Il sorriso dell’ignoto marinaio e L’ipotesto di libertà.

GUIDO BALDI

Università di Torino

II saggio si propone di esaminare i punti di contatto tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e la novella Libertà (evidentemente presa da Consolo come punto di riferimento), e al tempo stesso le divergenze nell’impostazione del racconto, che risalgono ai diversi orientamenti ideologici dei due scrittori nei confronti della materia, una rivolta contadina. Se in Verga si registra un atteggiamento fermamente negativo verso la sommossa e le sue atrocità, temperato solo dalla pietà per i contadini diseredati, in Consolo invece si nota la volontà di comprenderne le ragioni. Non solo, se in Libertà la rappresentazione appare scarsamente problematica, a causa dell’atteggiamento dell’Autore che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un unica direzione, Consolo conferisce problematicità al racconto grazie all’uso dei punti di vista e delle voci, giocati abilmente a contrasto.

  1. GLI ANTECEDENTI DELLA SOMMOSSA

Alla base del romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976), si colloca una rivolta contadina, quella scoppiata il 17 maggio 1860 in un piccolo paese sui monti Nebrodi, Alcara Li Fusi, provocata come in Libertà,(1) dalle speranze e dalle illusioni nate all’arrivo dei garibaldini in Sicilia. Ma rispetto a Libertà si registra una differenza sorprendente: la sommossa non viene rappresentata. Il romanzo ruota intorno a un vuoto, a una clamorosa ellissi narrativa, che non può non sconcertare il lettore, deludendo le sue attese, specie se si accosta al testo avendo nella memoria quello famoso di Verga. Eppure tutto il congegno narrativo del romanzo, nella sua prima parte, prima di arrivare al momento decisivo, fa supporre che la rappresentazione della rivolta debba essere il culmine del racconto, il suo punto di convergenza centrale, la sua Spannung. Al capitolo terzo, il folle eremita che vive in una grotta sulla montagna incontra nello spiazzo della forgia a Santa Marecùma un gruppo di fabbri e pastori, “omazzi rinomati per potenza di polso e selvaggiume», (2)dai nomi “grottescamente eloquenti di briganti più che di uomini, simili agli antichi epiteti che si davano ai diavoli”

(1) I rimandi alla novella verghiana nel romanzo sono numerosi, pertanto essa, per usare la terminologia genettiana, ne viene a costituire l’ipotesto (GERARD GENETTA. Palinsesti La Letteratura al secondo grado, trad. it.Torino, Einaudi, 1997).

(2) Tutte le citazioni sono tratte dalla seconda edizione del romanzo, Milano, Mondadori, 1997, che reca un’importante Nota dell’autore, vent’anni dopo.

(come nota finemente Giovanni Tesio nel suo commento), (1) «Caco Scippateste Car-cagnintra Casta Mita Inferno Mistêrio e Milinciana», intenti a oliare fucili arrugginiti, a fondere piombo, a riempir cartucce, a ritagliare proiettili, a molare falci, accette, forconi, zappe, coltelli, forbicioni. La scena è interamente colta attraverso il punto di vista dell’eremita, che, se a tutta prima crede di essere capitato all’inferno, pur nella sua esaltazione ha l’intuito pronto e capisce che vi è qualcosa di strano e sospetto in quell’armeggiare. Le stesse risposte dei presenti all’ eremita sono ammiccanti e allusive: alla sua domanda se intendono scannare maiali, rispondono: «- Porci di tutti i tempi, frate Nunzio – Ce n’è tanti – Tanti – Stigliole salsicce soppressata coste gelatina lardo, ah, l’abbondanza di quest’anno”; poi all’altra domanda se l’indomani pensano di fare festa a San Nicola, affermano: «Saltiamo questa volta, frate Nunzio. Non vedete quanto travaglio? […) Faremo festa per il giovedì che viene – Festa – Festazza […J – Scendete dall’eremo, frate Nunzio, e vedrete -». Il clima infernale che avvolge la scena potrebbe far supporre, nell’Autore, l’intento di usare immagini fortemente connotate e subliminalmente suggestive per mettere in risalto il carattere demoniaco della rivolta e così condizionare la reazione emotiva e il giudizio del lettore in una precisa direzione (come avviene in Libertà con la «strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie», che sta innanzi ai rivoltosi ubriachi di sangue); in realtà non si ha nulla del genere: al contrario, usare il punto di vista di un folle delirante, al quale va tutta la responsabilità dell’immagine, ottiene un effetto straniante, per cui l’adunanza dei futuri rivoltosi che preparano le loro armi assume un carattere di fervore gioioso, e la deformazione espressionistica della rappresentazione fa sentire la forza latente e la rabbia repressa che cova in quei diseredati in vista della prossima rivolta. Cosi le immagini gastronomiche da loro usate non hanno il valore delle allusioni verghiane alla ferocia cannibalica della folla affamata, anch’esse cariche di un pesante giudizio sull’ atrocità delle stragi dissimulato nella trama segreta del racconto, ma possiedono qualcosa di pantagruelicamente allegro. Infine le allusioni alla rivolta come festa non hanno nulla a che vedere con il «carnevale furibondo di luglio» di Libertà, ma fanno pensare a uno scatenamento liberatorio di quella forza e di quella rabbia.

Arrivato sulla piazza del paese, l’eremita vede che la caverna piena di gente rovescia per la porta aperta uno sfavillio di luce, «come antro di fornace» (un rimando interno alla forgia di prima), insieme a voci e urla. Da un gruppo che siede sul sedile di pietra, composto dal lampionaio, dall’usciere comunale, dall’inserviente del Casino dei galantuomini e dal sagrestano, il frate apprende il motivo di quella baldoria:

– Un tizio chiamato Garibardo

– Chi e ‘sto cristiano?

  • Brigante. Nemico di Dio e di Sua Maestà il Re Dioguardi. Sbarca in Sicilia e avviene un    quarantotto…

– Scanna monache e brucia conventi, rapina chiese, preda i galantuomini e protegge       avanzi di galera

– Questi vanno dicendo che gli da giustizia e terre…

Segno rapido di croce, mani giunte, capo chino e masticare un sordo paternostro

A differenza di Verga, che avvia la narrazione della sommossa in medias res, saltando tutti gli antefatti e partendo con il racconto dei primi atti compiuti dai rivoltosi, il romanzo di Consolo indugia sugli antefatti, sul come il diffondersi delle notizie sullo sbarco

  • VINCENZO CONSOLO, Il sorriso dell’ignoto marinaio, a cura di Giovanni Teso, Torino, Einaudi 1995, p 63, nota 19

di Garibaldi ecciti gli animi dei diseredati e persino, come si è visto, sulla preparazione delle armi per i futuri eccidi. L’impostazione sembra voler insinuare nel lettore l’attesa di ciò che dovrà accadere, la convinzione che la rivolta sarà allo stesso modo diffusamente rappresentata, quasi a rendere poi più sconcertante la delusione delle aspettative. Nel passo citato le notizie dell’arrivo dei garibaldini e delle reazioni da essi provocate sono date attraverso il punto di vista degli uomini d’ordine, che stanno dalla parte dei signori e guardano con esecrazione e paura gli avvenimenti. In Libertà il punto di vista conservatore sul processo risorgimentale è riportato solo mediante un rapido accenno, l’uso spregiativo del verbo «sciorinarono» riferito al tricolore, qui invece quel modo malevolo di interpretare l’impresa dei Mille è proposto con ampiezza, evidentemente per mettere in piena luce una gretta chiusura dinanzi a ogni avvisaglia di cambiamento sociale che dall’alto si irradia verso il basso, contagiando anche i satelliti della classe padronale, come questi modesti paesani che stanno a chiacchierare in piazza.

Quello che nella novella verghiana era un rapido moto di disappunto dell’Autore dinanzi alla sordità dei «galantuomini» ai valori patriottici, qui si fa aperta polemica, ma più contro la chiusura sociale dei conservatori che quella politica. È chiaro da che parte sta lo scrittore.

Ancora al capitolo quinto si ha un’ampia narrazione di un momento preparatorio della sommossa, il raduno dei rivoltosi sempre nella conca di Santa Marecúma, la sera precedente il giorno fissato. Giungono tre uomini a cavallo, due «civili» e un capo dei braccianti, che sono i capi della rivolta e tengono i loro discorsi alla folla. Grazie ad essi si delineano non solo le motivazioni dell’insurrezione, ma anche le correnti per cosi dire ‘ideologiche’ che l’attraversano. Mentre in Libertà non emergono figure di capi e i contadini sono presentati come una massa spinta da impulsi ciechi e del tutto spontanei, una collettività indifferenziata in cui vi è una perfetta unità di intenti nella pura esplosione di rabbia selvaggia e di irrazionale furia distruttiva (tanto che viene escluso dal racconto il dato storico dell’avvocato Lombardo, l’ideologo e l’organizzatore del moto), qui Consolo ha cura di presentare le varie tendenze che, almeno nei capi, si profilano tra la collettività rurale. Don Ignazio Cozzo, borghese e sommariamente “alletterato”, cioè almeno capace di leggere e scrivere, rappresenta la tendenza a conciliare le spinte più radicali e le posizioni più moderate: il fine ultimo è una conciliazione delle istanze di giustizia sociale, rivolte contro l’oppressione della classe dei proprietari, con il riconoscimento delle autorità istituzionali, monarchia e Chiesa. Con tutto questo, l’oratore sa toccare le corde più sensibili dell’uditorio, facendo leva sui suoi impulsi più violenti, e invita a non farsi fermare da «pietà o codardia», perché grande è la «rabbia«, dopo anni di «sopportazione”, ordinando a ciascuno, al segnale stabilito, «Viva l’Italia!«, di scagliarsi «sopra il civile che si troverà davanti«. Poi, sempre come spia del relativo moderatismo di questa tendenza, l’oratore da appuntamento a tutti, a mezzanotte, per un solenne giuramento sopra il Vangelo, davanti a un ministro di Dio, il parroco del Rosario.

A contrastare questa linea insorge l’altro oratore, non un borghese ma il capo dei braccianti, Turi Malandro, che rappresenta le tendenze più estremistiche del movimento. Innanzitutto rifiuta il grido di «Viva l’Italia!« come segnale della sommossa, proponendo invece «Giustizial»: all’impostazione istituzionale, patriottica, contrappone quella sociale, eversiva dei rapporti di proprietà, perché giustizia in quel contesto significa sostanzialmente redistribuzione della terra. Una linea dura e spietata prospetta anche per l’azione: avverte che sarà facile lo «scanna scanna pressati dalla rabbia», il difficile verrà dopo, quando «il sangue, le grida, le lacrime, misericordia, promesse e implorazioni potranno invigliacchire i fegati più grossi. Non bisogna dunque cedere alla pietà: «Se uno, uno solo si lascia brancare da pena o da paura, tutta la rivoluzione la manda a farsi fottere». Se in Libertà la ferocia senza pietà dei rivoltosi era solo effetto di rabbia spontanea e di odio accumulato contro gli oppressori, qui la violenza non appare cieca, ma preordinata, teorizzata, ideologizzata, Non si ha una massa irrazionale, ma una forza organizzata, indirizzata verso obiettivi precisi, consapevole dei propri strumenti di lotta. In entrambi i casi gli atteggiamenti ideologici degli Autori verso la massa popolare, le posizioni conservatrici di Verga e quelle di sinistra di Consolo, non condizionano solo le tecniche narrative della sua rappresentazione, ma determinano la fisionomia stessa dell’oggetto rappresentato.

Il borghese don Ignazio sa muoversi con destrezza in questo dibattito con il suo contraddittore più estremista: accetta la parola d’ordine «Giustizia!», declassandola però a puro segnale convenzionale, al pari dell’altra, «Viva l’Italia!», Si allinea sulle posizioni anticlericali del capo bracciante, proclamando: «Siamo contro il Borbone e i servi suoi, ma anche contro la chiesa che protegge le angherie e i tiranni», ma distingue tra i preti «amici e soci degli usurpatorio e preti liberali come il parroco del Rosario. Insinua poi ragioni di opportunità, in quanto il prete è parente di un capitano che segue Garibaldi, e i rivoltosi non possono fare a meno della protezione dei garibaldini, che sono in grado di legittimare il loro operato agli occhi del mondo.

Ultimo preannuncio della sommossa è alla fine del capitolo l’incontro del gruppo di braccianti e pastori nel paese con un «civile», il professor Ignazio, figlio del notaio don Bartolo, il più odiato dei notabili, che alloro passaggio getta loro provocatoriamente in

Faccia i suoi scherni («Ah, che puzzo di merda si sente questa sera.»), ai quali fa eco, ripetendo le stesse parole, il figlio quindicenne. Tutti impugnano i falcetti, le zappe e le cesoie, pronti alla reazione violenta, ma uno di essi, più padrone di sé, riesce a conte nerne l’impeto, invitandoli a portare pazienza sino all’indomani. E il gruppo prosegue con i denti serrati, soffiando forte dal naso «per furia compressa e bile che riversa», È l’ultima immagine della rabbia che sta per esplodere.

2. L’ELLISSI NARRATIVA

A questo punto, dopo così ampi indugi preparatori, il lettore si sente legittimato ad aspettarsi subito dopo il racconto dettagliato della sommossa, Invece non trova nulla del genere: il capitolo successivo è costituito da una lunga lettera del barone di Mandralisca, già protagonista del primo, secondo e quarto capitolo, che per le sue ricerche di naturalista si è trovato sul luogo degli eventi e mesi dopo, a ottobre, scrive all’amico Giovanni Interdonato, procuratore dell’Alta Corte di Messina che dovrà giudicare gli insorti scampati alla fucilazione sommaria, come preambolo a una memoria che intende compilare sui fatti di Alcara. E evidente allora che il principale problema interpretativo proposto dal Sorriso dell’ignoto marinaio è capire le ragioni di questa clamoroSa ellissi narrativa e la sua funzione strutturale nell’economia dell’opera.

La lettera del barone è il centro ideale del romanzo, e in essa si possono rinvenire le ragioni dell’ellissi, del fatto che lo scrittore rinunci sorprendentemente alla rappresentazione della rivolta popolare, II Mandralisca vorrebbe narrare i fatti come li avrebbe narrati uno di quei rivoltosi, e non uno come don Ignazio Cozzo, «che già apparteneva alla classe de’ civili», ma uno «zappatore analfabeta». In questo proposito dell’aristocratico intellettuale si può intravedere un’allusione alla tecnica abituale delle narrazioni verghiane  incentrate sulle «basse sfere», che consiste proprio nell’adottare una voce narrante al livello stesso del personaggi popolari (tecnica peraltro solo parzialmente applicata in un testo come Libertà, par dedicato a una sommossa contadina, poiché per buona parte il narratone terno al piano del narrato è portavoce dei «galantuomini»).

Ma il barone, che qui diviene il narratore in prima persona (con un passaggio al racconto omodiegetico, mentre i capitoli precedenti erano affidati a un narratore eterodiegetico), scarta decisamente questa possibilità: «Per quanto l’intenzione e il cuore siano disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo, Ed è impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta». Qui chiaramente il barone è alter ego e portavoce dell’Autore stesso: se ne può dedurre facilmente che Consolo rinuncia a narrare la sommossa perché è convinto che una simile operazione, condotta da lui, intellettuale borghese, viziato nella sua visione dalla sua posizione di classe, dalle «storture» che le sono connaturate, sarebbe un «impostura», non sarebbe in grado di riprodurre le ragioni che hanno determinato l’evento, anzi ne tradirebbe inevitabilmente il senso, risolvendosi in una mistificazione. Il barone rintuzza poi l’obiezione che ci sono le istruttorie, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze: «Chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere»; e anche se esistesse uno strumento meccanico capace di registrare quelle voci, come il dagherrotipo fissa le immagini, «siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta: poi che noi non possediamo la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi», e non solo sul piano linguistico: «Oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere e del sentire e risentire di tutta questa gente?»

Il discorso del barone passa poi a toccare un altro punto di centrale rilevanza, strettamente legato al precedente: l’impossibilità per i privilegiati, anche per quelli «illuminati», di condividere i valori fondamentali, soprattutto quelli politici e culturali, con le classi subalterne. Essi ritengono come unico possibile il loro codice, il loro modo di essere e di parlare che hanno «eletto a imperio a tutti quanti «Il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia e quello d’un’utopia sublime e lontanissima…». Per questo la classe dominante parla di rivoluzione, libertà, eguaglianza, democrazia, e riempie di quelle parole libri, giornali, costituzioni, leggi, perché quei valori li ha già conquistati, li possiede. Ma le classi subalterne sono estranee a quei valori, non possono parteciparli: «E gli altri, che mai hanno raggiunto i dritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro?». Quei valori non possono essere semplicemente calati dall’alto: le classi subalterne devono da sole conquistarseli, e allora «li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocotorza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose»; e allora «la storia loro, la storia, la scriveran da sé, non io, non voi, Interdonato, o uno scriba assoldato. tutti per forza di nascita, per rango o disposizione pronti a vergar su le carte fregi. svolazzi, aeree spirali, labirinti…* Quindi, per il barone, il riscatto dei subalterni varrà a riscattare gli stessi privilegiati, ridando verginità e sostanza autentica a valori che rischiano di ridursi, nelle loro mani, a meri flatus  vocis inconsistenti o a vacue ornamentazioni retoriche. Se gli intellettuali non possono non mistificare la storia degli oppressi con la loro scrittura, la scrittura autentica di tale storia non potrà essere che degli oppressi stessi, quando avranno conquistato gli strumenti concettuali attraverso l’istruzione e l’emancipazione dalla loro subalternità.

Risulta evidente, da tutte queste riflessioni del barone di Mandralisca, e dietro di lui dello scrittore, la distanza ideologica che, sul tema comune della rappresentazione di una rivolta contadina, separa il romanzo di Consolo da Libertà. Verga, dal suo punto di vista di conservatore deluso e pessimista, registra con la sua gelida oggettività, che tradisce una desolata amarezza, l’estraneità dei contadini ai valori risorgimentali, il loro ridurre l’ideale di libertà alla semplice redistribuzione della proprietà della terra. Consolo invece, da una prospettiva storica che, grazie alla conoscenza dell’ampio dibattito intervenuto nel frattempo, ha ben chiari i limiti del Risorgimento, specie nei suoi riflessi sul Mezzogiorno, e soprattutto considerando la rivolta contadina da tutt’altra angolatura, quella dell’intellettuale di sinistra, arriva a comprendere le motivazioni profonde di quella estraneità e a giustificarla storicamente e socialmente. Non solo, ma in chiave di materialismo storico attribuisce agli aspetti materiali, cioè proprio alla terra, un peso determinante rispetto agli ideali astratti. Il barone nel 1856 aveva partecipato ai moti patriottici di Cefalù, ed ora rievoca le figure degli eroi e dei martiri che allora avevano dato la vita per la causa: «Io mi dicea allora, prima de’ fatti orrendi e sanguinosi ch’appena sotto comincerò a narrare, quei d’Alcara intendo, finito che ho avuto questo preambolo, io mi dicea: è tutto giusto, è santo. Giusta la morte di Spinuzza, Bentivegna, Pisacane… Eroi, martiri d’un ideale, d’una fede nobile e ardente». Però ora, sotto l’impressione sconvolgente della sommossa di Alcara, è assalito da dubbi: «Oggi mi dico: cos’è questa fede, quest’ideale? Un’astrattezza, una distrazione, una vaghezza, un fiore incorporale, un ornamento, un ricciolo di vento.. Una lumaca.” La lumaca, l’oggetto dei suoi studi eruditi e futili, è assunta dal barone come immagine del vuoto sterile di una cultura di classe c, nella sua forma a spirale(1) che si chiude su se stessa, «di tutti i punti morti, i vizi, l’ossessioni, le manie, le coartazioni, i destini, le putrefazioni, le tombe, le prigioni… Delle negazioni insomma d’ogni vita, fuga, libertà e fantasia, d’ogni creazion perenne, senza fine». Per cui alla lumaca contrappone ciò che è solido e concreto, la terra: «Perché, a guardar sotto, sotto la lumaca intendo, c’è la terra, vera, materiale, eterna: e questo riporta il suo pensiero alla rivolta dei contadini: «Ah la terra! È ben per essa che insorsero quei d’Alcàra, come pure d’altri paesi, Biancavilla, Bronte, giammai per lumache», cioè per ideali astratti e retorici.

Inoltre, mentre il pessimismo induce Verga a essere profondamente scettico su una diversa organizzazione della società, e quindi a convincersi che un’eventuale redistribuzione della terra porterà comunque allo scatenarsi della lotta per la vita e a nuovi sopraffattori, scaturiti dalla massa popolare stessa, che si sostituiranno agli antichi, Consolo per bocca del suo aristocratico illuminato prospetta come una conquista determinante l’accesso dei contadini alla terra, nella prospettiva di una distruzione della proprietà privata, «la più grossa, mostruosa, divoratrice lumaca che sempre s’è aggirata strisciando per il mondo», distruzione che il barone vagheggia rifacendosi alle idee di Mario Pagano e di Pisacane, citato testualmente: «Il frutto del proprio lavoro garantito; tutt’altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza che la Natura ha pronunciato per bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa». Se Libertà ha alla base la negazione di ogni possibilità di progresso, dalle

  • Sull’importanza della figura della spirale nel romanzo si veda CESARE SEGRE, La costruzione a chioccola del «Sorriso dell’ignoto marinaio» di Consolo, in IDem, Intrecci di voci La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino. Einaudi, 1991, pp 71-86. Per una complessa interpretazione in chiave antropologica, si rimanda a Giuseppe Traina,  Vincenzo Consolo, Fiesole, Cadmo, 2001, pp. 60 sgg

parole del barone risalta una ferma fiducia nel progresso, in senso sociale, come riscatto delle masse oppresse ad opera delle masse stesse, capaci di distruggere il sistema iniquo della proprietà privata avviando a una totale rigenerazione del mondo: «Per distruggere questa i contadini d’Alcàra si son mossi, e per una causa vera, concreta, corporale: la terra: punto profondo, onfalo, tomba e rigenerazione, morte e vita, inverno e primavera, Ade e Demetra e Kore, che vien portando i doni in braccio, le spighe in fascio, il dolce melograno…. E, in questo proiettarsi in un futuro ritenuto possibile, la cui immagine lo esalta, la sua prosa diviene lirica, enfatica, infarcita di rimandi classici e mitologici, tradendo la sua natura di letterato: la scelta stilistica dello scrittore, che mima lo stile del personaggio stesso, vale a denunciare, mediante un processo di distanziamento e di straniamento, quanto di cultura aristocratica ed elitaria permanga nel nobile, nonostante la sua apertura ideologica, quindi a sottrarlo a ogni rigidezza esemplare e apologetica, a presentarlo in una luce critica (ma su questo dovremo ritornare).

Per la presa di coscienza dell’impossibilità di narrare i fatti di Alcara, «se non si vuol tradire, creare l’impostura», al barone «è caduta la penna dalla mano»: rinuncia pertanto all’idea di stendere quella memoria sullo svolgimento della sommossa che intendeva sottoporre all’amico Interdonato, procuratore dell’Alta Corte. Si limita a invitarlo ad agire «non più per l’Ideale, si bene per una causa vera, concreta», «decidere della vita di uomini ch’ agiron si con violenza, chi può negarlo?, ma spinti da più gravi violenze daltri, secolari, martiri soprusi angherie inganni. ». Ed in effetti il procuratore, rispondendo alla sollecitazione dell’amico, manda liberi i rivoltosi per amnistia, con un’ardita interpretazione di una legge del governo dittatoriale che assolveva da delitti commessi contro il regno borbonico. Evidentemente è significativa questa soluzione adottata da Consolo, se paragonata a quella di Libertà: Verga insiste sul processo in cui i rivoltosi, giudicati da giudici ostili per pregiudizio di classe, subiscono pesanti condanne, nel romanzo di Consolo invece essi (a parte quelli fucilati subito da una commissione speciale, come quelli fatti giustiziare da Bixio nella novella) non subiscono pene. In entrambi i casi viene rispettata la realtà storica: ma è importante che Consolo abbia scelto un fatto conclusosi con una soluzione positiva, grazie all’apertura illuminata di chi rappresenta la giustizia, mentre Verga abbia optato per un fatto risoltosi negativamente. Lo scrittore di sinistra punta cioè su un episodio che consente un’apertura verso il futuro la speranza in un ordine diverso in cui la giustizia non sia solo vendetta di classe, mentre Verga sceglie un episodio storico che conferma il suo pessimismo negatore di ogni prospettiva verso il futuro (e che lascia solo un margine alla pietà per le vittime di una giustizia ingiusta).

Se rinuncia a narrare l’evento in sé, il Mandralisca ritiene agevole e lecito parlare solo «de’ fatti seguiti alla rivolta», «in cui i protagonisti, già liberi di fare e di disfare per più di trenta giorni, eseguir gli espropri e i giustiziamenti che hanno fatto gridar di raccapriccio, ritornano a subire l’infamia nostra, di cose e di parole», cioè le fucilazioni sommarie e poi il processo a Messina. Per cui, come il romanzo rappresenta la preparazione della sommossa, così si sofferma sul quadro spaventoso del paese devastato da essa: le tombe del convento dei cappuccini scoperchiate, con i cadaveri sparsi all’aria aperta. la fontana con le carogne a galla nella vasca, «macelleria di quarti, ventri, polmoni e di corami sparsi sui pantani e rigagnoli dintorno, non sai di vaccina, becchi, porci, cani o cristiani», poi nella piazza del paese «orridi morti addimorati» che «rovesciansi dall’uscio del Casino e vi s’ammucchiano davanti, sulle lastre, uomini fanciulli e anziani. Pesti, dilacerati, nello sporco di licori secchi, fezze, sughi, chiazze, brandelli, e nel lezzo di fermenti grassi, d’acidumi, lieviti guasti, ova corrotte e pecorini sfatti. Sciami e ronzi di mosche, stercorarie e tafani.. Su questo turpe ammasso si avventano cornacchie, corvi, cani sciolti, maiali a branchi, «briachi di lordura», un «vulturume» «piomba a perpendicolo dall’alto come calasse dritto dall’empireo», «si posa sopra i morti putrefatti» affondando il rostro e strappando «da ventre o torace, un tocco», poi «s’ erge, e vola via con frullio selvaggio», mentre passa una carretta guidata da garibaldini, che costringono gli astanti i caricarvi i morti per portarli al cimitero. Consolo insiste su particolari orrorosi e ripugnanti ben più di quanto non faccia Verga, ma mentre in Libertà lo scrittore soffermandosi sulle atrocità punta a suscitare nel lettore reazioni emotive di sdegno e raccapriccio con tecniche di suggestione sotterranea, qui più che l’orrore in sé è in primo piano chi lo osserva, cioè il barone, con il suo atteggiamento dinanzi allo spettacolo: vale a dire che i brani descrittivi, come crediamo risulti chiaramente dalle citazioni, sono in primo luogo esercizi di bravura stilistica intesi a mimare il particolare idioletto dell’aristocratico intellettuale. L’orrore insomma è allontanato di un grado, sempre per presentare il personaggio filtro del racconto in una prospettiva critica, per equilibrarne l’eccessiva positività ed evitarne un ritratto apologetico, mostrando attraverso il linguaggio i limiti storici della sua cultura.

Alla prospettiva del barone, aperta a comprendere con acuta intelligenza politica e sociale le ragioni della rivolta, è contrapposta subito dopo la prospettiva contraria di chi conduce la repressione. Viene cioè riportato il discorso che il colonnello garibaldino, che già con l’inganno aveva indotto i rivoltosi a deporre le armi per arrestarli, rivolge alla popolazione del paese raccolta in chiesa, dopo il Te Deum di ringraziamento per la fine dei disordini. Nelle sue parole i prigionieri incatenati «non sono omini ma furie bestiali, iene ch’approfittaron del nome sacro del nostro condottiero Garibaldi, del Re Vittorio e dell’Italia per compiere stragi, saccheggi e ruberie. lo dichiaro qui, d’avanti a Dio, que’ ribaldi rei di lesa umanità. E vi do la mia parola di colonnello che pagheranno le lor tremende colpe que’ scelerati borboniani che lordaron di sangue il nostro Tricolore. […] L’Italia Una e Libera non tollera nel suo seno il ribaldume». La registrazione di queste parole, con tutto il loro livore forcaiolo, che arriva alla mistificazione di bollare come «borboniani» i rivoltosi, ha il compito di denunciare come i garibaldini non fossero solo i paladini dell’ideale, e tanto meno i portatori di una palingenesi sociale, come si erano illusi i contadini, ma semplicemente venissero a imporre un ordine solo esteriormente nuovo, che in realtà riproduceva in forme diverse l’oppressione di classe precedente. Un’opposizione così forte tra la prospettiva illuminata dell’intellettuale e quella reazionaria del militare portavoce degli interessi del nuovo ordine non può essere priva di significato: occorrerà quindi riflettere sul gioco di punti di vista congegnato dallo scrittore e cercar di capire la sua funzione nella struttura del testo. Però prima è necessario mettere in luce una più ampia opposizione che l’Autore costruisce per chiudere il romanzo, e che presenta caratteristiche analoghe, suscitando gli stessi problemi interpretativi.

3. LA SOMMOSSA ATTRAVERSO LE VOCI DEI PROTAGONISTI

Se il barone rinuncia a descrivere la rivolta per l’impossibilità di narrare come narrerebbero i contadini senza determinare un tradimento mistificatorio, alle voci dei rivoltosi viene egualmente dato spazio nel romanzo. Il Mandralisca infatti, recatosi nel castello dove erano stati rinchiusi i prigionieri, trascrive le scritte da essi tracciate col carbone sui muri del sotterraneo. È come il primo passo verso la realizzazione dell’auspicio formulato dal barone, che i subalterni dovranno scrivere da sé la propria storia.

In tal modo, attraverso le voci dirette dei protagonisti, emergono momenti fondamentali della sommossa e viene in qualche modo colmato il vuoto dell’ellissi che ne aveva cancellato la narrazione

Dalle scritte affiorano, in forme elementari e sintetiche ma cariche di una forma dirompente, le ragioni della rivolta, l’odio per i possidenti, la rabbia per i soprusi e le ruberie ai danni dei diseredati, al tempo stesso, per rapidi ed essenziali scorci, si profilano gli episodi più atroci, che sono affini a quelli descritti da Verga, ma invece di essere affidati a un narratore non neutrale, che indulge su determinati particolari per condizionare sottilmente il giudizio del lettore, sono lasciati, senza filtri, alle parole secche degli autori stessi delle efferatezze, al momento di scrivere ancora pienamente sotto l’impulso dell’odio che allora li aveva mossi. Unica eccezione è la seconda scritta, che solo all’inizio inveisce contro proprietari, pezzi grossi del consiglio comunale, parroci e «civili» che si sono appropriati delle terre del Comune escludendo chi ne aveva diritto, sia «galantuomini» sia «poveri villani»: chi scrive è un «galantuomo» egli stesso che, pieno di rabbia per essere stato estromesso dalla spartizione, ha capeggiato la rivolta, ma ora confessa di essersi pentito del processo devastante a cui aveva dato origine («Aizzai gli alcaresi a ribellarsi / ah male per noi / nessuno fu più buono / di fermare la furia / dei lupi scatenati), per cui chiede perdono a tutti. L’immagine dei «lupi» scatenati sembra proprio un intenzionale rimando, da parte dello scrittore, al lupo «che capita affamato nella mandra» di Libertà: ma certamente un suono diverso ha la stessa immagine usata da un narratore portavoce delle classi alte vittime della rivolta, delegato a esprimere l’esecrazione, il disprezzo e la paura che esse nutrono per la furia popolare, oppure impiegata da chi è stato dentro la sommossa e ora prende coscienza delle atrocità commesse, provandone orrore.

La scritta successiva evoca l’uccisione del nipote del notaio, al presente, come se chi scrive rivivesse in quel momento l’atto compiuto e ancora ne godesse: «Puzza di merda a noi / la sera di scesa nel paese / stano turuzzo / nipote del notaro / strascino fora / serro colle cosce / sforbicio il gargarozzo / notaro saria stato pure lui». Anche qui si inserisce un’evidente allusione a Libertà: la conclusione della scritta ripete quasi testualmente l’affermazione nella novella verghiana proferita da uno della folla dinanzi al figlio del notaio abbattuto con un colpo di scure dal taglialegna: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!». Ma proprio il collegamento esplicito fa risaltare la distanza fra le due impostazioni del racconto. In Verga la registrazione della frase vale a gettare una luce sinistra sul cinismo disumano dei rivoltosi, qui invece la stessa frase riflette solo la comprensibile indignazione dell’oppresso contro gli oppressori e il suo bisogno di giustizia.

Inoltre in Libertà il ragazzo trucidato è biondo come l’oro, notazione che mira a conferire alla vittima qualcosa di puro e angelico, e quindi a potenziare il patetismo del racconto e a suscitare raccapriccio per la barbara uccisione dell’innocente; nel romanzo di Consolo invece questo ragazzo, nell’episodio a cui la scritta fa inizialmente riferimento, appare come una figura laida, ripugnante sia moralmente sia fisicamente: la sera prima della rivolta aveva schernito provocatoriamente, a imitazione del padre, pastori e fabbri al loro passaggio in piazza, sostenendo di sentire puzzo di merda, rivelando cosi l’odioso disprezzo della sua classe di privilegiati per i poveracci, per di più era descritto «grasso come ‘na femmina, babbaleo, mammolino, ancora a quindici anni sempre col dito in bocca, la bava e il moccio», ed era definito spregiativamente «garrusello», cioè effeminato. È evidente la volontà di rovesciare l’impostazione verghiana. Già nell’episodio della vigilia la figura appariva ignobile perché presentata attraverso la prospettiva dei villani insultati e la loro reazione furibonda, come rivelava il linguaggio adottato, che mimava quello dei villani stessi; poi nella scritta la descrizione dello sgozzamento viene subito dopo la rievocazione degli insulti, a far sentire come l’atto atroce sia scaturito dalla rabbia ancora viva e cocente per l’affronto subito da parte del rappresentante degli oppressori: per cui nella rievocazione dell’eccidio non si innesca alcuna reazione emotiva di commozione e sdegno per l’innocente trucidato, in quanto la vittima non è innocente per nulla, anzi, si ricava l’impressione che la feroce vendetta sia in qualche modo giusta.

Le altre scritte ricalcano sostanzialmente lo stesso schema, evocazione delle angherie ed efferata punizione. Un’ulteriore eco di Libertà è il giovane Lanza che cade senza un lamento, con gli occhi sbarrati «che dicono perché», e rimanda al don Antonio di Verga che cade con la faccia insanguinata chiedendo «Perché Perché mi ammazzate?.

L’ultima scritta, riportata inizialmente nel dialetto alcarese, afferma che «u populu

“ncazzatu ri Laccara» e degli altri paesi siciliani ribellatisi «nun lassa supra a facci ri ‘sta terra/manc’ ‘a simenza ri/ surci e cappedda», e termina nell’antico dialetto di Sanfratello, di origine lombarda: «mart a tucc i ricch / u pauvr sclama / au faun di tant abiss / terra pan / l’originau è daa / la fam sanza fin / di / libirtâá». La parola conclusiva, «libirtãà, sembra ancora un rimando al testo verghiano, ma se là risultava usurpata dai contadini che la intendevano solo come appropriazione delle terre, qui la libertà è decisamente identificata con la terra che dà pane, in coerenza con il discorso fatto in precedenza dal barone, inteso a rivendicare la base materiale che assicura contenuto reale a autentico ai valori ideali.

Il romanzo però non termina qui: dopo la riproduzione delle scritte, vi sono ancora tre appendici di documenti, di cui uno assume un’importante funzione strutturale. si tratta di un libello, a firma di tal Luigi Scandurra, pubblicato a Palermo nel 1860, che contiene una violenta requisitoria contro la decisione del procuratore di mettere in libertà gli accusati. Qui i fatti di Alcara sono presentati in una ben diversa luce rispetto alle parole del barone di Mandralisca e alle scritte sui muri del carcere: i rivoltosi sono definiti «una mano di ribaldi», «un orda di malvaggi [sic], spinti dal veleno di private inimicizie, e dal desio di rapina» che «assassinò quanti notabili capitò [sic] nelle sue mani. saccheggiando e rubando le loro sostanze e le pubbliche casse,

Come si vede la sommossa, dopo essere stata rievocata dall’interno, con le parole dei protagonisti stessi, viene presentata da un punto di vista opposto, quello degli uomini d’ordine, ferocemente ostili al moto popolare, di cui forniscono un quadro deformante, riducendone le cause a motivazioni ignobili di interessi personali e descrivendo gli oppressori come persone di specchiata virtù e come innocenti agnelli sacrificali. Però non si direbbe che la registrazione dei due opposti punti di vista, come già al capitolo settimo la contrapposizione tra la prospettiva del barone e quella del colonnello garibaldino, risponda a intenti di equidistanza e neutralità, come avviene in Libertà, dove a tal fine si alternano il punto di vista dei «galantuomini» e quello dei rivoltosi. La posizione dello scrittore si offre molto netta. Non vi è dubbio, come testimonia tutta l’impostazione del romanzo, che egli voglia presentare in una luce positiva il barone e abbia un atteggiamento estremamente aperto e disponibile verso la rivolta e le sue ragioni, nonostante ne sottolinei chiaramente i limiti politici e le atrocità, e che per converso la riproduzione del libello e dei discorsi dell’ufficiale assuma una forte valenza critica: i conservatori, attraverso la pura registrazione delle loro parole, della loro bolsa retorica, del loro lessico pomposo e approssimativo, delle loro sgrammaticature, denunciano tutto il loro livore forcaiolo e il loro squallore intellettuale e morale. Ma mentre Verga a dispetto dei propositi di obiettività punta su immagini e particolari di forte valore connotativo ed emotivo, che,

suggestionino nel profondo il lettore condizionandone il giudizio, Consolo al contrario, proprio con il gioco dei punti di vista, mira a suscitarne non l’emotività ma la riflessione razionale e la valutazione critica, quindi riesce a preservare la problematicità della rappresentazione.

L’analisi e del romanzo di Consolo a confronto della novella di Verga conferma quanto era facile aspettarsi, conoscendo le rispettive posizioni ideologiche dei due scrittori: cioè che la trattazione della sommossa contadina è condotta con tecniche di rappresentazione e assume una peculiare coloritura in rispondenza a tali posizioni. I rischi insiti nel pessimismo fatalistico di Verga, di ascendenza conservatrice, non sono stati interamente evitati in Libertà, come prova la scarsa problematicità della rappresentazione, dovuta all’atteggiamento autoritario del narratore, che predetermina rigidamente le reazioni del lettore in un’unica direzione (prima esecrazione per sommossa e poi pietà per gli autori delle efferatezze divenuti vittime). Ma rischi simmetrici ed equivalenti erano impliciti nell’ideologia di Consolo: l’impostazione “da sinistra’ poteva dare adito egualmente a rappresentazioni rigidamente univoche e a procedimenti manipolatori, oppure a soluzioni predicatorie, parenetiche, pedagogiche, propagandistiche, come testimonia certa narrativa sociale dell’Ottocento oppure del neorealismo novecentesco.

Ci sembra di poter concludere che tali rischi sono stati da Consolo evitati:(1) a ciò ha contribuito proprio la scelta dell’ellissi narrativa, la rinuncia a una descrizione diretta della sommossa, che sarebbe stata piena di insidie difficili da evitare; vi ha inoltre cooperato il gioco dei punti di vista, tra la prospettiva alta dell’aristocratico, aperto alle istanze popolari però ben consapevole dei rischi di una scrittura che scaturisse dalla cultura dei privilegiati, la voce diretta dei subalterni affidata alla riproduzione testuale delle scritte sui muri del carcere, ed ancora la voce dei conservatori rappresentata dalle tirate reazionarie del principe Maniforti contro la disonestà e le ruberie dei villani, dal discorso del colonnello garibaldino e dal libello contro la scarcerazione degli imputati.

(1) Su questo la critica é in genere concorde. Per Romano Luperini «attraverso il linguaggio, Consolo riesce a scrivere un romanzo politico senza invadenza alcuna di ideologia» (Romano Luperini, Il Novecento, Torino, Loescher, 1981, pag.868), tesi ripresa dal critico più di recente: «Lo sforzo polifonico di Consolo […] nasceva da un intento realistico di conoscenza e di giudizio (Toma, Rinnovamento e restaurazione del codice narrativo nell’ultimo trentennio: prelievi testuali da Malerba, Consolo, Volponi, in I tempi del rinnovamento, Atti del Convegno Internazionale Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, ( a cura di Serge Vanvolsem. Franco Musarra, Bart Van den Bossche, Roma, Bulzoni, 1995, p. 544), Per Massimo Onofri, in Consolo cultura e politica, letteratura e ideologia possono intersecarsi, senza che per questo la dimensione estetica si neghi a se stessa, risolvendosi in pedagogia sociale ed oratoria. Il critico richiama poi il rifiuto, da parte del protagonista di Nottetempo, casa per casa, Pietro Marano, dei versi di Rapisardi, il quale ricapitola in sé ‘tutti i tratti di una poesia civile e politica per cosi dire ingaggiata, sempre sul punto di travalicare nell’orazione»: Consolo invece è e resta scrittore politico proprio in quanto, nel contempo, elabora una sua implacabile condanna della retorica dell’impegno. […] Ciò significa che la disposizione politica della scrittura di Consolo si gioca prima di tutto sul piano della forma che su quello dei contenuti, «attraverso un’oltranza di stile»; la sua «è una letteratura che, in un’accezione tutt’altro che formalistica, ha fatto della forma una questione di sostanza» (Massimo Onofri, Nel magma Italia: considerazioni su Consolo scrittore politico e sperimentale, in ldem. Il sospetto della realtà, Saggi e paesaggi italiani novecenteschi,
Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, pp. 195-197)

La memoria di Vincenzo Consolo

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di Giulia Stucchi

Oggi ricorre il primo anniversario della morte di Vincenzo Consolo, spentosi a Milano lo scorso 21 gennaio.

Lo scrittore, di origine siciliana (era nato a Sant’Agata di Militello il 18 febbraio 1933), viveva stabilmente nel capoluogo lombardo dal 1968. Per quanto la sua opera letteraria sia ormai conosciuta dalla maggior parte degli “addetti ai lavori”, ancora scarsa è la critica che lo riguarda e pochi i lettori comuni che gli si avvicinano, complice la fama di scrittore difficile” che lo accompagna. Eppure il fascino dei testi consoliani, per quanto sia certo da attribuire anche alla loro complessità, la travalica, e ci regala veri e propri squarci di poesia, in una continua tensione, mai risolta, fra la ricerca del fatto artistico come portatore di un potere universalizzante, e il tentativo di afferrare il reale in tutta la sua infinita varietà. Un tentativo, quest’ultimo, che nasce dalla convinzione dell’autore che esista un compito etico a cui l’intellettuale è chiamato: si tratta cioè della cosiddetta “poetica dell’impegno”. Lo scrittore, allora, deve intervenire sulla società, guardare ad essa in modo critico e consapevole, per metterne a nudo i mali, le contraddizioni e combattere, per dirla con le parole di Consolo, «l’afasia del potere».

Del resto l’intero percorso letterario del nostro autore è giocato su questa tensione, resa ancor più problematica dalle continue domande, tipicamente novecentesche, riguardanti la necessità, il valore e persino la possibilità stessa di scrivere. Per chiarire meglio ciò di cui sto parlando pensiamo, per esempio, all’alternarsi di opere come Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi, 1976),Nottetempo, casa per casa (Mondadori, 1992) e Lo Spasimo di Palermo(Mondadori, 1998) da un lato, e, dall’altro, di testi quali Lunaria (Einaudi, 1985) o Retablo (Sellerio, 1987).

I primi tre libri sono ambientati su uno sfondo storico ben preciso e danno vita ad un’ideale trilogia romanzesca all’interno della quale vengono passati in rassegna alcuni momenti cruciali per la storia del nostro Paese: troviamo così il periodo risorgimentale e unitario nel Sorriso, la nascita del fascismo inNottetempo, casa per casa, le fasi finali della dittatura mussoliniana, con il terrorismo politico degli anni Settanta e le stragi di mafia sul finire del secolo scorso, nello Spasimo. Grazie a questo escamotage Consolo intende recuperareil valore memoriale della Storia, capace di offrirci, sia per la sua lontananza, che per la sua funzione di lente interpretativa, uno sguardo distaccato e consapevole, in grado di leggere e capire anche il presente. Ma la Storia si carica qui anche di un valore simbolico che la fa aggiungere alle tante metafore su cui si fonda la poetica di questo autore: gli avvenimenti, infatti, si succedono e si succederanno ciclicamente fino a che l’uomo non imparerà a dar vita a una società giusta, equa, all’interno della quale il divario fra i ceti popolari e quelli più abbienti si assottigli fino a scomparire. La Storia, allora, non serve solo per capire il presente, ma anche per rappresentarlo, poiché ciò che è stato è, o sarà.

Anche quando gli avvenimenti trattati da Consolo sembrano non avere apparentemente un aggancio diretto con il presente, infatti, essi non perdono la loro capacità di farvi riferimento e di fornire uno sguardo critico sulla contemporaneità. Si pensi per esempio al Sorriso e a come le insurrezioni contadine che prendono piede nel Meridione alla notizia dell’arrivo delle truppe garibaldine forniscano l’occasione per parlare, seppur indirettamente, delle rivendicazioni del movimento contadino degli anni Sessanta del Novecento (vivo presente al momento della stesura del libro), rivendicazioni riguardanti tanto la richiesta di una riforma agraria, quanto la questione meridionale. Il parallelo tra i due episodi è tanto più forte dal momento che, in entrambi i casi, le rivolte vennero represse nel sangue dallo Stato e i problemi rimasero così irrisolti. Lo stesso discorso, del resto, può essere fatto per il periodo fascista in rapporto all’oggi: in una realtà in cui il potere è in grado di gestire i mass media e l’informazione, qualsiasi voce di dissenso è destinata ad essere soppressa, nascosta, fatta tacere. La democrazia lascia così il posto ad una nuova forma di dittatura, che, per quanto non dichiarata e meno violenta, non per questo risulta essere meno assoluta.

Consolo 4Ma torniamo a noi, e vediamo invece due testi come Retablo e Lunaria, la cui ambientazione risulta essere ben diversa, calati come sono in un Settecento piuttosto astratto (specie per quanto riguarda il secondo), la collocazione temporale serve allora solo per caratterizzare gli ambienti e per allontanare il racconto dall’esperienza quotidiana del lettore. Queste due opere, non a caso, sono state redatte durante gli anni Ottanta, anni in cui il rifiuto della figura dell’intellettuale impegnato da parte della società spinge Consolo a rivedere il proprio modo di scrivere, fino a metterne addirittura in discussione il senso. L’autore si rifugia allora in una narrazione che recupera la forma fiabesca e al cui interno il passato diventa solo un modo come un altro per affacciarsi su di una realtà altra, che faccia riflettere, sì, ma che con la sua lontananza e astrattezza sia in grado di regalare anchequell’effetto di straniamento e oblio di sé che è proprio anche dell’arte:

 io mi chiedei se non sia mai sempre tutto questo l’essenza d’ogni arte (oltre ad essere un’infinita derivanza, una copia continua, un’imitazione o impunito furto), un’apparenza, una rappresentazione o inganno […]; l’essenza dico, e il suo fine trascinare l’uomo dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii. (Retablo, pp. 66-67)

Questa citazione è tratta da Retablo e ci propone il pensiero del protagonista, il pittore milanese Fabrizio Clerici, che, intrapreso un viaggio in Sicilia con l’intento di raggiungere l’atarassia e l’equilibrio interiore, si ritrova invece a dover fare i conti con una realtà “altra”, certo, ma pur sempre una realtà. Ciò lo spinge a riflettere sul valore del viaggio inteso come allontanamento dal proprio mondo, e quindi anche sul significato dell’arte e di un passato mitico come quello dell’antica civiltà greca che ha abitato l’isola.

Per dare un quadro completo, per quanto breve e sommario, delle opere di Vincenzo Consolo non si può però non accennare anche al valore, giocato sempre sul confine fra realtà e trasfigurazione simbolica, della Sicilia. Di quest’ultima, che è sempre presente nei testi dell’autore, Consolo ci fornisce un ritratto dai molteplici volti, soffermandosi ora sugli aspetti più concreti dell’isola, ora su quelli più propriamente metaforici. La Sicilia, allora, è sì un luogo reale, ma è anche un simbolo: grembo materno, fonte di regressione, di ritorno alle proprie radici e di recupero della propria identità, essa è però anche il punto da cui bisogna necessariamente partire per giungere ad una possibile rinascita, che può avvenire soltanto con la conoscenza di sé e con la consapevolezza che da tale conoscenza deriva.

Alla medesima esigenza di recupero della memoria, una memoria, quindi, declinabile tanto da un punto di vista storico, quanto personale e artistico, concorrono anche le frequenti citazioni e i richiami a opere letterarie (e non) presenti nei testi di Consolo, nonché l’uso sperimentale ed espressionistico che egli fa della lingua italiana. Di quest’ultima l’autore recupera infatti le infinite varianti, siano esse imputabili al tempo, allo spazio, all’estrazione sociale del parlante o ai gerghi tecnici, nell’intento di riscoprire il reale valore delle parole, la loro forza significante e la loro funzione identitaria. Consolo conferma così il proprio sperimentalismo di fondo, pur attraverso un costante confronto con la tradizione, nell’intento di superarla e di rendere la scrittura uno strumento critico capace d’incidere sul mondo di oggi.

Tra storia e mistificazione La polemica contro il mito garibaldino nel romanzo di Vincenzo Consolo

Aneta Chmiel

Università della Slesia

Tra storia e mistificazione La polemica contro il mito garibaldino nel romanzo di Vincenzo Consolo Il sorriso dell’ignoto marinaio alla luce di recenti studi

 Non a caso il romanzo di Vincenzo Consolo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio è considerato uno dei maggiori contributi alla letteratura siciliana (Barbagallo, G., 2009: 15/6). L’opera narra della rivolta contadina avvenuta nel villaggio siciliano di Alcàra Li Fusi, all’indomani dello sbarco dei mille. Con una suggestività inconfondibile Consolo dipinge il quadro quasi fatato del paesaggio siciliano: Le montagne erano nette nella massa di cupo cilestro contro il cielo mondo, viola di parasceve. Vi si distinguevano ancora le costole sanguigne delle rocche, le vene discendenti dei torrenti, strette, slarganti in basso verso le fiumare; ai piedi, ai fianchi, le chiome mobili, grigio argento degli ulivi, e qua e là, nel piano, i fuochi intensi della sulla, dei papaveri, il giallo del frumento, l’azzurro tremulo del lino. Consolo, V., 2006: 7 Questa condizione d’eccezionale benessere nasconde tuttavia un mondo dove stanno per scoppiare tensioni profonde, forti ed irresistibili, dove regna il plurilinguismo e multiculturalismo e dove alla maggioranza siciliana si contrappone una comunità araba e all’elitaria aristocrazia si oppone il popolo e il proletariato. Le personificazioni espresse tramite le parole come: “le costole sanguigne”, “le vene discendenti”, “ai piedi”, “ai fianchi”, “le chiome mobili” denunciano un intento molto più che ovvio di animizzare quella terra, di mostrare il dolore subito dal suo corpo mortificato. Paradossalmente, la bellezza dei luoghi non solo menzionati, ma addirittura ricorrenti e presenti nel corso delle azioni diventa testimone degli scenari più sanguinari della storia. Il dramma del paese dei Nebrodi viene reso ancora più commovente quando ci si rende conto della gravità delle convergenze subite dai contadini innocenti durante lo scontro con le forze risorgimentali. Con questo romanzo lo scrittore vuole stabilire la misura del contributo delle masse contadine del meridione italiano nel Risorgimento, il ruolo dell’intellettuale negli importanti momenti storici e finalmente delineare il rapporto tra la letteratura e la storia, tra la memoria e il presente. Il protagonista del romanzo, il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, appassionato malacologo, descrive gli episodi avvenuti che costituiscono un apporto importantissimo della vicenda risorgimentale, dato che rivelano il suo lato piuttosto oscuro. Presente in quasi tutti i capitoli, funge da coscienza del libro e anche da alter ego di Consolo (Segre, C., 2005: 130). Si può costatare che c’è una specie di appello alle facoltà empatiche del lettore davanti al quale il narratore cerca di svelare il mistero del prezzo che doveva pagare la Sicilia in nome degli ideali risorgimentali. Questa decisa presa di posizione incitò i lettori alla riflessione su un periodo della storia non del tutto glorioso. Il bisogno di raccontare questa storia non è scaturito solo dai ricordi personali dello scrittore, ma anche, o forse soprattutto, dalle riflessioni ispirate dal dibattito culturale svoltosi in quegli anni . Come prima approssimazione si potrebbe dire che, delineando le conseguenze dell’impresa risorgimentale in Sicilia, Consolo abbia ripreso la polemica non solo con la storia stessa, ma anche con la storia letteraria, e in particolare con il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, intitolato Gattopardo. Non solo nel clima e nella rappresentazione dello stesso avvenimento vi si possono scorgere delle analogie. Soprattutto le figure dei protagonisti costituiscono un’esemplificazione di una contrapposizione ben distinta. Don Fabrizio, anche se uomo potente, risulta impassibile mentre osserva gli avvenimenti che hanno contribuito alla storia, invece il barone di Mandralisca, al contrario, soffre questa drammatica realtà che sta accadendo. Gaetano Barbagallo caratterizza il romanzo con l’aggettivo “audace” e si deve acconsentirlo, soprattutto se si prende in considerazione la quasi mitica presenza dell’impresa garibaldiana nella coscienza degli italiani (Barbagallo, G., 2009: 15/06). Consolo entra nella polemica non solo con la rappresentazione dell’impresa unitaria, ma anche con il passato stesso, perché la sua narrazione è stata pensata come una lettura del presente. Come scrive Sandra Mereu, “il romanzo fu pensato in un momento storico in cui la generazione che nel sessantotto aveva sognato il rinnovamento politico e sociale si trovava davanti le tragedie e i disastri dello stragismo e del terrorismo” (Mereu, S., 2011: 11/08). Nel romanzo si ha un significativo ritorno al passato inteso come metafora del presente. Particolarmente attento al versante ideologico della narrativa italiana, Consolo tenta un’analisi condotta su tempi e luoghi. Lo scrittore svolge un complesso gioco di corrispondenze che simbolizzano soprattutto la crisi di valori. Il sorriso dell’ignoto marinaio diventa il simbolo di un atteggiamento di distacco dalle dolorose esperienze passate. Analogamente, la scelta della struttura narrativa risulta altrettanto simbolica. Consolo rompe la tradizione della stesura del romanzo storico, sperimentando una narrazione disarticolata, dove nel testo vengono inseriti documenti autentici o inventati o verosimili. Adamo, analizzando le strategie narrative impiegate da Consolo (Adamo, G., 2006: 72), definisce questo testo “antiromanzo storico” invece Cesare Segre suggerisce piuttosto la seguente perifrasi: “negazione del romanzo storico” (Segre, C., 1991: 77). Consolo tenta di rendere il testo verosimile mediante un ampio arazzo narrativo degli inserti documentari. Una simile operazione non meraviglia se la si considera come la volontà di intensificare il messaggio storicizzante e, al tempo stesso, l’espressione dell’impossibilità di accettare la realtà contemporanea. Anche per la chiarezza morale e la volontà d’impegno civile Consolo rinuncia al narratore onnisciente per dare la voce ai diversi soggetti che rappresentano punti di vista diversi. Il caso così anomalo della narrativa che induce il lettore a rivelare i segreti servendosi più dell’intenzione che della logica, risveglia l’interesse della critica e della ricerca. L’originalità della scrittura si manifesta, tra l’altro, nella sua poetica. Le didascalie delle acqueforti di Goya, indicate nel testo dal corsivo servono a descrivere gli effetti devastanti invece del racconto vero e proprio della stessa strage dei contadini. Non è tanto difficile rievocare, seguendo anche le suggestioni di Sandra Mereu, l’evidente associazione all’episodio manzoniano del Lazzaretto, quando si legge Carrettate per il cimitero e il nesso tra i monatti in divisa rosa e i garibaldini (Mereu, S., 2011: 11/08). Non solo in questo confronto delle immagini rievocate è leggibile la polemica di Consolo. Un fattore altrettanto suggestivo è la scelta del linguaggio poetico. Consolo decisamente rifiuta la lingua nazionale, identificandola con la lingua del potere, e ricorre all’impiego della lingua parlata da una variante minoritaria per dare omaggio e, soprattutto, per salvare dall’oblio la sorte dei più umili, “traditi da Garibaldi”. La contrapposizione: lingua nazionale — una parlata minoritaria oltre che il valore simbolico della metafora del presente assume il valore della polemica sull’integrazione nord — sud. Sandra Mereu si pone la domanda sull’universalità di questa strategia: “[…] se Consolo avesse scritto oggi quello stesso romanzo storico come metafora del presente, avrebbe utilizzato ancora la contrapposizione lingua nazionale — dialetti come simbolo di resistenza alla politica del Potere attuale?” (Mereu, S., 2011: 11/08). Dal punto di vista del lettore sembra rischioso introdurre un personaggio come Pirajno di Mandralisca, concentrato sui realia, intellettuale nell’ambito dove predomina la forza ingenua e incontrollata. Come spiega Vincenzo Consolo in una delle interviste, l’intellettuale dovrebbe caratterizzarsi per una certa responsabilità che consiste nell’esigenza e prontezza di esprimere un giudizio sulla storia e intervenire. Il barone Mandralisca, il protagonista, a causa dei fatti tragici avvenuti nella campagna siciliana nel 1860, lascia la malacologia per rivolgersi alla realtà drammatica. In questo significato il Mandralisca entra in polemica con il Gattopardo e Consolo si oppone a Lampedusa, il quale vedeva nei cambiamenti storici una sorta di determinismo (Bonina, G., IV: 92). Il clima de Il sorriso dell’ignoto marinaio, in realtà, non è lontano dai fervori della contemporaneità. L’autore stesso ribadisce la contingenza dei tempi evocati nel romanzo e gli anni settanta. È troppo forte il legame con la Sicilia e nello stesso tempo con la sua cultura per cercare di trascurare i fatti della storia, anche quelli scomodi. Consolo riconosce il primato della letteratura e il ruolo dell’intellettuale, il ruolo principale dunque è quello di rivendicare una propria identità. Il romanzo, effetto di un processo di maturazione e di ricerca anche dal punto di vista linguistico e stilistico, diventa soprattutto un riflesso cosciente del contesto storico, sociale e stilistico. In questa sua scelta Consolo si ispira piuttosto a Sciascia che a Vittorini, perchè i temi presi in considerazione dallo scrittore appartengono al campo storico-sociale. In una sola cosa però Consolo si è distaccato da Sciascia e cioè nella scelta dello stile. Non vedendo una società armonica con la quale comunicare, ha adottato il registro espressivo e sperimentale. La scelta illuministica e razionale sciasciana ammetteva il senso della speranza, invece, la generazione successiva quella del Consolo non la nutriva più. (Sciascia su Risorgimento in Sicilia — Le parrocchie di Regalpetra). In risposta, Sciascia ha nominato Il sorriso dell’ignoto marinaio un parricidio sottintendendo, sicuramente, la frase di Skolvskij, secondo quale, la letteratura è una storia di parricidi e adozioni di zii (Bonina, G., IV: 92). La mimesi del romanzo, espressa tra l’altro, nella figura dell’erudito settecentesco, ha avvicinato il capolavoro di Consolo piuttosto a Verga, Gadda o Pasolini. L’evidente, non attenuata violenza del linguaggio non risente solo la restituzione di una realtà immediata, ma anche la dichiarata volontà consoliana di prendere una posizione nei confronti della storia. Tutto il rapporto che lega Consolo agli scrittori siciliani è posto su un duplice segno. Da una parte l’autore ammette di aver attinto ai suoi predecessori, e non nasconde il debito nei confronti della narrativa isolana, dall’altra invece, indica la scelta della propria, originale strada, la nomina nello stesso tempo parricida definendo così la propria vocazione. Per esempio, da Vittorini, che come saggista è stato ignorato, è stata presa un’altra caratteristica: la precisione della descrizione topografica quasi uguale a quella de Le città del mondo, la troviamo proprio ne Il sorriso dell’ignoto marinaio. Consolo chiama questo atteggiamento “più siciliano possibile […] più acribitico” (Bonina, G., IV: 92). Per dare un quadro trasparente della sua concezione della letteratura Consolo rievoca il parere di Moravia, secondo il quale “scrivere significa cambiare il mondo e narrare soltanto rappresentarlo” (Bonina, G., IV: 92). Importante che il movimento sia dal libro verso il lettore e che la scrittura abbia più peso e più influsso. Consolo sceglie invece l’aspetto espressivo della prosa, quasi orale, ritmica, basata sulla memoria. Il narratore sembra infatti, l’unico ad aver scelto questa strada della prosa artistica. Basilio Reale, per esempio, anche lui messinese ed esule a Milano nello stesso tempo si dedica però alla poesia. Anche se quasi in ogni libro è possibile rintracciare una trasposizione autobiografica, ne Il sorriso dell’ignoto marinaio del Consolo ce n’è poco. La Milano contemporanea costituisce per Consolo uno strumento per capire meglio la Sicilia. Grazie al soggiorno e alla vita milanese lo scrittore ammette di essere in grado di scoprire un’altra Sicilia più vera e infelice, toccata dall’ingiustizia e perdita di identità. In questo senso Consolo segue Pasolini, che parlava dello “scandalo della storia”, cioè la necessità della consapevolezza storica per fondare la consapevolezza del presente, della propria identità, della propria dignità (Puglisi, S., 2008: 116). Consolo fa un passo avanti rispetto ai suoi maestri siciliani: tramite i suoi libri varca la soglia della ragione segnata, tra l’altro, da Sciascia, verso l’ingiustizia e lo smarrimento. In una certa misura Consolo consolida l’atteggiamento di Vittorini che voleva che la Sicilia uscisse dalla condizione di inferiorità e di soggezione rivolgendosi verso un mondo di progresso. Solo che Vittorini credeva in un’utopia, Consolo invece, rappresenta un comportamento pieno di amarezza per un mondo che scende verso i valori più bassi. Il romanzo intitolato Il sorriso dell’ignoto marinaio, pubblicato nel 1976 viene definito “il rovescio progressista del Gattopardo” e perciò entra in polemica con l’immobilismo di Tomasi di Lampedusa. L’intento dell’autore, legato indissolubilmente alla storia della propria terra natia, è quello di raccontare l’Italia degli anni Settanta attraverso un romanzo ambientato nel 1860, e più dettagliatamente, ai tempi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia. parla addirittura della “convulsa realtà di quegli agiatissimi anni […]. Gli anni delle stragi nere e rosse, dell’esperienza folle delle Brigate Rosse, degli omicidi politici, con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro” Consolo ammette più volte di ricorrere volontariamente al genere del romanzo storico e in particolare risorgimentale. Secondo lui, è l’unica forma narrativa possibile per rappresentare in modo metaforico il presente e le sue istanze, la cultura, la scrittura e la letteratura incluse. Consolo stesso scrisse il suo romanzo Il sorriso dell’ignoto marinaio, in omaggio a Sciascia, e in particolare al suo romanzo Morte dell’inquisitore. Però non va dimenticato che alla base della stesura del romanzo vi si trovano almeno tre elementi principali: un’inchiesta sui cavatori di pomice svolta da Consolo per un settimanale, il fascino del quadro di Antonello da Messina, Ritratto d’ignoto e infine la rivolta di Alcàra Li Fusi avvenuta nel 1860. Quest’ultimo fattore è accompagnato da un dibattito sul Risorgimento così detto “tradito” chiamato altrimenti la Resistenza. Questa plurivocità del romanzo viene sottolineata per di più dalla presenza di documenti variamente manipolati. Un procedimento che rende una narrazione verosimile dal punto di vista della sua storicizzazione, ma che, nello stesso tempo, la nega perchè si prefigge di spiegare i fatti (Traina, G., 2001: 58). I due protagonisti del romanzo devono affrontare, ognuno dalla propria prospettiva, la resistenza del mondo contadino siciliano. Il barone Enrico Pirajno di Mandralisca, malacologo e collezionista d’arte, cercherà di comprendere le esigenze popolari, invece l’avvocato Giovanni Interdonato, il deuteragonista, rivoluzionario giacobino, svolgerà la funzione di staffetta tra i vari esuli e i patrioti dell’isola. I due protagonisti si incontreranno a causa della rivolta di Alcàra Li Fusi e del successivo processo e occuperanno due parti opposte: il barone difenderà i contadini insorti e chiederà di aver clemenza all’Interdonato che avrà assunto l’incarico di giudice. Il barone Pirajno di Mandralisca è un aristocratico intellettuale che per certi aspetti può assomigliare alla figura del principe Salina che giudica tutto con un certo distacco, ma qui le analogie si esauriscono. I protagonisti del Lampedusa si instaurano su un forte contrasto, tra l’altro generazionale, invece nel romanzo consoliano la relazione tra i protagonisti è piuttosto di carattere polemico. Con il ritorno al tema del mito risorgimentale Consolo vuole intraprendere una polemica contro chi intende il Risorgimento come movimento omogeneo ed ispirato da una sola frazione. Il Consolo volge l’attenzione del lettore verso le sollevazioni contadine che lottavano contro i balzelli e l’usura. I risvolti vengono imprigionati nel castello di sant’Agata di Militello il quale nel romanzo viene rappresentato come “immensa chiocciola con la bocca in alto e l’apice in fondo, nel buio e putridume” (Consolo, V., 2006: 136). Secondo Segre, la metafora della chiocciola attraversa tutto il romanzo rappresentando l’ingiustizia e i privilegi della cultura. Non a caso, il protagonista principale del romanzo di Mandralisca nelle sue ricerche si occupa di lumache. Per non ripetere quello che è già stato raccontato, Consolo rifiuta una narrazione classica e ricorre ai documenti e ai ricordi inventati dei personaggi realmente esistiti con lo scopo di concentrarsi sugli episodi. Grazie a questo procedimento il romanzo storico sfugge alla sua definizione tradizionale per acquisire delle sfumature e dei significati modificati. Negli anni Sessanta è stato ripreso il dibattito sui rapporti tra classi sociali e sulle possibilità di esprimersi da parte di esse. Siccome è stato costatato che le classi oppresse non erano in grado di farsi notare, Vincenzo Consolo, con questo romanzo, tenta di restituire loro, agli esclusi della storia, la propria voce. Secondo Consolo la Storia, l’hanno scritta i potenti e non gli umili, i vincitori e non i vinti. Per rendere ancora più trasparente questa divisione delle stesse classi Consolo fornisce praticamente ogni personaggio di un idioma: un brigante recluso parla il sanfratellano, il poco noto idioma gallo – romanzo, le guardie parlano il napoletano, Mandralisca usa un siciliano regolarizzato sul latino. L’italiano viene qui mescolato al dialetto siciliano il che vuole riflettere non solo l’impasto linguistico ma anche quello sociale, culturale, antropologico. In un’intervista Consolo ha affermato: “Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi miti. Ma non è il dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati” il suo quindi è “un lavoro da archeologo”, che riporta alla luce ciò che è sepolto nella profondità linguistiche dell’italiano, non è una corruzione dell’italiano (Falco, A., 2009/02). Beniamino Mirisola nomina addirittura l’opera consoliana il Bildungsroman, indicando nello stesso tempo come il protagonista principale Enrico Pirajno barone di Mandralisca e proponendo la sua prospettiva interpretativa (Mirisola, B., 2012). Pirajno viene rappresentato come un aristocratico, intellettuale, che vive dedicandosi alla sua ricerca da erudito, finché le violente circostanze non lo costringono al confronto con la cruda realtà. Il barone dovrà sacrificare in nome della giustizia e della ragione il proprio patrimonio culturale e spirituale. Il Consolo non si astiene dalla parabola che rende privilegiata la tendenza di interpretare le vicende del protagonista in quanto riflesso delle sue letture ed idee politiche. Il percorso formativo del protagonista, a differenza dei personaggi tradizionali del genere, non è stato rappresentato come il nucleo del romanzo, ma piuttosto lasciato in disparte, in favore della già menzionata dimensione intertestuale ed ideologica. Il suo cambiamento è graduale, avviene a passi lenti. Del suo divenire possono testimoniare i momenti narrativi come quello dell’iniziazione, per esempio: il protagonista si trova su una nave, in viaggio, dunque in movimento, il che riflette la sua condizione: in discesa o ascesa perpetua, come nella scena seguente: “una strada dura, tutta il salita, piena di giravolte e di tornanti” (Consolo, V., 2006: 87). Privo di questo schema dell’evoluzione interiore, sembra che il protagonista, sfugga alla classifica intenzionale che viene subito in mente. E invece, anche se non del tutto fedeli al canone e alle esigenze del genere, il romanzo e i suoi protagonisti risultano assai trasparenti. Il barone Mandralisca si associa al principe Salina. Ne troviamo prove in una serie di interventi di vario tipo che hanno azzardato un’interpretazione sul messaggio contenuto nel romanzo. I teorici, fra cui Corrado Stajano, Antonio Debenedetti, Paolo Milano e Geno Pampaloni non vogliono solo leggere Il sorriso dell’ignoto marinaio, ma gli attribuiscono le peculiarità seguenti: “antigattopardo” oppure “Gattopardo di sinistra”. Tutti però sono d’accordo che, ambedue gli autori: Consolo e Lampedusa, anche se hanno in comune certi aspetti, non coincidono per quanto riguarda la storia e il suo divenire (Mirisola, B., 2012). Lo definisce bene Cesare Segre, sempre in riferimento alla questione delle analogie tra le due opere: Consolo riprende dal Gattopardo solo lo spunto di un romanzo sulla Sicilia ai tempi dello sbarco di Garibaldi, con al centro un aristocratico che, essendo pure un intellettuale, è particolarmente portato a riflettere sui cambiamenti e a giudicare con qualche distacco, senza venire meno allo stile e alla sprezzatura della sua casta. Consolo, V., 1987: IX—X Il Consolo stesso rimane scettico per quanto riguarda le comparazioni tra i contenuti dei romanzi menzionati e ribadisce la loro futilità nel campo dell’analisi vera e propria del profilo del protagonista. Secondo lo scrittore sarebbe anche troppo rischioso identificarlo con il protagonista. Ammette invece, che le loro voci si accostano, ma solo nella seconda parte del romanzo. Un rapporto che pare ancora più stravagante se riusciremo a rievocare le origini letterarie del protagonista. Va sottolineato che lo scrittore si è ispirato a un personaggio realmente esistito di un nobile cefalutano e in questo modo ha garantito al suo protagonista uno statuto quasi autonomo. L’evoluzione del protagonista rappresentata in modo poco schematico, simbolico e significativo potrebbe essere un’altra caratteristica distintiva che avrebbe contribuito all’atteggiamento polemico verso la tradizione e la rappresentazione fino a quel momento adottata. Il barone di Mandralisca non ha paura di assumere le responsabilità dell’intellettuale in determinati momenti storici. Probabilmente si tratta di una sfida oppure di un invito a un’ulteriore presa di distanza dai suoi privilegi, dalla sua formazione e persino dalla sua cultura. Bibliografia Adamo, Giuliana, 2006: La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo. San Cesario di Lecce, Manni. Barbagallo, Gaetano, 2009: “Il sorriso dell’ignoto marinaio”: i Nebrodi nel risorgimento siciliano, Persone, http://nebrodinetwork.it/wp/?p=125 [l’ultimo accesso: il 12 novembre 2011]. 224 Études Bonina, Gianni, Anno IV, nº 92: Vincenzo Consolo. Padri e parricidi. Vincenzo Consolo: la sua scrittura, le sue opere e il suo rapporto con il lavoro di Sciascia e Vittorini. Tra debiti e superamenti dei modelli letterari. L’intervista, http://www.railibro.rai.it/interviste.asp?id=187 [l’ultimo accesso: il 14 dicembre 2011]. : Vincenzo Consolo. Consolo, Vincenzo, 1987: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Milano, Mondadori. Consolo, Vincenzo, 2006: Il sorriso dell’ignoto marinaio. Milano, Mondadori. Falco, Annunziata, 2009: I riflessi letterari dell’Unità d’Italia nella narrativa siciliana, http:// dugi-doc.udg.edu/bitstream/handle/10256/1503/Falco_Annunziata.pdf [l’ultimo accesso: il 15 ottobre 2011]. Mereu, Sandra, 2011: “Il sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo. Libri, recensioni, http://94.32.64.110/www.equilibrielmas.it/website/Menu.php?menu=5244 [l’ultimo accesso: il 14 gennaio 2012]. Mirisola, Beniamino: Ragione e identità nel “Sorriso dell’ignoto marinaio” di Vincenzo Consolo. Gli Scrittori d’Italia — XI Congresso Nazionale dell’ADI, http://www.italianisti.it/ FileServices/133%20Mirisola%20Beniamino.pdf [l’ultimo accesso: il 14 gennaio 2012]. Puglisi, Sandro, 2008: Soli andavamo per la rovina. Saggio sulla scrittura di Vincenzo Consolo. Acireale — Roma, Bonanno Editore. Segre, Cesare, 1991: Intrecci e voci. La polifonia nella letteratura del Novecento. Torino, Einaudi. Segre, Cesare, 2005: Tempo di bilanci. La fine del Novecento. Torino, Einaudi. Traina, Giuseppe, 2001: Vincenzo Consolo. Fiesole, Cadmo. Nota bio-bibliografica Aneta Chmiel è docente di Glottodidattica presso il Dipartimento di Italianistica dell’Universìtà della Slesia a Sosnowiec. Ha conseguito la laurea in lettere nel 1998 e nel 2002 ha ottenuto il dottorato. È autrice di vari articoli sulla letteratura italiana rinascimentale e contemporanea. Ultimamente le sue ricerche si concentrano sulla narrativa di Vincenzo Consolo

Il senso della storia nell’opera di Vincenzo Consolo

Cade qui opportuno parlare di un altro scrittore siciliano non certo meno colto e raffinato di Gesualdo Bufalino (di lui più giovane di poco più d’un decennio)1, ma a lui ideologicamente e letterariamente opposto: Vincenzo Consolo. Nella sua opera che qui come sempre, più che descrivere affronteremo per quanto servirà al nostro discorso più generale, non c’è infatti soltanto un fortissimo sentimento della storia, ma c’è pure il coraggioso tentativo, inevitabilmente sperimentalistico, di impostare il romanzo sul fondamento di una parola e di un fraseggio non turgidi ma icastici, quasi una traduzione istantanea del pensare e dell’agire degli uomini.

  • 2 Vd. la recensione al secondo libro di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi, 1976) e in (…)
  • 3 Altre poche notizie biografiche. Dopo gli studi elementari e medi frequentati a Sant’Agata (i secon (…)

2 Siciliano dunque di Sant’Agata di Militello, «un paese – per ripetere ciò che ne scrisse Leonardo Sciascia2 – a metà strada tra Palermo e Messina (sul mare, Lipari di fronte, i monti Peloritani alle spalle)», sesto degli otto figli di un piccolo commerciante di prodotti alimentari, Consolo trascorse nell’isola adolescenza e giovinezza (tranne gli anni universitari a Milano) e del suo paese natale fece echeggiare, già nella sua “opera prima” (La ferita dell’aprile del 1963), quello che sempre Sciascia (che se ne intendeva) definì l’«impasto dialettale, la fonda espressività che è propria alle aree linguistiche ristrette, le lunghe e folte e intricate radici di uno sparuto rameggiare». Ed era quello (e ancora Sciascia lo sottolinea) non già un artificioso gaddismo siculo anziché lombardo, ma un prepotente volersi inserire da subito nella storia e in quella, precipuamente, di coloro che la vivono, come del resto accadde allo stesso scrittore, dalla parte degli sconfitti; la patiscono nelle sue ingiustizie e vi si ribellano, altro non potendo, con la parola e con la scrittura. La letteratura, in due parole, non come professione ma come impegno civile. Donde anche una notorietà raggiunta tutt’altro che facilmente3.

Il senso della storia

  • 4 Vd. F. Engels-K. Marx, La famiglia. In Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 37.
  • 5 La citazione da Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano, 1997, pp. 113-14. Sul protagoni (…)

3 Ebbe a scrivere Marx nella Sacra famiglia4: «La classe possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoestraniazione umana. Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa autoestraniazione, sa che essa costituisce la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di un’esistenza umana; la seconda, in tale estraniazione, si sente invece annientata, vede in essa la sua impotenza e comprende in essa la realtà di una – la sua – esistenza non umana. Per usare un’espressione di Hegel essa è, nell’abiezione, la ribellione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla contraddizione tra la sua natura umana con la situazione della sua vita, che è la negazione aperta, decisa, assoluta di questa natura». Ebbene: questo non facile compito di rappresentare nel profondo e come all’interno stesso della coscienza tale drammatico dilemma mi sembra quello assunto dal nostro Vincenzo Consolo, forse tra i maggiori scrittori italiani ancora in vita. C’è una sua pagina, nel Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) – questo romanzo (ma il termine è improprio come vedremo), che culmina nella rivolta contadina di Alcàra Li Fusi contro i feudatari del luogo al tempo della spedizione garibaldina dei Mille che, nel significato sopra proposto, mi sembra esemplare. Avendovi casualmente assistito, il protagonista del libro, l’appassionato malacologo barone di Mandralisca, di idee liberali ma lontano sino a quel momento dall’azione politica, non può esimersi, date le circostanze, da due decisive riflessioni: la considerazione cioè che esiste una storia dei vincitori e una dei vinti, scritta la prima e mai scritta la seconda, e che in questa drammatica dicotomia, perenne e a prima vista irresolubile, consiste precisamente la tragedia della Storia. Nell’atto di stendere una relazione sui fatti appena accaduti, e di stenderla come avrebbe fatto uno «di quei rivoltosi protagonisti moschettati in Patti», intuendo e avendo come già chiaramente presente tale versione in inconciliabile opposizione a quelle delle «gazzette e libelli» appartenenti, per così dire, alla voce ufficiale della storia, confessa e ammette l’impossibilità dell’impresa: «No, no!» dice 5 nel suo particolare linguaggio d’intellettuale siculo di metà Ottocento. «Che per quanto l’intenzione e il cuore sian disposti, troppi vizi ci nutriamo dentro, storture, magagne, per nascita, cultura e per il censo». Questo «scarto di voce e di persona» – ossia questo immedesimarsi nella classe del proletariato per dirla con Marx – gli appare un’azione scorretta; quanto meno un’impostura. Spiega difatti:

È impostura mai sempre la scrittura di noi cosiddetti illuminati, maggiore forse di quella degli ottusi e oscurati da’ privilegi loro e passion di casta. Osserverete: ci son le istruzioni, le dichiarazioni agli atti, le testimonianze… E bene: chi verga quelle scritte, chi piega quelle voci e le raggela dentro i codici, le leggi della lingua? Uno scriba, un trascrittore, un cancelliere. Quando [Mentre invece] un immaginario meccanico istrumento tornerebbe al caso, che fermasse que’ discorsi al naturale, siccome il dagherrotipo fissa di noi le sembianze. Se pure, siffatta operazione sarebbe ancora ingiusta.

4 Perché? Perché la classe dei possidenti, pur con tutto il suo presunto progresso, o forse proprio per questa sua presunzione, non ha la chiave per intendere la natura pur sempre umana dell’altra, che tuttavia la storia ha come lasciato nel suo analfabetismo secolare del corpo e dello spirito. Ascoltiamo ancora il barone:

Poi che noi non possediam la chiave, il cifrario atto a interpretare que’ discorsi. E cade acconcio in questo luogo riferire com’io ebbi la ventura di sentire un carcerato, al castello dei Granza Maniforti, nel paese di Sant’Agata [di Militello], dire le ragioni nella parlata sua sanfratellana, lingua bellissima, romanza o mediolatina, rimasta intatta per un millennio sano, incomprensibile a me, a tutti, comecché dotati d’un moderno codice volgare. S’aggiunga ch’oltre la lingua, teniamo noi la chiave, il cifrario dell’essere, del sentire e risentire di tutta questa gente? Teniamo per sicuro il nostro codice, del nostro modo d’essere e parlare ch’abbiamo eletto a imperio a tutti quanti: il codice del dritto di proprietà e di possesso, il codice politico dell’acclamata libertà e unità d’Italia, il codice dell’eroismo come quello del condottiero Garibaldi e di tutti i suoi seguaci, il codice della poesia e della scienza, il codice della giustizia o quello d’un’utopia sublime e lontanissima.

5 Fermiamoci un momento per sottolineare questo passaggio-chiave e davvero decisivo non solo per denunciare autocriticamente una frattura che appare incolmabile tra le due classi e le due “umanità”, ma per prenderne soprattutto atto onde iniziare, ed esattamente da qui, la pars costruens dell’impegno e del dovere politico. La storia, sostanzialmente dice il barone di Mandralisca, non appartenente alla classe dei cosiddetti illuminati e sicuramente dei possidenti, ha indubitabilmente compiuto nel corso dei secoli, e già da prima della nascita del Redentore, il suo cammino progressivo e feroce: il diritto di proprietà ha generato i suoi codici politici giuridici e culturali e, irridente, ha lasciato l’altra parte, quella sopraffatta, nei suoi, totalmente disattesi incomprensibili e disprezzabili. È col ferro che si costruisce la civiltà, proposizione inconfessabile ma vera. Quindi prosegue:

E dunque noi diciamo Rivoluzione, diciamo Libertà, Egualità, Democrazia; riempiamo d’esse parole fogli, gazzette, libri, lapidi, pandette, costituzioni, noi, che que’ valori abbiamo già conquisi e posseduti, se pure li abbiam veduti anche distrutti o minacciati dal Tiranno o dall’Imperatore, dall’Austria o dal Borbone. E gli altri che mai hanno raggiunto i diritti più sacri e elementari, la terra e il pane, la salute e l’amore, la pace, la gioia e l’istruzione, questi dico, e sono la più parte, perché devono intender quelle parole a modo nostro? Ah, tempo verrà in cui da soli conquisteranno que’ valori, ed essi allora li chiameranno con parole nuove, vere per loro, e giocoforza anche per noi, vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose.

6 Ci si ricordi a questo punto della novella Libertà di Verga, relativa alla selvaggia rivolta di Bronte nel catanese e alla ancor più spietata e selvaggia repressione di Nino Bixio (4 agosto 1860): non potremo non renderci immediatamente conto della profonda differenza d’atteggiamento che nei confronti delle due rivolte, così prossime nei luoghi e nel tempo, hanno assunto due diversi esponenti della classe dei possidenti: in Verga la brutalità della sommossa e del suo castigo (giusto oltre che inevitabile) è appena addolcita, se così posso esprimermi, dal sentimento religioso della misericordia e in ogni caso, sul piano storico, assistiamo alla risoluta affermazione che le due classi antagoniste, quasi per decreto divino, dovranno eternamente coesistere nello statu quo («I galantuomini non potevano lavorare le loro terre con le proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini»); in Consolo, che ha ben più presente, anzi sommamente presente la natura umana delle due classi antagoniste, hai non solo il riconoscimento di quanto sia stata giusta la cruda ribellione contadina, ma anche l’inattesa affermazione che la classe dei possidenti, mancando dei necessari “codici” interpretativi, dovrebbe comunque astenersi dal giudicare un evento che ha in realtà appalesato l’ignominia umana della Storia stessa. E quando – e sia pur in un tempo remotissimo – anche la classe degli oppressi e dei vinti avrà conquistato i valori superiori della civiltà, essi saranno in ogni caso diversi da quelli acquisiti e comunemente intesi dagli appartenenti alla classe degli attuali possidenti: saranno «parole nuove, vere per loro e giocoforza anche per noi»; e «vere perché i nomi saranno intieramente riempiti dalle cose». Qui in realtà ci troviamo di fronte all’autentico “senso della storia” e, soprattutto, allo svelamento delle sue infamie morali, politiche ed economiche.

La difficile conquista della ragione

  • 6 6 Vd. V. Consolo, Retablo, Mondadori, Milano, 1992, pp. 115-16.

7«Gli uomini desti – ebbe a sentenziare Eraclito – appartengono a un mondo comune e solo nel sonno ognuno si apparta in un mondo a lui proprio». Potrebbe questo essere un motto da apporsi quale epigrafe a Retablo, quello scritto di Consolo del 1987 che fa come da intermezzo tra Il sorriso dell’ignoto marinaio e i successivi Nottetempo, casa per casa (1992) e Lo Spasimo di Palermo (1999), una trilogia che in un vorticoso crescendo svela gli inganni le crudezze e le insensatezze della storia, dalla cosiddetta unità d’Italia – in realtà la piemontizzazione della penisola – alle sopraffazioni del fascismo e ai crimini del momento che abbiamo appena vissuto (gli assassinî di Falcone e Borsellino). Retablo (come del resto e con ben maggiore evidenza il precedente Lunaria) è invece come un momento di pausa nel quale tuttavia, per il particolare discorso che veniamo conducendo, non mancano importanti e rivelatrici considerazioni. Nel secondo quadro del trittico, il più vasto e imponente intitolato Peregrinazione (siamo nel Settecento, l’età della borghesia illuminata, dei viaggi e delle grandi scoperte archeologiche, dell’entusiasmo per il dispotismo illuminato e in certo modo del ritrovamento dell’uomo nel nome della ragione), l’aristocratico pittore milanese Fabrizio Clerici, giunto con berbera navigazione nella favolosa Mozia de’ Fenici, si trova di fronte a orci ricolmi di «ossa antiche, più antiche di Cristo o Maometto, ormai polite e nette come ciottoli di mare» e, in più, «ossa d’innocenti»: si trova cioè in quel cimitero ove i Fenici di quest’isola seppellivano i fanciulli dopo averli sacrificati ai loro dei. Ma il riflessivo artista milanese, l’ideale compagno dei Verri e dei Beccaria, non inorridisce come il suo siculo valletto, l’innocente e sventurato Isidoro; spiega anzi come quei remoti navigatori aprirono per le vie del mare nuove conoscenze insegnando a tutti i popoli, ad esempio, l’alfabeto e la scrittura segnica dei suoni. Sennonché il fervore precettistico del savio milanese s’interrompe presto in questa riflessione quasi rivolta sottovoce a se stesso6:

Ma così mai sempre è la veritate della storia, il suo progredire lento e contrastato, il miscuglio d’animalità e di ragione, di tenebra e di luce, barbarie e civiltà. E troppo presto esulta, a mio giudizio, il barone di Montesquieu, nel suo essé titolato Esprit des lois, per la superiore civiltà dei Greci di Sicilia, per i Siracusani che, dopo la vittoria d’Imera, per volontà del loro re Gelone, imposero ai Cartaginesi nel trattato di pace d’abolire quell’usanza d’uccidere i fanciulli. Così dice il filosofo, il giurista (e qui riporto quanto ritiene la memoria mia): «Le plus beau traité de paix dont l’histoire ait parlé est, je crois, celui que Gélon fit avec le Carthaginois. Il voulut qu’ils abolissent la coutume d’immoler leurs enfans. Chose admirable!…» Ma ignorava il Montesquieu che i Siracusani stessi, col tiranno loro Dionisio, tempo dopo, espugnata e saccheggiata quest’isola di Mozia, punivano crocifiggendoli quei Greci mercenari che avean combattuto coi Moziesi. E vogliamo qui memorare le barbarie dei Romani o i massacri vergognosi che gli Ispani, nel nome di Cristo e della santa Chiesa, compirono contra i popoli inermi delle Nuove Indie? Ah, lasciamo di dire qui di quanto l’uomo è stato orribile, stupido, efferato. Ed è, anche in questo nostro che sembra il tempo della ragione chiara e progressiva. L’uomo dico in astratto, nel cammino generale della storia, ma anche ciascun uomo al concreto è parimenti ottuso, violento nel breve tempo della propria vita. Vive sopravvivendo sordo, cieco, indifferente su una distesa di debolezze e di dolore, calpesta inconsciamente chi soccombe. Calpesta procedendo ossa d’innocenti, come questi del campo per cui procediamo io e Isidoro.

8Gli uomini “desti”, coloro che sentono di appartenere a un mondo comune, che vivono in un mondo comune – gli uni accanto agli altri, gli uni per gli altri o gli uni contro gli altri – possono, sol che lo vogliano, comprendere cosa sia la storia, misurarne le ben maggiori atrocità e le ben minori ma confortanti virtualità; possono, sul fondamento delle riflessioni portate su di essa, rinnovarsi dal profondo, conquistare coscienza e consapevolezza di ragione, non disperare. In questo senso il lungo viaggio del milanese Fabrizio Clerici per la Sicilia del presente e del passato (fenicio, greco, cartaginese, romano, arabo, bizantino e via discorrendo) diviene un lungo, arduo itinerario non in Dio ma nella riconquista dell’umano e dell’umano intelligere; e non solo relativamente al protagonista-principe del racconto – il raffinato intellettuale Fabrizio Clerici – ma anche nei confronti, per così dire, del suo miserando Sancio Panza, quell’infelice fraticello che sfratatosi per amore, Isidoro, accompagna lungo tutto il viaggio il suo dominus vittima anch’egli – almeno in questo le due classi economiche e sociali appartengono alla medesima natura umana – d’una altezzosa nobildonna milanese che sta per divenire la marchesina Beccaria. Rendersi conto del perché di tutto ciò e ricostruire il vissuto (anche il sogno, anche il privato) alla luce di una ragione difficilmente conquistata e ancor più difficilmente conquistabile, costituisce l’impegno dei protagonisti degli scritti di Consolo, del loro autore che in essi rivive e inventando s’immerge (il che vale anche per l’esordio della Ferita dell’aprile), dell’uomo che si sforza di annientare la propria animalità per divenire veramente uomo. L’olivo e l’olivastro: l’umano e il bestiale, il coltivato e il selvatico.

  • 7 Vd. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, Milano, 1992, p. 140.

9Un primo e riuscito tentativo di realizzare quest’arduo proposito è sicuramente consegnato in Nottetempo, casa per casa del 1992, una sorta di poema; come vorrei definirlo, che nei classici dodici canti svolge appunto il tema dell’uomo che atrocemente colpito da un’ignota offesa o sacrilegio, Petro Marano (dal suo nome di rinnegato? – gli abissi della storia), si sforza da sé solo di levarsi di dosso la continuata pena della sventura: la follia animalesca del padre, la stortura mentale che colpisce la sorella, la confusione babelica che corrompe persino il linguaggio, «stracangia le parole e il senso loro», onde «il pane si fa pena, la pasta peste, il miele fiele, la pace pece, il senno sonno»7. Ma converrà volger l’occhio sulla chiusa, su quella Fuga che porta in epigrafe un verso virgiliano: Longa tibi exilia et vastum maris aequor arandum. Che il destino, o Petro Marano, ti sia felice come quello d’Enea, sorride forse il lettore…

  • 8 Ivi, pp. 109-10.
  • 9 Ivi, pp. 109-10.

10 Petro comunque non è progenie di Venere. Suo padre ha avuto sì la buona sorte d’ereditare da un illuminato barone cui serviva, parte della terra e case che il defunto possedeva, ma il lascito non ha tardato a volgersi in offesa: “Bastardo” l’erede e “figlio del Bastardo” il figlio dell’erede; oltre che il livido, perenne rancore dell’espropriato. Il clima arcaico d’una società quasi ancora immersa nella pastorizia e nell’agricoltura con le sue tare ereditarie (la feudale arroganza dei grossi possidenti e la meschina miseria della plebe analfabeta) fa il resto; come fa il resto (siamo al principio degli anni Venti) il progressivo avanzare del fascismo, l’ubriacatura della media borghesia che delira per il dannunzianesimo, l’ormai evidente fallimento della cosiddetta questione meridionale (un fallimento, sia detto tra parentesi, consapevolmente progettato e voluto), la stravolgente devastazione irrazionalistica, da distruzione della ragione, storicamente rappresentata dal comparire in Sicilia della Grande Bestia dell’Apocalisse, alias Aleister Crowley, mago profeta e satanista. Inutilmente compare anche, quasi in conclusione della fabula, la figura di quel personaggio che un tempo si definiva l’eroe positivo – quel Cicco Paolo Miceli che, nonostante il suo aspetto da rachitico, aveva vivida la coscienza e gli occhi sempre accesi e il cui interesse primo «era la storia, la vita pubblica, la condizione al presente della gente, ché per la gente aveva attenzione, per la miseria»8: inutilmente. Nonostante un popolano amore ritrovato nel cui grembo avrebbe voluto entrare interamente e, rannicchiandovisi dentro e totalmente dimenticandosi, trovare finalmente la pace; nonostante l’enorme sforzo di solidarizzare con i ribelli e gli anarchici di cui pure non condivideva affatto, per così dire, il “dannunzianesimo di sinistra” (quello di un melmoso e parolaio Rapisardi), Petro Marano comprende che la riabilitazione non può che consistere nella fuga, ma una fuga che fosse insieme resurrezione: l’emigrazione a Tunisi come un emigrante qualsiasi, un emigrante «in cerca di lavoro, casa, di rispetto». Ed è su questo rispetto che vale la pena di posare particolarmente l’accento: rispetto per se stesso e per gli altri, per gli uomini desti di Eraclito, per gli uomini che appartengono al mondo comune e che lasciano al sonno quello infinitamente inferiore del privato; lo riscattano anzi dal suo dolore col proposito di darne, col tempo, meditata ragione. Per il momento e come in attesa di questo difficile risveglio, del sorgere di questo molto meno enfatico sole dell’avvenire, è l’ora del distacco – nottetempo e casa per casa – da un passato consapevolmente se pur dolorosamente respinto; da una memoria della quale si dovrà un giorno calcolare il peso, capirne a fondo il significato. «Andarono spediti col venticello di levante del mattino. Col cielo che appena si chiariva dietro la massa della Rocca, l’arco di luna, le stelle che smorivano, i lumi del paese, le lampare delle barche. Chiariva il mare, la scia della paranza. Vide nascere man mano e lontanarsi il Castello sopra il colmo, la roccia digradante, la balza tonda, il Duomo contro in tutta l’eminenza, San Domenico, la caserma, Marchiafava, il Monte Frumentario, e le casipole ammassate, le mura, gli archi, le infinite finestrelle, le altane, i làstrici sul porto… Conosceva quel paese in ogni casa, muro, pietra […] l’aveva amato. Ora n’era deluso, disamorato per quello ch’era avvenuto, il sopravvento, il dominio ch’aveva preso la peggiore gente, la più infame, l’ignoranza, la violenza, la caduta d’ogni usanza, rispetto, pietà…»9. Conosciamo tutti l’addio che Renzo diede alla patria; questo di Petro Marano fa balenare, attraverso la memoria, le infamie della Storia.

  • 10 Vd. V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 1998, p. 128.

11 L’ultimo dei testi della trilogia di Consolo, Lo Spasimo di Palermo, è fuor di dubbio il più complesso, il più drammatico e il più attuale: perciò stesso, e quasi inevitabilmente, il più difficile di questi difficili libri; in certa misura il meno lineare nell’ossessivo affollarsi di passato e presente, nel contrapporsi di storia a memoria, nel vano bisogno di conforto che il ricordo potrebbe dare e che suscita al contrario un cocente sentimento di patimento, di sconfitta, di spasimo. Lo “Spasimo di Palermo”, beninteso, è riferito a un dipinto di Raffaello che ritrae la caduta di Cristo sul cammino del Calvario e allo spasimo della Vergine che, andata a lui incontro, rimane attonita davanti a tanto strazio del Figlio; ed è uno strazio ed uno spasimo che da Palermo e dalla Sicilia non tarda ad allargarsi al mondo intero, a questa società in cui la violenza nazi-fascista, sotto altre forme apparentemente più benevole, mercé il traino dell’ormai libero e selvaggio capitalismo, non ha fatto che inondare il mondo con la sua spietata corruzione. Dopo la guerra il dopoguerra. Cosa hanno fatto, di effettivamente positivo e concreto, le due generazioni che si sono via via succedute, quella del protagonista del libro, lo scrittore Gioacchino Martinez, e quella del figlio Mauro? La prima, anche nel turbine dei privati dolori, s’è «murata» nell’inerte «azzardo letterario»; la seconda, ritenendosi forte di una «lucida ragione», nell’azzardo temerario e inconcludente della lotta armata, del terrorismo. Ma è forse così che si costruisce una società nuova e civile, fondata sulla giusta convivenza? Questa amara confessione, che è implicitamente sottesa in tutte le aggrovigliate pagine del racconto, che in certo modo ne determina gli eventi e si concretizza in rimorsi che a loro volta prendono figura d’assurde e ossessive apparizioni; questa confessione si libera finalmente nel capitolo conclusivo sennonché, proprio al termine della confessione e della liberazione, esplode sotto casa l’attentato e la morte del giudice Borsellino. Aveva appena scritto il padre al figlio10:

Questa città [Palermo], lo sai, è diventata un campo di battaglia, un macello quotidiano. Sparano, fanno esplodere tritolo, straziano vite umane, carbonizzano corpi, spiaccicano membra su alberi e asfalto – ah l’infernale cratere sulla strada, per l’aeroporto! – È una furia bestiale, uno sterminio. Si ammazzano tra di loro, i mafiosi, ma il principale loro obiettivo sono i giudici, questi uomini diversi da quelli d’appena ieri o ancora attivi, giudici di nuova cultura, di salda etica e di totale impegno costretti a combattere su due fronti, quello interno delle istituzioni, del corpo loro stesso giudiziario, asservito al potere o nostalgico del boia, dei governanti complici e sostenitori dei mafiosi, da questi sostenuti, e quello esterno delle cosche, che qui hanno la loro prima linea, ma la cui guerra è contro lo Stato, gli Stati per il dominio dell’illegalità, il comando dei più immondi traffici.

12 Parole dure, icastiche e, soprattutto, veritiere; tali da evocare il rimpianto per il grande romanzo realista dell’Ottocento; parole che suggeriscono la figura super-umana del balzacchiano Vautrin che induce, simile a un Mefistofele, gli uomini che si dibattono nella loro insensatezza a prendere la via della realtà, ossia dell’abiezione capitalistica: la via dell’arrivismo nudo e crudo. Cosa viene qui particolarmente illustrato se non la disinvolta complicità, ormai neppur quasi dissimulata, tra uomini di governo e uomini di malaffare nel sostenersi reciprocamente nell’età in cui viviamo, in questo “dopoguerra” in cui il capitalismo, arrivato ormai a un potere senza più limiti, spinge gli uomini verso la degradazione più completa attirandoli progressivamente nelle spire della più profonda degenerazione? Il conte Mosca, in Stendhal, così formulava i suoi consigli a Fabrizio del Dongo: «La vita nella società somiglia al gioco del whist. Chi vuol giocare non deve indagare se le regole del gioco siano giuste, se abbiano qualche ragione morale o altro».

  • 11 È la pagina conclusiva del libro.

13Proprio mentre sta stendendo questa sua confessione-rapporto che vorrebbe essere in certa misura liberatrice, lo scrittore Gioacchino Martinez viene interrotto dall’attentato al giudice Borsellino11:

E fu in quell’istante il gran boato, il ferro e il fuoco, lo squarcio d’ogni cosa, la rovina, lo strazio, il ludibrio delle carni, la morte che galoppa trionfante.

Il fioraio, là in fondo, venne scaraventato a terra con il suo banchetto, coperto di polvere, vetri, calcinacci.

Si sollevò stordito, sanguinante, alzò le braccia, gli occhi verso il cielo fosco.

Cercò di dire, ma dalle secche labbra non venne suono. Implorò muto

O gran mano di Dio, ca tantu pisi,

cala, manu di Diu, fatti palisi!

14Allo scadere di duemila anni di civiltà post Christum natum i popolani si vedono ancora costretti a invocare la giustizia di Dio.

Memoria e romanzo

15Nel 1881, l’anno dei Malavoglia, Giovanni Verga non si faceva illusioni sul suo romanzo. «So anch’io – scriveva a Felice Camerini – che il mio lavoro non avrà successo di lettura, e lo sapevo quando mi sono messo a disegnare le mie figure»; eppure – diceva a un altro suo corrispondente – «se mai dovessi tornare a scriverli li scriverei allo stesso modo». Perché? Perché ciò cui lo scrittore mirò – come pure s’espresse altrove lui stesso – fu il tentativo di dare, attraverso semplicità di linee e uniformità di tono, l’efficacia della coralità dell’insieme e far sì che a libro chiuso, tutti i personaggi che l’artista aveva posto sulla pagina con il metodo del discorso indiretto e della rappresentazione degli eventi quali si riflettono nei cuori e nei cervelli d’essi personaggi, resuscitassero nella mente del lettore con l’evidenza di chi li aveva conosciuti di persona, nato e vissuto in mezzo a loro. Mai nessuno aveva prima tentato di dar vita a un’opera d’arte tanto collettiva, autonoma e capace d’imporsi solo in virtù della forza espressiva con la quale si presentava; e non a caso la chiusa del romanzo è rimasta memorabile: «Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu».

16Che a Verga si colleghi consapevolmente Vincenzo Consolo è cosa ben nota e che lo stesso Consolo, anche adducendo particolari circostanze biografiche, orgogliosamente rivendica. E sin dall’esordio del ’63 con La ferita dell’aprile il cui incipit suona:

Dei primi due anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l’odore di beccume, la ruota che s’affloscia, la naftalina che svapora dai vestiti. La scuola me la ricordo appena. C’è invece la corriera, la vecchiapregna, come diceva Bitto.

  • 12 Vd. V. Consolo, La ferita dell’aprile, Mondadori, Milano, 1989, p. 31.

17Parrebbe, a prima vista, di trovarsi di fronte a un nuovo Pavese di Sicilia, ma ben presto ci si ricrede. Uno scampolo quasi a caso12:

Di fronte c’era il mare, alto fino ai nostri occhi, con la fila di luci di barche che facevano su e giù per l’acqua un poco mossa: parevano lanterne appese ad una corda, scosse dal vento. Domani si mangia sarde, ma la signora aspettava che fetevano prima di comprarle. Il faro di Cefalù guizzava come un lampo, s’incrociava con la luna, la trapassava, lama dentro un pane tondo: potevano cadere sopra il mare molliche di luna e una barca si faceva sotto per raccoglierle: domani, alla pescheria, molliche di luna a duecento lire il chilo, il doppio delle sarde, lo sfizio si paga: correte, femmine, correte, prima che si squagliano.

  • 13 Vd. Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 105.
  • 14 Vd. V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano, 1994, p. 19. E vd. Omero, Odissea, 9 21-2 (…)

18La strada era dunque segnata. Si trattava ora di percorrerla con autonomia per dare nuova forma al genere romanzo. Come «epopea borghese» esso s’era dissolto – è stato detto e già ricordato – nella notte tra il 1 e il 2 dicembre del 1851 quando, sulle barricate, l’eroe dell’Educazione sentimentale flaubertiana Frédéric Moreau vede cadere Dussardier al grido Viva la Repubblica! e riconosce nell’agente di polizia il suo ex compagno di lotta “radicale” Sénécal; cominciava proprio allora, e nello stesso Frédéric Moraeu, la ricerca di quel tempo perduto che fonda la sua consistenza essenzialmente sulla memoria, ma sulla memoria del privato. Per Consolo, come del resto già accennavo, essa diviene invece lo strumento principale per indagare le vicende della storia, le grandezze e le infamie del passato, le ricadute sulle contraddizioni del presente: la memoria (la ricerca storico-culturale) come strumento di conoscenza. E ciò inevitabilmente esige, ripercuotendovisi, una diversa elaborazione del fraseggio, esige quella «furia verbale», come lo stesso Consolo ammette con le parole dello scrittore Gioacchino Martinez che più da vicino l’impersona, che in una diversa e dissonante lingua può finire in urlo o dissolversi nel silenzio13. In altri termini: la memoria come il medium insostituibile per ripercorrere tanto il vissuto personale quanto, e soprattutto, il passato collettivo, intrinsecamente congiunti; soprattutto quando si è nati e ci si è formati in Sicilia, la terra miticamente (ma in gran parte anche storicamente) più antica del mondo e già abbracciata da Ulisse. «Non so vedere – dice l’eroe14  – altra cosa più dolce, per uno, della sua terra»: un affetto d’uomo che risuonerà almeno, altissimo, fino a Ugo Foscolo; senza neppure dimenticare che furono i poeti dalla Magna Curia fridericiana a gettare le basi del volgare d’Italia: i primi poeti toscani, gli stilnovisti stessi, non fecero che tradurli com’è testimoniato dall’opera di Stefano Protonotaro da Messina. In questo senso si potrebbe persin dire che la ricerca formale di Consolo, sia stilistica sia lessicale, sia una sorta di ritorno alle origini.

  • 15 Vd. supra la nota 13.

19Nelle molteplici teorie avanguardistiche che si sono succedute alla dissoluzione del romanzo come epopea borghese – la celebrazione della borghesia nel suo vigore dissacratore e vincente del feudalesimo – c’è sempre un motivo di fondo comune: il senso di estraniazione e di solitudine. Per esse esiste solo l’individuo eternamente ed essenzialmente solitario, svincolato da ogni rapporto umano e a maggior ragione da ogni rapporto sociale; egli è “gettato” nel mondo quasi senza alcun senso e imperscrutabilmente, ond’egli finisce anche con l’illudersi che, in questo modo, gli si apra quell’infinita ricchezza di possibilità virtuali in cui fa apparentemente consistere la pienezza della sua anima. Non c’è nessuna realtà, c’è la coscienza umana, ebbe a dire Gottfried Benn. È essa che forma incessantemente i mondi della sua creatività, che li trasforma, li subisce e li modella spiritualmente. Ebbene: nulla di più lontano, rispetto a queste posizioni avanguardistiche e sperimentalistiche, dell’avanguardismo e dello sperimentalismo di Consolo. Egli potrà far ben dire allo stesso alter ego appena su ricordato15 che il romanzo rappresenta ormai un genere letterario «scaduto, corrotto e impraticabile»: sennonché lo scrittore ha saputo rinnovarlo in qualcos’altro, vale a dire in una forma letteraria nella quale il particolarissimo linguaggio mnemonico che pure ricorre (e tutt’altro che raramente) a improvvisi e quasi inattesi squarci lirici, cerca di fare i conti con la storica umana collettività (la terra di Sicilia ne è l’emblema) onde finalmente coglierne, al di là delle macerie di cui è disseminata, i momenti più vividi di pathos morale e civile.

NOTE

1 Bufalino nasce nel 1921; Consolo nel 1933.

2 Vd. la recensione al secondo libro di Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio (Einaudi, 1976) e intitolata L’ignoto marinaio, ora in L. Sciascia, Opere 1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano, 1989, pp. 994-98 (nella raccolta Cruciverba).

3 Altre poche notizie biografiche. Dopo gli studi elementari e medi frequentati a Sant’Agata (i secondi in un istituto salesiano poi liberamente rievocati nel libro d’esordio La ferita d’aprile del ’63 presso Mondadori); dopo quelli universitari e giuridici a Milano presso l’Università Cattolica, Consolo torna in Sicilia e stringe particolare amicizia con Lucio Piccolo e Leonardo Sciascia. Dal ’68 è a Milano addetto, nella sede milanese, ai programmi culturali della RAI. Il successo gli arride nel 1976 con il Sorriso del vecchio marinaio. Col successivo Nottetempo, casa per casa (1992) vince lo Strega. Vive ora a Milano.

4 Vd. F. Engels-K. Marx, La famiglia. In Opere, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 37.

5 La citazione da Il sorriso dell’ignoto marinaio, Mondadori, Milano, 1997, pp. 113-14. Sul protagonista del libro, il barone Enrico Mandralisca di Pirajno, possessore del celebre dipinto di Antonello da Messina Ritratto d’ignoto, vd. quanto ne scrive Sciascia nel già ricordato (n. 2) L’ignoto marinaio.

6 6 Vd. V. Consolo, Retablo, Mondadori, Milano, 1992, pp. 115-16.

7 Vd. V. Consolo, Nottetempo, casa per casa, Mondadori, Milano, 1992, p. 140.

8 Ivi, pp. 109-10.

9 Ivi, pp. 109-10.

10 Vd. V. Consolo, Lo Spasimo di Palermo, Mondadori, Milano, 1998, p. 128.

11 È la pagina conclusiva del libro.

12 Vd. V. Consolo, La ferita dell’aprile, Mondadori, Milano, 1989, p. 31.

13 Vd. Lo Spasimo di Palermo, cit., p. 105.

14 Vd. V. Consolo, L’olivo e l’olivastro, Mondadori, Milano, 1994, p. 19. E vd. Omero, Odissea, 9 21-22.

15 Vd. supra la nota 13.

Il senso della storia nell’opera di Vincezo Consolo
Ugo Dotti Biblioteca Aragno

Porcacchia facean di nome

“Porcacchia facean di nome loro di famiglia…”: con questo o un simile
attacco vorrei scrivere un romanzo. Raccontare d’una famiglia di camionisti (padre e due figli, mettiamo) del Napoletano, del Casertano o Avellinese, ex contadini, proprietari di un camion con rimorchio (costano, questi bisonti, quanto una casa di cento metri quadri entro la prima cerchia dei Navigli di Milano), che vanno, affannosamente e disperatamente (devono pagare il camion, costruire la casa), sulle autostrade su e giù per la stretta penisola nostra italiana. Con loro, della nuova realtà sociale: l’inurbamento, le squallide periferie industriali delle metropoli del Nord e i caotici agglomerati delle città del Sud, la camorra, il traffico di armi e droga, l’industria delle serre, lo sfruttamento della mano d’opera del Terzomondo, il calcio, gli stadi, i grandi mercati, le tangenziali, i raccordi anulari, i massacri sulle autostrade, gli scioperi, i blocchi stradali, i porti, i containers… Vorrei scrivere, ma non posso: bisogna esser giovani per scrivere un libro così, giovani e sciolti d’ogni memoria e legame per poter salire sulla cabina di uno di quei camion e viaggiare almeno per un anno, imparare, se già non la si conosce, la nuova lingua italiana, le koinè delle nuove realtà in cui ci si imbatte, i gerghi dei camionisti, dei trafficanti, dei camorristi, dei tifosi, delle prostitute, dei travestiti… No, non posso proprio: sono vecchio. Peccato. Mi resterà il rimpianto di non aver potuto scrivere un mio Pasticciaccio, il pasticciaccio brutto dei Porcacchia. Cedo dunque l’idea a qualche giovin scrittore italiano (interesserà mai a costui la realtà nostra sociale e saprà scrivere in terza persona?). La cedo a gratis, come dicono a Milano. Dicono a gratis e dicono con pardon i ragionieri di codesta città quando vogliono parlare in punta di forchetta. Oltre a dire una tantum, nel senso del diritto che hanno loro a sniffare di tanto in tanto per riprender quota ed esser efficienti. Ma con lo sniffo siamo forse già a livelli un po’ più alti (di quelli dei ragionieri almeno rimasti fuori da Palazzo Chigi, fuori dal Banco Ambrosiano e fuori dalla Borsa): macellai, ristoratori, amministratori ed evasori d’ogni risma, fabbricanti di mine, di defolianti e di tondini, pubblicitari e pierre, designers, parrucchieri, sarti, fotomodelli, artisti d’ogni ramo, dentro e fuori il Canale Cinque. Parlo della grande Milano in cui dimoro ormai da venti anni, senza contare i quattro in cui vi studiai. Erano allora gli anni Cinquanta e Milano l’era tutta un’altra roba. Era la città della ricostruzione, del grande Progetto, gli anni del “Politecnico” e dei “Gettoni” di Vittorini. Finiti gli studi, me ne tornai in Sicilia con l’idea di fare lo scrittore. Lo scrittore meridionale e meridionalista (era tanto di moda allora). Perché allora la scrittura era subito impegno, testimonianza e denunzia (e c’era pure Scelba che denunziava il culturame). Il grande sole o schema era naturalmente il Cristo d’Eboli con tutto quanto lo aveva preceduto e seguito, Gramsci Dorso Salvemini, con tutte le Uva puttanella, tutti i Pasticciaccio e i Ragazzi di vita, tutti i neorealismi, le sperimentazioni e le digressioni dialettali allora imperanti. Ma quando mi trovai a pubblicare il mio primo libro nel ’63, nella mondadoriana collana del “Tornasole” di Niccolò Gallo e Vittorio Sereni, dal titolo La ferita dell’aprile, dissero i critici, che allora leggevano i libri, che ero fuori, ma proprio fuori dal neorealismo. Ma ero dentro la storia. La storia siciliana del dopoguerra, la caduta del fascismo, la ricostruzione dei partiti, le prime elezioni regionali del ’47 con la vittoria del Blocco del Popolo, la strage di Portella della Ginestra, la vittoria schiacciante dei Democristiani nel ’48… Poi finì il Meridione e finì il mondo contadino. Tutto si industrializzò, pure la mafia e pure la camorra. Avvenne il grande esodo dei braccianti dal Sud al Nord. Anch’io quindi emigrai, e di nuovo su a Milano. Avevo la bell’età di trentacinque anni. Viaggiai il giorno e la notte di San Silvestro e il primo gennaio del 1968 fui a Milano. Contadino inurbato, non sapevo niente di metropoli e di cultura industriale. Mi sentii spaesato, spiazzato anche linguisticamente. Ripercorsi così, per salvarmi, per riconquistare anche l’uso della parola, la mia storia, la storia cioè della mia terra, e scrissi, in una lingua storica e filologica scavata e ritrovata, Il sorriso dell’ignoto marinaio. Dopo tredici anni dall’esordio. E questo libro, ch’era d’impianto storico (si svolgeva negli anni del Risorgimento e dell’impresa garibaldina: nodo di passaggio storico importante per il Meridione e banco di prova della maggior parte degli scrittori siciliani – Verga, De Roberto, Pirandello, Lampedusa, Sciascia…),
voleva anche dire metaforicamente del momento che allora si viveva,
a Milano e altrove. Poi… Poi sempre più indietro e sempre più lontano
dalla realtà: Lunaria, un racconto favoloso ambientato in un vago Settecento e scritto in forma teatrale. Quindi, uscito proprio nei giorni in cui sto per tracciare questo mio profilo scellerato, Retablo, d’ambientazione ancora settecentesca. Su cui aspetto che i critici dicano qualcosa. I quali forse non diranno niente fino a che il libro non sarà tradotto in italiano, nella lingua cioè dei Porcacchia che oggi si parla e scrive nel paese nostro. Perché Retablo è scritto in una lingua trapassata,
che pochi ormai ricordano e capiscono. “Lei è anacronistico?” mi ha chiesto un giornalista. “Certo” ho risposto. “E pure anacreontico.”

Vincenzo Consolo, in Giuseppe Appella – Paolo Mauri (a cura di), Almanacco della Cometa.
“I contemporanei vedono
se stessi”, Edizioni
della Cometa, Roma 1988, pp. 21-22.

Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello: vicinanze e lontananze di due scrittori del secondo Novecento

Giuliana Adamo

L’attenzione critica che qui si vuol dare a un confronto tra Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello trae spunto, a ritroso, dall’evento unico ed ultimo che li ha visti insieme il 20 giugno del 2007, a Palazzo Steri, a Palermo, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Filologia Moderna conferita ad entrambi, in curiosa conclusione del viaggio parallelo dei due scrittori, iniziato proprio nel 1963, anno del loro rispettivo esordio letterario.1 Escono, infatti, nel 1963 La ferita dell’aprile di Consolo – storia di un adolescente che dopo un itinerario fatto di entusiasmi e di delusioni, di gioie e dolori, arriva alla conoscenza della solitudine e del carattere conflittuale dell’esistenza; misto sapientemente dosato di autobiografia e di storia, di quotidiano e di mito – e Libera nos a malo di Meneghello, testo autobiografico che ‘offre un ritratto della vita a Malo, di una incomparabile ricchezza e incisività. È l’Italia […] della prima metà del secolo, nei decenni successivi alla Prima guerra mondiale’ che suscita anche nei lettori che veneti non sono ‘la “scossa del riconoscimento” (lo shock of recognition, come si dice in inglese) – un senso di partecipazione, di familiarità, nonostante le grandi differenze di contesto culturale’.2 Importante richiamare – anche se rapidamente – le superficiali analogie tra le rispettive scelte biografiche che rendono conto, in parte, delle ragioni della posizione peculiare che i due scrittori hanno avuto nel panorama culturale coevo: essendo tra i pochi ad essersi espatriati o dispatriati, con tutte le differenze dei singoli casi (Consolo a Milano, Meneghello a Reading in Inghilterra), dal proprio Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 39 luogo natìo e ad avere vissuto in un costante confronto tra le diverse culture con cui sono venuti a contatto. Entrambi, e ciascuno a suo modo, ulissici nel nóstos continuo con la propria Itaca: la Sicilia per Consolo, Malo per Meneghello. Prima di proseguire è importante ricordare, in sintesi, che il contesto letterario in cui prendono l’avvio i due scrittori è quello a cavallo degli anni ’50 e ’60 del Novecento, momento in cui, in un’Italia che faceva ancora i conti con gli strascichi della già conclusa esperienza del Neorealismo postbellico, imperversavano dibattiti e polemiche riguardanti soprattutto le nuove forme di espressione letteraria da ricercarsi, in ambito linguistico, nei territori che si estendevano tra il ricorso alla lingua italiana e la necessità dell’uso letterario dei dialetti. Per intendere la lezione stilistica di Meneghello sono preziose le parole di Cesare Segre, secondo cui lo scrittore di Malo si muove in uno spazio indipendente di outsider, di dispatriato e apprendista in Inghilterra, da Meneghello chiamata il ‘paese degli angeli’. Lo scrittore di Malo, quindi, ‘ha ben poco a che fare’ – sostiene Segre – con i precedenti più rappresentativi quali Fenoglio, Testori, Pasolini, Mastronardi perché la loro scelta dialettale è connotata da un ‘marchio sociologico’ di eredità neorealistica estraneo alla scrittura di Meneghello. E ha anche poco a che spartire sia con la diversa matrice della dialettalità espressionistica di Gadda; sia con l’uso mimetico del dialetto di Fogazzaro; sia con la dialettalità contenutistica di Verga, e poi di Pavese, in cui il ricorso alla dimensione dialettale esula dalle caratteristiche lessicali e morfosintattiche del dialetto. A queste differenze, si aggiunga, infine, il tratto peculiare della scrittura di Meneghello in cui, benché la funzione del dialetto sia in lui fondativa, il discorso narrativo avviene ‘prevalentemente in lingua’.3 Per Consolo il discorso è differente in quanto lo scrittore siciliano – pur con tutta la sua peculiare originalità espressiva che vede fondere l’eredità barocca di Lucio Piccolo con la ratio illuminista di Sciascia – si inscrive pienamente nella tradizione del romanzo storico siciliano che si estende, notoriamente, dal Verga della novella ‘Libertà’, al De Roberto de I viceré, al Pirandello de I vecchi e i giovani e allo Sciascia de Il consiglio d’Egitto. Tutti i romanzi e le opere di Consolo si riferiscono alla storia più o meno recente della Sicilia e se ne nutrono direttamente. Per quel che riguarda, invece, la sua ricerca linguistica, come da lui stesso ampiamente ribadito nei suoi scritti, essa rimanda alla linea della sperimentazione di Pasolini e di Gadda (in opposizione alla soluzione razionalista e illuminata della lingua di Calvino e Sciascia), risultando in una scrittura che, come coglie la poetessa e scrittrice Maria Attanasio, ‘non è mai rotonda fertilità espressiva, 40 Giuliana Adamo levigato specchio, ma frantumazione caleidoscopica, allusivo aggiramento, inesauribile nominazione; al di là della parola, resta, indicibile, il vivido pulsare della vita’.4 Fatta questa necessaria premessa, torno all’argomento su cui mi soffermo in questa sede. Per il confronto che mi appresto ad abbozzare e a proporre – nulla di esaustivo ovviamente, ma ugualmente passibile, spero, di critiche costruttive, approfondimenti, analisi di differente approccio – il punto di partenza mi è sembrato giusto che fosse dato dalle rispettive lectiones magistrales – in apparenza così diverse – indirizzate, dai due laureandi, al Senato accademico e al pubblico presenti nella sala palermitana. Quella di Consolo, il primo a parlare, dal titolo ‘Due poeti prigionieri in Algeri. Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’; quella di Meneghello intitolata ‘L’apprendistato’. 5 Le due lectiones mi pare si prestino ad essere usate come specimen delle rispettive opere, permettendo di tracciare linee di contatto e/o distacco, di analogie e/o differenze tra i due autori. Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano La lectio di Consolo, fin dalla dedica alla memoria di Leonardo Sciascia, segnala l’instancabile e appassionata militanza, da sempre parallelamente giornalistica e letteraria, dell’autore siciliano e verte sui temi che costituiscono il cuore di tutta la sua scrittura: 1) Il rapporto tra passato e presente (da cui il suo sguardo storico indagatore trae la linfa vitale: il passato come metafora del presente). 2) L’attenzione particolare alla Storia siciliana inquadrata nel contesto più ampio della storia mediterranea, fatta di incontri e scontri di popoli e civiltà e dalle stratificazioni culturali e linguistiche che ne conseguono. A questo, inoltre, si lega l’immancabile tema dell’opera di Consolo: il viaggio. Tutte le sue opere sono fondate su una storia di viaggio o giocano con la metafora del viaggio: viaggio rituale dall’esistenza alla Storia, che invita alla conoscenza di sé e del mondo. Viaggio alla ricerca della luce-ragione che illumini, pur se in modo intermittente, le tenebre che avvolgono la condizione umana. 3) La necessità ineludibile della poesia (con il ricorso nella sua narrativa ad una lingua poetica, non comunicativa ma espressiva). 4) La citazione e la menzione continue di testi poetici e narrativi, scritti e orali, nelle diverse lingue del mondo consoliano: italiano, siciliano, spagnolo, latino, sabir, nonché il costante intarsio realizzato dalle fedeli Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 41 riprese di cronache e documenti d’epoca ufficiali e non, altro polo costitutivo della poetica e dell’opera di Consolo. Quanto al contenuto della lectio, in parole brevi, che valgono quasi come un sottotitolo, parla della vita terribile nel tardo Rinascimento, vissuto tra le sponde del Mediterraneo, che fa da sfondo alla comune prigionia, nelle carceri di Algeri, di Miguel de Cervantes e del poeta siciliano Antonio Veneziano alludendo, per via di metafora, all’attuale situazione del mare nostrum, crocevia di diverse civiltà e doloroso luogo degli scontri tra di esse. Si pensi, soprattutto, al problema dei migranti, nei confronti del cui trattamento da parte dell’Europa occidentale e, in particolare dell’Italia, la sensibilità dell’intellettuale Consolo ha raggiunto punte estreme di indignazione civile e di profonda pietas. Consolo ricostruisce la oscura biografia di Antonio Veneziano ‘l’elegantissimo latinista, il più rinomato poeta siciliano del secolo XVI’6 vissuto tra 1543 e 1593. Per fare questo, applica il suo rigoroso metodo di indagine storica e storiografica – eredità manzoniana e fondamento dei suoi romanzi storici, o meglio anti-romanzi storici – risalendo alle fonti scritte ed ufficiali e, quando possibile, a fonti più in ombra (archivi, fondi di parrocchie, testimonianze di oscuri cronisti coevi, lettere dimenticate, atti notarili, scritte murali, graffiti, canzoni popolari, etc.).7 In questo caso, Consolo cita, tra gli altri, le testimonianze di Giuseppe Lodi (bibliotecario ottocentesco della palermitana Società di Storia Patria); del demo-psicologo ed etnologo Giuseppe Pitrè; del canonico Gaetano Millunzi; di Leonardo Sciascia che, nel 1967, a proposito del Veneziano ricorda che era: ‘Violento, sensuale, scialacquatore, carico di debiti, incostante negli affetti famigliari e negli amori, assolutamente sprovvisto di rispetto per le istituzioni e per gli uomini che le rappresentano’.8 Tuttavia, ed è questo che interessa a Consolo sia per il plurilinguismo sia per la militanza polemica dell’intellettuale: malgrado il carattere e la mala condotta, scrive, scrive il Veneziano, scrive poesie in siciliano, in latino, in spagnolo, prose e composizioni in versi per gli archi di trionfo in onore dei vari viceré che s’installano a Palermo. Ma scrive anche satire contro gli stessi viceré, contro il potere politico, satire affisse sui muri. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 26) La vita del Veneziano si rivela curiosamente speculare a quella di Cervantes (ricca come risulta di accuse malevole, assilli economici, disordini familiari, varie incarcerazioni). Ed è ad una di queste incarcerazioni, presumibilmente, che si deve l’incontro, o il re-incontro (forse, congettura Consolo, si 42 Giuliana Adamo erano incrociati anni prima a Palermo, ma questo resta da dimostrarsi), e la conseguente ammirazione reciproca, quasi amicizia, tra l’autore del Quijote e quello della Celia. Il Veneziano venne preso prigioniero sulla galea Sant’Angelo, al seguito di Don Carlo d’Aragona, dai corsari, al largo di Capri, il 25 aprile 1578. Quindi venne condotto come schiavo ad Algeri nel cui bagno penale incontrò Cervantes, a sua volta schiavo in quella città da più di tre anni. Anche la biografia di Cervantes, soprattutto in relazione alla sua prigionia algerina e ai suoi ben quattro tentativi di evasione, è ricostruita storicamente da Consolo sulla scia di scritti, documenti, testimonianze di autori vari, incluse quelle dello stesso Cervantes. Ecco, dunque, che è importante rilevare (e la lectio ce ne dà prova) come Consolo lavori col materiale che ha cercato, documentato, elaborato. Da un lato, quindi, vediamo emergere, l’importanza che ha per lo scrittore la Storia e il metodo usato nella sua ricerca di ricostruzione e ricomposizione del passato; dall’altro – e in maniera costitutivamente intrecciata – il lavoro creativo dello scrittore che intaglia una storia ricca di dettagli documentati in modo meno ufficiale dentro alla grande Storia, che lui avvertiva sempre come immobile e immutevole nelle sue prevaricazioni, nei suoi inganni, nelle sue menzogne, nelle sue ingiustizie, nei suoi silenzi, nelle sue esclusioni. Ed ecco – analogamente a quanto avviene nei suoi lavori storici, memori della lezione manzoniana ma prodotti nella sua lingua ‘rigogliosamente espressivistica’,9 plurivocale,10 pluridiscorsiva e pluristilistica – che Consolo si spinge a ricreare che cosa possano avere detto, fatto, provato insieme, ad Algeri, i due scrittori secenteschi: I due in carcere, ascoltano la cantilena in sabir, la lingua franca del Mediterraneo, che i ragazzi mori cantavano sotto le finestre dei bagni: Non rescatar, non fugir Don Juan no venir morir… cantilena riportata da Cervantes in Vita ad Algeri e ne I bagni di Algeri. Tutte e due avranno avuto catene alle caviglie e saranno stati vestiti allo stesso modo, il modo come Cervantes descrive il Prigioniero che entra con Zoraide nella locanda ‘il quale mostrava dagli abiti d’essere un cristiano giunto recentemente da terra di mori, perché era vestito d’una casacca di panno turchino, a falde corte, con mezze maniche e senza collo; anche i calzoni erano di tela turchina, e il berretto dello Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 43 stesso colore.’In quel carcere, con chissà che emozioni e sensazioni, scrivono l’uno la Celia (preso d’amore non si sa bene per chi fra i due possibili oggetti del suo amore: quello incestuoso per la nipote Eufemia o quello impossibile per la viceregina Felice Orsini Colonna, moglie di Marc’Antonio Colonna, comandante della flotta veneziana nella battaglia di Lepanto, nel 1571, allora viceré di Sicilia); l’altro presumibilmente Vita ad Algeri, le Ottave per Antonio Veneziano e comincia la stesura della Galatea. (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, pp. 30-31)11 I due protagonisti della lectio lasceranno Algeri, finalmente riscattati: il Veneziano nel 1579 (morirà nel 1593 nel carcere di Castellamare per lo scoppio doloso della polveriera), mentre Cervantes nel 1580 (per poi finire nel carcere di Siviglia o in quello di Castro del Rio dove nel 1592 concepisce il Quijote). In seguito, ricorda significativamente Consolo, Cervantes ritornerà sulla passata dolorosa esperienza: ‘[d]ice ancora il Prigioniero del Don Chisciotte: “Non c’è sulla terra, secondo il mio parere, gioia che eguagli quella di conseguire la libertà perduta”’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 33). A questo punto, da quel che emerge da una lectio così costituita possiamo cogliere un insieme di elementi che offrono una misura valida per farsi un’idea dei tratti essenziali che permeano tutta l’opera di Consolo: 1) L’ ineludibile necessità etica che lo spinse, da sempre, a studiare, indagare, scavare, scrivere – cercando di capire e di aiutare a fare capire – la complessità della vita, nel Cinquecento come nel 2000, che si svolgeva e svolge nell’area mediterranea, dove sono nate incontrandosi e/o scontrandosi le grandi civiltà della storia occidentale. 2) La necessità di mostrare che la Storia – se distaccata dalla storiografia ufficiale, sempre soggettiva e parziale, scritta dai vincitori e mai dai vinti – può emergere più contraddittoria, ma più completa, grazie al corale contributo delle voci di ‘più picciol affare’. In tal modo, la scrittura della storia diventa (con certa utopia) incrocio di punti di vista diversi: Storia, insomma, come una messa a fuoco plurima e dialettica della realtà. In Consolo il rapporto Storia-invenzione del romanzo storico classico è rovesciato: ‘ciò che lì era documento qui è racconto, universo opinabile, discorso retorico. Ciò che lì è veramente accaduto, qui è come realmente accaduto’, evidenzia finemente Nisticò a proposito, in particolare, de Il sorriso dell’ignoto marinaio. La critica operata da Consolo è volta alla Storia in quanto scrittura, nella sua ‘demistificazione permanente del mito 44 Giuliana Adamo dell’oggettività e della verità dei documenti e della tradizione storica’.12 Ed è su questo assunto che si è basata la sua intera attività di scrittore. 3) Il valore della scrittura qui esemplato dall’esperienza di due intellettuali che si trovano in mezzo a indicibili difficoltà oggettive e, di conseguenza, il ruolo salvifico della poesia che – nonostante tutto e tutti e nonostante i suoi stessi autori – è eternamente valida e, a differenza della Storia, super partes. 13 4) La metafora del presente che quell’antica, tormentata, feconda esperienza cinquecentesca è chiamata simbolicamente a rappresentare, in quanto per Consolo: ‘un testo è vivo quando è metafora, quando non parla solo di sé’.14 5) La fondante tensione metaforica resa attraverso uno stile che rende ragione del coro di voci e di lingue che scintillano in questo testo (come in tutti i suoi testi) intrecciandosi per ricordarci che quel che è successo succede ancora e che, e qui Consolo usa le parole, tragicamente attuali, che Fernand Braudel riferiva all’età di Filippo II: ‘In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato, e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli ‘universi concentrazionari’ (‘Due poeti prigionieri in Algeri’, p. 34). Rappresentativa della poetica di Consolo è questa lectio che ho voluto usare come microtesto per individuare le linee portanti del macrotesto consoliano: non autobiografica, se non per pulsioni spesso inconsce; storico-filologica; testimonianza del suo impegno di scrittore e di intellettuale contro soprusi e ingiustizie. Le attestazioni dell’inesausto agire civile di Consolo, oltre che in tutti i suoi libri e nei suoi saggi, anche sulle pagine dei quotidiani italiani storicamente più schierati a sinistra, come l’Unità e Il manifesto, che hanno accolto i suoi veementi articoli sui temi dell’immigrazione, dei migranti, delle angherie e degli abusi perpetrati ai loro danni, della micidiale miopia italica e dell’assenza di memoria di quel popolo di migranti che sono sempre stati gli italiani. Per Consolo etica e scrittura sono una cosa sola,15 la memoria individuale e la memoria storica consentono lo scavo nel passato per riflettere sul presente; la lingua del suo scrivere – con le lingue sottostanti che la nutrono storicamente e culturalmente – è una lingua storica e filologica e non la si capirebbe se la si alienasse dal fondamento del determinarsi storico e sociale dei linguaggi. La esibita letterarietà di Consolo, tanto sottolineata dai critici, per essere correttamente intesa va ricompresa in un progetto artistico che utilizza l’opacità e il peso della tradizione letteraria come strumenti di una più acuta e complessa lettura della realtà. Se, infatti, Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 45 pur nell’ambito di una insistita critica sociale mossa dalla prospettiva di una solidarietà coi ‘vinti’ e coi subalterni non possiamo sottrarci alla constatazione (è questa la critica mossa a Consolo) della preziosità erudita del suo linguaggio, delle sue notevoli densità e perspicuità letterarie, lo si deve soprattutto al suo tentativo di drammatizzare una contraddizione che da sociale diventa, performativamente, stilistica e retorica. Quello che in realtà è lo scontro tra isole di ricchezza e oceani di indigenza diventa, nelle strutture narrative di Consolo, lotta tra l’abbandono lirico di un linguaggio (spesso anche in veste parodica) che è esso stesso ‘cosa’ (strumento di gioco e di piacere) e il dover essere etico e razionale per garantire la narrazione. Prosa e poesia si fronteggiano, esibendo ciascuna le proprie ragioni. La sua narrativa usa a piene mani una lingua e dei moduli poetici non strettamente narrativi (ma lontanissimi dalla prosa d’arte da lui aborrita): il retablo, il cunto, l’opera teatrale, la metrica versificatoria, espedienti stilistico-retorici quali l’enumerazione e l’iperbato, il repentino mutamento dei registri, che con il loro andamento ipotattico frangono la paratassi del più generale impianto narrativo. Le apparenti dissimmetrie, che la lectio riflette, tra piano dell’espressione – iper-letteraria, barocca – e quello del contenuto – materialistico, progressivo – sono ricomprese ma non ricomposte o pacificate nella sua scrittura, a causa di una contradditorietà mai risolta: il conflitto (sociale e retorico) rimane la cifra estetica più propria nell’opera di Consolo.16 L’apprendistato E veniamo alla lectio di Meneghello ‘L’apprendistato’, quintessenzialmente meneghelliana: autobiografica, riflessiva, ironica, giocata sapientemente sui diversi registri retorici che, come sempre nella sua scrittura, sono capaci di suscitare, in chi legge uno spettro variegato di emozioni: dal riso alla commozione alla riflessione al disincanto. Dall’inizio emerge subito l’interesse primario di una vita, il motore di tutti i suoi libri: l’attenzione alle parole e alle cose che esse veicolano inquadrata, da subito, nel suo personale percorso di studente dialettofono italiano e di professore di italiano in Inghilterra. Le sue lingue di cultura (italiano, greco, latino, inglese) affiorano subito, nel primo lungo paragrafo della lectio laddove, in modo colto e ilare, racconta di quel che provoca in lui l’essere in procinto di diventare ‘filologo’ e cerca di definire che cosa sia la filologia. Risale all’origine greca del termine dovuto a Eratostene, nel III secolo a.C., ‘matematico, ma bravo anche come 46 Giuliana Adamo astronomo, geografo, filosofo, storico, e altro ancora’ (‘L’apprendistato’, p. 37), che ‘[d]oveva essere un personaggio straordinario, molto più di Tagliavini’ (ibid., p. 36) – maestro di Glottologia di Meneghello a Padova che aveva scommesso coi propri alunni di ricostruire, partendo da una mezza pagina, nello spazio di un’ora, la grammatica (morfologia e sintassi) di una lingua sconosciuta. Meneghello si sofferma sulla definizione antica di Eratostene che pare fosse chiamato dai colleghi ‘pèntathlos’ come a dire ‘pentatloneta’, per segnalare questa versatilità, e forse per denigrarla. […] In inglese uno che riesce bene in molte cose […] è un all-rounder: dove io non ci sento sottointeso ‘[bravo in tutto] e dunque non supremo in nulla’. Ma ad Alessandria pare proprio che il sottointeso ci sia stato. (‘L’apprendistato’, p. 36) Alle ipotesi sulla filologia come versatilità di conoscenze e applicazione delle stesse, seguono le considerazioni sul lavoro filologico svolto da Eratostene nella sua qualità di direttore, a suo tempo, della Biblioteca di Alessandria ‘editore, recensore e emendatore di testi letterari’ (‘L’apprendistato’, p. 37). Tuttavia permane l’ambiguità del termine con cui si definiva ‘filologo’. Termine ombrello, per Meneghello, che accoglie almeno tre significati: 1) espressione legata al gusto del discorrere; 2) amante del lógos, ovvero più estensivamente ‘dotto’, ‘studioso’; 3) più specificamente e circoscrittamente ‘studioso delle parole […] insomma un linguista’ (ibid.). Le diverse facce della filologia che affascinano Meneghello lo portano ad uno dei suoi tipici scarti logici in conclusione della prima parte del suo testo: Contro le mie tendenze, mi si affaccia l’idea che anche per la filologia ‘it takes all sorts to make a world’, ci vuole gente di ogni risma per fare un mondo, vale a dire il mondo così com’è. Ma nei riposti ventricoli del mio sentimento non ci ho mai creduto del tutto. (‘L’apprendistato’, p. 38) Passa, quindi, ad una riflessione, brillantemente argomentata, sul suo rapporto con la linguistica (‘non mi considero un linguista’, ibid.), soffermandosi sulla sua lingua nativa, non materna (la mamma, friulana, non aveva latte) ma della balia maladense. Il dialetto di Malo è percepito da Meneghello quale ‘lingua del genere umano, gli esseri umani parlavano così, e i loro modi entravano in me, davano forma alle strutture interne (preesistenti, penso) della mia competenza, creavamo circuiti indistruttibili’ (‘L’apprendistato’, p. 38) lingua parlata, pre-logica, del cui apprendimento non aveva coscienza. Accanto, parallelamente, si innesca il processo Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 47 di apprendimento di una sorta di lingua seconda: l’italiano, di origine più artificiosa e innaturale appreso a scuola e sui libri, prevalentemente attraverso la lettura. Una lingua, sia ben chiaro, tutt’altro che nitida e netta a proposito della quale Meneghello si sente in dovere di precisare: veramente c’erano due filoni, quasi due matasse di viscoso tiramolla, schiaffate una sull’altra e annodate in una specie di doppia elica, come si vedeva fare nelle sagre di paese: il filone ufficiale, di stampo aulico e di derivazione letteraria, e il filone reale dell’italiano regionale. Quest’ultimo aleggiava attorno a noi, imparavamo noi stessi a servircene – quando si cercava di parlare in chicchera – e a mano a mano a scriverlo: certamente non ci rendevamo conto che fosse ‘italiano regionale’, la nozione non si era ancora formata o diffusa, e la cosa non sarebbe parsa allora una variante legittima della lingua nazionale. (‘L’apprendistato’, p. 38) La complessità di queste esperienze per lungo tempo non ha dato luogo ad un sistema articolato di idee sulla lingua, questo è potuto avvenire molto più tardi, grazie all’influenza di amici e colleghi incontrati in Inghilterra, parecchi dei quali a Reading, e la menzione silenziosa a Giulio Lepschy in particolare è connotativa del modo in cui Meneghello – si pensi soprattutto ai volumi delle Carte – alluda spesso a persone della sua realtà biografica evitando di farne i nomi, cifra tipica della sua scrittura zibaldonica.17 L’incontro e il confronto con il nuovo mondo culturale inglese, portano Meneghello a riconsiderare la sua precedente visione del proprio rapporto con le lingue: la struttura delle lingue ha subito un rivolgimento radicale, le vecchie impostazioni abolite e cancellate. Questa del nuovo che sopravviene e soppianta l’antico, pare uno schema ricorrente nella mia vita mentale. (‘L’apprendistato’, p. 39) Il punto cruciale della lectio, che lo avvicina pur nella loro diversità a Consolo, è dedicato a sottolineare che il suo vivo interesse per le lingue non riguarda l’analisi teorica delle loro strutture, ma ‘ciò che le lingue che frequentavo recavano con sé, un’immagine intensificata delle cose del mondo’ (ibid.), e questo si verifica soprattutto nella poesia: i poeti lirici in particolare, antichi e moderni, nelle lingue in cui li leggevo, latini, italiani, francesi, e per frammenti anche tedeschi e spagnoli (non inglesi, in principio: quelli sono venuti in seguito, nella mia tarda gioventù, in Inghilterra, ed è stata un po’ una gran 48 Giuliana Adamo mareggiata poetica). In queste scritture percepivo gli effetti di una forza oscura che mi sprofondava nel cuore della realtà: e non pareva rilevante, e nemmeno pertinente, che si trattasse davvero di lingue diverse, era come se fosse una lingua sola. (‘L’apprendistato’, p. 39) La lingua ha risorse infinite per sondare la realtà e Meneghello usa, per fare questo, l’unica lingua che conosce davvero: l’Alto Vicentino, o meglio, la lingua di Malo. Alludendo a Libera nos a malo sottolinea: Si formava in me scrivendo, il quadro naturale di queste varianti, ero in grado di distinguere con spontanea precisione tra questi diversi usi, e intravederne a sprazzi le separate capacità di esplorare, trivellando in profondo il reale. (‘L’apprendistato’, p. 39)18 Nell’ultimo scorcio del testo evoca uno dei temi a lui più cari, quello del lungo apprendistato che lo ha reso in grado di portare ‘ciò che scrivo a pareggiare la potenza di quell’antica esperienza, nei vari settori della vita che mi è capitato di attraversare’ (ibid.). Di grande efficacia retorica, e commovente, è la chiusa della lectio in cui, con un procedimento analogo a quello esperito da Seamus Heaney in ‘Digging’ nella raccolta Death of a Naturalist del 1966, laddove evoca la mano contadina del padre che afferra la vanga per scavare e la propria che impugna la penna per fare altrettanto (vv. 1-5): Between my finger and my thumb The squat pen rests: snug as a gun. Under my window, a clean rasping sound When the spade sinks into gravely ground: My father, digging. I look down per, quindi concludere (vv. 29-31): Between my finger and my thumb The squat pen rests. I’ll dig with it. si istituice un parallelo tra l’apprendistato di Luigi Meneghello scrittore e quello di Cleto Meneghello, suo padre, tornitore: Aveva imparato a tornire da ragazzo a Marano […]. Sui vent’anni era andato a Verona a fare il suo Capolavoro. […] Il capolavoro che gli diedero da fare era una vite senza fine; preparò il pezzo, misurò, ci fece i segnetti che bisogna farci per tornire una vite senza fine, e a Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 49 questo punto il capo che lo stava a guardare aveva già capito che era bravo e disse: ‘Basta così’. (‘L’apprendistato’, p. 40) Segue l’explicit, profetico, dell’ultimo discorso pubblico di Meneghello: Vorrei poter fare anche io così, se ne avrò il tempo, scrivere qualcosa di veramente conclusivo, magari solo una paginetta, o un paio, ma da scrittore finalmente maturo. E che voi, come già a mio padre i suoi esaminatori, mi diceste: ‘Ok, basta così’. (ibid.) Quanto emerso da questa lectio permette di ravvisarvi, analogamente a quanto visto nel caso di Consolo, le trame costitutive dell’intera opera di Meneghello: 1) La prima lingua innata e l’incontro con le altre lingue apprese che ha determinato la sua attività di vita e di scrittura. 2) Il ricordo di Malo – oggetto del suo continuo nóstos – eternato nelle sue opere. 3) La sua vita di perenne apprendista. Tutti elementi che convivono simultaneamente nella sua ultima lectio e in tutti i suoi libri. Cosa, dunque, hanno in comune Consolo (nato nel 1933 a Sant’Agata di Militello, in Sicilia, provincia di Messina e morto a Milano nel Gennaio del 2012) e Meneghello lo scrittore di Malo (nato nel 1922 a Malo, in Veneto, provincia di Vicenza e morto nel 2007 nella vicina Thiene)? Alcune cose più ‘esteriori’ furono indicate dallo stesso Consolo nel ricordo dedicato allo scrittore maladense, suo contributo alla Biografia per immagini su Meneghello, curata da Pietro De Marchi e da chi scrive. Lo riporto qui di seguito: La laurea honoris causa in Filologia moderna, a noi due insieme, a Meneghello e a me, quel giorno di giugno del 2007, là nell’aula magna del Rettorato di Palazzo Steri, in quel trecentesco palazzo che tante ne aveva viste (fu abitato dall’illustre famiglia dei Chiaramonte che l’aveva fatto costruire, fu poi sede vicereale, sede del Santo Uffizio, del tribunale e del carcere della terribile Santa Inquisizione). La laurea, dunque, insieme, a Meneghello e a me. E a me sembrava quel giorno, in quella magnifica aula, davanti al senato accademico e al vasto pubblico, di usurpare il posto di Licisco Magagnato, il Franco di Bausète, che si laureò a Padova nello stesso giorno insieme a Meneghello ed ebbero, i due laureati, insieme un solo ‘papiro’ di laurea ‘a due teste’. Però, quel giorno, mi rassicurava il fatto che Meneghello ed io eravamo gemelli, voglio dire che eravamo nati scrittori nello stesso anno, nel 1963, lui col suo Libera nos a malo ed io con il mio La ferita dell’aprile; e tutti e due ancora con uguale assillo linguistico, 50 Giuliana Adamo l’intrusione, nell’italiano, del vicentino, o meglio della lingua di Malo, ed io del siciliano, vale a dire di tutte le antiche lingue che giacevano nel siciliano. E poi… E poi, eravamo due dispatriati, il Meneghello in Inghilterra, a Reading, ed io nella Milano dei Verri, di Beccaria, di Manzoni, di Verga, di Vittorini… Dispatriati, noi due insomma, in due diverse ‘patrie immaginarie’. Cosa univa ancora, Meneghello e me? A guardare le immagini di quella cerimonia, l’autoironia dipinta sui nostri due volti. Ah, caro Meneghello, che incontro è stato quello con te a Palermo! Primo e ultimo incontro, perché subito, tornato a Thiene, tu sei partito per quel viaggio dal quale non si ritorna più. Ed io ti rimpiango. Tutti ti rimpiangiamo, ma ci confortano però i tuoi libri, tutti i tuoi magnifici libri. Quelli, sì, resteranno sempre con noi.. (Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 172-173) L’ironia, tratto assoluto dell’intelligenza, unisce di certo i due scrittori, ed il distacco anche geografico con il conseguente, lungamente reiterato, rispettivo nóstos. Così come il loro essere sempre stati fuori dal coro, spesso a remare contro le patrie tendenze critiche e letterarie (ricordo, per esempio, l’insofferenza di Meneghello per Quasimodo e Ungaretti e pure per Moravia, nonché quella di Consolo nei confronti del – per lui – letterariamente troppo tradizionalista Tomasi da Lampedusa, per l’avanguardista Gruppo 63, e per la maggior parte della nuova narrativa italiana, tra cui spiccava l’avversione per il dialetto posticcio e folklorico di Camilleri). Entrambi fuori, per loro (e nostra) fortuna, dalla logica aberrante del mercato editoriale. Pur in modi diversi entrambi voci contro nel panorama letterario italiano del secondo Novecento. E questo vale, ovviamente e ancor di più, per il problema della ricerca e della definizione della propria lingua di espressione letteraria a cui entrambi hanno dedicato il meglio della loro sapienza e della loro perizia, del loro talento e della loro passione. Tratti questi che li accomunano anche nel loro amore totale per la poesia, per la sua funzione e per la sua libertà espressiva. A questo punto, forzandolo in qualche modo ai fini del mio discorso, vorrei citare Wittgenstein che, nel 1929, in una sua lezione a Cambridge sostiene: ‘So far as facts and propositions are concerned there is only relative value and relative good, relative right’ e ancora: I believe the tendency of all men who ever tried to write or talk Ethics or Religion was to run against the boundaries of language. Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 51 This running against the walls of our cage is perfectly absolutely hopeless.19 Meneghello e Consolo si scontrano con lo stesso problema: in che lingua esprimere il mondo ‘possibile’ del proprio narrare? Dal canto suo Meneghello, che si è sempre misurato con la sostanza non univoca dell’esperienza umana cercando di darle una forma espressiva che il più possibile si avvicinasse al vero – anzi che fosse ‘più vera del vero’ – ammette: ‘Con le parole è impossibile essere precisi: non dico difficile, impossibile’ (Le carte III, p. 95). Eppure occorre narrare per capire il mondo, ma come? Risponde: con ‘la lingua nativa che illumina l’andamento delle cose’ (Le carte III, p. 99). Consolo, a sua volta, e analogamente dal suo punto di vista storicofilologico, si confronta con una realtà sfaccettata, plurivoca, composita, contraddittoria – si ricordi la sua visione e il suo tentativo di una resa plurima e dialettica della Storia – e per esprimerla, ritenendo ormai insufficiente e superata la lingua razionale-geometrica-comunicativa di Sciascia e Calvino, crea una lingua espressiva, dove la poesia evoca quello che la lingua italiana ormai ‘massificata’ e fatta scadere dall’abuso dei massmedia non è più in grado di comunicare. Una pulsione analoga muove i due scrittori. I risultati? Sorprendenti in ambo i casi. Sulla lingua di Meneghello critici e linguisti hanno detto tante cose e tra tutte si stagliano le perfette analisi di Giulio Lepschy che in un saggio del 1983,20 a proposito di Libera nos a malo, individua le tre lingue del libro quali: ‘italiano prezioso, italiano popolare, dialetto’, segnalando che ‘il dialetto è usato più per il suo valore espressivo o per la sua crudezza, che per la sua normalità o spontaneità’.21 E alla domanda ‘in che lingua?’ è scritto il libro, Lepschy, in sedi diverse, risponde senza indugi:22 In italiano. Libera nos a malo è un libro ‘italiano’, scritto ‘in italiano’, che appartiene alla cultura italiana (e attraverso ad essa a quella europea e internazionale), e insieme la arricchisce di elementi nuovi e originali.23 Un italiano reso più leggero e antiretorico grazie a quanto imparato nell’apprendistato inglese. Consolo, a cui potrebbero attagliarsi le parole di Lepschy su Meneghello (e a garantirne l’appartenza alla cultura internazionale, basterebbe la lista delle traduzioni delle opere di Consolo in quasi tutte le lingue romanze e in inglese, tedesco, olandese) arriva a forgiarsi una lingua espressiva, barocca (nel senso migliore del termine), 52 Giuliana Adamo ricchissima di citazioni – echi – rimandi che vanno dalla sfera erudita a quella più bassa. Lingua in cui convergono le lingue mediterranee: greco, latino, arabo, spagnolo, le varie parlate siciliane, incluse le lingue delle isole linguistiche (tra cui spicca il dialetto gallo-italico di san Fratello, paesino sui Nebrodi), italiano colto. La ricchezza linguistica consente la realizzazione della scrittura palinsestica di Consolo (per il quale sotto la superficie della propria scrittura ci devono essere i segni più importanti della letteratura di chi ci ha formato. E direi che su questo punto l’analogia con il ricchissimo tessuto narrativo di Meneghello è palese) e la messa a fuoco dell’irriducibile complessità del reale (da qui il suo preferito procedimento stilistico dell’amplificatio: l’accumulatio, soprattutto nominale), nello strenuo tentativo di rendere quello che è stato. La ricerca dei nomi di questo ‘archeologo della lingua’ non è semplice ricordo memoriale, ma attestazione del travaglio e del dolore di quella parola attraverso il male della storia. Rievocazione del tempo e dello spazio della Sicilia perduta attraverso i nomi che non sono segni di un’origine metafisica, ma della materialità del mondo prima della lacerazione, delle ferite, del dolore. Analogamente, Meneghello si è dedicato alla ricerca del recupero ‘archeologico’ di una società e di una cultura conosciute nell’infanzia e nella giovinezza e poi irrimediabilmente perdute. Non si tratta, però, di una rivisitazione della memoria percorsa dalla nostalgia e dalla retorica, ma di una vera e propria ricostruzione di ambienti, frammenti di vita e di cultura che mira a ridisegnare quella realtà attraverso una specie di ricerca antropologica, segnata sempre dal filo dell’ironia. E Consolo, in che lingua scrive? Non usava il dialetto: le espressioni, le parole dialettali sono sempre citazioni. Il suo linguaggio è l’italiano, ma l’italiano di Sicilia. Consolo, insomma, ripercorre la storia di Sicilia, dal Risorgimento all’ascesa del fascismo alla violenza mafiosa contemporanea, servendosi di un italiano costruito su ‘un fasto barocco e un ritmo musicale, con un gusto del dialettismo, del latinismo e dell’ispanismo, che contrastano espressionisticamente con i contenuti spesso tragici e con l’analisi, non sottolineata ma palesata e severa delle ragioni storiche’.24 Dice Consolo: Io non ho cercato di scrivere in siciliano assolutamente, ma vista la superficializzazione della lingua italiana e proprio per un’esigenza di memoria ho cercato la mia lingua che attingeva ai giacimenti linguistici della mia terra che erano affluiti nel dialetto siciliano, che io traducevo in italiano secondo la mia metrica della memoria.25 Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 53 Si potrebbero indicare molte altre aree di tangenza, vicinanza, analogia tra questi due scrittori che, pur diversi e geograficamente lontani, hanno dedicato la loro esistenza a mostrarci l’uno (Meneghello), più ‘antropologicamente’, che nella propria lingua nativa, innata e fondante, ‘le parole sono le cose’; l’altro (Consolo), con più impegno civile e utopia storica, che verrà un tempo in cui con parole nuove e, finalmente vere, perché riscattate dalla parzialità e dalle menzogne a senso univoco della Storia, ‘i nomi saranno riempiti interamente dalle cose.’26 È evidente che per entrambi il binomio etica e scrittura è indissolubile e che per entrambi scrivere sia una funzione del capire per avvicinarsi il più possibile alla realtà, all’unico ‘vero’ e, a questo proposito, grande è il debito nei confronti di Leopardi – di cui entrambi amano il poeta, il prosatore e il filosofo – contratto dai due scrittori. 27 Mi pare che la vicinanza più importante tra Consolo e Meneghello risieda in quella moralità che le parole di Franco Fortini definiscono come una forte e costante ‘tensione a una coerenza di valori e di comportamento’,28 espressa coerentemente e rispettivamente nella loro narrativa originale, coraggiosa, fieramente facente parte per sé stessa contro ogni tipo di omologante dittatura o partigianeria ideologica, letteraria, e del mercato editoriale. Trinity College Dublin Note 1 Ero presente a quella indimenticabile giornata palermitana sia per Consolo (su cui avevo appena finito di curare un volume di saggi), sia per Meneghello sulla cui opera stavo lavorando. Cfr. La parola scritta e pronunciata. Nuovi saggi sulla narrativa di Vincenzo Consolo, a cura di Giuliana Adamo, con prefazione di Giulio Ferroni (San Cesario di Lecce: Manni, 2006) e Volta la carta la ze finia. Luigi Meneghello. Biografia per immagini, a cura di Giuliana Adamo e Pietro De Marchi con curatela iconografica di Giovanni Giovannetti (Milano: Effigie, 2008). 2 Giulio Lepschy, ‘Introduzione’, in Luigi Meneghello, Opere scelte, progetto editoriale e introduzione di Giulio Lepschy, a cura di Francesca Caputo (Milano: Arnoldo Mondadori, 2006), pp.xlv-lxxxiv (p.xlvii). 3 Cfr. Cesare Segre, ‘Libera nos a malo. L’ora del dialetto’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, Atti del Convegno Internazionale di Studi In un semplice ghiribizzo (Malo, Museo Casabianca, 4-6 settembre 2003), a cura di Giuseppe Barbieri e Francesca Caputo (Vicenza: Terra Ferma, 2005), pp. 23-27 (pp. 23-24). 4 Maria Attanasio, ‘Struttura-azione di poesia e narratività nella scrittura di Vincenzo Consolo’, Quaderns d’Italià, 10 (2005), 19-30 (p. 24). Ricordo, inoltre, che Consolo, nel solco di una discussione europea, negli anni del suo esordio letterario, circa il destino e la funzione del romanzo storico, ha ripudiato nella sua opera gli intrecci intrattenitori del romanzo tradizionale, ragione per cui, come non si è stancato di rimarcare nei suoi scritti e nei suoi 54 Giuliana Adamo interventi pubblici, scelse di spostare la scrittura dal ‘romanzo’ alla ‘narrazione’, secondo l’accezione datane da Walter Benjamin. Quanto al ripudio della lingua razionale e illuminista, lingua di una speranza ormai perduta irrimediabilmente, esso è motivato dalla mutazione antropologica avvenuta a seguito del boom industriale italiano nel corso degli anni ’50 del Novecento, su cui il Pasolini del saggio ‘Nuove questioni linguistiche’ (1964) ha scritto pagine fondamentali. La scelta poetico-espressiva della lingua letteraria di Consolo era in polemica con il linguaggio comunicativo, omologante, impoverito, tele-stupefacente determinato dall’avvento inarrestabile dei mass media. 5 Vincenzo Consolo, ‘Due poeti prigionieri in Algeri: Miguel de Cervantes e Antonio Veneziano’ in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 23-34 (questo è il mio testo di riferimento): ora in La passion por la lengua: Vincenzo Consolo. Homenajes por sus 75 años, a cura di Irene Romera Pintor (Generalitat Valenciana: Universitat de Valencia, 2008), pp. 29-38. Luigi Meneghello, ‘L’apprendistato’, in Lectio Magistralis, documento ciclostilato (Palermo: Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2007), pp. 49-56; ora in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, pp. 36-40 (è questa l’edizione a cui faccio riferimento). 6 Consolo alla p. 24 della sua lectio ricorda: ‘Nel 1894 la palermitana Società di Storia Patria pubblica il fascicolo dedicato ad Antonio Veneziano per il terzocentenario della sua morte’ e annota che il bibliotecario della Società era Giuseppe Lodi, a cui si devono le parole riportate nella citazione. 7 I romanzi di Vincenzo Consolo, di cui cito solo le prime edizioni: La ferita dell’aprile (Milano: Mondadori, 1963); Il sorriso dell’ignoto marinaio (Torino: Einaudi, 1976); Lunaria (Torino: Einaudi, 1985); Retablo (Palermo: Sellerio,1987); Nottetempo, casa per casa (Milano: Mondadori, 1992); Lo spasimo di Palermo (Milano: Mondadori, 1998). 8 Leonardo Sciascia, ‘Introduzione’ in Antonio Veneziano, Ottave (Torino: Einaudi, 1967), p. 7. 9 Enrico Testa, Lo stile semplice (Torino: Einaudi, 1997), p. 348. 10 Sulla plurivocità della lingua consoliana d’obbligo il riferimento al saggio di Cesare Segre, ‘La costruzione a chiocciola nel Sorriso dell’ignoto marinaio’, in Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento (Torino: Einaudi, 1991), pp. 71-86 (p. 83). 11 A proposito della descrizione riportata a testo, alludo di volata alla necessità visiva della scrittura di Consolo che – basti solo pensare a qualche suo titolo: Il sorriso dell’ignoto marinaio (Antonello da Messina), Lo Spasimo di Palermo (Raffaello), Retablo etc. –, contrae un debito sostanziale e fondante con la pittura analogamente a Meneghello che notoriamente rimase folgorato, all’inizio del suo apprendistato inglese, dal metodo didattico del Warburg Institute su cui ha scritto pagine importanti e sui cui ha ampiamente basato il suo insegnamento e quello del dipartimento di Studi Italiani da lui fondato a Reading. Si veda, inoltre, quanto riportano Giuseppe Barbieri e Ernestina Pellegrini, rispettivamente, alle pp. 191 e pp. 197-202 di Luigi Meneghello. Biografia per immagini. 12 Renato Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’, Filologia antica e moderna, 4 (1993), 179-223 (p. 182). 13 Sulla salvezza della scrittura, da varie prospettive, si ricordino le parole di Meneghello: ‘la crisi di tutto il mio sistema di idee pre-inglesi, durata decenni, un lungo, interminabile periodo in cui ho dovuto tener duro, hold tight, come un naufrago su uno scoglio: usando ciò che potevo, aggrappandomi a ciò che avevo, per esempio, la prosa di Leopardi’: Luigi Meneghello, Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta, 3 voll. (Milano: Rizzoli, 2001), III, p. 185. E ancora: ‘“Scavi”. Estrarre “salvezza” dallo scrivere […]. È una specie di scavo continuo […]. Vado a scavare in tutto quello che mi è capitato: scavo, butto via e ricomincio, perché sono convinto che in qualche parte là sotto deve esserci quello che cerco, i nuclei del materiale effusivo e il luccichìo delle scorie vetrificate dove si Vincenzo Consolo e Luigi Meneghello 55 vede risplendere, che cosa di preciso? come dirlo?’ (ibid., p. 258). 14 Si confronti con quanto, analogamente, dichiara Meneghello, a proposito dell’autobiografia, nell’intervista concessa a Luca Bernasconi, in Luigi Meneghello. Biografia per immagini, p. 205: ‘Però tutto questo non è fondato sull’idea che ciò che è accaduto a me ha qualche importanza, anzi sono convinto che non ne ha praticamente nessuna per gli altri, se non per me. Ma dentro contiene qualche cosa che non appartiene solo a me e, scrivendo, qualche volta emerge. Quando emerge, allora va bene, ce l’abbiamo fatta; e l’autobiografia è diventata qualche cosa di più e di diverso.’ 15 A questo argomento nel 2002 è stato dedicato un convegno a Parigi, alla Sorbonne Nouvelle, i cui atti si possono leggere nel seguente volume: Vincenzo Consolo. Étique et Écriture a cura di Dominique Budor (Parigi: Presses Sorbonne Nouvelle, 2007). 16 Su questi aspetti si veda Nisticò, ‘Cochlìas legere. Letteratura e realtà nella narrativa di Vincenzo Consolo’. 17 Cfr. I seguenti volumi: Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume I: Anni Sessanta (Milano: Rizzoli, 1999); Le Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta. Volume II: Anni Settanta (Milano, Rizzoli, 2000). Per il volume III delle Carte si rimanda alla nota 13. 18 Si confrontino Meneghello e Consolo: le operazioni fatte sono diverse ma analoghe. Entrambi scavano nella propria lingua. Meneghello in quella parlata e non scritta del paese natale, nell’ambito storicamente ristretto alla propria esperienza biografica infantile e giovanile a Malo, nei due decenni degli anni ’20- ’40 del Novecento. Consolo, dal canto suo, scava storicamente e socialmente in un contesto storico millenario, secolare per: a) restituire la ricchezza linguistica del passato altrimenti destinata all’oblio; b) per rapportarsi sempre, metaforicamente, al presente. Meneghello: lingua della propria memoria biografica; Consolo: lingua della memoria storica collettiva. Ma la spinta etica a cercare di raccogliere nella loro lingua di espressione quanto di essenziale, di universale sia possibile reperire e tale da travalicare le proprie esperienze individuali è quello che li accomuna nel loro essere due ‘classici’ fuori dal coro. 19 Cfr. Ludwig Wittgenstein, ‘Lecture on Ethics: 1929- 1930’, ora in Ludwig Wittgenstein’s Lecture on Ethics. Introduction, Interpretation and Complete Text, a cura di Valentina Di Lascio, David Levy, Edoardo Zamuner (Macerata: Quodlibet, 2007), p. 42. 20 Sulle lingue di Meneghello, si vedano i lavori di Giulio Lepschy: ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, in Su/Per Meneghello, a cura di Giulio Lepschy (Milano: Edizioni di Comunità, 1983), pp. 49- 60; ‘Le parole di Mino. Note sul lessico di Libera nos a malo’, in Luigi Meneghello, Il tremaio. Note sull’interazione tra lingua e dialetto nelle scritture letterarie (Bergamo: Lubrina Editore, 1987), pp. 75- 93. 21 Lepschy, ‘“dove si parla una lingua che non si scrive”’, p. 49 e p. 50. 22 Cfr. Giulio Lepschy, ‘In che lingua?’, in Per Libera nos a malo. A 40 anni dal libro di Luigi Meneghello, pp. 15-22; ‘Introduzione’, pp.xliii-lxxxiv. 23 Lepschy, ‘In che lingua?’, p. 22 24 Cesare Segre, La letteratura italiana del Novecento (Roma-Bari: Laterza, 2004), p. 92. 25 Vincenzo Consolo, ‘I muri d’Europa’, Estudos Italianos em Portugal, Nova Série, numero a cura di Giovanna Schepisi, 3 (2008), 229-236 (p. 233). 26 Il sorriso dell’ignoto marinaio (Milano: Oscar Mondadori, 2004), p. 114. 27 Cfr. quanto Meneghello dice a proposito di Leopardi nella nota 13. 28 Franco Fortini, Attraverso Pasolini (Torino: Einaudi, 1993), p. 67

The Italianist (2012)

L’ulivo e la giara


di Vincenzo Consolo


Nell’estate del 1882 Pirandello a compagnia del padre, compie un viaggio – il primo suo vero viaggio – da Palermo e Sant’Agata Militello, per una Sicilia, per una campagna, per un paesaggio tutt’affatto diversi da quelli che aveva dentro e che conosceva. Scopo di questo viaggio, da parte di Stefano Pirandello, è d’intraprendere, dopo il suo crollo economico a causa dello zolfo, il commercio degli agrumi. II signor Vincenzo Faraci di Sant’Agata, proprietario terriero e agente della compagnia di navigazione Florio-Rubattino, presso cui si reca, dovrebbe aiutarlo nella sua nuova impresa. La famiglia Pirandello, già dalla primavera dell’82, si era trasferita da Girgenti a Palermo, s’era allocata in una casa di via Porta di Castro, a ridosso delle mura del Palazzo Reale. Partono dunque, padre e figlio, per Sant’Agata, alle prime ore del mattino, su un treno che li porta fino a Termini Imerese. Da qui, per l’inesistenza ancora della strada ferrata fino a Messina, proseguiranno in diligenza.
Immaginiamo, in treno e in carrozza, la curiosità, l’attenzione, il rapimento del quindicenne Luigi di fronte a quel nuovo mondo che gli scorreva davanti agli occhi, agli echi che gli suscitavano i nomi dei paesi: Solunto, Himera, Cefalù, Halaesa, Calacte…
Al fitto e profondo verde degli agrumeti, e ai golfi, alle insenature, alle calette, al mare lungo la costa tirrenica; e alla cortina boscosa delle Madonie e dei Nebrodi che separavano questo rigoglio vegetale dalle sconfinate, aride lande dell’interno, della desolata nudità del latifondo e dei grigi e fumosi altipiani dello zolfo. E doveva accorgersi che man mano, dopo Termini, dopo Cefalù, il mondo colorato, vociante e brulicante del Palermitano andava a poco a poco stemperandosi – a spegnersi finanche nelle decorazioni dei carretti che, da chiassosi e spettacolari, si facevano monocromi, giallognoli o verdastri – a prendere gradualmente una misura più dimessa, ma forse più serena.
Sostano a Santo Stefano di Camastra. Un paese, questo, dopo la frana del 1682 che aveva distrutto il vecchio abitato in montagna, concepito e fatto ricostruire in basso-su un promontorio a mare, da Giuseppe Lanza duca di Camastra. L’impianto urbanistico disegnato dal duca ,un rombo inscritto in un quadrato – era ripreso aulicaunque dallo schema del Parco Versailles e della palermitana Villa Giulia. Un paese dunque non affastellato, casuale, di case sopra case, ma “pensato”, moderno, piano, ordinat: un paese “bello” secondo la qualificazione vittoriniana de Le cità del mondo. E’un paese anche di grande attività, di lavoro: la lavorazione dell’argila, di cui quasi tutti gli abitanti vivevano. A margini, lungo la statale, erano le purrere, le cave d’agilla, gli stazzuna, le fabbriche di laterizi, e le putii i robba r’acqua, le botteche delle ceramiche d’uso quotidiano (desumiamo queste notizie dalla monografia di Antonino Buttitta e Salvadore D’onofriono, La terra colorata)  davanti alle qual erano gli spiazi dove la creta veniva ammucchiata e impastata ( dagli impastatura, a piedi nudi seguendo un preciso disegno, a ventaglio, a chiasciola, a spicchi d’arancio o a cerchi concentrici) e venivano esposti i manufatti ad asciugare o messi in mostra per la vendota dopo la cottura.

E davanti a queste botteghe, Luigino, fra i tanti oggetti, tante forme, quartari lémmi, bùmmuli, lumèri, fangotti, mafarati, avrà visto quella grande forma, alta, panciuta, ch’era la giarra.
La fabbricazione d’una giara era un lavoro delicatissimo, di grande precisione e di alta specializzazione dei “mastri”. Veniva eseguito in tempi successivi, al tornio. Sulla base precedentemente asciugata (u piezzu) venivano poi man mano innestate le fasce, su su fino alla parte più convessa della pancia e alla rastremazione delle spalle, del collo e della bocca. Veniva poi stagnata, invetriata con piombo ossidato, all’interno e fino al labbro, prima di essere infornata. In quella stagione, prossima alla raccolta delle olive e alla loro spremitura – le olive dei vasti oliveti della zona del Mistrettese, delle Caronie, di San Fratello – dovevano essercene già molte esposte davanti alle botteghe, di giare, nelle loro varie misure canoniche – da mezzo cantàru, venti litri, fino alle grandi capaci di quattrocento, cinquecento litri d’olio – un solenne corteo di badesse nell’ocra infuocata della luce del tramonto.
A Sant’Agata Luigi e il padre sono ospiti per alcuni giorni della famiglia Faraci, in contrada Muti, in una casina di campagna su una collinetta da dove si domina il piccolo paese col castello dei principi di Trabia al centro, le casupole dei pescatori lungo la spiaggia e quelle dei contadini verso l’alto. Luigi ritrovava qui il suo coetaneo e compagno di scuola, al “Vittorio Emanuele II” di Palermo, Carmelo, figlio di Vincenzo Faraci. Fra i due ragazzi si stabili una solida amicizia. E, ritornata la famiglia Pirandello a Girgenti nell’85, Luigi e Carmelo andranno a abitare insieme in un stanzetta d’affitto in via Mastro d’Acqua, E l’ultimo anno di liceo, Luigi allora ferocemente immerso nei suoi studi e nell’amore per la cugina Lina. Carmelo Faraci si dedicherà a questo suo compagno geniale e stravolto dalla passione d’amore fino ad accudirlo, a preoccuparsi di tute le necessità pratiche. Poi Carmelo, finito il liceo. avrà un triste futuro, si ammalerà di tisi e lascerà Palermo per andare a rifugiarsi in un bosco sopra Sant’Agata, a Mangalavite.
Luigi, da Porto Empedocle, dalla villa del Caos, nell’agosto dell’87, deluso dall’amore, dal lavoro tentato nelle zolfare del padre, in preda al pessimismo più nero, si ricorderà di questo suo mite e fedele amico e gli scriverà. Le cinque lettere che Pirandello invierà al Faraci sono state pubblicate dal professor Giovanni R. Bussino, di San Diego in California nel libro Alle fonti di Pirandello. Scrive in una di queste lettere:

“Tu sei malato di corpo (e io ti voglio intanto in via di guarigione) ed io sono malato di spirito e della mia malattia non si guarisce. Mi credono tutti pazzo, e prima – per maggiore tormento – i miei più cari; il mio vizio dei nervi si è bruscamente accentuato ed io non so trovar pace in nessun luogo: la mia vita mi si è fatta brutta bene… M’indusse a scriverti – non te lo nascondo – una dolcissima memoria del passato…”.
La memoria dolcissima d’una serena campagna: e di due forme, antichissime e significanti: l’ulivo e la giara.
La novella La giara è pubblicata il 20 ottobre 1909 sul “Corriere della Sera”.
Pirandello è chiuso, in questo periodo, in una doppia, tetra prigione: quella burocratica dell’insegnamento al Magistero, dov’era inquadrato nella categoria degli “incaricati” certamente contrassegnato da un mastronardiano “coefficiente”, e quella domestica, dove la gelosia paranoica della moglie gli tesseva intorno ogni giorno di più le sue terribili maglie. La novella La giara è la prima fuga nella memoria e nel ricordo, fuga dalla sua vita e dai fantasmi “pirandelliani” che lo assediavano.
‘A giarra, commedia in dialetto, è del 1916.

E’ tempo di guerra. Il figlio Stefano è prigioniero degli austriaci, la madre appena morta – quella madre che aveva incarnato il suo romantico patriottismo, che ora, nell’urto con la tragica realtà, si lacerava – gli ritornava a colloquio come personaggio, la moglie ormai dentro quella tenebra dove “nessuna voce può raggiungerla più” Si sa che al teatro regionale e dialettale Pirandello fu trascinato dall’amico Martoglio e dalla forza della “Compagnia comica di Angelo Musco, che in quegli anni mieteva successi per tutta la Penisola Successi, certo, di questi istintivi e irresistibili teatranti catanesi, dovuti anche al bisogno di distrazione e di riso da parte degli spettatori angosciati dalla guerra. Pirandello scriverà per quel teatro per ragioni materiali, economiche ma deve anche scrivere quel teatro per ragioni spirituali, in un bisogno crescente di luce e di respiro quanto più si sente precipitare nel pozzo della disperazione. Al momento più basso e più cupo della sua vita, corrisponderà il momento creativamente più luminoso e liberatorio che è Liolà.
Subito seguirà La giara, con la quale chiuderà questo ciclo. E a noi piace credere che nel concepire La giara gli sia tornato il ricordo di quel suo lontano viaggio nel Val Demone, della fertile campagna alle falde dei Nebrodi, delle giare intraviste a Santo Stefano. “Sissignore, della giara grande, per l’olio, arrivata ch’è poco da Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricano. Uh, bella: grossa così, alta a petto d’uomo, pare una badessa” dice ‘Mpari Pè, il garzone di don Lollò. L’uomo rimasto prigioniero dentro la giara è una delle trovate sceniche, visive e gestuali, più felici del teatro pirandelliano. Saracena è la giara – giarrat – e saraceno quel conciabrocche dentro, ladro (involontario) della roba altrui, su cui volentieri don Lollò, nella sua furia, butterebbe dell’olio bollente. Ma zi’ Dima è anche un folletto, un imprevedibile ginn, di quelli annidati dentro bottiglie o lampade – egli ha commercio col diavolo, e quella gobba e quella pece nera ne sono la prova – che con le sue argomentazioni da dentro la giara contrasta e distrugge di volta in volta le argomentazioni esterne, giuridiche, codificate, di don Lollò e del suo avvocato.
Ma La giara trapassa questa farsa saracena o questo mimo siceliota, sofroneo o senarcheo, trapassa ogni eclisse solare e storica, va più indietro verso un tempo remoto, verso significati più abissati, archetipici. La giara è allora l’involucro della nascita, l’utero, ed è insieme la tomba (i Siculi seppellivano i loro morti, in posizione fetale, dentro i giaroni). E zi’ Dima non perde, non muore, sapiente, dialettico e sarcastico, vince e rinasce nello splendore d’un plenilunio, nel tripudio dei contadini.
E quell’olio che la giara avrebbe dovuto contenere viene si dall’ulivo saraceno, ma viene anche dall’albero sacro ad Atena, dea della sapienza.
Se Liolà, della stagione della vendemmia, è mimo dionisiaco o fliacico (Phliax era un demone della natura, della fecondità), La giara è mimo apollineo e cavillico, della stagione dell’olio che dà sapore – sapere – e che dà luce. L’ulivo saraceno, un ulivo del Caos, immaginato, sognato, riapparirà in limine, nella notte che precede la morte, sul palcoscenico del palcoscenico, in un terzo atto mai scritto, a reggere un tendone – sudario contro cui si reciterà l’ultima favola. Apparirà quell’albero di forma tormentata, agonica, da cui l’anima anela a uscire, a consumarsi bruciando, come olio dentro una lampada: a ritornare, annullandosi, nella nudità, nella verità, nel flusso infinito.

Pietha de Woogd ,traduttrice di Retablo in lingua olandese. Intervista Vincenzo Consolo Il 3 marzo 2011.

Guttuso. Pittura e letteratura (di Vincenzo Consolo)

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Renato Guttuso, La notte di Gibellina

Ci sono giorni d’inquiete primavere, di roventi estati, in cui il mondo, privo d’ombre, di clemenze, si denuda, nella cruda luce, appare d’una evidenza insopportabile.È allora la visione dello Stretto delle Crocifissioni di Antonello. È l’agonia spasmodica, ’abbandono mortale dei corpi sospesi ai pennoni; è il terreno sparso d’ossa, teschi, ove il serpe scivola dall’orbita, campeggia la civetta. Nell’implacabile luce di Palestina, Grecia o di Sicilia si sono alzate da sempre le croci del martirio; nelle Argo, Tebe, Atene o Corinto si sono consumate le tragedie. Nell’isola di giardini e di zolfare, di delizie e sofferenze, di idilli e violenze, di zagare e fiele, nella terra di civiltà e di barbarie, di sapienza e innocenza, di verità e impostura, l’enorme realtà, il cuore suo di vulcano, ha avuto il potere di ridurre alla paura, al sonno o alla follia. O di nutrire intelligenze, passioni, di fare il dono della capacità del racconto, della rappresentazione. Dono che hanno avuto scrittori come Verga, come Pirandello, come Sciascia. Pittori come Guttuso. Guttuso ancora, nella Bagheria dove è nato, ha avuto la sua Aci Trezza e la sua Vizzini, la sua Girgenti, la sua Racalmuto e la sua zolfara. Un paese, Bagheria – la Bagarìa, la bagarrìa: il chiasso della lotta fra chi ha e chi non ha, dell’esplosione della vitalità, della ribellione  – un paese di polvere e di sole, di tufo e di calcina, di auliche ville e di tuguri, di mostri e di chiare geometrie, di deliri di principi e di ragioni essenziali, di agrumeti e rocce aspre, di carrettieri e di pescatori. In questo teatro inesorabile, il gioco della realtà è stato sempre un rischio, un azzardo. La salvezza è solo nel linguaggio. Nella capacità di liberare il mondo dal suo caos, di rinominarlo, ricrearlo in un ordine di necessità e di ragione. Verga peregrinò e s’attardò in “continente” per metà della sua vita con la fede in un mondo di menzogna, parlando un linguaggio di convenzione, di maniera. Dovette scontrarsi a Milano con il terremoto della rivoluzione industriale, con la Comune dei conflitti sociali, perché gli cadesse dagli occhi un velo di illusione, perché scoprisse dentro sé un mondo vero. Guttuso, grazie forse alla vicenda, alla lezione verghiana, grazie ai realisti siciliani come Leto, Lo Jacono o Tomaselli, ai grandi realisti europei non ebbe, sin dal suo primo dipingere, esitazioni linguistiche. E sì che forti furono, a Bagheria, le seduzioni del mitologico dialettale di un pittore di carretti come Murdolo, dell’attardato impressionismo o naturalismo di Domenico Quattrociocchi; forte, a Palermo, la suggestione di un futurista come Pippo Rizzo; forte, all’epoca, l’intimidazione del monumentalismo novecentista. Fatto è che Guttuso ebbe forza nell’occhio per sostenere la vista medusea del mondo che si spiegava davanti a lui a Bagheria; destrezza nella mano per ricreare quel mondo nella sua essenza; intelligenza per irradiare di dialettalità il linguaggio europeo del realismo, dell’espressionismo, del cubismo. Ma oltre che a trovarsi nella “dimora vitale” di Bagheria, si trovo a educarsi, il pittore da giovane, nella realtà storica della Sicilia tra il ’20 e il ‘30, in cui profonda era la crisi – dopo i disastri della guerra – acuto l’eterno conflitto tra il feudatario, tra il suo campiere e il contadino, decisa la volontà di ciascuno dei due di vincere. Vinse, si sa, e si impose, colui che provocò negli anni ’20 i morti di Riesi e di Gela, fece assassinare il capolega Alongi, il sindacalista Orcel; colui che, da lì a pochi anni, salito su un aeroplano, avrebbe bombardato Guernica: preludio di più vasti massacri, di olocausti. Si stagliarono allora subito le “cose” di Guttuso nello spazio con evidenza straordinaria, parlarono di realtà e di verità, narrarono della passione dell’esistenza, dissero dell’idea della storia. I suoi prologhi, le sue epifanie, Palinuro, Autoritratto con sciarpa e ombrello, sono le prime sue novelle della vita dei campi di Sicilia, ma non ci sono in essi esitazioni, corsivi dialettali che “bucano” la tela, il linguaggio loro è già sicuro, la voce è ferma e di un timbro inconfondibile. L’Autoritratto poi, con la narrazione in prima persona, è la dichiarazione di intenti di tutta l’opera a venire. La quale comincia, per questo pittore, col poema in cui per prima si consuma l’offesa all’uomo da parte della natura. Della natura distruttiva, che si presenta con la violenza di un vulcano. La fuga dell’Etna è la tragedia iniziale e ricorrente, è il disastro primigenio e irrimediabile che può cristallizzare, fermare il tempo e la speranza, assoggettare supinamente al fato, o fare attendere, come sulle scene di Grecia, che un dio meccanico appaia sugli spalti a sciogliere il tempo e la condanna. Un fuoco – fuoco grande d’un “utero tonante” – incombe dall’alto, minaccia ogni vita, ogni creatura del mondo, cancella, con il suo sudario incandescente, ogni segno umano. Uomini e animali, stanati dai rifugi della notte, corrono, precipitano verso il basso. Ma non c’è disperazione in quegli uomini, in quelle donne, non c’è terrore nei bimbi: vengono avanti come valanga di vita, vengono con le loro azzurre falci, coi loro rossi buoi, i bianchi cavalli; vengono avanti le ignude donne come La libertà che guida il popolo di Delacroix. Dall’offesa della natura all’offesa della storia. Il bianco dei teschi del Golgota di Antonello compare come bucranio in domestico interno, sopra un verde tavolo, tra un vaso di fiori e una sedia impagliata, una cuccuma, una cesta o una gabbia, a significare rinnovate violenze, nuovi misfatti, a simboleggiare la guerra di Spagna. L’offesa investe l’uomo in ogni luogo, si consuma nella terra di Cervantes, di Goya, di Gòngora, Unamuno. La Fucilazione in campagna del poeta, del bracciante o capolega, è un urlo, è un’invettiva contro la barbarie. La Crocifissione del 1941 riporta, come in Antonello, l’evento sulla scena di Sicilia. Allo sfondo della falce del porto, del mare dello Stretto, delle Eolie all’orizzonte, sostituisce la scansione dei muri, dei tetti di un paese affastellato del latifondo, gli archi ogivali del palermitano ponte dell’Ammiraglio. Guttuso inchioda alla loro colpa i responsabili. Anche quelli che nel nome di un dio vittima, sacrificabile, benedicevano i vessilli dei carnefici. Lo scandalo, di cui ciecamente non s’avvidero i farisei, non era nella nudità delle Maddalene, negli incombenti cavalli e cavalieri picassiani, nel ritmo stridente dei colori, lo scandalo era nel nascondere il volto del Cristo, nel far campeggiare in primo piano una natura morta con i simboli della violenza. Alla sacra conversazione, Guttuso aveva sostituito una conversazione storica, politica. “Questo è tempo di guerra: Abissinia, gas, forche, decapitazioni, Spagna, altrove. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati [..] ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee..” scriveva nel suo diario. Nello stesso anno della Crocifissione, rintoccava come lugubre campana la frase d’attacco di Conversazione in Sicilia di Vittorini. “io ero quell’inverno in preda ad astratti furori..” E sono, per Guttuso, negli anni della guerra, ancora interni, luoghi chiusi come per clandestinità o coprifuoco, con donne a spiare alla finestra, assopite per stanchezza, con uomini, in quegli angoli di attesa, a leggere giornali, libri. E in questi interni, è sempre il bucranio a dire con il suo colore di calce, con la chiostra spalancata dei suoi denti, l’orrore del tempo. Cessata la guerra delle armi, ripresa la guerra contro lo sfruttamento, l’ingiustizia, nel pittore c’è sempre, anche in un paesaggio di Bagherìa, in una bimba che corre, una donna che cuce, un pescatore che dorme, c’è il furore per un’antica offesa inobliabile. E pietà. Come nel momento in cui dal limite estremo del vulcano si cala fino al limite estremo, abissale della zolfara. In quel luogo la minaccia della natura non è episodica, ma costante, permane per tutto il tempo della vita e del travaglio. Dentro quella notte, quelle viscere acide di giallo, i picconieri, i carusi, sono nella debolezza, nella nudità totale, rosi dalla fatica, dalla perenne paura del crollo e della morte. Una pagina di tale orrore e di tale pietà Verga l’aveva scritta con Rosso Malpelo. E Malpelo è sicuramente il caruso piegato deLa zolfara e lo Zolfatarello ferito: il nero bambino dai larghi piedi, dalle grosse mani, dalla scarna schiena ingobbita, che sta per sollevare penosamente il suo corbello. In tutto poi il peregrinare per il mondo, nell’affrontare temi “urbani”, Guttuso non perde mai il contatto con la sua memoria, non dismette mai il suo linguaggio. Nel 1968 è costretto a tornare ancora una volta nel luogo della tragedia per una ennesima empietà della natura: il terremoto nella valle del Belice. È La notte di Gibellina. La processione di fiaccole sotto la nera coltre della notte, il corteo d’uomini e di donne verso l’alto, composto e muto, la marcia verso un’acropoli di macerie, ha un movimento contrario a quello de La fuga dell’Etna. E sono, quelle fiaccole rette da mani, il simbolo della luce che deve illuminare e farci vedere, se non vogliamo perderci, anche la realtà più cruda, la realtà di ogni notte di terremoto o di fascismo.
L’articolo è stato pubblicato con il titolo L’enorme realtà in “asud’europa”, Anno V, n.5, 14 febbraio 2011 – rivista del Centro Studi Pio La Torre

Pubblicato da Salvatore Lo Leggio

Satiri e dèmoni nel sabba siciliano di Consolo



Il romanzo di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa, è tutto uno scatenarsi di follia.
Questa follia dilaga in una Sicilia antica, pastorale e agricola, splendida nei suoi monumenti medievali foderati di mosaici, imponente nei palazzi barocchi, pittoresca e tenebrosa nei vicoli brulicanti. E’ una follia dai molti volti, sempre a confronto con una natura vincitrice per la sua bellezza magica e indifferente, sue luci che non si curano di farsi strada negli animi.
Una natura dai cieli immensi, cui si contrappone la discesa in tenebrose caverne, ove i segni del tempo, si perdono tra le ombre. Pietro il protagonista, vive tra la licantropia del padre e la psicosi ossessiva della sorella. Personaggio positivo, condivide senza infatuazioni i programmi di rinnovamento politico e sociale che stanno velocemente, ma provvisoriamente, affermandosi: però anche li scopre le crepe dell’irrazionale e del fanatismo. Di contro al suo giudizioso rapporto con la pazzia, sta la funzione di condensatore di ogni sregolatezza mentale svolta da Aleister Crowley, l’inventore officiante di riti satanici in cui si mescolano alla promiscuità sessuale e alla droga tutte le invenzioni più stravaganti e kitsch di religioni e leggende esoteriche. Nella sua thélème di satiri e donne assatanate sono via via attratti il dannunziano barone Cicio e il pastore Janu.

Questo campionario di follia offertoci da Consolo sintetizza le manifestazioni dell’irrazionale che intorno al ’20, in Sicilia e altrove, invocando il fascismo in via di costituzione, vi trovarono poi un alveo. Era anche viva l’illusione di strapparsi a un’ indifferenza secolare, al sonno, alla noia: come una smania, un assillo verso qualcosa di agognato quanto sconosciuto. E la ricostruzione d’epoca è molto più sistematica di quanto non appaia a prima vista. Da un lato l’indolenza delle vecchie abitudini, il Circolo, i pettegolezzi di paese, i rapporti tra una nobiltà decaduta e pretenziosa e un popolo ancora primitivo. Dall’altro le nuove mode, le réclames con pizzichi di esotismo, l’esibizione di parole francesi e inglesi, le marche dei prodotti appena commercializzati, i compiacimenti dannunziani, la Florio. Fitti perciò gli inserti materici nella prosa d’arte di Consolo. Anche Aleister Crowley è un personaggio strico; suoi i versi inglesi riportati nei capitoli dedicatigli. Deve aver affascinato lo scrittore spingendolo a raccogliere notizie e dicerie su di lui: e certo subirono il suo fascino i molti che vennero a conoscenza o a contatto con questo santone attirati secondo i casi dall’aura misteriosofica o profetica di cui si circondava o dalla dissolutezza sua e dei suoi seguaci. Inglese o americano, Anticristo, mormone o quacchero, è facile credere che abbia sbalordito il chiuso ambiente in cui venne a sistemarsi.
Con questo mirabile romanzo si fa ancora più chiaro il programma svolto da Consolo nel ciclo della sua narrativa: rappresentare la Sicilia in varie fasi della sua storia, da quella greca riscoperta in frammenti enigmatici (Le pietre di Pantalica) alla dominazione spagnola (Lunaria) al settecento illuministico (Retablo)
al risorgimento e all’unità malamente realizzata (Il sorriso dell’ignoto marinaio). E per ottenere il necessario straniamento, analogo a quello operato dallo scrittore di Sant’Agata Di Militello, fungono da testimoni o pietre di paragone dei forestieri: il vicerè di Sicilia o il cavaliere e artista lombardo Fabrizio Clerici, ora il mistificatore inglese. Lo stile barocco, fitto di sicilianismi, fornisce il coinvolgente e inconfondibile colore locale, sovrastorico sinché non si apre a parole precisamente, significativamente connotate, lirico sinchè non discende con efficacia alla corposa quotidianità.
Ho appena parlato di narrativa, ma occorre chiarire. Consolo sempre aborrito il raccontare filato, la trama in senso tradizionale. Egli procede con una successione di scene sintomatiche, rivelandone i nessi con la riapparizione dei personaggi e segnalandone il tono con i ben scelti eserghi. Ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, brani di opere storiche intercalati alle scene fornivano le notizie attestandone la verità. Sotto questo riguardo, Nottetempo, casa per casa è l’opera che si avvicina di più a un romanzo, dato il forte nesso fra le scene allineate nei dodici brevi capitoli e l’eterna presenza di pochi personaggi in fasi diverse della loro vicenda.
Anche Petro, alter ego dello scrittore, ha la sua vena di pazzia: vede i protagonisti dei romanzi che divora nei pochi momenti liberi, parla con loro interrompendo il silenzio delle sue letture. Questa pazzia positiva sembra essere la provvisoria catarsi proposta da Consolo. Una catarsi drammatica perché pare irraggiungibile (<<intinge la penna nell’inchiostro secco, nel catrame del vetro, nei pori della lava, nei grumi dell’ossidiana, cosparge il foglio di polvere, di cenere , un soffio, e si rivela il nulla, l’assenza d’ogni segno, rivela, l’impotenza, l’incapacità di dire, di raccontare la vita, il patimento>>); ma Petro alla fine si sa maturo per attingere le parole, il tono, la cadenza, per sciogliere il grumo dentro e dare ragione a tanto dolore.
Questa decisione di testimoniare, non solo i fatti ma i tumulti del sentimento, è formulata da Petro all’arrivo in Tunisia. Perché anche la topografia del romanzo si allarga progressivamente: da Cefalù e Palermo ai remoti paesi delle peregrinazioni di Crowley, da una Sicilia profonda, verghiana, a un’Europa atteggiata secondo un gusto dannunziano e liberty, Una topografia in cui irrompono deformandosi, le nuove idee, e l’impazienza rivoluzionaria si attua in velleitarie azioni terroristiche, mentre i fascisti fanno le loro scorrerie. Infine, Petro riesce a attuare lo strappo: lascia in nave la sua Sicilia dov’è in pericolo, emigrante più che esule, scettico verso i programmi di lotta enunciati dall’anarchico Schicchi che lo accompagna. La scelta della scrittura è, insieme, una lucida rinuncia a una vittoria.

Cesare  Segre
Microprovincia gennaio – dicembre 2010