La solita tromba americana.

Prendendo tono e vigore dalla solita tromba americana, d’un risibile dandy da music hall, nel caso, nostrani cavalieri del vento o uragano dell’informazione (l’immagine è di Joyce, che nel settimo episodio dell’Ulisse, dal virtuale titolo di Eolo, ironizza sul vento che spira dall’Evening telegraph, dai giornali, su certe prose d’arte, false come fiori di cera o porcellana, di cui i giornali, per degnificarsi, sentono il bisogno d’adornarsi) hanno sentenziato che la narrativa non rappresenta più la realtà presente, ch’essa è agonizzante, è morta; che i veri scrittori d’oggi, on yes !, sono i giornalisti.

Ha spazzato, spazza l’uragano ogni possibilità di rappresentare “immediatamente” la realtà. Spazza finanche la realtà (non parliamo della verità) spacciando: per realtà quella fata morgana che ci restituisce la pagina stampata o lo schermo opalescente, facendo credere che l’unico vero linguaggio sia il fischio continuo e assordante della comunicazione: ha spazzato l’uragano memoria e poesia. Non siamo più, si sa, ai beati tempi di Balzac, e il blanchotiano spazio letterario è sempre più relegato in un altrove che lo scrittore si danna a ricercare.
Sa intanto, il tapino, io so, che siamo alla fine di una civiltà e di una cultura; che certe narrazioni sono ormai impossibili (Calvino – ricordo al bravo Volponi – aveva dimostrato questo già con Se una notte d’inverno… E il titanico progetto del pasoliniano Petrolio mi è sembrato il tentativo di fronteggiare letterariamente l’infinita estensione dei media); che l’unico racconto praticabile mi sembra quello storico-metaforico (non le consolatorie e consumistiche storie romanzate) ;che un modo per praticale ancora una letteratura non ipotecata dal potere è quello di risacralizzare il linguaggio, di restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia: riaccostarlo, per renderlo irriducibile, al linguaggio liturgico dei

poemi.

Vincenzo Consolo
doveva essere pubblica su,
Il Messaggero – 15 gennaio 1993

Vincenzo Consolo: «Falcone, il furore di un siciliano giusto»



In un torrido fine giugno del 1963, a Ciaculli, un’Alfetta carica di tritolo uccideva, dilaniandoli, sette carabinieri: un tenente, tre marescialli, tre semplici guardie. Fu quell’esplosione il primo, tremendo cambio di linguaggio della mafia: dall’antico, rurale linguaggio dei pallettoni della lupara passava al linguaggio moderno e cittadino del tritolo; dalle vendette contro singoli avversari alle cieche, indiscriminate stragi con l’esplosivo o con le sventagliate di mitra. Ora in quella località sopra i colli che circondano Palermo, in mezzo ai fitti giardini di mandarini che in alto lasciano il posto alla scabra nudità della roccia, si erge una stele che ricorda le vittime: «Alla memoria di coloro che la mafia stroncò a Ciaculli e del loro sacrificio che trasformò l’esecrazione in un moto di riscatto civile» vi è sopra inciso. In quell’ estate, ai funerali del tenente Mario Malausa e dei suoi uomini, crediamo abbia assistito, sgomento e addolorato, l’allora ventiquattrenne Giovanni Falcone. Fresco di laurea, crediamo che quei morti, il dolore e il furore per quei servitori dello Stato assassinati in quel modo, abbiano spinto il giovane a compiere la sua scelta di vita, a entrare nella magistratura. Era nato Falcone nel cuore della Palermo storica, nell’ arabo quartiere della Kalsa, nell’ antica piazza della Magione che le bombe della guerra avevano lacerato e ridotto in macerie, in una vaga spianata ancora oggi là sotto il sole. Era figlio di un chimico, un uomo serio, rigoroso, morto prematuramente, e di Luisa Bentivegna, figlia di un ex sindaco di Palermo. Aveva compiuto gli studi medi al liceo Umberto, dove il bravo professore di storia e filosofia Franco Salvo esercitava una grande influenza sugli allievi. E aveva frequentato l’oratorio di San Francesco, presso i frati della chiesa medievale, dove era divenuto amico di un coetaneo nato nello stesso quartiere, nella piazza Vetreria, del futuro collega Paolo Borsellino. Falcone, Borsellino, il nisseno Giuseppe Ayala, l’abruzzese Giuseppe Di Lello, altri coetanei, sono i giovani di una nuova storia della magistratura palermitana: giudici che per una diversa coscienza civile, per profonda indignazione di fronte alla crescente violenza, alla barbarie vergognosa della mafia, a causa dei grandi delitti degli anni Settanta, degli assassinii di giudici sagaci e onesti, Costa, Terranova, Chinnici, assassinii di carabinieri e poliziotti, si riunivano attorno al giudice Caponnetto a formare il pool antimafia che porterà all’ incriminazione dei capi di Cosa Nostra, al grande processo del febbraio 1986. In quella mattina di vento, di pioggia, di grandine, ero anch’ io a Palermo all’ apertura del processo, entrai in quell’ aula verde, in quel bunker a forma di grande ventaglio, salii sulla tribuna della stampa, fui spettatore e cronista di quella storica liturgia giudiziaria. Vidi, dietro le sbarre delle gabbie, i volti di famigerati mafiosi, di Luciano Liggio, sprezzantemente vestito con tuta da ginnastica e scarpe di gomma, di Giuseppe Bono, di Pippo Calò. Ma vidi soprattutto, oltre al presidente della corte Giordano, la figura smilza, il viso scavato di antico cavaliere spagnolo, del pubblico ministero Ayala, il volto olivastro, con la folta barba brizzolata, di Falcone. Mi raccontava un fotografo di Palermo, uno di quelli costretti a fotografare morti ammazzati coperti da giornali, da lenzuola per le strade di Palermo, che l’aveva impressionato in due mesi, mettendo accanto due foto del giudice Falcone, scattate a poca distanza una dall’ altra, il rapido invecchiamento di quell’ uomo. Incontrai poi Falcone, insieme ad Ayala, qualche anno fa a un ricevimento in casa di comuni amici. Ci presentarono, mi fecero sedere accanto a lui. Non scambiammo che qualche parola. Mi colpì di quell’ uomo, oltre alla sua ritrazione, al suo rifugio nel silenzio, l’immobilità, del viso e della figura, la rigidità quasi, in contrasto con quegli occhi neri, mobili e attenti. Capii che a quell’atteggiamento, a quella incapacità di sciogliersi anche in un ambiente sicuro, in un contesto conviviale, l’aveva ridotto la vita disumana, da segregato, in continuo allarme per ogni rischio, per ogni pericolo che improvvisamente poteva presentarglisi, per l’enorme peso di lavoro, di responsabilità che era costretto a sostenere. Ayala invece reagiva a quella vita in modo del tutto opposto: con vivace, calorosa colloquialità, con allegria. Falcone non aveva più la barba brizzolata, gli erano rimasti solo i baffi sopra quelle labbra dalla parola avara, in quel viso da arabo con quell’espressione pensosa, triste, di uomo «con toda su muerte a cuestas», come dice il poeta. Aveva tanto lavorato e lottato per arrestare quel linguaggio fragoroso e mortifero della mafia, quel linguaggio del tritolo dall’ accento ormai da terrorismo basco, da guerriglia libanese.Ѐ stato fermato sulla strada che da Punta Raisi lo portava a Palermo, tra l’alta roccia e il mare. Ѐ morto insieme alla povera moglie, Francesca Morvillo, ai fedeli uomini della scorta. La tonnellata di tritolo è esplosa nella vacanza della suprema autorità, nel vuoto del governo dello Stato, mentre le forze politiche si staccano sempre più dalla realtà di questo Paese, si avvitano in loro stesse nella lotta per il potere. C’è un famoso romanzo popolare palermitano, I Beati Paoli, scritto all’ inizio del secolo da Luigi Natoli, in cui si racconta di una settecentesca setta segreta che nella carenza del «braccio della Giustizia» statale, compiva vendette, faceva eseguire omicidi. La strage di oggi ci fa sospettare che una setta di Diabolici Paoli, massonerie, logge segrete, servizi deviati dello Stato o quant’ altro, in questo momento delicato, come in altri simili momenti, servendosi della mafia, o al di là o al di sopra della mafia, compia simili stragi perché i misfatti restino impuniti, per gettare il Paese nella confusione, nel terrore. Eliminando questa volta un uomo giusto ed eroico, uno dei siciliani migliori che non finiremo di rimpiangere; eliminando con lui altri quattro innocenti, nobili servitori dello Stato.

Vincenzo Consolo (Corriere della Sera, pag. 9, 26 maggio 1992)

Una passeggiata a Palermo con le foto di Salvo Fundarotto

Salvo Fundarotto
Si forma nel laboratorio fotografico di Letizia Battaglia. Negli anni ’80 collabora come fotoreporter con il quotidiano palermitano L’Ora. Con la chiusura del giornale inizia a collaborare alla rivista dell’ Assemblea regionale siciliana Cronache Parlamentari Siciliane. Poi si dedica solo alla fotografia d’autore. Suoi lavori per Young & Rubicam, e poi per l’agenzia Grazia Neri . Le sue opere sono quasi esclusivamente in bianco e nero. Scompare a 56 anni nel 2011. 

Vincenzo Consolo Catarsi



Ermetici suoni, versi bestiali o ululare
del vento fra picchi, gole o accordi
 d’arpa eolia, cembalo, siringa o il silenzio
 come il tuo di pietra, creatura mia,
solo questo è degno, la tua cruda assenza,
 la tua afasia, la tua divina inerzia.
Là, per il cammino impervio e fatale,
 per il sentiero opposto, purgato d’ogni colpa,
 pena, tenterò di sfiorare il tuo mistero.
lo che sarò erba, fronda, uccello…
Io che sarò cenere.
 Il silenzio o solo la parola vergine
del folle o del poeta.
“ tôn dè méson théso kat’aghénneta stoicheia
il fuoco e l’acqua e la terra e l’immenso culmine dell’aria,
che mai non hanno inizio né hanno termine alcuno,
 e l’astio rovinoso, da parte, e la concordia conciliatrice.
Di qui tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono:
 gli uomini e le fiere e i pesci e i virgulti;
 perché quanto esisteva prima, anche sussiste sempre; né mai
per causa di uno solo
d’entrambi, il tempo infinito resterà deserto.
 allá, theoi…
 ek d’osion stomáton kataren och eúsate peghén”
Dico queste parole d’una lingua morta,
di corpo incenerito, priva delle scorie
 putride dello scambio, dell’utile
come la lingua alta, irraggiungibile,
 come la lingua altra, oscura,
 della Pizia o la Sibilla
che dall’antro libera al vento mugghii, foglie,
come la formula introversa, transustanziante,
dell’unto attore, del sacrificante.
Voglio opporre così, da questo treppiede
del vulcano, in quest’ultimo momento,
all’ermetismo osceno e violento,
all’afasia del potere immondo,
 il sacro ermetismo d’una lingua scritta.
 Come s’oppose a me, vile Agamennone,
 il fiore più bello nato alla mia casa,
 la dolce Ifigenia ch’io, snaturato!,
 volli sacrificare alla lotta, all’ intrigo,
alla vittoria mia per il comando.
S’oppose, col suo volo d’angelo
 a capofitto, col terribile silenzio,
la ritrazione in un’oscura lontananza,
con l’apparente morte, la paraplegia inumana.
Lo voglio dire qua,
a parole chiare e nette,
 lo voglio dire alle pietre e al fuoco,
al vento e a questa nuova alba nel cielo, all’aurora
 che urge appresso: mia figlia Delia
così di me s’è giustamente vendicata.
 Vendicata? O non piuttosto ha voluto lasciare,
 con il suo precipitare nell’assenza,
 vuoto alla mia espansiva tracotanza,
 alla mia cieca, corposa violenza?
Perché, o noi crudeli, è così:
 chi muore per suo volere o d’altri
 è la sacrificale vittima, l’agnello bianco
 sopra la dura pietra, sotto la lama
 della nostra sopravvivenza.
 Così ogni tempo, ogni società ha ucciso
 il suo poeta: Vladimir tra i ghiacci e il fuoco
 d’un colpo di pistola; Federico
 tra gli ulivi e i cardi (splendeva,
 contro il nero dei fucili, dei colbacchi
 la sua camicia bianca, splendeva
 nella notte lo sciame nella lampada di lucciole);
 Pier Paolo tra l’immondizia e il fango
 d’un Getsemani, d’un desolato campo.
 Così le creature che in esilio vanno sulla luna,
che hanno rotto ogni legame
 col nostro linguaggio marcio e insensato.
Aaaaaah! Aaaaaaah!
 Pesano le nostre colpe sulle spalle
 come una plumbea Terra!
 […]
 Nell’età ferita e luminosa,
 fremente di lievito e di zagara,
 venni la prima volta a questo monte.
 Venni con la brigata d’allegria
 e di chiasso dei compagni,
 con il sorriso dolce di Pantea.
 Scendeva per la vallata
 il fiume rovinoso della lava,
 solenne piena di panico e d’incanto
 (torceva in un lamento, inceneriva
 la betulla, il cerro, il faggio,
 rovinava il muro a secco,
 la cisterna, la pergola,
 la casa tenera di rosa,
 giallo sopra quel mare nero.
 Torceva pel terrore il collo
e scalpitava il mulo,
 il cane si perdeva nei guaiti
 legato sotto il carro dei fuggenti).
Mi feci appresso a consolarla,
smarrita e tremula com’era
avanti allo spettacolo tremendo.
E avanti al fuoco, avvampando,
dissi del mio marasma, del mio fuoco.
Lei, dolce, si volse a consolarmi.
 Tutta una vita, Pantea amorosa,
 s’assume in un unico momento.
 La mia, in quell’antico,
 dolcissimo e solenne, di verità assoluta
 dentro la verità della natura
 Raccolsi e le offrii un verde
 tralcio di ginestra
 ch’ella conservò come segno
 e pegno d’un sacro giuramento.
 Pose quel ramo poi nella scatola
 di legno, bianco come avorio,
 scolpito da un pastore d’Eraclea,
che regalò, viatico e amuleto,
 a nostra figlia, a Delia,
nel giorno primo che diventò fanciulla
E ancora sul vulcano, davanti a te,
 Demetra sigillata dentro il manto,
madre e donna offesa,
incenerito e privo di poesia,
 sono questa volta in cerca
 d’un castigo, d’una quiete.
Dell’ultima verità, e indicibile.
 […]
 Alla luce viola dell’estremo raggio,
 alla luce spenta, voglio dire addio
 alle arpe senza suono, alle creature senza accento:
al fiore straziato, più che morto,
 al nardo, al gelsomino delicato
 reciso dalla mia, dalla furia del mondo;
alla madre tutta amore, alla madre tutta dolore.
 Io pago la mia follia, la mia fuga
 da voi, dal sacro accordo, dall’armonia.
 Quel tralcio di ginestra, fiore del deserto,
 che il deserto consola della vita,
 chiamatelo asfodelo, fiore della morte,
chiamatelo loto, fiore dell’oblio.
Dimenticatemi. Dimenticate l’Empedocle
feroce, l’Empedocle sacrilego.
 L’odio di me, di questo tempo odioso
 mi separa da voi, da voi già separate.
 Io vado, Pantea, vado figlia mia,
nella notte d’assenza come la tua,
vado dove finisce questo monte,
dove finisce questa terra,
vado dove comincia il fuoco
ch’ogni male assolve, purifica ogni colpa.
E questo il solo, il degno modo,
 mie perse figlie, di trovarvi.
 Di ritornare nel giardino vago,
 nella casa vostra di pietra e onore,
 alla serena mensa degli affetti.
 Addio.

Questi brani sono tratti dall’opera teatrale Catarsi, pubblicata dall’editore Sanfilippo di Catania e rappresentata nel 1989. La voce è quella di Empedocle.


foto Giovanni Giovannetti


Elogio della poesia
Intervista con Vincenzo Consolo


Lei, in un’altra occasione, mi disse di provare una sorta di soggezione verso la poesia. Eppure la sua scrittura narrativa sembra costantemente alimentarsene.

Difatti è così. Io intendevo soggezione nel senso di scrivere in versi. Anzi, io leggo più poesia che prosa. Una volta la distinzione tra poesia e prosa non esisteva. I poemi narrativi, ad esempio, erano romanzo e poesia insieme. Il genere romanzo è nato con la nascita della borghesia, con la laicizzazione del mondo. Il romanzo è, intendiamoci, un grande genere letterario. Basti pensare ai romanzi del Settecento e dell’Ottocento. Però, oggi più di ieri, credo che il narratore abbia bisogno di tornare alla poesia. In questo senso: questa scrittura laica che è la prosa si è enormemente impoverita e devitalizzata. I mezzi di comunicazione di massa ci spossessano sempre di più della lingua e, con la lingua, anche dei sentimenti. Ecco perché lo scrittore non può più praticare lo stesso tino di prosa di una volta. Deve farsi più guardingo, deve cercare di reagire. Credo che l’accento della prosa debba spostarsi sempre più verso la poesia, in senso esterno e formale e in senso intimo, di contenuto. Penso che per salvare il romanzo, questo genere lemerario che sta morendo, lo scrittore debba nutrirsi di poesia. I poeti sono la nostra salvezza, la nostra risorsa. La scrittura è sempre un fatto di linguaggio e nessuno più dei poeti ce ne indica la funzione.

La sua è una scrittura precisa, prosciugata… Si tratta di una sorta di concentrazione che è tipica della poesia.

La concentrazione viene  dal ritmo che io impongo, perché concepisco più di nella forma laica, distesa. Credo che sia giusto risacralizzare la scrittura, eliminando quel laicismo che oggi corrisponde esattamente a impoverimento e banalità. Detto altrimenti: c’è bisogno di dare alla parola una dignità più alta. Questa ce la può dare soltanto la contaminazione con la poesia.

 Lei ha scritto Lunaria, un’opera dedicata a Lucio Piccolo, ai poeti lunari, ai poeti. Qui c’è l’ombra della poesia..

 Ha detto bene: l’ombra della poesia… E, in qualche caso, c’è la forma se non la sostanza poetica. Il libretto mi pare significativo di questa crisi che sentivo della narrativa. Allora l’ho concepito in forma poetica e dialogica, approdando al teatro poetico. Il libro vuole essere polemico. La caduta della luna rappresenta l’allontanamento della poesia dal mondo. C’è il tentativo di far rinascere questa luna caduta in luoghi che bisogna scovare. La contrada senza nome, l’ho chiamata. Un luogo insondato, sconosciuto.

Qual è il rischio maggiore che corre la narrativa?

È il rischio della mercificazione. Avverto, in questi nostri anni, con la morte di una generazione di narra-tori, un mutamento grave: si vuol fare apparire come letteratura qualcosa che letteratura non è. Che, al massimo, somiglia alla letteratura. È un segno che lascia presagire un futuro terribile per la narrativa. Prima esisteva il livello commerciale, di consumo, della narrativa e quello letterario. Oggi si cerca di operare una mistificazione, facendo convergere i due livelli. La poesia, in questo senso, non è mercificabile, perché è irriducibile Si diceva prima che Lunaria è dedicata a Lucio Piccolo. C’è un capitolo, bellissimo, de Le pietre di Pantalica, in cui si ricorda, in termini indimenticabili, questo poeta.

Lei è d’accordo se dico che Piccolo è il poeta più importante che la Sicilia ci abbia dato in questo secolo?

Sono d’accordo. A rileggere insieme, ad esempio, Piccolo e Salvatore Quasimodo, credo che il vantaggio, se così possiamo dire, vada tutto per il primo. Piccolo ha avuto un solo torto: ha scritto poco. È morto relativamente giovane, ha esordito tardi, è stato molto critico verso le cose che scriveva. Se ne avesse avuto il tempo, egli ci avrebbe dato cose ancor più straordinarie. Per me, quest’uomo è stato importante. Mi ha insegnato a capire che cos’è la letteratura, la poesia. lo ho sempre ricordato che sono stati impor-tanti, mentre stavo in Sicilia, in questo luogo che sembra un deserto (ma dove, come in ogni deserto, ci sono le oasi), Piccolo e Leonardo Sciascia. Piccolo mi seduceva nei confronti della poesia, Sciascia nei confronti della prosa e della ragione. Io ho sempre cercato di oscillare tra questi due poli: quello orientale, barocco, e quello occidentale, illuminista.

 Come mai Piccolo fa così fatica a essere accettato e studiato? E un poeta poco letto, la sua opera non è stata più ristampata da molti anni.

 È vero. C’è stata, dal momento della sua scomparsa, una specie di cancellazione di questo grande poeta. Lo dico a disdoro della critica italiana. Quando Montale scoprì Piccolo e se ne occupò, da parte di molti si credette a una beffa del futuro Nobel a danno degli altri poeti. Poi, quando lo lessero e si accorsero che si trattava di un poeta vero e grande, non gli perdonarono, lui periferico (Piccolo abitava in una frazione di un minuscolo centro siciliano, il massimo della solitudine e dell’isolamento), di essere stato scelto da Montale. Anche critici eminenti e rispettabili, penso a Gianfranco Contini, fecero di tutto per cancellarlo. La società letteraria italiana (che io ormai preferisco chiamare azienda) penalizza chi considera periferico.

L’immagine vincente, allora, resta ancora quella di Quasimodo?

Certo. Quasimodo era più facile, più ‘esotico, nel senso che dava al mondo un’immagine della Sicilia che il mondo già credeva di conoscere. Ad esempio, quella grecità di maniera che gli svedesi amavano e concepivano. Che è del tutto falsa, finta. La grecità in Sicilia non esisteva più neanche ai tempi di Quasimodo. Esisteva, piuttosto, la violenza dei baroni. Più che di grecità, allora, bisognerebbe parlare di infamie storiche di tipo spagnolesco. I fanciulli lasciamoli ai nobili tedeschi. Detto questo, naturalmente, bisogna aggiungere che Ouasimodo ha scritto alcune belle poesie.

 Per restare in un ambito siciliano, mi piacerebbe conoscere il suo parere su Bartolo Cattafi.

Non ho amato molto Cattafi. Aveva qualcosa di turgido, di urgente, di incontrollato, di non castigato che mi disturbava. Mi disturbava anche la sua concezione della, vita, il nichilismo, il superomismo. Come persona era piacevolissima, benché ricalcasse troppo certi schemi da signore di campagna. Era una persona gentile.

Quali sono i poeti che ha amato e che ama di più?

Dante, innanzitutto, il Dante più petroso, più linguistico. Leopardi, la sua parola incandescente, nuda, terribile. Leopardi si è scarnificato fino in fondo nella propria scrittura. Poi amo Pascoli perché ci ha fatto scoprire la grandezza della poesia umile e quotidiana. Non era mai generico nel nominare l’oggetto, l’animale, la pianta. È stato un grande sperimentatore, sapientissimo. E poi Pasolini, Montale, Amelia Rosselli, Zanzotto. Proprio nel suo petel, nei suoi balbettii, si posa la splendida oscurità della poesia. E non voglio dimenticare Giorgio Caproni e Mario Luzi.

 Che tipo di rapporto pensa di aver avuto con la neoavanguardia?

lo andai a Palermo a seguire il celebre incontro del Gruppo 63. Per curiosità, innanzitutto. Allora, abitavo ancora in Sicilia. Andai, dunque, ma me ne ritrassi immediatamente. Quella sorta di azzeramento che loro tendevano a operare mi ripugnava un poco. I pensavo di praticare la letteratura dentro la tradizione letteraria. Amavo la sperimentazione di Gadda e di Pasolini. Per me, poi, il più grande sperimentatore del romanzo italiano è stato Giovanni Verga. Spesso le parole che ci giungono sono come svuotate, prive di senso, consumate. Come bisogna reagire? Noi riceviamo materiali che molto spesso subiamo passivamente. L’atteggiamento passivo nei confronti delle parole significa anche passività morale. Non ci chiediamo mai da dove ci vengano le parole e perché ci giungano in quel modo e in quel contesto. Il compito dello scrittore è di aprire queste parole e di vedere che cosa c’è dentro e quali sono le incrostazioni esterne. Gadda le faceva esplodere, ci metteva dentro la dinamite. La poesia, in questo senso, lo ripeto, ci potrà essere di grande aiuto.

a cura di Enzo Di Mauro

 Vincenzo Consolo è nato a Sant’Agata di Militello, in provincia di Messina, nel 1933. Ha pubblicato: La ferita dell’aprile (Mondadori 1963 – Einaudi 1977), Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi 1976 Mondadori 1987), Lunaria (Einaudi 1985), Retablo (Sellerio 1987), Le pietre di Pantalica (Mondadori 1988).

Foto Giovanni Giovannetti


IL LINGUAGGIO DI GUTTUSO

Vincenzo Consolo

Ci sono giorni, tremendi giorni d’inquiete primavere, di roventi estati senza fine, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza estrema, insopportabile. Un mondo – cieli tersi di cristallo, acque immote di basalto, terre spoglie di calcare – un mondo attonito per la tragedia che appena s’è conclusa o sospeso nell’attesa del disastro. È il mondo, la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, l’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta; è il dolore che impietrisce e intenebra la Madre, smarrisce il Fratello adolescente. Sì, nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o Andalusia, sopra i Golgota di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio e del riscatto; nelle sue Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie; nella sua Messina, sopra i tavolati degli Iblei, per la valle del Belice si sono succeduti i terremoti; per gli immensi fianchi della sua Etna sono colate le lave d’ogni tempo. Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e di fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di fuoco, ha avuto il potere di travolgere, di ridurre alla paura, al sonno, alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della comprensione, della capacità e del bisogno del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso. Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Acitrezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria – la Bagaria, la bagarria: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione -, un paese di polvere e di sole, di tufo d’oro e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di Mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro duro e inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo ultimo, mortale. La salvezza era solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione, di verità e di poesia. Verga peregrinò e s’attardò in «continente» per metà della sua vita con la fede in un mondo irreale, di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi ogni velo di errore, di illusione, perché scoprisse dentro sé il mondo «solido e intatto» della sua memoria, ch’era stato sempre lì in agguato, pronto a ghermirlo, a gettarlo giù dal cavallo dell’incoscienza sul terreno della crisi, a fargli ritrovare il suo linguaggio. E ripartendo dalle situazioni, dai luoghi estremi, dalle falde dell’Etna, da Tebidi, dalla cava presso Monserrato, partendo da creature minime, innocenti, da Nedda, Jeli e Rosso Malpelo, il rischio subito fu quello dell’«innesto» del naturalistico, del dialettale nel linguaggio appena ritrovato («…quei corsivi che “bucano” la pagina» dirà un critico). Ma poi, dalla casa del Nespolo, dalla lava solidificata d’una immemorabile tempesta che sconfina e scioglie nel mare infido e fatale di Acitrezza, il linguaggio uniformemente «irradiato» di dialettalità, si fa sicuro canto, melopea, si fa parodo e stasimo della tragedia dei Malavoglia, della tragedia umana. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono, o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo: forte, all’epoca. ‘intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava a lui davanti a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua apparenza e nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella «dimora vitale» di Bagheria, si trovò a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il Venti e il Trenta, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, con il suo campiere, e il contadino, decisa la volontà in ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò i morti di Riesi e di Gela, che fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel: colui che, da lì a qualche anno, salito su un aeroplano. avrebbe martirizzato Guernica l’inerme, Guernica l’innocente: preludio infame di più vasti martini, d’olocausti. Si stagliarono allora subito le «cose» di Guttuso nello spazio con una evidenza e una vita straordinarie, parlarono di realtà assoluta e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che «bucano» la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro singolare, inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è il suo Fantasticherie, è il manifesto, la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire. La quale comincia, per questo pittore tragico d’una terra tragica, col vasto poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva. ineluttabile al pari di un’avversa deità, di un «destino», che si presenta con la violenza di un vulcano. La Juga dall’ Eina è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un «utero tonante» – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi; vengono avanti come valanga ostinata e orgogliosa di vita, vengono con le loro azzurre falci. coi loro mossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix; vengono tutti, uomini e animali, vibranti di vitalità come le masse di Gericault. Dall’allesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’oflesa investe Favo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Coya, di Gongora, di Unamuno. La Fucilazione in compagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo di dolore e raccapriccio, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie vaganti all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio, Guttuso inchioda alla loro colpa, con questo scandalo, con questo manifesto, i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificale, benedivano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei di sempre, non era né la nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era, come nella Flagellazione di Piero, in cui si relegava in secondo piano il tema sacro e avanzava nel primo una conversazione filosofica o civile, nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, anche Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. «Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati […] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio per le loro idee…» scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana, voce rattenuta di dolore e di furore, la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. Tornava l’eroe alla terra delle madri, della memoria, per ritrovare senso e ragione nella follia della storia, trovare nuovo linguaggio, «nuovi doveri». «Io ero quell’inverno in preda ad astratti furori…» narrava. E sono, negli anni atroci della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagheria, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara.

In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte senza fine, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica disumana, dalla perenne paura del crollo e della fine. Una pagina di tale orrore e di tale pietà solo Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo (e in contrappunto Pirandello con Ciaula scopre la luna). E Malpelo è sicuramente il caruso piegato de La zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In tutto poi il peregrinare per il mondo: nell’affrontare temi «urbani», ampiamente storici, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo lin-guaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura, il terremoto nella valle del Belice. E La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, come gli antichi cortei funerari, la marcia verso un’acropoli di distruzione e di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dall’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da sicure mani, la lampada raggiante e allarmante di Guernica, sono le lampade alle finestre nella notte dell’incendio a Vizzini in apertura del Mastro don Gesualdo, e sono insieme il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche le realtà più estreme, più mude, più insopportabili, le realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo. Simbolo di una solare, guttusiana luce che ci aiuta a risalire il colle anche nella notte del disastro e dell’alienazione, della perdita del senso della realtà e della verità. Notte nella quale oggi stiamo vivendo.



Sant’Agata Militello, 16 agosto 1991

Pubblicato in forma diversa in Art e Dossier n.63 Giunti Editori.
Firenze dicembre 1991

Il sorriso dell’ignoto marinaio, acquaforte di Renato Guttuso.
autunno 1975

Enzo Sellerio: Fotografia e/o racconto. Vincenzo Consolo.

Deserto in piazza. E’ mezzodì

Ai primi paratori che in su le strade stendono archi di luminarie, montano cieli, gallerie d’abbagli; ai primi festoni d’agrifoglio e palle, ai primi abeti stralucenti dentro e fuori stande, upim, rinascenti,ai cordami d’oro e argento,alle scie e ai lampi, agli “intimi”scarlatti, e ai pellami, ai panettoni e ai cioccolati,ai whisky e agli spumanti, ai lotti, alle riffe, alle beneficenze, ai pippibaudi e alle carrà, a tutti i primi segni che dal cielo, dalla terra,dai muri, dalle vetrine e dai vetri opalescenti di tivù urlano e t’assillano (“Ma come, è già arrivato?!”), mi prende una malinconia, un’ansia che m’impedisce ogni decisione,ogni programma. Natale! È tempo di tornare. Giù al paese. Uffah! Sono vent’anni ormai che dura questa storia. Comincia per prima la mia consorte, subito tornati dalle ferie,dura, costante, a dirmi: «Bisogna prenotare il wagon lits, due cabine di seconda». Ogni mattina, per tutto settembre, ottobre, novembre e parte di dicembre. Arreso,mi decido. Mi reco alla Centrale.Una fila e una ressa che vien subito di girar le spalle e di scappare.Dopo ore, finalmente davanti all’impiegato. Che mi ride, beffardo:«Niente.Né di seconda né di prima. Fino al venti di gennaio.Vuole?». E ghigna. M’impone allora mia moglie di telefonare Deserto in piazza. È mezzodì al dottor Petruso, il mio compaesano, e chiedergli se ancora una volta può aiutarci, tramite l’autorità del suo ufficio, a trovare qualcosa,cuccette o anche solo posti a sedere. Un cacchio! Un viaggio alla ventura, all’assalto d’un treno speciale, carichi tutti e quattro di valigie e di pacchi di regali. «È l’ultima volta, l’ultima! Mai più!» urlo, all’impiedi nel corridoio. E i due figli ridono. Se apro la portiera e li butto giù dal treno, i due imbecilli, lo so cosa scrivono sui giornali: “Gesto d’un folle. Padre snaturato”.Con dodici ore di ritardo, scendiamo dal treno in un’alba gelida.Davanti alla stazione non c’è corriera, taxi, non c’è parente, amico o conoscente che ci possa portare su a quel disastrato paese arroccato sopra il monte: un deserto,e il freddo e il vento che ci sferzano e ci mordono. Arriva poi verso mezzogiorno un abusivo, assonnato,strafottente e pretende per la corsa, nella sua Mercedes funeraria,una cifra che non si chiederebbe a New York. Il paese, appena sopportabile d’estate, anche se privo d’acqua,fogne, anche col traffico, la polvere e il chiasso,in inverno è d’una desolazione senza scampo: freddo, livido, inospitale. Con la campagna intorno arida e brulla, punteggiata da scheletri di eucalipti,gravata dai fumi e dai miasmi che il vento africano, dalle ciminiere del gran complesso petrolchimico lì sulla costa, spinge sull’ altipiano . Quassù dove una volta cresceva rigoglioso il grano, pascolavano mandrie, stillava il miele.Esco prima di pranzo per una passeggiata, anche per togliermi di dosso il freddo della casa, che, appena costruita (abusiva, sì, come le altre qui in paese, ma so io i sacrifici che m’è costata.
E aggiungi le bustarelle, il pizzo,l’imposizione del geometra, dell’appaltatore),già si scrosta tutta, trasuda umido, fiorisce di muffe, di salnitro. Esco, e sono solo nel centro della via principale come un eroe western, solo in questo paese evacuato, fra mezzo a case con porte e finestre sbarrate. Bisogna aspettare il tardo pomeriggio, quando le prime luci palpitano in sul crepuscolo, perché la gente cominci a circolare, si aprano botteghe,circoli, salegiochi. E il paese subito s’affolla di placide signore impellicciate,di signori pallidi ed emaciati per ansie o insonnie prolungate, di sinistri ragazzotti in pelli nere caracollanti sopra motociclette. È a quell’ ora che nella tonda piazza, fra la chiesa e il municipio, fra le sedi dei partiti e i circoli, si sussurrano cifre da capogiro, da fortune, da patrimoni centenari: vinti o persi in una notte al tavolo clandestino di poker, chemin de fer o paesana zecchinetta.Il Natale scorso, mentre passeggiavo, sereno e svagato,la mia signora al braccio e i due figli ai lati, proprio in quella piazza, ecco che vedo irrompere improvvisa, sbucata non si sa da dove, una muta di giovani di pellame nero e di lucente casco. E subito sento esplodere un concerto di spari, ad assoli, a raffica. Il deficiente mio,spilungone com’è, saltella spiritato, batte le mani e grida felice:
«I botti, i botti!»; «Sta’ zitto, stronzo!» gl’intima la sorella. Schizzan fuori dal circolo, urlando, tre uomini che si tengono la pancia con le mani, stramazzano per terra. Il sangue,a fiotti, fa laghi sull’asfalto.La moglie mi sviene tra le braccia. Intanto, scoppiano di qua e di là, lanciati da piccoli banditi, castagnole. E insieme, dai grappoli di altoparlanti in cima al campanile, calano dolci sulla terra le note di Tu scendi dalle stelle…

Vincenzo Consolo

“Corriere della sera”, 21 dicembre 1990
La mia isola è Las Vegas 2012

Paesaggi di luce

di Vincenzo Consolo

Non sappiamo se esiste o possa mai esistere una scienza che studia la luce in rapporto ai luoghi (topofotologia?). Speriamo che non esista, che non possa mai esistere. Perché vogliamo (noi che temiamo le razionalizzazioni, la distruzione delle fantasie, la loro riduzione in mappe, grafici, numeri: ah quella luna profanata, la sua caduta, il suo mito, la sua fantasia frantumata! Ah le sue misure, i nomi dei suoi “mari”. “. dei suoi monti, dei suoi crateri!) vogliamo che luoghi e luci – luoghi bruciati, smaterializzati dalla luce – rimangano pur sempre mari o cieli su cui navighi solo la poesia.
 Luogo di luce, di incroci o giochi di luce è ad esempio quell’isola del Mediterraneo che si chiama Sicilia. Luce che si modula, cambia da capo a capo, da costa a costa, da montagna a montagna, da pianura a pianura. Abbiamo potuto constatare (o è stato un abbaglio?), percorrendo l’isola, che, oltrepassato il capo Gallo, improvvisamente la luce cambia, si fa diversa da quella del Tirreno; che aggirato il capo Peloro, a torre Faro, sopra il gorgo di Cariddi, diversa è la luce dello Jonio; e ancora diversa oltre gli Iblei, da Siracusa a Pachino, all’Isola delle Correnti; che luce sua è, diversa dalle luci dei mari e delle coste, quella della sconfinata landa desolata dell’interno, oltre la barriera delle Madonie e dei Nébrodi. E non è altra la luce rossastra, infuocata, fenicia o africana, di Mozia, del Lilibeo o Selinunte, da quella bianca e cristallina di Taormina, di Megara o di Ortigia, altra dalla luce nera di Catania e dell’Etna? La luce terrosa di Palermo da quella marina, acquorea di Messina? La luce delle Egadi da quella delle Eolie, delle Pelagie? Messina, la spirale del suo porto, lo iato, la fenditura dello Stretto…
 Visto dalla platea di Paradiso, o dalle acque stagne di Ganziri, visto dai palchi dei colli di San Rizzo, dal Faro Superiore o Castanèa delle Furie, è un teatro unico, fantastico, una rappresentazione senza fine dove si spiegano velari, si squarciano, s’involano; dove rifrazioni di lastre immateriali, d’invisibili specchi sciabolano, s’incrociano, si spezzano; dove piovono, s’ammassano gravi cascami d’astri sfaldati; dove sorgono illusioni, sortilegi, fate morgane, allucinazioni; dove a volte il mondo crudamente e crudelmente si denuda, mostra tutta la sua desolazione, la sua angoscia (il dolore assoluto, senza scampo dello sfondo d’una qualche Crocefissione d’Antonello).
E allor mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico, e affisso a un’eterna luce o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminabili e vani, scale, tra mezzo a cattedrali, regge di nuvole e di raggi. Mi pare quando che ho l’agio e il tempo di staccarmi d’ogni reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi nomi belli di villaggi o pel mio levarmi presto, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che mi fuga infine l’ombre i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, lo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo.
E se dallo Stretto andiamo  oltre il golfo, il capo di Milazzo, altro teatro, più vasto e più fantasioso vi si spiega: quello di Vulcano, Lipari, Salina, Filicudi, Alicudi …  Isole ora sfumate, lontane, fuggenti dietro cortine, velari, vapori, illusorie come Sirene; ora corpose, evidenti, reali, prossime e avanzanti sulle acque, con ali di meduse, pomici, alghe, fluttuanti come le Simplegadi. Andiamo verso il Tindari, i ricami delle rene, le acque morte, i giunchi velieri marciti sotto la sua rocca prominente. Questo il teatro che mi si parò davanti appena aperti gli occhi, questo il quadro, la memoria più antica e indelebile.
E cos’è allora la memoria d’un pittore nato sopra lo specchio di sommo sortilegio e sommo inganno, sopra l’occhio verde e tremendo di Gorgona, sopra la lastra versicolore, il vetro di Murano, sopra quel Mar Morto e quello Stige, quel cielo rovesciato, quel ceruleo abisso che è la Laguna, la natura più intima, la segreta sorgiva di quel mare che scorre e che si mesce allo Jonio, all’Egeo?
 Nato in una città invisibile, Stambul e Samarcanda riflessa dentro l’acque, madrepora vagante, sargasso stralucente, mamona che si dona e che si nega?
Nato in Venezia e lì imprigionato, nella marea che sale, nel cielo che s’abbassa, nelle acque e nelle brume smemoranti, che celano splendori, miracoli, potenze, ogni beltà, ogni arte? Nella città che sorge all’orizzonte, oltre le soglie, s’erge nei cieli della Luna, di Venere, del Sole, nel cielo delle Stelle, nel centro dei cerchi luminosi?

 Quali nei pleniluni sereni
Trivia ride tra le ninfe eterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vidi sopra migliaia di lucerne… (1)

 E possibile ancora memorare, dire, riportare tanto abbaglio, tanta viva sorgente d’ogni luce, d’ogni trasparenza? Solo per allusioni, per astrazioni, per ritmi, per intermittenze, per pulsazioni, per fotoni, per piani e fasci di luce, per accenni d’infinito, per tagli, lame di giallo, bianco, per fuochi intensi, per vermigli, per modulazioni di cieli, e di acque, per azzurri profondissimi, per altre arti e per altre nostalgie, per inusitate visioni forse è possibile.
Possibile, meravigliosamente ardita e luminosa fu la parola d’un Poeta fra luci e visioni d’altro mondo che ad ogni altro avrebbe tolto il passo, il fiato.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
  non si profonde che i fondi sien persi,
  tornan de’ nostri visi le postille,
debili sì, che perla in bianca fronte… (2)


(1) Dante,Paradiso, canto XXIII
(2) Dante, Paradiso, canto


Confini – Visività e configurazione nel reale.
1990 Fabbri Editore

Isole Eolie

La cuna del sogno, di Vincenzo Consolo

Quasi tutta l’estate dell’89 Leonardo Sciascia la trascorse a Milano, in un appartamento di via Solferino. Oltre che a dolorose, spossanti cure mediche, quell’uomo paziente e tollerante doveva anche sottoporsi a quotidiane, numerose incursioni di amici e conoscenti, me compreso. Era, insomma, Sciascia – coscientissimo dello stato e dello stadio della sua malattia (e già ne aveva dato, prima di ogni diagnosi medica, esatto ragguaglio nell’appena pubblicato Il cavaliere e la morte) e del suo prossimo fatale esito -, era nella situazione dell’Ivan Il’ic di Tolstoj, da lui del resto, e pour cause, citato nell’ultimo suo racconto, nella sua sotie: ci vedeva sfilare, noi tutti attori dell’assurda commedia che deve apparire la vita a chi dalla vita sa che si sta allontanando, che è sul punto di staccarsi, generosamente sopportando d’ognuno la maschera, il costume, la recitazione, le movenze, tutto il resto. Ma una mattina – una luminosa mattina di fine luglio, in una Milano semievacuata per le vacanze e restituita a una più tranquilla, fisiologica tensione – Sciascia poté assistere a un vero spettacolo: al cinema Odeon di via Santa Radegonda, al film di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso.
Nelle poltrone azzurre, al centro della vasta sala deserta di quell’elegante cinema in uno stile tra assiro-babilonese e liberty, lo scrittore, la moglie e un gruppetto d’amici assistemmo dunque a quella proiezione. Alla fine della quale, riaccesesi le luci, restammo muti e fermi ai nostri posti per la commozione che il film ci aveva dato, ma ancor di più per l’imbarazzo di fronte alla più profonda, e più evidente, commozione di Sciascia. Per il quale quella mattutina e privata proiezione era stata apparecchiata perché egli del film potesse scrivere. E ne scrisse, magistralmente, memorialmente e poeticamente, su un quotidiano (lo scritto, intitolato C’era una volta il cinema, con altri, è confluito poi nel libro Fatti diversi di storia letteraria e civile).
« Un uomo che sta oggi per varcare la fatidica soglia dei settant’anni e che i primi dieci – gli indelebili anni dell’infanzia – ha passato in un piccolo paese, isola nell’isola, della Sicilia interna, senza, in quei primi anni, mai allontanarsene, ha da inventariare ricordi ben diversi per quantità, qualità e significati, di quelli di ogni altro suo coetaneo che quei primi anni li ha passati in città più o meno grandi, in paesi affacciati al mare o toccati da strade e ferrovie di grande transito». Così esordiva. Ora (ma non possiamo prima non fare cenno a quella « fatidica soglia dei settant’anni » che il fato allo scrittore non concesse di varcare), nell’inventario dei ricordi di Sciascia c’è naturalmente anche il cinema (come c’è nell’inventario dei ricordi del giovane regista Giuseppe Tornatore o in quello di suo padre – volendo restare nell’ambito o nell’aura memoriale di un piccolo paese siciliano, che nel caso dei Tornatore è Bagheria, e volendo misurare il tempo per scansioni generazionali).
« … affiorò su un grande lenzuolo alzato in piazza con supporti di fortuna, il primo film che il paese avesse mai visto; … La macchina di proiezione funzionava ad acetilene: alla costruzione di una centrale elettrica nel paese avevano appena cominciato a lavorare. … Per l’elettricità, o in coincidenza col suo avvento, finì nelle zolfare il lavoro minorile, finì l’impiego di asini e muli per la molitura di zolfo e salgemma, l’acqua zampillò dalle pompe invece che venir su secchio a secchio; … E venne il cinematografo. Il piccolo, delizioso teatro comunale diventò (e ne ebbe lenta devastazione) cinema. … Si era, credo, nel 1929. Non ricordo con quale film si inaugurò il cinema: ma ne rivedo, vago e intermittente come nei sogni, dei primi piani con la faccia di Jack Holt ».
La memoria, i ricordi. Quanto più lontani nel tempo, tanto più frammentati, intermittenti come i sogni, come fotogrammi isolati di un film: la memoria come il sogno; il sogno come il film. E quello raccontato da Giuseppe Tornatore con Nuovo Cinema Paradiso non è che la memoria, il sogno del cinema di un fanciullo di un’estrema periferia. O meglio, il sogno, crediamo, del padre del regista trentatreenne, ché l’epoca in cui il film si colloca – come si legge anche nella citazione di una certa filmografia popolare – è del secondo dopoguerra, degli anni all’incirca a cavallo tra il ’50 e il ’60. Rispetto ai quali, un decennio più indietro è collocata anche la mia memoria del cinema (se posso pretestuosamente affiancare memoria a memoria, sogno a sogno). E mentre la memoria riporta Sciascia, con gli esordi e i primordi del cinema a Racalmuto, all’avvento dell’elettricità che libera il paese da tante fatiche e penurie sociali, da tante schiavitù e da immemorabili paure (avvento che avrebbe meritato giusta celebrazione con la messa in scena, al teatro comunale, del famoso ballo Excelsior con i suoi « quadri » de Il genio dell’elettricismo e degli Effetti della Elettricità), la memoria del cinema, dei primi film visti al mio paese sul finire degli anni Quaranta – La corona di ferro e Luciano Serra pilota, Maddalena zero in condotta e Agguato sul fondo, L’eredità dello zio buonanima e San Giovanni decollato -, con i fotogrammi raccattati sotto la finestra della cabina di proiezione del cinemino dell’oratorio dei Salesiani, la memoria mi riporta al tempo dell’arrivo delle truppe americane in paese, periodo in cui, agli spezzoni di pellicola incendiata per gioco si sovrappone l’incendio di polvere da sparo o di miccia bianca e a strisce come tagliatelle, che i soldati, assieme a cartucce e ad altri ordigni micidiali, lasciavano nei luoghi dei loro accampamenti a disposizione di noi ragazzi, per i nostri giochi proibiti.
Di sogni parlavamo. Se da Bagheria – o da Giancaldo, come il paese è chiamato nella sceneggiatura qui pubblicata – e da Racalmuto ci spostiamo verso più grandi città, verso capitali e centri di cultura come Parigi o Vienna; se dal 1929, o dal ’50 o ’40, andiamo indietro nel tempo fino al 1895, vediamo che l’equivalenza film-sogno non è poi così forzata o peregrina: il 1895 è l’anno della nascita, dal padre Louis Lumière, del cinema (del 1899 è L’affaire Dreyfus di Méliès, il primo lungometraggio della storia del cinema); il 1895 è l’anno della nascita, dal padre Sigmund Freud, della psicanalisi (in quest’anno lo scienziato pubblica Studi sull’isteria e cinque anni dopo L’interpretazione dei sogni). Casualità, certo, coincidenze, ma che ci servono intanto ad avvalorare quanto noi vogliamo credere. E pur rischiando di scivolare in psicologismi e in sociologismi d’accatto, non possiamo non dire quanto sia stato socialmente o psicologicamente salutare, più che nelle grandi città, in piccoli paesi come quelli siciliani, dalla vita sociale difficile, accidentata, un sogno vissuto collettivamente come il cinema (il cinema che subentrava così all’opera dei pupi o al contastorie); in paesi in cui le uniche occasioni di comunicazione sociale erano le feste religiose o le elezioni politiche (quando si celebravano).
« Buona sera a tutti! » saluta a voce alta il 1° Vecchio entrando al cinema; e il 2° Vecchio: « Bona salute a tutti! »; e il Pubblico: « Ssssssss! Ssssssss! Silenzio! »; e i Bambini: « Aurr! Aurrrrrr! » facendo il verso al leone della Metro Goldwyn Mayer che ruggisce dallo schermo; e un signore, dalla galleria, che sputa in platea, mentre, di rimando, Voce platea che gli urla: « Cornuto!!! ». E si potrebbe continuare con gli esempi di comunicazione esilarante e liberatoria, dentro il cinema, fuori, nella piazza del paese.
Di cosa parla questa sceneggiatura, questa trama del film di Tornatore? Parla della storia di un cinema di paese, il Cinema Paradiso, distrutto da un incendio, e del ricostruito Nuovo Cinema Paradiso. Ma parla insieme della storia del cinema vista dall’angolazione di una piccola comunità meridionale, che è insieme storia della comunità stessa e storia di singole vite umane: dell’operatore Alfredo che, per l’incendio del cinema, diviene cieco; storia del piccolo Salvatore, orfano del padre disperso in Russia, e della madre, della sorella, dei compagni di scuola… Storia soprattutto dell’educazione sentimentale del bambino protagonista, della nascita del suo « sogno » cinematografico e, cresciuto, del sogno d’amore per Elena: due sogni, sembra dire il regista, in conflitto, dove uno dei due deve soccombere, deve essere sacrificato. E Salvatore, per istigazione di Alfredo – sostituto padre del bambino, guida e maestro di vita e di arte, cieco veggente che scopre nell’apprendista vocazione e talento -, di Alfredo che ambisce a far passare il protagonista dal ruolo artigianale di distributore di sogni (operatore) al ruolo artistico di creatore di sogni (regista), Salvatore sacrifica, in apparenza per fortuito caso, per un involontario mancato incontro con Elena, il sogno d’amore e parte, lascia la famiglia, gli amici, il paese, l’isola e si trasferisce a Roma dove realizzerà il suo sogno d’arte, diventerà regista stimato e affermato. Ritorna, il nostro eroe, nei luoghi della sua infanzia, dopo trent’anni, per assistere ai funerali di Alfredo; ritorna per raccontarci, in una lunga digressione, in totale flash-back, la sua storia, la storia del Nuovo Cinema Paradiso, della sua fine, della fine del cinema.
Una narrazione, questa di Tornatore, altamente metaforica (sta in questo, crediamo, il segno della sua autenticità, della sua universalità), dal tono lirico-evocativo continuamente controllato dall’ironia, aperto spesso a soluzioni, ed invenzioni poetiche. Ma è insieme un racconto di tristezza, di rimpianto per un mondo, per una società che sta perdendo o che ha già perso la capacità e il bisogno, dentro la notte della sala cinematografica, di sognare collettivamente, di ricreare, con l’immaginazione, capire e riscattare, attraverso quelle ombre che si muovono sopra il lenzuolo bianco, la vita. Una società che sta perdendo la notte, il buio, la grotta Platonica dove, sulla parete, nascono le ombre, le illusioni, i sogni, illuminato com’è ormai tutto il nostro tempo da una continua, lattiginosa, elettronica luce indifferente.
In quel giorno di luglio, in quel cinema Odeon di Milano, dove ho assistito con Sciascia alla proiezione del film Nuovo Cinema Paradiso, al riaccendersi delle luci in sala, ho letto, sopra la cornice del grande schermo bianco, questa scritta: « EX TAENEBRIS VITA».
Tenebra, notte come cuna del sogno, del cinema, dell’arte. Arte come memoria, come proiezione della vita.

Milano, 15 aprile 1990