no se circunscribe únicamente a la región murciana, ya que también se emplea en otras regiones. aljibes: gèbbie (Le pietre…, p. 76) A pesar de que no se trata de un regionalismo propiamente dicho puesto que este término se utiliza en toda España con distintos matices, en Murcia la valencia semántica de este vocablo se corresponde exactamente con la gèbbia siciliana. Ambos comparten la misma etimología. En Sicilia, el término “gèbbie” deriva del árabe clásico “gˇibb”, al tiempo que en Murcia la palabra “aljibe” proviene del árabe hispánico “algˇibb”. ¿Ande vas?: Dove vai? (Le pietre…, p. 79) Modificación fonética mediante contracción, propia del habla murciana. Equivale a “a dónde (vas)”. angustia: con smorfia di sconcerto (Le pietre…, p. 85) Regionalismo semántico del habla murciana, que limita el término a 67 una sola de las múltiples acepciones recogidas por el DRAE: (“náuseas” o “ganas de vomitar”), con idéntica valencia a la del vocablo siciliano scuncirtatu (estar con náuseas). De ahí que “tener o sentir angustia” en el sentido de “tener náuseas” se pueda considerar un regionalismo semántico del habla murciana. Bien es verdad que en italiano la palabra italiana sconcerto significa “estar confuso o desconcertado”, y que también en el resto de España la palabra “angustia” se utiliza extensivamente en su primera acepción de “congoja” o “ansiedad”. Con todo el uso de sconcerto en la narración de Consolo se corresponde con la acepción semántica del vocablo siciliano, por lo que la forma murciana utilizada en la traducción es la que mejor rinde esta valencia regional. Aparecerá de nuevo al final del relato: sputando a terra sconcertato (Le Pietre…, p. 97), traducido como “escupiendo en el suelo con angustia”. anque: sia pure (Le pietre…, p. 90) Modificación fonética por supresión de una vocal, propia del habla murciana (“anque” por “aunque”). apañás: bellissime (Le pietre…, p. 77) El término lumbrerense “apañada” (aquí con la supresión de la “d” intervocálica para rendir mejor la fonética regional) alude sobre todo al aspecto físico y viene a ser sinónimo de “guapo” o “de buen ver”. argo: qualcosa (Le pietre…, p. 96) Mutación de la “l” por “r” (“argo” por “algo”), propia del habla murciana. (se) asentó: sedé (Le pietre…, p. 75) La forma “asentarse” proviene de la modificación mediante prótesis de la “a” del término “sentarse”. Se trata de un uso propio del campo murciano. Aunque en realidad, el término existe como tal. De hecho viene recogido en el DRAE. Con todo, ya no se emplea con esta acepción 68 de “sentarse”, como no sea en el habla regional. Idéntica forma aparecerá más adelante en el texto original, asséttati (Le pietre…, p. 95), ajustándose perfectamente al vocablo “asentarse”. Esta voz, habiendo caído también en desuso en italiano, permanece en vigor como regionalismo. arguien: alcuno (Le pietre…, p. 85) Mutación de la “l” por “r” (“arguien” por “alguien”), propia del habla murciana. argún: qualche (Le pietre…, p. 78) Mutación de la “l” por “r” (“argún” por “algún”), propia del habla murciana. Lo mismo sucederá con la forma femenina: “arguna” por “alguna”. argo: qualche (Le pietre…, p. 78) Mutación de la “l” por “r” (“argo” por “algo”), propia del habla murciana. artura: altezza (Le pietre…, p. 90) Mutación de la “l” por “r” (“artura” por “altura”), propia del habla murciana. aspeao: stanco (Le pietre…, p. 80) Regionalismo propio del habla murciana, que significa “cansado”, “agotado”, con la pérdida intervocálica de la “d”. avíos: cose per mangiare (Le pietre…, p. 77) El término “avíos” se utiliza en el campo para aludir a la “provisión que se lleva al hato para alimentarse”. En otros contextos puede significar un conjunto de utensilios o herramientas, así como de otra clase de enseres. No me ha parecido oportuno en este caso optar en español por una traducción literal (“las cosas para comer”) porque rompe el carácter rural del discurso. 69 ayudarme, cambiarme: aiutatemi, cangiate (Le pietre…, p. 83) El uso del infinitivo en lugar del imperativo es propio del habla regional y se emplea de forma habitual en el campo murciano. bancal: tumulo di terra (Le pietre…, p. 75) Esta medida, la del tumulo, corresponde aproximadamente a la de un bancal en la zona murciana. boca de su horno: bocca del suo forno (Le pietre…, p. 92) En los ámbitos populares el “horno” se utiliza como expresión burlona para calificar las bocas grandes (“tienes la boca como un horno”). botijos: bombole (Le pietre…, p. 75) En Sicilia el término bombola indica más que una bombona, un recipiente de barro para mantener el agua fresca. Corresponde por tanto a nuestros botijos y cántaros. ca’ espuntar: a ogni rispuntar (Le pietre…, p. 78) Alteración fonética propia del habla rural murciana en la que el término “cada” se reduce por apócope. Equivale a “cada despuntar”. caballones: montarozzi (Le pietre…, p. 76) Regionalismo utilizado en todo el campo murciano y, en particular, en el de Lorca. Designa los montículos de tierra o de otros materiales que se acumulan entre surco y surco o también en los lindes de los terrenos y bancales. cabrerico: garzoncello (Le pietre…, p. 78) En español existe la palabra “garzón” pero con el significado de “joven mancebo”, ayudante de Guardia de Corps. Otra de sus acepciones es la de “joven sodomita”. Ninguna de ellas, por supuesto, se asemeja al sentido de garzone, a pesar de que se trata obviamente 70 del mismo vocablo. Por esta razón no he podido utilizar “garzón” en la traducción. Con todo, para rendir el matiz aportado por la forma siciliana garzoncello he recurrido una vez más al sufijo “ico”, propio del habla murciana. cachifollá: fallita (Le pietre…, p. 84) No se trata de un regionalismo propiamente dicho. De hecho, el término “cachifollar” aparece recogido en el DRAE. Ha caído en desuso pero sigue vigente en el habla de la región lorquina. Aquí “cachifollá” significa “estropeada”. calistros: calipso (Le pietre…, p. 75) Regionalismo de Lorca y Puerto Lumbreras. Tanto en Sicilia como en la región murciana, la deformación de la palabra culta “eucalipto” se produjo de la misma manera mediante aféresis del diptongo “eu” y alteración de consonantes. (la) calor de la cara subiéndole a las cejas: facendosi paonazzo (Le pietre…, p. 97) En el campo murciano la palabra murciana “calor” se utiliza mayoritariamente en femenino. Toda esta perífrasis no es un regionalismo propiamente dicho, pero sí una expresión con un grafismo típicamente popular para indicar el enrojecimiento de la cara producido por una cólera o indignación súbita muy violenta. El poeta y escritor de Cuevas de Almanzor, José María Martínez Álvarez de Sotomayor, recurre frecuentemente a ella. cansera: fatica (Le pietre…, p. 80) Preciosa palabra anticuada pero que volvió a tomar un nuevo vigor a raíz del poema “Cansera” –escrito en regionalismo murciano– del poeta murciano Vicente Medina (1866-1937), siendo actualmente la que se utiliza corrientemente en todo el campo de Murcia para 71 indicar a la vez el cansancio físico y el moral. Adopta en otras regiones españolas distintos significados (en Andalucía, por ejemplo, “tener una cansera” es el eufemismo para “estar tuberculoso”). cañadú: cannamèle (Le pietre…, p. 76) El término “caña de azúcar” es el empleado mayoritariamente en España con preferencia a los de “cañaduz” y “cañamiel” siendo sinónimos entre sí (DRAE y MM). Sin embargo, tanto en el campo murciano como en el de la zona de Levante, los labriegos utilizan la voz “cañadú” con apócope del fonema “z” final convirtiéndolo así en un regionalismo, que corresponde a cannamèle, si bien no alude exclusivamente a la caña de azúcar. En la zona de Águilas este término se utiliza para referirse a una clase de naranjas especialmente dulces. También existe el vocablo “palodú”, que designa cualquier planta de sustancias dulces, como el regaliz o el orozuz, y que en algunos ámbitos rurales se confunde con la caña de azúcar. Por su parte, el regionalismo “cañadú”, al ser menos usual, consigue evocar en un lector de otras regiones de España las mismas valencias que la palabra “cannamèle” en italiano. carma: calma (Le pietre…, p. 89) Mutación consonántica de la “l” por la “r” (“carma” por “calma”), propia del habla murciana. cascajera: ciaramitàra (Le pietre…, p. 75) Regionalismo ampliamente utilizado en todo el campo murciano que significa un terreno en donde se echa toda clase de desperdicios y, sobre todo, tiestos y trozos rotos de barro. casquijos: ciaramìte (Le pietre…, p. 75) El regionalismo murciano “casquijos” indica toda clase de guijarros y pedazos, principalmente piedras pequeñas y restos de vasijas de barro. 72 cenia: sènia (Le pietre…, p. 76) El término sènia ya no es propiamente un sicilianismo porque se ha incorporado al vocabulario italiano (cf. Mortillaro). Tampoco “cenia” es un regionalismo propiamente dicho, si bien se utiliza sobre todo en Valencia y en algunas zonas del Levante en lugar de “noria”. Tanto “cenia” como sènia son en todo caso menos usuales que “noria” y su correspondiente italiano noria, al tiempo que comparten idéntico sabor añejo. cimiterio: cimiterio (Le pietre…, p. 75) Se trata de la alteración fonética de la palabra “cementerio”, propia de los ambientes rurales de la región murciana. También la palabra cimiterio del original presenta una ligera modificación regional. corgando: pendula (Le pietre…, p. 81) Mutación de la “l” por “r” (“corgando” por “colgando”), propia del habla murciana. cormá: ricolma (Le pietre…, p. 82) Mutación de la “l” por “r” (“cormá” por “colmada”), propia del habla murciana. En este caso, también se ha contraído la terminación en “-ada”. creatura de mudez, de solitud: creatura mùtola, solinga (Le pietre…, p. 85) En español los adjetivos “mudo” y “solitario” no rinden el valor literario, lleno de resonancias arcaicas, que encierran las voces italianas mùtola y solinga. Por esta razón he preferido recurrir a los sustantivos “mudez” y “solitud”, anticuados y también literarios, para conservar el sabor añejo que ha querido transmitir Consolo, sin traicionar por ello el sentido del original. De igual modo y por idénticas razones, he optado por la forma “creatura”, que ha perdido cierta vigencia en el español de hoy en favor de “criatura”. 73 cuarterola: quartàra (Le pietre…, p. 82) Palabra en desuso pero que se corresponde exactamente con la voz siciliana quartàra. Se trata de la cuarta parte de un barril u otro recipiente. cucalas: ciàule (Le pietre…, p. 75) En Murcia, sobre todo en el campo de Lorca, se utiliza el término “cucala” para toda especie de pájaros negros, desde los cuervos hasta las cornejas. curpa: colpa (Le pietre…, p. 86) Alteración fonética mediante la mutación consonántica de la “l” por la “r”, propia del habla murciana. chicoria: cicorie (Le pietre…, p. 76) Término que alterna con el de “achicoria” en español. Al igual que cicorie, no se trata de un regionalismo. He optado por la forma “chicoria” por ser la que mejor se corresponde con la italiana y por tratarse además de la variante regional murciana. dalante atrás: avant’arriere (Le pietre…, p. 78) Regionalismo murciano. Equivalente exacto del avant’arriere siciliano, trasunto de los dos adverbios franceses avant y arrière: delante y detrás. dende la mañana dasta la tarde: da mane a sera (Le pietre…, p. 78) Deformación fonética propia del habla rural murciana que equivale a “desde la mañana hasta la tarde”. desencantadura: spegnatura (Le pietre…, p. 88) Se trata de un neologismo consoliano. Para mantener el mismo valor lingüístico y literario de spegnatura he reproducido su creación con otro neologismo. 74 empedrao: macco (Le pietre…, p. 77) Forma popular de la palabra “empedrado”, con pérdida de la “d” intervocálica. Es el típico guiso del campo murciano, hecho a base de habas y de arroz, semejante pues al macco siciliano. enantes: avanti (Le pietre…, p. 88) Forma propia del habla campesina de Murcia, en la que se combina la preposición “en” con la locución “antes de”, probablemente por la elisión de un gerundio (como por ejemplo “en llegando antes de”), y que se usa con el sentido de “antes de”. encomedias de: fra mezzo a (Le pietre…, p. 75) Esta preciosa locución preposicional lorquina, “encomedias de”, significa exactamente “en medio de”. También existe la forma masculina singular “encomedio de” con el mismo valor. Ambas locuciones rinden el sabor del original. enderezar el lomo: rizzare la sua groppa (Le pietre…, p. 76) Tanto el término italiano groppa, como el español “lomo” se utilizan principalmente para aludir a la espalda de los animales. Según me hizo observar pertinentemente Segre, Consolo lo emplea de manera consciente para subrayar la animalidad del duro trabajo en el campo del labrador, por lo que en la presente edición he querido rendir la misma valencia conservando la literalidad del original por medio del término “lomo”. De esta manera también se subraya el contraste con la expresión posterior “ponerse derecho como un hombre”. er día: il giorno (Le pietre…, p. 78) La forma “er” es una deformación fonética propia del campo murciano en la que se ha producido la mutación consonántica de la “l” por la “r”. Se trata de una constante fonética típica del habla rural de esta región y se encuentra presente no sólo en los artículos seguidos de consonante 75 (“er” por “el”, “ar” por “al”), sino también en muchas otras palabras (“argo” por “algo”, “farta” por “falta”, etc.). escullir: scivolare (Le pietre…, p. 78) Regionalismo semántico propio del habla murciana, que significa “resbalar”, “deslizar”, “caer” (aunque viene recogido en el DRAE). Este mismo verbo (“esculló”) se hará corresponder también con infilò (Le pietre…, p. 83), que aparecerá más adelante en el texto. faena: travaglio (Le pietre…, p. 77) El término “faena” no es propiamente un regionalismo, como tampoco lo es en puridad travaglio. Con todo, uno y otro aluden a un trabajo laborioso. Por su parte, la palabra “faena” es la que se usa en toda la zona del Levante para aludir de forma habitual y popular a toda clase de trabajo duro, pero sobre todo al agrícola. fanega y media: mezza salma (Le pietre…, p. 75) La palabra “fanega” es la medida de tierra que se utiliza en todo el Levante. Existen dos clases de fanega: la grande y la pequeña. En el campo murciano se utiliza más la grande, que equivale casi a una hectárea. Para ofrecer la equivalencia que más se aproxima a la medida de tierra del original he traducido mezza salma por “fanega y media”, ya que la salma tiene una medida superior a dos hectáreas. El término español “salma”, tomado del italiano, se sigue utilizando en la zona Mediterránea pero como medida de capacidad equivalente a una tonelada. farta: bisogno (Le pietre…, p. 96) Mutación consonántica en la que se intercambia la “l” por la “r” (“farta” por “falta”), propia del habla murciana. fieros: foresti (Le pietre…, p. 77) En algunas zonas de España el adjetivo “fiero” ha caído algo en desuso con el valor semántico de “feroz”, aunque en la zona lorquina se sigue 76 empleando de forma habitual con esta misma valencia. Se podría considerar por lo mismo un regionalismo. garullos y pavos: ciurri e pavoni (Le pietre…, p. 76) Puesto que no existe un regionalismo específico para nombrar al pavo, he elegido la palabra “garullo”, relativamente poco conocida, para mantener el mismo efecto de sorpresa lingüística en un lector español que Consolo consigue en italiano con la palabra ciurri. hato: trùscia (Le pietre…, p. 77) Término manchego muy utilizado en el campo lorquino. Se trata de una tela gruesa dentro de la cual se lía la comida que se lleva el trabajador para el día. hombrón: omone (Le pietre…, p. 86) He optado por “hombrón” en lugar de “hombretón”, que es sin embargo más usual, por su similitud fonética con el original omone. Pirandello fue el primero en Italia en utilizar literariamente este aumentativo, que a partir de él se divulgaría ampliamente. hormiguicas: formicole (Le pietre…, p. 78) Aunque formicole no sea un diminutivo, se trata de una forma propia del siciliano (en lugar de formiche). En este caso he optado por el diminutivo del término “hormiga”, empleando el sufijo regional de origen aragonés “-ico”, que es habitual en el habla murciana. Con ello, se rinde el mismo empleo del regionalismo que en el original. imperscrutable: imperscrutabile (Le pietre…, p. 86) He conservado el mismo tono culto, algo rebuscado, del término imperscrutabile, optando por el vocablo español “imperscrutable” (en lugar de “inescrutable”), que rinde el carácter literario del vocablo italiano. 77 inseculorum sécula: seculi e seculorum (Le pietre…, p. 77) España, como Italia, sigue manteniendo vivas en la lengua expresiones latinas, ya sean éstas clásicas o eclesiásticas. En los ámbitos rurales dichas expresiones padecen una lógica deformación fonética. ivernada: invernata (Le pietre…, p. 80) Arcaísmo que sigue vigente en el habla murciana. Al igual que sucede con el término “ivierno” (“invierno”), este tipo de regionalismos permanece más fiel a su etimología latina. jinjolero: zìzzole (Le pietre…, p. 76) El autor no eligió esta vez un regionalismo, sino que empleó el clásico término zìzzole (“azufaifos”). En la región murciana se utiliza la palabra “jinjolero” para designar dicho árbol frutal, siendo este vocablo más conocido que su sinónimo “azufaifo”. Aunque en la primera edición, por razones de similitud fonética con el original, había optado por “azufaifo”, para esta segunda edición he preferido emplear el término con mayor sabor regional. jugaban a coscoletas: giocavano in groppa (Le pietre…, p. 77) La expresión habitual murciana que se corresponde con la española estándar “a caballito” es “a coscoletas”. Aún cuando Consolo haya prescindido de un regionalismo siciliano, también en esta ocasión he preferido privilegiar la forma regional. lampo: lampo (Le pietre…, p. 78) Ambos términos, el italiano y el español, comparten idéntica etimología, del bajo latín “lampare” (brillar). La palabra española “lampo” ha caído en desuso en buena parte de España, aunque se sigue utilizando en la región murciana, donde se conserva también en algunas localidades la variante “llampo”. En Puerto Lumbreras el empleo de “lampo” sigue vigente y significa “relámpago”, así como “rapidez” y “fugacidad” en su acepción metafórica. 78 lebrillas: lemmi (Le pietre…, p. 75) En Murcia se emplea la forma femenina “lebrilla” para indicar un cuenco más pequeño que el “lebrillo”. lenjos: lontano (Le pietre…, p. 79) La incorporación de una “n” después de la vocal en muchas palabras es típica del habla murciana. Se trata de una alteración fonética de uso muy extendido en las zonas rurales (“lenjos” por “lejos”, “muncho” por “mucho”, etc.). lero: tarantole (Le pietre…, p. 75) El nombre que se da a la tarántula en Lorca y Puerto Lumbreras es “lero”, término que no se recoge en el DRAE por ser propiamente un regionalismo. liebro: lepre (Le pietre…, p. 81) La forma “liebro” viene recogida en el DRAE y se usa para hacer referencia al macho de la liebre. Con todo, en la zona murciana es el término que los cazadores utilizan habitualmente para referirse en general a las liebres. liopardos: liopardi (Le pietre…, p. 77) Idéntica alteración fonética en las dos zonas, la siciliana y la levantina, con el mismo cambio de vocal. luminos: lumere (Le pietre…, p. 83) Regionalismo murciano que significa “lamparilla de aceite”. martinico: monachino (Le pietre…, p. 96) Tanto el DRAE como el MM dan únicamente a este término la valencia de “duende” o “fantasma”, sin mayor especificación. En cambio, en la región murciana (principalmente en la ciudad de Murcia donde se 79 sigue utilizando corrientemente) se identifica al “martinico” con el duende juguetón que reside principalmente en las casas. Se puede por lo tanto considerar este término (enriquecido con esta acepción) como un regionalismo característico de la zona. El valor semántico de esta palabra se identifica plenamente con la del monachino siciliano. mercao: accattata (Le pietre…, p. 75) En italiano accattare significa “pedir, adquirir con esfuerzo”, al tiempo que en siciliano es simplemente “comprar” (cf. Mortillaro). Sin embargo, Consolo me aclaró que eligió este verbo para indicar que Parlagreco había comprado “con muchos sacrificios” su terreno. Para rendir este regionalismo al habla murciana, he elegido el término “mercar”, que también significa “comprar”. Este vocablo, que ha caído en desuso en buena parte del territorio nacional, viene recogido en el DRAE y se sigue utilizando en la región murciana. mesmamente: veramente (Le pietre…, p. 88) Regionalismo murciano, muy en uso todavía hoy en día en ámbitos rurales. Se trata de una modificación fonética mediante el cambio vocálico de “mismamente”. Significa “precisamente”, “cabalmente”. mis mortichuelos: morticelli miei (Le pietre…, p. 83) Regionalismo específico de la zona murciana en donde alterna también con la forma “mortisuelo”. Este término se emplea sobre todo para aludir a los niños que mueren al nacer. Por afinidad se extiende afectivamente a los muertos más íntimos. Por razones fonéticas he preferido la forma “mortichuelo” que conserva el fonema “ch”, presente en el regionalismo siciliano. moros o por bandoleros: saracini o da briganti (Le pietre…, p. 82) En puridad, el término saracini corresponde a “sarracenos”, al tiempo que briganti equivale a “bandidos”. Con todo, si bien en Sicilia el 80 término saracini se impuso en el habla popular después de que los tradicionales puppi siciliani y los canta storie divulgaran el Orlando furioso, en el sur de España el vocablo de uso equivalente es “moros”. De igual forma, la forma “bandoleros” corresponde a la designación más extendida para aludir a los “bandidos” no sólo en Andalucía, sino también en las regiones colindantes, como es el caso del campo lorquino. murmujeando: mormorando (Le pietre…, p. 94) Regionalismo semántico murciano que significa “murmurar”. naíca: niente (Le pietre…, p. 96) Se trata de la forma diminutiva de «na’» (contracción de “nada”), profusamente utilizada en la región murciana. nenes: infanti (Le pietre…, p. 77) En ninguno de los dos casos se trata de un regionalismo. Ambos términos poseen valencias semánticas similares. El término italiano ha caído en desuso en mayor o menor grado en su primera acepción (la que designa a un niño menor de siete años), siendo precisamente éste el valor que Consolo le otorga en su relato. En español, la palabra “nene” se emplea también para aludir a un niño de corta edad siendo su uso especialmente extendido en la región de Murcia. Osté: Vossia (Le pietre…, p. 85) Regionalismo rústico murciano, que consiste en la modificación fonética de “usted”. paya: moglie (Le pietre…, p. 96) Aún cuando el término “payo-a” se encuentre recogido en el DRAE con el significado de “aldeano”, sin embargo en el campo de Lorca y en general en los ambientes rústicos de la región murciana se emplea 81 como equivalente de “mujer”. En compañía del artículo (“la paya”) este vocablo alude a la esposa del que habla. perola: pignatta (Le pietre…, p. 82) El término “perola” no es un regionalismo propiamente dicho, pero se trata de la palabra que se utiliza comúnmente en la región murciana para designar un recipiente en forma de olla. Observemos que el siciliano pignatta ha dado “piñata” en español con otra connotación. De hecho, la “piñata” se reserva casi exclusivamente para las fiestas infantiles. perras: soldi (Le pietre…, p. 96) Las voces “cuartos” y “perras” (siempre en plural) son familiares o populares, como lo es soldi, y coexisten en toda España. No se trata por tanto de regionalismos, como tampoco soldi es un sicilianismo. Con todo, en algunas regiones se utiliza una de las dos con preferencia a la otra. Dado que en la zona murciana prevalece “perras” y con objeto de dar uniformidad a la traducción he optado por esta última. perullos: villani (Le pietre…, p. 90) En el texto original el término villani aparece alternando con la palabra contadini. Don Gregorio utiliza despectivamente la palabra antigua villani para indicar a Parlagreco que es un ignorante palurdo, incapaz de entender su alto razonamiento. Este matiz está perfectamente encerrado en el regionalismo murciano “perullo”, empleado despectivamente por el murciano de ciudad para burlarse del murciano de campo, de su falta de educación y de su lenguaje popular. No procedía hacer uso de la voz “villano”, porque una de sus valencias semánticas se deriva de la evolución de su significado, que con el tiempo ha llegado a significar “ruin, indigno, indecoroso” (DRAE). El vocablo italiano, en cambio, no presenta esta segunda acepción de descalificación moral que se encuentra en “villano”. 82 pesambres: stenti (Le pietre…, p. 83) En Murcia existe el regionalismo “pesambres”, contracción de “pesadumbre”, que cubre un amplio espectro semántico para expresar precisamente estos sentimientos de dolor, de pena y de penurias que forman el tejido de toda vida humana pero quizá más especialmente la de los labradores. Petrosela: Petrosella (Le pietre…, p. 92) El término petrosella alude al perejil. Procede del griego “petrosélinon” (apio que crece entre las hierbas), compuesto de “pétra” (piedra) y de “sélinon” (apio). La antigua ciudad griega de Sicilia, Selinonte, tomó su nombre de esta palabra. Por razones de estilo y para rendir el valor lingüístico y literario del original he mantenido el mismo vocablo. Po’ hay que: Eh, c´è (Le pietre…, p. 95) La forma «po’» presenta una mutación fonética mediante la reducción del diptongo y la característica pérdida de la “s” final. Significa “pues”. poyo: scaricatore (Le pietre…, p. 77) Aunque la palabra “poyo” no sea un regionalismo murciano propiamente dicho, ha caído en desuso en el resto de España. Con todo, se sigue utilizando habitualmente en la zona de Murcia y es por lo mismo el término que mejor se corresponde con el vocablo siciliano scaricatore. priesa: prescia (Le pietre…, p. 89) Aunque existen en español bellísimos términos que expresan esta misma idea (como “presura” o “premura”), he preferido el vocablo “priesa”, de resonancias arcaicas, en el que se produce una epéntesis de la vocal “e” (en lugar de “prisa”). Esta voz en desuso subsiste todavía en algunos ámbitos rurales y regionales, como en la zona de Puerto Lumbreras. Además, la elección de “priesa” rinde mejor que ninguna la cadencia fonética de la voz regional prescia. 83 protestantes: protestanti (Le pietre…, p. 87) El término “protestante” tenía en España las mismas connotaciones que en Italia. Se empleaba para designar a los ingleses y alemanes, haciendo un uso extensivo del término “protestante” por ser ésta la religión que profesaban mayoritariamente. A nivel popular este valor se siguió conservando hasta hace relativamente poco tiempo. queso de cabra con pimienta: pecorino con il pepe (Le pietre…, p. 78) Composición del queso tomazzo. queso frito: tomazzo (Le pietre…, p. 77) Comida típica de los labradores en toda la zona del Levante que consiste en queso de cabra frito con tomate y pimienta. Consolo más adelante indica en el relato que el queso de cabra que come Parlagreco lleva pimienta: pecorino con il pepe (Le pietre…, p. 78). Se puede deducir, por tanto, que se trata de un queso de cabra similar al que come Parlagreco dentro de las muchas variedades del queso de cabra típico del ámbito Mediterráneo. ¡Quia!: Mai (Le pietre…, p. 85) Interjección coloquial y popular muy utilizada en las zonas rurales de Puerto Lumbreras. Viene recogida en el DRAE, aunque ha caído en desuso en buena parte del territorio nacional. Deriva de “qué ha [de ser]” y viene a significar lo mismo que otra interjección de uso vigente en toda España: “¡Qué va!”. Con todo “quia” tiene un valor aún más enfático por pertenecer al habla rural. Quieto parao: Statti sodo (Le pietre…, p. 85) Locución adverbial empleada en la región murciana y que goza actualmente de gran popularidad en toda España gracias al influjo de un personaje televisivo. Se trata de una expresión con gran poder conminativo, que exhorta a permanecer inmóvil allá donde se esté. 84 roalico de tierra: fazzoletto (Le pietre…, p. 75) Regionalismo murciano, utilizado sobre todo en el campo lorquino, para indicar un trozo pequeño de tierra. El término se corresponde semánticamente con el fazzoletto utilizado por Consolo en el original. ¡San Liberador!: Santo Liberante! (Le pietre…, p. 87) Exclamación popular siciliana utilizada para invocar a un santo imaginario que “libera” y protege de todo mal al que lo invoca. Se trata por consiguiente de un santo “liberador” de males. se platicaba abonico: si contava sottovoce (Le pietre…, p. 77) El verbo “platicar” es un vocablo popular típico de todo el Sur de España, especialmente en las zonas rurales. No sólo tiene el valor semántico de transmitir información sino también de comentar aquello que se está diciendo, acepción que se corresponde con la del verbo contare. Por lo que respecta a sottovoce, existe el regionalismo “abonico”, que significa “en voz baja, despaciosamente, lentamente” y es el que se emplea en el campo lorquino. Literalmente significa “de manera bonita, con voz dulce y suave”. sendica: viòlo (Le pietre…, p. 81) El diminutivo en “-ico” se utiliza profusamente en la región murciana, donde “senda” se emplea en su acepción de camino estrecho en el campo o en la sierra. ¡Sín Señó!: ’Gnorsì! (Le pietre…, p. 88) Esta modificación fonética en la que se añade una “n” final a la partícula de afirmación “sí” es propia del habla rural murciana y se encuentra en otras palabras con la misma terminación en “i”, como “asín” por “así”. Por lo que respecta a “señó”, para rendir la aféresis regional del original (’gnorsì en lugar de signorsì) he optado por la típica fonética murciana 85 en la que se produce la pérdida de la “s” y la “r” en final de palabra. Equivale, pues, a “señor”. sisca: disa (Le pietre…, p. 75) En la región murciana se utiliza la palabra “sisca” (recogida en el DRAE) para aludir a una hierba que nace en las viñas y que sirve para hacer los mantos con que se cubren las barracas. En botánica, el término técnico italiano es ampelodesma, del griego ampelos (viña) y desmos (ligadura). Parece lógico deducir que el italiano disa sea la deformación popular de la palabra culta. Según el Roque Barcia, “ampelodesmo” en español significa “una especie de hierba semejante al esparto con que los sicilianos ataban las vides”. t’adormilaste: t’addormentasti (Le pietre…, p. 86) En la región murciana existe el regionalismo “endormiscarse” con el significado de quedarse involuntariamente dormido debido al cansancio u otro motivo, aunque de uso poco frecuente. Sin embargo, en este caso he preferido “adormilarse” porque rinde mejor la textura fonética del término italiano, que de hecho tampoco es un regionalismo. También transcribo la alteración regional del original en el pronombre “te”. Tajo parejo: Cominciò il suo lavoro (Le pietre…, p. 76) Aun cuando no aparezca ningún término en el texto original que se corresponda con esta locución, tan típicamente lorquina y al mismo tiempo tan propia del habla rural murciana, la idea que se desprende de este pasaje en italiano conviene plenamente con el uso de la expresión “tajo parejo”, empleada precisamente para hacer referencia al trabajo uniforme y metódico, en el que nada queda sin hacer. Esta locución, que tantas veces oí durante la recogida de la almendra en el campo lumbrerense, aporta también el matiz de una perseverancia sistemática en el incansable faenar y en el duro bregar con la tierra. 86 tanimientras: intanto (Le pietre…, p. 90) Precioso regionalismo, empleado con profusión por poetas y escritores murcianos desde Saavedra Fajardo hasta Martínez Álvarez de Sotomayor, que he querido rescatar aquí por su belleza. Significa “entretanto”. ’tate tranquilica: sta’ tranquilla (Le pietre…, p. 89) La forma «’tate» es la alteración por aféresis de “estate” en el campo murciano, que se corresponde perfectamente con sta’. terretremo: tremuoto (Le pietre…, p. 85) Arcaísmo utilizado en la huerta murciana que alterna con “terretiemblo” (por “terremoto”). tesoro escondío: trovatura (Le pietre…, p. 84) Al no existir en español una única palabra que rinda el sentido exacto del vocablo trovatura –regionalismo siciliano que se utiliza sólo cuando se encuentra un tesoro oculto (principalmente monedas de oro)– se hacía necesario traducirlo acompañado de un adjetivo que recogiera esta valencia añadida. tiestos: cocci (Le pietre…, p. 75) En Lorca, el “tiesto” –además de significar “maceta”– alude principalmente a trozos rotos de cualquier vasija de barro, aunque pueden ser de otro material. to’ p’alante hast’acá: diritto fino a qua (Le pietre…, p. 85) Regionalismo del campo de Lorca, en el que se suprimen varias sílabas. Se trata de la contracción de “todo para adelante hasta acá”, con el sentido de seguir un camino “todo recto hasta aquí”. 87 to’ tieso: diritto (Le pietre…, p. 75) Contracción propia del habla rural murciana en la que se suprime la última sílaba. “To’ tieso” equivale a “erguido”. umbligo: bellìco (Le pietre…, p. 92) En ninguno de los dos casos se trata de un regionalismo, sino de una alteración popular de los términos “ombligo” y ombelico. Una fuente n’er puentecico /N’er Lanniri siet’aspontico’/ Sabucina e’ jarta d’oro /Testa de lumbre, Testa d’oro…: A lu ponti ci n’è un fonti,/A li Lànniri setti mànniri,/ Sabucina d’oru è china,/Capudarsu, Capu d’oru… (Le pietre…, p. 82) He traducido la cancioncilla que rememora el personaje del relato mediante los siguientes regionalismos: añadiendo algún sufijo en “ico” que me ha permitido hacer la rima; suprimiendo la “s” final de “asponticos” y del verbo “es”, según se pronuncia en la región murciana, así como mediante la elisión de la “e” en la preposición “de” ante vocal. “Asponte” es un regionalismo aragonés que significa “aprisco”, “redil”, utilizado todavía hoy en algunas zonas rurales murcianas. También he empleado la forma contracta y alterada “n’er” por “en el”. Asimismo, he optado por la expresión murciana “jarta de”, deformación regional de la española “harta de”, con el sentido de “llena”, equivalente de la voz siciliana china. Finalmente, he elegido el término “testa” para capu (“cabeza”). Se trata de un vocablo que ha caído en desuso pero que se sigue utilizando en zonas rurales del Levante. Lo mismo sucede con la palabra “lumbre” por “fuego”, igualmente en desuso pero muy vigente en la región murciana a día de hoy. No me ha sido posible conservar las rimas internas que aparecen en el original en los tres primeros versos (ponti-fonti/Lànniri-mànniri/ Sabucina-china), aunque he conseguido darle ese aire rimado al conjunto. La traducción literal de la letrilla viene a ser: “En el puente hay una fuente/En Lànniri siete rediles/ Sabucina está llena de oro /Cabeza de fuego, Cabeza de oro…”. 88 «Uno, Vito»: «Jeu,Vitu» (Le pietre…, p. 80) Regionalismo del campo murciano y andaluz, donde en lugar del pronombre personal “yo” se usa el indefinido “uno”, uso que se corresponde con el regionalismo siciliano jeu. visivilo: scavuzzo (Le pietre…, p. 96) Alteración del fonema “e” por “i”, de la voz “vesivilo” (DRAE: “fantasma, visión” y MM: “fantasma, aparición”). Esta forma alterada se utiliza corrientemente en toda la región murciana, si bien abarca un mayor espectro semántico pues el término sirve para nombrar al duende que habita en un lugar y que de vez en cuando se aparece a los lugareños adoptando distintas formas. En Murcia coexisten las dos formas: “visivilo” y “vesivilo”. El vocablo elegido se corresponde bien con el término siciliano del texto original. (se) vuerven: (si) cangiano (Le pietre…, p. 82) Alteración fonética mediante la mutación consonántica de la “l” por la “r”, propia del habla murciana. zagal: caruso (Le pietre…, p. 78) Según el diccionario Battaglia, el término siciliano caruso alude a un joven empleado en labores agrícolas u otras. Tiene el sentido originario de “cabeza rapada o sin pelo”, porque era así como se debían asear los jóvenes que trabajaban en el campo o en las minas, de ahí que esta palabra se utilice en Sicilia para designar precisamente a estos jóvenes y por extensión a todo muchacho joven. Por su parte, el español posee una amplia gama de voces para cubrir el campo semántico de “muchacho”: zagal, mozo, chaval, rapaz, mancebo, etc. (con sus también variadísimos diminutivos correspondientes). Todas estas voces pueden ser intercambiadas a lo largo y ancho de España y no existe en ninguna zona un regionalismo específico, como es el caso de la palabra caruso en Sicilia. Bien es verdad que algunas regiones 89 españolas utilizan con preferencia un vocablo a otro. Así, por ejemplo, en Galicia se ha generalizado “rapaz”. He optado por “zagal” por ser el término (con su diminutivo “zagalico” y aumentativo “zagalón”) más extendido en la región murciana. También he recurrido a “zagal” en otros pasajes del relato: cuando lo utiliza Vito para referirse a sus hijos, haciendo un uso propio del habla murciana (como en “Tampoco a la paya, ni a los zagales les gusta la caza” que vendría a significar “Tampoco a mi mujer, ni a mis hijos les gusta la caza”), así como, en general, para aludir a muchachos-as muy jóvenes. APARATO BIBLIOGRÁFICO 93 I. OBRA DE VINCENZO CONSOLO27 I. 1. NARRATIVA (Romanzi) • La ferita dell’aprile, Mondadori, Milán, 1963. Reediciones: · “Nuovi Coralli, 181”, Einaudi, Turín, 1977. · “Oscar Oro, 23”, Mondadori, Milán, 1989. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2008, 2010. • Il sorriso dell’ignoto marinaio, Einaudi, Turín, 1976. Reediciones: · “Oscar Oro, 9”, Mondadori, Milán, 1987. · Einaudi “Nuovi Coralli,” Turín, 1992. · Einaudi “Scuola”, Turín, 1995. · “Scrittori italiani”, Mondadori, Milán, 1997. · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 2002. · “Oscar classici moderni, 123”, Mondadori, Milán, 2004. • Lunaria, Einaudi, Turín, 1985. Reediciones: · Mondadori, Milán, 1996. 27 Tan sólo reseño sus libros debido al gran número de artículos publicados en periódicos, revistas, prólogos o introducciones a libros. 94 · “Oscar” Mondadori, Milán, 2003. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Retablo, 1987. La editorial Sellerio publica tres ediciones: · Primera edición: Sellerio, Palermo, colección “La memoria”, 1987. · Segunda edición: Sellerio, Palermo, colección “Il Castello”, 1990. · Tercera edición: Sellerio, Palermo, colección “La rosa dei venti”, 2009. Reediciones: · “Scrittori italiani”, Mondadori, Milán, 1992. · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 2000. · “Oscar” Mondadori, Milán, 2009. • Retablo (versione teatrale di Ugo Ronfani), La Cantinella, Catania, 2001. • Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milán, 1988. Reediciones: · “Oscar” Mondadori, Milán, 1990. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • La Sicilia passeggiata, Eri, Turín, 1991. • Nottetempo, casa per casa, 1992. En 1992 aparecen tres ediciones: · Primera edición: Mondadori, Milán, 1992. · Segunda edición: Edizione CDE spa, Milán, 1992. · Tercera edición: Edizione CDE premi Strega, Milán, 1992. 95 Reediciones: · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 1994. · Collezione “Premio Strega: i cento capolavori”, UTET, Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, 2006/7. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Donzelli, Roma, 1993. • L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milán, 1994. Reediciones: · “Oscar” Mondadori, Milán, 1999. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Lo spasimo di Palermo, Mondadori, Milán, 1998. Reediciones: · Oscar Mondadori, Milán, 2000. · “Oscar, Scrittori moderni”, Mondadori, Milán, 2010. • Di qua dal faro, Mondadori, Milán, 1999. Reediciones: · “Oscar scrittori del Novecento”, Mondadori, Milán, 2001. • Amor sacro: en preparación. 96 I. 2. TEATRO (Opere Teatrali) • Catarsi: en Trittico, SanFilippo, Catania, 1989. en Oratorio, Manni, Lecce, 2002. • Pio La Torre, orgoglio di Sicilia (Atto Unico), Centro di Studi ed iniziative culturali, Palermo, 2009. • L’attesa, Bompiani, Milán, 2010. I. 3. NOVELAS (Racconti) • Neró Metallicó: Il Melangolo, Genova, 1994. Un racconto con 12 finali28, Gremese, Roma, 2009. • Il teatro del sole, racconti di Natale, Interlinea, Novara, 1999. • Isole dolci del Dio29, L’Obliquo, Brescia, 2002. • Siracusa come un incanto, Artestudio, Siracusa, 2003. • Il Corteo di Dioniso30, La Lepre, Roma, 2009. 28 Además de los doce finales diferentes realizados por diversas personas, incluye uno especial diferente del propio Consolo. 29 Incluye quince ilustraciones de Giorgio Bertelli. 30 Se trata de una reciente edición –con ilustraciones de Cecilia Capuana– que reedita Neró Metallicó y Il Teatro del Sole. 97 II. TRADUCCIONES DE LA OBRA DE VINCENZO CONSOLO 1. LA FERITA DELL’APRILE 1. 1. AL ALEMÁN: • Die Wunde im April (por Bettina Kienlechner y Ulrich Hartmann), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1990. 1. 2. AL ESPAÑOL: • La herida del abril (por Miguel Ángel Cuevas), en preparación para la editorial Barataria. 1. 3. AL FRANCÉS: • La Blessure d’Avril (por Maurice Darmon), Le Promeneur, París, 1990. 2. IL SORRISO DELL’IGNOTO MARINAIO 2. 1. AL ALEMÁN: • Das lächeln des unbekannten Matrosen (por Arianna Giachi), Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1984. 2ª y 3ª edición: Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1990 y 1996. 98 2. 2. AL ÁRABE: • (por Naglaa waly), ed. Dar Shargiyat, El Cairo (Egipto), 2009. 2. 3. AL CATALÁN: • El somrís del mariner inconegut (por Alexis Eudald Solà), Ed. Proa, Barcelona, 2006. 2. 4. AL ESPAÑOL: • La sonrisa del ignoto marinero (por Esther Benítez), Alfaguara, Madrid, 1981. • La sonrisa del ignoto marinero (por Giovanni Barone y Mirta Vignatti), Laborde Editor, Rosario (Argentina), 2001. 2. 5. AL FRANCÉS: • Le Sourire du marin inconnu (por Mario Fusco y Michel Sager), prólogo de Leonardo Sciascia, Bernard Grasset, París, 1980 (2ª edición: para la colección “Les Cahiers rouges”, Bernard Grasset, París, 1980). 2. 6. AL INGLÉS: • The Smile of the Unknown Mariner (por Joseph Farrell), Carcanet, Manchester, 1994. 3. LUNARIA 3. 1. AL ESPAÑOL: • Lunaria (por Irene Romera Pintor), Centro de Lingüística Aplicada Atenea, Madrid, 2003. Premio Internacional a la Traducción de Obras literarias y científicas 2004, otorgado por el Ministerio de Asuntos Exteriores Italiano. 99 3. 2. AL FRANCÉS: • Lunaria (por Brigitte Pérol y Christian Paoloni), Le Promeneur, París, 1988. 4. RETABLO 4. 1. AL ALEMÁN: • Retablo (por Maria E. Brunner), Folio Verlag, Wien / Bozen, 2005. 4. 2. AL ÁRABE: • En preparación (por Naglaa waly), ed. Dar Shargiyat, El Cairo (Egipto). 4. 3. AL CATALÁN: • Retaule (por Assumpta Camps), Edicions de la Magrana, Edicions 62, Barcelona, 1989. 4. 4. AL ESPAÑOL: • Retablo (por Juan Carlos Gentile Vitale), Muchnik, Barcelona, 1995. 4. 5. AL FRANCÉS: • Le Retable (por Soula Aghion y Brigitte Pérol), Le Promeneur, París, 1988. 4. 6. AL HOLANDÉS: • Retabel. Siciliaanse passies (por Pietha de Voogd), Wereldbibliotheek, Amsterdam, 1992. 4. 7. AL PORTUGUÉS: • Retábulo (por José Colaço Barreiros), Difel, Lisboa, 1990. • Retábulo (por Roberta Barni), Berlendis & Vertecchia Editores, Sao Paulo (Brasil), 2002. 100 5. LE PIETRE DI PANTALICA 5. 1. AL ALEMÁN: • Die Steine von Pantalica (por Anita Pichler), Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1996. 5. 2. AL ESPAÑOL: • La presente edición y traducción de “Filosofiana”, relato de Las piedras de Pantálica (por Irene Romera Pintor), Fundación Updea, Madrid, 2008 (2ª edición de 2011, revisada y ampliada para la misma editorial). En preparación la traducción del libro completo. 5. 3. AL FRANCÉS: • Les Pierres de Pantalica (por Maurice Darmon), Le Promeneur, París, 1990. 5. 4. AL GALLEGO: • “Ratumeni” y “Comiso” (As pedras de Pantalica) relato de Las piedras de Pantálica (por Cándido Pazó y Dolores Vilavedra), en Seis narradores italianos, edición de Danilo Manera y Dolores Vilavedra, Edicións Positivas, Santiago de Compostela, 1993. 6. NOTTETEMPO, CASA PER CASA 6. 1. AL ALEMÁN: • Bei Nacht, von Haus zu Haus (por Maria E. Brunner), Folio Verlag, Viena-Bozen, 2003. 6. 2. AL ESPAÑOL: • De noche, casa por casa (por Ana Poljak), Muchnik Editores S.A., Barcelona, 1993. 101 • De noche, casa por casa (por Eloy-José Santos Domínguez), Primera edición en español para América Latina, Editorial Norma, Bogotá, 1996. 6. 3. AL FRANCÉS: • D’une maison l’autre, la nuit durant (por Louis Bonalumi), Gallimard, París, 1994. 6. 4. AL INGLÉS: • Night-Time, House by House (por Daragh O’ Connell), en preparación. 6. 5. AL PORTUGUÉS: • De Noite casa por casa (por José Colaço Barreiros), ed. Teorema, Lisboa, 1996. 7. L’OLIVO E L’OLIVASTRO 7. 1. AL ESPAÑOL: • El olivo y el acebuche (por Juan Carlos Gentile Vitale), Muchnik Editores S.A., Barcelona, 1997. 7. 2. AL FRANCÉS: • Ruine immortelle (por Jean-Paul Manganaro), Seuil, París, 1996. 8. LO SPASIMO DI PALERMO 8. 1. AL ALEMÁN: • Palermo. Der Schmerz (por Maria E. Brunner), Folio Verlag, Wien/Bozen, 2008. 102 8. 2. AL ESPAÑOL: • El pasmo de Palermo (por Pilar González Rodríguez), Debate, Madrid, 2001. 2ª Edición: para la colección “Las mejores novelas de la literatura universal contemporánea” (por Pilar González Rodríguez), prólogo de Constantino Bértolo, Biblioteca El Mundo, Madrid, 2003. 8. 3. AL FRANCÉS: • Le Palmier de Palerme (por Jean-Paul Manganaro), Seuil, París, 2000. 9. DI QUA DAL FARO 9. 1. AL ESPAÑOL: • De este lado del faro (por Miguel Ángel Cuevas), Parténope, 2008. 9. 2. AL FRANCÉS: • De ce côté du phare (por Jean-Paul Manganaro), Seuil, París, 2005. 10. Antología de ensayos y artículos sobre el tema del mundo mediterráneo, escritos todos ellos por Vincenzo Consolo y traducidos al inglés: • Reading and Writing the Mediterranean. Essays by Vincenzo Consolo, edición de Massimo Lollini & Norma Bouchard, Toronto, University of Toronto Press, 2006. 103 III. PREMIOS Y RECONOCIMIENTO A LA OBRA DE VINCENZO CONSOLO 1. Premio letterario CITTÀ DI SOVERATO, por La ferita dell’aprile, en 1964. 2. Premio PIRANDELLO, por Lunaria, en 1985. 3. Premio GRINZANE CAVOUR, por Retablo, en 1988. 4. Premio RACALMARE, por Retablo, en 1988. 5. Premio CITTÀ DI PENNE, por Le pietre di Pantalica, en 1989. 6. Premio STREGA, por Nottetempo, casa per casa, en 1992. 7. Premio INTERNAZIONALE UNIONE LATINA, por L’olivo e l’olivastro, en 1994. 8. Premio di Cultura CITTÀ DI MONREALE, por Lo spasimo di Palermo, en 1998. 9. Premio CASATO PRIME DONNE, por Lo spasimo di Palermo, en 1999. 10. Premio BRANCATI-ZAFFERANA, por Lo spasimo di Palermo, en 1999. 11. Premio NINO MARTOGLIO, por Di qua dal faro, en 1999. 12. Premio FERONIA, por Di qua dal faro, en 2000. 13. Premio PALMI, por el conjunto de su obra, en 2007. 14. Premio GIACOMO LEOPARDI, por el conjunto de su obra, en 2008. 104 Además, Vincenzo Consolo ha recibido el Título de Doctor Honoris Causa en dos ocasiones hasta la fecha: 1. por la Universidad “Tor Vergata” de Roma el 18 de febrero de 2003. Lectio Magistralis: “La Metrica della Memoria”. Laudatio de los Profesores Andrea Gareffi y Enrico Guaraldo. 2. por la Universidad de Palermo, el 20 de junio de 2007. Lectio Magistralis: “Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano”. Laudatio del Profesor Natale Tedesco. 105 IV. TRABAJOS DE INVESTIGACIÓN El presente capítulo bibliográfico recoge todos los trabajos de investigación relativos a la figura y la obra de Vincenzo Consolo. El material bibliográfico se ordena en torno a las tesinas (“Tesi di Laurea” y “Mémoire de Maîtrise”) y a las Tesis Doctorales. Los trabajos de investigación se ordenan por sus países de origen. La relación de países sigue un orden determinado por el volumen de trabajos de investigación. Con objeto de ordenar el material bibliográfico dentro de cada país he considerado oportuno presentarlos por universidades, en orden alfabético, y dentro de cada universidad por orden cronológico. De esta manera, atendiendo al volumen de trabajos de investigación, la relación de países seguirá el siguiente orden: Italia, Francia, Alemania, España, Bélgica, Escocia, Inglaterra y Estados Unidos. IV. 1. ITALIA31: Tesi di Laurea Università degli studi di BARI 1999-2000: 31 Toda “Tesi di Laurea” (tesina) y Tesis Doctoral viene reseñada en Italia en el “Atlante Linguistico Italiano”. Para algunas de las tesinas aquí citadas, véase 106 • Dario Pignone: “La letteratura avvilita. Vincenzo Consolo” (dirección de Giuseppe Lasala). Università Alma Mater Studiorum di BOLONIA 2005-2006: • Maria Letizia Fiocchetti: “La Sicilia nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Fabrizio Frasnedi; codirección de Matteo Ghirardelli). Università degli studi della CALABRIA 1994-1995: • Rosaria Larussa: “Pastiche linguistico e denuncia sociale nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Nicola Merola). Università degli studi di CATANIA 1989-1990: • Carmela Gandolfo: “Per leggere Il sorriso dell’ignoto marinaio” (dirección de A. Di Grado). 1991-1992: • Giuseppa Mazzola: “Umori civili e scatto fantastico nella prosa di Vincenzo Consolo” (dirección de Nicolò Mineo). 1992-1993: • Agata Cardillo: “L’italiano regionale di Sicilia nella Ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). en concreto: “Tesi di Laurea della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania. Cattedra di Geografia linguistica”, a cargo de I. M. B. Valenti, en «Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano», III Serie, Turín, 2001, pp. 223-38. 107 • Federica Spampinato: “L’italiano regionale di Sicilia nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 1994-1995: • Giovanni Pastaro: “Il dibattito critico su Vincenzo Consolo” (dirección de Guido Nicastro). • Maria Elena La Rosa: “L’italiano regionale e letterario in Retablo di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 1995-1996: • Valeria Benanti: “L’italiano regionale di Sicilia in Lunaria di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 1997-1998: • Giusi Burgaretta: “Teatro e teatralità nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Sarah Zappulla Muscarà). Contiene varios Apéndices: “Appendice I: intervista a Vincenzo Consolo [Sant’Agata, 10-IX-98 (pp. 155-64)]; Appendice II: viene riportato il testo della rappresentazione di «Fuochi Freddi» (pp. 165-87), tratto da Lunaria e messo in scena nel 1991 a Monreale, nell’elaborazione drammaturgica di Ola Cavagna, dal regista Mauro Avogadro. Alla generosità del regista Mauro Avogadro si deve anche la disponibilità del testo di «Minima Lunaria» (pp. 188-246)”. • Gabriella Maria Concetta Giuliana: “L’italiano regionale nelle Pietre di Pantalica di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Laura Di Trapani: “La traduzione dell’italiano regionale nel testo spagnolo (E. Benítez, 1981) del Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Michele Mangione: “L’italiano regionale della Sicilia e altre lingue in L’olivo e l’olivastro e Nerò metallicò di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 108 1999-2000: • Vanessa Di Salvo: “L’italiano regionale di Sicilia nello Spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Arianna Tiralongo: “L’italiano regionale di Sicilia in Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Lorella Spinello: “Vincenzo Consolo. Una «figura in fuga», nello specchio dei suoi scritti” (dirección de A. Di Grado). Contiene en Apéndice: “Incontro con lo scrittore [Catania, 13-XII-98 (pp. 155- 82); Milano, 22-IV-99 (pp. 183-214)]”. 2000-2001: • Loreto Bongiovanni: “La traduzione dell’italiano regionale nel testo inglese (J. Farrell, 1994) del Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 2001-2002: • Alessia Saraceno: “Vincenzo Consolo: un Odisseo tra i mari della scrittura” (dirección de Rosalba Galvagno). • Maria Giuseppina Catalano: “Figure del dolore. Follia e melanconia nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Rosa Maria Monastra). Contiene en Apéndice: “Intervista a Vincenzo Consolo [Agrigento, 30-IX-2001 (pp. I-XXIV)]”. 2003-2004: • Stefania Cipolla: “La traduzione spagnola di Retablo di Vincenzo Consolo. Regionalità linguistica e problemi traduttivi” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Cettina Cornelio: “La regionalità siciliana in Retablo di Vincenzo Consolo nella traduzione francese” (dirección de Salvatore C. Trovato). • Debora La Rosa: “Problemi di traduzione dell’italiano regionale nella versione francese (M. Fusco e M. Sager) del Sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo” (dirección de Salvatore C. Trovato). 109 2004-2005: • Glenda Dollo: “La sfida al labirinto di Vincenzo Consolo” (dirección de Rosalba Galvagno). 2007-2008: • Andreina Litrico: “L’ekfrasis della Sicilia nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Rosalba Galvagno). Università degli studi di MESSINA 1998-1999: • Eros Salonia: “Il teatro di Vincenzo Consolo: Catarsi. Il gioco dell’impossibile” (dirección de Giuseppe Rando). Università degli studi di MILANO (Bicocca) 2005-2006: • Lisa Rustico: “Il paesaggio siciliano in Vincenzo Consolo: Retablo” (dirección de Elena Dell’Agnese). Contiene en Apéndice: “Conversazione con Vincenzo Consolo [Milano, 11-V-2006 (pp. 159-68)]”. Università degli studi di PALERMO 2000-2001: • Daniela Giambanco: “La poetica di Vincenzo Consolo tra storia e mito” (dirección de Salvatore Lo Bue). Contiene una entrevista inédita a Vincenzo Consolo. 2003-2004: • Giovanna Tobia: “Memoria e ragione del paesaggio: V. Consolo e A. Castelli” (dirección de D. Perrone). Università degli studi di PAVIA 2004-2005: • Alessandra Morini: “Per Catarsi di Vincenzo Consolo: un esempio di tragico moderno. Ricostruzione filologica e critica. Con un’intervista 110 inedita a Vincenzo Consolo [Milano, 3-3-06 (pp. 182-9)]” (dirección de Clelia Martignoni; codirección de Anna Beltrametti y Federico Francucci). A parte de la entrevista en Apéndice, también reproduce tres conversaciones radiofónicas “tratte dalla trasmissione Damasco di «Radio tre», in cui Consolo si sofferma in particolare su tre grandi scrittori siciliani: Elio Vittorini, Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia, e sul rapporto con loro (pp. 189-210): 14-12-05: Elio Vittorini (p.190); 15-12-05: Lucio Piccolo (p. 197); 16-12-05: Leonardo Sciascia (p. 203)”. Università degli studi di PISA 1995-1996: • Chiara Savettieri: “Antonello da Messina: un percorso critico” (dirección de Antonino Caleca). Véase sobre todo el capítulo XIII: “Due scrittori siciliani ed Antonello “[cf. en particular: “13. 3. Vincenzo Consolo: il linguaggio come rivolta e come memoria” (pp. 455-77)]. 1996-1997: • Chiara Pellegrini: “La contaminazione linguistica in Vincenzo Consolo. Con un glossario dei primi tre volumi (1963, 1976, 1985)” (dirección de Livio Petrucci). ROMA 1990-1991: • Fabiola Paterniti Martello: “Vincenzo Consolo e l’esperienza della scrittura”, Università di Tor Vergata-Roma II (dirección de Emerico Giachery; codirección de Rino Caputo). 111 1994-1995: • Attilio Scuderi: “Le metafore malinconiche di Vincenzo Consolo”, Università degli studi di Roma “La Sapienza” (dirección de Bianca Maria Frabotta). 1999-2000: • Paola Casciani: “Vincenzo Consolo: l’utopia e la città”, Università degli studi di Roma “La Sapienza” (dirección de Stefano Giovanardi; codirección de Giovanna De Angelis). 2001-2002: • Linda Di Mauro: “Le arti visive nella narrativa di Sciascia e Consolo”, Università degli studi di Roma “La Sapienza” (dirección de Antonella Sbrilli; codirección de Manuela Annibali). Università degli studi di SIENA 1993-1994: • Barbara Dragoni: “Vincenzo Consolo” (dirección de Alfio Vecchio). Contiene en Apéndice “Intervista a Vincenzo Consolo (pp. 525-39)”. 2005-2006: • Gabriele Vitello: «Il romanzo del ritorno» in Elio Vittorini e Vincenzo Consolo” (dirección de Daniela Brogi). Università degli studi di TORINO 1989-1990: • Massimo Catti: “Nuclei tematici nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de Marco Cerruti). 112 Università degli studi di TRIESTE 1991-1992: • Lorenza Cucchiani: “Anche la mia penna è intinta nello zolfo: la narrativa di Vincenzo Consolo tra razionalità e barocco” (dirección de Elvio Guagnini). Università degli studi di VENEZIA Ca’ Foscari 1998-1999: • Nicoletta Santangelo: “Vincenzo Consolo. Una voce tragica oltre la scena del teatro” (dirección de Ricciarda Ricorda). IV. 2. FRANCIA IV. 2. a. Mémoires de maîtrise Universidad d’AIX-MARSEILLE I 1989-1990: • Patricia Racine: “Immagini del Risorgimento nel romanzo siciliano” (dirección de Rubat du Merac). Contiene un Apéndice en dónde transcribe la conversación telefónica con Vincenzo Consolo (10-VI- 1990: pp. 150-57). Universidad de Stendhal GRENOBLE III 1992-1993: • Demetrio Trunfio: “Alle radici della scrittura: infanzia e lingua materna nell’opera di Vincenzo Consolo” (dirección de G. Bosetti). Universidad de NICE SOPHIA ANTIPOLIS 2001-2002: • Eleonora Gellini: “La Sicilia contadina attraverso lo sguardo di Vincenzo Consolo (Le pietre di Pantalica) e di Maria Occhipinti 113 (Una donna di Ragusa e Il Carrubo e altri racconti)” (dirección de Arnaldo Moroldo; codirección de Monica Mocca). PARÍS 1996-1997: • Elisabetta Brucoli: “Vincenzo Consolo e la Sicilia nella sua opera romanzesca”, Universidad de Paris-IV “La Sorbonne” (dirección de J. M. Gardair). 1999-2000: • Anne Parniere: “Sicile et sicilitude dans l’oeuvre narrative de Vincenzo Consolo”, Universidad de Paris-III “La Sorbonne” (dirección de Denis Ferraris). Se trata de una “Mémoire de maîtrise d’italien, Langues, Littératures et civilisations étrangères”. 2000-2001: • Anne Parniere: “L’écriture palimpseste: étude de l’oeuvre de Vincenzo Consolo à partir de l’analyse de Retable (1987), de D’une maison l’autre, la nuit durant (1992) et de Ruine immortelle (1994)”, Universidad de Paris-III “La Sorbonne” (dirección de Denis Ferraris). Se trata de una “Mémoire d’études approfondies. Culture et société en Italie du Moyen Âge au XXème siècle: langue, littérature, et civilisation”. Fecha: 18 de julio de 2001. Universidad de SAINT-DENIS 1989-1990: • Valérie Vita: “ Vincenzo Consolo, écrivain de la memoire” (dirección de Giuditta Isotti-Rosowsky). 114 IV. 2. b. Tesis Doctorales TESIS DOCTORAL de Maryvonne Briand Director de la Tesis: Mariella Colin. Universidad de Caen/ Basse -Normandie Título: “Poétique de l’espace et du temps dans l’oeuvre narrative de Vincenzo Consolo”. Fecha: 19 de junio de 2004. IV. 3. ALEMANIA ERLANGEN-NÜRNBERG 1989-1990: • Christine Dauner: “Vincenzo Consolo: Literatur als Geschichtsschreibung oder als Dokumentation” [Magisterarbeit in der Philosophischen Fakultät II (Sprach- und Literaturwissenschaften) der Friedrich-Alexander-Universität Erlangen-Nürnberg vorgelegt von Christine Dauner aus Rosenheim; contiene en Apéndice: “Interview mit Vincenzo Consolo (pp. I-XXVII)”]. FRANKFURT AM MAIN 1988-1989: • Agnes Denschlag: “Die Sicilianità Vincenzo Consolo” (dirección de Gerhard Goebel-Schilling); [Abschlussarbeit zuz Erlangung des Magister Artium im Fachbereich Neuere Philologien (Johann Wolfgang Goethe Universität Frankfurt am Main)]. 115 IV. 4. ESPAÑA MADRID TESIS DOCTORAL de Miguel Gabriel Ochoa Santos. Director de la Tesis: Antonio Ubach Medina Universidad Complutense de Madrid. Título: “Historia, memoria y polifonía mítica en De noche, casa por casa de Vincenzo Consolo”. Fecha: 2005. TESIS DOCTORAL de Nicolò Messina. Director de la Tesis: Manuel Gil Esteve. Universidad Complutense de Madrid. Título: “Per un’edizione critico-genetica dell’opera narrativa di Vincenzo Consolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Fecha: 4 de julio de 2007. La presente Tesis Doctoral (ISBN: 978-84-669-3196-0) se puede consultar online en: http://eprints.ucm.es/8090/ IV. 5. BÉLGICA AMBERES 1993: • Annemieke Van Orshoven: “La verità del romanzo: Retablo (Vincenzo Consolo)” (dirección de Walter Geerts); [Eindverhandeling ingediend tot het behalen van de graad van Licentiaat in de Letteren en Wijsbegeerte (Universitaire Instelling Antwerpen)]. 116 IV. 6. ESCOCIA STRATHCLYDE TESIS DOCTORAL de Daragh O’Connell. Director de la Tesis: Joseph Farrell. Universidad: University of Strathclyde (Escocia). Título: “The Trinacria Trilogy: Polyphony and Palimpsests in the Narrative of Vincenzo Consolo”. Fecha: 17 de septiembre de 2008. IV. 7. INGLATERRA LONDRES 1995: • Maria Cristina Cataldo: “Vincenzo Consolo: un viaggio nella letteratura e nella storia della Sicilia”, University College of London; [Se trata de una tesina del “Master in Arts” (60pp.)]. IV. 8. ESTADOS UNIDOS NUEVA YORK TESIS DOCTORAL de Vincenzo Pascale. Director de la Tesis: Robert S. Dombroski y Eugenia Paulicelli. Universidad: Graduate Center de la City University de Nueva York. Título: “Lo sguardo e la storia: Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo”. Publicada con el mismo título en la editorial Vecchiarelli, Roma, 2006. 117 V. ENCUENTROS MONOGRÁFICOS SOBRE VINCENZO CONSOLO Además de las cada vez más frecuentes ponencias y comunicaciones que se presentan en los distintos congresos sobre la obra de Vincenzo Consolo, caben destacar los siguientes encuentros monográficos, dedicados por entero al autor, y que contaron con su presencia en los mismos: V. 1. Coloquio Internacional: “Vincenzo Consolo, éthique et écriture”, organizado por Dominique Budor y celebrado en París, los días 25 y 26 de octubre de 2002. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: DOMINIQUE BUDOR (ed.), Vincenzo Consolo, éthique et écriture, Presse Sorbonne Nouvelle, París, 2007. El libro contiene los siguientes artículos: • D. BUDOR, Pourquoi lire Consolo, «notre» classique32. • V. CONSOLO, La metrica della memoria33. 32 Véase también el aparato bibliográfico que adjunta. 33 Traducido en paralelo por Jean-Paul Manganaro: “Pour une métrique de la mémoire”. 118 L’être-dans-l’Histoire: • A. RECUPERO, Sicile 1943-2000: entre la pétrification de l’histoire et l’orageux changement de la société. • G. FERRONI, Une éthique de la parole. Le temps, la mémoire, le retour: • Mª P. DE PAULIS-DALEMBERT, Mémoire individuelle- mémoire de l’histoire: le palimpseste narratif. • D. FERRARIS, La syntaxe narrative de Consolo: pour une orientation du désastre. • C. IMBERTY, Vincenzo Consolo, ou le roman entre mémoire et mémoire historique. • J. P. MANGANARO, Tradition et Traduction: dans l’eau du Détroit. Les modulations du récit: • V. GIANNETTI, L’anghelos et le choeur: récit et narration chez Vincenzo Consolo. • W. GEERTS, Consolo ou les derniers replis de la fiction. • C. SEGRE, Temps et narration dans l’oeuvre de Vincenzo Consolo. Voix et mythes de la Sicile: • R. GALVAGNO, «Male catubbo». Les avatars d’une métamorphose dans le roman Nottetempo, casa per casa. • Mª F. RENARD, Paysage d’amour et de mémoire. • G. DAVICO BONINO, Consolo e il teatro. Enriquece dichas Actas el soporte informático (CD-rom) que se adjunta al final de las mismas. 119 V. 2. Jornadas de estudio: “Giornate di Studio in onore di Vincenzo Consolo”, organizadas por Enzo Papa y celebradas en Siracusa, los días 2 y 3 de mayo de 2003. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: ENZO PAPA (ed.), Per Vincenzo Consolo, Manni («Studi, 54»), San Cesario di Lecce, 2004. El libro contiene los siguientes artículos: • V. CONSOLO, Come una lastra memoriale. • P. CARILE, Testimonianza. • Mª R. CUTRUFELLI, Un severo, familiare maestro. • R. GALVAGNO, Destino di una metamorfosi nel romanzo Nottetempo, casa per casa di Vincenzo Consolo. • M. ONOFRI, Nel magma italiano: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale. • S. PAUTASSO, Il piacere di rileggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, o dell’intelligenza narrativa. • C. RICCARDI, Inganni e follie della storia: lo stile liricotragico della narrativa di Consolo. • G. TRAINA, Rilettura di Retablo. Véase también: “L’appendice bibliografica” (pp. 135-41), al igual que la nota del editor (pp. 142-3). V. 3. Jornadas Internacionales: “Vincenzo Consolo: per i suoi 70 (+1) anni”, organizadas por Miguel Ángel Cuevas y celebradas en Sevilla, los días 15 y 16 de octubre de 2004. No hubo Actas. Algunas comunicaciones fueron publicadas en el número 10 de la Revista “Quaderns d’Italià”, titulado: Leggere Vincenzo Consolo / Llegir Vincenzo Consolo, Barcelona, 2005. 120 Destacan los dos textos de creación de Vincenzo Consolo: “La grande vacanza orientale-occidentale” y “Il miracolo”. Artículos específicos sobre Vincenzo Consolo: • Mª. ATTANASIO, Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo. • E. VILELLA, Nostos y laberinto. • P. CAPPONI, Della luce e della visibilità. Considerazioni in margine all’opera di Vincenzo Consolo. • M. A. CUEVAS, Ut pictura: el imaginario iconográfico en la obra de Vincenzo Consolo. • R. ARQUÉS, Teriomorfismo e malinconia. Una storia notturna della Sicilia: Nottetempo, casa per casa di Consolo. • G. ALBERTOCCHI, Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria». • N. MESSINA, Per una storia di Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo. V. 4. Jornadas Internacionales: “Lunaria vent’anni dopo”, organizadas por Irene Romera Pintor y celebradas en Valencia, los días 24 y 25 de octubre de 2005. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: IRENE ROMERA PINTOR (ed.): Lunaria vent’anni dopo, Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia, 2006. El libro contiene los siguientes artículos: • V. CONSOLO, Ma la luna, la luna. • M. GIL ESTEVE, Aún Lunaria. • S. C. TROVATO, Il coraggio di una traduzione. A proposito della traduzione spagnola di Lunaria (di Irene Romera Pintor). 121 • A. PANTALEONI, Morte e pianto rituale in Lunaria di Vincenzo Consolo. • P. CARILE, Una testimonianza e una riflessione su Vincenzo Consolo: dalla Sicilia all’Europa. • M. A. CUEVAS, Lunaria antes de Lunaria. • G. ALBERTOCCHI, La luna e dintorni. • N. MESSINA, Lunaria dietro le quinte. • I. ROMERA PINTOR, Claves para una ensoñación lunaria. Contiene, además, los siguientes apéndices: • Mesa redonda, con la presencia y participación de Vincenzo Consolo, con ocasión de la presentación de la traducción al español de Lunaria (2003), con las intervenciones de Renzo Cremante, Joaquín Espinosa Carbonell, Manuel Gil Esteve, Isabel González, Irene Romera Pintor y Matilde Rovira. • Clausura de las Jornadas por Vincenzo Consolo. V. 5. Jornadas Internacionales: “Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y España. Los treinta años de Il sorriso dell’ignoto marinaio”, organizadas por Irene Romera Pintor y celebradas en Valencia, los días 23 y 24 de octubre de 2006. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: IRENE ROMERA PINTOR (ed.): Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y España. Los treinta años de “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia, 2007. El libro contiene los siguientes artículos: Proemio: • V. GONZÁLEZ MARTÍN, Sicilianidad e hispanidad en la obra de Vincenzo Consolo. 122 Artículos monográficos sobre Il sorriso dell’ignoto marinaio: • V. CONSOLO, Antonello da Messina. • R. CREMANTE, La sperimentazione di Vincenzo Consolo fra storia e invenzione. • G. FERRONI, Forme della visione nel Sorriso dell’ignoto marinaio. • S. C. TROVATO, Regionalità e traduzione. Dalla Sonrisa spagnola a quella argentina. • G. ADAMO, Limina testuali nel Sorriso dell’ignoto marinaio. • Mª. BAYARRI ROSSELLÓ, El ignoto marinero sonríe ante el árbol de las cuatro naranjas. • J. ESPINOSA CARBONELL, Sasà, Palamara, frate Nunzio y otros secundarios activos (Consideraciones en torno a los personajes secundarios de Il sorriso dell’ignoto marinaio). • N. MESSINA, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Vicissitudini di un progetto. Epílogo: • M. GIL ESTEVE, Dicen que Consolo. Contiene, además, los siguientes apéndices: • Presentación del libro: Lunaria vent’anni dopo (2006), con las intervenciones de Leonardo Carbone, Fausto Díaz Padilla, Manuel Gil Esteve, Isabel González, Vicente Navarro de Luján e Irene Romera Pintor. • Presentación del libro: La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo (2006), con las intervenciones de Giuliana Adamo, Giulio Ferroni e Irene Romera Pintor. • Clausura de las Jornadas por Vincenzo Consolo. 123 V. 6. Jornada Internacional: “Vincenzo Consolo between Sicily and Europe”, organizada por Martin McLaughlin y Daragh O’Connell, celebrada en Oxford el 15 de octubre de 2007 (“University of Oxford in association with and hosted by the Maison Française d’Oxford”). Pendiente de la publicación de las Actas. Señalo la relación de los participantes (por orden de intervención): • D. ZANCANI, Consolo Abroad: Criticism and Translations. • N. MESSINA, Un testo in controluce: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Cronistoria di un’edizione. • R. GLYNN, Consolo: The Intellectual and the 1970s’. • C. O’RAWE, Consolo saggista e la Sicilia testuale. • D. O’CONNELL, Consolo narratore e scrittore «palincestuoso». • J. FARRELL, Traducendo Consolo: la questione dello stile. Keynote Lecture Vincenzo Consolo: I muri d’Europa. V. 7. Jornadas Internacionales: “La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (Homenaje por sus 75 años)”, organizadas por Irene Romera Pintor y celebradas en Valencia, los días 14 y 15 de abril de 2008. Véanse las Actas de dichas Jornadas, recogidas en: IRENE ROMERA PINTOR (ed.): La pasión por la lengua: Vincenzo Consolo (Homenaje por sus 75 años), Generalitat Valenciana-Universitat de València, Valencia, 2008. El libro contiene los siguientes artículos: • V. CONSOLO, Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano. 124 • F. DÍAZ PADILLA, “Filosofiana” o Cuando las piedras hablan. • G. FERRONI, L’evidenza del nome nella scrittura di Vincenzo Consolo. • J. FRACCHIOLLA, Storia e storie nell’opera di Vincenzo Consolo. • V. GONZÁLEZ MARTÍN, La Nuova Questione della Lingua en Vincenzo Consolo. • S. C. TROVATO, Vincenzo Consolo o della regionalità linguistica. Contiene, además, los siguientes apéndices: • Entrevista a Vincenzo Consolo, por Jean Fracchiolla. • “Un sogno perso”, por Pasquale Scimeca. • Presentación del libro: Vincenzo Consolo, éthique et écriture (2007), con las intervenciones de Dominique Budor, Vincenzo Consolo, Renzo Cremante, Irene Romera Pintor y Cesare Segre. • Presentación del libro: Filosofiana de Vincenzo Consolo (2008), con las intervenciones de Renzo Cremante, Giulio Ferroni, Manuel Gil Esteve, Irene Romera Pintor y Cesare Segre. • Clausura de las Jornadas por Vincenzo Consolo. Tuvieron lugar los siguientes encuentros: • Mesa redonda, moderada por J. Inés Rodríguez Gómez, en la que Joaquín Espinosa Carbonell presentó a Pasquale Scimeca. El Director de cine comentó y proyectó “Un sogno perso” (1992), película estructurada en torno a tres relatos literarios. El primero de ellos es “Filosofiana” de Vincenzo Consolo. • Intervención de Ludovica Tortora de Falco, que relató su experiencia como directora y productora de una película documental sobre Vincenzo Consolo: “In viaggio con Vincenzo Consolo” (2008), proyectando parte de la misma. 125 VI. ESTUDIOS CRÍTICOS VI. 1. Obra de consulta imprescindible es el número monográfico dedicado a Vincenzo Consolo de la revista palermitana «Nuove Effemeridi. Rassegna trimestrale di cultura», n. 29, VIII, (ed. Guida), dirigida por Antonino Buttitta, 1995/I. Número a cargo de Vincenzo Barbarotta y Gianfranco Marrone. En esta obra destacan los textos de Vincenzo Consolo: • “29 aprile 1994: cronaca di una giornata”, pp. 4-7. • “Que farai, fra Iacovone?”, pp. 179-181. También se recogen los siguientes artículos: • Ferroni, Giulio: “Bestie trionfanti”, pp. 153-7. • Ferroni, Giulio: “Il calore della protesta”, pp. 173-6. • Marrone, Gianfranco y Montes, Stefano: “Una statua in fuga”, pp. 40-6. • Mazzarella, Salvatore: “Dell’olivo e dell’olivastro, ossia d’un viaggiatore”, pp. 47-70. • Onofri, Massimo: “La luce della storia”, pp. 159-163. • Onofri, Massimo: “Uno stesso ceppo”, pp. 177-8. • Segre, Cesare: “Frammenti di luna”, pp. 30-9. • Segre, Cesare: “La costruzione a chiocciola”, pp. 96-100. • Segre, Cesare: “Una provvisoria catarsi”, pp. 150-1. • Trovato, Salvatore C.: “Forme e funzioni del linguaggio”, pp. 15-29. 126 Enumero por temas los autores de los estudios críticos (al margen de los artículos más extensos citados anteriormente): • La ferita…: Nino Palumbo, Mario Lunetta, Giovanni Raboni, Angelo Guglielmi, Nino Calabrò. • Il sorriso…: Paolo Milano, Enzo Siciliano, Vittorio Spinazzola, Giuliano Gramigna, Alfredo Giuliani, Gian Carlo Ferretti, Antonio Debenedetti, Lorenzo Mondo, Domenico Porzio, Marino Biondi, Jesús Fuentes Ródenas, Leopoldo Alzancot, Peter Hainswort, Hansjörg Graf. • Lunaria: Francesco Durante, Maurizio Cucchi, Giovanni Raboni, Gian Carlo Ferretti, Giuliano Gramigna, Giuseppe Saltini, Paolo Mauri, Antonio Prete, Hector Bianciotti. • Retablo: Fabrizia Ramondino, Severino Cesari, Geno Pampaloni, Lorenzo Mondo, Leonardo Sciascia, Lidia De Federicis, Goffredo Fofi, Luciano Satta, Gian Carlo Ferretti, Raffaelle Crovi, Remo Ceserani, Claude Ambroise. • Le pietre…: Oreste del Buono, Raffaele Crovi, Renato Minore, Maurizio Cucchi, Giovanni Giudici, Stefano Giovanardi, Giuseppe Bonura, Natale Tedesco, Salvatore Nigro, Antonio Di Grado, Gianni Turchetta, Romano Luperini, Andrea Zanzotto, Carlo Sgorlon, Louis Soler. • Nottetempo…: Lorenzo Mondo, Ermanno Paccagnini, Geno Pampaloni, Stefano Giovanardi, Silvio Perrella, Horacio Vázquez Rial, Mercedes Monmany, René de Ceccatty, Monique Bacelli. • Nerò…: Francesco Durante, Giuseppe Amoroso, Salvatore Claudio Sgroi, Renato Minore. • L’olivo…: Lorenzo Mondo, Giuliano Gramigna, Giuseppe Bonura, Stefano Giovanardi, Giuseppe Pederiali. Además de los estudios críticos y reseñas de prensa sobre su obra, dicho número monográfico recoge una entrevista al autor [realizada 127 por Roberto Andò (“Vincenzo Consolo: la follia, l’indignazione, la scrittura” (pp. 8-14)], así como una bibliografía detallada de la obra completa del autor (narrativa, ensayos, artículos, etc.) y de la crítica (pp. 182-5). Enriquecen el volumen los valiosos documentos fotográficos tanto de los paisajes emblemáticos de Sicilia, como de autores y críticos contemporáneos fotografiados junto con Vincenzo Consolo (Bufalino, Buttitta, Levi, Maraini, Montale, Pasolini, Piccolo, Rodari, Sciascia, Sellerio, Segre, Vázquez Montalbán…). VI. 2. La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. Giuliana Adamo (ed.), con una introducción de Giulio Ferroni, Manni («Studi, 99»), San Cesario di Lecce, 2006. Véase la amplia ordenación bibliográfica, pp. 191-212. En esta obra destaca el texto de Vincenzo Consolo: • “La metrica della memoria”, pp. 177-189. También se recogen los siguientes estudios críticos que señalo por orden de aparición: • Ferroni, Giulio: “Prefazione”, pp. 7-10. • La Penna, Daniela: “Enunciazione, simulazione di parlato e norma scritta. Ricognizioni tematiche e linguistico-stilistiche su La ferita dell’aprile di Vincenzo Consolo”, pp. 13-49. • Cuevas, Miguel Ángel: “Le tre edizioni de La ferita dell’aprile: le varianti”, pp. 49-69. • Adamo, Giuliana: “Sull’inizio del Sorriso dell’ignoto marinaio”, pp. 71-120. • Messina, Nicolò: “Nello scriptorium di Vincenzo Consolo. Il caso di “Morte Sacrata” (Il sorriso dell’ignoto marinaio, III), pp. 121-160. 128 • Romera Pintor, Irene: “Introduzione a Lunaria: Consolo versus Calderón”, pp. 161-176. VI. 3. “Scrittura e memoria in Vincenzo Consolo”. Se trata del número monográfico dedicado a Vincenzo Consolo de la revista de «Microprovincia», n. 48, Nuova serie, Gennaio-Dicembre, 2010, Rosminiane Sodalitas, Stresa, dirigida por Franco Esposito. En esta obra destacan los textos de Vincenzo Consolo: • “Frammento”, p. 5. • “La metrica della memoria”, pp. 161-8. También se recogen los siguientes estudios críticos que señalo por orden de aparición: • Esposito, Franco: “E dopo il ’68, anche nella «provincia di frontiera» tutto fu nausea”, pp. 1-4. • Budor, Dominique: “Perché leggere Consolo, «nostro» classico”34, pp. 6-12. • Turchetta, Gianni: “«Per toccare la vita che ci scorre per davanti»: Retablo e l’arte come nostalgia”, pp. 13-9. • Bárberi Squarotti, Giorgio: “Il fonosimbolismo fascinoso di Consolo ne Il sorriso dell’ignoto marinaio”, pp. 20-38. • Segre, Cesare: “Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo”, pp. 39-41. • O’ Connell, Daragh: “Il palinsesto della memoria: Consolo fra narrare e scrivere”, pp. 42-66. 34 Traducción del francés de Claudia Azzola. 129 • Messina, Nicolò: “Tra Mandralisca e Crowley. Su alcuni quaderni dell’Archivio Consolo”, pp. 67-7335 y 82-4. • Baratter, Paola: “Lunaria: il mondo salvato dalla Luna”, pp. 85-93. • Mazzocchi, Federico: “Vincenzo Consolo e l’incessante ricerca: tra enumerazione metaforica e metafora dell’enumerazione”, pp. 94- 116. • Cinquegrani, Alessandro: “La volontà di individuazione nella letteratura di Vincenzo Consolo”, pp. 117-126. • Stajano, Corrado: “Vincenzo Consolo e gli amici della lava nera”, pp. 127-132. • Gaccione, Angelo: “Vincenzo Consolo come Verga”, pp. 133-5. • Maffia, Dante: “Vincenzo Consolo, una lingua carica di segni”, pp. 136-9. • Bruni, Pierfranco: “Vincenzo Consolo, lungo le rotte di Odisseo”, pp. 140-5. • Ferretti, Gian Carlo: “Lunaria, una favola teatrale”, pp. 146-736. • Di Stefano, Paolo: “Due incontri con Vincenzo Consolo”, pp. 151-7. VI. 4. Por lo que respecta a libros que recogen una bibliografía crítica detallada sobre la obra de Vincenzo Consolo, me limito a destacar la siguiente monografía: • Traina, G., Vincenzo Consolo, Cadmo («Scritture in corso, 4»), Fiesole (Florencia), 1998. Para una amplia ordenación bibliográfica, cf. pp. 111-122. 35 En las pp. 74-81, viene publicado como “Appendice” una parte de los cuadernos del Archivo Consolo. 36 Original publicación de la entrevista de Gian Carlo Ferretti, en abril de 1985, pues vienen reproducidas por entero las respuestas manuscritas del propio Consolo (pp. 148-50). 130 VI. 5. ARTÍCULOS: • Segre, Cesare: Introducción a Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milán, 1987, pp. V-XVIII. • Segre, Cesare: “La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo, en Intrecci di voci, Einaudi, Turín, 1991, pp. 71-86. • Segre, Cesare: “Teatro e racconto su frammenti di luna”, en Intrecci di voci, Einaudi, Turín, 1991, pp. 87-102. • Segre, Cesare: “Inserti storiografici e storiografia sotto accusa nel capolavoro di Vincenzo Consolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio”, en Tempo di bilanci, Einaudi, Turín, 2005, pp. 129-138. • Trovato, Salvatore, C.: cuatro artículos sobre la lengua de Vincenzo Consolo. Dichos artículos –publicados años atrás– se recogen ahora, revisados y corregidos, por capítulos en el libro: Italiano regionale, letteratura, traduzione. Pirandello, D’Arrigo, Consolo, Occhiato, Euno Edizioni, Leonforte, 2010. Cap. I: Sulla regionalità letteraria in Italia: Pirandello, D’Arrigo, Consolo, pp. 11-27. Cap. IV: Tra dialetto, dialetti e italiano regionale in Consolo, pp. 89-122. Cap. V: L’elemento regionale in “Filosofiana”, un racconto delle Pietre di Pantalica di Vincenzo Consolo, pp. 123-177. Cap. IX: Sulla traduzione della regionalità: Il sorriso dell’ignoto marinaio e Retablo in spagnolo, pp. 301-337. VI. 6. EN PREPARACIÓN: • El libro monográfico sobre Il sorriso dell’ignoto marinaio de próxima aparición: Cochlías legere: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”, approcci critici. Edición de Nicolò Messina y Daragh O’Connell, Cesati, Florencia. ÍNDICE DE NOMBRES 133 ÍNDICE DE NOMBRES A Adamo, Giuliana, 18n, 122, 127 Addamo, Sebastiano, 31 Aghion, Soula, 99 Albertocchi, Giovanni, 120, 121 Alvino, Gualberto, 28 Alzancot, Leopoldo, 126 Ambroise, Claude, 126 Arqués, Rossend, 120 Attanasio, Maria, 120 Atenea (diosa mitológica), 52 Amoroso, Giuseppe, 31, 126 Andò, Roberto, 127 Annibali, Manuela, 111 Aristófanes (comediógrafo griego), 61 Avogadro, Mauro, 107 Azzola, Claudia, 128n B Bacelli, Monique, 126 Baratter, Paola, 129 Barbarotta, Vincenzo, 125 Bárberi Squarotti, Giorgio, 128 Barca, Aníbal (general cartaginés), 53n Barca, Asdrúbal (general cartaginés), 53n Barca, Magón (general cartaginés), 53n 134 Barcia, Roque, 28, 43n, 85 Barone, Giovanni, 98 Barni, Roberta, 99 Battaglia, Salvatore, 28, 88 Bayarri Rosselló, María, 122 Bellonci, Goffredo, 95 Bellonci, Maria, 95 Beltrametti, Anna, 110 Benanti, Valeria, 107 Benincasa, Rutilio (filósofo), 55n Benítez, Esther, 98, 107 Bersani, Mauro, 32 Bertelli, Giorgio, 96n Bértolo, Constantino, 102 Bianciotti, Hector, 126 Biondi, Marino, 126 Bongiovanni, Loreto, 108 Bonalumi, Louis, 101 Bonura, Giuseppe, 31, 126 Borja, Gaspar de (Cardenal), 40n Bosetti, G., 112 Bouchard, Norma, 102 Budor, Dominique, 117, 124, 128 Bufalino, Gesualdo, 28, 127 Burgaretta, Giusi, 107 Buttitta, Antonino, 125 Buttitta, Ignazio, 127 Briand, Maryvonne, 114 Brogi, Daniela, 111 Brucoli, Elisabetta, 113 Brunner, Maria E., 99-101 Bruni, Pierfranco, 129 135 C Calabrò, Nino, 126 Caleca, Antonino, 110 Camps, Assumpta, 99 Capuana, Cecilia, 96n Caputo, Rino, 110 Capponi, Paola, 120 Carbone, Leonardo, 122 Carbone, R., 32 Cardillo, Agata, 106 Carile, Paolo, 119, 121 Carlos IV (rey), 47n Casciani, Paola, 111 Castelli, Antonio, 109 Catalano, Maria Giuseppina, 108 Cataldo, Maria Cristina, 116 Catti, Massimo, 111 Cavagna, Ola, 107 Cerruti, Marco, 111 Cervantes Saavedra, Miguel de, 104, 123 Cesari, Severino, 126 Ceserani, Remo, 126 Cinquegrani, Alessandro, 129 Cipolla, Stefania, 108 Colaço Barreiros, José, 99, 101 Colin, Mariella, 114 Consolo1 , Vincenzo, 2, 3, 5, 7, 9, 13-20, 15n, 18n, 22, 23, 28, 31-33, 41n, 42n, 48n, 57n, 58n, 60n, 64, 67, 72, 74, 76, 77, 79, 80, 83, 84, 93, 96n, 97, 102-125, 127-129, 129n, 130 1 Obra citada por orden cronológico. 136 La ferita dell’aprile (1963), 93, 97, 103, 106, 126, 127 Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), 13, 14, 93, 97, 106-108, 115, 116, 119-123, 126-128, 130 Lunaria (1985), 13, 18n, 93, 98, 99, 103, 107, 120-122, 126, 128, 129 Retablo (1987), 13, 14, 94, 99, 103, 107- 109, 115, 119, 120, 126, 128, 130 Le pietre di Pantalica (1988), 7, 13, 14n, 15, 18n, 19, 31, 32, 36, 42n, 48n, 58n, 65-88, 94, 100, 103, 107, 112, 126, 130 Catarsi (1989), 96, 109 La Sicilia passeggiata (1991), 94 Nottetempo, casa per casa (1992), 94, 100, 103, 108, 118-120, 126 Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia (1993), 95 Nerò metallicò (1994), 96, 96n, 107, 126 L’olivo e l’olivastro (1994), 95, 101, 103, 107, 126 Lo spasimo di Palermo (1998), 95, 101, 103, 108 Di qua dal faro (1999), 95, 102, 103 Il teatro del sole (1999), 96, 96n Isole Dolci del Dio (2002), 96 Siracusa come un incanto (2003), 96 Pio La Torre, orgoglio di Sicilia (2009), 96 Il Corteo di Dioniso (2009), 96 L’attesa (2010), 96 Cornelio, Cettina, 108 Corominas, Joan, 28 Covarrubias, Sebastián de, 43n Cremante, Renzo, 121, 122, 124 Crovi, Raffaele, 31, 126 Cucchi, Maurizio, 31, 126 137 Cucchiani, Lorenza, 112 Cuevas, Miguel Ángel, 97, 102, 119-121, 127 Cutrufelli, Maria Rosa, 119 D D’Arrigo, Stefano, 28, 130 Da Messina, Antonello, 110, 122 Darmon, Maurice, 19, 97, 100 Dauner, Christine, 114 Davico Bonino, Guido, 118 De Angelis, Giovanna, 111 Debenedetti, Antonio, 126 De Federicis, Lidia, 126 Dell’Agnese, Elena, 109 Del Buono, Oreste, 31, 126 De Mauro, Tullio, 28 De Paulis-Dalembert, Maria Pia, 118 De Voogd, Pietha, 99 Díaz Padilla, Fausto, 18n, 122, 124 Di Gerolamo, Nicola, 33 Di Grado, Antonio, 32, 106, 108, 126 Di Mauro, Linda, 111 Di Salvo, Vanessa, 108 Di Stefano, Paolo, 129 Di Trapani, Laura, 107 De Ceccatty, René, 126 Denschlag, Agnes, 114 Depetro, Carmelo, 32 Dollo, Glenda, 109 Dombroski, Robert S., 116 138 Dragoni, Barbara, 111 Du Merac, Rubat, 112 Durante, Francesco, 126 E Echegoyen, Christinna, 27 Escipión, Cneo Cornelio, 53n Escipión, Publio Cornelio, 53n Escipión, Publio Cornelio, Africano Maior, 53n Esquilo (dramaturgo griego), 17, 18, 21, 52, 52n, 59, 59n, 61 Espinosa Carbonell, Joaquín, 121, 122, 124 Esposito, Franco, 128 F Faggi, Vico, 31 Farrell, Joseph, 98, 108, 116, 123 Ferraris, Denis, 113, 118 Ferretti, Gian Carlo, 126, 129, 129n Ferroni, Giulio, 18n, 118, 122, 124, 125, 127 Fiocchetti, Maria Letizia, 106 Fofi, Goffredo, 126 Frabotta, Bianca Maria, 111 Francucci, Federico, 110 Frasnedi, Fabrizio, 106 Fracchiolla, Jean, 124 Fuentes Ródenas, Jesús, 126 Fusco, Mario, 98, 108 139 G Gabriel y Galán, José María, 44n Gaccione, Angelo, 129 Galvagno, Rosalba, 28, 108, 109, 118, 119 Gandolfo, Carmela, 106 García de Diego, Vicente, 29 García Soriano, Justo, 27 Gardair, J. M., 113 Gareffi, Andrea, 104 Geerts, Walter, 115, 118 Gellini, Eleonora, 112 Gentile Vitale, Juan Carlos, 99, 101 Gerosa, Guido, 31 Ghirardelli, Matteo, 106 Giachery, Emerico, 110 Giachi, Arianna, 97 Giambanco, Daniela, 109 Giannetti, Valeria, 118 Gil Esteve, Manuel, 115, 120-122, 124 Giuliana, Gabriela Maria Concetta, 107 Giuliani, Alfredo, 126 Giudici, Giovanni, 31, 126 Giovanardi, Stefano, 31, 111, 126 Glynn, Ruth, 123 Goebel-Schilling, Gerhard, 114 Gómez Ortin, Francisco, 27 Góngora y Argote, Luis de, 43n González Fernández, Isabel, 121, 122 González Martín, Vicente, 121, 124 González Rodríguez, Pilar, 102 Graf, Hansjörg, 126 140 Gramigna, Giuliano, 126 Grasset, Bernard, 98 Grosschmid, Pablo, 27 Guagnini, Elvio, 112 Guaraldo, Enrico, 104 Guglielmi, Angelo, 126 H Hainswort, Peter, 126 Hartmann, Ulrich, 97 Hermes (dios mitológico), 52, 61n I Ibarra Lario, Antonia, 29 Imberty, Claude, 118 Isotti-Rosowsky, Giuditta, 113 K Kienlechner, Bettina, 97 L Landolfi, Idolina, 33 La Penna, Daniela, 127 La Rosa, Debora, 108 141 La Rosa, Mª Elena, 107 Larussa, Rosaria, 106 Lasala, Giuseppe, 106 Leopardi, Giacomo, 2, 103 Levi, Primo, 127 Litrico, Andreina, 109 Lo Bue, Salvatore, 109 Lollini, Massimo, 102 Lunetta, Mario, 126 Luperini, Romano, 33, 126 M Maffia, Dante, 129 Manera, Danilo, 100 Manganaro, Jean Paul, 101, 102, 117n, 118 Mangione, Michele, 107 Mannoni, Eugène, 32 Mannoni, Francesco, 31 Marabini, Claudio, 32 Maraini, Dacia, 127 Marongiu, Jean Baptiste, 33 Marrone, Gianfranco, 125 Martignoni, Clelia, 110 Martínez Álvarez de Sotomayor, Jose María, 70, 86 Martoglio, Nino, 103 Mauri, Paolo, 126 Mazzarella, Salvatore, 125 Mazzola, Giuseppa, 106 Mazzocchi, Federico, 129 McLaughlin, Martin, 123 142 Medina, Vicente (poeta murciano), 22, 70 Merola, Nicola, 106 Messina, Nicolò, 115, 120-123, 127, 129, 130 Milano, Paolo, 126 Mineo, Nicolò, 106 Minore, Renato, 31, 126 Mocca, Monica, 113 Monastra, Rosa Maria, 108 Mondo, Lorenzo, 126 Monmany, Mercedes, 126 Montale, Eugenio, 127 Montes, Stefano, 125 Morini, Alessandra, 109 Moroldo, Arnaldo, 113 Mortillaro, Vincenzo, 27, 72, 79 Moliner, María, 28, 65, 71, 78, 88 Muñoz Garrigós, José, 29 N Nànfara, Don Gregorio (personaje de “Filosofiana”), 14, 16-18, 49-63, 52n, 55n, 57n, 59n, 81 Napoleón (emperador), 46n Navarro de Luján, Vicente, 122 Nicastro, Guido, 107 Nigro, Salvatore, 32, 126 O Ochoa Santos, Miguel Gabriel, 115 143 Occhiato, Giuseppe, 130 Occhipinti, Maria, 112 Onofri, Massimo, 119, 125 O’Connell, Daragh, 101, 116, 123, 128, 130 O’Rawe, Catherine, 123 P Paccagnini, Ermanno, 32, 126 Palumbo, Nino, 126 Pampaloni, Geno, 126 Pantaleoni, Angelo, 121 Paoloni, Christian, 99 Papa, Enzo, 119 Parlagreco, Vito2 (personaje de “Filosofiana”), 14-17, 19, 25, 42, 43, 45-63, 48n, 58n, 65, 79, 81, 83, 88, 89 Parlagreco, Bastiano (hijo de Vito), 44 Parlagreco, Maria (hija de Vito), 44 Parlagreco, Michele (hijo de Vito), 44 Parniere, Anne, 113 Pascale, Vincenzo, 116 Pascual, José Antonio, 28 Pasolini, Pier Paolo, 127 Pastaro, Giovanni, 107 Paterniti Martello, Fabiola, 110 Paulicelli, Eugenia, 116 Pautasso, Sergio, 119 Pazó, Cándido, 100 Pederiali, Giuseppe, 126 2 (Vitu, Vituco, Vituzzo) 144 Pellegrini, Chiara, 110 Perrella, Silvio, 126 Pérol, Brigitte, 99 Perrone, D., 109 Petrucci, Livio, 110 Piccolo, Lucio, 110, 127 Piccitto, Giorgio, 27 Pichler, Anita, 19, 100 Pignone, Dario, 106 Pieiller, Evelyne, 33 Pirandello, Luigi, 76, 103, 130 Pitré, Giuseppe, 29 Pivot, Bernard, 22 Pizzuto, Antonio, 28 Plutarco (historiador griego), 52n Pogliani, Paolo, 32 Poljak, Ana, 100 Porzio, Domenico, 126 Prete, Antonio, 126 Q Quasimodo, Salvatore, 14n R Raboni, Giovanni, 32, 126 Racine, Patricia, 112 Ramondino, Fabrizia, 126 Rando, Giuseppe, 109 Renard, Marie-France, 118 145 Rodari, Gianni, 127 Rodríguez Gómez, J. Inés, 124 Romera Pintor, Irene, 2, 3, 18n, 98, 100, 120-124, 128 Recupero, Antonino, 118 Riccardi, Carla, 119 Ricorda, Ricciarda, 112 Ronfani, Ugo, 94 Rovira, Matilde, 121 Ruiz Marín, Diego, 27 Rustico, Lisa, 109 S Saavedra (personaje de “Filosofiana”), 40, 42 Saavedra Fajardo, Diego de, 40n, 86 Sager, Michel, 98, 108 Salonia, Eros, 109 Saltini, Giuseppe, 126 Santangelo, Nicoletta, 112 Santos Domínguez, Eloy-José, 101 Saraceno, Alessia, 108 Satta, Luciano, 33, 126 Savettieri, Chiara, 110 Sbrilli, Antonella, 111 Sciascia, Leonardo, 98, 110, 111, 126, 127 Scimeca, Pasquale, 15n, 124 Scuderi, Attilio, 111 Sebregondi, Maria, 32 Segre, Cesare, 9, 13, 18, 20, 41n, 74, 118, 124, 125, 127, 128, 130 Seix, Francisco (editor), 43n Sellerio, Enzo, 127 Sereni, Silvia, 31 146 Sgorlon, Carlo, 33, 126 Sgroi, Salvatore Claudio, 126 Siciliano, Enzo, 126 Sófocles (trágico griego), 52n Solà, Alexis Eudald, 98 Soler, Louis, 33, 126 Spampinato, Federica, 107 Spinazzola, Vittorio, 126 Spinello, Lorella, 108 Stajano, Corrado, 129 Steiger, Arnold, 29 Stendhal, 14 T Tanu (personaje de “Filosofiana”), 45, 46, 50, 62 Tedesco, Natale, 31, 32, 104, 126 Trismegisto, Hermes (alquimista y filósofo), 61, 61n Tiralongo, Arianna, 108 Tobia, Giovanna, 109 Tortora de Falco, Ludovica, 124 Traina, Giuseppe, 119, 129 Tropea, Giovanni, 27 Trovato, Salvatore C., 27, 106-108, 120, 122, 124, 125, 130 Trunfio, Demetrio, 112 Turchetta, Gianni, 18n, 32, 36, 126, 128 U Ubach Medina, Antonio, 115 147 V Valenti, I. M. B., 106n Van Orshoven, Annemieke, 115 Vázquez Montalbán, Manuel, 127 Vázquez Rial, Horacio, 126 Vecchio, Alfio, 111 Veneziano, Antonio, 104, 123 Verga, Giovanni, 31, 33, 129 Vignatti, Mirta, 98 Vilavedra, Dolores, 100 Vilella, Eduard, 120 Vita, Valérie, 113 Vitello, Gabriele, 111 Vittorini, Elio, 31, 110, 111 W Waly, Naglaa, 98, 99 Z Zancani, Diego, 123 Zanzotto, Andrea, 32, 126 Zappulla Muscarà, Sarah, 107

Presentazione del libro Filosofiana, di Vincenzo Consolo racconto tratto dal libro le “Pietre di Pantalica”. Madrid istituto Cervantes. Il 17 di aprile 2008 Presenta: Manuel Gil Esteve (Cattedratico de Filologia Italiana. Universidad Complutense. Partecipano: Renzo Cremante, Cattedratico de Filologia Italiana Director del Fond de Manuscritos de Autores Contemporaneos. Università di Pavia. Salvatore Trovato, Cattedratico de Linguistica Universidad de Catania. Irene Romera Pintor: Professora Titular de Filologia Italiana. Univesidad de Valencia.

Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Prima parte.
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Seconda parte
Presentazione del libro Filosofiana, Madrid istituto Cervantes. Vincenzo Consolo. Terza parte.

“Un sogno perso” por PASQUALE SCIMECA


“Un sogno perso” è il mio secondo film, ed è un film che deve molto a Vincenzo Consolo, ma questo lui non lo sa. Nel 1988, io facevo l’insegnante. Come spesso accadeva a tanti della mia generazione, dopo la laurea, sono andato a lavorare nelle regioni del nord Italia; perché lì c’erano più possibilità.
Durante l’estate tornavo al mio paese per stare un po’ con i miei e ritrovare i vecchi amici. Quella estate del 1988, al mio paese, avevano indetto un concorso di fotografia. Il mio è un piccolo paese con poco più di mille abitanti, nel centro del feudo della Sicilia. I miei amici, che sapevano della mia passione per la fotografi a, mi esortavano a presentare le mie foto a questo concorso. Io, sinceramente, non ero molto interessato alla cosa e non volevo farlo; però quando mi dissero che il Presidente della giuria era Vincenzo Consolo, ho deciso di partecipare per avere così la possibilità di conoscerlo. Il primo premio, per chi vinceva questo concorso, consisteva nella solita “targa”, e cosa più importante, in un milione di lire (circa cinquecento euro di oggi). Così cominciai ad andare in giro per le campagne a fotografare i pastori e i contadini, (quelli che ancora resistevano a quella vita di stenti). Alla fi ne fui io che vinsi il primo premio, e con i soldi mi comprai una cinepresa Arriflex 16 mm di seconda mano. Il possesso di questa cinepresa stimolò la mia antica passione per il cinema; e fu così che iniziò la mia carriera cinematografica. Vincenzo Consolo, suo malgrado, ha dunque una responsabilità molto grande per quello che poi sarebbe diventato il mio lavoro. Anche perché senza quel milione del premio non avrei mai comprato quella cinepresa (che conservo ancora come un cimelio) e non avrei mai iniziato a fare cinema.
I miei due primi film (La donzelletta e Un sogno perso) li ho fatti con quella cinepresa, e questo mi ha permesso, soprattutto, di sviluppare la mia idea di cinema autoriale; dalla scrittura alla fotografia, dal montaggio alla produzione. Eravamo un gruppo di amici ai quali piaceva il cinema e abbiamo coinvolto altre persone, e così abbiamo fatto, a bassissimo costo, La donzelletta. Poi questo fi lm è stato comprato da Enrico Ghezzi per Fuori Orario che andava (e va ancora) in onda su Rai Tre. E sempre Rai Tre ci ha dato i soldi (cento milioni di lire —cinquantamila euro circa di oggi—) per il secondo film: Un sogno perso.
Dopo questa piccola parentesi, vorrei tornare a parlare dei temi, che in questi due giorni di convegno, hanno affrontato l’opera di Vincenzo Consolo, partendo proprio dal mio secondo film Un sogno perso.
I due primi episodi del film sono tratti dalle opere di due grandi scrittori siciliani: Elio Vittorini e Vincenzo Consolo. Dico scrittori siciliani e non italiani, perché una parte importante della letteratura italiana del secolo scorso è stata opera di autori siciliani (Pirandello, Brancati, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, per citare solo i più noti). Una cosa, questa, che mi ha sempre colpito; perché fi no alla metà del secolo scorso, in Sicilia, l’ ottanta per cento della popolazione era analfabeta. Mi sono sempre chiesto; come è possibile che da un popolo di analfabeti siano potuti uscire questi grandi scrittori? Io credo, che in qualche modo, questo abbia a che fare col fatto che l’arte del racconto, il gusto e il piacere del racconto
(che purtroppo oggi si è perso) è un qualcosa di insito nell’animo del popolo siciliano. In tutti i paesi c’erano delle persone: artigiani, contadini, pescatori, minatori, ecc., che erano stimati e amati solo perché avevano il dono del racconto. Da bambino passavo anch’io il mio tempo seduto nelle botteghe dei barbieri o dei calzolai a sentire i loro racconti. E poi c’erano i Cantastorie con le loro chitarre e i loro cartelloni dipinti, e i pupari, questi artigiani dell’arte che intrattenevano il pubblico, non una sera o due, ma trecento sessanta sere all’anno, ogni sera c’era una puntata, con racconti straordinari che assomigliavano molto a quelli delle Mille e una notte. Un sogno perso è un film di tanti anni fa: del 1992. Un film su un sogno, perso per l’appunto. Il sogno di un mondo, quello della mia infanzia, della civiltà contadina spazzata via da una nuova forma di civiltà che P. P. Pasolini chiamava del consumismo, dove ci sono tutte quelle cose che dicevo prima, ma c’è soprattutto la letteratura. Il primo episodio è tratto da Filosofiana di Consolo e il secondo dall’ultimo romanzo (incompiuto) di Vittorini Le città del mondo.
Quello che ho fatto, rispetto al racconto di Consolo, è un’ opera, diciamo così, di tradimento. Perché dal momento che faccio un film tratto da uno scrittore è chiaro che lo tradisco. Lo tradisco nella forma e nella sostanza. Per me, l’episodio del libro di Consolo Filosofiana è anche un modo per raccontare un’altra cosa (che poi, credo, sia insita, sostanzialmente anche in Consolo), ma per me è una cosa più esplicita. Nel mio caso è una scusa per raccontare qualcosa di questo mondo che andava scomparendo; della Sicilia vista come metafora della civiltà contadina, questa millenaria civiltà contadina che si è riprodotta quasi uguale nel tempo. Per secoli e secoli ha riprodotto se stessa, con pochissime innovazioni, però anche con una pratica culturale e sociale, con un’idea del rapporto con la natura, con la cultura, l’educazione, e che nell’arco di qualche decennio è stata completamente annientata, distrutta. E questo in Sicilia è avvenuto anche fisicamente attraverso l’ emigrazione. Milioni di contadini, che avevano iniziato ad andare via già verso la fi ne dell’Ottocento, quando partivano a migliaia e migliaia, sui piroscafi che li portavano in America, in Argentina, in Brasile e perfino in Sudafrica. Ma negli anni cinquanta del secolo scorso, la cosa è diventata una vera e propria desertificazione, di una civiltà, di una cultura ma anche di una terra che cambiava. Prima di partire in massa i contadini, a dire il vero, avevano tentato una qualche forma di resistenza, disperata, folle, eroica. L’ultimo tentativo di resistenza, sono state le lotte contadine. Negli anni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di contadini hanno tentato di cambiare se stessi, di cambiare le cose, di scardinare quelle forme di potere feudale che si basavano sulla mafia, sulle classi aristocratiche, sulle gerarchie ecclesiastiche, sulle burocrazie del nuovo Stato unitario. Purtroppo queste lotte sono fallite, e il movimento contadino non si è più ripreso. Non solo il movimento contadino, ma l’intero popolo siciliano ha perso la sua identità e la sua anima. Ho parlato di popolo, ma in realtà, in Sicilia vi erano almeno tre popoli: quello dei pescatori, quello dei minatori e quello dei contadini. Erano mondi separati che spesso non avevano alcun rapporto fra di loro. Il minatore la mattina scendeva in miniera e non sapeva se la sera sarebbe tornato in superficie. Questo fatto determinava un modo di essere, una caratteristica esistenziale che lo distingueva da tutti gli altri. I contadini, ad esempio, si vestivano a festa soltanto in rarissime occasioni (funerali, matrimoni, battesimi, ecc.), mentre i minatori, ogni fi ne settimana si vestivano di modo elegante e andavano ad ubriacarsi nelle taverne, spendevano tutti i soldi che avevano guadagnato e che rimanevano, dopo le spese per la famiglia, perché tanto poi, chi sa se sarebbero tornati vivi dalle viscere della terra, l’ indomani tornando al lavoro. Per non parlare dei pescatori, che spesso parlavano dei dialetti propri, incomprensibili agli altri. Erano veramente tre mondi diversi l’uno dell’altro, ma accumunati da un’ unico destino; quello dell’estinzione. Questi popoli, scomparendo, hanno lasciato un deserto, ed è di questo che si parla nel mio film “Un sogno perso”, che poi è anche il mio sogno perso. Io vengo da un piccolo paese contadino… Per qualsiasi ragazzo del mio paese, Cefalù (la stessa Cefalù dove Consolo ha ambientato II sorriso dell’ignoto marinaio) era la civiltà, era il mondo. Sono andato a studiare a Cefalù dopo le scuole elementari, e quando uscivo per strada, spesso rimanevo sbalordito da questo nuovo mondo: i negozi, le ragazze in costume che si vedevano in estate, la cattedrale imponente, i palazzi signorili… Questo film mi ha aiutato a cercare un sogno che non esiste più. Un sogno che non potrà più ripetersi e qual è il modo migliore di cercare i sogni? Cercare nella letteratura; ecco perché Consolo, ecco perché Vittorini. Questi due episodi che i due grandi scrittori raccontano nei loro libri, mi sembravano fossero molto importanti perché in qualche modo erano degli episodi che seguivano in un arco di tempo (dalla fi ne della guerra fi no agli anni cinquanta), la delusione provocata dal fallimento delle lotte contadine. Vito Parlagreco che cerca di rifarsi una vita comprando questo pezzetto di terra pieno di pietre, perché erano delle vere e proprie pietraie le terre che una falsa riforma agraria dava ai contadini. Così come Vittorini in Le città del mondo ci racconta di quello che succede dopo. L’incomunicabilità tra padri e figli, la paura dei padri per l’ignoto e il desiderio dei figli di partire, di cancellare le orme dei padri. La rottura del Mito, l’inutilità della parola e della scrittura che caratterizzeranno gli ultimi anni di vita di Vittorini, e la ricerca spasmodica, quasi maniacale che Consolo dedica alla scrittura, sono le due facce della stessa medaglia. Si può scrivere di un mondo che sta scomparendo? Si può scrivere con parole che per le generazioni future non avranno più alcun significato? Lo si può fare a condizione di guardare alla storia come fosse l’anima del popolo, a condizione di rinunciare a qualsiasi forma di verismo e di andare all’essenza; “Eschilo, è nato qui, in terra di Sicilia” fa dire Consolo a don Gregorio, l’imbroglione che leva a Parlagreco l’ultima vana illusione. Eschilo il grande tragico… Chissà attraverso quale associazione d’idee mi viene in mente Verga. Forse perché penso che Verga è anche lui un grande tragico. Vittorini non è stato un grande tragico, ma tendeva in qualche modo alla tragedia attraverso la costruzione del mito. Consolo cerca la tragedia attraverso la parola, attraverso questo altro modo di lavorare la parola, di alzare il livello della realtà alla metafisica, scavando le parole come un minatore. Io quando sento parlare di letteratura regionalistica provo un po’ fastidio perché penso che la letteratura siciliana non ha niente di regionale, è pura metafora. È un caso che parla di Sicilia, anche se senza Sicilia non potrebbe esistere. Come diceva Vittorini (in Conversazioni in Sicilia) “È per caso che questa storia si svolge in Sicilia”. Dunque la Sicilia —come diceva un altro grande: Leonardo Sciascia— è una metafora del mondo. Quindi è una bella miniera per uno scrittore, dalla quale poter estrarre i minerali che si sciolgono nella lingua, che tra l’altro è una lingua molto ricca (c’è dentro qualcosa della lingua araba, di quella greca, spagnola, francese, italiana). Una lingua profonda che ha radici, che si nutre della terra. Questo è un po’ l’origine di questo film. Dove non c’è solo un riferimento letterario, ma un processo che parte dalla letteratura e diventa altro – perché il cinema è altro – Un bisogno esistenziale, un tentativo di raccontare la desertificazione di un mondo, la scomparsa di un popolo che può tornare a vivere solo nel sogno. Perché senza questo sogno non c’è letteratura, ma non c’è neanche il cinema. Grazie.

La pasión por la lengua: VINCENZO CONSOLO
(Homenaje por sus 75 años)
Irene Romera Pintor (Ed.)


foto di Marino Ciardi

Forme della visione nel Sorriso dell’ignoto marinaio.


Giulio Ferroni Università La Sapienza

La lingua di Vincenzo Consolo sembra come scavare la realtà,
sfidandone la sostanza fisica, l’evidenza visiva, la materia pullulante
che la costituisce: e il capitolo iniziale de Il sorriso dell’ignoto
marinaio, subito dopo la sintesi dell’ Antefatto si muove subito
in due direzioni essenziali, verso l’apertura “geografica” e storica
su di vastissimo ambiente fisico e umano, con la visione della
Sicilia che il Mandralisca ha dalla nave che si avvicina, e verso la
presa in carico del dolore umano, con il «rantolo» del malato, il
cavatore di pomice di Lipari, che sorge dal buio della stessa nave.
È un vero e proprio “quadro”, in cui l’eco di quel lacerante dolore
sembra come sovrapporsi allo svelarsi e al progressivo definirsi
del paesaggio, che quella lingua a forte caratura “poetica” sembra
come voler catturare nella densità delle presenze che lo abitano:
con un’espressività che si addensa intorno alle cose, che mira a
rivelare il loro pulsare, il loro sofferto palpitare, la loro espansione
nella luce o nel buio, ma che non si risolve mai in liricità
pura, producendo movimento, procedendo anche verso atti e gesti
fulminanti (che spesso giungono improvvisamente a rilevarsi
e fissarsi nei finali dei capitoli, nelle clausole quasi lapidarie che
li serrano).
Il primo circostanziato segno visivo, dopo la più indefinita
rivelazione della «grande isola», è costituito dai «fani sulle torri
della costa», con i loro colori e l’incerto oscillare della loro luce
(«erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci
»). Dopo questa prima apertura l’attenzione ritorna all’interno
del bastimento, sembra come ritrarsi nel buio, nel fragore delle
acque e nel cigolio delle vele squassate dal vento che avevano segnato
il percorso notturno della nave e nel presente silenzio del
«mare placato e come torpido», lacerato dal «respiro penoso» e dal
«lieve lamento» del malato. Questo respiro suscita l’immagine del
corpo sofferente, dei «polmoni rigidi, contratti», delle contrazioni
della «canna del collo», della «bocca che s’indovinava spalancata»:
s’indovinava, appunto, perché questa visione di dolore è solo
intuita, non vista; quello che il Mandralisca vede è solo «un luccichio
bianco che forse poteva essere di occhi». Ma proprio a partire
da questo bianco che sinistramente viene a fendere il buio,
la visione viene ad allargarsi verso il cielo ed ancora verso i fani
sopra le torri, che ora definiscono più nettamente il loro aspetto
ed evocano i nomi dei feudatari:
“Riguardò la volta del cielo con le stelle, l’isola grande di fronte,
i fani sopra le torri. Torrazzi d’arenaria e malta, ch’estollono i
lor merli di cinque canne sugli scogli, sui quali infrangersi di
tramontana i venti e i marosi. Erano del Calavà e Calanovella,
del Lauro e Gioiosa, del Brolo…”.
La serie dei nomi fa sì che dall’ultimo appaia improvvisamente
uno squarcio di un passato, con l’immagine di una dama affacciata
sul «verone», ma in posa molto realistica, lontana da ogni stilizzazione
cortese: è Bianca de’ Lancia di Brolo, che ha in grembo
Manfredi, figlio di Federico II e che ha la nausea e i contorcimenti
della gravidanza («Al castello de’ Lancia, sul verone, madonna
Bianca sta nauseata. Sospira e sputa, guata l’orizzonte»): è Federico
II, evocato in termini danteschi (il «vento di Soave», da Paradiso,
III) ad aver segnato le sue viscere, è il suo seme ad agire
nervosamente sul suo corpo («il vento di Soave la contorce»); e da
tutto si svolge la parola stessa dell’imperatore, con la citazione di
versi che si immaginano rivolti direttamente al falcone, strumento
essenziale della sua passione per la caccia. Ma ancora, dopo la
citazione, lo sguardo si apre sulla costa, verso le città sepolte, che
non ci sono più ma che sono vagheggiate dall’avidità conoscitiva,
dal gusto storico ed archeologico del barone:
“Dietro i fani, mezzo la costa, sotto gli ulivi giacevano città. Erano
Abacena e Agatirno, Alunzio e Apollonia, Alesa… Città nelle
quali il Mandralisca avrebbe raspato con le mani, ginocchioni,
fosse stato certo di trovare un vaso, una lucerna o solo una
moneta. Ma quelle, in vero, non sono ormai che nomi, sommamente
vaghi, suoni, sogni”.
Ma questo pensiero alle città sepolte, all’improbabile ipotesi di
un loro ritorno alla luce, riconduce poi il Mandralisca alla certezza
della tavoletta «avvolta nella tela cerata» che stringe al petto e
in cui sente persistere gli odori della bottega dello speziale che
gliel’ha venduta. Ma poi questi odori sono sopraffatti da quelli
che ormai provengono da terra, come il buio è sopraffatto ormai
dalla luce («svanirono le stelle, i fani sulle torri impallidirono»):
e ciò porta finalmente alla visione del malato e della donna che
lo assiste e lo soccorre. Da questa visione scaturisce poi la voce
che designa il male dello sventurato; e solo dopo la voce si rivela
la figura dell’ignoto marinaio, col suo «strano sorriso sulle
labbra. Un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro,
di uno che molto sa e molto ha visto, sa del presente e intuisce
del futuro; di uno che si difende dal dolore della conoscenza e
da un moto continuo di pietà». Il sorriso dell’ignoto marinaio è
insomma affidato soprattutto allo sguardo (di uno che molto sa
e molto ha visto); la descrizione si appunta sui suoi occhi («E gli
occhi aveva piccoli e puntuti, sotto l’arco nero delle sopracciglia»);
e anche se è vestito come un marinaio, a guardarlo si evidenzia
tutta la sua stranezza («in guardandolo, colui mostravasi uno strano
marinaio») e la forza penetrante della sua «vivace attenzione».
E dopo aver parlato dei cavatori di pomice di Lipari e delle loro
malattie, l’ignoto sorride, mentre il barone si chiede dove mai
l’aveva già visto e, sotto il suo sguardo, vede balenare dentro
di sé le immagini dei cavatori di pomice, del loro duro lavoro e
della loro sofferenza, sotto cui si nascondono ed emergono altre
immagini, quelle per lui consuete dei molluschi che studia e
colleziona e dei volumi degli studi ad essi dedicati, il tutto come
sottoposto ancora allo sguardo criticamente ironico del marinaio.
Si tratta di una formidabile serie di passaggi visivi, segnati da
questo sguardo che tocca il personaggio sconosciuto e che da lui
si svolge: passaggi che toccano le immagini che sorgono dentro
la coscienza stessa del barone e che, pur se solo interne a lui,
egli sente come scrutate e indagate dal marinaio, che gli sembra
addirittura leggere i titoli di quei libri, ironizzando sulla futilità di
quelle così minute ricerche:
Il marinaio lesse, e sorrise, con ironica commiserazione.
Quel sorriso sembra come suscitare il senso di colpa del ricco
intellettuale e amateur, per le sue così marginali predilezioni,
confrontate con la dura realtà dei cavatori di pomice. Ma a questo
punto si sentono i clamori e i rumori dell’ancoraggio, dell’arrivo
ad Olivèri, che fa sorgere un nuovo, vastissimo sguardo all’affollato
paesaggio che pullula sulla riva; sguardo che si svolge a partire
dalla luce che dal sole sorgente riceve la rocca in alto, per scendere
giù fino agli splendori mattutini della spiaggia, alle presenze
animali, alle barche immobili come relitti; distesa visione da cui
balenano ancora le immagini di un passato sepolto, del crollo
dell’antica città, dei «tesori dispersi» vagheggiati dal barone. E poi
ancora uno sguardo indietro, ad una scena del passato, ancora
ad una donna del medioevo, Adelasia (o Adelaide) di Monferrato,
la moglie giovanissima del sessantenne Ruggero I e fondatrice
di un convento a Patti, nei pressi di Tindari, la cui figura, fissata
nell’«alabastro» di un sarcofago, sembra aver atteso impassibile
la rovina del convento, e infine l’immagine del santuario della
madonna nera: «sopra la rocca, sull’orlo del precipizio, il piccolo
santuario custodiva la nigra Bizantina, la Vergine formosa chiusa
nel perfetto triangolo del manto splendente di granati, di perle,
d’acquemarine, l’impassibile Regina, la muta Sibilla, líbico èbano,
dall’unico gesto della mano che stringe il gambo dello scettro,
l’argento di tre gigli». Dopo la discussione col «criato» Sasà, la
spinta visiva si rivolge allo sciamare dei pellegrini che si affollano
per scendere dalla nave, alle offerte e agli ex-voto che essi portano
con sé: e tra di essi viene come centrata ancora la figura del
cavatore malato e della moglie che lo accompagna. Al barcone
che raccoglie i pellegrini che scendono dalla nave fa poi come
da pendant la «speronara» che porta via marmi antichi e piante
di agrumi e si allontana dalla riva, passando sotto il veliero da
dove la osserva il Mandralisca («ebbe modo così di osservare
a suo piacimento»); e infine, dopo la riflessione (appoggiata su
una citazione in corsivo da un testo del Landolina) si ritorna alla
visione dei pellegrini, che stanno salendo in processione verso il
santuario; dal loro canto si svolge improvvisamente quello osceno
di una ragazza che è nel barcone, tra i pellegrini scesi dal
veliero, fermata dalla madre che nella concitazione lascia cadere
in acqua una testa di cera.
La successione e i passaggi continui di dati visivi, intrecciati a
più riprese a dati sonori, vengono a creare, in questo avvio del
romanzo, una sorta di disteso movimento panoramico, in continui
passaggi tra campi lunghi e primi piani, formidabili zoomate
che procedono attraverso distensioni e concentrazioni della parola.
Lo sguardo di Consolo, quello del barone Mandralisca, quello
dell’ignoto marinaio (che, sappiamo è lo stesso della tavoletta di
Antonello e di Giovanni Interdonato), sono come animati da una
tensione a “vedere” che tocca le grandi distese dello spazio, la
vita che variamente si muove in esse, e mette a fuoco non solo
ciò che vi è direttamente visibile, ma anche il peso di quanto
esse hanno alle spalle, ciò che sono state, nel passato storico e
biologico: la visione coglie l’esistere che si distende, il suo carico
di presenze, di memorie, di suggestioni, l’agitazione che lo
sommuove, l’offerta che esso sembra fare di sé, l’ostinazione e la
volontà di vita che lo corrode, il suo stesso disperdersi e consumarsi
nell’aria.
Se si attraversa tutto il romanzo, emerge in piena evidenza
l’intreccio e l’essenzialità dei dati visivi, fissata del resto già nello
stesso riferimento del titolo alla tavola di Antonello. In questa
dominante della visività, è determinante la disposizione ad allargarne
i confini: il volto e il sorriso dell’individuo effigiato dal pittore
sono il punto di irradiazione di una apertura verso i grandi
spazi, verso una moltiplicazione delle presenze e delle evidenze.
Consolo “vede” la Sicilia come un grande corpo brulicante di
vita, esuberante, malsano, appassionato, lacerato, ne vuol rendere
conto come di una totalità; cerca di comprenderne il senso
afferrandone un’evidenza visiva che in ogni squarcio sembra
voler rivelare la densità, la fascinazione e la tremenda rovinosa
disgregazione del tutto, di un insieme di corpi che vi annaspano,
vi soffrono, vi si espandono, vi si mostrano.
La disposizione di Consolo a seguire l’evidenza degli slarghi
che si presentano all’occhio agisce del resto in modo vigoroso anche
nella sua scrittura saggistica, nei suoi larghi percorsi sul territorio
siciliano (in primis ne Le pietre di Pantalica). Qui nel Sorriso
un altro eccezionale squarcio d’insieme è quello su Cefalù, a cui
l’Interdonato si avvicina entrando in porto con il San Cristoforo,
all’inizio del capitolo secondo. Si comincia con la visione dell’affollarsi
di barche nel porto, salendo poi verso le case più vicine:
“Il San Cristoforo entrava dentro il porto mentre che ne uscivano
le barche, caicchi e, coi pescatori ai remi alle corde vele reti lampe
sego stoppa feccia, trafficanti, con voci e urla e con richiami,
dentro la barca, tra barca e barca, tra barca e la banchina, affollata
di vecchi, di donne e di bambini, urlanti parimenti e agitati;
altra folla alle case saracene sopra il porto: finestrelle balconi
altane terrazzini tetti muriccioli bastioni archi, acuti e tondi, fori
che s’aprivano impensati, a caso, con tende panni robe tovaglie
moccichini sventolanti”.
Poi l’obiettivo si muove rapidamente al polo opposto, concentrandosi
sulla rocca lassù in alto e scendendo poi più lentamente
sulle torri del duomo, che addirittura sembrano generate dalla
rocca stessa:
“Sopra il subbuglio basso, il brulicame chiassoso dello sbarcatoio
e delle case, per contrasto, la calma maestosa della rocca,
pietra viva, rosa, con la polveriera, il tempio di Diana, le cisterne
e col castello in cima. E sopra la bassa fila delle case, contro
il fondale della rocca, si stagliavano le due torri possenti del
gran duomo, con cuspidi a piramidi, bifore e monofore, soffuse
anch’esse d’una luce rosa sì da parere dalla rocca generate,
create per distacco di tremuoto o lavorio sapiente e millenario
di buriane, venti, acque dolci di cielo e acque salse corrosive di
marosi”.
Si torna poi all’agitazione furiosa del porto per la pesca abbondante,
alla gara delle barche per piazzarsi «sul filo giusto dei sessanta
passi», allo sbattere delle imposte e ai bagliori del sole che
si distende poi su di un ampio spazio geografico, slargando verso
le località della costa, con un gioco di immagini (il palpitare «a
scaglie» della luce sulla costa) che riconduce dentro il duomo, ai
dorati mosaici del Pantocratore:
“Tanta agitazione era per le pesche abbondanti di quei giorni.
Si diceva di cantàri e cantàri di sarde sàuri sgombri anciove,
passata portentosa di pesce azzurro per quel mare che manco i
vecchi a memoria loro rammentavano.
E venne su la febbre, gara tra flotta e flotta, ciurma e ciurma,
corsa a chi arrivava primo a piazzarsi sul filo giusto dei sessanta
passi. E gara tra famiglie, guerra. Smesso lo sventolio dei
pannizzi, il vociare, si chiusero le imposte con dispetto. I vetri
saettarono bagliori pel sole in faccia, orizzontale, calante verso
la punta là, Santa Lucia, e verso Imera Solunto l’Aspra il Pellegrino”.
Quando più tardi l’Interdonato scende dalla nave, si para in
modo più diretto davanti a lui e al ragazzo che l’accompagna il
pulsare della «gran vita» della città, delle diverse figure umane,
con il loro muoversi affaccendato, su cui echeggiano i segni sonori
del lavoro di chi non si vede, che è intento all’opera nel buio
degli interni:
“Discesi che furono sullo sbarcatoio, passata la Porta a Mare,
imboccarono la strada detta Fiume. Giovanni era eccitato e divertito
per la gran vita che c’era in questa strada: carusi a frotte
correndo sbucavano da strada della Corte, da Porto Salvo, da
Vetrani, da vanelle, bagli e piani, su da fondaci interrati, giù da
scale che s’aprivano nei muri e finivano nel nulla, in alto, verso
il cielo; vecchi avanti agli usci intenti a riparare rizzelle e nasse;
donne arroganti, ceste enormi strapiene di robe gocciolanti in
equilibrio sopra la testa e le mani puntate contro i fianchi, che
tornavano dal fiume sotterraneo, il Cefalino, alla foce sotto le
case Pirajno e Martino, con vasche e basole per uso già da secoli
a bagno e lavatoio. Sui discorsi, le voci, le grida e le risate, dominavano
i colpi cadenzati sopra i cuoi dei martelli degli scarpari,
innumeri e invisibili dentro i catoi.
Il mercatante, come dal San Cristoforo allo spettacolo dello sbarcatoio,
guardava dappertutto estasiato e sorrideva”.
E una Cefalù distesa e panoramica ritorna ancora, più avanti,
nello studio del barone visitato dall’Interdonato, nella copia della
pianta della città del secentesco Passa fiume, «ingrandita e colorata,
eseguita su commissione del barone dal pittore Bevilacqua»:
“La citta era vista come dall’alto, dall’occhio di un uccello che
vi plani, murata tutt’attorno verso il mare con quattro bastioni
alle sue porte sormontati da bandiere sventolanti. Le piccole
case, uguali e fitte come pecore dentro lo stazzo formato dal
semicerchio delle mura verso il mare e dalla rocca dietro che
chiudeva, erano tagliate a blocchi ben squadrati dalla strada
Regale in trasversale e dalle strade verticali che dalle falde scendevano
sul mare. Dominavano il gregge delle case come grandi
pastori guardiani il Duomo e il Vescovado, l’Osterio Magno, la
Badia di Santa Caterina e il Convento dei Domenicani. Nel porto
fatto rizzo per il vento, si dondolavano galee feluche brigantini.
Sul cielo si spiegava a onde, come orifiamma o controfiocco,
un cartiglione, con sopra scritto CEPHALEDUM SICILIAE URBS
PLACENTISSIMA. E sopra il cartiglio lo stemma ovale, in cornice
a volute, tagliato per metà, in cui di sopra si vede re Ruggero
che offre al Salvatore la fabbrica del Duomo e nella mezzania di
sotto tre cefali lunghi disposti a stella che addentano al contempo
una pagnotta”.
La visione dello stemma con i tre cefali dà poi luogo ad un
vero e proprio corto circuito con una visione precedente, quella
di una «guastella» gettata in mare dal ragazzo che accompagna
l’Interdonato e rapidamente divorata da un branco di cefali; e da
qui sorge una riflessione “politica” su Cefalù, la Sicilia, la speranza
del superamento della feroce lotta per la vita e di un trionfo
dell’eguaglianza, della solidarietà, della ragione:
“L’Interdonato, alla vista dello stemma, si ricordò della guastella
buttata dentro l’acqua da Giovanni e subito morsicata dai cefali
del porto. La sua mente venne attraversata da lampi di pensieri,
figure, fantasie. Stemma di Cefalù e anche di Trinacria per via
delle tre code divergenti, ma stemma universale di questo globo
che si chiama Terra, simbolo di storia dalla nascita dell’uomo
fino a questi giorni: lotta per la pagnotta, guerra bestiale dove
il forte prevale e il debole soccombe… (Qu’est-ce-que la propriété?)
… Ma già è la vigilia del Grande Mutamento: tutti i cefali
si disporranno sullo stesso piano e la pagnotta la divideranno
in parti uguali, senza ammazzamenti, senza sopraffazioni animalesche.
E cefalo come Cefalù vuol dire testa; e testa significa
ragione, mente, uomo… Vuoi vedere che da questa terra?…”.
In un romanzo successivo come Nottetempo casa per casa si
aprono altri squarci eccezionali su Cefalù e dintorni, che sembrano
seguire un movimento che attraversa lo spazio casa per casa
e ne coglie l’effetto globale, la configurazione rivelatrice: affidandosi
in primo luogo alla forza evocativa dei nomi, alla precisione
dell’onomastica geografica e topografica, che viene come ad addensare
in sé la vita vibrante del mondo, le esistenze molteplici,
esuberanti e disperate, trionfanti e rapprese, le luci e le ombre
che lo abitano. Nello stesso romanzo il capitolo IV, La torre, apre
anche uno squarcio su Palermo, seguendo il percorso compiutovi
dal protagonista Petro, venuto a partecipare ad una manifestazione
socialista: ai nomi che fissano i dati urbanistici, architettonici,
storici, si mescolano i dati “moderni” delle insegne pubbliche e
della pubblicità e poi quelli delle scritte dei cartelli di un corteo
(mentre dal palco del comizio, su Piazza Politeama, si svolge un
nuovo slargo verso il paesaggio marino, riconosciuto nei suoi più
definiti dati geografici).
Lì, come nel Sorriso, e nelle stesse pagine che abbiamo citato,
i nomi costituiscono un strumento più determinante della resa
espressiva: nomi propri e nomi comuni, sostantivi rari e preziosi,
di forte sostanza letteraria o di rude carica realistica, nomi che
emergono da un passato ancestrale o nomi legati al più dimesso
fare quotidiano, nomi radicati nel fondo dell’esperienza popolare,
nelle pratiche artigiane o contadine o portati dall’invasione della
modernità, dalle sue spinte liberatrici o dai suoi miti più distruttivi
e perversi. L’elencazione seriale, che costituisce il dato stilistico
più diffuso e ben riconoscibile della scrittura di Consolo, agisce
soprattutto nell’ambito dei nomi, collegandosi talvolta a scatti
improvvisi della sintassi, tra inversioni e alterazioni ritmiche: il
linguaggio viene così forzato in una doppia direzione, sia costringendolo
ad immergersi verso un centro oscuro, verso l’intimità
delle cose e dell’esperienza, verso il fondo più resistente e cieco
della materia, il suo inarrivabile hic et nunc, sia allargandone
l’orizzonte, dilatandone i connotati nello spazio e nel tempo, portandolo
appunto a “vedere” la distesa più ampia dell’ambiente e a
farsi carico della sua stessa densità storica, di quanto resta in esso
di un lacerato passato e di faticoso proiettarsi verso il futuro.
Chiuso nella torre (il vecchio mulino avuto in lascito da don
Michele) a meditare sul dolore della propria famiglia (oltre la malattia
del padre, la disperata follia della sorella Lucia), il Petro di
Nottetempo si aggrappa alla forza delle parole, che sono prima di
tutto «nomi di cose vere, visibili, concrete», nomi che egli scandisce
come isolandoli nel loro rilievo primigenio e assoluto e da
cui ricava un impossibile sogno di un ritorno alle origini, di un
rinominare capace di trarre alla luce una realtà non ancora contaminata
dal dolore e dalla rovina. Nuovo inizio potrebbe essere
dato dalla trasparenza assoluta di nomi che designano una realtà
senza pieghe dolorose, in un nuovo flusso sereno della vita e del
tempo:
“E s’aggrappò alle parole, ai nomi di cose vere, visibili, concrete.
Scandì a voce alta: «Terra. Pietra. Sènia. Casa. Forno. Pane. Ulivo.
Carrubo. Sommacco. Capra. Sale. Asino. Rocca. Tempio. Cisterna.
Mura. Ficodindia. Pino. Palma. Castello. Cielo. Corvo. Gazza.
Colomba. Fringuello. Nuvola. Sole. Arcobaleno…» scandì come a
voler rinominare, ricreare il mondo. Ricominciare dal momento
in cui nulla era accaduto, nulla perduto ancora, la vicenda si
svolgeva serena, sereno il tempo” (IV, La torre).
Si noti qui come nell’elencazione, che la punteggiatura fissa
in una sorta di forma pura, i vari nomi si succedano a gruppi,
riferiti a diversi settori d’esperienza, secondo una progressione
che va dalla solidità elementare della terra al richiamo aereo del
volo e di uno spazio cosmico, fino alla colorata impalpabilità dell’arcobaleno.
Nel Sorriso, peraltro, nel capitolo sesto, rivolgendosi
all’Interdonato nel presentare la sua Memoria sui fatti d’Alcàra Li
Fusi, il Mandralisca rifletteva sulla lingua e sull’«impostura» della
scrittura e proiettava verso il futuro l’utopia di «parole nuove»,
vere anche per gli esclusi dal linguaggio colto, per coloro che
non hanno avuto ancora la possibilità di comprendere le parole
della moderna democrazia:
“E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità,
Democrazia, riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi,
pandette, costituzioni, noi, che quei valori abbiamo già conquisi
e posseduti, se pure li abbiam veduti anche distrutti o minacciati
dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli
altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la
terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione,
questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle
parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno
quei valori, ed essi allora li chiameranno con parole
nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i
nomi saranno interamente riempiti dalle cose”.
Ma sappiamo (e ce lo mostrerà il Petro di Nottetempo) che forse
la piena solidarietà tra i nomi e le cose si dà solo nella fantasia
del ritorno alla loro origine, nell’utopia della letteratura, di quella
scrittura che certo tradisce la vita col suo dolore e con la sua
evidenza, ma che sola cerca di dirla e di “vederla”, più a fondo
possibile.


Irene Romera Pintor (coord.)
Editores: Generalidad Valenciana = Generalitat ValencianaConselleria de Cultura, Educació i Esport : Universidad de Valencia = Universitat de València
Año de publicación: 2007
Recoge los contenidos presentados a:Vincenzo Consolo: punto de unión entre Sicilia y España. Los treinta años de “Il sorriso dell’ignoto marinaio” (1. 2006. Valencia).

    Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

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    Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

     

    27 LUGLIO 2011 NATALE TEDESCO TOPOGRAFIE LETTERARIE

    di Natale Tedesco

     

    Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

    In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore. Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo, La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

    Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

    In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

    Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

    Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

    Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

    L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

    Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

    Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di Pantalica. Fascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

    Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

    Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

    Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

    Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

    Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagement. Di quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

    Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

    In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

    Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

    Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

    La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

    E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

    In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si giuoca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

    20 giugno 2007

    Vincenzo Consolo: l’irrequietudine e il sigillo della scrittura

    20 GIUGNO 2007
    TOPOGRAFIE LETTERARIE

    di Natale Tedesco

    Due sono gli elementi che in generale caratterizzano e qualificano l’elaborazione inventiva, l’opera, di Vincenzo Consolo: il legame con la tradizione letteraria dei grandi siciliani che ha rappresentato la condizione umana dell’isola come mondo ma che con una costitutiva e persistente disposizione a riscrivere la storia della Sicilia e dell’Italia, cioè portando avanti una ricognizione del suo percorso civile e politico, finisce col delineare come una controstoria nazionale. L’altro elemento è quello di una peculiare formalizzazione della scrittura isolana, la cui forte originalità è soprattutto di carattere linguistico.

    In verità, la tradizione realistica della narrativa siciliana è molto meno compatta e unitaria di quanto non si creda: lirismo e prosa d’arte, sperimentalismo e ricerca linguistica, formalismo in genere, s’intrecciano con il realismo di base e a volte lo sopraffanno ed espungono anche nella varia produzione di uno stesso autore.Proprio per Consolo c’è da dire che prima ancora che Lunaria, un’opera del 1985, si presenti come una deliberata antinarrazione, questo intreccio è evidente nel primo romanzo,La ferita dell’aprile, del 1963, ambientato nel periodo difficile dell’immediato dopoguerra, in una Sicilia dove le tensioni sociali si manifestano drammaticamente in uno con le “ferite” di un gruppo di adolescenti inquieti. Già qui le forme del romanzo si scontravano con gli intenti poematici, nello sperimentalismo di una fraseologia autobiografica vernacolare, con un lirismo che ritaglia un Verga poetico. E pure Il sorriso dell’ignoto marinaio, il romanzo del 1976 ritenuto il suo capolavoro, segnato da ricercatezze lessicali e costrutti regionali d’antica e recente formazione, è intersecato da piani stilistici differenziati.

    Nel Sorriso dell’ignoto marinaio, opera significativa di tutto un tempo dell’elaborazione della prosa italiana, dominata dal dissidio tipico dell’ideologia letteraria del decennio Settanta, tra rifiuto della letteratura e fede nella scrittura, la narrazione che vuole essere oggettiva della situazione storica, cioé impegnata a rappresentare le rivolte contadine a metà dell’Ottocento e la loro repressione classista, si mescola con un immaginario barocco, o neobarocco che dir si voglia, di accentuato vigore. Protagonisti del romanzo sono Enrico Pirajno di Mandralisca, un aristocratico liberale ed illuminista, e l’avvocato Giovanni Interdonato, un borghese cospiratore antiborbonico (figura di ascendenza sciasciana dell’intransigenza morale ed intellettuale), e pure diversamente sorpresi e scolpiti nel sorriso ambiguo dell’uomo siciliano del quadro di Antonello da Messina.

    In realtà, in quest’opera, al Verga del primo libro, allo Sciascia del secondo, è subentrato più prepotentemente come nume tutelare Lucio Piccolo e con lui entra in profondità nella prosa la poesia, con lacerti di lui e di altri poeti, e con modulazioni e ritmi che sono di essa. Non si tratta solo di singole parole, magari recuperate nel segno di ambiguità e ambivalenze, come “datura”: fiore bianco e veleno. Rispetto ai passi, ai luoghi esibiti di altri poeti, la citazione di versi piccoliani non è virgolettata, perché sono fatti propri come immagini, figure, di un consentaneo e simpatetico universo espressivo. Si vedano come sono incastonati emistichi o versi come “l’eco risorta…” o “velieri salpati alla speranza di isole felici…”.

    Di fatto, ancora diverso, è l’insistito preziosismo lessicale, con un particolare assaporamento dell’aggettivazione che isola i particolari, già andando contro il costruire prosastico più disteso. Per questo non ci si può limitare a godere o a saziarsi di questa ricchezza, senza nemmeno sospettare le ragioni di una scelta che è ideologica, di una poetica che è già contrastativa e in cui vive l’invettiva contro la valanga di libri ‘privi d’anima’.

    Se nell’opera di Consolo vi sono modulazioni barocche e, più, rococò in un misto isolano di dolcezze da ‘arte minore’ e di Serpotta, soprattutto nell’impegnato neoclassicismo preromantico di fine Settecento sono da vedere le sue ascendenze esemplari. Penso ai romanzi Le avventure di Saffo, Notti romane al sepolcro degli Scipioni del periodo romano di Alessandro Verri, pur sempre anti-pedantesco e anticruscante transfuga dalla Milano in cui aveva combattuto contro i “parolai”, che tuttavia i suoi ‘racconti filosofici’ vergò con penna neoclassica.

    Retablo, sequenza di accadimenti e di figure, di scritti, di uno scritto che s’incrocia con un’altro, è un incrocio di passato e di presente, di un goethiano “viaggiare alla ricerca degli stampi”. Al fondo di tutta la condizione cognitiva e formale di Retablo, sembra fermentare anche un retaggio di Leopardi, quel privilegiamento dell’antico e quella poetica della rimembranza, che fanno diverso il suo classicismo rispetto agli stessi ultimi settecenteschi, e che,dunque, mettono su altri profili quei riferimenti ai neoclassici preromantici, di cui si è detto per Consolo.

    L’antico è per il nostro scrittore il ritrovamento della dimora isolana, come ancestralità storica e metastorica, che, sul piano individuale, vuol dire recuperare l’infanzia dei giardini messinesi, dei carbonari dei Nebrodi.

    Se è vero, come affermava Salvatore Battaglia, che “Il poeta, secondo il paradigma leopardiano, è un restauratore di antiche remote impressioni, idealità, fantasmi, in cui egli si rifugia per evitare la depressione della vita presente”, sembrerebbe che Consolo viva passionalmente questa condizione. Per questo parrebbe che Retablo risolva pure quel peculiare contrasto della crisi della cultura, dell’ideologia letteraria degli anni Settanta, tra negazione della letteratura e fiducia nella scrittura. Senza volere togliere nulla al rilievo che Il sorriso ha nella produzione consoliana, alla luce degli ultimi libri dello scrittore messinese, si deve tuttavia affermare che Retablo gode di un’ispirazione unitaria che porta ad esiti più compiuti almeno una parte, forse la più autentica della sua tematica, soggetta a spinte centrifughe altrettanto vere. Invero, essendo un elemento costitutivo fortemente ineludibile, il problema di Consolo rimarrà la necessità di comporre di volta in volta la tensione poetica con la scrittura referenziale di un chiaro discorso politico. Il dilemma che pur nella ambiguità permeava Il sorriso dell’ignoto marinaio con forza e fascino, appare risolto univocamente in Retablo.

    Ma ritorna, anzi quasi contemporaneamente persiste al modo di Vittorini, nelle Pietre di PantalicaFascinosamente ambiguo è altresì il linguaggio anticato, ma in modo che non sia sempre attibuibile ad un’area linguistica storicamente determinata, e paia venir fuori da un mondo sommerso e ricreato con l’immaginazione, vago e concretissimo insieme. Un linguaggio che in realtà, anche quando va da movimento a stabilità, non accetta di consistere del tutto; come l’ideologia dello scrittore che, sempre vittorinianamente, rifiuta la quiete nella non speranza, e invero si agita, si sbilancia tra disperazione e speranza. Per questo la sua memoria del tempo andato non è ferma, ma si spinge a contestare, con il presente, anche se stessa.

    Con questa raccolta del 1988 Vincenzo Consolo ha reinventato peraltro il progetto che già fu di Vittorini; ha scritto le sue “città del mondo”, che intanto paiono più nostre. Così sembra che abbia pure ripreso in prima persona il viaggio che il suo personaggio Clerici aveva compiuto in Retablo. Dunque, ottobre ottantasette Retablo, ottobre ottantotto Le pietre di Pantalica: un anno appena d’intervallo. Ma bisognerebbe dire dei suoi reali tempi di composizione; rimane il fatto che Le pietre di Pantalica conservano e rinsaldano una mobilità e plurivocità che saranno riprese in futuro. Peraltro, se in gran parte esso pare venir fuori dalla costola plurilinguistica del Sorriso dell’ignoto marinaio, con qualche ricordo dell’autobiografismo della Ferita dell’aprile, pure usufruisce di quella ricerca prosodica che dal barocco e rococò perviene ad una scrittura che vuol farsi classica pur bagnando la penna nell’ inquietudine ideale e nell’ insoddisfazione espressiva della contemporaneità.

    Sorgono da amore, dolore e sdegno, dunque, le pagine di diverso memorialismo della raccolta: come I linguaggi del bosco e Le pietre di Pantalica, la prosa eponima del libro. Un memorialismo complesso, intricato e intrigante: un domestico, privato, autobiografico ricordo che è anche civile, antropologica memoria della vita e della storia. Si tratta di una memoria non cristallizzata, né soddisfatta di sé, ma dialettica, soprattutto agonistica. Un inusitato agonismo della memoria, perché non muove solo contro il presente, ma questa volta si agita e tenzona anche al suo interno, in forza della dinamica plurivocità delle componenti contenutistiche ed espressive.

    Il decennio Novanta vede subito Consolo riproporre con forza un romanzo di argomento storico, ambientato nell’isola negli anni dell’avvento fascista. Pietro, un maestro elementare, dopo un attentato a proprietari e fascisti, fugge esule in Tunisia. L’opera in qualche modo riprende la tematica democratica di rivisitazione della nostra storia, come già nel Sorriso dell’ignoto marinaio, ma in una chiave formale diversa. Nottetempo casa per casa (1992) è stato considerato un romanzo postmoderno perché fondato sulla citazione letteraria da scrittori pur diversi (Manzoni, Verga, Pascoli, D’Annunzio, Montale), sulla parodia, il rifacimento e l’alternarsi di usi linguistici molteplici, per concludere che tuttavia non si riteneva una soluzione postmoderna il prevalere in esso dell’italiano letterario, la scelta di uno stile eletto. Invero la convinzione consoliana che sia la letteratura a difenderci dal generale degrado e imbarbarimento sempre più pervasivi, non era una novità. L’idea della letteratura come “impostura” stava bene in piedi nel contesto particolare dell’opera del 1976, sia il contesto interno dell’opera, sia il contesto esterno.

    Nell’Olivo e l’olivastro,l’autobiografismo dell’autore, che torna nella maturità a prorompere più apertamente, per farsi giudizio metapersonale viene traslato in terza persona. Affidarsi all’Ulisse mitico, della poesia omerica, serve all’Odisseo, al Nessuno di oggi, a procurarsi un’identità che, perduta nel presente, si può solo ricostruire nel passato, col passato. E solo così, nel naufragio, nella catastrofe generale, si può trovare una salvezza individuale. La poesia moderna si è servita della “enumeraciòn caotica” perché nominando le cose ha ritenuto di riconoscerle, di riguadagnarle. Oggi si ha il sospetto che si nominano le cose per segnalare la definitiva perdita di esse. Per questo lo scrittore o si serve di un linguaggio referenziale che ( “tradendo il campo” con “stanca ecolalia”) ha solo un compito informativo, oppure inventa un linguaggio metaforico che si deve descrittare nelle sue valenze interiori. In questo linguaggio irreale, dominato dalla dannazione dell’inesprimibile, ora le epifanie danno solo il senso della ricerca di una verità misteriosa da identificare. Con ciò e perciò la pratica di una scrittura visionaria, anche a partire da un apparente, semplice dato di cronaca.

    Lo Spasimo di Palermo conclude, dopo Il sorriso e Nottetempo, il trittico narrativo in cui Consolo affronta la storia dell’isola dalla parte dei vinti e della Storia rinnega e demistifica storture e menzogne. La forma è sempre più ellittica e problematica, e tende allo scavo interiore e alla vertigine espressiva: il frutto di questa sfida sempre più impervia ai linguaggi piatti e strumentali della comunicazione è una scrittura insieme febbrile e raziocinante, accesa e vigile, tramata di poesia e di engagementDi quest’ultimo fa fede il palese riferimento alle coraggiose e sfortunate inchieste del pool giudiziario di Palermo e alla tragica strage di via D’Amelio, in cui confluiscono le vicende e i destini dipanati nel romanzo.

    Simbolo dell’immane fallimento d’una società e insieme d’una generazione che avrebbe voluto e potuto modificarla -è l’assassinio del coraggioso giudice, intravvisto dal protagonista – testimone, che è uno scrittore sfiduciato e votato al silenzio, nonché un padre altrettanto deluso e autocritico. La crisi della scrittura coincide così con lo “spasimo” estremo di una civiltà: un punto di non ritorno, ovvero di avvio di modalità espressive e di tensioni civili da rifondare.

    In tutta la produzione di Vincenzo Consolo di manifestazioni vigorosamente mitopoietiche ve ne sono tantissime. Anzi si può dire che l’aspetto più precipuo della sua formalizzazione è il raccontare creativo, questo riprendere miti ricreandoli. Al principio dell’invenzione di Consolo ci furono la ferita (sì, La ferita dell’aprile, titolo della sua prima opera, è pure figura di un dato esistenziale) e la folgorazione poetica. Nella produzione di Consolo, a quanto se ne sa, si isolano due episodi di versificazione poetica vera e propria.

    Mi riferisco a Marina a Tindari , del 1972, che dunque si colloca tra La ferita dell’aprile e Il sorriso dell’ignoto marinaio. Questo testo in versi, quasi sconosciuto, contiene molti, forse i principali temi dell’intera sua opera, anche certi usi lessicali: il vorticare; certe pratiche linguistiche. L’altro testo splendido è L’ape iblea- elegia per Noto, da cui è scaturito L’Oratorio composto da uno straordinario Francesco Pennisi ed eseguito a Firenze il 19 giugno 1998 al teatro Verdi. Nella tradizione passata e recente egli si ritaglia Verga e Vittorini poetici – già il siracusano riprendeva Montale – e propriamente il ‘vorticare’ lirico di Lucio Piccolo. Da quell’ulcerazione ne vennero i grumi di dolore da rappresentare per trame intense di una ricerca, appunto mitopoietica. La cognizione del dolore per avere tregua, per vivere delle soste, si riporta peraltro al mondo della natura. Al malessere alla perdita, cioè all’assenza della persona, si risponde con la presenza delle figure del mondo naturale. La scrittura ridona la memoria delle cose, e non sai se è ricordo umano o memoria di fisicità ancestrale, una presenza che prepara eventi, o appena un trasalimento di evanescenze.

    Alla base di questa sua ricerca mitopoietica, certo, c’è un’opzione della positività umana, del vivere sociale che merita l’impegno civile del letterato, ma la maturazione di Consolo avviene tra rifiuto della letteratura che risulta nonostante le intenzioni, sempre esornativa, e fede nella scrittura che ripostula il mondo nel suo continuo inventare. Essa si colloca nell’alveo del rapporto fra tradizione e innovazione, tra norma ed eccezione. Non è paradossale per Consolo, come per tutti i siciliani, che nella superstite fedeltà alla norma l’eversione sposi uno sperimentalismo che invece di coniugarsi con l’avanguardia, la neo avanguardia, si muove nel solco di una tradizione che pure può stare stretta. Avverte tuttavia Consolo:

    La tradizione non si può cancellare, e chi pretende di cancellarla agisce sull’idea stessa di letteratura, dico sul senso nobilmente bachtiniano di una letteratura che trama contro le cancellazioni dell’oblio. E’ questa la vera funzione della letteratura, nella quale si sperimenta un altro tipo di memoria.

    E’ ovvio che fra tradizione e innovazione, anche nel pieno dell’eversione, il cemento è il reale, anzi, nel crogiuolo materiale, là dove i miti siciliani non sono arsenali, armamentari dell’arte isolana, ma costituiscono il seno materno di essa, per dirla con Karl Marx, il cemento è la realtà esistenziale dell’autore, il profondo e radicato vissuto biografico. La particolarità del rapporto che Consolo istituisce tra la sua effettuale vicenda biografica e la rappresentazione letteraria che ne dà, consiste nel fatto che tale vicenda piuttosto che essere, quasi ovviamente, deterministicamente ancorata ad una situazione storica – la nostra, terribile – risulta dolorosamente uncinata da questa.

    In ciò è da riconoscere la condizione di sofferenza che qualifica e fa vibrare esistenzialisticamente il lavoro dello scrittore contemporaneo. Nella misura di questa sofferenza e nella modalità di esitarla, di uscirne anche, liricamente, sta il significato complesso e complessivo dell’operazione scrittoria di Consolo, cioè della sua invenzione che si costruisce sempre più in grumi di dolore e di rifiuto. L’invettiva contro il presente storico insopportabile, si coniuga, anzi ha radice in un malessere esistenziale personale, tra perdita e assenza. In tal senso è esemplare l’incontro con la madre nell’ Olivo e l’olivastro. Ad ogni modo in Consolo la carta della letteratura si gioca nell’irrequietudine e questa ha il suo sigillo nella scrittura mitopoietica.

    20 giugno 2007