Vincenzo Consolo
L’APPUNTAMENTO è al Lungotevere della Vittoria 1, all’indirizzo dell’«Associazione Fondo Alberto Moravia», di quella che fu la casa dello scrittore. Ero stato un paio di volte in quell’appartamento luminoso e ordinato, nella sala-studio con solo i classici, la Pleiade, la Ricciardiana, nelle scansie della libreria, qualche quadro e maschere africane alle pareti. Mi spiegò una volta, lo scrittore, in quel suo modo esemplificativo, didascalico, la differenza tra razionalisti e illuministi, tra sé e scrittori come Calvino e Sciascia. «Se loro vedono una pentola che bolle, dicono “è una pentola che bolle”. Io non mi accontento, devo alzare il coperchio e vedere cos’è che bolle in quella pentola» disse, e rise, in quel suo modo fanciullesco, per quell’esempio così riduttivo, così casereccio. Il fatto è che da quel suo curioso, accanito sguardo sulla realtà, egli traeva precisi giudizi, sicure idee generali. «Se fosse vissuto, sono sicuro che sarebbe venuto con me a Sarajevo» afferma in un’intervista Adriano Sofri, quest’altro lucido razionalista dotato di genio «politico», ma al contrario di Moravia privo (o forse solo inespresso, pudicamente occultato) di quello narrativo. Mi chiedo cosa mai Moravia, andando a Sarajevo, alzando il coperchio della mistificazione o straniamento informativo, mediatico, su quel tragico bollire della pentola balcanica, avrebbe scritto. Sicuramente, come Sofri, come pochi altri di qua di quel fuoco, o che quel fuoco hanno visto, hanno attraversato, avrebbe sostenuto la necessità dell’intervento delle forze dell’ONU, della Nato contro gli aggressori, i carnefici, per far cessare il massacro, gli orrori nazistici, l’ agonia di Sarajevo. Perché era chiaro, nel cumulo dei preconcetti, luoghi comuni, menzogne, nel guazzabuglio di quella guerra, nei ribaltamenti di fronti, schieramenti, era chiaro chi erano gli aggressori e gli aggrediti, gli assedianti e gli assediati, i carnefici e le vittime: vittime erano gli innocenti, i civili, la civiltà; calpestati erano i fondamentali diritti umani; calpestati soprattutto dai feroci soldati serbi arruolati da Milosevic, comandati da criminali come Karadzic, Mladic, Raznatovic, calpestati nell’assenza e nel silenzio, se non nella connivenza, delle organizzazioni internazionali. Ma dico cose già denunziate su giornali e libri, ormai note a tutti.
Torno dunque al racconto del viaggio da Roma a Mostar, a Sarajevo, di diciotto intellettuali italiani, scrittori, giornalisti, fotografi, registi, compiuto tra il ventiquattro e il trenta settembre scorso. E una restituzione di visita questo viaggio, poiché otto membri del «Circolo 99» di Sarajevo erano venuti a Roma nell’ottobre del ’96, avevano avuto incontri, partecipato a dibattiti sul tema Roma-Sarajevo, gli scrittori contro la guerra. Gli scrittori già. Non sempre, non tutti sono stati contro la guerra. Ché anzi alcuni, con i loro scritti, poesie romanzi racconti, in certi momenti della storia hanno dato parola a inconsce pulsioni, hanno interpretato e compitato sulla logica di una grammatica letteraria l’istinto collettivo di aggressione e di distruzione. Bastano per noi i soli nomi di D’Annunzio e di Marinetti, quello di Jünger per la Germania? Basta senz’altro per la Serbia il nome dello scrittore Dobrica Cosic, ispiratore già nell’86, del famigerato Memorandum dell’«Accademia delle Scienze» di Belgrado, autore di un romanzo fiume scandito nelle due parti, Tempo del male, Tempo della morte, fonte del nazionalismo e della ferocia ideologica guerriera della Serbia. No, la letteratura non è innocente. Essa attinge alla Storia ed è gravata quindi di responsabilità. Al contrario della musica, che attinge alla natura, e si presta ad ogni ambiguità. Wagner può essere suonato sullo sfondo dei forni crematori, ma c’è Riccardo Muti che dirige un concerto nel teatro di Sarajevo, c’è il violoncellista Vedran Smajlovic che suona tra le macerie della biblioteca della sua città.
Nel nome dunque di Moravia, per la responsabilità che ha la scrittura, andiamo a Sarajevo. Andiamo – almeno alcuni di noi – per riparare alla nostra assenza durante la guerra, al nostro silenzio, per uscire, almeno una volta, dal gorgo di alienazione, di sonno, di stupidità in cui ogni giorno scivoliamo nel nostro assurdo mondo. E spero che questo viaggio non sia, per nessuno di noi, un safari intellettuale, che sia, la visione di Sarajevo, un salutare scuotimento, un recupero di intelligenza e di coscienza.
Attraversiamo in corriera l’Appennino, andiamo ad Ancona. Dall’autostrada scorgiamo gli antichi paesi umbri arroccati sui colli, le torri e i campanili di Foligno, Nocera, Gualdo Tadino. Il traghetto si chiama «Split» e batte bandiera panamense. A bordo vi sono i camionisti, famiglie croate, uomini d’affari. C’è un gruppo di volontari guidati da don Lorenzo che ha una croce sul petto formata di schegge di granata. Al porto di Spalato, vado a comprare una scheda telefonica. «Per l’Italia o per la Padania?» mi chiede l’uomo al chiosco. «La Padania non esiste», rispondo disarmato. E lui sghignazza, sghignazza. Procediamo per la costa croata. Il calmo, lacustre mare da una parte, con le innumerevoli isole – Brac e Hvar le più vicine e le ripide montagna dall’altra. Rivedo la vegetazione mediterranea, simile a quella greca, siciliana, turca, i pini, i cui rami si piegano fino a lambire il mare, gli ulivi, i fichi, le vigne. Una donna stende sul lastrico i fichi ad essiccare. Non vi è nessun segno di guerra qui, nessuna escrezione del vorace consumismo, spazzatura, carcasse di vetture, di elettrodomestici. Tutto è lindore e candore in questo paradiso di vacanze; i villaggi sono pieni di alberghi, zimmer, chambres, pansion.
Sostiamo nella cittadina di Makarska. Predrag Matvejevic – nostra guida in questo viaggio, nostro Virgilio – compra il giornale «Feral Tribune» di opposizione al regime di Tudjman, i cui redattori vengono continuamente arrestati. Arriviamo a Metkovic, alla foce della Neretva, e andiamo, costeggiando il fiume, verso l’interno, verso il confine tra la Croazia e la Herzeg-Bosna, stato indipendente disegnato negli accordi di Dayton del ’95.
Incontriamo le prime macerie.
A Pociteli, uno storico villaggio musulmano evacuato, moschea, scuola coranica, hammam, torri, minareti, sono stati distrutti. Da qui poi, fino a Buna; fino a Mostar è tutto un paesaggio di macerie. Qua e là per la campagna, case bombardate, incendiate, svuotate con sistematica, precisa determinazione, cipressi e pioppi inceneriti. Ora la Neretva s’ inabissa, scorre nel profondo alveo scavato nella roc-cia. Li appare Mostar che dal pendio di un monte scende fino al fiume, si stende sulla piana. Matvejevic, nella teoria uniforme di macerie ci indica le macerie della sua casa, della scuola che aveva frequentato da ragazzo. Sostiamo in un hotel appena ricostruito, sul bordo del fiume, al di qua di un ponte di cavi d’acciaio e di tavole che ad ogni passaggio di macchina o camion diventa un fragoso xilofono. Sull’altra sponda, sono i resti del vecchio albergo Neretva, della villa di Tito, dell’hammam, della posta. Ci accolgono intellettuali di qui, Nametak, Djulic, Maksumic. In città incontriamo italiani che risiedono qui da tempo, Claudio, Fabio, Matteo del «Consorzio Italiano di Solidarietà», Rosaria, una ginecologa napoletana che dirige la Cooperazione Donne. C’è una generosa, nobile Italia da noi ignorata, immersi come siamo nei privati affanni, storditi dal chiasso e dalla volgarità dilaganti. A sera, è l’incontro al Teatro dei giovani con il pubblico. Il protagonista è naturalmente Matvejevic. E emozionato. Dopo sei anni rivede la sua città distrutta, gli amici superstiti, i concittadini.
Alla partenza per Sarajevo, a un semaforo, c’è un vecchio pazzo, uno strano cappello in testa, una sega in mano, che urlando intende dirigere il traffico.
Saliamo per le montagne, scendiamo in gole rocciose in cui la Neretva diventa quasi un torrente, sbuchiamo nella vasta pianura. Da qui, oltre i villeggi di Konjic, Tarcin, lazaric, fino alle porte di Sarajevo, solo macerie, nugoli di merli sui campi spogli, desolati. Ci appare quindi Sarajevo chiusa in una conca dalle colline intorno, ci appare lo scenario più apocalittico, più sconvolgente. Ricordando quanto è successo per le sue strade, nelle sue case, nei suoi ospedali, in piazze mercati giardini chiese cimiteri nel lungo assedio, nello strazio infinito di questa città, squarciando il velo di ogni immagine televisiva o fotografica non si può fare a meno di pensare al Trionfo della morte di Bruegel o ai Disastri della guerra di Goya. I tram ora vanno lungo il famigerato viale dei cecchini, vanno verso la periferia, tornano verso il centro. Non c’è sole oggi a Sarajevo, il cielo è annuvolato, grigio. Saliamo la scala buia, affumicata da un incendio della sede del «Circolo 99» e del «Pen Club». Ci accolgono i soci. Abbracci, feste a quelli di noi – Toni Maraini, Erri De Luca, Ginevra Bompiani, Federico Bugno, Gigi Riva – che già conoscono, che sono venuti durante la guerra o che essi hanno incontrato a Roma.
Chiedono notizie di Sofri, ci fanno vedere un numero della rivista «99» in cui una intera pagina è occupata dalla scritta a grandi caratteri ADRIANO SO-FREE. Bugno riesce a telefonare in Italia e apprendiamo così del terremoto in Umbria e nelle Marche. Rimaniamo sgomenti. Qui, tra le macerie di questa nobile città, di questo alto simbolo di civiltà, ci raggiunge la notizia di macerie nel cuore più nobile, più alto del nostro Paese. Qui è stata responsabile la cieca ferocia dell’ uomo, da noi quella della natura. Ma anche a Sarajevo, a pensarci, è stata la ferocia delI uomo che ha perso la ragione, che è regredito allo stato di natura. E del resto, la biologa Biljana Plavsic, ultranazionalista serba, ha affermato che la pulizia etnica è «un fenomeno naturale». La sera, in casa di Vojka Djikic, il poeta Izet Sarajlic intona vecchie canzoni italiane. Izet è un amante dell’Italia; sua sorella, morta durante la guerra, era un’italianista, aveva tradotto La storia di Elsa Morante. Le poesie di Izet erano state tradotte in Italia da Alfonso Gatto, di cui era diventato amico. Mi fa leggere una dedica fattagli da Gatto: «al poeta ridente e in lacrime», «all’uomo angelico e duro ostinato ottimista d’umor nero». Ma ora Izet, come tanti poeti e scrittori di qui, pur ridente e in lacrime, dall’umor nero è passato alla disperazione. Egli sa, tutti sanno, che la Sarajevo di prima, la città multietnica, multireligiosa, multiculturale, laica, civile, tollerante, è finita, non potrà più essere ricostruita. Egli sa che le macerie resteranno per sempre nel suo cuore.
Visitiamo l’indomani la sede del giornale «Oslobodjenje», ora sede, in quel che è rimasto, del settimanale «Svijet». E inimmaginabile la distruzione di questo moderno edificio, inimmaginabile il coraggio del giornalisti che sotto le cannona-te, i proiettili dei cecchini sparati dalla collinetta di fronte, nel crollo sistematico dell’edificio, nei sotterranei continuarono a stampare il giornale. Sei giornalisti sono stati uccisi. Bisogna leggere la cronaca di quei giorni del capo redattore Zlatko Dizdarevic, pubblicata in Italia col titolo Giornale di guerra. Ed è lui, quest’ uomo intelligente e tenace, che ci accompagna nella visita, che ci racconta, ci spiega.
Un altro uomo intelligente, ironico, disincantato, è il generale di origine serba Jovan Divjak, comandante delle truppe nella difesa della città, che ci guida ai luoghi cruciali delle battaglie. Visitiamo i quartieri di Drobinja, Ilidza, vicino all’aeroporto, l’antico cimitero ebraico su una collinetta; « Qual’era la sua posizione allora?» chiede qualcuno al generale. «Ero il fiore del popolo serbo in un giardino musulmano» risponde ironico. «È stato costretto a fare una scelta?», «Perché? Sarajevo era la mia città.» Finiamo la visita nel nuovo, grande cimitero musulmano di Kovaci, nella zona orientale. Era prima un giardino, un parco giochi per i bambini, ora è interamente coperto di tumuli di terra su cui crescono fiori. Donne sono qui a pregare, accovacciate davanti alla stele, le palme rivolte al cielo.
Abbiamo altri incontri a Sarajevo, all’Ambasciata italiana, alla Biblioteca Nazionale, al Museo della Letteratura, alla Facoltà di Economia. Ripartiamo per Mostar. Casualmente, il nostro passaggio per quella città coinciderà con la cerimonia del recupero dalle acque della Neretva delle prime pietre dello storico ponte (Mostar, ci spiega Matvejevic, significa «guardiano del ponte o Vecchio Ponte»). Grande è l’importanza del ponte, dei ponti in questa terra di fiumi, alle sponde dei quali si sono formate le città, si è aggrumata la civiltà. Contro di esse si sono accaniti i montanari serbi e montenegrini. Per la strada, ci sorpassa il corteo delle macchine del presidente Izetbegovic. La città è in festa, la gente è ammassata lungo le due alte sponde del fiume, ha invaso le case che si affacciano vicino ai due monconi del ponte. Discorsi ufficiali, bandiere, fanfare, elicotteri in cielo. È con noi, con Pedrag, il pittore mostarino, ma abitante a Sarajevo, Afan Ramic. Prima della guerra non faceva che dipingere questo “suo” ponte, dopo il disastro, dopo l’uccisione del figlio, fa collages di materiali calcinati o bruciati, fa quadri che ricordano quelli del nostro Burri. È con noi anche il famoso tuffatore Balic, ci dice che ventuno membri del Club dei tuffatori sono morti nella difesa di Mostar.
Partiamo. La nave su cui ci imbarchiamo a Spalato si chiama «Regina della pace». Pace sì ormai nella martoriata ex-Jugoslavia. Ma credo che dopo la guerra, dopo Mostar e Sarajevo, l’Italia, l’Europa, il mondo civile abbiano perso per sempre tanta moraviana, umana ragione, siamo scivolati irreparabilmente sul ciglio della voragine paurosa della natura. Le macerie di Assisi sono anche una metafora del nostro scadimento. Ma sono possibili ancora le metafore?







