I corpi di Orvieto di Fabrizio Clerici

E’ un eclisse totale di sole il primo remoto, infantile ricordo di Pirandello. “Come l’ombra della luna lo investe, la luce del sole diviene fioca. Alle 2 pomeridiane il disco è interamente ottenebrato, ma lo circonda un anello di fuoco. Allora son tenebre di crepuscolo, gli uccelli si rincantucciano, il colore degli oggetti circostanti è pallido, fosforico”, così annota lo storico agrigentino Picone alla data 22 dicembre 1870.

L’eclisse sul Caos, la “campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare”, dove la famiglia s’era rifugiata per sfuggire al colera. E ancora, nell’infanzia dello scrittore, la serva Maria Stella che lo inizia al terrifico mondo magico-popolare, che lo porta nella chiesa di Santo Spirito dove, sopra l’altare, si dispiega lo scenario bianco, come di sudario scosso e sagomato dal vento, degli stucchi del Serpotta, e, al colmo dell’arco trionfale dell’abside, un Padreterno – un padre! – si sporge e incombe, con spropositata apertura di braccia, sovrasta uno schiumoso fondale di nuvole colombe raggiere angeli santi. Si aggiunga il teatro di Agrigento, il luogo dove la storia s’è spenta, s’è bloccato il conato, e dove regnano vuoto, ammasso di pietre, colonne che si sgretolano, ipogei di zolfo e labirinti di cenere. Da questa profonda memoria, da queste assenze, violenze, da questi terrori crediamo sia nato il mondo pirandelliano, in questo lontano momento si sia spezzata la linea retta, abbia avuto inizio la parallela della sua postica: la sua dialettica, la infinita perorazione, la crudele conversazione che rimbalza da una parete all’altra della sua “stanza della tortura”. “Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa (..) E intendeva forse significare con questo che, oltre ai limiti della memoria, vi sono percezioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in un altro tempo…” dice Bobbio-Pirandello. Per queste percezioni, per queste impressioni seppellite nel buio di catacombe imrnemorabili – che mai le violino archeologi disincantati, freddi analisti di reperti ineffabili! – s’è prodotto strappo sul fondale d’una realtà apparente; su queste fondamenta vibranti di risonanze infinite i grandi architetti hanno costruito il loro mondo di verità ulteriore, la poesia della verità trascendente.
Quali mai sono state le percezioni, le impressioni, al di là d’ogni memoria, di Fabrizio Clerici? Su quale terreno di meraviglie, stupori, affanni, terrori poggia il suo straordinario mondo fantastico? Noi possediamo solo la mappa, anche fallace per la semplicità delle linee, per la perentoria evidenza del disegno, del suo percorso umano. Sappiamo della nascita a Milano, in quel centro storico di stradine circolari e labirintiche, di architetture discrete, di severi prospetti che dietro nebbie e fumi svanivano. Del primo suo altrove, della prima avventura nell’Umbria, all’abbazia di Montelabate, nella cui cripta scopre i cadaveri dei cappuccini – erano nudi e sulla terra distesi come Francesco o in orbace? In piedi e con paramenti come i prelati delle cripte di Palermo o seduti in poltrona come le badesse di un convento di Ischia?
La mappa ancora ci dice degli studi presso i Gesuiti di Roma. Nella Roma crogiolo d’ogni storia e mito, d’ogni fasto e decadenza, d’ogni rovina e reperto, delle dimore papali e delle fontane sonanti, del Bernini e del Borromini, dei marmi della chiesa di S. Ignazio, dei riti pomposi e degli esercizi spirituali, delle reliquie e delle volute oleose degli incensi. Ci dice ancora dei viaggi a Napoli e ai Campi Flegrei, ad Atene e a Constantinopoli, degli studi di architettura e della frequentazione di morgues e di teatri anatomici – un involontario Zumbo per necessità di vita – e delle fughe, le fughe verso gli orienti di civiltà e di idoli estinti, di deserti, di luci accecanti e di miraggi. Quale miracolosa alchimia si è compiuta tra il fondo immemoriale, le esperienze, le visioni straordinarie e la singolare, vertiginosa cultura di Fabrizio Clerici? E quale profondo disagio, quale malinconia della storia ha spinto l’artista a creare linguaggi inusitati, stabilire inediti, sorprendenti nessi sintattici?
La sua mano si è mossa per disegnare, dipingere, in una coazione, com’è nei veri artisti, in una ricerca, in un lavorio virtualmente infinito.
I primi rapporti sono i disegni famosi, La grande fame, Troppo visto, troppo sentito, Souvenir d’Italie, Stanchezza degli Omenoni, Crisi del secolo.., in cui si è abbattuta sul mondo una tragedia che è della storia ed è insieme del tempo, per cui si giunge alla tempera Recupero del cavallo di Troia, alla rappresentazione del simbolo bellico, dell’inganno blasfemo, della disumana scienza, dell’ordigno di tecnologia crudele che ha seminato devastazione e morte, ha creato la mutazione, ha generato la colpa, ha provocato la maledizione: nei legni consunti, calcinati, nel paesaggio roccioso e deserto, nel cielo striato di grigio si vede Hiroshima più che nella rappresentazione diretta della Piccola atomica.
Da qui crediamo derivino tutti i deserti, le città fantasmatiche, i labirinti, le architetture babeliche, le barche solari, i promontori goyeschi, da qui cerchi di pietra rotanti e il loro frantumarsi, e le apparizioni di litici falchi occhi arieti, di obelischi dagli alfabeti consunti. Da qui le stanze della crudele geometria, del vuoto, dell’assenza, dello sgomento d’un cavallo, delle bocche dei baratri, del sorgere di isole dei morti, malinconie, feluche infernali, sfingi, idoli, prosopopee d’un oltremondo d’inganno. Da qui l’uovo della morte, il teschio eburneo tra le pieghe d’una grazia di stucco, gli squarci tremendi nel sipario dell’abbaglio. Siamo di certo nel cuore del paesaggio leopardiano, nella notte illune di un pastore errante sul manto di lave, in cui è assente anche la ginestra, dello “sterminator Vesevo” o nell’assoluta desolazione del “gallo silvestre”: “Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta (…) Parimenti del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso”. O il sogno d’un ipogeo profondo, d’una catacomba del tempo, della bellezza, dell’arte, un Infero ermetico dove il melograno ha nutrito l’eterno.

Vogliamo affermare, e a questo punto in modo tardivo, che, oltre il simbolismo, il surrealismo, la metafisica, o grazie ad esse, nella nostra epoca, pochi artisti come Clerici, e meno i realisti, i didascalici, meno ancora forse gli apocalittici dell’astrazione, hanno saputo esprimere l’offesa, la profonda ferita della storia, l’angoscia dell’evento remoto e incombente, la malinconia del tempo, la pietà per il nostro destino.
Nessuno, in modo tanto forte, di fronte a noi, smarriti, attoniti, lontani e ciecamente brulicanti nell’anfiteatro precario del mondo, ha saputo accusare la Madre della nostra caduta, della nostra ferina mutazione, della nostra ottusa ferocia.
Su questo terreno di umano dolore, di pietà, di orrore durante una notte di tenebre spesse, di violenza, di sequestri processi condanne, di morti ammazzati sopra l’asfalto – su questo terreno convergevano L’uomo solo di Clerici e L’affaire Moro di Sciascia – e da un ultimo incontro con la signorelliana Divina Commedia nascevano le straordinarie tavole, i disegni dei “Corpi di Orvieto”. Il corpo umano, l’uomo, la meraviglia del mondo, che nel Giudizio Universale del Duomo di Orvieto, nel miracolo della cappella di
S. Brizio, il Signorelli ha esaltato nella virginale armonia, nella luminosa innocenza di una resurrezione, ha mostrato tremulo, fuggente in preda al terrore d’un finimondo incombente; fulminato, offeso, violentato nel dominio del Male; e decaduto, dilaniato, soffocato nel groviglio terribile con i corpi di demoni verdastri, cinerini, bluastri, muniti d’escrescenze, pelami, membrane ripugnanti, dopo la definitiva condanna…
La chiave di lettura del poema del Signorelli da parte di Clerici fu l’incontro fortuito del suo sguardo con un particolare d’una delle pareti affrescate. “Nel piccolo spazio di un rettangolo un tavolo rovesciato, tra cavalieri armati che lottano fra loro e un gruppo di dame terrorizzate in quel caos imperante, diventa simbolo della violenza circostante e assume così la funzione di protagonista della rappresentazione di quella mischia” racconta.
La violenza, l’orrore: Clerici coglie in quell’aleph nascosto, quasi invisibile il sentimento che mosse la mano di Signorelli a Orvieto, il suo rimandare a violenze, orrori medievali, a quelli d’ogni passato e d’ogni futuro; coglie il dolore, la crisi di quell’uomo, di quell’artista per la morte del figlio, la crisi di quel mondo d’armonia attica che fu il Rinascimento. “Essendogli stato ucciso in Cortona un figliolo che egli amava molto, bellissimo di volto e di persona, Luca così addolorato lo fece spogliare ignudo, e con grandissima costanza d’animo, senza piangere o gettar lacrima, lo ritrasse, per vedere sempre che volesse, mediante l’opera delle sue mani, quello che la natura gli aveva dato e tolto la nimica fortuna” narra Vasari. Clerici rapporta la violenza di Cortona, di quel tempo, alla violenza del suo, del nostro tempo all’orrore per l’offesa alla vita, per lo scempio d’una nobile essenza, sembianza; quel dolore di allora di un uomo al dolore ora di ognuno per l’armonia che viene bandita dal mondo.
In un prezioso diario dell’estate-autunno del 1981, nella sua casa presso Siena, il pittore ci racconta la fatica, il travaglio, la pena nel dipingere quella sequenza orvietana. Ci rivela, come solevano fare gli antichi maestri, quella sua stagione di possessione, ossessione, furore creativo, le misure rigorose, ineludibili della sua lucida, tagliente geometria, la tormentata conquista degli equilibri assoluti nelle sue architetture allarmanti. Egli legge – lo diciamo nel senso latino di scegliere, cogliere – brani, frammenti del grande libro signorelliano e li fa suoi, li trasferisce nella cripta sotto il suolo della memoria, li riporta alla luce, alla scansione del tempo, alla sua poetica, li dispone nel suo spazio, nelle stanze della ritrazione e della riflessione, negli antri cumani delle profezie inquietanti.
“La stanza è la testimonianza di una passata violenza. Quello che noi vediamo è come attraverso il filtro del tempo, è come una peluria di luce, peluria cromatica che fa pensare alla polvere, tutto è molto pulito, tutto è molto terso, ma tutto avviene attraverso un leggero pulviscolo, come delle diafane emanazioni di luce, di una luce che non si sa proprio da che parte arrivi…”. E non si sa proprio da che parte arrivi questa pittura orvietana di Clerici, questa teoria di scene dove non si scorge più sforzo fonetico, traccia di segno, travaglio sintattico, dove tutto si mostra conchiuso e compatto, d’improvviso venuto da un’obliata distanza, da un’ignota curva del tempo. Certo l’allarme, l’inquietudine è subito per la sua “pelle” levigata di perla, di lucore sommesso, chiarore di pergamena, fissità del mistero. E dunque nel testo, la fuga di assi interrotta da una buca, “impronta di bara”, su cui, imbrigliato da corde d’aloe o di canapa, sta sospeso il gran masso, il frammento d’affresco, il papiro, la terzina incompleta che dice del giovane corpo riverso, sparsi i capelli, attoniti gli occhi: sul torso ormai fragile premono piedi, rotule ferree; le sedie rovesciate, i frammenti di osso dicono che qui ancora e sempre s’è compiuto l’oltraggio, s’è perpetrato il delitto, s’è celebrata l’infamia. Altra stanza, con fuga prospettica del pavimento e mattonelle divelte, quadri su cavalletti in piani paralleli contro il piano della parete: sono ancora, in variazione di toni, sfumature di tinte, modulazioni di luce, giovani corpi riversi e oppressi. E ancora, anelli in convergenza e in controluce, in penombra, su convergenza di luci, riverbero tenue d’un fuori deserto. La stazione ulteriore è il faccia a faccia di due dipinti, e in quello visibile, centro del dramma, l’atroce più acuto, un cappio tirato da forza brutale che finisce un inerme. Si ripete la scena in un tempo seguente in cui avviene che una nuvola lieve abbassa i toni, proietta le ombre il grido si fa compianto.

Siamo, in questa clericiana sequenza pittorica dei “Corpi di Orvieto”, e nel coro de disegni, siamo per Signorelli, come prima per Hböcklin, nella pittura dentro la pittura. Siamo nel dramma barocco, nel Sogno di Calderon, nel teatro dentro il teatro dell’Amleto, nella rappresentazione luttuosa, nella stanza dove dialetticamente si scontrano e conflagrano idea e fenomeno, allegoria e storia, geometria e caos, ragione e delirio, armonia e violenza. E dove il mondo si copre di tenebra per un’eclisse totale di sole.

Milano, 25 settembre 1996
Vincenzo Consolo

Vincenzo Consolo

“Ricordando Fabrizio Clerici”

Prolusione presso l’Accademia Nazionale di San Luca, Roma 10 giugno 1994….

La mia, naturalmente non è una relazione, è solo un breve ricordo di Fabrizio Clerici.

Era quello di Clerici, sul mondo, uno sguardo leopardiano, del poeta della Ginestra, dell’Infinito del Pastore errante. Era lo sguardo su colpi di lava, di basalto, che hanno coperto, cancellato ogni vestigia di vita, ogni segno umano. Lo sguardo sugli infiniti spazi di smarrimento, panico; su sconfinate distese, desolanti, sotto celi notturni.

Era, quello di Fabrizio Clerici, dolore per il fluire inesorabile del tempo; per l’inconsistenza della storia, era la compassione per il destino umano: malinconia del passato, struggimento delle rovine, insopportabilità d’ogni presente misero e atroce.

Erano, i suoi mondi di pietra, le sue distanze, le sue stasi campannelliane, le sue allarmanti apparizioni nelle stanze, i suoi vuoti, le sue quieti, il suo onirismo e la sua metafisica; non erano dunque che difesa, schermo, un travaglio incessante, d’un assillo senza tregua, d’un dolore senza rimedio.

Per parte mia voi sapete, vorrei sottrarmi dalla tempesta insana d’ogni sentimento; percorrendo a ritroso vecchi antichi sentieri della storia, questo tempo umano del conato, del movimento ceco, incontrollato, fino al punto oscuro, iniziale per cui si passa nell’immota eternitate da cui veniamo; nel tempo senza soli e senza lune, giorni e stagioni, natività e morte, del vuoto e del silenzio, nell’immensa stasi, la somma e infinita quiete metafisica.

Oggi, sta in quella quiete Fabrizio Clerici, a noi, del suo passaggio in mezzo alla tempesta, nella sua sosta sopra le lave dello sterminato corso reso, l’eredità di un arte sublime e umanissima; la testimonianza della compassione per il dolore che ognuno ha anche ignorato, compassione per il mondo.

A me, come ad altri scrittori, il dono speciale, per mezzo della sua arte, della sua personalità, dell’ispirazione di un racconto.

La donna nella letteratura siciliana

La donna nella letteratura siciliana

Di vinte, prima ancora che di vinti è il mondo verghiano. Già dalla novella epifanica, dalla soglia che segna il nuovo corso, la “conversione” dell’autore, da quella Nedda (in cui dalla cornice del camino di una dimora milanese, dalla sua fiamma, si sprofonda nel mondo memoriale, si passa la fiamma gigantesca del focolare della fattoria del Pino, sulle falde dell’Etna) ci viene incontro una donna , Nedda, appunto, la varannisa, la “povera figliola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana”. E non è caso la scelta di questo primo personaggio “verghiano”. Se lo scrittore –è sedimentato nella sua memoria – che ruolo ultimo è della donna in quel mondo chiuso, eternamente immobile, fuori da ogni riscatto storico, inferiore a quello d’ogni bracciante o carrettiere, pastore o cavamonte, castaldo o proprietario. La donna, prima dell’uomo, è vittima d’ogni beffa del destino, d’ogni accadimento del fato. Quando poi essa si ribella, vuole uscire da quel cerchio di condanna, quando rompe con la legge dei costumi, le regole della società, perché spinta dalla forza dell’istinto o da quella del sentimento, come accade a La Lupa o a L’amante di Gramigna, è relegata ai margini, fuori dal paese, fuori dal consorzio umano, paga il suo gesto con la morte o con l’esilio. Il naufragio della Provvidenza, il fallimento della famiglia dei pescatori di Acitrezza investe prima di tutti le donne, che scontano la catastrofe con la follia, la ritrazione dalla vita o il disonore. C’è ne I Malavoglia una galleria di personaggi femminili che portano i segni del dolore che annienta, della pena che pietrifica, sono il coro d’una tragedia senza catarsi. Prima, e più straziante, è la Locca, la pazza che muta e solitaria va sempre cercando il figlio morto nel naufragio della barca. La Longa, Maruzza quindi, che la scomparsa del marito Bastianazzu, del figlio Alessi in guerra, porta alla malattia e alla morte. E Mena, la Sant’Agata, che le disgrazie familiari danno rinunziare all’amore, al matrimonio con Alfio Mosca (con un gesto rituale – contro rito di ritrazione, di voto alla necessaria verginità – rimette alla treccia la spadina d’argento che l’era stata tolta a suo tempo per poterle spartire i capelli sulla fronte). Lia infine, la sorella,che con la fuga in città, dove l’attende un destino di prostituzione, segnerà il punto più basso della decadenza, del degrado.
In Mastro don Gesualdo, nello spostamento dell’azione nell’entroterra, in classi sociali più alte, in un paese, Vizzini, più strutturato, più “storico” di Acitrezza, con palazzi, chiese,conventi, con vaste terre intorno, con tante “chiuse”;
le donne, più degli uomini, vivono come naufraghe su una zattera dove può avvenire ogni crudeltà, ogni ferocia. Ferocia che non viene più dalla natura, ma dagli uomini, dalla loro religione della “roba”. E in roba sono qui trasformate le donne, in oggetti di compravendita, di scambio, di promozione sociale. A loro è negato amore, pietà, ruolo sociale. Bianca Trao e la figlia Isabella sono accomunate in un uguale destino: un amore infelice le ha costrette a un matrimonio senza amore, a divenire oggetti di scambio, di compravendita. Ma la creatura più toccante è la primitiva Diodata, docile e fedele come un cane, oggetto sessuale di don Gesualdo, schernita e derisa, che viene venduta a Nanni l’Orbo. Un mondo senza luce, senza speranza, quello femminile di Verga, una notte di neri scialli dove non appare una stella, una leopardiana luna di conforto.
Pirandello rompe il fatale cerchio verghiano, trasforma l’antica tragedia nel moderno dramma con l’acido dell’umorismo, riporta il mondo a una progressione lineare attraverso la parola, la dialettica, il sofisma, l’infinito processo verbale. Ma nel dibattito quella linea si frantuma, in essa si aprono voragini, la dura pietra vulcanica si sfalda, si polverizza, la realtà perde consistenza, l’identità dei personaggi precipita nell’indeterminatezza, nello smarrimento. Nell’universo pirandelliano, nell’interno borghese, nella “stanza della tortura”, come la chiama Macchia, è ancora la donna a subire perdita, cancellazione, ad essere di volta in volta quell’apparenza, quella forma in cui la volontà maschile tenta di chiuderla. Ed essa parla, irride, accusa, entra nel gioco dialettico, ma non può mai sottrarsi al suo ruolo di specchio su cui si riflette la crisi, che rimanda i mutevoli fantasmi che gli uomini di volta in volta gli pongono davanti. Nelle novelle, nel teatro, nei romanzi è una teoria infinita di donne negate, frantumate, straziate, da Marta Ajala de L’esclusa, a L’amica delle mogli, alla figliastra dei Sei personaggi, alla Sconosciuta di Come tu mi vuoi, alla Velata di Così è (se vi pare). L’apparizione di quest’ultima nel dramma è il simbolo più alto, e più poetico, della drammaturgia pirandelliana: la Velata è meno di una maschera, d’un fantasma, è la negazione, l’assoluta assenza, il vuoto invaso della follia, dell’allucinazione.
La donna, in Pirandello, è il messaggero, l’angelo che nella crisi della civiltà occidentale annuncia l’imminente disastro, la catastrofe incombente:il buio della ragione, l’abisso della distruzione e della morte. Così è anche in Kafka, Musil, Joys e, in tutti i grandi profeti del nostro secolo.
Lontano da Pirandello è Vittorini, ma vicino a Verga, e per opposizione. Egli rifiuta l’antistoricismo verghiano, il fatalismo, la rassegnazione. Rifiuta il ruolo subalterno e passivo della donna; fa diventare anzi, la donna, protagonista, portatrice di ogni libertà, di ogni volontà. In Conversione in Sicilia smantella il mito della sacralità della madre. “Benedetta vacca” dice Silvestro alla madre Concezione. Ed è la frase, per la prima volta nella narrativa siciliana, un punto di rottura, una svolta nel senso di una democrazia desiderata. Nei romanzi e nei racconti vittoriniani c’è il capovolgimento del ruolo femminile, ma c’è insieme lo spostamento di una realtà effettuata verso il territorio dell’utopia.
Antivittoriniano non intenzionale è Brancati. Nel suo mondo comico, grottesco, nella lucida critica della piccola borghesia, la donna riprende ancora il ruolo subalterno, ma con le sue rivalse di inganni, di malizie, è strumento di regressione maschile, di vagheggiamento degli ottusi “galli” della provincia italica. Don Giovani in Sicilia viene pubblicato nel ’41, lo stesso anno del vittoriniano Conversazione. Le soluzioni dei due romanzi vanno però in senso diametralmente opposto. Don Giovanni Percolla, con moglie ed esperienza milanesi, tornato a Catania, nella casa materna, immediatamente regredisce, sprofonda nel letto suo scivoloso e caldo dell’adolescenza, rientra nell’utero della terribile madre, s’immerge nel sonno, nell’oblio, nella perdita di sé: “Dopo un minuto di sonno, duro come un minuto di morte…”
In Lampedusa le donne, quelle collocate nel mondo dorato e tarlato della nobiltà, vivono nell’incoscienza d’essere sull’orlo di un tramonto, di una fine, e ripetono come scimmiette, gesti e detti di un trito rituale. L’incoscienza le condannerà ancora una volta alla rinunzia della vita, alla cristallizzazione del tempo, alla fissazione maniacale, come le signorine Salina. La donna nuova è Angelica, dalle origini maleodoranti e innominabili, fiore lussureggiante di una borghesia in ascesa, avida e mafiosa, bellissima e sensuale, porta però nei “denti di lupatta” i segni del suo futuro di ferocia e di cinismo.
Logico, dialettico,pirandelliano è Leonardo Sciascia. Il suo processo verbale, il suo serrato spirito inquisitorio non si appunta su una classe, una cultura, non investe l’esistenza, non si dispiega nel chiuso di una stanza, ma si svolge fuori, nella piazza, nel contesto storico, civile, politico. La sua radicale polemica è contro i trasgressori, i violatori di uno statuto, delle regole del convivere liberale e democratico. La polemica è quindi contro la corruzione del potere politico, contro soprattutto il connubio tra potere e mafia che fatalmente genera la più grave delle violazioni delle regole: il delitto, la soppressione vale a dire del primo e più sacro dei bene, della vita umana. Tutti i polizieschi di Sciascia si svolgono su questi principi illuministici. Le donne in quei racconti entrano nei ruoli tradizionali di una cultura borghese e mafiosa. E sono di volta in volta vittime di quel sistema, complici o spettatrici conniventi. Non c’è, e non può esserci, nei racconti sciasciani, la donna di nuova cultura, quella a cui, al di là dell’utopia vittoriniana, nella storia, i principi socialisti avevano dato consapevolezza di classe, che avevano sottratto all’ipoteca mafiosa, la donna che, accanto al marito, al figlio bracciante, zolfataro, sindacalista, aveva lottato contro il potere corrotto e sfruttatore. Ma questa storia – della fine dell’800, del primo e del secondo Dopoguerra – raramente è entrata nella narrativa siciliana.

Vincenzo Consolo

Milano, 1 luglio 1996
pubblicato sulla rivista L’indice di Torino

Foto Giuseppe Leone

Un ricordo di Vincenzo Consolo

Enrico Muscetra

È solo con un grande sforzo che, superando una naturale e pudica ritrosia a parlare di un poeta amico che non c’è più, mi permetto di raccontare due episodi “lievi” che si sono succeduti durante un percorso più che ventennale di amicizia con il grande scrittore. Due episodi che fanno sentire intero il colore caldo di un’ironia affettuosa, profonda e mai disgiunta dal sentimento di stretta amicizia con cui mi gratificava. Invitai Vincenzo, il 2 agosto 2001, a venire in Salento per una conferenza sulle “Culture migranti e il Canale di Sicilia” da tenere nel mio paese di Gallipoli e per inaugurare anche il mio monumento al “Riccio” di mare. Arrivò nella mia casa di campagna in un giorno di insopportabile calura e subito mi chiese, assetato e forse ancor prima di salutarmi, di poter placare quella terribile arsura. Presi immediatamente una bottiglia dal frigo e colmai d’acqua fresca un grande bicchiere che tracannò in un istante. Ma subito dopo lo vidi esagitato che tentava di rimettere quell’acqua bevuta, che in realtà era l’acqua di mare con cui dovevo lavare e insaporire il pesce che dovevamo mangiare. Un errore che commisi, credo, per l’agitazione e la gioia procuratomi dal suo arrivo. Fatto che lui avvertii perfettamente perché, anziché rimproverarmi, mi disse più divertito e allegro di prima che solo un bravo amico poteva dargli il benvenuto con un bicchiere di acqua salata. Il secondo “lieve” episodio, più emblematico del suo sentire l’amicizia e la poetica ironia, è per me un po’ triste perché risale a qualche settimana fa. Io avevo in passato il vezzo di andare ogni tanto a cucinare nella sua casa di Milano perché era un modo per passare con lui e Caterina una piacevole serata. Cosi due settimane fa lo chiamai al telefono e gli raccontai il sogno che avevo fatto la notte precedente e cioè che ero arrivato a Milano con i tortelli della Versilia e li avevo cucinati e degustati con lui nella sua casa. Gli dissi anche, a serata inoltrata, che ero un po’ preoccupato per questa sua consuetudine ad attardarsi eccessivamente (Caterina, sua moglie, era andata già da un bel po’ a riposare) e che sarebbe stato più saggio andare a riposare ad orari più consoni al suo stato di salute. Fu a questo punto che mi interruppe per dirmi – sempre in sogno – e con un’ironia che includeva tutta intera la generosità di un’ospitale amicizia, che lui aveva la sana abitudine di coricarsi la sera presto e solo l’eccezione di avere a casa amici cuochi-rompicoglioni come me lo induceva a fare tardi. Insomma gli raccontai questo sogno e lui rise divertito ancora una volta. Fu l’ultima volta che parlai con lui.

Vincenzo Consolo con Enrico Muscetra
 
A Vincenzo Consolo. 22 aprile 1996 Caro Vincenzo, oggi sabato ti ho telefonato a Sant’Agata, ma eri già partito, cosi non ho fatto in tempo a salutarti mentre eri ancora in terra siciliana. Mi è venuto, improvviso e intenso, un desiderio di trasmetterti alcune sensazioni che, oggi, in questa bella primavera Salentina, mi attraversano più che la mente il cuore. Ieri pomeriggio mentre maneggiavo la mia segreteria telefonica difettosa ho ascoltato improvvisamente, e del tutto impreparato, la voce dell’amico Siro Teodorani, che alcuni mesi addietro mi aveva chiamato al telefono da Milano. Ciò mi ha procurato per alcuni interminabili istanti la confusa e irreale sensazione fisica che fosse ancora vivo. Di riflesso, o per un riflesso condizionato parallelo, mi sono venute in mente, e con un impeto emozionale da far battere forte il cuore, anche le figure di mio Padre e quella del nostro comune amico Renato Guttuso, entrambi “dipartiti” nel 1987. A questo punto è spuntato in me e si è ingrandito – come una secrezione nefasta in un vaso chiuso – il virus auto intossicante di un risentimento acceso, quantunque bonario, nei confronti di questi assenti per l’eternità, e mi ha fatto sentire tutta la morsa dolorosa della loro irreversibile e assurda mancanza. Ed è con questa sensazione di impotenza, la stessa che mi fa detestare la contingenza orrida del reale e che mi induce a rivoltarmi, che mi avvio fastidiato verso la prefigurazione di altri ipotetici fantasmi, me stesso compreso, che sbarcano o si imbarcano su una innominabile e mai desiderata locomotiva. Una locomotiva che viaggia in uno spazio-tempo che ruota attorno ad un’orbita la cui direzione e finalità sembra sia del tutto improntata alla totale assenza di un qualche superiore significato. A questo punto ho riflettuto sul “senso” del tempo – convincendomi che non ne abbia alcuno – e ho pensato al significato della storia, significato che da altro non deriva e non da altro è definibile se non dalla somma dei valori creati e prodotti dalle umane agitazioni che in essa si succedono. E che malgrado queste, e in virtù di queste, l’uomo è comunque predestinato (almeno per ora) a finire; e che ogni futuro dato, dato e scontato nell’infinito divenire, si annuncia ripetitivo e dunque già trascorso. Per questo solo fatto, se non per altro, saremo sempre, nei confronti del divenire, posseduti da un irriducibile complesso: un complesso similare a quello dell’orfano, del diseredato. Così, orfano anche di Dio, vedo ricomparire i miei fantasmi: mio Padre e gli altri, e continuo inutilmente a chiedermi dove mai saranno e il perché del loro essere stati dal momento che sarebbero dovuti poi svanire. Interrogativi ai quali nessun Dio pare voglia rispondere e ai quali non c’è risposta. A meno che non voglia proferirla in segreto quella voce inudibile che è interna alla stessa assurda inutilità del vivere e quindi del fare. Non resta allora alcuna alternativa, neanche alla rivolta, se non quella di agire solo per “sfida”: sfidare l’universo e lo stesso “nulla”, e sentirsi, per un momento sospeso, dei Kamikaze dello spazio, o per meglio dire, del grande vuoto. Spesso osservo il Tuo sorriso e non mi sembra che – al pari della Tua prosa – presagisca possibili imminenti inondazioni di luce e tanto meno la convinzione che qualche superstite albero dell’innocenza possa essere innestato. Scusami per le sciocchezze che ti scrivo, e per farmi un po’ perdonare ti accludo una foto polaroid che ho scattato ieri al mare: sono ritratti i ricci che ho preso con un amico che ha la muta. Ne ho contati più di cento e tutti grandi e profumati. Stasera cucinerò gli spaghetti ai ricci di mare e, pindaricamente, li mangerò assieme a Te. Un caro abbraccio. Enrico

Scultura di Enrico Muscetra

A Vincenzo Consolo

29 luglio 2000 Caro Vincenzo, ti giunga assieme a questa lettera una corrente di aria serena e un augurio di pace feconda alla germinazione del Tuo pensiero e del Tuo lavoro. E non sorridere ironico alla lettura di questo augurio steso in modo un po’ pretesco: sono sempre più convinto che, salvando il buon vino e le rose, sia giunto il tempo di rinunciare ad un sacco di cose, se vogliamo che non ci fottano, per arrivare a vivere una vita serena, essenziale e non assorbibile dalla pesante spugna del divenire. Sono contento di averti sentito al telefono, ma sono dispiaciuto perché so che stai attraversando un periodo di difficoltà dovute anche a preoccupazioni familiari. Lo so, anche perché, se non ci siamo sentiti per tanto tempo, e questo è dipeso da Te, è certo a causa del Tuo pensiero turbato da tali preoccupazioni. Ma io so che le avversità non ti scoraggeranno e che anzi le saprai far decantare in parole, in immagini vive, da inserire nel bell’alfabeto classico costituito dalla Tua luminosa letteratura. Proprio oggi, 29 luglio, anniversario della morte di Vincent Van Gogh, artista e simbolo sommo della spiritualità moderna, mi torna in mente un passo di una sua lettera a Theo. Voglio riportartelo: Non ho grandi piani per il futuro: se a momenti sento sorgere in me il desiderio di una vita senza pensieri, delle prosperità, ogni volta riguardo con un certo affetto i guai e le avversità, una vita piena di sofferenze, e penso, è meglio cosi; imparo di più, non mi degrada, non è questa la strada su cui uno perisce. Gli uomini, se fossero meno stupidi e vani, dovrebbero capire che i veri santi sono questi. Sì! Sono i grandi artisti quelli che hanno battuto per primi, pagando con la vita, le strade che ci consentono di uscire dalle prigioni del conformismo, dalle galere della bruttezza, dalla civiltà della facilità assurta a mito universale di consumo. Quando penso che Van Gogh ha guardato la vita, la natura, le stelle, insomma le cose che guardiamo anche noi, mi sento per un momento un grande privilegiato. Lui è la prova più tangibile che la bellezza esiste e che vale la pena di dare tutto di sé per poterla possedere. E ti confesso che se non avessi nessuna speranza di poter convivere con essa, sia pure episodicamente o raramente, credo, non vorrei vivere affatto. Nei momenti più bui o quando più intensamente percepisco la sua scomparsa o il suo allontanamento progressivo da questo pianeta popolato di dementi rumorosi, mi soccorre il pensiero di mio Padre, il ricordo della Sua immacolata innocenza, della Sua dignità nel duro lavoro. La bellezza di questo uomo semplice, la sua memoria è per me una guida, un riscatto alle pecche, ai vizi con i quali scendo a patti frequentando le paludi, le tentazioni che fanno desiderare un certo privilegio. Spesso, non mi vergogno a dirlo, piango di gioia nel sentire una musica bella, una voce vera come quella di Carlos Gardel. Oppure esulto se penso che non sono solo perché da qualche parte c’è, quando si ha la fortuna di averlo, un amico vero che mi vuole bene. Insomma ho incominciato col farti un augurio un po’ pretesco e sto finendo con il confessarmi a Te come se il prete fossi Tu. Ma Tu sei, anche se in qualche momento ho avuto la debolezza di dubitarne, un amico: un amico che considero fortunato perché svolge, come pure svolgo io, un lavoro creativo. Alla fine quel che conta davvero è questo lavoro che ci aggrada, e non è neanche tanto importante avere successo o meno, anche se ciò a volte può stimolare. Importante è invece riuscire a trovare quella luce, quella verità che risiede nella bellezza. Camus scrisse, e in questo lo sento affine, che aspirava, alla fine di una vita, a ritrovare le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali una prima volta il cuore si è aperto. Ma lascio stare il cuore perché negli ultimi tempi ne ho dipinti tanti e una casa farmaceutica (l’istituto Gentili) sta preparando un calendario illustrato con dodici cuori da me dipinti ad uso e consumo per un anno intero di tedio per migliaia di poveretti che dovranno guardarlo. Per il momento finisco con il tediare il mio amico Vincenzo Consolo. Augurandoti di cuore, di cuore vero, quello greco, ogni bene, ti abbraccio e ti sono vicino con affetto. Enrico


Opera di Enrico Muscetra

La palma celeste per Enrico Muscetra

E nel mattino
il mattino apriva le celesti cataratte,
rotolava ossidi, cristalli,
rossi di fuochi siderali,
azzurri intenebrati,
bianchi di vibranti incandescenze,
bruni residuali, dissolti ricordi della notte.
S’apriva il giorno nell’abbaglio,
nel dominio solenne del fulgore.
Bruciava linee,
contorni,
dissolveva masse, consistenze,
fugava ogni sostanza,
in spettro variava,
modulava in fughe,
dissonanze,
vortici,
sequenze:
che fu di quel lontano tempo,
di quel giorno fisso,
delle meridiane eluse,
della sabbia del sonno,
di quel vuoto immenso,
di quel silenzio teso,
e dell’avvento eòo,
di quel panico antico
e sempre nuovo?
D’ogni traccia perdemmo la memoria.
Ora tutto ritorna
in eco lontana e
dissolvente,
incerto battere di nocche,
vibrare d’una corda,
modulare lieve d’una canna,
 appare in febbrile astrazione,
in figura mobile,
in ricreazione,
in cosmo verginale di colori:
è ansia d’infinito,
l’incessante cataclisma,
l’empedoclea metamorfosi,
è spasmodico crescendo,
sfida,
varco,
brama
dell’immensa stasi.
Quindi agli smarrimenti succedono i regressi,
i bisogni di memoria,
di misure note e consolanti.
Nel calo del fervore crudo e accecante,
nella clemenza dell’occaso,
nella scansione umana delle ore,
risorgono dal sogno
cieli,
terre,
acque,
lune serene e trasognate,
globi sanguigni e vorticanti.
Risorgono
come in albe o sere primordiali,
negli incerti vesperi,
isole vaganti su mari di cobalto,
borghi favolosi,
dimore di lumi palpitanti,
fani di approdi
o di notturne partenze
per Atlantidi o regni dei Feaci,
ricerche su mappe leggendarie
di navigli sommersi,
tesori sigillati.
Risorgono
dalla nostalgia d’una Fenicia
di porpore, di vetri e di coralli
le venuste palme di regalità orientale.
Si ergono
dalla quieta piana sconfinata
nel corpo snello,
nell’orgoglioso slancio,
nella folta chioma
nello zampillo verde,
nella cascata d’aerea fontana
a ritmare spazi,
indicare rotte, sensi,
essere bussole,
stelle,
emblemi di cavallerie,
blasoni di casate.
Bruciano
gli steli delle vergini altere,
oscillano,
si flettono,
fremono
nel subbuglio delle primavere,
nel desiderio d’un connubio,
d’una pace feconda:
nel sogno
d’un seme che germoglia,
d’una spata che si schiude,
della pioggia di miele e ambra
come nella Terra promessa
o nell’oasi del miraggio.
Ritorna nella sera
la figura famigliare,
l’ombra che mai s’è allontanata,
l’apparenza costante,
si staglia amorosa
nel rosso d’un riquadro,
nella soglia d’una porta,
nella trama celeste
d’una palma.

Vincenzo Consolo


In occasione della,
Mostra castello Angioino, Gallipoli agosto-settembre 1996

L’olivo e L’olivastro. Le due Sicilie di Consolo.


Potrebbe essere l’incipit del più noto romanzo di Vincenzo Consolo, il romanzo che costituì l’avvenimento letterario di quasi vent’anni fa e rivelò prepotentemente alla critica e al pubblico, soprattutto, lo scrittore siciliano. Ci si riferisce a Il sorriso dell’ignoto marinaio, che come si sa prende spunto, anche se lo scenario storico è quello delle vicende siciliane negli ultimi decenni del dominio borbonico dal celebre dipinto antonelliano conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, il cosiddetto Ritratto d’ignoto, citato perfino nel titolo del romanzo. In quest’opera il sorriso dell’uomo ritratto nel dipinto di Antonello da Messina, sorprendentemente simile a quello di un marinaio incontrato dal barone Mandralisca sulla nave che lo portò da Lipari a Cefalù, rappresenta un preciso leitmotiv. Eppure la citazione iniziale non è tratta dal Sorriso dell’ignoto marinaio, bensì dall’ultimo volume di Consolo, L’olivo e l’olivastro. L’enigmatico sorriso antonelliano, dunque, continua a impressionare fortemente lo scrittore, in questo libro non è più un leitmotiv, vi appare solo un attimo, occupa poco meno di una pagina a tre quarti del libro, però è una sintesi emblematica che spiega esemplarmente il significato de L’olivo e l’olivastro.
Il viaggio di Consolo nella Sicilia odierna, novello Ulisse alla ricerca di una perduta Itaca, rivela una realtà in pieno disfacimento culturale, etico e ambientale, disumanizzata in nome di un falso progresso, che rischia di smarrire la propria identità e la propria memoria storica. Il profondo malessere esistenziale dell’autore, che sta alla base di questo libro indefinibile quanto genere letterario perché può essere letto come un saggio o un romanzo anche se alla fine propende più per il poema lirico si coglie proprio nell’immagine di quel Ritratto di Ignoto. L’uomo dipinto da Antonello ora per lo scrittore non ostenta più compiaciuta sicurezza nell’intelligenza dello sguardo e nell’ironia del sorriso: i suoi occhi sono chiusi, il sorriso si è tramutato in smorfia. Questa metamorfosi è allegorica, in fondo per certi versi paragonabile alle dicotomie di Stevenson e Kafka, perché se da un lato rappresenta l’equilibrio classico della razionalità, la fiducia nei valori, dall’altro simboleggia il delirio barocco dell’irrazionalità, la paura del vago. Vincenzo Consolo lancia anatemi per denunciare il degrado che segna inesorabilmente la Sicilia e le colpe di cui essa tutt’ora si macchia, ma in questa sua indignazione morale, in questa sua tensione civile, c’è la segreta speranza per un futuro migliore, la speranza forse nel riscatto umano e sociale di un’isola che diventa metafora di tutto un paese e del mondo intero.

L’olivo e l’olivastro è, insomma, opera di uno scrittore che, rifiutando la diffidenza o l’evasione, si sente ancora motivato, crede nell’impegno dell’intellettuale, ha una missione da compiere. Il pessimismo di Consolo, dunque, a ben guardare, non rasenta l’annullamento alla Beckett, di Aspettando Godot per intenderci, perché quest’ultima sua prova letteraria, alla fin fine, è una dichiarazione d’amore nei confronti di un’umanità non ancora perduta. L’ideale richiamo a La terra desolata di Eliot non si può tralasciare ( tanto più che questo testo è perfino citato esplicitamente), ma non ci sono approdi metafisici in Consolo, perché la sua fede è laica, la sua speranza è tutta terrena. D’altra parte L’olivo e l’olivastro, non a caso, già nel titolo stesso mette in risalto le due anime della Sicilia e Consolo per questo è ricorso, con felice scelta, a un’immagine dell’Odissea.
L’olivo e l’olivastro, infatti, nascono dal medesimo tronco, ma hanno sorte diversa, simboleggiano il contrasto tra il coltivato e il selvatico, l’umano e il bestiale, la salvezza nella cultura o la perdita di sé in un destino puramente naturale. La scrittura fluisce quasi magmatica, non sostenuta da una vera e propria trama, secondo una peculiarità stilistica di Consolo; la sua preoccupazione, tuttavia, qui non è tanto il raccontare qualcosa organicamente, quanto far evidenziare lo stato di disagio interiore dinanzi ad un mondo che non riconosce più, un mondo dal passato glorioso, addirittura mitico, ora ridotto in cenere dagli scempi ambientali, dalla corruzione politica, dalla sanguinosità della mafia, dall’omologazione sociale, dal consumismo della civiltà post -industriale che non rispetta secolari tradizioni e cancella i segni di una singolare cultura millenaria. Il viaggio di Consolo, quindi, è davvero il viaggio di un Ulisse disperato, che non si dà per vinto, però, e che nel suo peregrinare oppone alle violenze del presente folgorazioni senza tempo dove gli appaiono figure ed eventi straordinari: i leggendari mostri di Scilla e Cariddi e gli armenti del Sole descritti nell’Odissea; Pirandello che rende omaggio a un Verga vecchio e deluso; Caravaggio intento a dipingere per la siracusana chiesa di Santa Lucia al Sepolcro una sacra effige giudicata oscena dal vescovo per il suo drudo realismo. L’autore, tra un gorgoglio lessicale di “sicilianerie”, che stuzzica il ricordo e la nostalgia (anche se il potere evocativo della parola non servirà comunque a scongiurare l’oblio), percorre i luoghi epici e domestici di Omero e dei Malavoglia, segue le orme di viaggiatori illustri come Goethe e Maupassant, vagola nei paesi distrutti dai terremoti o dall’insipienza degli uomini, lasciandosi prendere dallo stupore ogni qualvolta paesaggi lui familiari disegnano l’orizzonte: “Ora remote, lievi, diafane come carta o lino, ferme o vaganti in mare, sospese in cielo, ora invisibili come cortine di nuvole, ora avanzanti, prossime alla costa, scabre e nitide”. E’ una fiabesca visione delle Eolie, dettata forse da una suggestione quasimodiana, dove lo scrittore può abbandonarsi alla poesia, a quegli squarci lirici che insieme agli inserti romanzeschi costituiscono le uniche, vere accensioni per il lettore. Bisogna dire, in effetti, che una certa discontinuità in quest’opera di Consolo c’è, ma la sua risulta un’operazione riuscita complessivamente, grazie all’attenta ricerca linguistica. Musicalità e sapienza nell’amalgamare bene cronaca a prosa aulica, poesia a documento, contribuiscono sensibilmente a fare de L’olivo e l’olivastro un libro interessante con un grande pregio, quello di spingere alla riflessione, espressionisticamente mettendo in luce il problema ecologico con un procedimento che ricorda in qualche modo, sia pure trasposto in termini cinematografici, Sogni, l’ultimo film del grande regista giapponese Akiro Kurosawa.

Sergio Palumbo
(articolo tratto da “nuovo notiziario delle Isole Eolie” – Ottobre 1995)

Dalla Sicilia alla luna


Come la rosa, il mare o l’intimo usignolo, la Luna – «sole delle statue», come la definisce Cocteau – è stata una fonte inesauribile di ispirazione in tutte le letterature. E se – come afferma Consolo – quel giorno dell’estate 1969, in cui l’astronave Apollo profano la Luna, è stato un giorno nefasto per la poesia, nulla ci impedisce di pensare che l’astro ha riconquistato tutti i suoi poteri dal momento in cui uno degli astronauti ha dichiarato che, vista dalla Luna, la Terra è una piccola scintillante sfera blu. Di colpo, l’immagine di Paul Eluard – la Terra è blu come un’arancia»- è sembrata profetica. Se è vero che in Ariosto la Luna è oggetto della più memorabile delle invenzioni (con il paladino che vi scopre tutto quello che gli uomini banno perduto nel corso dei secoli, e in particolare gli slanci e i sospiri degli innamorati), è pur vero che la Luna non ha ispirato soltanto i poeti. Nel secondo secolo della nostra era, Luciano di Samosata aveva descritto i Seleniti come esseri che filavano e tessevano vetro e metalli nutrendosi di -estratti d’aria; allo stesso modo Swift li ricorda nei Gulliver’ Travels: considerazione dalla quale possiamo concludere che la cosiddetta science-fiction si trovava già nella Storia vera del Greco. Ma nel diciassettesimo secolo, ispirandosi alle idee di Copernico e attingendo soprattutto al Somnium Astronomicum di Keplero (opera sulla topografia della Luna e la natura dei suoi abitanti, che l’autore finge letta in sogno), Cyrano de Bergerac scriveva /Histoire comique des Etats et Empires de la Lune. In quest’opera gli abitanti della Luna – cacciatori di allodole che, raggiunte da frecce infuocate, cadono già arrostite – credono che Cyrano sia una sorta di scimmia e come tale lo trattano. In seguito, la fantasia degli scrittori ha continuato a popolare l’amato satellite e ha perseverato nel considerarlo irraggiungibile meta di un viaggio impossibile. Non ultimo André Malraux, che nella sua prima opera – Lunes de papier (1921) – sognava lune-palla che s’involavano verso il Regno della Morte. Da parte sua, Roger Caillois osservava che Newton non ha scoperto la legge di gravita, come si crede, vedendo cadere delle mele da un albero, ma notando che, mentre la mela cadeva, la Luna non cadeva affatto. Oggi, il siciliano Vincenzo Consolo sogna la caduta della Luna in un dialogo poetico-filosofico, mascherato da libretto d’opera barocca, che si intitola appunto Lunaria. Questo testo ha una genesi curiosa: il punto di partenza è un lavoro del barone Lucio Piccolo di Calanovella, cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a sua volta autore de Il Gattopardo. Il barone Piccolo, benché ricchissimo, credendo di essere improvvisamente caduto in miseria, volle porvi rimedio scrivendo un testo destinato alla scena… Nacque così L’esequie della Luna, che Pasolini – dal fiuto sempre inquieto e infallibile – pubblicò sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1967, e che, alcuni anni dopo, un giovane regista decise di mettere in scena. Poiché il poema in prosa di Piccolo era diabolicamente ermetico, fu chiesto a Consolo di farne l’adattamento. Cammin facendo, preso dall’avventura della creazione letteraria, Consolo si allontano talmente, e talmente bene, dal testo di Lucio Piccolo, da dar vita a un nuovo testo, Lunaria appunto, che di quello originario conserva solo il germe. Cosi come, d’altronde, certe pagine di Leopardi – che per primo aveva sognato la caduta della Luna – erano state il germe delle Esequie del barone. Il lettore è trasportato nella Sicilia del diciottesimo secolo in cui un viceré – che apostrofa il sole trattandolo da tiranno e da barbaro perché oltraggia i loculi del sonno» – non crede né al suo potere né alla sua missione, convinto com’è che malinconica è la Storia» e che esiste solo il tutto, ossia l’universo, «questo incessante cataclisma armonico, quest’immensa anarchia equilibrata». Non sarà che il viceré è uno iettatore? In effetti, la notte in cui sogna la caduta della Luna, quella si stacca; se ne ritrovano pezzi, qua e là nella campagna circostante, il più piccolo dei quali è sufficiente a fare impallidire tutti i lumi del palazzo… Si pensi, tra la letteratura contemporanea, quelle opere teatrali ibride, solitarie, quali Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas o The Antiphon di Djunta Barnes: come quelle, Lunaria non sembra possa essere rappresentata in teatro, ma riserva alla lettura abbacinanti bellezze.

Un palinsesto filosofico
Paolo Mauri

Rubare i sogni non è reato e Leopardi fece una volta un sogno bellissimo, che era quasi un incubo (anche gli incubi possono essere belli). Nel sogno .[.. ] il poeta vede la luna staccarsi improvvisamente dal cielo, diventare via via più grande man mano che precipita, e rovinare di colpo in mezzo a un prato. In cielo soltanto un barlume, al posto dell’ astro caduto, anzi una nicchia. Visione tale da recare non poco tur-bamento, in cotal guisa / Ch’io n’ agghiacciava; e ancor non m’assicuro. Svanito il sogno, il turbamento rimase. Racconta Vincenzo Consolo che tentò di dargli forma teatrale, un giorno, il barone Lucio Piccolo: che era anche, come non tutti sanno, un raffinato poeta. Ma non gli riuscì. Ci ha riprovato ora Consolo stesso, che forse deve a Piccolo l’idea di trasferire il sogno in Sicilia. Lunaria, questo il titolo dell’operina di Consolo …], è infatti una messinscena siciliana, proiettata in un Settecento non ben precisato e animato da un Viceré abulico che guarda il suo tempo senza troppo apprezzarlo, mentre volentieri tende l’orecchio ai più grandi ed eterni dilemmi umani. …. Lo abbiamo detto all’inizio: rubare un sogno non è reato e meno che mai lo è in letteratura. Se ha certamente ragione Gérard Genette quando dice che ogni testo letterario è in realtà un palinsesto, nel senso che ogni storia, ogni libro, viene riscritto sulla base di un libro precedente, Consolo sembra dargli doppiamente ragione Lunaria […] è un palinsesto i cui strati sono in bella evidenza. Non tanto, o meglio non solo, per il dichiarato prestito leopardiano; in tutta la costruzione di Consolo circola un’aria iperletteraria, erudita, avverti un controllatissimo gioco di incastri. A cominciare dalla lingua: un italiano (quando non è dialetto o spagnolo), tornito, sapientissimo, musicale, un mosaico in cui s’incastonano autentiche rarità, da speleologo dei dizionari. Questa lingua, più mossa, più increspata di quella impiegata a suo tempo nel romanzo ha la funzione di rendere l’azione astratta e quindi (qui sì) dichiaratamente teatrale, simbolica. E un mondo, quello della luna che cade, che non scende a noi, ma al quale dobbiamo salire. Tocca a noi, lettori-spettatori, carpire il segreto musicale di un incubo da favola e adattarvi le nostre orecchie, disabituate al frastuono di una sintassi e di un lessico avari di concessioni al già detto. Restituendo al parlato quella patina d’antico di cui (dato il tempo in cui si svolge l’azione) ha bisogno, Consolo si rivela dunque “falsario” abilissimo.
Ma c’è di più. Resuscitando questo antico e fanciullesco sogno, Consolo vuole anche dirci che esso non troverebbe posto nello smagato mondo di oggi, che sulla luna addirittura ci è andato. Squisitamente para-leopardiana è la conclusione filosofica. La felicità, se la si vuol provare, bisogna recitarla, magari in un teatrino bizzarro e mentale come questo. Rovescio notturno del mito di Fetonte che rovinò con il carro del sole, il sogno della caduta della luna non può appartenere a una civiltà agreste. L’ultima che si è concessa un rapporto irripetibile con la notte e che a luci spente ha concepito favole, idilli e umano terrore.

(la Repubblica, 2 luglio 1985)

Quando la luna cadde alla corte del Viceré

Antonio Prete
Leggo Lunaria, l’operetta di Vincenzo Consolo che ha per “protagonista” la luna, a distanza di qualche mese da alcune mie – come chiamarle? – meditazioni esegetiche attorno alla luna leopardiana, alla sua teofania nei Canti, alla sua luce che insieme vela e rivela il paesaggio naturale, dischiudendo, nella notte un altro paesaggio, quello dell’interiorità. Che cammini velata di nubi viola, o che tremi di solitudine e di bagliore in un cielo di ghiaccio, la luna leopardiana illumina quel limitare della coscienza sul quale l’impensato dialoga con le forme del pensiero, ciò ch’è perduto cerca una nuova lingua. La luce lunare racconta in Leopardi l’essenza stessa della poesia. Così, è stato forse questo mio recente vagabondare critico (e lunatico) nei Canti, fino al Tramonto della luna, a farmi da appassionata guida nel racconto dialogato di Lunaria, in questo cuntu che .[..] ruota attorno al sogno leopardiano che narra la caduta della luna […]. Oppure è stato l’improvviso ritorno di immagini che avevano accompagnato, nell’estate del 76, proprio nelle trasparenze di alcuni meriggi siciliani, la lettura del Sorriso dell’ignoto marinaio, a introdurmi nel nuovo racconto […].
Il racconto raccoglie, così mi sembra, sovrapponendoli con delicata arguzia, frammenti di generi non più frequenti, anzi polverosi di letterario oblio: il Trauerspiel, tuttavia spogliato dei suoi emblemi funerei e delle sue allegorie di cenere incastonate nel fulgore della corona, insomma rivisitato più dalla parte della Torre hofmannsthaliana che dei suoi barocchi luttuosi modelli: l’operetta morale, riscritta con una dilatazione degli scenari e della partiture linguistiche della visualità e della coralità; la favola teatrale, aperta a ritmi popolari, a cadenza di proverbi, sospesa tra documento etnografico ed evocazione magica, tra fonti descrittive e levità di narrazione. Ma quel che unisce questi frammenti, e allontana i generi nel loro esile e circoscritto compito di stimolo, è la lingua, vero oggetto di questa narrazione. Una lingua che contamina flessuose e immaginose movenze barocche con insistenze “stralunate”, da lessico lussurioso e tuttavia straniato. Più che l’intrico dell’arabesco, c’è la sua ossessione di luce, attraverso la complicità tra ripetizione e variazione. Una lingua fatta di calchi, mimetismi libreschi, citazioni, ridondanze tornite e autoironiche. L’elencazione è insieme tecnica che ravviva e ritmo adeguato alla teatralità eccessiva e malinconica della favola. La lingua artificiale e musicale, parlata da villani e villanelle della Contrada e dal messaggero Mondo, irrompe, metafora d’una primordialità contemplativa perduta, nei linguaggi declamatori della corte. Nel finale, deposte le insegne del potere, il Viceré recita l’amplificazione gnomica che portava il pubblico del teatro barocco nel cuore del gran teatro del mondo: la sua vanitas: «Vero re è il Sole, tiranno indifferente, occhio che abbaglia, che guarda e che non vede. È finzione la vita, melanconico teatro, eterno mutamento. Unica salda la cangiante Terra, e quell’Astro immacolato là, cuore di chiara luce, serena anima, tenera face, allusione, segno, sipario dell’eterno». Che il vero testo d’avvio, non dichiarato, della favola di Consolo, e di L’esequie della luna di Piccolo, non sia il leopardiano Spavento notturno, ma il bellissimo verso de Il tramonto della luna, dove nella cesura si raccoglie l’evento e l’allegoria del vivere: «Scende la luna; e si scolora il mondo»? Con l’assenza della luna, sul paesaggio scende la notte d’un immensa vanitas, ma il silenzio che sopravviene allo scenico reclino della luna dischiude l’invisibile, come accadrà, dopo Leopardi, ai notturni di Rilke. Ma qui, chiusa la picciola favoletta» di Lunaria, eccomi tornato a quel meditare lunatico…

(Il Manifesto, 1 agosto 1985)

Non ci si allontana dalla Sicilia con Retablo, romanzo che, in Francia, esce contemporaneamente a Lunaria. Di primo acchito Retablo può essere considerato come appartenente allo stesso filone del Concierto barocco di Alejo Carpentier, ma in più possiede quelle malinconiche digressioni metafisiche che non hanno mai tentato il grande romanziere cubano. L’argomento trattato è il viaggio intrapreso da Fabrizio Clerici, pittore di anticaglie», nelle estreme terre della penisola: va in cerca di rovine e di vestigia del passato, sulle orme di quel monaco Fazello che «basandosi sulla parola antica di Diodoro» scopri «circondata dalla macchia e dalla palude, la defunta Selinunte». Gli fa da guida un fraticello. Briganti che sono monaci che hanno gettato la tonaca alle ortiche, pastori e cantastorie che salvaguardano la memoria dell’isola, contadini occupati a ripulire i campi da quelle antichità contro le quali urta il vomere dell’aratro: ecco i personaggi che popolano questo racconto il cui tempo è, senza sosta, “allegro con brio”. Le parole sono come perni sui quali la frase ondula, scende, risale, si attarda chiamandone altre che accorrono, si alternano, si snodano, vibrano, scintillanti di metafore. Il lettore è riportato in un passato trasfigurato, a quella prima meraviglia incredula e reciproca che dovettero provare, messe a confronto, la Lombardia illuminista (impersonata dal cavalier Clerici) e quella Sicilia dalla quale i Greci e gli Arabi non sono mai partiti. Retablo ha il tono brioso di un divertissement in cui anche l’erudizione si presta al gioco. Ma, come in Lunaria, dietro il sorriso si cela lo stesso pianto; sì: «malinconica è la Storia». E la mirabile statua che scivola dalla barca del cavaliere, forse – tutta incrostata di madrepore – un giorno sarà ritrovata. Agli occhi della divinità, al di là del tempo, non ci sarà alcuna differenza tra la Nike di Samotracia e la conchiglia prodotta da una bestiola mucosa che porta in sé una riserva di sale e di madreperla, destinata ad essere versata in uno stampo di geometrica perfezione. Va notato, per concludere, che Fabrizio Clerici è il nome di un grande pittore italiano contemporaneo, i cui soggetti prediletti sono città immaginarie, labirinti sventrati, insomma: ogni pietra scolpita ed erosa. Rendiamo omaggio, infine, all’arduo lavoro dei traduttori. […]

(Hector Bianciotti, Le Monde, 22 aprile 1988; traduzione di Marina Di Leo)

da Nuove Effemeridi, rassegna trimestrale di cultura. pagine -107 – 108 – 109



Una lettura delle incisioni di Togo


Ora il raggio, il riverbero, l’abbaglio, l’orgia del colore – il giallo che t’acceca, il rosso che t’investe, l’azzuro che t’annega, il verde che ti perde – ora il gran pontificale, il fragore, 1o squarcio, il sipario aperto – un lampo, il guizzo d’una lama – sopra il gran teatro, sopra quest’apparenza in festa, ora si smorza, spegne, si mostra nel rovescio, nella trama nuda, nell’ossatura, nell’ intreccio impietoso, nelle tenebre profonde, nel segreto germinare. Staccato il ramo d’oro, compiuti i sacrifici rituali, varchiamo quindi la soglia della notte, entriamo nel mondo scolorato, nella spiaggia delle ombre, nella plaga dei sogni, nel regno tremendo e necessario della nostalgia, della memoria.

In segni incisi, in linee, in fitti tratti o in mancanza d’essi, in neri abissi o in lunari superfici, in bianchi vuoti, allarmanti il mondo ci ritorna. Ritorna instabile, mutante, in perenne metamorfosi. In girasoli declinanti a stendere nastri, foglie serpeggianti; mano di collinose, dure nocche a battere, scandire un tempo immobile, tentare d’infrangere le porte del silenzio; occhi che scrutano, contemplano stupefatti il tuo stupore. In memoria, in evocazione, in sortilegio ritorna il paesaggio di ombre e luci, di deserte piazze, fughe di muri, di alberi, di grigi fondi, di sfondi di caverne d’occhi, di lune divelte dal manto della notte, di buchi neri, di pozzi insondabili, di cerchi del terrore. O in affabili sequenze, in familiari labirinti di scialbate mura, mediterranee architetture, materni antri, l’olivo del conforto, la palma del riposo, la scala che si perde nella penombra lieve. Ritorna in sogno il mondo, risorge come da uno Jonio di brezze e trasparenze, come da un greco mare risorge trasognata la Bellezza, come l’incanto d’una strada chiara, d’una fata morgana tra il cielo e il mare dello Stretto. Ora la luna pietosa risorge, stende chiaro il suo canto, Ia sua eco sul notturno paesaggio, palpita sulle ferme acque, sulle ramaglie, sopra i tetti di dimore spente … Che non s’infranga, frantumi, disperda in un soffio, nella chiaria dell’alba il sogno, il concerto sommesso di ombre e lucori, il disegno inciso nella nostra memoria, la profonda poesia, il fragile volo, la pura nostra avventura.
                                                                                   
                                                                                  Vincenzo Consolo
Milano, 12 dicembre 1994


Aspettando l’ alba, acquaforte e acquatinta, mm.500 x 320.

Consolo, disperazione in Sicilia

L’intervista Viaggio, reportage, discesa agli inferi: esce «Udivo e l’olivastro». Così lo scrittore racconta il suo ritorno a casa.

E’ un risentimento profondo, non so se chiamarlo odio. L’odio. in fondo, è furore per un amore tradito, per un’offesa, ha la stessa intensità dell’amore: se si arriva all’odio significa che si ama tantissimo». L’olivo e l’olivastro è il titolo del prossimo libro di Vincenzo Consolo. E sin dal titolo si rivela quell’accostamento di opposti che dà forma a tutto il «romanzo»: amore e odio, appunto, dolcezza e atrocità, fuga e desiderio di ritorno, passione e violenza, umanesimo e irrazionalità, lussureggiante bellezza e disfacimento. Insomma, olivo e olivastro. Romanzo? Forse. Ma anche diario di viaggio in diciassette capitoli, anche reportage, anche pamphlet, leggenda, invettiva, poesia, persino saggio. Racconto: per esempio, nel capitolo dedicato al breve e disperato soggiorno di Caravaggio a Siracusa. Memoria: nelle bellissime pagine in cui si rievoca la madre ormai incapace di riconoscere il figlio. Un libro ad albero, dal cui tronco spuntano rami nervosi, rami spogli, rami frondosi e mobili. Olivo e olivastro: nati da un unico ceppo e indissolubilmente intrecciati tra loro, come nel cespuglio sotto cui Ulisse si nascose appena giunto nell’isola di Scheria, abitata dai Feaci. «L’immagine dell’olivo e dell’olivastro – dice Consolo – compare nell’Odissea, quando l’eroe è al massimo della degradazione umana: ferito, nudo, solo. Omero dice che da uno stesso arbusto vengono fuori rami d’olivo e d’olivastro. E’ una specie di indicazione di quel che Ulisse si era lasciato alle spalle e di quel che lo aspettava nel futuro: da una parte la natura malvagia e minacciosa, il selvatico, il bestiale: dall’altra il coltivato, l’umano, l’armonia. Infatti, arrivato nell’isola dei Feaci, Ulisse troverà una città molto alta, un’utopia, un modello di perfezione. Ulisse poteva rimanere lì, in quel regno beato, ma sente l’urgenza della realtà e della storia, la necessità di tornare a Itaca». Urgenza del ritorno, urgenza della memoria: «Anche per me è un desiderio che brucia. – dice Consolo – e quando torno provo molto dolore e pochissimo conforto, tutto mi pare omologato nel male, nella perdita. Io ho sentito l’esigenza di raccontare il disastro». Niente giornalismo, però, tiene a precisare Consolo: «La differenza tra giornalismo e letteratura è che la letteratura lavora con la memoria». E viene in mente la polemica aperta recentemente da Bocca. «Lo scrittore, attraverso la memoria. riesce a dare spessore al presente», Un viaggio nell’isola delle meraviglie e della barbarie, ma un viaggio universale, nello strazio della nostra civiltà. A Milazzo, dove accanto allo stabilimento esploso, alle canne fumarie delle industrie, ai morti carbonizzati, cresce il gelsomino delicato. A Siracusa, dove nella dissoluzione urbanistica si rimane inebriati dal profumo intenso del basilico. Il viaggiatore, come Ulisse che cerca la sua Itaca, non riconosce più la sua terra. Ovunque trova desolazione: a Gela, a Catania, a Palermo, a Ortigia. Non riconosce più il barocco di Noto, un tempo rigoglioso, vede Cefalù. Trapani, Segesta devastate dai terremoti, si inoltra nell’inferno di acidi e diossine che esalano dalle raffinerie di Melilli. Torna a Trezza, il paese dei Malavoglia. Parte da Gibellina e la ritrova irrimediabilmente deformata. «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo? », si chiede con rabbia. Viaggio agli inferi. «Credo che la letteratura siciliana – dice Consolo – sia letteratura della stasi. Il più statico è il mondo verghiano, dominato dal fato.  Quello che ha cercato di rompere il «cerchio della fatalità e della condanna è stato Pirandello, attraverso la dialettica e il ragionamento: ma tra «sferiva la chiusura del mondo contadino e marinaro in un’altra chiusura, piccolo-borghese: è quella che Macchia ha chiamato la camera della tortura. Poi Vittorini, con conversazione in Sicilia, ha portato il viaggio nella letteratura siciliana. Io oscillo tra questi due opposti. Ma l’esigenza di muoversi o di star fermi dipende anche dalle speranze che si nutrono nella storia. Questo è un libro di grande disperazione, anche se ci sono qua e là. piccoli barlumi di sopravvivenza». E poi il libro di Consolo ci parla di letteratura: si apre con una dichiarazione di apparente sfiducia: «Ora non può narrare». Come, non può narrare? «Nel libro – dice Consolo viene agitato il tema dell’afasia. Ci sono momenti in cui la disperazione è tale che non trovi più interlocutori e ti viene voglia di chiuderti. Ci sono due tipi di afasia: quella del potere, che per definizione non vuole comunicare, e quella dell’artista che si oppone a questo potere. Per narrare bisogna essere angeli, messaggeri, avere degli interlocutori in cui trovare comprensione. Se viene meno questa speranza, lo scrittore rischia l’afasia: basta pensare a Empedocle, a Ezra Pound, a Hòlderlin». E c’è l’afasia del vecchio Verga, raccontata in un capitolo del libro. Eccolo, l’autore dei Malavoglia, al suo ottantesimo compleanno, chiuso nel suo soliloquio, nell’amarezza dell’incomprensione, insensibile ai festeggiamenti e muto persino davanti a Pirandello chiamato a celebrarne ufficialmente la grandezza: «Verga ha subito una grave ingiustizia. E’ l’ingiustizia perpetrata ogni volta nei confronti degli scrittori che non adottano il codice linguistico imperante. Io ho voluto narrare il momento del suo risentimento e della sua ritrazione. Fu preso per un traditore, perché a un certo punto abbandonò il linguaggio mondano, assolutamente comunicabile, che piaceva tanto nei salotti nobili milanesi. Quando riscopre la memoria, sceglie una lingua intraducibile ma di estrema verità e poesia: a quel punto non viene più capito». Dalla parte di Verga, della sua lingua, una scelta che oltrepassa la superficie formale e che affonda nelle profondità della narrazione. Come le esplosioni barocche di Consolo, che da sempre bruciano nel corpo del suo racconto: «In una lettera, Calvino scriveva a Sciascia: io sento che tu raffreni la matrice barocca che c’è dentro la tua scrittura… Forse Sciascia aveva paura di sconfinare. Sono convinto che qualsiasi scrittore periferico sia spinto verso l’uso di un linguaggio eccentrico. Sciascia diceva che era un cultore del pensiero e che non sapeva pensare in dialetto. In me c’è questo bisogno, forse perché sono nato alla confluenza tra due mondi antitetici: la Sicilia orientale, contrassegnata dalla presenza della natura, dell’Etna, dei terremoti e quindi portata al lirismo; e la Sicilia occidentale, più razionalistica, attratta dallo storicismo. Ecco, io vorrei essere un illuminista ma la mia scrittura mi porta irresistibilmente verso il barocco. Vivo in continua oscillazione tra questi due poli». L’olivo e l’olivastro.
Paolo Di Stefano
Corriere della Sera, 3 settembre 1994
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Consolo (Mondadori, pagine 149,)
Gibellina: un sudario di calce
di Vincenzo Consolo

Da «L’olivo e l’olivastro»

Nel nudo, nel crudo terreno, nella desolata vaghezza, nella memoria dissolta, nell’estraneità, nell’assenza, sorge l’arroganza, l’offesa, il teatro di marmo, di cemento, di bronzo, sorge alto sopra l’asfalto il fiore stridente, la stella texana, la porta per la fiera del vuoto, per la città metafisica. Di larghe strade, di rampe, di scale, di spalti, portici, logge, vaste piazze, anfiteatri deserti, folgorati dal sole, tagliati dall’ombra, di cubi, sfere, coni, cilindri, giardini di pietra, ghirigori di ferro, porte di marmo, cancelli, cerchi, ellissi, frecce, rombi, triangoli, sibillini alfabeti, il sarcasmo della reliquia innestata del frammento, l’arco il portale il timpano infranto. L’ombra alle spalle e il rimbombo sopra le lastre, fra le astratte sculture imponenti, le architetture della città costruita dai proci, il labirinto dello spaesamento, della squadra, del compasso, dello scoramento, della malinconia, dell’ansia perenne (…). Ora tu, eroe sconfuto, vieni fuori da una casa del nuovo paese, cammini sulla strada deserta, li guardi intorno smarrito,lo t’incontro, ti chiedo. «Sono nato a Gibellina, di anni ventitré… », rispondi. «Che dico?… Mi chiamo Nicola, sono nato a Gibellina, ho lavorato nelle cave di Meirengen. vicino Basilea. Ho là moglie, figli che non vogliono più tornare in questo paese». «Ti riconosco, Nicola, e son passati tanti anni, sei incanutito… T’ho incontrato alla stazione di Milano…». «Anch’io ti riconosco, e sei vecchio, hai una faccia diversa… Vorrei rivedere l’altro paese». Andiamo per quella campagna brulla, di radi alberi, di rocce, di stoppie, di palme solitarie. Arriviamo al colle, ai ruderi spianati e coperti da un’immensa colata di cemento, da una coltre bianca, da un sudario di calce. Non so dov’era la mia casa, dov’era il castello, la piazza, la chiesa…», lamenta Nicola.
L’emigrazione, i terremoti, lo sfascio del paesaggio la violenza, la corruzione delle coscienze: «La mia letteratura? La trovo tra Verga e Vittorini»


Studi per Vincenzo Consolo


Conversazione con Vincenzo Consolo
Anna Fabretti


Il testo dell’intervista che pubblichiamo appartiene ad un tempo quasi remoto, a una fase della carriera letteraria di Vincenzo Consolo, allora appena sessantenne, in cui la fama ottenuta con Il sorriso dell’ignoto marinaio e con i successivi romanzi lo consacra come uno dei maggiori scrittori italiani della fine del secolo. Il 25 giugno 1994 andai per la prima volta a Milano a incontrarlo e registrai più di due ore di conversazione.

Trascritto minuziosamente dalla diligente studentessa di allora, il testo è rifiutato una prima volta alla pubblicazione o, per meglio dire, è accettato con tanti e tali tagli da indurmi a una giustificata rinuncia. Si perde poi nei meandri di una valanga informatica che travolge il supporto su cui era stato registrato. Per un’incredibile coincidenza, sarà poi ritrovato, su fogli di carta ingiallita, usciti da una preistorica stampante a nove aghi, nel fondo di un cassetto da cui nessuno avrebbe mai potuto stanarlo se non la curiosa allegria di un bambino. In breve, questa la ragione dell’ingiustificabile ritardo di stampa.

Nella revisione del testo ho privilegiato una struttura senza domande, che riordina con la dovuta fedeltà il lungo discorso di Vincenzo Consolo, le argomentazioni e i riferimenti. La continuità del discorso prevale sulla discontinuità della conversazione e permette, a mio parere, di cogliere più estesamente le idee enunciate, come se si trattasse più di una lezione che di un dialogo. Come si vedrà, molti dei temi qui in nuce sono poi stati ripresi e sviluppati altrove, sia nelle numerose interviste, sia negli articoli sia nei saggi2. Il discorso si sviluppa dunque intorno ad alcuni blocchi tematici, fitti di rimandi interni, che danno al testo coesione e coerenza. Particolare attenzione è data al nucleo della sperimentazione, all’idea manzoniana della scrittura come «metafora», al rapporto con Pirandello e con Verga.

Mi auguro, nel chiudere queste pagine, di avere dato la giusta luce alle parole dell’autore, sciogliendo, almeno in parte, un debito di riconoscenza che a lui mi lega, proprio da quel lontano 1994.

Il rapporto con le avanguardie, con diverse forme di sperimentazione letteraria

Antonio Pizzuto non era un autore d’avanguardia, o almeno non militava nell’ultima avanguardia italiana, che – sappiamo tutti – è il Gruppo 63. Ma non è per caso che Pizzuto sperimentava per conto suo ed era arrivato a determinati esiti ed era stato scelto, eletto, come nume tutelare degli avanguardisti del Gruppo 63. E dunque io, mentre cominciavo a scrivere, prendevo le distanze, sia dagli avanguardisti del Gruppo 63, sia da Pizzuto (Cherchi 1987), perché la mia sperimentazione è su un altro crinale, in un altro alveo, ed è la sperimentazione di tipo storicistico di tutti gli scrittori – senza andare lontano nel tempo, parlando del romanzo moderno – a partire da Verga sino a Gadda, passando attraverso Pasolini.

6E che cosa significa questo? Significa che lo sperimentatore è colui che lavora sul codice linguistico dato e cerca di rompere questo codice linguistico che, come tutti i codici, diventa rigido nei confronti di quella che Pirandello chiama la Vita. Il compito dello scrittore è di rompere il codice per immettere la Vita, poiché il codice è una Forma. Bisogna rompere tutte le forme per immettere la realtà.

La realtà di Verga, qual era? La realtà di Verga non era mai stata italiana, era una realtà di una periferia geografica, qual era la Sicilia, e di una periferia umana, qual era il grado più basso della condizione umana, quella dei pescatori di Aci Trezza. Ora, per Verga, far parlare questi personaggi in lingua toscana sarebbe stata una contraddizione. Questa è stata la grande rivoluzione linguistica, la grande sperimentazione di Verga. Bisognerebbe fare tutta la storia di Verga, di com’è arrivato a questa sua conversione, a questa caduta da cavallo sulla via di Damasco. Verga è un caso classico di conversione letteraria. Partì imboccando una strada, che è la strada – come sappiamo – del romanzo mondano; esce dalla Sicilia, va a Firenze prima, scrive dei romanzi di successo anche molto conosciuti, ma il romanzo che gli servì da biglietto da visita è stato La storia di una capinera, che era un tema molto alla moda, di derivazione diderotiana e manzoniana, cioè quello della malmonacata. Quindi, quando da Firenze si sposta a Milano, si presenta con questo biglietto da visita molto mondano, viene accolto nei salotti, e pensa di continuare a scrivere i romanzi che aveva letto fino a quel punto, ma si trova in una città che è in un momento storico particolare. Ricordiamoci che era il 1872. Milano era in preda alla prima rivoluzione industriale, la città era in pieno subbuglio, nascevano nuovi quartieri, quartieri operai, nuove industrie, si apriva la Pirelli. Il fatto è che, di fronte a questo sommovimento del panorama sociale, del panorama politico – perché avvenivano allora, con la crescita del capitale, i primi scontri sociali, c’erano i primi scioperi, le prime organizzazioni operaie – Verga rimase spiazzato, perché capì che la letteratura che aveva praticato sino a quel momento non rappresentava il contesto storico in cui lui si muoveva. E quindi, come scrive Sapegno, ritornò alla Sicilia della sua infanzia, al mondo intatto e fermo della sua infanzia, che era una sorta di Sicilia immota, la Sicilia del mito, la Sicilia del ricordo. E incominciò qui la sua svolta, la sua grande sperimentazione linguistica, avendo come parametro naturalmente la lingua di Manzoni. Ecco io credo, come credono in tanti, che lui abbia scritto contro Manzoni, contro il toscano di Manzoni.

Ricordiamoci che il toscano di Manzoni era un toscano rivoluzionario, nel momento in cui Manzoni lo scriveva, perché doveva dare una lingua agli italiani; quello di Manzoni era un intento di tipo ideologico, di tipo politico, di unificare questo paese linguisticamente. Quando passa il momento manzoniano, in cui l’unità è avvenuta, in cui la nazione rischiava di diventare nazionalismo, si lasciano fuori dall’indagine letteraria strati popolari e zone di questo paese che la letteratura non aveva riflettuto fino a quel momento, se non a livello dialettale. Verga si incarica quindi di portare in letteratura questi personaggi, che sono i vinti, quelli che lui, nella sua concezione immobile del fato, aveva immaginato come vinti. Parte dal primo gradino della società: concepisce un grande affresco e la rivoluzione linguistica. Da Verga in poi, comincia il filone moderno della letteratura italiana e della sperimentazione linguistica, ma nell’alveo della tradizione.

Quando c’è l’avvento del fascismo – e questo bisogna tenerlo presente perché la letteratura non si muove nel vuoto, si muove nella storia – avviene una sorta di imposizione del codice linguistico nazionale, per cui si scriveva in toscano e il romanzo di tipo sperimentale incominciò a diventare sospetto. Si formarono delle correnti letterarie che vanno sotto il nome di Ronda o di Voce, che immaginavano una sorta di lingua pura, di lingua metallica, assolutamente formale. Il romanzo cadde in disuso e venne di moda il frammento, ci fu il periodo del frammentismo, dell’elzeviro, che era la bella prosa.

Non bisogna poi dimenticare le due esperienze che precedono il fascismo e sono parallele ma speculari: da una parte, questa specie di orgia linguistica e lussureggiante che era stata la lingua dannunziana e che aveva pervaso tutta la borghesia e la piccola borghesia italiana, per cui, quando si scriveva, bisognava scrivere secondo i moduli dannunziani. Dall’altra parte, c’era stata l’esperienza devastante, azzerante dei futuristi, dei marinettiani. Si tratta di due fenomeni speculari: voglio dire che tutti e due, sia Marinetti che D’Annunzio, non facevano altro che riflettere la lingua del potere e al potere interessava azzerare i codici della lingua per poter costruire una lingua del potere stesso.

  • 3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

Io penso veramente che le avanguardie non siano altro che la faccia speculare del codice linguistico del potere; quando poi finiscono, decadono, adottano la lingua del potere, la lingua della conformazione. Mentre la sperimentazione è più inquieta, perché opera nella tradizione e cerca di immettere le voci della verità, non delle voci artificiali, di gruppi di letterati. Finito il fascismo, crollata questa doppia lingua, Pasolini fa un’analisi molto dettagliata e molto bella nel 1964, quando scrive il suo famoso saggio sulla nascita della lingua italiana e fa una disamina di quel che era la lingua italiana fino a quel punto3.

Caduto il fascismo, naturalmente si sente l’esigenza di tornare alle vecchie sperimentazioni, con immissioni, con sperimentazioni linguistiche, e si ha il grande fenomeno di Gadda. Non si può immaginare niente di più lontano di uno scrittore come Gadda da Verga. Verga è casto, parco, asciutto: la sua lingua non era dialettale, ma era – come dice Pasolini – una lingua toscana irradiata di dialettalità; aveva abbassato il codice linguistico toscano a livello della sintassi e della paratassi dialettale siciliana, mettendo in campo tutti i modi di dire, i proverbi. Verga aborriva il dialetto, perché sapeva bene che il dialetto era un’altra cosa. Aveva avuto una polemica con Capuana sull’uso del dialetto in letteratura, e non solo con Capuana, ma anche con un altro scrittore siciliano che si chiama Alessio Di Giovanni, che gli aveva proposto di tradurre in siciliano I Malavoglia. Verga si era assolutamente opposto, perché sapeva qual era la sua rivoluzione linguistica. Parlando appunto di Gadda, sono due scrittori molto lontani: quanto uno è monocorde, così parco, così pietroso, tanto l’altro è polifonico, ricco, barocco. Gadda, in un’intervista uscita in un libro recente (questa intervista credo sia uscita al momento della pubblicazione del Pasticciaccio brutto de via Merulana), a chi gli faceva i nomi di Zola, di Queneau, di altri scrittori francesi, di una sperimentazione esterna all’Italia, ha risposto di considerarsi figlio di Verga. Si riconosceva appunto in questo filone della sperimentazione linguistica italiana a partire da Verga, solo che gli strumenti usati da Gadda erano diversi da quelli usati da Verga. In Gadda c’è la polifonicità dei dialetti: recupera tutti i dialetti italiani (questo grande calderone) per rappresentare il paese, mentre Verga usava un registro monocorde dell’irradiazione.

Pasolini, insieme a Gadda, è stato l’autore che nei romanzi ha sperimentato anche linguisticamente attraverso la tecnica della digressione; i personaggi partivano dall’italiano, poi man mano scivolavano verso il dialetto. Io mi riconosco in questo filone, considero come mio padre tutelare Verga, non credo negli azzeramenti, non credo nelle avanguardie, perché credo che la letteratura sia una continua sperimentazione, sperimentazione non solo linguistica, ma anche sperimentazione sulle strutture narrative, sulla struttura stessa del romanzo. Per quanto mi riguarda, io non ho usato né la digressione pasoliniana o gaddiana né l’irradiazione di tipo verghiano. Io ho usato quello che chiamerei l’innesto: innesto di parole, di fonemi, di lessici, che sono stati espunti dal codice linguistico nazionale, che mi ritrovo nella memoria, nel mio bagaglio regionale, nella storia linguistica siciliana. Parole di lingue che le varie dominazioni hanno lasciato in Sicilia, le varie civiltà se non vogliamo chiamarle dominazioni. E quindi io cerco di immettere questi vocaboli, che non sono italiani ma che hanno una loro dignità filologica, che vengono da altre lingue. Sono vocaboli che di volta in volta possono venire dal latino o dal greco, dall’arabo o dal francese, dallo spagnolo e che sono il segno della ricchezza storica, civile e linguistica della regione di cui io parlo. I miei personaggi, e anche lo stesso io narrante nei miei romanzi, recuperano questi vocaboli che sono stati cacciati via, che sono stati sepolti.

Io ho spesso paragonato il mio lavoro di ricerca linguistica al lavoro dell’archeologo: cerco di scavare per tentare di disseppellire questi resti, questi reperti linguistici, e di metterli alla luce, di metterli in circolo. Poi, naturalmente, obbedisco ad altri criteri: sono i criteri della sonorità, del polisenso che può avere un vocabolo di più sensi piuttosto che un unico senso. Ubbidisco a tante esigenze in questa mia sperimentazione. In questo mi sento lontano da Pizzuto, perché io sono sempre spinto da un intento storicistico nella mia ricerca, cerco di essere sempre aggrappato alla storia e la mia sperimentazione non è solamente in senso formale. Mi preoccupo sempre che ci sia un equilibrio tra il contenuto e la forma, tra quello che voglio dire e il modo in cui lo dico. In Pizzuto invece c’era lo scivolamento solo in un senso formale, e la sua scrittura diventava come una musica atonale, una scrittura astratta, dove la linea narrativa non si svolgeva più, le parole diventavano puro suono senza il significato, era puro significante. In quello mi sento molto lontano da Pizzuto e capisco perché gli avanguardisti avessero scelto Pizzuto come loro nume tutelare, proprio perché era la pura sperimentazione formale.

Il rapporto con Luigi Pirandello

La lezione pirandelliana l’ho appresa attraverso Sciascia. Credo che il mio nome si possa accostare a Pirandello in questo: che c’è in me l’ansia… Voglio dire che c’è in me il desiderio, il bisogno, la volontà di uscire dall’immobilismo verghiano; perché io credo che in Sicilia ci siano due modi per essere scrittori: appartenere al filone verghiano o appartenere al filone pirandelliano. Voglio dire che ci si può immettere nella zona del mito, ci si può immettere nella zona dei temi dell’assoluto dell’esistenza e chiudersi in questa sorta di concezione fatalistica della vita, dell’esistenza della condanna del fato nel modo in cui l’aveva concepito Verga, di una vita circolare senza assolutamente nessuna via di uscita. Io credo che la modernità di Pirandello consista nell’aver cercato di rompere questo cerchio e di riportare il discorso letterario non sulla circolarità, ma sulla linearità. E Pirandello l’ha fatto attraverso la dialettica, l’ha fatto attraverso la parola, quindi ha rotto quella chiusura del proverbio, del modo di dire ereditato dai padri, dalla tradizione, così come l’aveva concepito Verga, questo parlare come se fosse un salmodiare di Sacre Scritture, della Bibbia o del Corano; erano delle formule quasi sacre che si ripetevano. Pirandello ha cercato di far uscire l’uomo dalla sua condizione di condanna attraverso la ribellione, la rottura di questo codice linguistico e quindi la dialettica, l’interrogarsi sul perché di questa condanna, il chiedere conto a qualcuno del perché di questa condanna. Ne viene fuori un mondo ancora più straziante in Pirandello: è quello che Giovanni Macchia chiama «la stanza della tortura» (Macchia 1981), è un continuo torturarsi. C’è questa grande rivoluzione pirandelliana nel teatro e nella sua prosa – a parte i romanzi di tipo storico – di uscire dal cerchio verghiano e di rompere la fatalità della tragedia greca, di portarla sul piano della commedia moderna attraverso l’umorismo, attraverso l’ironia, attraverso l’articolazione della parola e del discorso, quindi attraverso la comunicazione. Ora, questo è un modo illuministico, un modo moderno di concepire la condizione dell’uomo e io ho cercato, per il mio destino di centralità – sono nato nella Sicilia centrale e mi sono trovato in bilico tra questi due mondi, il mondo orientale di Verga, che è invaso dalla natura, che protende verso il lirismo e verso il mito, e il mondo occidentale, che è il mondo più dialettico, il mondo più storicistico, più della ragione, a cui appartiene Pirandello, a cui appartiene Sciascia – io ho cercato di conciliare questi due opposti e quindi la mia scrittura forse consiste in questa continua oscillazione tra il mito e la storia, tra il lirismo e la dialettica. Io, sotto questo bisogno dell’espressività o dell’espressionismo, come l’ha chiamato Segre, credo che si scorga il martellare della ragione, della dialettica, dello storicismo. In questo io mi sento anche erede di Pirandello. Per esempio Vittorini, che apparteneva alla Sicilia orientale – veniva da Siracusa – e quindi era fortemente invaso anche lui dalla natura, aveva una propensione al lirismo, che non poteva spegnere; anche lui aveva sentito il bisogno di uscire dall’immobilità, aveva concepito i suoi racconti, i suoi romanzi come viaggi, come movimento; però l’aveva fatto soltanto esteriormente, perché poi anche Vittorini, alla fine, risulta un grande formalista. Tuttavia c’era questa esigenza del movimento, del fare, del togliersi dall’immobilità della rassegnazione, del dolore. Mentre in Pirandello tutto questo dolore diventa essenza, diventa parola, in Vittorini è soltanto nella vicenda raccontata il movimento, ma formalmente, stilisticamente, rimane chiuso anche lui dentro la forma.

Il teatro, la teatralità, la «vastasata»

Pirandello per forza doveva poi alla fine salire sul palcoscenico, perché la sua scrittura è teatrale, è una scrittura dialettica, dialogica, fortemente teatrale; quindi ha sentito il bisogno del teatro e di rompere le pareti del teatro, di creare la quarta dimensione.

La «vastasata» era il teatro popolare, molto scurrile, per i facchini, perché «vastaso» viene da «bastizo», che in greco significa «portare addosso» e quindi da noi esiste questa parola «vastaso» che è detta in doppio senso: sia come professione («u vastasu» è colui che porta, il facchino), ma anche nel senso metaforico della parola, che vuol dire sporcaccione, colui che usa il linguaggio scurrile. C’era quindi una forma di teatro siciliano, soprattutto palermitano, che si chiamava la «vastasata», che era un po’ come le atellanae, come il teatro romano più scurrile. Cocchiara (1926) si è occupato di questa forma di teatro, che usa un linguaggio molto sboccato, molto diretto, un teatro di tipo carnascialesco, che poi usciva dagli argini del carnevale e diventava un teatro per tutto l’anno, perché quella licenziosità si ammetteva soltanto nel periodo del carnevale, ma poi ha finito per essere recitato tutto l’anno.

Pirandello, Sciascia e lo zolfo

Essere dentro o fuori dalla miniera di zolfo significa che i parenti di Pirandello erano proprietari di zolfare e Sciascia era nipote di uno zolfataro. La differenza sta in questo. Pirandello stesso ha fatto il guardiano per un breve periodo, quando voleva smettere di studiare, in una zolfara. Suo padre era un proprietario e commerciante di zolfo e forse il nucleo del dolore pirandelliano viene da questa personalità del padre, che era molto forte, e da questo mondo tremendo e anche terribile dei commercianti di zolfo, dei proprietari. Sono tutti e due scrittori di tipo logico-dialettico, ma l’uno verso la zona dell’esistenza (Pirandello), l’altro verso la zona civile, politica, perché anche tutta la letteratura di Sciascia è una letteratura dialettica, quella dell’indagine, del delitto ecc.

È questa la grandezza di Pirandello. Dove avviene questa tortura? Nel chiuso di una stanza, in un interno borghese, mentre la dialettica di Sciascia avviene nella piazza del paese di Racalmuto, dove si discute dell’amministrazione comunale, del circolo dei civili, perché l’uno era figlio di zolfataro, l’altro era figlio di proprietari dello zolfo. È questa la differenza per cui io dico «dentro» o «fuori» della miniera. Erano tutti e due sulfurei, sia Pirandello che Sciascia. La presenza dello zolfo è stata molto importante in questi due scrittori, credo che abbia veramente segnato le loro personalità. Io ho scritto un saggio sulla letteratura dello zolfo, uscito in un libro che si chiama ‘Nfernu vero, delle Edizioni del Lavoro (Grimaldi 1985). È una di quelle cose che dovrò ripubblicare. È una disamina di quella che è stata la letteratura scaturita nella zona delle zolfare in Sicilia.

La parodia, l’«abrasione»

Il mio romanzo su cui i critici si sono più soffermati, Il sorriso dell’ignoto marinaio, nella scrittura è la parodia di una scrittura, non è la scrittura dell’autore: è la parodia di un erudito dell’Ottocento, che è il barone di Mandralisca, che poi cade in crisi. È, dicevo io, una scrittura in negativo perché, nel momento in cui questa scrittura si dichiara, nello stesso tempo si nega, perché è parodistica, perché è abrasiva, l’intento è abrasivo. E quindi, a un certo punto, c’è la rottura di questo linguaggio ottocentesco, dell’erudizione ottocentesca, con le scritte dei condannati a morte, c’è questo stacco linguistico, questa frattura. Il libro è molto complesso, perché bisognerebbe parlare anche della struttura oltre che del linguaggio. Questi giochi sono però sempre in bilico, perché è una scrittura in negativo che a momenti, nei momenti di commozione, si rovescia in scrittura in positivo, nella rievocazione degli orrori; quando il barone descrive la strage di cui è stato testimone, c’è molta pietà e allora la parodia si smette, diventa adesione, non è più parodia.

Anche Retablo è il massimo della parodia, è una parodia settecentesca di Fabrizio Clerici, che è un uomo del nostro tempo. Ma sotto questa parodia vengono fuori dei momenti di grande sarcasmo nei confronti di una certa Sicilia retorica, che è quella di Alcamo. Poi c’è naturalmente la commozione di fronte a una certa bellezza della Sicilia. Questo è un libro che nasce dalla polemica: è l’allontanamento di un intellettuale, di un artista, da Milano, da una Milano fortemente ideologica che in quel momento – era la Milano degli Illuministi – ed era la polemica di chi scriveva, contro il cristallizzarsi solamente dell’ideologia, che riflette solo il dato politico dell’uomo e non il momento globale umano. E questo personaggio, innamorato di Teresa Blasco (dentro ci sono molti segni, molte metafore), che poi è la nonna di Manzoni, il padre della letteratura italiana moderna, ha questo senso: che l’ideologia con la poesia (che è rappresentata da Teresa Blasco) genera uno scrittore come Manzoni. E quindi Fabrizio Clerici che si allontana dalla città ideologica, dalla città illuministica, va alla ricerca della poesia e la cerca nel luogo in cui è nata la sua donna e quindi prova commozione di fronte alla bellezza, ma vede anche gli orrori, vede quello che deve vedere la letteratura, che nessuna ideologia, nessuna storiografia riesce a vedere. Soltanto l’arte riesce a vedere gli orrori e le bellezze dell’esistenza, della vita, quindi ecco le scene di Alcamo, la commozione di fronte alle antichità, che a volte sono anche ironizzate; ad esempio, quando c’è la statua dell’efebo di Mozia che cade in mare, c’è l’ironia del feticismo delle antichità, ci sono tutti questi segni. È anche quello un libro molto parodistico, che vuole liberare determinate metafore moderne; poi c’è un’invettiva contro Milano da parte di Fabrizio Clerici, che era un’invettiva di uno – di chi scrive – che aveva amato questa città, che se ne era disamorato perché vedeva questa città deteriorarsi, diventare quello che sappiamo. C’è un momento in cui lui dice «arrasso, arrasso», in cui c’è l’enumerazione di una Milano che era la Milano del momento in cui io scrivevo e in cui tutti i personaggi che lui cita nella sua invettiva sono riconoscibili; quando parla del politico ladro, del prete trafficone, del poeta decadente, del gazzettiere: c’è tutta la Milano degli anni Ottanta, la Milano di Craxi.

La dialettica Milano-Sicilia era molto più ridotta prima, era la dialettica – fin dal mio primo libro – tra la Sicilia orientale e la Sicilia occidentale. Io sono sempre stato dilaniato tra due polarità. Poco fa, facevo l’esempio di Verga e Pirandello; questo bisogno di conciliare gli opposti l’ho sempre sentito, allontanandomi dalla Sicilia. Retablo è proprio molto emblematico in questo senso, di questa polarità più ampia Milano-Sicilia. Dovrebbe essere il mondo della politica, della ragione, del vivere civile con il mondo del mito, della poesia, del lirismo, con tutto quel che significa, in un certo senso anche la Sicilia, il mondo verghiano; perché Pirandello aveva preso, anche se stava ad Agrigento, le distanze dalla Sicilia, per poterne parlare in modo logico, in modo razionale, dialettico.

La scrittura, la distanza memoriale

In Retablo c’è anche l’idea dello scrittore come «castrato» della vita. È la ripresa della frase di Pirandello «la vita o la si scrive o la si vive». È l’idea della condizione dell’artista, di questa nostalgia struggente di una vita da cui ci si apparta continuamente, e quindi c’è il tendere la mano, sempre per cercare di afferrare la vita che, intanto, mentre tu ti apparti per tentare di rappresentarla, scorre per conto proprio.

  • 4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni pater (…)

L’idea su cui si fonda Retablo è quella della lontananza che consente la scrittura, l’idea della distanza memoriale. Poi lo scrittore si riattualizza compiendo quel salto mortale che è la metafora, perché l’artista – lo scrittore soprattutto – ha sempre bisogno di volgere la testa indietro per attingere alla memoria, a quel patrimonio che si porta dietro e che non è l’attualità4. Questa necessità di volgere la testa indietro per attingere alla memoria è la distanza memoriale. Io non concepisco letteratura senza memoria. Non capisco tutta la querelle stupida che c’è stata negli anni scorsi tra i giornalisti, che sono i nuovi scrittori perché parlano dell’attualità, e degli scrittori che sono inattuali. C’è un grande discorso da fare su questo momento che stiamo vivendo, su questo secolo in cui c’è stata l’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa e quindi la messa in crisi dello scrittore. E lo scrittore, per difendere lo spazio letterario, deve sempre di più ricorrere alla memoria, perché non è possibile per uno scrittore raccontare in termini assolutamente di comunicazione l’attualità, raccontarla in modo così diretto come fanno i giornali ogni mattina o come fa la televisione. Perciò molto spesso si confonde il giornalismo con la letteratura e molti aspirano a far omologare, a far diventare la letteratura giornalismo.

Quando è uscito il mio ultimo libro, Nottetempo, casa per casa, c’è stato un famoso giornalista, il quale ha una rubrica su L’Espresso, che ha osservato con molto candore:

Ma questo Consolo, quando scrive degli articoli sui giornali è chiarissimo, molto logico, e quando scrive i romanzi usa dei vocaboli come questi…

e indicava tutta una sfilza di vocaboli che a lui sembravano strani, molto ricercati. Si chiedeva il perché di questa dicotomia, di questa disparità, e metteva il dito – come si dice – nella piaga, cioè non capiva la differenza tra quella scrittura che Barthes chiama «scrittura d’intervento», la scrittura giornalistica, e la scrittura letteraria. Non vedeva la necessità dell’altra scrittura perché lui, da giornalista, vorrebbe che la letteratura fosse come il giornalismo.

Tutto ormai deve diventare giornalismo e anche questi grandi giornalisti, come Bocca o come Pansa, dicevano qualche anno fa: «Siamo noi i nuovi narratori, i nuovi Balzac». Il loro è un linguaggio passivo, d’accatto, sono dei gerghi che poi si scimmiottano, si ripetono. Ci sono delle formulette che inconsciamente, naturalmente si trasmettono l’uno con l’altro e ripetono passivamente perché loro non hanno un problema di linguaggio, quindi hanno bisogno di usare un linguaggio che è già consumato, per essere il più comunicativi possibile. E stiamo parlando di parole, non consideriamo quello che è il mondo delle immagini…

Il rapporto fra segni verbali e segni iconici

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio la figuratività è portata proprio come una cifra, c’è l’iconografia dell’ignoto marinaio. In Retablo la topologia figurativa è fondata poeticamente sull’assenza di un referente concreto. In tutto il libro c’è un’interruzione continua quando Isidoro deve parlare di Rosalia, c’è sempre un’interruzione, perché poi c’è il disvelamento alla fine. Rosalia rimane il vagheggiamento, l’eterno femminino, rimane anche l’ambiguità dell’altro, perché la parola veritas è una parola naturalmente ironica, perché la verità è quella effigiata dallo scultore Serpotta, la verità nuda, prorompente; ma questa fanciulla, che è molto ambigua – non si capisce se abbia amato Isidoro o se l’abbia ingannato, preso in giro, giocato –, è poi l’inganno dell’amore, l’inganno della poesia, che però sono degli inganni assolutamente necessari all’uomo, senza i quali non potremmo vivere. La citazione iniziale di Jacopo da Lentini evidenzia già tutto il tracciato del libro. L’uso di una certa topologia figurativa, del riferimento a una tradizione «alta» della poesia, è continuamente ribaltato, rovesciato, a fini parodici.

In Retablo, già la parola «retablo» è iconica, è una composizione pittorica e nello stesso tempo è anche spettacolo teatrale. In Cervantes, il retablo diventa lo spettacolo teatrale; infatti c’è l’illusione del «retablo de las maravillas», il nome è preso da Cervantes. Nella tradizione pittorica siciliana che ci hanno portato gli spagnoli, c’è la parola «retablo», una composizione pittorica in più riquadri, dove si racconta una storia. Ma c’è anche questo teatrino delle illusioni che è la letteratura. E quindi Rosalia è l’interprete principale di questo teatrino. Il primo capitolo e l’ultimo, che sono i pannelli laterali del retablo, seguono lo schema del contrasto, del contrasto d’amore, con le due voci – prima Isidoro, poi lei, Rosalia, che risponde, come in Rosa fresca aulentissima.

Altro dato importante è il colorismo. La pesca del corallo è una cosa molto mediterranea, soprattutto Trapani era uno dei centri della pesca del corallo, dove c’era un grande artigianato e quindi c’è l’amore di tutta questa memoria, ma anche di questa materia marina; è una concrezione marina il corallo, che ricorda molto la grazia femminile, con questo rosa acceso che dà luminosità al volto delle donne, più degli smeraldi che sono molto freddi, freddi come le stelle; è una pietra più carnale.

Il corallo che viene usato per la descrizione di Rosalia, come il verde che viene usato per Teresa Blasco, alla fine si fondono. Rosalia amata da Isidoro, Rosalia amata da Vito Sammataro, Teresa Blasco, alla fine diventano un’unica immagine, un solo profilo. C’è un momento in cui Fabrizio Clerici disegna il profilo di una donna e ognuno vede la propria Rosalia: è l’idea propria di tanta poesia italiana, almeno fino al Cinquecento, e di tanta lirica a sfondo teologico, l’idea della rappresentazione dell’assenza, dell’irrealizzazione.

La religione, la religiosità

Nei miei libri c’è una sorta di critica alla religione come potere, anche alla condizione clericale come condizione innaturale, perché i miei preti e i miei frati molto spesso impazziscono, perdono i freni. Anche nelle Pietre di Pantàlica c’è un altro frate pazzo (oltre a frate Nunzio, frate Isidoro, fra’ Giacinto), Frate Agrippino, che si fustiga. C’è questa innaturalità della costrizione del potere della religione sull’uomo, però c’è anche il recupero di una religiosità più autentica, più armonica con la vita, con il mondo, che è quella del pastore di Segesta; quello è un luogo pregreco, dove poi sono arrivati i Greci, dove c’erano gli Elimi e quindi c’erano dei templi di dee catactonie, sotterranee, dove si facevano dei sacrifici con gli elementi naturali, con il latte, con il miele. Poi c’è stata una sorta di sincretismo con l’arrivo dei Greci, del recupero di queste forme epocali, arcaiche. E quindi c’era il bisogno di una religione che fosse più consona con la natura, meno di frattura con la natura, di una religione che non fosse un apparato di potere, che non fosse costrizione. C’è questo, non il gusto di essere dissacratore. Il racconto dei frati nel convento della Gancia è una sorta di parodia boccaccesca, un po’ grottesca, un po’ atroce. Anche don Gregorio Nanfara, in Filosofiana, è un esempio di impostura. Don Gregorio era l’impostore locale, che era stato in seminario, sapeva un po’ di latino e imbrogliava la povera gente come Vito Parlagreco, perché quest’ultimo era uno che cercava il tesoro dentro questa tomba, mentre il furbo don Gregorio sapeva che il tesoro erano i vasi, di cui si appropria e che poi avrebbe rivenduto. È sempre l’idea del più acculturato che frega il più ignorante, con tutte le sue formule latine, con i suoi libri, vivendo di questa mistificazione, di questa impostura; quindi è la denuncia della religione come impostura, come acquisizione di determinate formule per ingannare.

Nel Sorriso dell’ignoto marinaio c’è poi l’idea manzoniana della scrittura come potere, come impostura. La scrittura come strumento del potere, nel Sorriso è questo. Manzoni fa dire a un popolano la stessa cosa; infatti Renzo è stato fregato dal latino di don Abbondio e da Azzeccagarbugli.

Vincenzo Consolo, Milano, 1986

Vincenzo Consolo, Milan, 1986

© photographie de Giovanna Borgese

BIBLIOGRAPHIE

Cherchi G., 1987, «Mille e una notte», L’Unità, 11 novembre.

Cocchiara G., 1926, Le vastasate, Palermo, Sandron.

Consolo V., 1993, Fuga dall’Etna. La Sicilia e Milano, la memoria e la storia, Roma, Donzelli.

Consolo V., 2015, L’opera completa, a cura e con un saggio introduttivo di Gianni Turchetta e uno scritto di Cesare Segre, Milano, Mondadori, «I Meridiani».

Grimaldi A., 1985, Nfernu veru. Uomini e immagini dei paesi dello zolfo, saggio introduttivo di Vincenzo Consolo, Roma, Edizioni del Lavoro.

Macchia G., 1981, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori.

Pasolini P. P., 1964, «Nuove questioni linguistiche», Rinascita, 26 dicembre.

NOTES

2 Si rimanda, a questo proposito, all’importante lavoro che Gianni Turchetta ha svolto per il «Meridiano» dedicato a Consolo: cfr. Consolo 2015.

3 Si tratta naturalmente di Nuove questioni linguistiche; cfr. Pasolini 1964.

4 Consolo 1993: 46-47: «E noi scrittori siciliani, “inclini” alla storia, troviamo in Manzoni paternità e sostegno. Nel Manzoni dei Promessi sposi e della Colonna infame, quello della necessità della storia, prima della narrazione e soprattutto quello della necessità della metafora. […] La lezione di Manzoni è proprio la metafora. Ci siamo sempre chiesti perché abbia ambientato il suo romanzo nel Seicento e non nell’Ottocento. Oltre che per il rovello per la giustizia, proprio per dare distanza alla sua inarrestabile metafora. L’Italia del Manzoni sembra davvero eterna, inestinguibile».

Sciascia come Sherlock Holmes

*
Sciascia come Sherlock Holmes
nei sotterranei del potere di Cosa nostra

Mafia e letteratura… un binomio sofferto. Tanto più dal dopoguerra in poi, quando si ha un rinverdire del tema. A cominciare da uno scanzonato, fiabesco, sensuale Antonio Amiante, il cui mafioso è dotato di straordinario potere sessuale e quindi sociale. E si giunge, nel ’47, al caso più famoso (grazie anche a un film di Pietro Germi) di romanzo sulla mafia, a Piccola pretura di Giuseppe Guido Lo Schiavo in cui – quasi anticipazione dell’antagonistica coppia Bellodi – don Mariano Arena
dello sciasciano Giorno della civetta – il mafioso, don Turi Passalacqua, fermo nella concezione della giustizia presociale o asociale, rende omaggio alla giustizia statale rappresentata dal piccolo pretore. Nel 1960 viene pubblicato il bel dramma di Paolo Messina Il muro del silenzio, in cui, forse per la prima volta, la mafia è vista in tutta la sua valenza antisociale, s’inscena lo scontro tra il protagonista e il suo ambiente, la sua famiglia, chiusi nella vecchia cultura della rassegnazione e del silenzio. Accenniamo infine alla poesia di Ignazio Buttitta, civile, antimafiosa – raro caso di poesia popolare e vernacolare poggiante su una ideologia civile e progressiva – e al gattopardo di Lampedusa, in cui a sfondi, a situazioni mafiose si allude qua e là ed esplicitamente quindi si dice: “Vincenzino era uomo d’onore, uno di quegli imbecilli capaci di ogni strage.” Infine, lo scrittore che ha messo al centro di buona parte della sua vasta opera narrativa il tema della mafia, sentendo il fenomeno sociale come urgente e devastante, ricorrendo a uno trumento narrativo collaudato, al romanzo poliziesco, piegato a una funzione politica, civile. Tutta l’opera di Sciascia è di ispirazione e tema civile, ma nei romanzi polizieschi viene direttamente esplicata quella che possiamo chiamare l’epopea della piazza: un dibattito sui fatti sociali e politici, una serrata, filosofica, laica “conversazione in Sicilia”. In questa speculazione, in questa assillante, pubblica inquisizione Sciascia è figlio di Pirandello. Sennonché, il poliziesco di Sciascia è il rovesciamento del genere: ci sono il delitto, l’investigatore, ma non si arriva mai all’individuazione del colpevole, alla sua condanna; non si arriva mai alla soluzione del dramma, alla sutura dello squarcio nel corpo sociale.
Lo scrittore immaginava di calarsi nei sotterranei del potere e, illuminando, ecco che si aprivano al suo sguardo, si scoprivano nuove, occulte gallerie, insondabili, paurosi meandri. I suoi polizieschi non erano dunque che metafore della realtà politica italiana. Erano specchio e speculazione del e sul mistero, mafioso e criminale. Erano spesso racconti che anticipavano fatti che da lì a poco sarebbero accaduti nella realtà. Tra il ’61 e il ’74 Sciascia pubblica quattro romanzi polizieschi: Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo. I primi due, mafioso-politici, appartengono ancora all’epoca della mafia del feudo, della mafia rurale; i secondi due, politico-mafiosi, appartengono alla mafia urbana, alla società neocapitalistica. Attraverso i quattro racconti, si può vedere la storia dell’Italia di quegli anni, il processo di degenerazione del potere politico e degli organi dello Stato parallelamente all’evolversi e all’ingigantirsi della mafia, di questo cancro della società civile che sul corpo dello Stato sembra aver operato la sua metastasi. Il contesto – da cui Francesco Rosi ha tratto il film Cadaveri eccellenti – si svolge in un immaginario paese mediterraneo,
una sorta di Grecia che maledettamente somiglia all’Italia, in cui si sta attuando un golpe. Dei quattro polizieschi, il racconto di più alta tensione politica e letteraria ci sembra Todo modo. Nel quale Sciascia va al cuore del potere politico in Italia, al cuore del potere di un partito; alla matrice metafisica a cui il partito si ispira e da cui deriva il suo potere. Mai come in questo racconto la struttura poliziesca si è attagliata all’argomento, dialetticamente, come costruzione razionale contro la disgregazione della ragione, l’indagine contro lo sgomento, la memoria contro l’oblio, la cultura contro l’ignoranza, il logos, la parola contro l’inesprimibile, il silenzio. Ma è questo al contempo il poliziesco più misterioso di Sciascia, dove non è più possibile l’individuazione dell’assassino perché la ragione indagativa si arresta davanti al muro della metafisica: metafisica religiosa e metafisica del potere. Il mondo, il mondo civile, sembra dire lo scrittore, si è fatto
così tenebroso, così orrendamente e indecifrabilmente antisociale e criminale, così mafioso, che non è più possibile, stando sulla piazza, alla luce del sole, alcuna narrazione che possa rappresentarlo e interpretarlo. A meno che con mortale rischio morale, se non anche fisico, non si voglia scendere nei gidiani sotterranei, nei bui meandri del potere e di misteriose e criminose sette o logge segrete di balzachiani Dévorants. Diciamo qui che ciò che non fu più possibile al narratore, fu poi possibile, cioè calarsi nei sotterranei del potere, a un gruppo di giudici di nuova cultura e nuova coscienza civile e morale. Fu possibile a Chinnici, a Falcone, a Borsellino, a tanti altri, i quali pagarono con la vita questo loro azzardo. È il momento poi della solitudine dello scrittore, solitudine che è evidente negli ultimi suoi racconti polizieschi: Il cavaliere e la morte e Una storia semplice. Evidente, la solitudine, attraverso due citazioni iconografiche: di Dürer e di Klinger. Una famosa incisione del Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo, fa da leitmotiv al racconto. Quel cavaliere, insidiato dalla Morte e dal Diavolo, solido dentro la sua armatura, sicuro in groppa al robusto cavallo procede solitario verso la turrita città in cima alla lontana collina, alla città ideale o d’utopia che mai raggiungerà. È disarcionato, cade dal cavallo il guerriero quando la società civile lo lascia solo nel cammino, perde tensione, volontà d’approssimarsi alla cittadella del diritto e della libertà. Il barbaro linguaggio del tritolo riprende a farsi sentire oggi, a esprimersi con la sua voce di paura e di morte in luoghi sacri alla nostra memoria storica, alla civiltà della lotta e del riscatto come Piana degli Albanesi, come Portella della Ginestra.

“Il Messaggero”, domenica 22 maggio 1994.
Pubblicato sul libro curato da Nicolò Messina
Cosa loro
Mafie tra cronaca e riflessione
Bompiani Editore

foto di Angelo Pitrone

29 aprile 1994: cronaca di una giornata

Vincenzo Consolo

Più nessuno mi poterà nel sud commentava Quasimodo. Invece – se m’è concesso il confronto – io nel sud ritorno sovente. Da Milano, dove risiedo, con un volo di un’ora e mezza, atterro in Sicilia. Dalla costa d’oriente o d’occidente, ogni volta, come per ossessione, vizio coazione a ripetere, celebrazione d’un rito, percorro l’isola da un capo a un altro, vado per città e paesi, sperduti villaggi, deserte campagne, per monti e per piane. per luoghi visti e rivisti non so quante volte; incontro vecchie persone, ne conosco di nuove; registro ogni volta, in quella mia terra, che esito a chiamare patria come invece con foga la chiama il poeta, il degrado continuo, le perdite irreparabili, la scomparsa d’ogni vestigia ammirevole, l’inarrestabile imbarbarimento, gli atroci misfatti, gli assassini, le stragi, il saccheggio d’ogni memoria, d’ogni reliquia di civiltà e bellezza. Vado in Sicilia e ne fuggo ogni volta, ritorno a Milano, la città dove da sempre, fuggendo dal Sud, si sono rifugiati poeti e scrittori, artisti, credendo trovarvi, via dalla periferia, da una mediterranea deriva, vicino a un centro d’Europa, per illuministici retaggi, per eredità di probo governo, decenza civile, rispetto di leggi e diritti, a Milano, in Lombardia, in un Nord di lavoro e sviluppo dove da sempre sono emigrati, come da ogni Sud d’immobilità, privazione e offesa, masse di lavoratori in cerca di un nuovo destino. Ritorno a Milano e scrivo, riverso nelle parole, nella scrittura, in racconti e diari, cronache d’avventure sempre uguali e sempre nuove negli esiti orrendi, pene e furori, rimpianti e denunzie, malinconie e invettive. Credo sia questo ormai il destino d’ogni ulisside d’oggi, di tornare sovente nell’Itaca del distacco e della memoria e di fuggirne ogni volta, di restare prigioniero nella reggia d’Alcinoo, in quel regno di supposta utopia, d’irreale armonia, condannato a narrare all’infinito, come un cieco cantore, un vecchio svanito, i suoi nostoi, le sue odissee. E questo che sto facendo ancora da alcuni mesi, faccio in questo giorno di scorcio d’aprile: narro del mio ultimo viaggio dell’estate scorsa in Sicilia, scrivo un libro che Porta un titolo, L’olivo e l’olivastro, colto in Omero, nell’episodio in cui Ulisse naufrago della grande tempesta, nudo e martoriato, mette piede a Scheria, sulla terra del Feaci, si rifugia sotto due arbusti nati da un medesimo Cippo: uno d’olivo, l’altro d’olivastro. Mi è sembrata l’immagine, un simbolo della biforcazione, dei due sentieri o destini che s’aprono nella vita d’un uomo, nell’a storia d’un paese; del coltivato e del selvatico, del civile e del barbarico. Mi è sembrato il simbolo più pregnante della Sicilia, la quale diventa sempre, come si dice, metafora dell’Italia (dell’Europa, del mondo?). In questo penultimo giorno d’aprile, dopo aver attraversato lo Stretto di Messina, aver scansato il rischio mortale di Scilla e Cariddi, aver lasciato sulle falde dell’Etna i mostruosi Ciclopi, dentro la sua caverna di lava il bestiale Polifemo, mi trovo a girare per Siracusa, a muovermi nel cuore d’Ortigia, nelle altre parti di questa antica metropoli, il Tiche, Acradina, Epípoli, Neapoli, nel presente suo squallido e oscuro e il passato suo di potenza e splendore. Muovermi tra la retta e la spirale, il rigore e la grazia, il teorema d’Archimede e la poesia di Pindaro, l’equilibrio dorico e il capriccio barocco, nella piazza a forma d’occhio dove regna Lucia, la signora della luce e della vista. Sta la santa Sibilla dei messaggi visivi nell’antro dove sono ingemmate, in trionfo di mura cristiane, greche colonne di pura geometria, dov’è incastonato il tempio d’Atena, la dea dell’olivo e dell’olio, del nutrimento e della luce, della ragione e della sapienza. Mi trovo, confuso, smarrito, in questo teatro di profonda memoria, di continui richiami, in questa scena odierna di degrado e macerie, deserta di parola, poesia, in questa cavea di urla e fragori, sotto un cielo di spesse caligini, presso un mare di petroli e liquami. In Siracusa è scritta la storia dell’infinito tramonto della civiltà nostra e cultura, dell’umano sentire, è impressa la notte della ragione e della pietà Questo ventinove aprile mi alzo all’alba, come ogni mattina, scrivo dell’ultimo tramonto di Siracusa attraverso il racconto di personaggi che in quella città son passati nel momento più drammatico della loro vita, uomini prossimi alla fine. Racconto del disperato Caravaggio che, fuggito dal carcere a Malta, approda in una Siracusa stremata da terremoti, carestie e pesti, immersa nel buio della Controriforma, dipinge per una chiesa il grande quadro del Seppellimento di Santa Lucia: il cadavere gonfio d’una fanciulla posto a terra, due ignudi becchini in primo piano che scavano la fossa, gli astanti schiacciati alla parete alta d’una latomia, la luce livida d’una catacomba. Racconto del ceroplasta siracusano Zummo che crea teche, teatri di peste, di contagio, di cataste di cadaveri in decomposizione, di avelli di scheletri, di mummie su cui scorrazzano topi, gechi, degli effetti sui corpi della sifilide; crea con le cere colorate perfette anatomie di teste, membra, organi… Racconto di un’arte necrofila, maniacale per cui lo Zummo è onorato alla corte di un Medici a Firenze e a quella del Re Sole a Versailles: la rivoluzione spazzerà via la sua tomba a Saint-Sulpice, spazzerà via gli altari per dare luce, spazio alla dea Ragione. Racconto del poeta von Platen che a Siracusa finisce i suoi giorni, in una misera locanda presso la fonte Aretusa, consumato dalle febbri del colera, dal vomito, dalla dissenteria. E racconto ancora di Guy de Maupassant che a Siracusa, rapito davanti al corpo luminoso della Venere Anadiomene, cova nel sangue il bacillo dell’infezione, della malattia che lo porterà alla demenza, alla morte. Nella scansione del tempo che m’impongo, a mezzogiorno interrompo il lavoro e vado, con desiderio e insieme titubanza, a comprare i giornali. E il momento, quello, della frattura, del ritorno brusco nella prosa offensiva del presente, dell’ingresso nel grigio miserevole teatro di questo regno dei Feaci, di questa Milano in cui sono approdato da più di venticinque anni e da cui non riesco più ad imbarcarmi per l’Isola che un giorno abbandonai. Non riesco a lasciare questa città del disinganno, dell’utopia crollata, della mediocrità più squallida, della nevrosi e dell’aggressività, del deserto d’ogni gioia, d’ogni bellezza, perché non c’è più un’Itaca dove ridurmi e conciliarmi, in cui ricomporre l’armonia perduta, non c’è più espiazione e liberazione dalle colpe dopo il lungo racconto di mostri, di malie e di tempeste; perché i mostri non abitano più nel nostro subconscio, nei nostri sogni, non abitano più in ignote dimore, abissi marini o caverne etnee, non sono dei mondi pre-civili, dei regni dell’olivastro, ma sono della nostra storia, del nostro tempo, sono reali e ovunque presenti, sono quelli che ci hanno predetto Kafka, Baudelaire, Eliot, Joyce, Camus, Pirandello, tutti i poeti-profeti, sono quelli comparsi ieri ad Auschwitz, Hiroshima, Siberia, quelli comparsi oggi a Sarajevo, in Ruanda, in tanti altri luoghi di morte e di massacro; sono quelli che, dopo cinquant’anni, minacciano di ricomparire, ahinoi, in Italia… L’amico giornalaio Bruno mi dà subito le prime notizie con l’espressione del volto, col modo di guardarmi, col far svolazzare, da dentro la nicchia della sua edicola, simile all’antro della Sibilla Cumana, qualche parola che può sembrar casuale, ma che è carica d’allusioni, messaggi. «Ha sentito che cattivo odore, che puzza nell’aria stamane? Sarà scoppiata qualche fogna qui attorno, sarà sfuggito veleno da qualche fabbrica chimica…. Capisco allora, mentre Bruno mi porge i giornali, che le notizie sono pessime, come del resto ogni mattina da molto tempo a questa parte; lo capisco dal malumore, dal brontolare di Bruno che ogni giorno diventa sempre più cupo. E la notizia che era nell’aria, che già si temeva, dopo la stragrande vittoria alle elezioni della destra, del patito del signor Berlusconi, alleato con i revanscisti, i vandeani del signor Bossi , e con vecchi fascisti (neo o post-fascisti loro pretendono d’esser chiamati) e del signor Fini, eccola qua, in prima pagina su tutti i giornali, con titoli a caratteri cubitali: Berlusconi al potere – Berlusconi: vi darò la miglior squadra – Il regime all’opera – Governo, è l’ora di Berlusconi – Silvio Berlusconi s’apprête à accéder au pouvoir… Sì, è fatta, il leader di Forza Italia è stato incaricato dal capo dello Stato di formare il nuovo governo, il cinquantatreesimo dalla fine del fascismo, dall’avvento della democrazia. Illusione, sogno, felicità da spot pubblicitario, mondo d’inganno, di ombre televisive, di degradata, miserabile caverna platonica, regime telecratico, potere d’una squadra di samurai dell’azienda, d’un manipolo di sacerdoti della religione della bottega, di mistici della réclame e del profitto: di questo parlano i giornali. Riportano anche oggi in prima pagina la condanna a otto anni di carcere del finanziere Sergio Cusani, un giovanotto di buona famiglia napoletana, d’un passato a Milano di militanza nel Movimento Studentesco, di marxista rivoluzionario. La sentenza arriva dopo sei mesi di processo trasmesso alla televisione e goduto dai telespettatori come un grande, appassionante spettacolo, in cui sono sfilati i più grandi finanzieri e industriali, i leaders politici, in cui si è mostrato la corruzione, il disfacimento di un potere, il crollo di un sistema simile a quello di Bisanzio prima dell’arrivo dei barbari, quel mondo che ci ha narrato Procopio di Cesarea. La gente che aveva mandato al potere Andreotti e Craxi ha guardato il processo, ha tifato per il giudice di Mani Pulite Di Pietro, si è assolta, e in marzo ha votato per Berlusconi, per Bossi e per Fini. «È disperante. Andiamo via, via da quest’orrenda città, via dall’Italia..» dice mia moglie. «Aspettiamo… Almeno fino a domani» rispondo scherzando. Sappiamo, l’indomani, che il Papa, uscendo dalla doccia, è caduto e s’è rotto il collo del femore. Doveva partire quest’oggi, Giovanni Paolo II, per Siracusa, avrebbe dovuto in quella città consacrare un santuario dedicato alla Madonna delle Lacrime, a un piccolo bassorilievo di gesso colorato che negli anni Cinquanta, in occasione di una tornata elettorale, si dice abbia pianto nella casa di un operaio comunista. Il santuario, un alto edificio in cemento a forma di cono scanalato, una sorta di rampa per il lancio di missili, è stato costruito di fronte al museo dov’è custodita la Venere Anadiomene, nel giardino dov’è la tomba di von Platen. Tutto ormai in questo Paese è di banalità e orrore, di degrado e oblio, è tramonto infinito, è Siracusa, è fiammella d’olio o di candela che si spegne, è buio di catacomba; tutto è Milano del fascismo, del leghismo e del berlusconismo, è squallore e ignoranza, è ricchezza volgare che corrompe, aggredisce e offende.