IL LINGUAGGIO DI GUTTUSO

Vincenzo Consolo

Ci sono giorni, tremendi giorni d’inquiete primavere, di roventi estati senza fine, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza estrema, insopportabile. Un mondo – cieli tersi di cristallo, acque immote di basalto, terre spoglie di calcare – un mondo attonito per la tragedia che appena s’è conclusa o sospeso nell’attesa del disastro. È il mondo, la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, l’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta; è il dolore che impietrisce e intenebra la Madre, smarrisce il Fratello adolescente. Sì, nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o Andalusia, sopra i Golgota di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio e del riscatto; nelle sue Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie; nella sua Messina, sopra i tavolati degli Iblei, per la valle del Belice si sono succeduti i terremoti; per gli immensi fianchi della sua Etna sono colate le lave d’ogni tempo. Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e di fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di fuoco, ha avuto il potere di travolgere, di ridurre alla paura, al sonno, alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della comprensione, della capacità e del bisogno del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso. Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Acitrezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria – la Bagaria, la bagarria: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione -, un paese di polvere e di sole, di tufo d’oro e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di Mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro duro e inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo ultimo, mortale. La salvezza era solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione, di verità e di poesia. Verga peregrinò e s’attardò in «continente» per metà della sua vita con la fede in un mondo irreale, di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi ogni velo di errore, di illusione, perché scoprisse dentro sé il mondo «solido e intatto» della sua memoria, ch’era stato sempre lì in agguato, pronto a ghermirlo, a gettarlo giù dal cavallo dell’incoscienza sul terreno della crisi, a fargli ritrovare il suo linguaggio. E ripartendo dalle situazioni, dai luoghi estremi, dalle falde dell’Etna, da Tebidi, dalla cava presso Monserrato, partendo da creature minime, innocenti, da Nedda, Jeli e Rosso Malpelo, il rischio subito fu quello dell’«innesto» del naturalistico, del dialettale nel linguaggio appena ritrovato («…quei corsivi che “bucano” la pagina» dirà un critico). Ma poi, dalla casa del Nespolo, dalla lava solidificata d’una immemorabile tempesta che sconfina e scioglie nel mare infido e fatale di Acitrezza, il linguaggio uniformemente «irradiato» di dialettalità, si fa sicuro canto, melopea, si fa parodo e stasimo della tragedia dei Malavoglia, della tragedia umana. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono, o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo: forte, all’epoca. ‘intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava a lui davanti a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua apparenza e nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella «dimora vitale» di Bagheria, si trovò a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il Venti e il Trenta, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, con il suo campiere, e il contadino, decisa la volontà in ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò i morti di Riesi e di Gela, che fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel: colui che, da lì a qualche anno, salito su un aeroplano. avrebbe martirizzato Guernica l’inerme, Guernica l’innocente: preludio infame di più vasti martini, d’olocausti. Si stagliarono allora subito le «cose» di Guttuso nello spazio con una evidenza e una vita straordinarie, parlarono di realtà assoluta e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che «bucano» la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro singolare, inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è il suo Fantasticherie, è il manifesto, la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire. La quale comincia, per questo pittore tragico d’una terra tragica, col vasto poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva. ineluttabile al pari di un’avversa deità, di un «destino», che si presenta con la violenza di un vulcano. La Juga dall’ Eina è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un «utero tonante» – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi; vengono avanti come valanga ostinata e orgogliosa di vita, vengono con le loro azzurre falci. coi loro mossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix; vengono tutti, uomini e animali, vibranti di vitalità come le masse di Gericault. Dall’allesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’oflesa investe Favo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Coya, di Gongora, di Unamuno. La Fucilazione in compagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo di dolore e raccapriccio, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie vaganti all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio, Guttuso inchioda alla loro colpa, con questo scandalo, con questo manifesto, i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificale, benedivano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei di sempre, non era né la nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era, come nella Flagellazione di Piero, in cui si relegava in secondo piano il tema sacro e avanzava nel primo una conversazione filosofica o civile, nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, anche Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. «Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati […] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee…» scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana, voce rattenuta di dolore e di furore, la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. Tornava l’eroe alla terra delle madri, della memoria, per ritrovare senso e ragione nella follia della storia, trovare nuovo linguaggio, «nuovi doveri». «Io ero quell’inverno in preda ad astratti furori…» narrava. E sono, negli anni atroci della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagheria, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara.

In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte senza fine, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica disumana, dalla perenne paura del crollo e della fine. Una pagina di tale orrore e di tale pietà solo Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo (e in contrappunto Pirandello con Ciaula scopre la luna). E Malpelo è sicuramente il caruso piegato de La zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In tutto poi il peregrinare per il mondo: nell’affrontare temi «urbani», ampiamente storici, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo lin-guaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura, il terremoto nella valle del Belice. E La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, come gli antichi cortei funerari, la marcia verso un’acropoli di distruzione e di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dall’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da sicure mani, la lampada raggiante e allarmante di Guernica, sono le lampade alle finestre nella notte dell’incendio a Vizzini in apertura del Mastro don Gesualdo, e sono insieme il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche le realtà più estreme, più mude, più insopportabili, le realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo. Simbolo di una solare, guttusiana luce che ci aiuta a risalire il colle anche nella notte del disastro e dell’alienazione, della perdita del senso della realtà e della verità. Notte nella quale oggi stiamo vivendo.



Sant’Agata Militello, 16 agosto 1991

Pubblicato in forma diversa in Art e Dossier n.63 Giunti Editori.
Firenze dicembre 1991

Il sorriso dell’ignoto marinaio, acquaforte di Renato Guttuso.
autunno 1975

La conversazione interrotta

Vincenzo Consolo

   Subito una citazione, un’epigrafe da porre idealmente sul frontespizio di questo numero di Nuove Effemeridi dedicato a Leonardo Sciascia. È un azzardo la mia scelta, perché lo scrittore, di sconfinata cultura e d’inarrivabile gusto, era fra l’altro maestro delle epigrafi, delle citazioni, dei rimandi, delle concatenazioni, degli infiniti echi letterari. Ma la mia epigrafe si giustifica per il fatto di essere di Borges, uno degli scrittori più amati da Sciascia. È una lirica, tratta da Fervore di Buenos Aires, intitolata Rimorso per qualsiasi morte:

    “Libero dalla memoria e dalla speranza,

illimitato, astratto, quasi futuro,

il morto non è morto: è la morte.
Come il Dio dei mistici,

del Quale si devono negare tutti i predicati,

il morto ubiquamente estraneo

non è che la perdizione e l’assenza del mondo.

Tutto gli derubiamo,

non gli lasciamo né colore né una sillaba…”

   Rimorso per qualsiasi morte, rimpianto per qualsiasi persona che non è più fra noi, con noi. Ma maggior rimorso e rimpianto, è innegabile, quando quella persona era per tutti illuminazione e insegnamento, coscienza ed esempio, probità e sapienza, fantasia e impegno… Così com’era Leonardo Sciascia, come dovrebbero essere i veri grandi scrittori. I quali non compaiono numerosi sulla scena della storia, e ancor più rari diventano in questa nostra epoca in cui tutto congiura per far allontanare dal mondo intelligenza e conoscenza, memoria e poesia.

   L’antologia di scritti di Nuove Effemeridi, stesi al momento emozionale della scomparsa dello scrittore, non è che un segno minimo – minimo perché immediato – di ciò che quest’uomo per noi, per la nostra sfera socio-culturale ha significato. Il tempo, il grande Tempo (“Che non consumi tu / tempo vorace” scrivevano come epigrafe gli incisori di paesaggi con rovine), il tempo confermerà, ahinoi, verità e grandezza alla sua opera, a quel prezioso e generoso patrimonio che ci ha lasciato. Come ha dato, il tempo, l’orrore, lo sgomento moderno della vita e della storia, verità e grandezza all’opera di Kafka; come ha dato, il tempo, la crisi, lo smarrimento dell’identità individuale e sociale, la perdita d’ogni certezza culturale e ideologica della nostra epoca, sempre più verità e grandezza all’opera di Pirandello.

   Difficile parlare delle tantissime voci che affollano questa antologia. Voci italiane di amici, di estimatori, di consonanti o di dissonanti con e dallo scrittore; e voci francesi, spagnole, tedesche, inglesi. Tuttavia non possiamo esimerci dal fare qualche osservazione, qualche commento brevissimo su alcune affermazioni contenute in questa preziosa documentazione. Non siamo d’accordo con l’analisi di Moravia, su quel procedere che egli vede in Sciascia, contrariamente al naturale processo illuminista o razionalista, dalla chiarezza verso l’oscurità. Per noi è sbagliato enunciare questa analisi senza aggiungere che il quai des brumes, il porto delle caligini, l’approdo nell’oscurità e nel mistero non è di Sciascia ma del mondo, della storia, del potere che muove la storia, e lo scrittore non fa che rappresentarlo, che denunciarlo, così come Gadda rappresentava il barocchismo del mondo.

   Vogliamo sottolineare la limpidezza d’animo e di mente, l’onestà personale e intellettuale che traspare dallo scritto di Emanuele Macaluso. E ancora la fideistica, inscalfibile convinzione di un critico letterario, peraltro fine, come Lorenzo Mondo, contro ogni prova provata, ogni confessione e testimonianza giudiziaria dei protagonisti, contro quanto sùbito intuito e sostenuto da Sciascia nel suo libro, che le lettere scritte da Moro nella prigione delle Brigate Rosse non erano di testa e di mano dello statista poi assassinato. Meglio non sottolineare invece, nel brano di Enzo Forcella dal titolo Due facce della medaglia, pubblicato da Repubblica, il tipico coraggio che viene a certe persone, riproponendo una polemica ormai sopita, nel momento in cui il sostenitore della tesi opposta viene a mancare ed è quindi nell’impossibilità di controbattere. La polemica è quella nota su Moro, sulla sorte di Moro. E se ne esce il giornalista, con una frase di involontaria, cinica ironia. Dice con la sicumera che gli viene dall’alto del potere del giornale per cui scrive: “Ma sul contrasto tra ‘intransigenti’ e ‘trattativisti’, avrebbe dovuto rendersi conto (Sciascia, naturalmente), proprio in nome della sua concezione laica e problematica della vita, che si trattava di una decisione politica e come tale opinabile”.  Concezione problematica della vita dice: e il problema era lì, proprio lì la vita di un uomo, di Aldo Moro, il problema era quello di salvare quella vita, contro le strategie della politica, contro la decisione del potere.

    Ma torniamo all’intelligenza, di quella della testa e di quella del cuore. Allora non possiamo non ricordare i lucidi brani dei francesi, di Fusco, di Fernandez, di Bianciotti e di Schifano, che sentono lo scrittore loro confratello di intelletto e di formazione, di metodo e di stile. Come confratello di fantasia e di passione, familiare per natura e per cultura lo sentono gli Spagnoli: Arias, Conte, Cruz, Gàandara, Savater, Barràl.

    E infine non possiamo non ricordare i bellissimi brani degli amici, di quelli che da vicino, giorno dopo giorno, hanno imparato a conoscere quest’uomo e questo scrittore e ad amarlo. Non possiamo non ricordare il racconto straordinario dell’incontro, a Castellina in Chianti, di Sciascia, la sua famiglia e Fabrizio Clerici, della scoperta, da parte dello scrittore, nella chiesa accanto alla casa del pittore, del quadro della tentazione di Sant’Antonio di Rutilio Manetti, che sarà certo l’esca che incendierà il racconto Todo Modo e che farà da copertina al libro.

    Non possiamo dimenticare il tono commosso e commovente delle parole di Elvira Sellerio, che con Enzo Sellerio e con Sciascia e per Sciascia, ha creato qui a Palermo, in Sicilia, uno dei fatti più straordinari e più memorabili di questi anni: la casa editrice Sellerio. Altro non so dire, mi è difficile dire. Posso solo ora aggiungere, a queste pagine, qualche mia pagina, scritta nel linguaggio che mi è più congeniale, più agevole: quello memoriale, narrativo.

Viaggio a Caltanissetta

    Era l’ottobre del ’43 quando feci il mio primo viaggio in Sicilia. Dico viaggio in Sicilia come se mi fossi mosso da un’altra terra, da una qualche regione al di là dello Stretto, o al di là del Faro, come si diceva una volta. E in effetti era, la zona da cui partivo, il Val Demone, la Sicilia ai piedi della barriera appenninica dei Nebrodi e delle Madonie, la Sicilia tirrenica, tutt’affatto diversa dall’altra, sconosciuta, che si svolgeva al di là dei monti: la Sicilia delle grandi terre, dei grandi altipiani, della nudità e della scabrosità, delle solitarie masserie, dei paesi fittamente aggrumati sulle alture, dei cieli bassi, infiniti.

    Su un camion sgangherato, io e mio padre, percorremmo strade dissestate dalla guerra (l’occupazione degli Alleati s’era conclusa a Messina verso la metà dell’agosto appena scorso), strade che si interrompevano sopra i torrenti e le fiumare dove i ponti, quasi tutti i ponti, erano stati fatti saltare (bisognava proseguire per alvei pietrosi, fangosi, polverosi o sopra fragili ponti di legno), strade con ancora ai margini carcasse di carri armati, di camion, di cannoni, d’altri ordigni: i segni della guerra erano ancora là, in quei simulacri squarciati e affumicati dei giorni bui e tremendi della storia.    La nostra meta era l’interno dell’Isola, alla ricerca di frumento, di fave, di lenticchie (le famose lenticchie di Villalba) che da noi, terra di limoni e di olive, mancavano del tutto. Per quelle terre assolate e desolate, s’incontrava ogni tanto un contadino che con un cenno della mano ci invitava a fermarci per offrire, a noi viandanti, grappoli d’uva. Era ancora, quella, l’antica e nobile Sicilia contadina che neanche lo strazio della guerra era riuscita a cancellare.

    Lasciato il bosco della Miraglia, per Troina, Nicosia e Leonforte, dopo Vallelunga, Villalba e Mussomeli, arrivammo, un tardo pomeriggio, a Caltanissetta.

    Nella piazza Garibaldi, affollata di gente (forse la stessa piazza dove, nell’alba silenziosa, alla partenza della corriera, si diffondeva la voce “implorante e ironica” del venditore di panelle di Il giorno della civetta), nella piazza un uomo vendeva un giornale.  “La forbice, La forbice!” strillava l’uomo. Nella mia sapienza morfologica di diligente scolaro di terza elementare, stigmatizzai dentro di me il dialettismo di quel nome di giornale al singolare, non intuendone la sua valenza metaforica: Forbice come discussione critica, come fronda sui e ai fatti pubblici, i fatti nati nello spazio breve di quella piazza, tra la Cattedrale e il municipio, e che riguardavano tutta la comunità. Una conversazione pubblica e democratica subito ripresa dopo l’interdizione del periodo fascista e l’interruzione della guerra.

    Il mio secondo viaggio a Caltanissetta avvenne alla fine di luglio del ’64 quando giunsi in treno dal mio paese in questa città, con dentro ancora vivo il ricordo del primo viaggio di venti anni prima, per incontrare Leonardo Sciascia.

    Nell’isolamento e nella solitudine del paese, nel vuoto storico d’una

zona fortemente segnata dalla natura ma non dalla cultura, era grande la necessità – al di là delle letture – di frequentazioni e di conversazioni, di confronti e di verifiche, di consigli e di apprendimento.

    Nell’imprevedibile gioco del caso, avevo avuto la ventura, e la fortuna, dentro l’immobile vastità dello spazio e dentro l’infinito scorrere del tempo, nella esigua geometria di quest’Isola e nel tempo breve d’una vita umana, di trovarmi ad essere conterraneo e contemporaneo di due grandi uomini, di un poeta e di uno scrittore: Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia.

    A causa della vicinanza, frequentai per molto tempo il poeta di Capo d’Orlando. Ma, al di là della fascinazione e del rapimento della poesia (e quella di Piccolo era particolarmente rapinosa; e il poeta, il personaggio, straordinariamente affascinante e trascinante) sentivo il bisogno, per difesa e forse anche per vocazione della prosa, d’una scrittura scandita dalla logica, d’una narrazione sorto dalla realtà e dalla storia. La prosa che avevo letto sulle pagine che giungevano dal cuore della Sicilia, dalla piazza dove un giorno lontano avevo udito un uomo strillare un giornale intitolato La Forbice, da questa città, fra tutte in Sicilia crediamo la più carica e la più consapevole di e della storia, della storia intendiamo come superamento, attraverso lo scontro dialettico, delle carenze, degli squilibri di una comunità civile; la prosa, i racconti che avevo letto nei libri – allora ancora pochi -, nuovi, straordinari, straordinariamente ricchi di futuro, di Leonardo Sciascia.

    Per conoscere questo grande scrittore e – scoprii dopo – questo grande uomo, feci il mio secondo viaggio a Caltanissetta. E dietro invito dello stesso scrittore, scaturito dalle fragili credenziali del mio racconto, pubblicato nel ’63, a lui inviato e in cui, nella dedica, professavo il mio debito ai suoi libri, al suo insegnamento, alla alta, civile sua conversazione in Sicilia.  

Una conversazione in Sicilia

    C’è un testo importante nella storia della letteratura italiana contemporanea, un testo che ha formato e a cui si è conformata una generazione di scrittori: Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini.

   Perché “conversazione”? Certo, conversazione tra Silvestro e la madre Concezione, tra Silvestro e il fratello morto, tra Silvestro e il panniere, l’arrotino e tutti i personaggi che il protagonista incontra nel suo viaggio nella terra dell’infanzia, nella sua discesa agli “inferi”; “conversazione” anche, crediamo, come memoria di domenicali piazze siciliane ferventi di brulichio e brusio, al pari di alberi che, in certe ore della giornata, sono invasi da nugoli di uccelli (la piazza del bel paese di Nicosia e la piazza di Caltanissetta, affollata di uomini in tabarro e coppola, che Vittorini farà fotografare a Luigi Crocenzi per l’edizione illustrata del 1953 del suo romanzo); ma “conversazione” ancora come riferimento culturale: alle sacre conversazioni di tanta pittura italiana, e soprattutto, pensiamo, alla conversazione “dentro” la Flagellazione di Piero della Francesca, su cui ha indagato Carlo Ginzburg. Il quale scrive: “La scena della flagellazione di Cristo è immediatamente riconoscibile, ma si svolge in secondo piano e lateralmente. Una grande distanza, resa da Piero con maestria prospettica straordinaria, separa il Cristo da tre misteriosi personaggi in primo piano”. I tre personaggi, che regalano in secondo piano la scena sacra, conversano, e sembra, la loro, una conversazione filosofica.

Ora, al di là della identificazione dei tre personaggi e del significato da dare a tutta la scena, ci sembra importante questo spostamento di piano dal sacro al profano, dal divino all’umano, dal dramma alla speculazione.

    Nella Conversazione di Vittorini c’è anche, attraverso il dispiegamento dei dialoghi, che tendono, come dice Calvino, “a realizzare una comunicazione assoluta, una convivenza umana ideale”, c’è anche questa intenzione, questo tentativo di uscire dal divino e approdare all’umano, uscire cioè dal mito e approdare alla realtà, dalla natura alla storia, dal passato al presente, dalla memoria alla contingenza, dalla immobilità all’azione: infine, dal simbolismo alla metafora. Non ci interessa qui stabilire fino a che punto Vittorini ci sia riuscito, fino a che punto la “conversazione” releghi in secondo piano il mito senza fratture prospettiche, senza volontaristici scarti, fino a che punto sia piuttosto la sua un’uscita dal mito per approdare all’utopia (che si mostrerà poi in tutta evidenza ne Le città del mondo); utopia che, oltre ad essere un progetto chiuso, conservativo, come ci avverte Lewis Mumford, è ancora mito, mito del futuro speculare a quello del passato, destinato anch’esso a infrangersi contro gli scogli della storia.

    Vittorini aveva scritto Conversazione anche, crediamo, contro la concezione deterministica, antistorica verghiana, contro il 2mito2 letterario di Verga (non è stato Sklovskij a dire che la storia della letteratura è una successione di uccisioni di padri?).

    A piazze siciliane, accennavamo sopra. Quelle praticate da Vittorini e dai vittoriniani, le piazze dei paesi della parte orientale dell’Isola, del Messinese, del Catanese, del Siracusano o del Ragusano, sono quasi sempre piazze “belle”, ricostruite, dopo un qualche disastro della natura – eruzione di vulcano o terremoto -, secondo un progetto e con un’aspirazione alla bellezza e all’armonia (le piazze barocche) o sono “spiazzi” di sperduti villaggi contadini o di masserie, luoghi privi di segni storici, assolutamente “naturali”.  Le “conversazioni” allora, in quelle piazze e in quegli spiazzi, si scostano man mano dalla comunicazione e tendono verso l’espressione, si formalizzano, si stilizzano, abbandonano man mano il rigore logico della prosa e si spostano verso i fraseggi del canto, i ritmi della poesia.  Le piazze dell’Occidente siciliano, e soprattutto quelle della zona delle zolfare, del Nisseno e dell’Agrigentino, al contrario, sono piazze “brutte”, nate senza un progetto architettonico, ma spontaneamente da una necessità, dove gli edifici, non più in arenaria dorata come a Noto, a Scicli o a Siracusa, sono in grigiastra pietra gessosa.  In queste piazze di paesi agrigentini dello zolfo, come Grotte o Racalmuto, dove alla vecchia cultura contadina s’era sostituita la nuova cultura operaia dei minatori, la “conversazione” nasce da una necessità sociale, si svolge nel modo più secco e disadorno, più diretto e chiaro, più logico e dialettico.  Ci è capitato di affermarlo più volte e con noi il critico Claude Ambroise: se non si può capire uno scrittore come Pirandello senza la realtà della zolfara, tanto meno si può capire uno scrittore come Leonardo Sciascia (ché lui ha mosso questo nostro discorso partito da lontano), questo scrittore letteratissimo e antiletterario, antimitico e antilirico, loico e laico, civile e “politico”, questo grande scrittore da poco scomparso.

    Tutta l’opera di Sciascia è una necessaria, essenziale, lucida e serrata – anche se man mano sempre più disperata – conversazione in Sicilia.  Una conversazione, questa volta sì, che tende “a realizzare una comunicazione assoluta”, una convivenza sociale, piuttosto che ideale, vale a dire utopica, più giusta, vale a dire più umana: una convivenza dove nessuno, individuo, Stato, o potere d’ogni tipo, politico, giudiziario, religioso o finanziario deve infrangere le regole della convivenza sociale, deve offendere il cittadino, l’uomo.  Una conversazione che ha le sue radici nel profondo della miniera, che dal profondo emergendo, come Ciàula che scopre la luna, nonché trovare conforto nella “chiarità d’argento”, trova forza nella luce diurna della ragione: luce solare, cruda, che, come in un quadro di Picasso, scandisce i piani e rivela la natura cubica della realtà.

    Con Sciascia, la società ideale e utopica è posta “in secondo piano e lateralmente”; la conversazione, per consapevolezza storica e per pratica della realtà distanziata “con maestria prospettica straordinaria” dagli assoluti, si svolge intorno al relativo e al contingente.

   È stato detto più volte, e lo dice lo stesso Sciascia, che tutta la sua “poetica” – e usiamo la parola nel senso etimologico, nel senso cioè del fare – è contenuta nel primo libro: Le parrocchie di Regalpetra. E in effetti lì si trovano tutti i temi che Sciascia svilupperà negli altri suoi libri. E vogliamo osservare qui che è raro trovare in un autore, sin dagli esordi, una così sicura scelta di campo, di campo letterario, e ad essa rimanere fedele; trovare un tono, un linguaggio, una scrittura così impostata sin dall’inizio, così certa e inconfondibile. Per quest’ultima, Sciascia stesso scrive: ”non ho mai avuto problemi di espressione, di forma, se non subordinati all’esigenza di ordinare razionalmente il conosciuto più che il conoscibile e di documentare e raccontare con buona tecnica (per cui, ad esempio, mi importa più di seguire l’evoluzione del romanzo poliziesco che il corso delle teorie estetiche)”. Per quanto riguarda i temi, scrive ancora: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di colore che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati”.  Un unico libro sulla Sicilia, dunque: partendo, come nell’esordio, sempre da Regalpetra, da Racalmuto. Da Racalmuto snodando quel filo ad alta tensione che attraversa la Sicilia, l’Italia, tutto il contesto socio-culturale in cui si trova immerso il destinatario della sua narrazione o del suo ragionamento. Dove si trova il suo interlocutore.

    Ora, c’è un luogo in Regalpetra, un luogo privilegiato da cui si osserva la realtà sociale, in cui di essa realtà si conversa: il Circolo della Concordia. Concordia come sanzione della ricomposizione di una discordia: nel 1866 il circolo era stato bruciato dalla popolazione che vedeva nei civili, nei nobili degli antagonisti, dei dispensatori di ingiustizie. Un circolo quindi non come luogo di scontro emozionale ed irrazionale, come oggetto di violenza, ma come luogo di conversazione, di scontro dialettico, come immagine, come rappresentazione e teatro della democrazia parlamentare: il migliore dei sistemi possibili di convivenza civile. Nel circolo lo scrittore sta ad osservare e ad ascoltare, nel circolo e del circolo conversa lucidamente, criticamente, ironicamente; del circolo registra le vicende, le involuzioni e le evoluzioni, i periodi di apertura democratica e di chiusura.

    Il patto concordatario su cui si fonda il circolo, lo stato democratico, viene violato quando, chi ha la responsabilità della sua gestione (individui, organi o gruppi di potere), agisce contro lo Statuto: da cui i temi sciasciani del potere politico e del potere giudiziario degenerati, il tema di organizzazioni criminali come la mafia che minano lo statuto. E da qui, quando alla degenerazione segue l’omicidio (il massimo dell’infrazione sociale perché viola il primo e sommo principio del patto sociale: il rispetto della vita umana), da qui l’interesse di Sciascia per il romanzo poliziesco, la narrazione di più alto valore civile.  Perché l’indagine poliziesca non è che il tentativo di ricucire i fili dello strappo, operato nel tessuto sociale, attraverso l’individuazione e la condanna del colpevole. Ma così non vanno le cose in Sicilia, in Italia, dove l’omicidio non è che l’ultima manifestazione di una serie di delitti che il potere politico degenerato mette in atto attraverso quel suo braccio armato che è la mafia.  L’individuazione dell’assassino o degli assassini comporta l’individuazione dei mandanti, comporta l’indagine del potere su se stesso (come in quel romanzo giallo di Fernand Crommelynck che si chiama Monsieur Larose est-il l’assasin?), la messa sotto accusa di se stesso e la sua condanna. Nei gialli di Sciascia dunque gli assassini non sono quasi mai individuati e mai puniti perché vi si tratta di delitti politici, perché i suoi sono gialli politici.

   Tra il ’61 e il ’74 Sciascia pubblica quattro romanzi gialli: Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo Modo. Attraverso essi si può vedere la storia dell’Italia di quegli anni, il processo di degenerazione del potere politico e degli organi dello stato parallelamente all’evolversi e all’ingigantirsi di quel fenomeno, di quel cancro della società civile che è la mafia, che sul corpo dello stato sembra aver operato la sua metastasi.

    Dei quattro, il libro di più alta tensione politica e letteraria ci sembra Todo Modo (“Todo modo è destinato a entrare nella storia letteraria del Novecento come uno dei migliori libri di Sciascia”, scriverà Pasolini).  In quel libro lo scrittore va al cuore del potere politico in Italia, al cuore del potere di un partito; alla matrice metafisica a cui il partito si ispira e da cui deriva il suo potere; e nel momento critico in cui i più alti rappresentanti di quel potere manifestano la loro fede nella metafisica attraverso gli esercizi spirituali. Ma tutto il romanzo, come nella realtà, è rovesciato: la metafisica del bene diventa la metafisica del male; il Diavolo prende il posto di Dio; gli esercizi spirituali diventano esercizi criminali.

    Il testo è ricchissimo di intertestualità, di riferimenti, di significati espliciti e impliciti. Il personaggio narrante, un pittore, è “nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani – al punto (dice) che tra le pagine lo scrittore e la vita che avevo vissuto fin oltre la giovinezza non c’era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti)”. Parte dunque da Agrigento, da Racalmuto la narrazione. E da qui il protagonista, uomo solo – ripercorrendo à rebours tutta una catena di casualità e riapprodando all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza, appunto con la frase o tema musicale di Giacomo De Benedetti nella mente – compie un suo atto di libertà e parte.

    Ma occorre qui citare il passo che Giacomo De Benedetti scrive riguardo al mondo pirandelliano e da cui Sciascia muove per iniziare la sua narrazione: “A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di casualità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe riassumere l’universo pirandelliano come un diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo”. Parte dunque, dicevamo, il protagonista di Todo Modo, e dopo tre giorni di vagabondaggio in macchina, arriva all’eremo di Zater. Qui la possibilità musicale è fermata dal frastuono di un concerto di pallottole, tonde e levigate come quelle parole per tre volte iterate da Sant’Ignazio nella Primera anotaciòn dei suoi Esercizi Spirituali: “Todo modo, todo modo, todo modo […] para buscar y hallar la voluntad divina…”: esercizi, metodo, iniziazione, portano verso il cammino della noche oscura, la teologia mistica, la contemplazione. Vogliamo qui subito soffermarci sulla frase à rebours. A rebours ci richiama alla mente il titolo del famoso romanzo di Huysmans, il padre della letteratura decadente francese, autore anche di Làbas, dove “esplora le provincie più tenebrose e remote del satanismo”, come dice Praz. Non siamo, come si vede, nel cattolicesimo di Manzoni o di Pascal, ma in quello decadente e decaduto (anche a livello stilistico o linguistico) che porta all’oscurità, alla disgregazione, all’annientamento; porta sulla zattera della Medusa; perché, dice don Gaetano, il deuteragonista, “il naufragio c’è già stato” e il secolo, il mondo, per i cattolici, “è l’orlo dell’abisso: dentro e fuori di noi. L’abisso che invoca l’abisso”.

    Mai, come in questo libro, la struttura gialla del racconto si è attagliata

All’argomento, dialetticamente, come costruzione razionale contro la disgregazione della ragione, l’indagine contro lo sgomento, la memoria contro l’oblio, la cultura contro l’ignoranza, il logos, la parola contro l’inesprimibile, il silenzio. Ma è questo, al contempo, il giallo più misterioso di Sciascia, dove cioè non è più possibile l’individuazione dell’assassino perché la ragione indagativa si arresta davanti al muro della metafisica: metafisica religiosa e metafisica del potere. Allora siamo, qui si, sulla zattera della Medusa dove può esplodere il cannibalismo, ma siamo anche nell’ambito letterario, l’unico dove ancora si può “immaginare e fare”, dove l’autore o l’io narrante, in un gesto di libertà e di liberazione, come quello del gidiano Lafcadio, può assurgere ad angelo sterminatore, angelo giustiziere.

    In Todo modo, come in altri libri di Sciascia, ci sono come delle anticipazioni (profezie sono state chiamate) di fatti che nella realtà puntualmente accadranno, sono accaduti. Todo modo dunque anticipa fatti e genera necessariamente altri due libri: Candido (1977) e L’affaire Moro (1978).

    Per quanto riguarda Candido, c’è in Todo modo come l’autocitazione, se pure antifrasticamente, di un libro a venire. Dice il narratore: “E forse si possono oggi scrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro non si fa […] Tutti. Tranne Candide”. I fatti, i fatti italiani, costringeranno invece il nostro scrittore a riscrivere anche Candide: Candidoovvero un sogno fatto in Sicilia. Quei fatti che lo costringeranno a scrivere anche, dolorosamente, pietosamente, di quel morto ammazzato sulla zattera della Medusa che è stato Aldo Moro.

    L’affaire Moro, la militanza politica e l’impegno civile al Parlamento italiano di Sciascia, che si conclude con la sua stesura della relazione di minoranza della commissione parlamentare sul “Caso Moro”, sembrano segnare una svolta nell’itinerario letterario di Sciascia. Lo scrittore sembra

rinunziare alla narrazione, al racconto cosiddetto “puro”. Rinunziare alle sue celebri e magistrali narrazioni “gialle” o poliziesche che leggevano, interpretavano o divinavano la realtà politica e civile contingente e futura. Il mondo, il mondo civile sembra dire lo scrittore, si è fatto così tenebroso, così orrendamente e indecifrabilmente antisociale e criminale che non è più possibile, stando nella piazza, al circolo, alla luce del sole, alcuna narrazione che possa rappresentarlo e interpretarlo. A meno che, con mortale rischio morale, non si voglia scendere nei giardini sotterranei, nei bui meandri del potere di misteriose e criminose sette di balzachiani Devorants.

    I cultori della romanzeria, i fanatici della letterarietà rimproverano allo scrittore la sua ritrazione, la sua rinunzia al romanzo sull’attualità, imputando questa ritrazione, piuttosto che a nobile inquietudine, a crisi morale, a una banale stanchezza artistica o espressiva. Invece, dal ’78 in poi, l’attività letteraria di Sciascia, al di fuori e contro la cosiddetta narrazione pura, è quanto mai fervida e ricca di frutti. Il suo ritorno alla narrazione di tipo storico, come Dalle parti degli infedeli o Il teatro della memoria, La strega e il capitano o Una sentenza memorabile, 1912+1 o Porte aperte, il suo ritorno alla saggistica con Nero su Nero, Cruciverba, Stendhal e la Sicilia o Alfabeto pirandelliano; la sua ricognizione memorabile come Kermesse o Occhio di capra segnano le punte più alte dell’intelligenza, della sapienza e, perché no?, della poesia, l’aspra poesia di Leonardo Sciascia.

    Nel decennio tra il 1979 e il 1989, mentre lo scrittore si rifugiava nelle sue narrazioni storiche, nei suoi saggi e nelle sue memorie, sembrava che il cancro, contemporaneamente, continuasse a divorare parallelamente l’uomo. Il cancro dell’uomo si faceva metafora del cancro della società e viceversa.

    Parlavamo sopra di solitudine e di disperazione dello scrittore (ma che ha sempre sperato nella forza della ragione, nella funzione della scrittura), solitudine e disperazione che sono evidenti (è la parola giusta) negli ultimi suoi due racconti: finale e struggente passo d’addio; estremo, sottile e tragico ritorno al racconto: Il cavaliere e la morte e Una storia semplice.

    Evidenti attraverso due citazioni iconografiche: rispettivamente di Dürer e di Klinger. Amava le incisioni, Sciascia, le gravures (e i due termini, l’italiano e il francese, certamente per lui si caricavano di altro significato), e amava soprattutto le acqueforti e le puntesecche (ancora altri termini significativi) che, con il loro segno nero, si potevano accostare alla scrittura; una scrittura che, passando dal negativo della lastra inchiostrata al positivo del foglio bianco, portava in sé una componente di imprevisto, poteva acquistare altro senso al di là delle intenzioni, e della mano, dell’artista. Era per lui, l’incisione, l’affascinante scrittura iconica più simile alla scrittura segnica, l’acquaforte più simile allo scrivere: allo scrivere che è “imprevedibile quanto il vivere”.

    Una famosa incisione del Dürer fa da leitmotiv a Il cavaliere e la morte. “Si era ormai abituato ad averla di fronte, nelle tante ore d’ufficio. Il cavaliere, la morte e il diavolo. Dietro, sul cartone di protezione, c’erano i titoli, vergati a matita, in tedesco e in francese: Ritter, Tod und Teufel; Le chevalier, la mort ed le diable. E misteriosamente: Christ? Savonarole? Il collezionista o il mercante che si era interrogato su quei nomi pensava forse che l’uno o l’altro Dürer avesse voluto simboleggiare nel cavaliere?”.  Queste considerazioni sull’incisione di Dürer sono del protagonista del racconto, Vice (questore), condannato a morire da una inesorabile malattia, ma ucciso prima dal potere politico-mafioso.  Quel cavaliere del Dürer (inciso dall’artista tedesco insieme al San Gerolamo nello studio e alla Melanconia I tra il 1513 e 1514: le tre incisioni maestre sono state chiamate) ha suscitato pagine di riflessioni, suggestive interpretazioni al grande critico Panofsky, ha dato modo all’italianista Lea Ritter Santini (Le immagini incrociate) di rimandare a tanti scrittori, filosofi che con quell’immagine si sono incontrati: Nietzsche, Mann, Hofmannsthal, D’Annunzio…

    Per noi quel cavaliere del Dürer, insidiato dalla Morte e dal Diavolo, che solido dentro la sua armatura, sicuro in groppa al suo robusto cavallo procede solitario verso la turrita città in cima alla lontana collina, la città ideale o d’utopia che mai raggiungerà, rimanda a un altro cavaliere, al Cavaliere disarcionato di Max Klinger: l’uomo è a terra, schiacciato dal corpo del suo cavallo, inerme anche per la spada (la penna) che gli è caduta di mano, solo e moribondo in mezzo alla foresta, un nugolo di neri corvi che gli volteggiano sopra, pronti a ghermirlo. L’inquietante Max Klinger (un Klinger che ha letto Poe e che è stato letto da Hitchcock), Sciascia cita nel suo ultimo racconto il congedo, Una storia semplice : “L’interruttore. Il guanto. Il brigadiere nulla sapeva, né l’avrebbe apprezzata, di una famosa serie di incisioni di Max Klinger appunto, intitolata Un guanto, ma nella sua mente il guanto del commissario trascorreva, trasvolava, si impennava come allora nella fantasia di Max Klinger”.

    Non un guanto ma, come per traslitterazione, neri uccelli volteggiavano sopra quel cavaliere disarcionato che sta per morire, che muore. I neri uccelli del potere, fra cui, il più sinistro e il più famelico o divorante, un goyesco “buitre carnivoro”.

    Sorvolando sopra quei corvi e quell’avvoltoio, anche se non siamo dotati di ali, consideriamo qui la caduta del cavaliere lungo il cammino verso la città “relegata in secondo piano”, verso la città ideale.  Consideriamo la sua grande, civile, generosa conversazione intrattenuta con noi, per noi, e ora interrotta. Ma nel suo silenzio, come nel silenzio di tutti i veri scrittori e veri poeti che ci hanno lasciati, se non vogliamo essere sopraffatti e storditi dal chiasso del mondo, cerchiamo di risentire le sue parole. Cerchiamo di non dimenticarle. Parole limpide, di luce, che ci giungono dalla periferia dell’Europa, dal cuore di un’isola sperduta e perduta; parole sorte tra uomini neri, che odorano di zolfo.

“Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro, pietà ed amore

trovavano antiche parole”.

     Così Sciascia in una lirica della sua giovinezza.

Questo testo è stato letto il 5 aprile allo Steri di Palermo in occasione della presentazione del n. 9 di “Nuove Effemeridi”, interamente dedicato alla figura e all’opera di Leonardo Sciascia.


La ferita dell’aprile

Introduzione
di Gian Carlo Ferretti


Una voce di ragazzo irriverente, con un disincanto e un’ironia (e sarcasmo) già matura, racconta esperienze di umili affascinanti lavori presto vietati, di piccole e più o meno innocenti avventure antistituzionali, di calde solidarietà giovanili, all’interno di una struttura educativa cattolica chiusa e repressiva. La realtà narrata è quella di un paese siciliano all’indomani dell’ultima guerra, con un passato e un presente di vita stenta, dolorosa: tra lavori duri, poveri svaghi, refezioni della San Vincenzo, e potenti locali, clientele, omaggi servili. È questa la trama immediata ed esterna della Ferita dell’aprile, pubblicato per la prima volta nel’63, nella collana mondadoriana del Tornasole diretta da Niccolò Gallo e Vittorio Sereni. Una trama che potrebbe far pensare frettolosamente a un romanzo di ritardata tradizione neoverista. Mentre esso è molto di più e di diverso: anche nel senso che la linea narrativa isolana (De Roberto-Pirandello-Brancati-sciascia) cui Consolo sembra rifarsi, al tempo stesso con partecipazione e distacco critico, è quella più profondamente segnata dalla crisi e dal superamento della tradizione naturalista e verista; ma soprattutto nell’altro senso, che in quella trama Consolo immette con forza fin dall’inizio una carica problematica e sperimentale di non provvisoria modernità (che può richiamare perciò, rispettivamente, Sciascia e Gadda). Riletto oggi, questo suo romanzo non si conferma soltanto come uno tra gli esordi più promettenti degli ultimi decenni, ma altresì come l’avvio di una ricerca (nel clima delle sterili dicotomie tradizione-avanguardia degli anni Sessanta) di grande futuro. Un romanzo, insomma, che affronta già consapevolmente il problema del potere, considerato in tutte le sue più vistose e sottili implicazioni: l’insensatezza mascherata da formalismo (l’Istituto con le sue regole), il privilegio e la privazione del sapere (gli «alletterati » e gli altri, il Nord e il Sud), la carica liberatoria della diversità (soprattutto giovanile), e un impasto plurilinguistico sempre funzionale al discorso, tra una registrazione del parlato con intento deformante e caricaturale e un’intensa contaminazione di dialettalismi e gergalismi (e detti popolari) siciliani. Mentre sembra addirittura preannunciarsi il motivo centrale di Lunaria: Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga; correte, femmine, correte, prima che si squagliano. Nella Ferita dell’aprile dunque, l’Istituto, la funzione religiosa, il cappellano militare appena tornato dalla campagna di Russia, la veglia funebre, e via via le altre vicende e feste e cerimonie paesane vengono osservate e descritte con un atteggiamento irridente, insofferente e caricaturale, come proiezioni o rappresentazioni di un mondo adulto di vuoti e fastidiosi doveri, di rituali senza senso, di inerti faziosità e dogmatismi, di colpevoli ottusità e ipocrisie, che già allude a un sistema di poteri e storture, subalternità e divieti ben più diffuso e feroce. Consolo si avvale di una discriminante giovanile, fondata sulla disobbedienza demistificatoria o sull’avventura trasgressiva, per impostare un discorso di ben più alte ambizioni e obiettivi. Il rapporto tra adulti educatori e giovani educati si vien configurando sempre più come un conflitto tra repressori e ribelli tout court, in un crescendo di spietata e cupa durezza. Ecco allora che la rappresentazione ironico-divertita diventa via via deformazione comico-tragica, come nella pagina sulla camera ardente di Squillace padre, con il Seminara che si prende «pure lui le condoglianze coi baci per lo sbaglio che il morto avesse un altro figlio», e con «la vecchia strologa» che provoca sinistri scoppi di ilarità. I giochi non sono soltanto una discriminante tra piccoli e grandi, ma arrivano quasi a segnare una sorta di confine tra la vita, l’allegria, e l’immobilità, la morte: «un passovolante fermo, fa caso come un uomo allegro che muore d’un solo colpo […], come un amico andato in seminario e lo ritrovi chiuso e distaccato». Le fantasticherie ribelli e liberatorie dei ragazzi si fanno sottilmente vendicative, quasi perverse: fino a immaginare i superiori imprigionati per il collo da un tagliente filo d’acciaio. Anche la politica, le elezioni del 18 aprile 1948 vengono sentite e rappresentate come “cosa dei grandi”, come esperienza fondamentalmente estranea rispetto alla discriminante giovanile della vera trasgressività e libertà. Certo, Consolo manifesta una trasparente e intensa solidarietà per i caduti di Portella della Ginestra, o per le umili vittime dell’ingiustizia e sopraffazione proprietaria, ma tende a investire il livello istituzionale della lotta politica di una sostanziale sfiducia, all’interno di una storia che gli appare immutabile e insensata, mentre la sua simpatia per i Mùstica padre e figlio, comunisti emarginati, prefigura piuttosto il motivo di una diversità rintracciabile a tutti i livelli della vita sociale e intellettuale. Il Mùstica figlio, del resto, è l’unico che non chiami «zanglé»* Scavone (il protagonista e io narrante del romanzo), che non lo rifiuti in quanto diverso; viene scelto insieme a lui per la parte di selvaggio nella recita dell’oratorio («danzavamo il peana di morte per i preti legati ai tronchi di banano») in una versione satirico-grottesca di quella diversità e di quella tensione vendicativa; è l’amico più amato da Scavone e il principale suo compagno di avventure e di ribellione; e ne viene mitizzato come «un condottiero, di quelli delle storie d’Omero». Dove Consolo riprende con tratti di nuova efficacia il motivo novecentesco del grande amico, ragazzo o adulto, ma caratterizzato sempre da una consapevolezza protettiva, intrinseca maturità, spregiudicata saggezza. Non è certo un caso che nel romanzo le eccezioni adulte riguardino personaggi in qualche modo anomali, e in quanto tali visti con simpatia: come lo zio-padre e convivente della madre vedova, o il prete-ragazzo don Barrajo, o la donna orba frequentata segretamente dal giovane Mùstica figlio. Figure amorevoli o protettive nei confronti del mondo giovanile, e comunque estranee al mondo adulto del divieto e dell’oppressione, se non addirittura trasgressive
esse stesse. Ma nel rapporto di forze, nella guerra mascherata tra adulti e ragazzi, educatori e educati, normali e diversi, si vien delineando una vulnerabilità di fondo dei secondi rispetto ai primi, una insidiosa inesorabile prevalenza del potere in sostanza rispetto ai suoi piccoli oppositori: Consolo spiega altrove che «Zanglèi erano chiamati […] gli abitanti di San Fratello », e definisce «il sanfratellano, l’antico gallico o medio latino di quella colonia lombarda» (Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 20129, pp. 122 e 121). Ero capace di sfuggire ai grandi, stare diffidente, muto, chiuso nel mio guscio e fare il morto come la tartaruga stuzzicata con la verga, ma poi, solo che uno mi parlava buono, mi faceva un sorriso, subito m’aprivo, parlavo più del giusto, col risultato amaro, costante, di pentirmene, rimproverarmi per aver parlato. Più precisamente, l’inevitabile ingresso del ragazzo nel mondo adulto sottintende la sconfitta di ogni ribellione e trasgressività, la fatale caduta di ogni specificità e diversità (gli stessi adulti anomali scompaiono silenziosamente dalla scena, dopo più o meno brevi apparizioni: quasi figure transeunti e sconfitte anch’esse). “Diventare grande”, insomma, nonostante tutto significa snaturarsi in un mondo estraneo e nemico. Il passaggio coincide con l’uscita dall’Istituto, che segna appunto la fine della giovinezza e al tempo stesso l’abbandono di un luogo nel quale era pur possibile battersi e disobbedire, mentre nel mondo di fuori la discriminante giovanile-trasgressiva non avrà né senso né forza: anzi, si svuoterà di fatto.
Dice infatti il protagonista narrante, dopo la cacciata del Mùstica dall’Istituto e la partenza di Vittorio Seminara per il seminario: Ancora un altro aveva varcato il cancello ed era uscito sulla strada per non tornare mai più all’Istituto. E non pensavo, no, che guardando sul portone quel vestito grigio che spariva a palmo a palmo per la scalinata, dopo Filippo e Vittorio sarei stato io a lasciare l’Istituto: così carusi ancora, la vita ci tracciava già le vie. Il titolo del romanzo allora, più che riferirsi alla emblematica “ferita” politica del 18 aprile, sembra alludere alla ferita della giovinezza come esperienza vulnerabile nel suo necessario passaggio alla maturità, o invece come ferita aperta dal mondo giovanile nel mondo istituzionale adulto, ma ben presto rimarginata e cancellata. Il finale è dunque segnato dal pessimismo e dalla sconfitta. Consolo riaprirà il discorso all’interno stesso del mondo adulto e al di là di una discriminante giovanile oggettivamente sconfitta (con un processo di approfondimento e superamento, anche, di un certo autobiografismo). Il discorso sul potere e sulle sue implicazioni, anzi, andrà ben oltre, fino a investire alle radici il rapporto tra insensatezza e ragione, normalità e diversità, privilegio e privazione del sapere: in una rivisitazione (dopo il secondo dopoguerra novecentesco della sua opera prima e il Risorgimento ottocentesco del Sorriso dell’ignoto marinaio) di quel secolo dei lumi nel quale nascono alcune di queste fondamentali contraddizioni, e in un sottile ritornante contrasto con alcune fasi di facile ottimismo collettivo degli ultimi decenni. Il leitmotiv del suo successivo romanzo del ’76 è quello del sorriso «pungente, ironico, fiore d’intelligenza e sapienza » dell’Ignoto di Antonello da Messina, nel quale si specchiano sia l’intelligenza e azione rivoluzionaria del fuoruscito quarantottesco Interdonato, tornato in Sicilia a combattere
i Borboni, sia l’intelligenza divisa del barone di Mandralisca, liberale cospiratore e al tempo stesso cultore di studi scientifici del tutto disinteressati, trasgressore della sua classe e al tempo stesso accomunato
a essa da rituali vuoti e segrete follie. Proprio nel Mandralisca matura ed esplode (coinvolgendo poi lo stesso Interdonato) la crisi di una razionalità
e cultura nonostante tutto privilegiata, anche quando si schiera dalla parte degli oppressi e analfabeti, e la consapevolezza di una sostanziale impotenza dell’intellettuale aristocratico-borghese illuminato a interpretare i loro problemi e bisogni. Rispetto ai quali perciò, il sorriso dell’Ignoto rivela un distacco tanto profondo e incolmabile, da somigliare addirittura
a quello degli oppressori, da trasformarsi cioè in un ghigno «grave, sardonico, maligno». Il privilegio e la privazione della scrittura diventano così, inevitabilmente, esercizio del potere ed esclusione delle masse subalterne. Il processo investe lo stesso livello linguistico ed espressivo del romanzo.
Il sorriso lucidamente ironico, parodistico, sarcastico esercitato da Consolo su una ricchissima gamma di sperimentazioni e acquisti, in una rifusione
di straordinaria modernità e vivezza (il romanzo ottocentesco e la divagazione erudita, il canto dialettale e la citazione latina, e in generale
il discorso popolare e colto), alla fine del romanzo smuore, di fronte alle povere scritte sgrammaticate di denuncia e di collera contro i padroni. L’«alletterato» insomma sembra tacere e interrogarsi sulla «storia vera» raccontata dall’oscuro semianalfabeta, e sembra approdare al rifiuto nei confronti dell’ufficialità insensata della «Storia», e all’autocritica nei confronti della propria scrittura privilegiata. Anche in Lunaria (1985) Consolo conduce un discorso di sottile politicità, sviluppando con nuovi apporti la sua sperimentazione plurilinguistica, tra tenerezza evocativa
e contemplazione incantata, gioco parodistico e finzione oratoria, all’interno di una favola allegorica dialogata che tende a farsi struttura poetica e riaffermazione di un mito poetico, la luna, contro il potere. In una Palermo dai tratti settecenteschi in sostanza, la caduta della luna evidenzia la diversità di un viceré che non crede nel potere, lo avvicina ai villani suoi sudditi e smaschera la falsa scienza rispetto alla scienza capace di audacia
e concretezza, e rispetto alle generazioni di poeti e di umili diversi capaci
di capire veramente la luna e la forza del suo mito. C’è dunque la negazione di ogni menzognero privilegio del potere e del sapere, e l’affermazione di un sapere comune nel segno di una disarmata eppur vincente diversità.
E c’è, in generale, la valorizzazione di tutte le presenze marginali, dimesse, malinconiche, umbratili, notturne, dentro un universo di ufficialità vistosa, presuntuoso ottimismo, sfacciata solarità. Con Retablo (1987) Consolo torna al romanzo, esercitando la sua sperimentazione, la sua passione storico-erudita e il suo gusto figurativo su un intreccio serrato di scoperte e avventure, meraviglie e pericoli. In particolare, attraverso una Sicilia settecentesca sontuosa e miserabile, abbagliante e cupa, paradisiaca e infernale, deliziosa e sordida, si viene delineando un radicale conflitto tra l’avere e l’essere, tra le pretese virtù e valori che si fondano sulle ricchezze, sul nome e sul potere, e quelle che si affermano per se stesse, e che si possono ritrovare negli umili campioni di una diversità gentile o rude: pastori poeti o nobili vegliardi, briganti generosi o mercanti disinteressati. Con i quali simpatizza il cavalier Clerici, intellettuale illuminista e illuminato, soprattutto trovando un ideale compagno nel facchino Isidoro: entrambi innamorati sfortunati di due donne vittime dell’avere, prigioniere della ricchezza e dello status. Tornano perciò i temi dell’insensatezza di una storia nata sotto il segno della ragione, delle attive potenzialità dei diversi, del rapporto tra intellettuale privilegiato (e illuminato) e mondo subalterno. Ma c’è qui anche, da parte di Consolo, l’elaborazione quasi teorizzata di un impasto di forme linguistiche alte, colte, preziose, e basse, dialettali, gergali, le une e le altre intatte dall’usura della corporazione e del mercato letterari; la costruzione cioè di un romanzo che si proponga e affermi come autentica letteratura dell’essere contro le oscurità interessate e le banalità rumorose dell’avere. La raccolta di racconti e ritratti pubblicata con il titolo Le pietre di Pantalica copre un arco storico che va dalla Liberazione ai conflitti sociali del dopoguerra, dal boom degli anni Sessanta ai veleni e guasti del degrado di oggi. Vi si ritrova fra l’altro, la critica alla cultura del privilegio e
del potere, che si manifesta anche nella contrapposizione polemica tra la «poesia» di maniera sul fascino selvaggio del latifondo e le nude, schiaccianti cifre sul «regime fondiario»; e ancora il rapporto-contrasto tra la razionalità e la follia, il «male misterioso e endemico» di una Sicilia
emblematica. E vi si ritrova altresì la visione di una storia immobile e immutabile nelle sue prevaricazioni e inganni, ingiustizie ed esclusioni:
i «baroni, proprietari e alletterati» che vanno incontro agli americani liberatori (e vincitori) «per aver grazie, giovamenti, e soprattutto per fottere i villani»; e i pastori e contadini che assistono «indifferenti» da secoli a guerre e liberazioni estranee e incomprensibili: E sembrava che la loro vera guerra fosse un’altra, millenaria e senza fine, contro quella terra d’altri, feudi di baroni e soprastanti, avara ed avversaria, contro quel cielo impassibile e beffardo. Anche le pagine che raccontano di lotte combattute o di contestazioni organizzate sono segnate da questo senso di immutabilità della storia.
Tipico il testo intitolato Comiso, nel quale si può seguire il passaggio quasi inavvertibile, come da un punto all’altro di uno stesso quadro unitario, dalla manifestazione pacifista alla repressione poliziesca al paesaggio archeologico-naturale. Ma si dovrà ricordare a questo proposito anche un saggio del 1985 dove, attraverso la storia dello zolfo, delle zolfare e degli zolfatari, Consolo ricostruisce una lunga vicenda di sopraffazioni e di lotte che non arriva mai a modificare i rapporti di fondo: La Regione siciliana, l’Ente minerario siciliano, assumendole, s’incaricava di liquidare e smantellare le zolfare. Mettendo la parola fine su questa realtà economica, sociale siciliana, che tanti morti era costata, tanta pena, tanto strazio. Altrove, lontano, in altri paesi gli zolfatari, i loro figli avrebbero continuato la loro fatica, la loro pena. Si può concludere, parafrasando una dichiarazione dello stesso Consolo, che in tutta la sua produzione egli (come il viceré di Lunaria), proprio perché non crede nel potere e non accetta la logica del privilegio, «riesce a vedere più degli altri una realtà di degradazione e di sopruso […] al di sotto dell’ottuso livello» di esibita vitalità della società contemporanea. Perché è sempre all’oggi che Consolo mira, sia che parli di intellettuali illuministi o di analfabeti ottocenteschi, e perché è tanto «notturno, malinconico, innocente» quanto ostinato, acuto, impietoso nei suoi dolenti e vivaci disvelamenti.

settembre 1989




LE PIETRE FERITE (Intervista a Vincenzo Consolo)*

*Colloquio tenutosi il 5 dicembre 1988 nella Biblioteca Salita dei Frati di Lugano, in una serata organizzata dall’Associazione dei Siciliani nel Ticino e da «Bloc Notes».
a cura di
 Paolo Di Stefano



 Giunto a Milano nel 68, all’età di trentacinque anni, Vincenzo Consolo non è emigrante per necessità, ma per scelta. Questa scelta da quali ragioni è stata determinata?

«Devo dire che questa emigrazione a Milano, del 1968, era la mia seconda emigrazione. Emigrazione, naturalmente, tra virgolette, perché era un’emigrazione da privilegiato. Io avevo la possibilità di studiare e quando si trattò di fare gli studi universitari, decisi di compierli a Milano. Studiai diritto all’Università cattolica. Credo che in tutti i siciliani ci sia l’ansia di uscire dall’isola e di vedere il mondo, perché -almeno da parte delle persone che non sono strettamente necessitate- c’è come un bisogno di conoscere il «continente». Io avevo scelto Milano perché sin da allora offriva sollecitazioni letterarie: era la città dove era stato Verga, era soprattutto la città dove viveva Elio Vittorini. Speravo, quindi, andando a studiare a Milano, di conoscere Vittorini. L’incontro in realtà non avvenne a causa della mia timidezza. Mi ricordo che odiavo un mio compagno di università che era diventato amico di Vittorini e poteva liberamente accedere a casa sua e pranzare con lui. Ma voglio ricordare un episodio significativo per quegli anni. Piazza Sant’Ambrogio, dove si trova l’Università cattolica, era allora, parafrasando Calvino, la piazza dei destini incrociati: in quella piazza c’era, oltre alla basilica e all’Università, una caserma della celere -allora il ministro degli Interni era Scelba-, e un centro ricavato da un grande monastero, per l’orientamento degli emigrati. Negli anni Cinquanta c’erano grandi masse di meridionali che arrivavano alla stazione centrale, venivano convogliati su tram speciali e portati in Piazza Sant’Ambrogio, dove erano sottoposti a visita medica ed equipaggiati di casco e tuta, per essere poi mandati all’estero, in Francia, in Svizzera, ma soprattutto nelle miniere di carbone del Belgio. Allora, a studentelli piccolo-borghesi come me, o come Ciriaco De Mita, Riccardo Misasi o altre persone che oggi appartengono alla classe dirigente italiana, poteva capitare di incrociare il compaesano contadino che emigrava, oppure il compaesano poliziotto. I destini dell’Italia si determinavano in quegli anni della ricostruzione. Finiti gli studi, capii che volevo fare lo scrittore. Pur avendo la possibilità di lavorare a Milano, decisi di tornare in Sicilia: per quelli della mia generazione, che non hanno fatto in tempo a fare la guerra, essere scrittori significava scrivere di problemi sociali, avendo letto la grande letteratura meridionalista del dopoguerra, da Conversazione in Sicilia alla saggistica, da Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre a D’Orso, a Gramsci.
Decisi allora di tornare in Sicilia, per insegnare, per fare lo scrittore e testimoniare di quella realtà contadina.»

Perché, allora, il ritorno a Milano, una città con la quale, come tu stesso hai detto più volte, non hai avuto un rapporto facile?

 «Tornai a Milano quando il mondo in cui avevo creduto e che pensavo di testimoniare era scomparso davanti ai miei occhi e davanti agli occhi di tutti. Si erano verificati grandi movimenti di masse dal Sud verso Nord, che coincisero con la fine della civiltà contadina. Il grande esodo verso l’industria settentrionale mi spinse a fare le valigie per assistere a quella grande trasformazione. Mi sembrava che in Sicilia la storia fosse finita, che si fosse chiuso un capitolo e che al Nord se ne aprisse un altro. In quegli anni c’erano alcune riviste molto attente a quelle trasformazioni, sia dal punto di vista sociale che linguistico: ad esempio, il «Menabò» sollecitava a studiare le commistioni che nascevano dall’incontro dei meridionali con le aree urbane, stimolava l’attenzione verso le nuove koiné che si sarebbero formate. Nel 1968, di fronte al rivolgimento culturale che si stava verifican-do, mi trovai spaesato e spiazzato, perché, provenendo dal mondo contadino, non capivo il linguaggio e la realtà di quella Milano. In molti anni di osservazione e di riflessione capii che non avrei mai potuto narrare di una realtà che non mi apparteneva e di cui non avevo memoria. Quindi l’unico modo per rappresentare quel mondo che non conoscevo era metaforico, rivolgendomi al mio bagaglio di memoria, alla mia storia e alla mia cultura. Cosi, dopo un silenzio di tredici anni, motivato dal momento di spaesamento e di osservazione, viene fuori il secondo libro, Il sorriso dell’ignoto marinato.»

Farei un passo indietro, per ricordare due figure determinanti per la tua cultura, entrambe siciliane, ma rappresentanti di due diverse Sicilie. Che cosa hanno significato per te Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia?

«Devo premettere che io parlo di microcosmi, ma credo che quel che dico possa applicarsi anche a realtà più ampie. Io ho sempre immaginato la la letteratura siciliana -che ha una sua precisa fisionomia, fortemente connotata storicamente e linguisticamente- come divisa in due parti: quella occidentale e quella orientale. Credo che ci sia una linea ideale che divide da una parte, a Ovest, narratori interessati al mondo storico e sociale -perché li son più forti i segni della storia-, dall’altra, a Est, scrittori più portati verso una visione esistenziale e verso una sorta di lirismo -perché il mondo orientale è più compromesso con la natura, una natura spesso violenta qual è, ad esempio, quella delle eruzioni vulcaniche o dei terremoti, con un continuo azzeramento della storia e la necessità di ricominciare sempre daccapo. Penso che questa distinzione sia valida non solo per gli scrittori ma anche per gli altri artisti. Io mi sono trovato a nascere e a vivere al centro di questi due mondi, in una specie di zona di confluenza, in un terreno franco dove c’erano segni labili della storia e segni labili della natura. Per me questi due poli erano rappresentati da Leonardo Sciascia e da Lucio Piccolo. Sciascia lo conobbi quando pubblicai il primo libro, La ferita dell’aprile; mi scrisse invitandomi ad andare a trovarlo. Andare a Caltanisetta fu per me come andare a New York, perché era un mondo completamente diverso rispetto a quello in cui abitavo: per noi che viviamo nella fascia settentrionale della Sicilia è molto più semplice prendere un treno verso il Nord, che esplorare quello che ci sta alle spalle, oltre quella barriera di Appennini rappresentata dai Nebrodi e dalle Madonie. Quindi conoscevo attraverso la letteratura il feudo e le zolfare, ma andando a trovare Sciascia mi accorsi che era una gente e una cultura diverse dalla mia. D’altra parte ho avuto in fortuna di stare vicino a un poeta come Lucio Piccolo, un cugino di Lampedusa, coltissimo, barone, che scriveva poesie altissime. Mi sono trovato, insomma, tra due bastioni, a combattere contro l’uno o contro l’altro.»

Nel 63 esce La ferita dell’aprile: la sintesi, che hai sempre cercato, tra questi due poli di cui parlavi, è già, almeno in parte, realizzata con il primo romanzo?

 «Credo di sì. Sin dal primo libro mi sono scoperto una forte tentazione al canto. La ferita è concepita come una ballata, come un poema narrativo, come un romanzo fortemente ritmato. Ma tutto questo e corretto da tante malizie di tipo retorico, come l’ironia, le sprezzature, molte rotture interne e falsetti che ho messo in campo proprio in contrasto con questa propensione alla lirica. Oltretutto i temi trattati non erano per nulla assoluti o esistenziali o idilliaci. Erano argomenti drammatici: ho voluto raccontare con un linguaggio adolescenziale la storia dell’ennesima adolescenza della Sicilia del dopoguerra: la caduta del fascismo, la ricostituzione del partiti, la possibilità di avere una nuova storia sociale, il fallimento di tutto questo e il ritorno all’impostura eterna. È una falsa autobiografia, tanto che io lo considero un romanzo storico.»

 Gli anni Settanta per te non sono anni di partecipazione. Eppure, nel ’76 esce Il sorriso dell’ignoto marinaio, da cui però emergono i segni del tempo. Qual è il rapporto tra storia e attualità?

 «Questo libro l’ho potuto scrivere solo perché mi ero trasferito a Milano, dove ho potuto osservare la realtà operaia e industriale, e solo perché avevo visto i conflitti sociali, che in quel momento erano molto acuti. Volendo parlare di questo, mi sono rivolto alla storia siciliana e ho descritto un passaggio storico importante come il 1860, una data che tutta la tradizione narrativa siciliana ha trattato. In effetti gli scrittori siciliani si sono sempre chiesti i motivi della propria storia: per questo il tema del 1860 è stato trattato da Verga, da Pirandello, da De Roberto, da Lampedusa, da Sciascia. È quasi un passaggio obbligato. Io l’ho affrontato volendo trattare un argomento che mi stava molto a cuore: che cos’è la storia, da chi è scritta, qual è il dovere e l’atteggiamento dello scrittore e dell’intellettuale di fronte alla storia, in determinati momenti acuti. E giusto e morale, quando fuori le masse sono impegnate in lotte molto accese, che lo scrittore rimanga chiuso nella propria stanza a scrivere di se stesso o di squisitezze? Il protagonista di questo libro, il barone Mandralisca, è investito da questi interrogativi nel momento in cui in Sicilia avvenivano le rivolte popolari. Allora ho voluto raccontare l’atteggiamento di questo studioso, amante di oggetti d’arte, collezionista di quadri e studioso di malacologia, che si trova ad essere testimone di fatti atroci e di massacri.»

La presenza del documento originale, intercalato al racconto, può essere interpretato come il segno di un’insufficienza della narrazione?

«Direi che è un senso di colpa dell’arte nei confronti della storia e della vita. Io sento molto il privilegio della scrittura e il piacere della narrazione, ma anche un bisogno di verità nei confronti della grande menzogna che è la letteratura. Per questo, nella struttura del Sorriso, ho immaginato, insieme all’invenzione, l’inserimento di documenti, per mostrare la verità e la sublime impostura della letteratura legate in un tessuto unitario che desse un quadro complessivo. Raccontare in modo rotondo una storia come quella mi sembrava ingiusto. Ho voluto far veder e il disegno accanto al dipinto finito.»

Un aspetto fondamentale per comprendere la scrittura di Consolo è il linguaggio adottato. Che atteggiamento assume lo scrittore di fronte a questo argomento? A cosa si deve la scelta di quella «plurivocità» di cui ha parlato Cesare Segre?

«Il discorso sul linguaggio è molto complesso. Per quanto mi riguarda credo che ogni scrittore, se appartiene ad aree linguistiche periferiche dove Litaliano è una lingua che si acquisisce -come è stato nel mio caso-, debba inventarsi una lingua, non possedendo quella nazionale. A questo si aggiungono esigenze di tipo estetico-letterario. Da quando cominciai a scrivere io capii che non dovevo scrivere in italiano, proprio perché gli argomenti che volevo affrontare cozzavano con una lingua che parlava d’altro. Quindi volevo adottare una lingua che si opponesse a quella centrale, una lingua, se vogliamo, di contropotere. Questo, ovviamente, non è stato un problema solo mio, ma appartiene alla storia letteraria siciliana e non solo siciliana. Manzoni, quando decide di scrivere i Promessi sposi, un romanzo prettamente lombardo, in lingua toscana, lo fa per ragioni politiche, contro il potere austriaco. L’operazione linguistica del Verga è di segno opposto: rifiuta il toscano e sceglie una lingua altra per fare scoprire una realtà periferica che l’unità italiana ignorava: per questo Verga, prima di scrivere, studiò le tradizioni popolari, si documentò su inchieste parlamentari e no, fu molto colpito dal sondaggio di Sonnino e Franchetti sulle condizioni dell’agricoltura in Sicilia, soprattutto il capitolo finale in cui si parlava del lavoro infantile nelle miniere di zolfo, che fu una rivelazione per tutta l’Italia. Verga, per questo, scrisse in una lingua, come disse Pasolini, irradiata di elementi dialettali. Lo stesso Pasolini, provenendo dal Friuli, dovette affrontare lo stesso problema; non a caso le prime sue opere furono in dialetto e quando si trasferì a Roma scrisse in una lingua particolare, realizzando un processo retorico contrario a quello di Verga che abbassava a livello dialettale la lingua nazionale. Viceversa Pasolini, attraverso la digressione, partiva dalla lingua italiana per inserirvi elementi dialettali. Ci sono due modi per evitare di scrivere in italiano: un processo di irradiazione e un processo di innesto.»

Quando in Italia si parla di espressionismo linguistico nel Novecento si pensa a Gadda. In che termini si pone la tua ricerca linguistica rispetto all’esperienza gaddiana?

 «Direi che ha agito non più di tanto, non credo che mi abbia influenzato, anche se, naturalmente, ho letto Gadda con interesse. Credo che l’unico aspetto che ci accomuna è il fatto che sia in Lombardia sia in Sicilia 111 

è presente l’elemento spagnolo. Forse certo barocchismo proviene da questo retaggio culturale. Una volta hanno chiesto a Gadda le ragioni del suo barocco: rispose che barocco è il mondo e lui non faceva che rappresentarlo. La stessa tradizione siciliana è barocca, è composita, per nulla lineare e razionale. Brancati, commemorando Giuseppe Antonio Borgese, gli rimproverava di non aver praticato il barocco sino in fondo. Parlando del barocco siciliano, Brancati disse che è una linea retta che uscendo da un ghirigoro rientra subito in un altro ghirigoro. Questo significa che esiste la consapevolezza nel voler rappresentare una realtà e una tradizione che è in sé barocca.»

Alla ribellione contro la lingua e contro la storia, si aggiunge in Consolo una opposizione rispetto ai generi letterari acquisiti. Il sorriso dell’ignoto marinaio, come è stato detto, è un romanzo che distrugge il romanzo.


«Sì. Io ho sentito in un certo senso la colpa di scrivere. Per questo ho cercato di negarmi sempre a qualsiasi tipo di inquadramento. Il sorriso ha una struttura così rotta, franta, è un assemblaggio di elementi talmente di- versi, che pensavo che il lettore potesse sentirsi frustato ad ogni pagina. Soprattutto per certo linguaggio presente nelle parti narrative, un linguaggio in negativo, cioè talmente mimetico e ironizzato che vuole negarsi nel momento in cui nasce. Cercavo di fare la parodia del linguaggio erudito dell’Ottocento. Inoltre il documento storico, diversi livelli linguistici e alla fine le scritte a carbone, che sono quanto di più sintetico, duro e incisivo si possa immaginare. Era un modo di sottrarsi al romanzo storico leggibile di fila, e quindi il tentativo di richiedere al lettore volenteroso di partecipare alla ricreazione del romanzo.»

Una costante dei libri di Consolo è la presenza, in diverse forme dell’immagine, del documento iconografico: Il sorriso parte da un quadro di Antonello, Lunaria contiene addirittura un corpus di riproduzioni ico-nografiche, Retablo ha per protagonista un pittore contemporaneo calato in ambiente settecentesco. Che significato ha questo rapporto con l’immagine?

 «Forse la consapevolezza dell’insufficienza della parola e un bisogno di icasticità e di visualità. Nel Sorriso il Leitmotiv del quadro di Antonello si presenta in termini opposti: in un primo momento come presenza positiva, poi in senso rovesciato. In Retablo già il titolo appartiene alla categoria pittorica: «retablo» significa polittico, cioè insieme di storie raccontate in più scomparti. È un termine che si estende anche al teatro; in Cervantes «retablo» significa proprio teatrino. Io ho preso lo spunto da questa suprema ironia cervantina che richiama il senso dell’arte come impostura. Inoltre il protagonista è un pittore: il segno del falso storico che ho voluto rappresentare è proprio nel fatto che un pittore vivente assume vesti settecentesche.»

Fabrizio Clerici ha raccontato, in un’intervista, il pretesto che ha dato  spunto al libro: un viaggio in Sicilia realmente accaduto…

«Una volta ci siamo trovati a Palermo per un fastoso matrimonio della nobiltà cittadina, a cui indegnamente  ero stato chiamato a fare da testimone. Dopo la cerimonia abbiamo fatto un viaggio, con Clerici e altri, percorrendo l’itinerario classico di tutti i viaggiatori stranieri dal Settecento in poi. Da Palermo si approdava a Segesta, testimone della grecità, a Selinunte, poi ad Agrigento, spingendosi a volte fino a Siracusa, per fare il giro completo dell’isola. Fu quel giro a suggerirmi un libro che raccontasse di un viaggiatore lombardo in Sicilia. Ho scelto Clerici, che è di origine lombarda ed è un pittore tra il surreale e il metafisico. Inoltre in anni lontani aveva dipinto un quadro dal titolo «Confessione palermitana», dove comparivano le damine settecentesche di uno scultore che lavorava gli stucchi, il Serpotta, accanto alle quali aveva riprodotto gli scheletri delle catacombe dei Cappuccini di Palermo. Tutti questi elementi mi hanno spinto a inserire la figura di Clerici come protagonista del libro. Del resto Clerici e un personaggio già visitato dalla letteratura, essendo apparso in un libro di Savinio su Milano, Ascolta il tuo cuore città, in cui l’autore individua in Clerici un personaggio stendhaliano.»

In Retablo si raggiunge una sorta di sintesi tra l’elemento illuministico, rappresentato da Clerici, e la coralità siciliana barocca.

 «Direi di si. La storia racconta di un personaggio, Clerici, innamora-to, non corrisposto, di Teresa Blasco, una fanciulla bellissima, secondo le testimonianze storiche rimaste, figlia di un militare spagnolo e di una siciliana. Nella realtà Teresa sposa Cesare Beccaria. Quindi, nella mia immaginazione, questa vicenda rappresenta l’incontro tra la ragione illuminista e la poesia della ragazza. Dall’incontro emerge la figura di Manzoni, di cui Teresa è la nonna, avendo generato, con Cesare, Giulia Beccaria. Il senso era questo: l’unione tra logica e irrazionalità. Clerici si allontana dalla cultura illuminista per pene d’amore; incontra in Sicilia un ex-frate, Isidoro, in preda anch’egli al delirio d’amore. Allora intraprendono insieme, come don Chisciotte e Sancio Panza, un viaggio per la Sicilia. L’intento di Clerici è di prendere le distanze dalla donna, immettendosi, lui dice, in una dimensione di «stasi metafisica», senza però riuscirci. Ma soprattutto è travolto dalla vita, quindi si crea questa tensione tra la ragione e la poesia.»

Torniamo indietro: in Lunaria (1985) come si combinano i richiami a Lucio Piccolo e a Leopardi?

 «In effetti la dedica è molto importante: «A Lucio Piccolo primo ispiratore, con ‘L’esequie della Luna’. Ai poeti lunari. Ai poeti.» Lucio Piccolo, l’ho già detto, era un bravissimo e purissimo poeta scoperto da Montale, che aveva esordito nel 56, prima del Lampedusa. Le cronache letterarie si occuparono subito di questo signore eccentrico, barone, che esordiva già in età matura. Poi,  però, fu commessa una sorta di ingiustizia nei suoi confronti. Quando esplose il fenomeno del Gattopardo, scritto dal cugino, se ne senti quasi come schiacciato, perché ogni volta che si parlava di lui veniva citato come il cugino di Lampedusa. Questo lo amareggiò molto e una volta, come racconta Sciascia, disse che era Lampedusa il suo cugino e non viceversa. In effetti la critica italiana non gli ha mai reso omaggio, mentre all’estero è molto tradotto. In anni lontani aveva intrattenuto corrispondenze con poeti stranieri importanti, come Yeast e Ezra Pound. Era un uomo di una cultura sterminata, aveva vissuto sempre appartato ed era molto autocritico. Il mio libro, Lunaria, è stato scritto in omaggio a lui, perché aveva scritto un’operetta in prosa che era una sorta di canovaccio da cui voleva ricavare un balletto. Infatti aveva mandato quel canovaccio a Ilde-brando Pizzetti che poi non ne fece nulla. Il tema di queste Esequie della Luna è la caduta della luna, è un tema leopardiano. In una poesia, Spavento notturno, Leopardi dice di un sogno in cui, appunto, la luna era precipitata. Io riprendo questo argomento facendone un’opera teatrale. In realtà ero molto disgustato per certa romanzeria di consumo che si faceva in quegli anni e che purtroppo continua a farsi. Allora ho voluto spingermi oltre Il sorriso dell’ignoto marinaio, proponendo un’opera in cui venisse eliminata tutta quella parte che è la radice del romanzo, la parte diegetica, riducendo all’osso la descrizione con brevi didascalie. La mia preoccupazione era che l’opera fosse più vicina alla poesia, con un rovesciamento di ruoli, per cui le parti scritte in versi sono più prosastiche, mentre le didascalie in prosa sono più ritmate e rimate. Ancora una volta era quindi un libro scritto in polemica rispetto all’industria culturale.»

A proposito dell’ultimo libro, Le pietre di Pantalica, alcuni critici hanno avvertito una sorta di sentimento nostalgico che lo pervade. Tu accetti questa osservazione?

«Non credo che ci sia nostalgia. Il libro è strutturato in tre parti, «Teatro», «Persone», «Eventi». Non so dove si possa avvertire questa nostalgia. Non credo certo nella terza parte, che è la più diaristica, la più violenta: si fonda sui miei ritorni in Sicilia di questi anni, sulla constatazione di un degrado, di un processo di imbarbarimento e di atrocità. Nella prima parte ho voluto raccontare gli ultimi bagliori dell’epopea contadina, a partire dall’arrivo degli Americani sino agli anni Cinquanta, il tentativo fallito di avere una riforma agraria e una maggiore giustizia sociale. Il mondo contadino non era assolutamente un mondo felice, per cui non credo se ne possa nutrire nostalgia. Tuttavia cerco di dimostrare che c’erano alcuni valori che si sono perduti: un senso immediato della realtà, senza schermi, e un’alta considerazione della vita umana. Credo che nel processo di imbarbarimento d’oggi sia avvenuto innanzitutto un distacco dalla realtà, per cui non se ne ha più la percezione. Tutta la storia della civiltà, secondo me, è contrassegnata da un oscillare continuo di accostamento e allontanamento dalla realtà. Nei momenti di distanziamento si verifica quella che noi chiamiamo alienazione, che ci costringe a guardare delle false realtà: momenti storici come quello che stiamo vivendo mi fanno pensare al ritorno dentro la caverna platonica, dove ci sono gli uomini che guardano le loro ombre sulle pareti della caverna credendo che quella sia la realtà, mentre la realtà è alle loro spalle. L’altro tema è la perdita del valore della vita umana, che oggi, osservandola dalla Sicilia, mi pare svilita in tutti i sensi. Allora ho parlato delle violenze siciliane, della mafia, in un anno preciso in cui sono successe atrocità incredibili. Era l’estate del 1982, dove un delitto si susseguiva all’altro. In luglio c’era la festa della patrona, santa Rosalia: io ho assistito alla processione, a cui era presente anche il prefetto Dalla Chiesa, incontro Camilla Cederna, che doveva intervistare lui e sua moglie. Quando sono tornato a Palermo, in settembre, il prefetto e la moglie erano stati uccisi. Si è trattato di un anno terribile, in cui sono state uccise più di cento persone. Ho voluto raccontare il degrado di questa città, ma anche di Siracusa, che è un luogo che appartiene a tutti, una città di grande valore civile e culturale, circondata da una enorme fascia di industrie dove interi paesi sono stati evacuati perché nascevano bambini deformi.»
 Come sono stati strutturati, nell’insieme, i diversi testi, in gran parte concepiti come estravaganti?

 «La prima parte, «Teatro», è un nucleo narrativo unitario che avevo concepito come romanzo storico e dopo abbandonai perché non mi interessava più come genere. Quindi ho utilizzato solo una parte di questo roman-zo, che ho sforbiciato, perché mi importava allontanare nel tempo quella civiltà, senza rappresentarla ravvicinata. Poi ho raccolto altre cose che avevo scritto, ma era un periodo in cui guardavo e pensavo con quegli stessi occhi. Quindi ho messo in scena delle persone di quel mondo, come Lucio Piccolo o l’etnologo Antonino Uccello, che rappresenta il personaggio portante di tutto il libro, poi Leonardo Sciascia e Buttitta. A questo ho aggiunto il diario che ho tenuto durante i ritorni in Sicilia. Mi sembra che, più che racconti, il libro, per gli slittamenti che esistono tra una sezione e l’altra, per i rimandi, abbia un’unità e una struttura molto aperta ma anche coerente. Il sigillo del libro è dato dall’ultimo racconto, un racconto-verità, desunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, che si intitola «Memoriale di Basilio Archita». È un racconto che si svolge in pieno oceano su una nave greca, dove vengono scoperti dei clandestini kenioti che vengono gettati a mare in pasto agli squali, per decisione del capitano e degli ufficiali di bordo. Sono stato molto colpito da questo fatto e ho voluto riprodurlo immaginando che a bordo ci fosse un mozzo di origine siciliana, Basilio Archita, che, dopo essere sbarcato al Pireo, raccontasse questo delitto terribile, come testimone. Ho voluto dire che questo processo di imbarbarimento non è solo in Sicilia, ma sta all’origine della nostra civiltà che, come tutti sappiamo, ci viene dalla Grecia.»

All’inizio del racconto dedicato a Sciascia hai posto come epigrafe una sua frase che dice: «Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione.» Questa affermazione è valida anche per te?

 «Sì, certo. Sciascia, però, quando parla della sconfitta della ragione pensa soprattutto all’aspetto storico e sociale: parla dell’inquisizione, dei fallimenti politici, delle offese all’uomo. Io porto la sua affermazione alle estreme conseguenze e penso alla disgregazione della ragione come follia. Una componente che è stata poco sondata dalla narrativa siciliana è proprio la follia del siciliano. Per questo ho paragonato la realtà siciliana a una tempesta alla quale è estremamente difficile sopravvivere. Quando ci si salva si approda, secondo me, a una sorta di maturazione anticipata. Ho paragonata la maturazione di cui parla Pirandello nel Fu Mattia Pascal («Così l’anima mia venne a maturazione ancora acerba…») a quei frutti che si producono artificiosamente fuori stagione in Sicilia e che si chiamano verdelli. Si portano le piante di limone, nell’agosto inoltrato, sull’orlo della morte, privandole dell’acqua, le foglie rischiano l’essiccazione e sono sul punto di cadere. Quando l’albero è «patuto», come si dice, viene immessa l’acqua nel mezzo degli agrumeti e l’albero fiorisce di colpo, mette la zagara e immediatamente cresce il frutto, un frutto fuori tempo, profumatissimo e gustosissimo che si chiama verdello. Per il siciliano è la stessa cosa: arriva all’orlo della morte e, se riesce a sopravvivere, acquista una saggezza prematura, una disperata intelligenza e una dolorosa consapevolezza.»

Pensi che oggi persistano, nell’ambito della letteratura prodotta in Sicilia, alcune caratteristiche tipiche che si possono definire siciliane a tutti gli effetti?

 «Fino alla mia generazione è esistita. Adesso c’è una sorta di uniformazione. Io, negli anni settanta, ho fatto per anni il lettore per Einaudi e mi sono accorto che c’è stato un momento di passaggio da una scrittura a un’altra. Avevo chiesto a Einaudi di occuparmi soprattutto di letteratura meridionale. C’erano scrittori che in quel periodo erano portatori di realtà sociali ben precise, poi, passando a generazioni più giovani, notavo che i dattiloscritti che arrivavano da Palermo erano sempre più uguali agli altri. Come è avvenuta l’uniformazione linguistica, è venuta l’uniformazione dei temi. Cadeva l’interesse verso il mondo esterno, si tendeva sempre più a parlare dei propri problemi. Inoltre da una scrittura di conquista, una scrittura-scrittura, si passava a una specie di trascrizione di un parlato uguale per il Meridione come per il Nord. Le piccole culture si stanno distruggendo, ma è un processo di omologazione che avviene dappertutto, in Occidente attraverso la forza dell’economia e all’Est per forza di carri armati. Mi sono trovato una volta a Palermo a un convegno internazionale di scrittori. C’erano due scrittori emblematici del cosiddetto socialismo reale, Evtusenko e Kundera. Naturalmente non si amavano e lo mostrarono subito. Ma il primo a provocare fu Evtusenko: disse che gli astronauti sovietici gli avevano detto che dallo spazio le piccole patrie non si vedevano, si vedevano solo le grandi terre, i grandi continenti, alludendo al fatto che la Cecoslovacchia dall’alto non esisteva. Kundera rispose che è probabile che dallo spazio non si vedano le piccole patrie, ma dagli oblò dei carri armati si vedono benissimo. È questo il tema doloroso di Kundera, la sparizione della patria boema.»

Domande del pubblico.

 Lei ha citato molti nomi di autori siciliani, ma non ha parlato di Gesualdo Bufalino. Che opinione ha di questo scrittore?
 

«Lo conosco benissimo, ma lo considero uno scrittore che non appartiene in modo totale alla tradizione siciliana. E un autore, secondo me, che si rifà un po’ a certa scrittura degli anni Trenta, di tipo centrale, rondista, i cui esponenti maggiori, per intenderci, erano Emilio Cecchi e Cardarelli, prosatori d’arte. In lui non vedo sperimentazione, la sua è una scrittura che appartiene, sia pure in modo magistrale, al codice nazionale, non c’è una parola che non sia nel vocabolario italiano, anche se si tratta di una scrittura di livello molto alto ed elegante. Quando cita una parola in dialetto la mette tra virgolette o in corsivo e le sue tematiche assolute non appartengono alla tradizione letteraria siciliana. Per questi motivi Bufalino potrebbe anche essere nato a Roma.»

Che rapporto c’è per lei tra la Sicilia come piccola patria e il suo tentativo di recupero della ricchezza culturale e linguistica della sua terra?

 «Ci sono due modi di guardare alle piccole patrie. Un modo regressivo, per cui ci si chiude dentro al grembo materno senza crescere al mondo dell’agorà e della discussione: quindi il compiacimento della chiusura. Per me le radici, le storie e la cultura locale servono come metafora, come metro per misurare il resto del mondo. Faccio un esempio emblematico per essere più chiaro. C’era un poeta siciliano della fine dell’Ottocento, Alessio Di Giovanni, figlio di un notaio, che una sera rimase ammaliato dal canto in siciliano di un carrettiere, uno di quei canti che somigliano molto alle nenie arabe. Da allora si mise a studiare il mondo siciliano dialettale, scrivendo anche romanzi e poesie in siciliano. Quando uscirono I Malavoglia, rimproverò all’autore di avere scritto quel libro in italiano e si propose a Verga come traduttore in siciliano del romanzo. Naturalmente Verga si oppose. Quello di Alessio Di Giovanni era un modo compiaciuto di guardare al sicilianismo, e in questi casi non è difficile arrivare a chiusure assolute e a forme politiche molto dubbie: non per nulla questo Di Giovanni confluì nel movimento provenzale di Mistral che era molto di destra. Per me non è compiacimento del localismo, ma è misura del mondo data dalla propria cultura e dalle proprie radici.»

Il suo secondo libro è uscito a tredici anni dal primo. Pietre di Pantalica è apparso un anno dopo Retablo. I suoi tempi di lavoro sono cambiati o sia mettendo a frutto quanto ha fatto in passato?

«Prima avevo molti più dubbi, Forse, adesso, tante preoccupazioni sono cadute. Ma sento anche l’urgenza di dire alcune cose che prima non sentivo la necessità di comunicare. Nell’ultimo libro ho voluto ribadire lo   

stesso discorso di Retablo con un linguaggio diverso, in termini molto più chiari. L’ho messo assieme, lavorando molto, proprio per riproporre quel discorso della scrittura con altre parole. Ma anche per mostrare che, al di là del barocchismo, in Retablo c’erano argomenti di fondo che mi stavano a cuore. Il tema di fondo, quindi, rimane uguale: cioè certa cultura e certa civiltà che nel mondo d’oggi si stanno perdendo.»

Che sentimenti nutre rispetto alla società letteraria d’oggi: non sente di compromettersi anche lei nell’industria culturale?

«Finora ho potuto rimanere appartato, rinunciando ad aderire alla società letteraria, negandomi. Dal primo al secondo libro sono passati tredici anni. Il sorriso è stato quel che si dice, in termini molto volgari, un successo editoriale, i critici ne hanno parlato moltissimo. Sull’onda di quel libro avrei potuto scrivere tanti altri romanzi uguali o simili, ma mi sono ritirato, fino a pagare con l’oblio questo mio silenzio. Nell’85 ho pubblicato un libretto che era la negazione del romanzo e del suo consumo. Adesso sento la necessità di scrivere di più. Oggi non è più cosi facile starsene appartati, anch’io subisco quelle che sono le dittature dell’industria e dei mezzi di comunicazione. Anch’io vado per librerie a fare presentazioni, anch’io mi nono assoggettato, con malagrazia e con molte remore, alle leggi della pubblicità e del consumo. Comunque ho cercato almeno di non perdere dignità e classe, di non arrivare a certi spettacoli degradanti. Oggi la letteratura, come la politica o la religione, è spettacolo. Le sorti nostre si decidono sulla base di spettacoli televisivi come quelli delle elezioni americane.»

Come può un siciliano vivere a Milano?

«Le posso rispondere con un’altra domanda: come può un siciliano oggi vivere a Palermo? È terribilmente difficile. Quando vado a Palermo e incontro Sciascia, il quale mi dice del suo dolore e della sua pena di stare in una città  e   in una terra come quella, mi accorgo di quanto sia atroce vivere li. Ma oggi è altrettanto terribile vivere a Roma e forse in tutta Italia. Ma credo che per i siciliani, quando potevano scegliere, come me nel 68, c’erano due modi di uscire dal loro paese: c’era una corrente che li portava a Roma e una corrente che li spingeva a Milano. Questo non era casuale, dipendeva da due modi di concepire il mondo: non per nulla Brancati approdò a Roma, mentre Vittorini scelse Milano. Milano era l’opposto della Sicilia, era la città della organizzazione sociale, mentre noi venivamo da una terra di disgregazione e di disordine atavico. Quando, nel 68, ho scelto Milano, l’ho fatto pensando che a Milano ci fosse un progetto sociale e culturale.

Oggi questa speranza è fallita e mi costa moltissimo rimanere a Milano. Ho detto, fra virgolette, che Milano è oggi la città più volgare d’Italia perché da Milano parte il messaggio pubblicitario, lì si organizza il messaggio che riduce il resto d’Italia in grandi masse di consumatori di oggetti inutili. Ma è volgare anche perché ci sono le case editrici, le case di moda, regno della futilità, i giornali, le televisioni. Eppure, se mi trovo a immaginare una città in cui mi piacerebbe abitare, non so pensare ad altre città se non a Milano. Quando ci si sradica a trentacinque anni, come è capitato a me, si finisce per non appartenere più a nessuna terra. Io vado spesso in Sicilia, ma quando arrivo mi arrabbio e non vedo l’ora di tornare a Milano; quando sono a Milano mi arrabbio con Milano e cerco di tornare in Sicilia.»

Lei crede che la letteratura debba avere soprattutto un compito sociale?

 «Credo che lo scrittore abbia il dovere di essere estremamente critico anche in una ideale società perfetta. C’è un modo di dire dei tedeschi, riferito a scrittori come Böll o Enzesberger: si dice che sono scrittori che hanno sporcato il nido, perché parlano male del loro paese. Ma io credo che sia questo lo scopo della letteratura, sporcare il nido. I politici non lo fanno certo, sporcano eventualmente le coscienze. Ma soprattutto penso che sia questa la funzione del romanziere, perché il romanzo è uno strano ibrido, una unione di discorso logico e di discorso poetico. Ora, io dico che i poeti, i fanciulli e i re non hanno questo dovere proprio perché mancano dell’aspetto logico, che implica il contesto di cui facciamo parte. Nel momento in cui parliamo degli altri, facciamo un discorso critico e oppositivo. Perciò questo non è possibile ai bambini, né ai poeti, i quali non sono chiamati a fare i conti con il discorso logico. Ma neppure chi ha il potere possiede questa facoltà logica, perché non può andare contro i propri interessi. Per me il romanziere che non esercita la critica è uno scrittore di corte e perciò non esercita l’opposizione, perché ambisce ad essere abbracciato dal rе.»

Paolo Di Sefano

Un gioco di specchi

Giuliano Gramigna

Lunaria è un cuntu, una narrazione (tecnicamente), a dispetto dell’elenco dei personaggi e della struttura a scene? […] Il dilemma, posto che sia essenziale, non è ancora sciolto. Il lettore apre il libretto, e subito incontra: «Città caduta affranta, misericordia di quiete dopo il travaglio, silenzio, pace». Di li a poco, una voce recita: “Origine del tutto, / fine di ogni cosa, / eco, epifania dell’eterno, / grembo universale, / nicchia dell’Averno, / sosta pietosa, oblio». In qualche modo, l’orecchio può cogliere un’eco del coro dei morti nello studio di Federico Ruysch. La citazione, meglio: la criptocitazione, volentieri dedotta da testi famosi, risulta una componente significativa di Lunaria. Più avanti, il Viceré che parla dietro il manichino, inciamperà con mirabile anacronismo nel Cimitero marino di Valéry (la piana che palpita di scaglie», gli «uccelli bianchi, tanti fiocchi», che «predano» la superficie del mare…). I cerusici, chiamati a diagnosticare i “desvanecimientos” del Viceré, rifanno il verso un po a Molière ma anche al dottor Azzeccagarbugli. Non mancherà anche un’entrata di Pirandello. Tutto ciò vuol dire qualcosa. L’accensioni i rimandi ad altre opere, più o meno evidenti, qui sembra preordinata a soffocare fin dall’inizio qualunque slancio fabulatorio ossia dinamico; a fomentare piuttosto un gioco di specchi moltiplicatorio e immobilizzante. Terrificato dal primo raggio di luce che entra nella sua camera, il Viceré si lamenta: «No, no, no… Avverso giorno, spietata luce, abbaglio, città di fisso sole, isola incandescente.. Porfirio, Porfirio, torcia di catrame, selvaggio figlio di terre inospitali, lucifero crudele, ahimè, i miei nervi nudi, le mie vene, la mia pelle, i miei occhi». La sintassi rincalza – con il dominio quasi assoluto della frase nominale con la sequela delle apposizioni – il rifiuto, quasi ribrezzo, del moto, del cambiamento, insomma della narrazione. Nell’auspicio più profondo del Viceré, tutto dovrebbe restare fermo, in un nodo di assenza, di svenimento. Ha visto in sogno, come nei versi leopardiani, cadere la Luna dal cielo, lasciandovi una nicchia, un buco. In effetti, in una contrada innominata della Sicilia, su cui regna il Viceré, la Luna viene giù a pezzi, spaventando i contadini. Un frammento è portato a corte, oggetto di disputa dotta da parte degli accademici; finché una cerimonia lustrale, ancora dei contadini, non farà riapparire la Luna in cielo. Al Viceré, dubitoso della propria e altrui consistenza, non resterà che rivolgerle un ultimo saluto: “cuore di chiara luce, serena anima, tenera face, allusione, segno, sipario dell’eterno». Questa pantomima “verbale”, immaginata per una Sicilia possibilmente settecentesca, in effetti fuori tempo, assume nella sua struttura fragile, direi perfino divertita, valori di opposizione astronomica che sono, alla base, di opposizione metafisica: il Sole contro la Luna la necessità imperiosa, violenta della vita, dell’agire, contro l’estinzione, il non-essere. La Luna è pura iscrizione siderale, dietro la quale, per poco che si frantumi o cada, si scopre il vuoto, il niente. Questo niente, che sta sotteso alla favola del libretto, è dirò così rammendato da un verbalismo sfrenato, ostentatorio nel suo eccesso, che adibisce latinismi e ispanismi, barbarità dialettali, rotondità barocche, figurazioni di un’estetica del vuoto un po’ manganelliane (dico come riferimento…). Il lettore vede ricomparire moduli e processi già degustati in un precedente libro di Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio. Là era la Storia, dichiarata vacua e inscrivibile se non per mano del potere; qui l’intimazione o il sospetto di non-esistenza investe l’intera realtà umana, o almeno ciò che ne può apparire a un Viceré, manichino del potere. Altro è il rapporto che mantengono istintivamente con il mondo, con la Luna, i contadini, li abitatori delle ville, i terragni», forze, realtà animali incomprensibili.

(Corriere della sera, 15 maggio 1985)

Il clamoroso caso letterario di uno scrittore siciliano.

Un moderno Ulisse tra Scilla e Cariddi

Sfogliando il grande libro (1300 pagine) di Stefano D’Arrigo

Vent’anni di lavoro, e tant’attesa – È l’odissea di un marinaio reduce in Sicilia alla fine dell’ultima guerra mondiale.

Annotava Moravia da qualche parte che alla povertà e infelicità di una terra corrisponde ricchezza e felicità di letteratura, poesia e romanzo. E portava l’esempio dell’America Latina, con Borges e Marquez e tutti gli altri scrittori di quella vasta regione dove la letteratura (il romanzo) cresce ancora rigogliosa e splendida. Bisognerebbe, a questa di Moravia, aggiungere l’osservazione che non di tutte le terre solamente povere è una letteratura che si possa dire propria di una determinata regione, ma di quelle – come insegna Americo Castro – dove più o meno s’è formato il “modo d’essere”, dove cioè la realtà da “descrivibile” è diventata “narrabile” e quindi “storicizzabile”. Com’è appunto della Spagna e dell’America Latina. Ma: e il romanzo del Settecento in Inghilterra e quello dell’Ottocento in Francia, che infelici non erano ma forse solo inquiete nella loro borghesia? E il romanzo russo? E il romanzo americano? Restano solo domande, per noi che ci muoviamo disarmati. Perché allora bisognerebbe affrontare il vastissimo discorso sulla letteratura, il romanzo: cos’è e perché nasce, che funzione e che destino ha.

E questo lo lasciamo agli specialisti, a quelli che riescono a spiegare le cose e le ragioni delle cose.

A noi solo il piacere di goderle, quelle cose, il piacere di leggere un romanzo: Qui solo vogliamo dire che quell’equazione povertà-infelicità e ricchezza letteraria cade bene anche per la Sicilia e per quella letteratura che si chiama siciliana.

E quando una storia della letteratura dell’isola si farà, oltre alla stagione felice del Verga, Capuana, De Roberto, Pirandello, si dovrà pure dire di un’altra, quella di Brancati, Vittorini, Sciascia, Lampedusa, Addamo, Castelli, Bonaviri … ultimo, nel tempo, è da ascrivere a questa anagrafe Stefano D’Arrigo, scrittore messinese, di cui a giorni sarà in libreria il poderoso romanzo “Orcynus Orca” edito da Mondadori.

Ma torniamo per un momento a Castro per avanzare un’ulteriore osservazione riguardo alla letteratura siciliana.

E più che a Castro, a Sciascia, che adatta quello schema alla realtà siciliana e dice “storicizzabile” la Sicilia di dopo i normanni e da questo momento fa nascere il modo d’essere siciliano.

Ora, l’isola, non sempre e non dappertutto ebbe uguale sorte. Gli arabi, per esempio, lasciarono il loro segno più nella parte occidentale che in quella orientale; il feudo nel Val di Mazara e la piccola proprietà nel Val Demone hanno fatto si che le popolazioni delle due zone fossero in qualche modo diverse.  E diverso è il siciliano dell’interno da quello della costa. Occidentale e orientale, marino e dell’interno, continentale, ha per noi significato riguardo agli scrittori, nella misura in cui essi rispecchiano nelle loro opere, nella materia che assumono e esprimono, queste diversità. Verga ci sembra Marino (e non per via dei malavoglia), De Roberto continentale, come Pirandello e Sciascia e Lampedusa. D’Arrigo ci sembra autore marino (e non perché il suo romanzo si svolge sullo stretto).  Vogliamo dire che gli scrittori siciliani sono diversi (come diversi sono gli artisti: Greco o Migneco sono diversi da Guttuso) per la diversa realtà che esprimono, a seconda cioè se quella realtà si muove nel descrivibile, nel narrabile o nello storicizzabile: se partecipa più o meno al modo d’essere siciliano.   Sciascia, sintetizzando Castro, dice che’ descrivibile “una vita che si svolge dentro un mero spazio vitale”.  E ci soccorre anche Addamo scrivendo: “ … Nella prevalenza della natura c’è esattamente il limite della storia”.

Ora, le regioni, le città, le popolazioni che per varie ragioni hanno dovuto fare i conti con la natura prima ancora che con la storia, o a dispetto della storia, da esse, ci sembra, non possono venire fuori che scrittori, che opere i cui temi sono il mito, l’epos, la bellezza, il dolore, la vita, la morte,… vogliamo dire che queste opere, quando sono vere opere, si muovono dall’universale al particolare e sono siciliane per accidente; mentre le altre, al contrario, partono dal particolare e vanno all’universale e sono siciliane per sostanza.  Ma questa non è che una semplicistica classificazione, nella quale, come nel letto di procuste, la realtà scappa da tutte le parti.

   Tuttavia: una città come Messina, per esempio, al limite e al confine, distrutta, ricostruita e ridistrutta da terremoti, ci sembra un luogo dove la vita tende a svolgersi dentro un mero spazio vitale.  E figurarsi poi la vita di quella città invisibile e mobile che si stende sullo stretto, quella dei pescatori della costa calabra, e della costa siciliana, di Scilla e Cariddi, Scill’e Cariddi, anzi, arcaica e sempre uguale, vecchissima e sempre nuova, piccola e vastissima, come il mare. “Lu mari è vecchiu assai. Lu mari è amaru. A lu mari voi truvari fumu?” dicono i pescatori. Ed è qui, su questo mare, su queste acque che si svolge il romanzo di D’Arrigo.

La morte marina

   “Orcynus Orca” è un romanzo di 1257 pagine a cui l’autore ha lavorato per circa vent’anni.  È la storia d’un Ulisse, ‘Ndrja Cambria, marinaio della fu regia marina, pescatore del faro, a Cariddi, che durante l’ultima guerra, nell’autunno del ’43, a piedi percorre la costa della Calabria, da Amantea a Scilla, per tornare al suo paese. Quella lingua di mare, lo stretto, lo ferma.  Tutto è devastato, distrutto, non ci sono più ferribotti e né barche.  Le femminote, le mitiche, arcaiche, libere e matriarcali donne di Bagnara sono ferme anche loro per le coste, in attesa di riprendere, come prima, il loro contrabbando di sale.  Ferme e in attesa sotto i giardini di aranci e bergamotti, in mezzo ai gelsomini, alle olivare e tra le dune delle spiagge.

Solo una d’esse possiede una barca, la potente magara Ciccina Circè che, impietosita e ammaliata, trasborda quel reduce, su un mare notturno di cadaveri e di fere bestine.  Dopo tanta struggente nostalgia per la sua Itaca, all’approdo, l’isola appare al reduce sconvolta, diversa, avvilita, scaduta per causa della guerra, ma anche per causa dello stesso ritorno che, come tutti i ritorni, è sempre deludente e atroce.  Ritrova il vecchio padre, i compagni pescatori, i pellisquadre d’una volta.

Ma qui, a Cariddi, sulla spiaggia della “Ricchia, compare improvvisa l’orca, l’Orcynus Orca, com’è scritto sui libri di zoologia, l’orcaferone”… quella che dà la morte, mentre lei passa per immortale: lei, la morte marina, sarebbe a dire la morte, in una parola.

   Solitario, terrificante scorritore di oceani e mari: puzza lontano un miglio, lo precede il terrore, lo segue il deserto e la devastazione.  Il mostro arenato, scodato e irriso dalle fere, i feroci delfini dei due mari, il Tirreno e lo Jonio, muore spargendo fetore di cancrena. L’enorme carogna verrà trainata sulla spiaggia dagli inglesi e dai pellisquadre.  Il viaggio di ritorno di ‘Ndrja Cambria diventa così viaggio verso un mondo alterato, corrotto: viaggio verso la morte.  Ma viaggio anche verso la verità, l’origine della vita.  Orcynus è anche orcio, grembo materno, liquido rifugio, mare, principio e fine della vita.  ‘Ndrja Cambria morirà, ucciso sul mare dello stretto, striscia di mare, profonda, abissale, canale e oceano, iato, rottura “naturale” tra una terra e le altre, tra una “storia” e le altre, ucciso da un colpo d’arma che lo raggiungerà alla fronte

   È quasi impossibile riassumere questo vastissimo romanzo, magmatico, scandito in quarantanove episodi, dove si muove un’infinita schiera di personaggi e figure.  Romanzo dentro il quale tuttora siamo immersi, come in un’avventura, un viaggio eccezionale e affascinante.  E per poterne riferire in termini pacati e chiari bisogna prima uscirne, bisogna che cessi lo stupore  e l’incanto.  “Vogliamo adesso soltanto riferire, accennare anche alla lingua usata dallo scrittore.  Lingua che è il dialetto proprio dei pescatori dello Stretto, gergo, suono e atteggiamento, assunti e reinventati dall’autore con conoscenza e sapienza magistrale e resi con ritmo e musicalità, larga, polifonica.

   Una lingua che è ammiccante, allusiva, ora tenera e carezzante, ora dura e sentenziosa, che procede circolarmente, per accumuli, e arriva fino al cuore delle cose.

   E riferire vogliamo anche dello scrittore, di Stefano D’Arrigo. Nato ad Alì nel 1919, passa subito a Messina. Ragazzo, navigava per le Eolie.  Sarà entrato nelle celle delle acque saline e calde delle terme di San Calogero, dentro bocche, crateri spenti; si sarà imbattuto nelle necropoli degli uomini antichi, venuti dal mare, nelle olle, negli orci, nei giaroni in cui rannicchiati come nel grembo materno seppellivano i morti, la testa a oriente, verso il sole.  Si sarà incantato davanti a tutto quanto dal mare si fa schiuma, conchiglia, roccia, terra, e in tutto che si sfalda e ritorna al mare.

L’incontro con Vittorini

    A Messina, all’università, fa un giornale murale. D’Arrigo scriveva a un suo amico, Felice Canonico, disegnava.  Vittorini, chissà per quali vie, da Milano sa di questo giornale e scrive perché vuole vederlo, vuole leggerlo.  Gli mandano un numero con un interessante articolo di D’Arrigo, “La crisi della civiltà”.   È il 1946.  Laureatosi in lettere con una tesi su Hoederlin (“Doveva forse sembrarmi di scorgere in lui, malgrado lui, qualcosa di quel conflitto tra poesia e follia, tra civiltà e barbarie che fa la Germania e in cui alla fine soccombono civiltà e poesia”).

   Nel 1947 parte per Roma.  Qui si occupa d’arte.  Suoi amici sono Guttuso (e in certe pagine di D’Arrigo c’è quell’aura dei quadri di Guttuso, dei quadri dei pescatori del periodo di Scilla), Mazzullo, Canonico, ma anche Zavattini, De Sica, Ungaretti, Ciarletta.  Nella soffitta dello scultore di Graniti, Peppino Mazzullo, si riuniscono, mettono ogni sera un tanto a testa, e mangiano panibi e bevono vino.  Il pittore Felice Canonico se ne torna a Messina ed è a lui che poi D’Arrigo si rivolge per sapere tutto sulla fera dello Stretto, sul delfino.  Canonico va dal direttore dell’istituto talassografico di Messina e così può avere trattati scientifici, storie antiche sul delfino, leggende.  E fa anche per D’Arrigo un bel disegno del pesce, un disegno scientifico, a inchiostro di china, come quelli che faceva il durer dei granchi, dei cetacei.

   Nel 1957 D’Arrigo pubblica un libro di versi, “Codice siciliano” presso l’editore Scheiwiller di Milano. Ma è nel 1960 che D’Arrigo viene conosciuto: Vittorini pubblica sulla rivista “Menabò 3” due parti, cento pagine, de “I giorni della Fera”, come si chiamava prima il romanzo.  Scrisse allora Vittorini sulla rivista:  “Quanto qui ora pubblichiamo di lui non è opera compiuta. Fa parte di un “Work in progress” ch’io non sono riuscito ad appurare in che anno, e come, e perché, sia stata iniziata, e come sia andata avanti finora ma che ritengo possa restare soggetta a mutamenti e sviluppi anche per un decennio.  Di impegno complesso, estremamente ingenuo e estremamente letterario ad un tempo, è di quel genere di lavori cui una volta, fino a metà circa dello scorso secolo, accadeva di vedere dedicare tutta un’esistenza”.

Impegno totale

   La rivista di Vittorini era uscita nell’agosto del ’60. Nel settembre di quell’anno conobbi D’Arrigo a Messina stupefatta e sciroccosa come i fondali dei quadri d’Antonello, alla libreria di Giulio D’Anna, sul viale San Martino.  Ci trovammo, non ricordo bene come, a parlare, a chiacchierare. Io avevo appena finito di leggere le sue pagine sul “menabò” e ne avevo ricevuto una grande impressione.  D’Arrigo, più che rispondere alle mie, mi fece lui delle domande, domande a non finire, su quello che lui aveva pubblicato e io avevo letto, voleva su tutto la mia impressione di lettore “messinese”: sul linguaggio, il ritmo, i personaggi…

   Lo incontrai l’anno dopo, sempre a Messina, casualmente per la strada. Mi disse che era venuto giù da Roma per verificare, a Sparta, ad Acqualatroni, alcuni modi di dire dei pescatori, parole, frasi.  Era pieno di fervore, di vita.  Si capiva che il lavoro lo teneva in una forma di frenesia, di entusiasmo creativo.  E lo rividi poi ancora a Roma nel 1964. Andai a trovarlo a casa, a Monte Sacro.  Era già cominciato il suo completo isolamento. Lavorava dalla mattina alla sera. Il libro era là nel suo studio, in bozze.  Bozze sulla scrivania, sulle sedie, attaccate al muro e con lunghe strisce di carta scritte a mano incollate al margine inferiore del foglio e che arrivavano fino al pavimento.

D’Arrigo era diverso da quello che avevo conosciuto a Messina.  Era tutto calato dentro il suo libro, nel lavoro duro, massacrante, totale che richiedeva il libro.  Mi disse che soffriva di cattiva circolazione alle gambe per la vita sedentaria che faceva, lui che aveva giocato da attacante nella squadra di calcio del Messina.  Sono passati anni.  Di tanto in tanto leggevo, come tutti, di lui sui giornali, brevi note che annunciavano l’imminente pubblicazione del libro presso l’editore Mondadori.

   Nel ’73 sono ancora andato a trovare D’Arrigo a Roma.  Mi apre la porta e rimane sorpreso, impacciato per la visita improvvisa. Non vede nessuno ormai da anni.  Dopo un lungo tempo di silenzio, seduti l’uno di fronte all’altro, D’Arrigo comincia a sciogliersi a parlare, in un flusso straripante di racconto, dove c’è tutto, memoria, progetto, speranza ma soprattutto sentimento e risentimento.  Mi parla della moglie Jutta (è assente perché al lavoro), che per tanti anni ha accettato questo calvario accanto a lui, senza mai lamentarsene, stancarsi, sfiduciarsi, sempre spronandolo, con speranza intatta e chiara.  “A Jutta, che meriterebbe di figurare in copertina con il suo Stefano” c’è scritto ora sul frontespizio del libro.  Parla degli amici che se ne sono andati, quelli morti  (Niccolò Galo, Vittorini) e quelli allontanatisi, scomparsi in una città grande, caotica e lontanissima che si chiama Roma.  E parla di Messina, della sua Messina, della Sicilia.

   – Perché un giorno non ce ne torniamo tutti laggiù? – mi dice – e cacciamo via tutti i politicanti, gli affaristi, i mafiosi.

   – E poi, dopo una lunga pausa: – Ma no, non è possibile – dice – è un’utopia.

Ma del libro non parla e io non oso fargli domande.  E il libro è lì, sempre in bozze sparse, sul tavolo e anche sul divano.  E c’è anche la prima pagina, la controcopertina col titolo.  “Orcynus orca” si chiama ora e non più  “I giorni della fera”.  E poi di Dante – è grande in tutte le dimensioni – dice – è iperbolico.  La Divina Commedia è il mio libro De Chevet.  Mi è servito molto, soprattutto per la lingua. Quello che mi scandalizza sempre è il Manzoni, col suo “Bagno” in Arno.

   Al momento che devo partire, non vuole lasciarmi andar via, vuole ancora parlare e parlare con me, in quel suo flusso di ricordi, di sentimenti e risentimenti.

   Certo, D’Arrigo, rappresenta un caso, una eccentricità, un fenomeno  di impegno totale alla letteratura, alla poesia, che non si riscontra forse più nel mondo d’oggi.  Non si sa ancora che ripercussioni avrà il suo libro nei lettori, nei critici.

Il rischio più grosso in cui potrà incorrere è quello di essere chiuso, cristallizzato nel fenomeno, nel personaggio.  E questo lui lo sa e lo teme.  Ma ha anche temuto fino a ieri, soprattutto, portare a termine il libro, distaccarsene, non lavorarci più, consegnare col “va bene, si stampi”, quelle mille e duecento pagine di bozze all’editore.  Perché, quando opere come “Orcynus Orca” possono dirsi concluse?  Quando si può dire conclusa una vita, la vita, anche se minacciata dall’orca atomica, dall’orca tecnologica, dall’orca della disumanizzazione?

Vincenzo Consolo L’Ora 22 febbraio 1975